Il volume costituisce una sintetica introduzione alla filosofia politica, presentata attraverso i suoi concetti, i suoi problemi e le principali teorie. La prima parte del libro traccia una mappa di alcune delle domande fondamentali alle quali la filosofia politica ha cercato di rispondere nel corso della sua lunga storia: qual è il miglior ordine politico, che rapportivisonotramoralee politica, da un lato, e tra politica e forza, dall’altro, qual è la natura dell’agire politico. Nella seconda parte del libro vengono presentati quattro paradigmi del pensiero politico che ne hanno profondamente segnato la storia: il paradigma della polis (Platone e Aristotele), quello del confronto tra città dell’uomo e città di Dio (da Agostino e Tommaso alla Riforma),quellodelcontratto sociale (Hobbes, Locke, Rousseau, Kant), e quello della dialettica tra stato e società,vistacometerrenodi conflitto tra i liberali che insistonosuilimitidellostato (come Constant, Tocqueville e Mill) e i critici del liberalismo come Hegel e Marx. Nellaterzapartevengono illustrati alcuni concetti politici fondamentali (libertà e liberalismo, socialismo e democrazia), si delinea una panoramica delle principali opzioni teoriche (da Rawls a Habermas)chesicontendono il campo nella discussione contemporanea, per arrivare infine ai nuovi temi con i qualisiconfrontalafilosofia politica oggi, dalla globalizzazione alla biopolitica. Sommario: Premessa. - Parte prima. Prologo, I. Territori e domande della filosofia politica. - Parte seconda. Paradigmi della filosofia politica, II. Lordine della «polis», III. La città dell'uomo e la città di Dio. IV. Il paradigma del contratto, V. Società civile e stato.-Parteterza.Concettie teorie della filosofia politica, VI. Concetti della teoria politica,VII.Teoriepolitiche a confronto, VIII. Questioni per la filosofia politica. Letture consigliate. - Indice deinomi. Ocreconversionea curadiNatjus LadridiBiblioteche INDICE Premessa Ringraziamenti Modelli di politica filosofia Parteprima.Prologo I. Territori e domande dellafilosofiapolitica 1.Filosofiapolitica:uno sguardopreliminare 2. Filosofia e filosofia politica 3. Le domande della filosofiapolitica Parte seconda. Paradigmi dellafilosofiapolitica II.L’ordinedellapolis 1.Polisedemocrazia 2. La visione platonica delBenepolitico 3. Aristotele e il pluralismodelBene 4. Dalla polis alla cosmopolis III.Lacittàdell’uomoela cittàdiDio 1. La rivoluzione cristiana.PaoloeAgostino 2.Ilpoteredelpontefice eilpoterepolitico 3.Tommasod’Aquino 4. La rottura della «res publica christiana» e la Riformaprotestante IV. Il paradigma del contratto 1. Il modello contrattualista 2.LacesuradiThomas Hobbes 3. Il patto democratico diSpinoza 4.Ilcontrattoliberaledi JohnLocke 5. I due patti di JeanJacquesRousseau 6. Kant e il contratto comeideadellaragione V.Societàcivileestato 1. Lo spartiacque della Rivoluzione 2.BenjaminConstante lalibertàdeimoderni 3.AlexisdeTocqueville elademocraziainAmerica 4.Illiberalismoradicale diJohnStuartMill 5. Il superamento hegelianodelliberalismo 6. Marx: eguaglianza politica e ineguaglianza sociale Parte terza. Concetti e teoriedellafilosofiapolitica VI.Concettidellateoria politica 1.Alcunepremesse 2. Il concetto moderno dilibertà 3.Liberalismo 4.Socialismo 5.Democrazia VII. Teorie politiche a confronto 1. La teoria della giustiziadiRawls 2.Alternativeallateoria dellagiustizia 3.Habermaselateoria dellademocrazia 4. La critica del normativismo: la teoria del poterediFoucault 5.Femminismoeteoria politica VIII. Questioni per la filosofiapolitica 1. Il «fondamento» dei dirittiedellademocrazia 2. Sistema dei diritti e democrazia 3. Tra fatti e norme: il problema delle teorie normative 4. La politica della democrazia e le sfide del mondoglobalizzato 5.Bioeticaebiopolitica Lettureconsigliate Indicedeinomi Premessa Lo scopo che questo volumesiprefiggeèquellodi offrire una sintetica introduzione alle questioni principali della filosofia politica, ai suoi autori e ai suoi temi più importanti. Per tentare di soddisfare questa esigenza il libro si avvale di diversiapprocci.Perunverso si sofferma, soprattutto nel primo e nell’ultimo capitolo, su alcuni problemi che o costituiscono temi sempre ricorrenti, che la filosofia politica torna incessantemente a discutere (comeperesempioilrapporto tra etica e politica e la questione intorno al «fondamento» dei diritti e della democrazia), oppure nasconodallenuovesfideche la filosofia politica si trova a dover affrontare nel mondo contemporaneo. In secondo luogo il testo, particolarmentenellaseconda parte, si sofferma su un insieme di teorie o di paradigmi che, della tradizione filosofico-politica occidentale, costituiscono il lascitopiùcospicuo:inquesta parte, com’è ovvio - dati i limiti di spazio che ci eravamo prefissi - si sono dovuteoperaredelledrastiche scelte e selezioni, che naturalmente risentono dei gusti dell’autore e del suo modo di accostarsi alle questionifilosofico-politiche. Un terzo approccio, infine, è quello che procede per concetti, del quale si è ritenuto opportuno avvalersi, nelcapitolosesto,pertentare un chiarimento di alcune parole-chiave del lessico politico del mondo contemporaneo (libertà e liberalismo, democrazia e socialismo). Le scelte che presiedono all’organizzazione del testo rinviano, naturalmente, a un certo modo di intendere la filosofia politica. Sebbene essa sia ovviamente intrecciata con i processi storicieconiconflittipolitici e sociali, non crediamo che sia riducibile a una mera traduzione di essi sul piano della riflessione e della elaborazione concettuale. La specificità della filosofia politica, invece, consiste a nostro avviso nel tentativo di proporre argomentazioni, nel costruire un ordito di ragionamenti intorno alle questioni che la convivenza sociale e politica inevitabilmente solleva. Scopodellafilosofiapolitica, insomma, ci sembra essere quello di proporre buoni argomenti per rispondere alle sfide, ai problemi e ai conflitti che nascono nella cooperazione sociale, che ci toccano tutti in quanto cittadini,echecichiamanoal confronto, alla discussione e allapresadiposizione. Questo volume vuol essere, pertanto, una presentazione di alcune questioni fondamentali della filosofia politica utile non solo a chi, nell’università o altrove, voglia accostarsi a questadisciplina,maanchea chiunque, come cittadino, desideriprenderecontattocon un ricco arsenale di argomentiediriflessioni,che condizionano in vario modo, piùomenoesplicito,lanostra discussione pubblica, e che potrebbero renderla più consapevoleepiùricca. La convinzione che sottende le pagine di questo libro,infine,èchelafilosofia politica, proprio in quanto è argomentazione pubblica e discussione razionale, non può non avere una valenza critica: sua funzione è anche quella di aiutarci a prendere le distanze dalla realtà politica e sociale semplicemente data, commisurandola a criteri o a principi che siano sostenuti da buoni argomenti e che reggano il vaglio della discussionecritica. Ringraziamenti. Un ringraziamento del tutto particolare va a Mario Reale che, con la consueta generosità, ha letto il manoscritto e mi ha dato modo di migliorarlo con le sue acute e precise osservazioni. Grazie anche ai tanti amici con i quali, in questianni,hoavutomododi discutere dei temi trattati nel volume: voglio ricordare in modo particolare Sebastiano Maffettone e i partecipanti al Colloquium on Ethics, Politics and Society presso l’UniversitàLuissdiRoma;e gli amici del Seminario di teoria critica e filosofia sociale di Gallarate, i co- organizzatori(MarinaCalloni eAlessandroFerrara)etuttii partecipanti. MODELLIDI FILOSOFIA POLITICA Allamemoriadimio padreMario Parteprima. Prologo I.Territoriedomande dellafilosofiapolitica I.Filosofiapolitica: unosguardo preliminare. Per provare a offrire una prima e provvisoria definizione, si potrebbe innanzitutto osservare che la filosofia politica è una forma di sapere che assume a proprio oggetto quello che sembra essere un aspetto fondamentale dell’esperienza umana: essa si occupa infatti delle interazioni tra gli uomini in società in quanto esse sono influenzate o regolate da relazioni di potere, che assicurano l’integrazione tra i diversi attorisocialienegovernanoi comportamenti anche attraverso un certo uso della coercizione, ovvero della possibilità di comminare sanzioni.Lafilosofiapolitica, inaltreparole,sioccupadelle interazioni sociali tra gli uomini in quanto queste si configuranocomerelazionidi potere, e danno luogo a discussioneoaconflittocirca ilmodoincuiilpoteredebba essere distribuito o organizzato. La filosofia politica, quindi, è una forma di pensiero che assume come suooggettocentrale,anchese non esclusivo, le problematichedelpotere.Ma come possiamo definire il «potere»? Per «potere» possiamo intendere, in prima approssimazione, la capacità che qualcuno ha di controllare, attraverso la propria influenza o con la minaccia di sanzioni, il comportamento di altre persone, ovvero di vedere obbedite le proprie disposizioni. Le interazioni sociali ci offrono un campionario ricchissimo delle forme di potere perché quasi nessuna relazionesocialenevaesente. Forse vi sono rapporti di potere anche nell’amicizia e nell’amore, ma indubbiamente relazioni di potere, informali o formalizzate, strutturano i rapporti nella famiglia, nel mondo del lavoro, nelle associazioni, insomma ;n quasi tutti i tipi di relazione sociale. Dovremo pensare allora che tutte queste relazioni di potere sono pertinenti per la filosofia politica? Se interrogati su questo punto, i filosofi politici comincerebbero subito a dividersi: la tradizione piü canonica della filosofia politica, infatti, si è occupata delle forme di potere istituzionalizzate, quellechesidepositanonelle leggi e si incorporano nelle istituzionistatali;mentresono stati soprattutto i pensatori eterodossiainsisteresulfatto che le relazioni di potere più fondamentali sono dislocate fuori dai luoghi canonici dello stato e del diritto, nei rapportidiproprietà(Marx)o nella«microfisicadelpotere» (Foucault). Non si farà torto a questi pensatori eterodossi, però, se sidiràchelafilosofiapolitica haachefareprevalentemente con le forme di potere istituzionalizzate, che, a partiredaunacertafasedella storia degli uomini, possono essere definite come potere statale. Ecco quindi che, prima di procedere oltre, è necessario delineare anche una definizione, seppur minima o provvisoria, di stato1. Come filo conduttore si può assumere quella che restaatutt’oggiladefinizione di stato piü citata e autorevole,chesideveaMax Weber (1864-1920). Nella famosa conferenza del 1919 su La politica come professione, - della quale parleremo ancora perché costituisce uno dei testi più illuminanti per la comprensione dell’essenza della politica - Max Weber così si esprime: «Lo stato è, comeleassociazionipolitiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominiodi uomini su uomini basato sul mezzo della forza legittima (cioè considerata legittima)»2. In questa stringatissima e asciutta definizione di Max Weber, ormai divenuta classica, vengono indicati forse gli elementi essenziali sui quali si esercita la riflessione della filosofia politica: per un verso le comunità umane si organizzano, delimitandosi territorialmente, attorno a forme di potere organizzato che, da un certo momento storico in poi, può essere definito potere statale. Per MaxWeber,caratteristicadel potere dello stato, oltre a quella di esercitarsi su un determinato territorio, è che esso detiene il monopolio della fona legittima.Lo stato sottrae a tutti i singoli individui il diritto di esercitare coercizione o violenzasuglialtrieloavoca asé. Ma si faccia attenzione: Max Weber afferma che lo stato è l’organizzazione che detiene il monopolio della forza legittima, ovvero ritenuta tale. Perciò il prossimopassononpotràche essere quello di chiedersi: in che cosa consiste la legittimità?Questaèappunto una delle questioni centrali che la filosofia politica affronta. Per un verso essa ragiona intorno al fenomeno del potere, dello stato e delle forme che lo governano (legalità), ma per altro verso nonpuòfareamenodiporsi la questione che immediatamente a questo propositoinsorgeecioè:qual è il giusto ordinamento