PERRINI MATTEO MORALE E POLITICA La filosofia politica ha il

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PERRINI MATTEO
MORALE E POLITICA1
La filosofia politica ha il suo motivo dominante nel modo di impostare il rapporto di distinzione,
di connessione e, a diversi 1ivelli, di interdipendenza tra morale e politica. Il punto di partenza è
semplice: per divergenti che siano i fini contingenti delle diverse e opposte forze politiche in campo e
degli uomini in esse impegnati, per tutti l'attività politica significa attività che si svolge a vantaggio della
polis nella sua totalità e in rapporto alle altre comunità politiche. Dunque la politica non può avere,
rispetto allo Stato e alla società a cui è logicamente e vitalmente connessa, un'efficacia negativa o
distruttiva; e poiché la società e lo Stato rappresentano e sintetizzano scopi e interessi collettivi, una
politica che persegua fini particolari in modo prevalente o esclusivo manca all'esigenza elementare e
fondamentale che la costituisce come politica. La spontanea esigenza etica è interna al sorgere e
all'esercizio dell'attività politica. L'«eticità» immanente all'attività politica in quanto tale, l'intima
struttura teleologica e la tensione originaria al valore a cui quell'attività è orientata può essere elusa,
calpestata o assecondata e attuata, ma essa è «condizionante» dell'attività politica. L'«eticità» può essere
falsata nella politica contingente, ma ciò non importa uno snaturamento profondo e definitivo dell'attività
politica, così come i fenomeni patologici non sopprimono le leggi che regolano le funzioni normali
dell’organismo e la patologia non sostituisce la fisiologia. Il pensiero politico, senza ricorrere a
presupposti di altra natura, dall'analisi stessa dell'attività che è suo oggetto di ricerca e del suo criterio
caratterizzante, può dunque pervenire ad una prima conclusione: la politica non ha bisogno d'inchinarsi
alla morale, quasi ad una estranea quanto dispotica sovrana, perché essa porta in sé strutturata una
esigenza etica, distruggendo o ignorando la quale, si frusta l'efficacia stessa dell'azione politica.
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Con una semplificazione drastica, ma non arbitraria, si potrebbero ridurre a tre gli orientamenti
fondamentali sul problema del rapporto tra morale e politica. Il primo consiste nella giustificazione di
una «doppia morale», una per la vita privata e un'altra, del tutto diversa, per la vita pubblica; il secondo
tende a sopprimere o a relativizzare uno dei due termini del rapporto e mette capo ai due poli della
sofistica in filosofia politica, il moralismo astratto e il politicismo assoluto; il terzo teorizza, con lo
storicismo, il «superamento» del problema e sua morte dialettica. La «doppia morale» è un'espressione
impropria che risale al Troeltch e al Wensch, ma la res, il ciò che quell'espressione indica è abbastanza
noto ed è anzi moneta corrente tra coloro che mirano a rendere parallele ed eterogenee tra loro morale e
politica. Certo, può anche accadere che lo spietato assertore di un'ideologia, e persino l’esecutore
materiale di orrendi crimini compiuti in nome di un'ideologia, possano poi apparire esemplari nella
professione e negli affetti familiari, ma solo a prezzo di un'insanabile frattura, o per attaccamento a un
residuo di consuetudini cui non si vuole e non si sa rinunciare. Ma ha una pseudo-coscienza morale chi
voglia limitare la morale alla sfera privata. La morale «sociale» non è, infatti, un'aggiunta o
un'applicazione della morale «generale» originariamente concepita come individuale. La morale, in
quanto tale, è inscindibilmente personale e sociale, e il personale e il sociale in essa sono allo stesso titolo
primari e inseparabili. Accade anche, e forse più spesso, che un buon politico non sia incensurabile nella
vita privata. Fatte le debite eccezioni, resta, però vero - dal punto di vista logico, e anche in rapporto
all'esperienza comune e alla conoscenza biografica degli uomini politici - che, di solito, vi è circolarità tra
il disordine che dalla vita privata esorbita in quella politica e viceversa, così come vi è un fecondo
riflusso tra la vita morale delle persone e il livello della morale politica.
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Se la «doppia morale» genera le sue confusioni, ben più insidiosi sono il moralismo astratto e il
1
Giornale di Brescia, 11.1.1991.
politicismo assoluto, che assorbono, sopprimono o svalutano fortemente, sino alla banalizzazione, uno
dei due termini della relazione. Se la politica porta in sé l'esigenza etica ciò non significa che possa essere
giudicata con gli astratti e generici schemi di un moralismo angusto e miope. La morale non è il
moralismo, atteggiamento di spiriti ignari o farisiaci, espressione d'infantilismo spirituale o esibizione di
coscienze poco sicure e poco serene. Il moralismo è il rovescio di un idealismo esasperato, utopistico,
che ignora, altera, misconosce la natura e la storia degli uomini. Si deve riconoscere che lo Stato ha il suo
più saldo fondamento nella coscienza dei suoi cittadini e nella elevatezza morale del popolo, che la vita
politica esercita un'efficacia indubbia sul costume, che il diritto positivo s'intende e si giustifica in modo
preminente in rapporto a un sistema di valori etici. Ma ciò non autorizza affatto le conclusioni
sproporzionate e pericolose secondo cui lo Stato e l'azione politica sono esclusive creazioni della volontà
morale e la morale deve far valere i suoi imperativi in termini di diritto positivo. Lo Stato non può ridurre
entro i confini della vita giuridica tutte le manifestazioni della vita morale, non fosse altro che per la
ragione illustrata da San Tommaso: non si può comandare a tutti e da tutti pretendere lo stesso grado di
perfezione morale. Anche quando lo Stato avesse raggiunto tutta la perfezione di cui è capace in quanto
istituzione giuridica, ci sarebbe sempre un ampio margine per la vita morale, tale in ogni caso da attestare
che le due sfere, per quanto si possano sotto un certo aspetto immaginare come concentriche, non
coincidono tuttavia. Anche lo Stato è orientato a facilitare, se non a promuovere, l'ascesa morale della
umanità, ma la sfera dell'interiorità trascende necessariamente i limiti dello Stato.
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La critica acutissima che San Tommaso fa del moralismo astratto colpisce al cuore, nello stesso
tempo, il politicismo assoluto. Giovanni Gentile nell'opera postuma Genesi e struttura della società si
adoperò a celebrare, con spericolate acrobazie dialettiche, la “politicità”, come categoria capace non solo
di investire tutte le altre attività dello spirito umano, ma di dominarle e risolverle in sé. In questa
celebrazione confluiscono, o sono fortemente spinti a confluire dalla logica delle idee professate, gli
immanentisti e gli storicisti di tutte le estrazioni e, a fortori, i pedagogisti del servaggio, i teorici del
totalitarismo nazionalistico, classista, razziale. In realtà i rapporti che intercorrono tra la politica e le altre
attività dello spirito costituiscono problema alla soluzione del quale non può pervenire chi non sia capace
di cogliere i tratti differenziali specifici di quelle attività con cui, appunto, entra in relazione la politica. Il
politicismo assoluto, invece, postulando arbitrario monismo e comprimendo attività, esigenze e fattori
diversi nella categoria della politicità, si rivela una diminutio hominis, un impoverimento dell'umano e,
proprio per questo, un sintomo di degenerazione della politica. Allo stesso modo in cui l'estetismo lo è
dell'estetica, lo scientismo della scienza, il moralismo della schietta e autentica moralità.
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