politico?OltreWeber,qualè l’ordinamento politico che è legittimo non solo perché viene riconosciuto tale da coloro che a esso obbediscono, ma perché soddisfa dei requisiti di giustizia ? Potremmo dire quindichelafilosofiapolitica hainuncertosensoduevolti: daunaparte,equestoèillato di cui è stato maestro Machiavelli, la filosofia politica si occupa del potere, del conflitto per il potere, della sua conquista e del suo mantenimento,quindideivari aspetti dell’agire politico: dall’altra, a partire quantomenodallaRepubblica diPlatone,lafilosofiapolitica si pone la questione di quale sia l’ottimo o il giusto ordinamento politico. In altre parole, la filosofia politica si occupa di quale sia il modo giustodiorganizzarelanostra convivenza,diqualiformedi potere siano legittime, di quali diritti debbano essere riconosciuti ai cittadini: ed è proprio su questi problemi che si confrontano ancora oggilediversetendenzedella filosofia contemporanea. politica 2.Filosofiae filosofiapolitica. Non dobbiamo mai dimenticarci però, quando parliamo di filosofia politica, che essa, prima che essere politica, è filosofia. In una delle prime pagine del suo saggio Che cos’è la filosofia politica, del 1955, Leo Strauss,ilgrandestudiosodel pensiero politico classico e moderno,ponevasubitoecon forza la questione del rapporto tra la filosofia politica e la filosofia ‘senza aggettivi’. «Poiché la filosofia politica è un ramo della filosofia, neppure la spiegazionepiùprovvisoriadi che cos’è la filosofia politica può dispensarci dal chiarire, per quanto in modo altrettanto provvisorio, che cos’è la filosofia»3. Prima di tornare a riflettere, perciò, su quale sia la natura peculiare della filosofia politica, nel suointrecciospessofittissimo con le altre discipline filosofiche e non, conviene mettere innanzitutto le carte in tavola, ed esplicitare da quale modo di intendere la filosofia ci faremo guidare neltracciarelanostramappa. La filosofia non è, come lafisica,lachimica,lastoria, una forma di sapere codificato, che goda di una legittimità assicurata e incontestata, e che abbia uno statutochenonsiaessostesso oggetto di discussione. Al contrario, la filosofia è, nel migliore dei casi, una forma di «sapere» che deve sempre di nuovo dimostrare la sua, eventuale, legittimità. Per questo non può darsi, della filosofia, una definizione consolidata o generalmente accolta. Ogni filosofia che si rispetti è anche, o forse è innanzitutto, una definizione di che cosa debba intendersi per filosofia. Perciò, al tentativo di chiarire cosa debba intendersi per filosofia noncisipuò,ancheinsededi filosofiapolitica,sottrarre. Per quanto mi riguarda, credochealladomandacirca la natura o lo statuto della filosofia si possa tentare di dare una risposta molto semplice e non troppo controversa, che potrebbe formularsi così: per filosofia deve intendersi un tipo di «pratica discorsiva» del tutto particolare,chesicaratterizza per l’unione di un determinato metodo con un determinatooggetto. Filosofia è, per dirla nel modopiùbrevepossibile,una forma sofisticata e istituzionalizzata di discorso che, quanto al metodo, si avvale fondamentalmente di un’unica risorsa, quella dell’argomentazione pubblica, critica e aperta, mentre, quanto all’oggetto, affronta la questione tanto ineludibile quanto (forse) inesauribile del nostro orientamento nel mondo, una questione cioè alla quale non possono dare risposta le scienze di fatti poiché esse stesse sono bisognose di legittimazione e di orientamento. La filosofia, dunque, non è un sapere di fatti, ma, come mostra la storia del pensiero a chi sappia leggerne e capirne i percorsi, è una sorta di ininterrotto dialogo argomentativo, un continuo scambio di ragioni e di critiche4: la specificità della filosofia rispetto ad altre forme di comunicazione o di significazione sta dunque proprio nel tentativo di costruire argomentazioni, cioè di non affidarsi né alla autorità, né alla convenzione, né all’immaginazione o alla suggestione, ma di cercare di costruire ragionamenti persuasivi. Naturalmente di procedureargomentativecisi avvale anche in molti altri campi del sapere; così come ci sono molte forme di espressione umana o di comunicazionechecercanodi illuminare il problema dell’orientamento dell’uomo nelmondo:èuncompitoche è sempre stato svolto egregiamente dalle religioni, ma anche dalle narrazioni, dalle forme d’arte, dalle massime di saggezza. Dov’è allora la peculiarità della filosofia? A mio modo di vedere, non è difficile rintracciarla. Da un lato essa si distingue dalle altre forme di sapere perché ha nel discorsoargomentativoilsuo strumento privilegiato se non unico (non si avvale di ricerche materiali «sul campo»,diesperimentiecc.); per altro verso, la sua peculiarità sta nel fatto che essa cerca di affrontare con gli strumenti del dialogo razionale quei problemi ai qualilescienzepositivesono costitutivamente impossibilitate a dare risposte: perché esse, come ormaibensappiamo,possono insegnarci come stanno le cose,manoncomedobbiamo scegliere, quali sono i modi migliori, e più validi, per orientare il nostro stare al mondo e la nostra vita in comune. La peculiare caratteristica della filosofia insomma, quellacheleconferisceilsuo fascino ma che al tempo stesso la condanna a uno statuto sempre instabile e problematico, è che essa si pone problemi che non possono essere risolti restando sul terreno di un accertamento di fatti: questioni normative, come dicevamo sopra, ma anche questioni strutturali, che riguardano cioè la struttura dellarealtàedellesuediverse regioni, quella intelaiatura permanente, di cui non possiamo neppure pensare il venirmeno,qualichesianole esperienze nuove che andremo a fare, i fatti nuovi cheandremoascoprire. In quanto è filosofia, e non scienza della politica, la filosofia politica si confronta proprio con problemi di questo genere: affronta questioni normative, quando cerca di costruire buoni argomenti per rispondere ai dilemmi che la nostra convivenzacipone,aidissidi e ai conflitti che in essa quotidianamente si incontrano. Ma affronta anche, o forse ancor prima, questionistrutturaliquandosi chiede qual è la natura della società, qual è l’essenza del potere, quali sono i moventi, le caratteristiche, la natura dell’agire politico. Per dirla ancora una volta con Leo Strauss, «la filosofia politica è dunque il tentativo di conoscere veramente ad un tempo la natura delle cose politiche e il giusto o buon ordinepolitico»5. Proprio perché ha a che fare con problemi di questo genere,lafilosofiapoliticaha piùlanaturadiuna«filosofia ultima» che di una «filosofia prima»: il terreno sul quale essa deve muovere i propri passi è un terreno sul quale già molte altre discipline, filosofiche e non, hanno tracciatostradeepercorsi. Occupandosi di un fenomeno complesso, come la vita umana associata, la filosofia politica non può essere in nessun modo autosufficiente: anzi, essa entra necessariamente in contatto con molti altri approcci disciplinari, e costituiscetradiessiunpunto di intersezione e di incontro. In primo luogo, infatti, la filosofia politica si connette con la filosofia morale, perché le questioni intorno a ciòcheègiusto,oaproposito dellavitabuona,hannoilloro luogo genetico proprio nell’ambito della filosofia morale. L’altro momento di forte connessione, che non sempre viene sottolineato come si dovrebbe, è quello che a mio avviso si deve stabilire tra la filosofia politica e la filosofia sociale. Ladomandacircalagiustizia politica presuppone infatti, com’è ovvio, determinate assunzioni circa il modo in cui è fatta e funziona la società. Non avrebbe senso interrogarsi sul buon ordine politico senza avere un’idea di ciò che l’ordine politico deveperl’appuntogovernare, e cioè le nostre interazioni sociali.Cosìcomenonsipuò tralasciare un altro nesso che oggi forse si tende a relegare in secondo piano, e che invece era essenziale, per esempio, per una filosofia politica come quella di Hobbes, e cioè quello con l’antropologia filosofica. E non meno importanti sono le intersezioni con la filosofia e la teoria del diritto, con la scienza politica, con la teoria sociale. Proprioperchédevetener conto di una complessa rete di ricerche e di riflessioni, che da ogni parte con essa interferisce, la filosofia politica occupa, nell’ambito della filosofia, una posizione abbastanzapeculiare:èpiùun punto d’arrivo che un punto di partenza, è il luogo dove molti fili convergono, dove riflessioni e ricerche diverse devono trovare un punto d’incontro e disporsi in una figuracoerente. 3.Ledomande dellafilosofiapolitica. Delineando, in una celebreconferenzadel1970,i diversi significati che a suo avviso si potevano dare all’espressione filosofia politica, Bobbio ne distingueva quattro, che identificavano in sostanza quattrodomandeallequalila filosofia politica, nel corso del suo sviluppo, aveva cercatodidaredellerisposte: la questione di quale sia l’ottima costituzione politica, la domanda sul fondamento del-l’obbligo politico (perché e,soprattutto,achidobbiamo obbedire), il problema concernente la natura dell’agire politico e la sua definizione, e infine la questione, di tipo epistemologico, concernente il metodo e le condizioni di validità della scienza politica6. Se si mette ora tra parentesi la quarta questione, che risulta piuttosto eterogenearispettoallealtree di natura puramente metodologica, sembra che quelle sulle quali valga la pena di soffermarsi siano invece le prime tre: l’ottima costituzione politica, il fondamento dell’obbligo politico, la natura dell’agire politico. Assumendo questa triade di problemi come primo filo conduttore dell’analisi, ma anche apportando rispetto a essa qualche variazione, cercheremo ora di tracciare un quadro di quelle che possono essere individuate, a nostro avviso, tanto come le domande fondamentali cui la filosofia politica ha cercato nella sua storia di dare risposta,quantocomeitipidi approccio alla problematica filosofico-politica che si possono riscontrare nella vicenda del pensiero filosofico-politico occidentale. 3.1.L’approccio normativo.Qualèil giustoordinepolitico. Se assumiamo come filo conduttore la tripartizione enunciata da Bobbio, possiamo osservare innanzituttocheleprimedue questioni messe in risalto (l’ottimacostituzionepolitica, il fondamento dell’obbligo politico) costituiscono due problematiche tra loro profondamente interconnesse delle quali si occupa quello che definiamo l’approccio normativo alla filosofia politica. All’interno infatti di un orizzonte normativo rientranotantolaquestionedi quale sia la miglior costituzione politica, quanto quella relativa al fondamento dell’obbligo politico: nella prospettiva di questa domanda ci si chiede, infatti, quali caratteristiche deve avere l’ordine politico per meritare l’obbedienza da parte di coloro che a esso sono sottoposti, ovvero per essere considerato un ordine politicolegittimo. Ciò che caratterizza una filosofia politica normativamente orientata è il fattocheinessailtemadella politica viene messo a fuoco fondamentalmente nella prospettiva del dover essere; l’obiettivo primario non è quello di indagare i fatti politicicosìcomesono,nella loro natura o nella loro struttura (sebbene questo costituisca sempre un passaggio essenziale nella ricerca), ma quello di giungere a delineare l’ordine politico come dovrebbe essere, per poter essere riconosciuto come buono, giusto, legittimo. Dalla Repubblica di Platone alla Teoria della giustizia di Rawls, la tradizione filosofico-politicaoccidentale non ha cessato di elaborare dei grandi paradigmi normativi per rispondere alla domandacircailmodoincui dev’esserestrutturatounbuon ordine politico. La tradizione normativa è quindi, a nostro avviso, quella che meglio caratterizza l’approccio dei pensatori occidentali alle questioni della politica; ed è per questo che di alcuni grandi paradigmi normativi (classici, moderni e contemporanei) ci occuperemo nei capitoli successividiquestolibro. Il fatto che la domanda circailbuonordinepoliticosi riproponga come una delle grandi questioni sempre vive della tradizione filosofica occidentale non vuol dire naturalmente che questa tradizione non sia segnata da profondissime cesure. Così come mutano gli orizzonti filosofici, cambia, nelle diverse prospettive, il modo di intendere il rapporto tra realtà e norma, o realtà e valore. Nell’orizzonte aristotelico, per esempio, la normanonvieneintesacome qualcosa di separato dalla realtà, ma al contrario come ciò che corrisponde alla sua più vera natura e al suo fine intrinseco. Ed è solo con la «grande divisione» humeana che essere e dover essere, momento descrittivo e momentonormativo,vengono pensati come radicalmente eterogenei, in modo tale che dal primo non si possa ricavare il secondo. Le differenze nel modo di intendere la natura della normatività non implicano però un abbandono di quella che resta la domanda di fondo, cioè la ricerca intorno al buon ordine politico. Essa permanepurnelmutaredegli orizzonti filosofici, degli strumenti argomentativi, e anche dei valori supremi ai quali si ritiene che l’ordine politico debba essere riconducibile per poter venir giudicato, appunto, un buon ordinepolitico.Pergliantichi questivalorisupremi,inbase ai quali un ordine politico deveesseregiudicato,sonola giustizia o il bene comune; mentre per la tradizione più influentedelpensieropolitico moderno il supremo valore cui l’ordine politico dovrà essere commisurato sarà quello della libertà. Ma questa differenza non sopprime l’unità di un comuneapproccionormativo, così come non la sopprime il fatto che gli approcci normativi possono essere molto differenti per quanto riguarda il grado di «distanza» che prendono rispettoallarealtàpoliticadel loro tempo: accanto a costruzioni politiche che collocanolarealizzazionedel sommo valore in un mondo totalmentedifferente(comela Repubblica di Platone, l’Utopia di Tommaso Moro o, per altro verso, il comunismo di Marx) ve ne sonoaltrechepensanoinvece il buon ordine politico come una «rettificazione» dell’ordine politico già dato, che ne conserva aspetti fondamentali: si potrebbero intendere, per esempio, il liberismo di Hayek e il liberalismo egualitario di Rawlscomedueproposteper «correggere», in opposte direzioni, gli assetti delle odierne società democratiche e capitalistiche: nel primo caso per porre argine alla «democrazia illimitata» a favore del liberismo economico, nel secondo per porre limite alle diseguaglianze attraverso principi di giustizia. Più raro è il caso di teorie normative della politica che giungano fino al punto di identificare l’ordinepoliticomigliorecon quello già attuato nel loro tempo storico (questa per esempio è una lettura che è statadata,soprattuttodaparte dei critici «di sinistra», del pensiero politico di Hegel; una lettura, però, di cui le interpretazioni più accurate hanno via via mostrato l’inadeguatezza - e peraltro Hegel appartiene alla teoria politica normativa intesa in senso«largo»);tuttaviaanche questeteoriecheiloronemici definirebbero «apologetiche» (in contrapposizione con le teorie di altro tipo, che si potrebbero definire «critiche») restano nell’orizzonte delle teorie normative. Per concludere su questo punto si potrebbe dire quindi cheleteorienormative,dicui latradizioneoccidentaleciha fornito un ricchissimo campionario, possono certamente differenziarsi tra loro secondo varie linee; qui ne abbiamo individuate almeno tre: la modalità ontologica del rapporto essere/dover essere (che può essere pensato come continuità o come separazione più o meno netta), la determinazione del dover essere attraverso un certovaloresupremo(ilbene, la giustizia, la libertà, l’uguaglianza o altro), il gradodidistanzadelmodello normativodallarealtàfattuale (partendo da un grado di distanza zero, e andando ad accrescerla, potremmo distinguere tra teorie apologetiche, critiche e utopiche). Le filosofie politiche normative, dunque, si pongono la domanda circa l’ordine politico giusto; ovvero, quando affrontano questioni più specifiche, si chiedono se una certa legge, una certa istituzione (per esempio, in Aristotele, la schiavitù) siano giuste o meno. E sviluppano argomentazioni volte a dirimere questioni di giustizia. Perciò possiamo dire che, nella tradizione del pensiero occidentale, la filosofia politica normativa è anche, in un certo senso, la prosecuzione della discussione politica tra i cittadinicontempipiùlunghi e strumenti argomentativi e conoscitivi più sofisticati. Come ha illustrato JeanPierre Vernant nei suoi magistrali studi sull’origine del pensiero filosofico occidentale nella Grecia classica, la discussione politicapubblicatraicittadini e la filosofia (non solo, si badi, la filosofia politica, ma la filosofia nel senso più generale) nascono insieme, con un solo e medesimo parto.Ifilosofichediscutono questioni di giustizia, quindi, sono i prosecutori di quel confronto pubblico degli argomenti che si inaugura nellapolis,quandolapolitica, - come scrive Vernant «prende forma di agon: un certameoratorio,unduellodi argomenti che ha per teatro l'agora, piazza pubblica, luogo di riunione, prima di essere un mercato». «Tra la politicaeillogosc’ècosìun rapporto stretto, un legame reciproco. L’arte politica consiste essenzialmente nel maneggiareillinguaggio;eil logos, all’origine, prende coscienza di se stesso, delle sueregole,dellasuaefficacia, attraverso la sua funzione politica»7. Azione politica, filosofia, e teoria politica normativa, quindi, costituiscono tre momenti geneticamente e concettualmente connessi; circostanza che va sottolineata non solo per ricordare il grande contributo diunostudiosocomeVernant ma anche per un’altra, più intrinseca ragione. L’insofferenza per la teoria politica normativa in nome della realtà effettuale o della realistica presa d’atto dei rapporti di forza, infatti, è antica quanto la teoria normativa stessa. Ma proprio considerazionicomequelledi Vernant sopra ricordate dovrebbero aiutarci a capire che, sebbene non possa mai isolarsi nella sua autosufficienza, l’approccio normativo caratterizza però un momento strutturale e inestirpabile nel rapportarsi delfilosofoall’orizzontedella politica: perché, non solo come cittadino, ma più originariamente ancora come uomo razionale e responsabile,néilfilosofoné nessun altro può sottrarsi all’imperativo di prendere posizione, e argomentarla, sulle questioni che la convivenzacivilepone. 3.2.L’approccio realistico,da MachiavelliaWeber. Che il pensiero politico debba occuparsi dello stato come deve essere, è proprio la tesi alla quale si contrappone il testo più classico ed emblematico del realismo politico, il Principe di Niccolò Machiavelli. Volendocomporreuntrattato utile a chi è impegnato nell’agone politico, scrive Machiavelli, «mi è parso più convenienteandaredrietoalla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principatichenonsisonomai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazionesua:perchéuno uomo,chevogliafareintutte leparteprofessionedibuono, convieneroviniinfratantiche non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono,eusarlo e non l’usare secondolanecessità»8. Piuttosto che interrogarsi sullo stato come dovrebbe essere, quindi, il realismo politico nella sua figura machiavelliana si pone come una riflessione sull'agire politico così come esso è, nella sua aspra «realtà effettuale». Ma, a chi la osservi da questo punto di vista, la sfera dell’agire politico si dischiude innanzitutto come un regno segnatodalcontrastoperenne di centri di forza in conflitto, che combattono per il potere servendosi di tutta la gamma di mezzi cui possono avere accesso. È tutt’altro che semplice, però, nonostante quello che può sembrare a prima vista, tracciare quelle che potrebbero essere le «coordinate concettuali» dell’approccio realistico alla questione dell’agire politico9. Ilprimopuntochedev’essere fissato, e che ritroviamo in tuttiigrandipensatorirealisti, daTucidide,aMachiavelli,a Weber, è quello per cui l’agire politico viene concettualizzato innanzitutto comelottaperilpotere:«Chi fa politica - scrive per esempio Max Weber nella sua famosa conferenza del 1919-aspiraalpotere:potere come mezzo al servizio di altri obiettivi, ideali o egoistici, o potere ‘in se stesso’, cioè per godere del senso di prestigio che esso conferisce»10. Nell’ottica del realismo, quindi, la sfera dell’agire politico è rappresentata come il campo in cui agiscono attori in conflitto per il potere. Ciò non vuol dire, come Weber sottolinea efficacemente, che scopo dell’agire politico debbaesserenecessariamente il potere fine a se stesso; al contrario,quellatesisignifica semplicementeche,qualiche siano i fini, anche i più alti, nobili o altruistici, che il politico spera di conseguire con la sua azione, essi hanno bisognodelmedium«potere» per venir attuati, e dunque non vi è politica che a qualche forma di potere non miri. Il punto di vista del realismopolitico,però,nonsi limita a fissare questa prima tesi, che potrebbe persino apparire ovvia; ci sembra piuttosto che quello che lo caratterizza sia la messa a fuoco della dimensione politica come dimensione o ambito conflittuale, dove agiscono attori in lotta tra loro che si confrontano essenzialmente in ragione della forza (ovvero del potenziale di costrizione, influenza o minaccia) di cui possono disporre. In questo senso, nell’ottica del realismo, la politica viene decifrata come una dimensionediquellocheoggi chiameremmo l’agire strategico, viene letta innanzitutto come conflitto e rapporto di forze: per dirla ancoraconMachiavelli,«tutti e’profetiarmativinsono,eli disarmatiriunorono»11.Ilche vuol dire, molto semplicemente, che per conseguire un risultato in politica non bananzitutto prendereconoscenzadiquale sialageometriadelleforzein campo, e quindi disporsi ad agireinmodotaledasuperare la forza che ci si oppone con una forza più grande. Nella prospettiva del realismo politico, insomma, come sostiene ancora Max Weber nella conferenza più volte citata, la forza è il «mezzo decisivo»12 di cui l’agire politico non può in nessun caso fare a meno. Ma questo assuntodifondodelrealismo politico,chedaMachiavellia Marx a Weber viene sempre di nuovo ribadito, non può essere certo preso per buono in modo acritico, come fosse un articolo di fede; è necessario piuttosto, seppure inmodomoltorapido,cercare dicomprenderemeglioilsuo esatto significato e le sue ragioni. Spessoilrealismopolitico si sposa con una visione cruda o, più ancora, pessimistica della natura umana, di cui per esempio in Machiavelli si trovano molti documenti: se gli uomini sono - per il Segretario fiorentino come, dopo di lui, perHobbes-pernaturaavidi di potere e di ricchezza, sempredispostiaingannaree atradire,prontiadimenticare «piùprestolamortedelpadre che la perdita del patrimonio», allora è ovvio che non intendono altra ragione che la forza, e che solo grazie a essa si possono governare e tenere a freno. Tuttavia, non è per nulla scontato che il realismo politico debba in ultima istanza basarsi su una fosca visionedellanaturaumana,o su una visione (agostiniana o calviniana) dell’uomo come creatura irrimediabilmente corrottadalpeccatooriginale; in realtà, non ci sembra sussista questa connessione fondativa tra pessimismo antropologico e realismo politico, e si può ben sostenereilsecondosenzafar ricorso alle problematiche assunzionidelprimo13. Per comprendere come il realismo politico possa rivendicareilsuobuondiritto anche prescindendo da una visione pessimistica della naturaumanapuòessereutile riavviare il discorso dalla perspicua definizione della politica che Sheldon Wolin pose all’inizio del suo ampio volume intitolato Politica e visione; la politica, sostiene Wolin,èunaformadiattività che mostra le seguenti caratteristiche: 1) è «incentratasullaricercadiun vantaggio competitivo tra gruppi, individui o società», 2)è«condizionatadalfattodi aver luogo in un ambiente mutevole caratterizzato da relativa scarsità», 3) è «tale chelaricercadiunvantaggio determina conseguenze di portata così vasta da riguardare l’intera società o una parte sostanziale di essa»14. Anche assumendo un punto di vista piuttosto soft come quello che sorregge questa definizione, possono essere facilmente rivendicate lebuoneragionidelrealismo politico: la politica ha a che fare con la distribuzione di vantaggi competitivi di vasta portata tra attori e gruppi sociali; l’agire politico incide necessariamente sulle dotazionidipotere,ricchezza, prestigio e più in generale sulla distribuzione di costi e benefici della cooperazione sociale, che in ogni società data sono distribuiti in modo altamentecomplessoeavolte scandalosamente ineguale; e perciò anche senza presupporre una visione radicalmente negativa della naturaumanasipuòassumere che in ogni società i diversi attori o gruppi conflig-gano per ridurre i propri costi e massimizzare i propri benefici avvalendosi dei mezzi di pressione e di coercizione di cui dispongono; e se ne può dunque concludere che la dimensione del conflitto di forze è, ed è destinata a restare, una delle dimensioni che connotano l’agire politico, che appartengono a esso in modo strutturale. Un’azionechemiraaincidere sulladistribuzionedivantaggi e svantaggi che hanno conseguenze di vasta portata per la vita sociale non può non entrare a costituire un elementodiunoscacchieredi forze in conflitto; e il realismosembraaveretuttele ragioni finché ci ricorda che la dimensione del polemos è inseparabile da quella dell’agire politico, mentre rischia di sconfinare in una visioneunilateraleearbitraria se assume il polemos come l’unica dimensione che caratterizza l' agire politico, trascurando le dimensioni normative, discorsive, espressivedicuisitratteràdi vedere che ruolo giochino accanto a quella del puro agire strategico. Una volta che se ne sia riconosciuto il buon diritto, non si può far a meno di sollevare, contro il realismo politico assolutizzato e monodimensionale, lo stesso rilievo che gli muoveva GehrardRitter,inunlibropur segnatodaqualcheeccessodi moralismo: l’ottica del puro realismo non ha organi per vedere ciò che proprio l’analisi «realistica» del carattere multidimensionale della politica richiederebbe che si mettesse a fuoco: «il sentimentomoraledell’uomo, la sua naturale reazione alla bestialità, all’uso tirannico del potere, alle menzogne grossolane e alla corruzione pubblica», nonché il suo «naturale amor di libertà» e «bisogno di pulizia morale»15. Il rilievo critico nonimpedivaperòaRitterdi porreinrisaltoquellochegli sembravailrisultatodivalore «metastorico» conseguito dalla riflessione machiavelliana: l’aver cioè compreso la politica come lotta di potenze che in forza dellasuastessalogicasiattua servendosi «senza tanti riguardi di tutti i mezzi disponibili e senza far tante questioni di bene e di male»16. Etica e politica. La questione del realismo politico si connette perciò strettamente con quella del nesso, o del conflitto, tra la politica e la morale. Come osservava Benedetto Croce nelle sue rapide annotazioni sul Machiavelli, è forse nella messa a fuoco di questa divaricazionecheèdavedersi «laveraepropriafondazione di una filosofia della politica». Machiavelli, scriveva Croce, «scopre la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dalmalemorale,chehalesue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta»17.Questione costitutiva per la filosofia politica, quindi, è quella che concerne l’aporia o il dilemma del rapporto tra la politica e la morale. Non si può quindi far a meno di soffermarsi brevemente su di essa. Un primo modo di ragionare su questo tema è quello che lo fa scaturire dal rapporto per così dire specularechesiinstauratrai competitori nell’arena politica. Se chi fa politica è unattoreinlottaconaltriper il potere, allora costui deve aspettarsi che i suoi competitori usino, contro di lui, tutti i mezzi che consentanolorodicombattere vittoriosamente la lotta per il potere;quindichiunquesiain lottaper il potere non può esimersidalfarealtrettanto,e perciò anche dal ricorrere a quei mezzi, come la violenza e l’inganno, che ogni visione morale (o religiosa) della realtà umana da sempre condanna. Nella tradizione occidentale, chi esprime in modo paradigmatico questa problematica è ancora una volta Machiavelli, di cui conviene rileggere innanzituttounpassofamoso. Nel più «incriminato» tra i capitolidel Prìncipe, il xviii, così si legge: «Non può, pertanto, uno signore prudente,nédebbe,osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la osservarebbonoate,tuetiam non l’hai ad osservare a loro»18. Il politico che si sentisse obbligato al rispetto della parola data, insegna questo passo, non farebbe altro che lavorare alla sua propria rovina, perché chi fa politicadevesaperecheisuoi nemici,sesitrovasseroalsuo posto, si guarderebbero bene dal mantenere la parola data; e perciò comportarsi, in queste circostanze, in modo «morale», sarebbe semplicementesuicida. Daunaltropuntodivista il tema è prospettato in un celebre passo dei Discorsi, paradigmatico per l’idea moderna della ragion di stato: «La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua:perchédovesidiliberaal tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto néd’ingiusto,nédipiatosoné di crudele, né di laudabile né d’ignominioso;anzi,posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà»19. Qui l’aporia del rapportotramoraleepolitica si presenta sotto un altro profilo:ilpoliticodeveavere la capacità e l’ardire di infrangere il comandamento morale non perché i suoi nemiciloinfrangerebberonei suoi confronti, ma perché, e in quanto, il fine dell’azione politica (in questo caso, la salvezza della res publica) è fine supremo, che deve prevalere su ogni altro, e rispetto al quale le considerazioni di giusto e d’ingiusto devono passare in secondopiano. Partendo da considerazioni come queste, si potrebbe essere tentati di sciogliereilconflittotraetica epolitica,inMachiavelli,nel segnodel«repubblicanismo». Si potrebbe sostenere, con Isaiah Berlin20, che non ci troviamo di fronte a una insanabilescissionetraeticae politica, ma piuttosto al conflittotradueetiche:daun lato un’etica centrata sull’individuo e sulla sua coscienza del bene e del male,dall’altroun’eticadella polis o della virtù repubblicana, dove il valore fondamentale diventa la partecipazione alla vita della comunità, nella quale l’individuo realizza la sua virtù e afferma la sua libertà. Notevole è stata, soprattutto in tempi recenti, la rivalorizzazione del tema dellalibertàrepubblicanacosì come viene sviluppato soprattutto dal Machiavelli deiDiscorsi: in esso Quentin Skinner21 e altri studiosi hanno visto un modo di pensarelalibertàilcuivalore teorico sarebbe, ancor oggi, tutt’altro che esaurito. Tuttavia(lasciandodaparteil fatto che l’elemento davvero rivoluzionario dei Discorsi non sta tanto nel concetto di libertà, quanto nell’idea, questa sì davvero inedita, della positività del conflitto politico, che non è più visto come semplice negatività e discordia), non pare che, per questa via, il dissidio tra morale e politica possa dirsi sanato: l’uomo che si batte per il bene della sua patria, questa è la convinzione di Machiavelli, dev’essere pronto a sacrificarle anche il bene della sua anima; e ciò sembra chiudere la porta a ogni pretesa di troppo facile conciliazione. Il conflitto che così sembradelinearsitral’ambito del-l’agire politico e la sfera della legge morale è uno dei grandi temi su cui la riflessione filosofico-politica non ha mai cessato di interrogarsi, dando luogo a esiti antitetici e problematici. A un estremo, vi sono i pensatorichequestoconflitto hanno irrigidito fino a renderlo elemento strutturale e insuperabile; una posizione che, a sua volta, sembra destinata a biforcarsi al suo interno,asecondacheall’uno oall’altroelementosifinisca per dare il privilegio. Sulla tesi dell’insanabile dissidio tra politica e morale, tra politica e bene, convergono paradossalmente, per poi subito divaricarsi, tanto le posizioni dei realisti inflessibili, da Machiavelli a Schmitt, quanto quelle di coloro che sono stati efficacemente definiti pensatori dell’«impolitico» (da Simone Weil a Hermann Broch), e che, partendo da premesse spirituali di tutt’altro genere, guardano alla dimensione della politica come a una pura lotta di potere senza redenzione, strutturalmente condannata, proprio per la sua natura, a non attingere mai la dimensione del bene o della giustizia. Un passo di Hermann Broch dà voce in modo eloquente a questa paradossale coincidentia oppositorum:«Tutteleanalisi dellapolitica-scrivel’autore della Morte di Virgilio - che ne riconoscono la mancanza di fini considerandola come una lotta per il potere fine a se stessa (ad esempio le analisi di Machiavelli e di Clausewitz) hanno l’inestimabile vantaggio di esseregiuste»22. Già nella celebre conferenza di Max Weber sulla Politica come professione, però, il dissidio tra etica e politica si pone in termini non meno drammatici, ma certamente più«mobili».Seildissidiolo si vuole scrutare fino in fondo, è necessario innanzituttochiarirelanatura dei termini che all’antitesi dannocorpo;maciòsignifica che non si può prendere per acquisita una qualsiasi visione di ciò che è la moralità, ma che se ne deve anzi precisare e indagare il concetto (perché il dissidio potrebbe risultare, forse, proprio da un modo insufficiente o troppo semplicistico di intendere la moralità). Ora Max Weber, che certamente non è, tecnicamente parlando, un «filosofomorale»,metteperò a fuoco quello che, in questo contesto, risulta essere uno dei problemi decisivi: «dobbiamo renderci conto scrive - che ogni azione eticamente orientata può trovarsi tra due massime inconciliabilmente opposte, fondamentalmente diverse: può essere orientata secondo l’etica della convinzione o secondo l’etica della responsabilità»23. L’azione morale insomma, ci avverte Max Weber, si pensa in almeno due modi, dai quali derivano conclusioni totalmente diverse: se la si intende secondo la prospettiva dell’etica della convinzione,alloraessanonè altro che l’agire conformemente a quello che si ritiene essere il comandamento della morale, disinteressandosi delle conseguenze che, quanto agli effetti nel mondo, potranno derivarne; se la morale mi vietadimentire,allora,aveva già sostenuto Kant nella sua polemica contro Benjamin Constant24, non mentirò neppure all’assassino che va in cerca della sua vittima: l’aver seguito il puro comandamento della morale mi esime da ogni responsabilitàpergliesitiche il corso degli eventi potrà produrre. Chi agisce secondo l’etica della responsabilità, invece,ècoluichesisentein dovere di rispondere anche delleprevedibiliconseguenze della propria azione: l’azione moralmente giusta non è quella che si limita a corrispondere a un precetto, ma quella che attua concretamente un bene nel mondo, o concretamente impedisce un’ingiustizia. Perciò, dal punto di vista dell’eticadellaresponsabilità, vale il principio: «Devi resistereconviolenzaalmale, altrimentiseiresponsabiledel suo prevalere»25. Il vero politico, dice Max Weber, non può non essere sensibile alle ragioni dell’etica della responsabilità;anzi,ilgrande politico è solo colui che riesce (paradossalmente, forse) a riunire in sé ciò che finquieraapparsoantitetico: etica della responsabilità per le conseguenze ed etica della convinzione, nel senso di fedeltà ai suoi principi. Ma l’agire nel senso dell’etica dellaresponsabilitàèappunto ciò che complica, o forse fa crollare, quel secco dissidio tramoraleepoliticadalquale avevamo preso le mosse: il politico responsabile infatti, sostiene «realisticamente» MaxWeber,devesapereche, entrando in una dimensione dove vigono il potere e la forza,nonpuòfareamenodi entrare in contatto con le «potenze demoniache», col male, con ciò che mette in pericolo la «salvezza dell’anima»26; ma al tempo stesso sa che questo non è semplicemente un cedere al male, ma al contrario è proprioquellochelasuaetica della responsabilità gli impone. La riflessione di Webersuquestopunto,dopo essere passata attraverso le antitesi e i paradossi, si conclude infine con una sintesi che forse potrà apparire troppo pacificata: «Pertanto, l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità non sono assolutamente atteggiamenti antitetici, ma complementari, che soltanto quando sono congiunti formano l’uomo vero,quellochepuòavere la ‘vocazioneallapolitica’».Ma come si possono considerare complementaridueeticheche rispondono a principi che lo stessoWebercihapresentato come contrapposti ? I paradossi del rapporto eticapolitica sono in realtà più difficili da districare, proprio perchéledimensionidisenso e di razionalità che sono implicate dall’agire politico sono molteplici e complesse, e poco si prestano alle riduzioni ad unum e alle troppofacilisistemazioni. 3.3.Ladimensione esistenzialedella politica.Hannah Arendt. Già dalle considerazioni chefinquiabbiamosvoltosi può forse trarre un primo risultato: l’ambito dell’agire politico sembra sfuggire a ogni approccio monodimensionale e richiedere invece, per essere pensato, un quadro concettuale riccamente articolato. Dalla politica, crediamodiavermostratofin qui, non si può espungere né la dimensione morale dalla giustizia, né la dimensione strategicadelconflittoedella forza (quali che siano poi i rapporti, certo complicati e non pacificati, tra questi due ambiti). Ciò non vuol dire però che queste due dimensioni esauriscano il significato dell’agire politico nel più ampiocontestodellasocialità umana; anzi, chi prospettasse la questione in questo modo finirebbe forse per perdere, della dimensione politica, aspetti essenziali. Se è vero che la politica è certamente competizione per ottenere vantaggi in termini di potere, di onori, di ricchezza, se è vero che da essa non si può espungere il tema della legittimità, cioè della ricerca di una legittimazione razionale in termini di giustizia o di libertà, è anche veroche,limitandosiaquesti aspetti, si rischia forse di trascurare dimensioni meno evidenti ma più profonde: si rischia cioè di non vedere il fatto che l’agire politico non risponde solo a logiche autointeressate o a orizzonti universalistici, ma trova invecemotivazioninonmeno profonde in quella che potremmo chiamare la dimensione della ricerca di senso che, non meno delle altre qui sopra richiamate, sembra costituire una delle strutture inaggirabili dell’umanoessereinsocietà. Il rilievo dell’opera di HannahArendtstaproprio,si potrebbe sostenere, nella capacità che hanno le sue pagine di lanciare dei sensibili scandagli in questa dimensione. Per Arendt la comprensione del senso della politica resta povera se non prende le mosse da una riflessionedipiùlargoraggio sulla condizione umana. L’indaginecheArendtsvolge sulla Vita activa ha proprio come obiettivo quello di mettere in luce come le diverse dimensioni dell’attività umana corrispondano a diversi aspetti di quella che l’autrice individuacomelacondizione dell’uomo. Mentre l’attività lavorativa è resa necessaria dal fatto che l’uomo deve riprodurre le condizioni materiali della sua vita, la secondadimensionedellavita activa, quella che Arendt chiamal'operare,rispondeal dato per cui l’esistenza umana, a differenza di quella animale, ha come sua condizionelacreazionediun mondo artificiale di cose, permanente e nettamente distinto dall’ambiente naturale. Da queste due dimensionisidistingueinfine quellanellaqualesiradicala politicaecheHannahArendt chiamal'azione.L’azionenon ha a che fare con i rapporti uomo/cosa,maconirapporti diretti tra gli uomini; essa va compresa a partire da due aspettichesecondolaArendt sono fondamentali per intendere la condizione umana,ecioèlapluralitàela natalità. Che la condizione umana sia caratterizzata dalla pluralità sta a indicare, nell’orizzontearendtiano,una circostanza molto precisa: e cioè non solo che vivere significaesseretragliuomini (con-essere, avrebbe detto il maestro della Arendt, Heidegger),macheesseretra uomini vuol dire al tempo stesso essere tra uguali e diversi: «la pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà»27. Ma se èverochelapluralitàumana è la «paradossale pluralità di esseri unici»28, allora è proprio in questa unicità che l’azione politica, secondo Arendt, trova la sua radice. L’agiretragliuomini,infatti, è quella dimensione nella quale, con i loro atti e con i loro discorsi, gli uomini manifestano agli altri la loro identità, affermano «chi» sono, e quindi, diremmo con un linguaggio un po’ diverso da quello della Arendt, costituiscono il senso sempre precario della loro identità stabilizzandolo proprio nell’atto in cui lo rendono manifestoadaltri. All’idea di una pluralità che è al tempo stesso uguaglianza e unicità si intrecciano strettamente gli altri due fili del discorso arendtiano, quello della natalità e quello dell’immortalità. Proprio perché ogni individuo è irriducibilmente unico, il suo venire al mondo significa al tempo stesso la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo; in quanto unico l’individuo possiede la capacità di iscrivere nella realtàqualcosadiinedito,che prima non c’era. E sebbene, come nota Arendt, un elemento di natalità sia intrinseco a tutte le attività umane, è nell’azione politica chelacategoriadellanatalità trova la sua corrispondenza più diretta. Nell’azione che fonda un organismo politico nuovo, o che ne rinnova uno esistente, si esprime, dunque, tanto la natalità che caratterizza l’umano, quanto quello che è in qualche modo il suo necessario contro-polo, il ricordare, perché l’irruzione del nuovo crea al tempo stesso le condizioniperilricordoeper la storia (solo del nuovo, vorremmo dire, può esserci storia, del sempre uguale c’è solostorianaturale). Per i Greci, nella cui civiltà della polis si fonda, per la Arendt, il nostro concetto della politica, l’azionecheèdegnadiessere ricordata, quindi, è capace di trascendere la mortalità del singolo uomo per attingere una sorta di immortalità: va oltre la caducità dell’essere umanorivelandounanatura« divina »29. Si stringe così il nesso tra natalità e immortalità: l’uomo, in quanto soggetto d’azione, possiede la capacità di generare l’inatteso, l’infinitamente improbabile, che proprio in quanto tale si sottrae al mero circolo della vita naturale e si afferma nella permanenza dell’immortalità. L’importanza della lettura arendtianadella polis, con lo spazio pubblico che questa apriva di fronte a chi volesse compiere grandi imprese o pronunciarediscorsiprofondi, non sta certo nella ricostruzione più o meno attendibile di un contesto storico, quanto nel fatto che ci aiuta a chiarire il senso esistenziale della politica. La poliscostituisce, nella lettura arendtiana, innanzitutto uno spazio pubblico dove il singolo può mostrarsi agli altri nella sua irripetibile singolarità, che solo nel mettersi in scena di fronte a un pubblico si consolida e si fissa come tale: «senza uno spaziodell’apparenzaesenza fiducia nell’azione e nel discorsocomemodidiessere insieme, né la realtà del proprio sé, cioè la propria identità, né la realtà del mondo che ci circonda possonoesserepreservatedal dubbio...Ilsolocaratteredel mondo che permette di misurare la realtà è il suo essere comune a tutti...»30. L’apparire davanti agli altri nell’azione politica (atti e discorsi) che si compie nello spazio pubblico è quindi il modo in cui l’individuo può mettereinscenadifronteagli altri, e quindi anche rendere stabiledifronteasestesso,la sua identità unica; ed è altempostessolacondizione perché ciò che si è compiuto di inedito e di grande possa essere ricordato e tramandato dalle generazioni che si succederanno, conservandone la memoria. L’agire nella sfera pubblica al cospetto degli altri e con gli altri, quindi, è salvezza contro l’evanescenza del senso e la futilità delle pratiche umane puramente riproduttive. L’organizzazione della polis «assicural’attoremortaleche la sua esistenza transeunte e la sua fuggevole grandezza non perderanno mai la realtà che proviene dall’esser visti, uditi e in generale dall’apparire davanti a un pubblico di uomini simili a lui...»31. «Alla base dell’anticastimariservataalla politica - scrive ancora la Arendt-èlaconvinzioneche l’uomoinquantouomo,ogni individuonellasuairripetibile unicità, appare e conquista la sua identità nel discorso e nell’azione, e che queste attività, malgrado la loro futilità da un punto di vista materiale, posseggono una qualità durevole perché provocanoilricordodisé.La sfera pubblica, lo spazio nel mondo di cui gli uomini hannobisognoperapparire,è quindi ‘opera dell’uomo’ più specificamente di quanto non losial’operadellesuemanio illavorodelsuocorpo»32. Non ci interessa qui seguire tutte le implicazioni che Arendt ricava dalla sua originale lettura dell’agire politico, né discutere altri aspettidelsuopensiero.Quel checistaacuore,piuttosto,è trarre, dalle sue riflessioni, qualche indicazione ai fini di una prima illuminazione e delineazione del campo della politica. Già dalle prime suggestioni e dai sommari riferimenti che abbiamo fin qui raccolto esso ci appare come un campo straordinariamente multidimensionale.Inesso,si potrebbe dire facendo riferimento a un filosofo politicocontemporaneo,sono all’opera in modo al tempo stesso sinergico e dissonante tutte quelle che Habermas ha individuato come le distinte ed eterogenee dimensioni della razionalità dell’azione umana. All’agire politico appartiene certamente (ed è quello su cui hanno insistito tutti i grandi classici del realismo) il momento della razionalitàchemodernamente potremmo definire strategica: non c’è politica senza lotta competitiva tra attori che intendono conseguire fini conflittuali. Ma alla politica appartengono altrettanto inesorabilmente il momento della razionalità morale, ovvero della giustizia, e quello, che abbiamo voluto sottolineare con il richiamo allaArendt,dellacostituzione simbolicadisensodellarealtà umana e della espressione autentica di sé33. Il motivo per cui la politica risulta essere un oggetto categorialmente così complicato a nostro avviso è proprio questo: mentre le varie dimensioni di razionalità dell’azione si possono isolare come tipi ideali(edèl’impresache,tra gli altri, ha tentato Habermas nella Teoria dell’agire comunicativo, distinguendo i tipi dell’agire strategico, dell’agireregolatodanormee dell’agire ‘drammaturgico’), nell’agire politico queste dimensionileritroviamotutte all’opera, con la loro necessità e ineludibilità ma anche con la difficoltà di integrarsi in un orizzonte armonico. In questo si potrebbe vedere, forse, un indice della natura tutto sommato paradossale della politica. Ma non è su questa strada che ora vorremmo avventurarci. La grande prestazione del pensiero politico occidentale, nato come si diceva dal grembo della polis, è stata quella di avere elaborato una serie imponente di paradigmi normativi della politica, o, come anche si potrebbe dire, di modelli di giustizia. È ad essiperciòchevorremmoora volgere la nostra attenzione, con l’intento di richiamare alla mente alcuni paradigmi teoricidistraordinariovigore, con i quali, per quanto siano lontanineltempo,lafilosofia politica continua anche nel presenteafareerifareiconti. 1 Per una sintetica introduzione al concetto di statosivedailvolumedip.p. Portinaro, Stato, il Mulino, Bologna 1999 (incluso nella serie «Lessico della politica»). Utili anche il volume di n. bobbio, Stato, governo, società, Einaudi, Torino 1993 e quello di N. MATTEUCCI,Lostatomoderno, ilMulino,Bologna1997. 2 M. weber, La politica come professione (1919), trad. it. Armando, Roma 1997.P-333 L. strauss,Che cos’è la filosofia politica, trad. it. a curadiP.F.Taboni,Argalia, Urbino1977,pp.34-35. 4Traimoltipensatoriche hannointerpretatolafilosofia in questo modo, uno è stato sicuramente Theodor W. Adorno; cfr., per esempio, il saggio Kritik, nel volume omonimo Kritik. Kleine Schriften zur Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main1971,pp.10-19. 5 Strauss, Che cos’è la filosofiapoliticacit.,p.36. 6 Queste riflessioni di Bobbio si possono ora rileggere in Teoria generale delta politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999,pp.5-16. 7 j.-p. vernant, Le origini del pensiero greco (1962), trad.it.EditoriRiuniti,Roma 1976,p.39ep.42, 8 N. machia velu, Il Principe, introduzione e commento di G. Sasso, La Nuova Italia, Firenze 1963, cap.xv,pp.136-37. 9 Cfr. comunque, sul tema, il recente volume dip. p. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari 1999. 10 WEBER, La politica comeprofessionecit.,p.33. 11 MACHIAVELLI, Il Principecit.,cap.VI,p.60. 12 WEBER, La politica comeprofessionecit.,p.104. 13 Ciò è vero anche nel casodiMachiavelli:comeha mostrato Gennaro Sasso con ricchezza di argomentazioni, sarebbe una interpretazione inadeguataquellacheponesse la «tristizia» della natura umanaalleradicidellalettura machiavelliana della politica. Cfr. G. SASSO, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, il Mulino, Bologna1980,p.415. 14 s. wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale (i960), trad. it. il Mulino, Bologna 1996,pp.22-23. 15 G. RITTER,Ilvolto demoniaco delpotere (1948), trad. it. il Mulino, Bologna 1958,p.36. 16Ibid. 17 B. CROCE, Etica e politica, Laterza, Bari 1981, p.205. 18MACHIAVELLI,IlPrincipe cit.,cap.xviii,pp.152-53. 19 MACHIAVELLI, Discorsi, III,41,inOpere,acuradiE. Raimondi, Mursia, Milano 19838,p.388. 20 Questa tesi di Berlin, sostenuta nel saggio The OriginalityofMachiavelli,in AA.VV., Studies on Machiavelli, a cura di M. P. Gilmore, Sansoni, Firenze 1972,pp.147-206,èdiscussa e criticata in SASSO, Niccolò Machiavellicit.,pp.433sgg. 21 Gli studi fondamentali suMachiavellielatradizione repubblicanasonoquellidiQ. SKINNER (Le origini del pensiero politico moderno (1978), trad, it. il Mulino, Bologna 1989; Machiavelli (1981), il Mulino, Bologna 1999)edij.G. A.POCOCK, Il momento machiavelliano (1975), 2 voli., trad. it. il Mulino, Bologna 1980. Cfr. anche M. VIROLI, Dalla politica alla Ragion di stato, Donzelli,Roma1992. 22IIpassodiBroch,tratto dallaraccoltadisaggiAzione e conoscenza, è citato nella introduzione di Roberto Esposito al volume Oltre la politica. Antologia del pensiero«impolitico», a cura di R. Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 11. Si deve a Roberto Esposito la riproposta, ma in un senso completamente diverso da quello di Thomas Mann (Considerazioni di un impolitico), del concetto dell’«impolitico». Si vedano aquestopropositosoprattutto i suoi lavori: Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1988 e Nove pensieri sulla politica, il Mulino,Bologna1993. 23 WEBER, La politica comeprofessionecit.p.102. 24 Per un’ampia illustrazione della polemica e delle sue implicazioni è utile il volume I. KANT e B. CONSTANT, La verità e la menzogna, a cura e con introduzione di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori,Milano1996. 25Ibid.,p.101. 26Ibid.,p.113. 27 H. arendt, Vita activa (1958), trad. it. Bompiani, Milano1994,p.8. 28Ibid.,p.128. 29Ibid.,p.15. 30Ibid.,p.153. 31Ibid.,p.145. 32Ibid.,p.153. 33 Il rapporto tra autenticità e politica è centraleneilavoridiA. FERRA RA: Autenticità riflessiva, Feltrinelli, Milano 1999, e Giustiziaegiudizio,Laterza, Roma-Bari2000. Parteseconda. Paradigmidella filosofiapolitica II.L’ordinedellapolis I.«Polis»e democrazia. La politica come ancora la pensiamo noi, uomini del xxi secolo, è, a differenza di molte altre pratiche sociali, una pratica per la quale possiamo individuare un’originebenprecisa1:siala parola che la cosa nascono nella Grecia classica, da quella peculiare istituzione il cui mito è ancora ben vivo nel Novecento (lo abbiamo vistorileggendopocosoprale pagine di Hannah Arendt) e chevasottoilnomedipolis. La città-stato greca (il modello della quale nella culturaoccidentaleèAtenee, più precisamente, l’Atene democratica),nascetrailviie ilvisecoloavantiCristodalla crisi delle forme tradizionali, regali e sacrali della sovranità. Il potere non è più appannaggio delle stirpi aristocratiche che dominavano dai loro palazzi fortificati, ma trapassa idealmente in quello che è il centrosimbolicodellacittà:la piazza, l'agora, lo spazio pubblico comune a tutti i cittadini, che attraverso di esso si riconoscono come comunità, e che intorno a esso stabiliscono le loro dimore e le delimitano attraversolacintadimura.La città stato greca è il luogo in cui compare per la prima volta quella novità radicale che è la discussione politica nello spazio pubblico. Con essaeinsiemeaessanascono quellepratichechesonostate caratteristiche per tutta la storiadellaciviltàoccidentale come il discorso argomentativo, la filosofia, il dibattito politico, il pensiero politico. Nella polis la sovranità sempre più laicizzata è posta al centro della istituzione comunse e diventa oggetto di un dibattere che si svolge nella sfera pubblica dell 'agora', il comando, quindi, non è più proprietà esclusiva di qualcuno, di un eletto per ragioni di stirpe, sacrali o religiose, ma è il risultato di un confronto dialettico, di un agone in cui si sfidano i miglioridiscorsielemigliori qualità, e nel quale, per così dire, si «urbanizza» la mentalità al tempo stesso agonisticaedegualitaria(trai «signori») che caratterizzava learistocrazieguerrieredicui i poemi omerici ci hanno tramandatoilritratto. Alla città si accompagna la nascita della legge scritta, «regola comune a tutti ma superiore a tutti, norma razionale sottoposta a discussione e modificabile per decreto»2. L’uguaglianza dei cittadini che così si cominciaadeterminarenonè certo, da principio, una perfettasimmetriadidiritti;e la polis perpetua, allargando al tempo stesso il consenso verso di essa, la primazia sociale degli aristocratici e dei proprietari terrieri. L’uguaglianza consiste però, come scriveva Jean-Pierre Vernant,nelfattocheidiritti sono distribuiti con un criterio di proporzionalità, che «la legge è la stessa per tutti i cittadini e che tutti possonofarpartedeitribunali comedell’assemblea»3. Il modello classico della polisdemocratica,destinatoa rimanere un punto di riferimento per tutta la tradizione del pensiero politico occidentale, è quello delle istituzioni politiche di Atene, così come vengono definite, nel 508-507 a.C., dalla riforma democratica di distene e successivamente, alla metà del v secolo, dalle riforme di Pericle. L’istituzione nella quale si incarnalasovranitàpoliticaè l’Assemblea dei cittadini di pienodiritto,l'ekklesia:essaè aperta a tutti i cittadini maschi e liberi che abbiano più di 18 anni; in essa tutti hanno diritto di parola e le decisioni vengono prese a maggioranza. L’assemblea rappresentalapiùaltaautorità decisionale sulle questioni legislative e sulle più importanti questioni di governo. L’attività di carattere più propriamente amministrativo veniva esercitatainvecedaunaparte piùlimitatadellacittadinanza, il consiglio dei 500 (boule). Moltedelleprincipalicariche politiche venivano attribuite per sorteggio, ed era previsto un compenso per chi era designato a ricoprirle. La politica ateniese consisteva dunque di meccanismi di deliberazione che funzionavano attraverso un sistema di democrazia diretta e partecipativa; si trattava quindidiunademocraziache, a differenza di quelle moderne,eraprivadiunvero e proprio apparato statale, e nellaqualeavevanoinveceun ruolo di primo piano il confronto degli argomenti e ladiscussionepubblica. È proprio nel contesto della città, e dei dibattiti che in essa si svolgono, che si manifestano le prime forme di pensiero politico: i sofisti mettono in risalto la convenzionalitàdelnomos,le leggidellacittà,rispettoauna presunta giustizia naturale; o si spingono persino, come il Trasimaco rappresentato nel libro I della Repubblica di Platone, a demistificare ogni idea di giustizia sostenendo che questa non consiste in altro che nell’utile del più forte. Tucidide, narrando dello sterminio dei Melii da parte degli ateniesi nella guerra del Peloponneso, mostra per la prima volta sulla scena il più duro realismo politico, assertore del dominio senza alternative della legge della forza4. Il pensiero di matrice aristocraticaeoligarchica(cui dà voce il famoso pamphlet La costituzione degli ateniesi), sviluppa una precoce critica della democrazia come regime che portala«canaglia»allaguida dello stato e che, con l’imperialismo ateniese, consente alla plebaglia di soddisfare i suoi appetiti dominando, nella città, sui possidenti e, verso l’esterno, sullealtrecomunità.Ilsofista Protagora, per contro, legittima la democrazia, sostenendo la tesi che la capacitàdifarepoliticanonè un talento speciale, di cui solo alcuni siano dotati, ma un’attitudine che tutti i cittadini possono avere o acquisire. Conformemente alla visione convenzionalistica che è propria della sofistica Protagora afferma, secondo quanto possiamo leggere nel Teeteto di Platone, che il giusto e l'ingiusto dipendono daciòchelacittàstabiliscein materia. Giusta la tesi protagorea che l’uomo è misuradituttelecose,nonsi può dire che un individuo sia più saggio di un altro o che una città superi un’altra per la bontà delle sue istituzioni. 2.Lavisione platonicadelBene politico. La giovinezza di Platone e la condanna a morte di Socrate si collocano in una fase in cui la democrazia ateniese, dopo i fasti dell’età di Pericle, conosce un’epoca di profonda crisi. È proprio questa democrazia ormai debole e malsicura che, nel 399 a.C., si assume la responsabilità della condanna amortediSocrate;esperienza che sarà determinante per la formazione del pensiero del suo giovane allievo Platone (427-347a.C.). Lo racconta Platone stesso nella Lettera VII: «Quandoerogiovane,ioebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso». Ma l’osservazione della vita politica reale doveva presto farlo recedere da questa intenzione. In un primo momento egli aveva riposto qualchesperanzanelgoverno dei Trenta Tiranni tra i quali egli, come appartenente all’aristocrazia ateniese, contava numerosi parenti e conoscenticheloinvitaronoa collaborare. Ma questo governo fece presto rimpiangerequelliprecedenti; «tral’altro-raccontaPlatone - un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchiodime,unuomoch’io non esito a dire il più giusto delsuotempo,adarrestareun cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlolorocomplice,volesseo no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo ... fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo». Venne poi la restaurazione dellademocrazia,chesembrò portare al potere uomini «pienidimoderazione».«Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato,elouccisero,lui che non aveva voluto partecipare all’empio arresto di un amico degli esuli di allora, quando essi pativano fuori della patria. Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica ... tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto»; «alla fine m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati». Platone conclude questo passaggio affermando latesichecostituisceancheil pernodellaRepubblica:«vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima alpoterepoliticononfossero pervenutiuominiveramentee schiettamentefilosofi,oicapi politicidellecittànonfossero divenuti, per qualche sorte divina,verifilosofi»5. Lungi dal costituire una tesi bizzarra, l’affermazione platonica che solo i filosofi potrebbero essere dei buoni reggitori risponde alla logica stringente della sua argomentazione. Il compito dell’arte politica, di quella che nel dialogo Il politico Platone definisce come l’arte regia e suprema, che deve orientaretuttelealtreelavita della comunità nel suo complesso6, è quello di attuare il bene di ognuno nel bene della comunità. E il bene per gli uomini non coincidenecessariamentecon quello che essi si rappresentano come tale; anzi,ilverobeneconsistenel coltivare la perfezione della propriaanimaenelseguirela giustizia. La vera arte politica, che realizza il bene dellacomunità,devealtempo stesso, e proprio in quanto tale, rendere anche migliori i cittadini: le buone leggi e il buon governo hanno come compitononultimoquellodi creare buoni cittadini7. Se però la politica si riduce, come accade troppo stesso nella città reale, a una competizione feroce per gli onorieperilpotere,essanon potràcherisultareinadeguata al conseguimento di quelli che sono i suoi autentici fini. Una buona politica, perciò, potranno farla solo i veri filosofi, per ché questi, avendocompresoinchecosa consista il vero bene, non si azzufferanno, come ciechi abitantidiunregnodiombre, perlaricchezza,perglionori eperilpotere,maalcontrario non desidereranno di meglio che allontanarsene, per ricercarequellichesonobeni piùcompleti,laconquistadei quali non costringe a recare ingiustizia ad altri e quindi non rovina e corrompe il sé (poiché, come insegna Socrate nel Gorgia, fare ingiustiziaèunmalepeggiore chesubirla)8.«L’amantedella sapienza - ha scritto Sheldon Wolin nelle belle pagine che ha dedicato al pensiero politico di Platone - a differenza di coloro che desideravanoardentementela ricchezza e il potere, non era in competizione con i suoi concittadini,néraggiungevai suoi scopi a spese del prossimo. La sua era la sola attività dalla quale traeva vantaggio l’intera comunità»9. Nelmodopiùnettoqueste conclusioni,forseparadossali ma certo rigorosamente dedotte, sono espresse nel settimo libro della Repubblica: la maggioranza deglistatisonooggiesempre governati da «persone che si battono fra loro per ombre e si disputano il potere, come sefosseungrandebene».Ma la verità è altra: «lo stato in cuichidevegovernarenonne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato inmodoopposto...Seperchi deve governare troverai un modo di vita migliore del governare [cioè il filosofare] ottima potrà essere l’amministrazione del tuo stato, perché sarà il solo in cui governeranno le persone realmente ricche, non di oro, ma di quella ricchezza che rende l’uomo felice, la vita onesta e fondata sull’intelligenza. Se invece vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il lorobenedilì...ilgovernoè oggetto di contesa e una simileguerracivileeintestina rovina con loro tutto il resto dello stato ... Al governo devono andare persone che non amino governare, altrimenti la loro rivalità sfocerà in contesa»10. Alla rissosità della polis democratica, ai discorsi abilmente persuasivi dei sofisti,cheprosperanosulsuo terreno, si può rispondere solo, per Platone, con la riaffermazione della vera filosofia e del principio della competenza, che rovescia il principiodemocraticopercui tutti sarebbero in grado di giudicaregliaffaripubblici. Come la città ha bisogno del filosofo, anch’egli da parte sua ha bisogno della città: non ci può essere, per Platone, una felicità contemplativa e appartata di cui il filosofo potrebbe godere anche nella città più vile e corrotta, perché anche la sua ricerca della saggezza, della perfezione e della felicità richiede lo scambio e la relazione con altri uomini11. Come ha mostrato propriolavicendadiSocrate, nella città ingiusta il filosofo non può coltivare la filosofia e restare fedele alla giustizia senonalprezzodelmassimo sacrificio:quindi,lacittàben amministrata ha bisogno dei filosofi così come i filosofi hanno bisogno di una comunitàrettadallagiustizia, solo in essa la filosofia può essereliberamenteesercitata. È a partire da questo sfondo che va compreso il progettoplatonicodiunacittà ideale così come viene delineato nella Repubblica. La delineazione di una comunità politica orientata dall’idea della giustizia presuppone innanzitutto il confronto con coloro che, come il sofista Trasimaco, protagonista del primo libro della Repubblica, negano la validità stessa dell’idea di giustizia, con argomenti non dissimilidaquelliche,nelxix secolo, saranno riproposti dall'immoralismodiFriedrich Nietzsche. Ciò che in ogni stato viene definito giusto, afferma Trasimaco, è semplicementeciòcheèutile al potere costituito; e poiché il potere è tale in quanto detiene la forza, ne discende, «perchisappiabenragionare, che in ogni caso il giusto è semprel’identicacosa,l’utile delpiùforte»12. Così come il pastore non si preoccupa del bene delle pecore, ma del proprio, e del primo solo in funzione del secondo, allo stesso modo il governante; e il destino dei cosiddettigiusti,cheinrealtà non sono altro che deboli o ingenui, è quello di subire il fisiologico dominio del più forte,cioèdicoluichesoloil pregiudizio chiama ingiusto. La vita del cosiddetto ingiusto,continuaTrasimaco, è in ogni caso migliore di quella del giusto: «quando ci siano tributi da pagare, il giusto a parità di condizioni pagadipiù,l’altrodimeno;e quandoc’èdaricevere,l’uno non guadagna nulla, e l’altro molto». Se poi si tratta di occupareunacaricapubblica, l’ingiusto ne trae ricchezza e onori, mentre il giusto si fa tanti nemici e ci rimette di tascapropria13.Siprendaatto di questa eterna realtà, conclude quindi il Trasimaco platonico (di cui qualche volta Nietzsche ci appare come nient’altro che una pallida imitazione), e si smetta di predicare la giustizia. Le leggi, gli fa eco Glaucone, anticipando ora invece gli argomenti di un contrattualismo di tipo strategico, nascono perché colorochenonsonocapacidi evitaredisubireingiustizia,e non riescono a infliggerla ad altri,hannopensatochefosse vantaggioso venire all’accordo di non farsi ingiustiziareciproca,ehanno appunto stabilito una legge a questo scopo, mediante una sorta di patto; un patto che nessuno sottoscriverebbe mai (a meno che non fosse folle) se avesse la possibilità di soverchiare impunemente gli altri14.Sonoideboli,sostiene Callide nel Gorgia, che tessonolelodidellagiustizia, che non è altro che un velo dietro cui essi nascondono la loroimpotenza. Nella Repubblica Platone non ci presenta una confutazione diretta e lineare delle tesi di Trasimaco. La confutazione si articola piuttostoinunaserieampiae intrecciata di ragionamenti e di argomentazioni, che solo nel loro insieme giungono a delineare il quadro di una giusta comunità politica. L’osservazione preliminare è che, tanto per cominciare, l’ingiustizia sembra presupporrelagiùstiziaenon poterla negare del tutto: anche una banda di predoni, per poter funzionare efficacemente, ed evitare la divisione e la distruzione, presuppone che viga, almeno al suo interno, una qualche formadigiustizia.Maciòche vale per l’aggregato di individui sembra valere, in qualche modo, anche per il singoloindividuo:l’individuo assolutamenteingiustoètanto diviso al suo interno che alla fine risulta del tutto incapace di agire, come una banda di ingiusti dilaniata e distrutta daconflittiintestini15. Il paragone potrebbe apparireimproprio,manonlo è, in realtà, perché anche l’individuo considerato come agente reca in sé una pluralità: come mostra l’esempio banalissimo di colui che si costringe, con la sua volontà, a non guardare unacosaversolaqualeilsuo desiderio lo attirerebbe; se non si assumesse una pluralitàinternaall’individuo, si andrebbe incontro a una impensabilecontraddizione16. Se dunque noi assumiamo che c’è giustizia quando una pluralità è ordinata in modo tale da mantenere una sua unità armonica, e in modo che ogni parte svolga al meglio la funzione che le è propria, possiamo dire che la giustizia è la condizione stessaperchéunorganismosi mantenga e realizzi il suo bene; e possiamo aggiungere che ciò implica, in modo altrettanto stringente e necessario, che nell’ordine dellepartidomininoquellela cui signoria assicura nel modo migliore il bene del tutto. Il ragionamento circa la giustizia nello stato, perciò, viene sviluppato da Platone tenendo come fermo filo conduttore l’analogia tra la comunità politica e quella piccola comunità in interiore homine che è l’anima individuale.Nellapluralitàdi questa, che dobbiamo necessariamente postulare, si devono distinguere per Platone tre momenti: c’è un’animaappetitiva,chemira alla soddisfazione dei piaceri del corpo (il mangiare, il bere, il copulare e così via); c’è un’anima razionale, che hadimiralaconoscenzaela verità; e infine vi è il momento volitivo, l’energia del volere, grazie alla quale l’animasidirigeversol’unoo l’altro dei suoi obiettivi, con maggiore o minore determinazione e coraggio: insomma, l’anima concupiscibile, quella razionale e quella animosa. Giusto è l’individuo17 in cui le tre parti dell’anima non sono in lotta tra loro, ma danno luogo a un ordine intimoeaun’armonia,maciò è a sua volta possibile, nella visionediPlatone,solosetra gli elementi vige la giusta gerarchia, se non vengono invertiti i rapporti di signoria conformi a natura. L’uomo giustoèquelloincuilaparte razionale,sostenutadaquella animosa, domina sulla parte concupiscibile; poiché solo questo ordine consente all’individuo di attingere il suo vero bene, la sua felicità più autentica. Si potrebbe obiettare, riprendendo per esempio la linea di ragionamento sofistica, che l’uomopiùfeliceèquelloche soddisfa senza freni tutti i suoi appetiti, come per esempio il tiranno; ma in realtà,percomprenderequale parte dell’anima deve comandare,bastarifletteresui diversi tipi di piacere verso i quali ogni parte dell’anima è indirizzata, e ragionare su quali sono quelli che assicuranolafelicitàpiùvera. La parte razionale cerca il piacere di apprendere e di conoscere la verità; quella animosavaincercadifamae di onori, quella concupiscibile è dedita ai diversi piaceri del corpo e al denaro, che consente di acquistare tutti i mezzi di piacere. Ma quali sono i piaceri che danno la felicità maggiore ? Se lo si chiede a chicoltivaunodeitremodidi vita, la risposta sarà che il migliore è appunto quello al quale egli si dedica; il filosofo loda i piaceri dell’intelletto, l’amante della vittoria ritiene che niente valga quanto gli onori e la fama, l’amante del guadagno si prende gioco di entrambi giudicando futile ciò che a essiappareimportante.Mase ci troviamo di fronte a tre giudizi diversi, a quale dovremo prestare fede ? Dovremo credere - risponde Platone - al filosofo, e non perpartitopreso,mainforza di solide ragioni; egli infatti, in quanto uomo che vive in società, ha una chiara conoscenza anche dei tipi di piacere che ritiene meno validi, mentre gli uomini dediti all’inseguimento degli onoriodeldenarononhanno una pari esperienza dei piaceri della mente: pretendono di giudicare intorno a ciò che conoscono pocoemale.Illorogiudizio, quindi, è meno attendibile non solo per questa ragione, maancheperchéilfilosofoè quello che ha, per così dire, coltivato«professionalmente» l’arte del giudicare in modo retto, e quindi anche da questo punto di vista la sua opinione dev’essere accolta come la più ponderata. Accanto a questa, Platone adduce anche molte altre argomentazioni;maforsenon esplicita fino in fondo quella che a noi sembra l’argomentazione da lui stesso più profondamente sentita: l’apprendere e il conoscere sono, in rapporto agli altri, gli unici beni che noi possiamo conseguire in modo illimitato senza per questo doverli sottrarre ad altri: denaro e onori sono risorse scarse per cui si compete,mentreilsapereche si acquista non lo si toglie a nessuno, e anzi lo si regala volentieriadaltri18. Non v’è dubbio perciò che la parte dell’anima che devegovernaresullaaltresia quella razionale, perché solo affidandosialgovernodiessa l’uomo potrà conseguire la sua più compiuta felicità e autorealizzazione.Maciòche èveroperilsingoloindividuo è vero anche per quella comunità più ampia che è lo stato. Le tre parti dell’anima, come abbiamo visto, corrispondono a tre tipologie fondamentali di individui: quelli che ricercano la saggezza, quelli che ambisconoaglionoriequelli che bramano il guadagno. La societàgiustaobeneordinata sarà quella che assicurerà l’appropriato equilibrio tra questesuecomponenti. Innanzitutto non è privo di significato che anche l’« idealista»Platonenonmanchi di prendere le mosse da quellache,collinguaggiodel nostro tempo, potremmo definire come l’esigenza fondamentale di assicurare la riproduzione materiale della società:lasocietàumana,per Platone, nasce sostanzialmente dal bisogno, dalfattochel’uomononèin gradodibastareasestessoe per vivere instaura quindi rapportidicollaborazioneedi scambio con altri. Lo sviluppo sempre più ricco e articolato di questi rapporti genera una sempre più marcata divisione del lavoro, che risponde a una ben precisa logica di efficienza: «le singole cose riescono più e meglio e con maggiore facilitàquandounofacciauna cosa sola, secondo la propria naturale disposizione e a tempoopportuno,senzadarsi pensierodellealtre»19. A soddisfare le necessità materiali,chesonolaragione stessa del costituirsi dell’uomo in società, provvederà quindi la classe dei produttori e dei commercianti, formata dagli uomini nei quali prevale il desiderio di guadagno. Con l’accrescersi della città e dei suoi bisogni, questa entrerà fatalmente in conflitto con le altre comunità, e potrà prospettarsi la necessità della guerra; ed ecco quindi la necessità di una classe di guardiani che proteggano la città, e che dovrà essere formatadaquellinelcuipetto prevale l’elemento animoso: coraggio,aggressività,ricerca di gloria. Superiore alla funzione di protezione militare, però, è quella propriamentedigovernodella città; a essa dovranno presiedere quei guardiani in senso più alto e perfetto che sono i governanti-filosofi, cioè coloro nella cui anima prevale il momento razionale e che sono legittimati a governare dal fatto di possedere la conoscenza del vero bene. La platonica città bene ordinata, quindi, è quella che assicura ai diversi tipidiuominilapossibilitàdi vivere nel modo cui il loro temperamentoliindirizza,ma tenendolientroqueilimitiche fanno sì che essi contribuiscano, ciascuno a suomodo,albenedellacittà, e non ne preparino invece la rovina. Così, gli amanti del denaro,gliuominiacquisitivi, potranno dedicarsi all’attività economica, che però dovrà essere regolata in modo da non produrre differenze troppo rilevanti tra ricchezza e povertà: perché se questo accadesse,nonsiavrebbepiù una città, ma due poleis, quella dei ricchi e quella dei poveri, nel cui conflitto si distruggerebbe quel bene primario che è l’unità dello stato. Gli uomini acquisitivi, inoltre, non devono avere accesso al potere politico, perchéquestononpuòessere esercitato in modo giusto da chi ha come interesse primario quello di accrescere isuoipossessi. Proprioperquestomotivo laclassedeireggitori,cioèdi quellichegovernanolostato, deve essere tenuta rigorosamente lontana da tutto ciò che implichi un privato interesse acquisitivo: in quanto custodi del bene pubblico i governanti devono vivere in modo tale da non avereneppurelatentazionedi dedicarsi ad accrescere i loro beni privati. Essi perciò non devono avere proprietà privata ma, come buoni amici, devono avere tutto in comune, abitare e mangiare insieme.Nonviènessuntipo didiscriminazionetrauomini e donne, nel senso che tutti i ruoli che sono aperti agli uni sono aperti anche alle altre. Leunionivengonocombinate attraverso un complicato sistema di sorteggi, che in realtà, dice Platone, dovrà essere manipolato dai supremi guardiani in modo che gli accoppiamenti riescano al meglio. I figli sarannoconsideratitutticome figli della città e allevati in comune. Questo tipo di vita comunitaria varrà per i guardiani in generale, sia per ifilosofi-governanticheperi guerrieri; ma una attenzione assolutamenteparticolaresarà consacrata all’educazione dei filosofi, alla quale Platone dedica, entrando assai nel vivo delle questioni filosofiche, molte pagine dellaRepubblica. Per quanto riguarda l’appartenenza alle tre classi, l’ottimo stato platonico non disdegnerà di ricorrere a una «nobile menzogna»20: si farà credere agli uomini che appartengono a esse a secondachenellaloronatura sia mescolato oro (filosofi), argento (guerrieri), oppure ferro e bronzo (artigiani e commercianti); i giovani apparterranno di regola alla classedichilihagenerati,ma non senza eccezioni. Con l’idea della nobile menzogna Platonecisvelaanche,molto precocemente,ilmeccanismo con cui funziona l’ideologia: essa legittima gli assetti sociali, fatti dagli uomini, facendoli apparire come dei dati naturali indipendenti dallalorovolontà. Dopo aver tracciato nella Repubblica il quadro della societàbeneordinata,Platone si sofferma sulle costituzioni che invece si discostano dall’ideale, che quindi possono essere considerate come altrettante forme degenerate di esso, e che corrispondono al prevalere di parti dell’anima che invece dovrebbero essere sottoposte al governo dell’anima razionale.Lequattroformedi costituzione degenerata (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide) possono essere lette come un processo di decadimento progressivo a partire dalla corruzione della costituzione ottima. Dapprima, col venire meno nei governanti dell’egemonia della ragione, prevarràlaparteanimosa,eil governo passerà nelle mani degli individui caratterizzati dalla «ambizione di affermarsi e di ricevere onori» (timocrazia)21; quindi al desiderio degli onori si sostituirà quello più volgare dellericchezze,esiaffermerà la costituzione oligarchica, dovelapolisèscissa:dauna parte i ricchi, dall’altra una massadipoverisenzarisorse, carichi di debiti, «bramosi di una rivoluzione» 22. E così, scrive Platone, «la democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria, ammazzano alcuni avversari,altrinecaccianoin esilio e dividono con i rimanenti, a condizioni di parità,ilgovernoelecariche pubbliche, e queste vi sono determinate per lo più col sorteggio»23. Per Platone quindi la democrazia per un versoècaratterizzatadalfatto cheprendeilpotereunacerta classe,quelladeinullatenenti, peraltroversodalfattochevi regna una libertà che apparentementeèmoltobella, ma che in realtà si traduce presto nel dominio dei demagoghi, che si mostrano bendispostiversoilpopoloe i suoi desideri, e infine nel rifiuto di qualsiasi obbedienza,chelasciaspazio alla«tracotanza,l’anarchia,la sregolatezza e l’impudenza»24. Dall’insofferenza per l’anarchia si genera quindi infine la tirannide, perché «l’eccessiva libertà, sembra, non può trasformarsi che in eccessivaschiavitù»25. E con essa si chiude il ciclo delle forme degenerate di costituzione. Ma, se il quadro della degenerazione è chiaro, e dipinto da Platone con tratti efficacissimi, meno chiaro è, invece, come e se si possa perveniredaunasituazionedi corruzione politica all’ottima repubblica. Nel libro V della Repubblica Platone ribadisce la sua convinzione che l’instaurazione dello stato giusto è pensabile, «con una sola trasformazione, certo non piccola né facile, eppure possibile»26 e cioè che i filosofi diventino governanti o che i governanti diventino filosofi. Ma sa bene quanto ciò sia improbabile, perché, se filosofi sono quelli che aspirano a un modo di vita diversoesuperiorerispettoal governare, sarà difficile che essi conquistino il potere, e ancor più difficile che vi siano chiamati da coloro che invece proprio al potere ambiscono. Perciò, sembrano avere buone ragioni quelli che pensano che Platone non poteva intendere il progetto della Repubblica come un progetto realisticamente attuabile; del resto, lo stesso Platone si distacca dall’orizzonte delineato nella Repubblica nella più «realistica» opera della vecchiaia,leLeggi. Perciò, come è stato scritto, «la Repubblica deve intendersi come un modello ideale e come un paradigma etico prima che politico, e noncertocomelabaseperun programma politico»27. L’ottimo stato, si legge nella chiusa del libro IX della Repubblica, è «uno stato che esiste solo a parole, perché non credo che esista in alcun luogo della terra. Ma forse nelcielo,replicai,neesisteun modello, per chi voglia vederlo e con questa visione fondarelapropriapersonalità. Del resto non ha alcuna importanza che questo stato esistaoggioinfuturo...».Ciò che forse più importa è che esso mette in luce uno dei paradossichesonocostitutivi del politico: uno stato ordinato al Bene sarebbe quello dove fossero al potere colorochenonlodesiderano, così come non desiderano la ricchezza che dal potere consegue. 3.Aristoteleeil pluralismodelBene. Sebbeneilsuopensierosi collochi già nell’epoca del tramonto della polis, anche per Aristotele la città rimane il punto di riferimento privilegiato, il contesto al quale la filosofia politica si riferisce come al proprio oggettoenelqualesoltantoè possibile l’agire dell’uomo attraverso il quale rifulge la sua virtù. Come per Platone, quindi, anche per Aristotele l’oggetto primario di riflessione della politica è il Bene, sia il bene del singolo uomo che il bene della città, perchéilbenedell’individuo, che fondamentalmente consiste nell’attività dell’anima conforme a virtù, si attua nel contesto della relazione con gli altri, e quindi il bene «è amabile anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è piùbelloepiùdivinoquando concerne un popolo o delle città»28.Lapolitica,quindi,è la scienza più direttiva e architettonica, perché si occupa del «bene propriamenteumano»nelsuo contesto più ampio, cioè ordinando tutte le condizioni all’interno delle quali gli individuipossonoviverebene eattingerelalorofelicità. Se resta quindi fermo il quadro paradigmatico di una comunità politica pensata in funzione del conseguimento del bene degli individui e della comunità, mutano però profondamente, rispetto a Platone, le coordinate teoretiche dalle quali la ricerca sul bene per l’uomo vieneguidata. Cambia in primo luogo il modo di intendere lo statuto teorico del sapere pratico, etico e politico: «le cose moralmente belle e le cose giuste,intornoallequaliverte la politica, hanno molta diversità e instabilità, a tal punto che si crede che esistano soltanto per convenzione e non per natura»29. Proprio in forza di questa varietà e instabilità, il bene pratico non può essere oggetto di un sapere assolutamente rigoroso, di una visione epistemica come quella nella quale invece confidava Platone; al contrario, bisognerà accontentarsi di una verità conosciuta «in maniera approssimativa e a grandi linee», poiché l’uomo veramentecoltochiedeaogni tipo di ricerca tanta esattezza quanta l’oggetto ne consente; il sapere pratico non potrà mai conseguire il rigore dimostrativo di quello matematico e di quello teoretico30. Mutainsecondoluogola visione del bene; perché se è veroche,comeèstatoscritto, «Aristotelenonabbandonòla credenza essenzialmente platonica secondo la quale la comunità politica avrebbe dovuto mirare al sommo bene»31, è altrettanto certo che egli sottopone a una criticamoltobenargomentata e complessa la teoria platonica in forza della quale vièun’unicaideadelbenein sé, di cui tutti i beni particolari partecipano. Gli argomenti che Aristotele adduce contro la tesi platonica dell’unità del bene sono molteplici, ma basterà qui ricordarne uno dei più perspicui, e cioè che se vi fosse un bene unico, vi sarebbe anche una sola scienzadiesso,mentreinvece sono molte e diverse le scienzechetrattanodiquello che, in un determinato contesto, è bene. La critica della eccessiva concentrazione platonica sull’unità, dell’idea come anche del corpo politico, sta alla base del modo assai più articolato in cui Aristotele prospetta una polis bene ordinata. Nella complicata e molto discussa struttura della politica aristotelica, che è stata anche considerata come un aggregato abbastanza estrinseco di trattati indipendenti, il primo libro illumina però con grande chiarezzaquellocheèunodei punti nodali del pensiero delloStagirita,controilquale si dirigerà, più che su ogni altro,lapolemicadiHobbese dei pensatori politici dell’individualismo e del contrattualismo moderno. Polemicoinvece,asuavolta, contro il protocontrattualismo antico (nel libro III della Politica il riferimento è al sofista Licofrone, che intende la legge come una convenzione)32 Aristotele sviluppa in modo paradigmatico la tesi del carattere naturale (e quindi nonartificialeepattizio)dello stato e, di più, del carattere altrettanto naturale dei rapporti di comando/obbedienza che fondano la stessa comunità umana. In principio non c’è l’individuodasolo,masubito la comunità (originaria, potremmodire)cheunisceda unlatomaschioefemminain vista della riproduzione, dall’altro colui che, preveggenteeintelligente,ha natura di capo, con chi invece, dotato prevalentemente di forza fisica e idoneo alla fatica, è per natura subordinato o schiavo. La natura dell’uomo èdiessereunozoonpolitikon che, partendo dalla più piccola cellula familiare, dà vita a comunità via via più ampie, prima di discendenza, poi di villaggio, e infine alla città dove può attingere finalmente i beni della vita civile. Il concetto aristotelico di natura, peraltro, a differenzadiquellomoderno, èunconcettointrinsecamente teleologico: la natura di una cosaèilfinecuitendeilsuo sviluppo,einquestosensola comunitàcivileèiscrittanella natura dell’uomo. La natura non fa niente per caso e se l’uomopossiedelaparolaeil sensodelbeneedelmale,del giusto e dell’ingiusto, è perché questi possano essere sviluppati e attuati nella comunità con i suoi simili. Come, sul piano metafisico, l’attoèanterioreallapotenza, così lo stato è anteriore (non nel tempo, ma quanto al suo concetto) all’individuo e alla famiglia, perché «il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano se non per analogia verbale ... È evidente dunque che lo stato esiste per natura e che è anterioreaciascunindividuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre partirispettoaltutto,equindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestiaodio»33,macertonon èunuomo. Non meno naturale è per Aristotele il rapporto di subordinazione, e quindi anche quello tra padrone e schiavo: come, nel singolo uomo, l’anima domina sul corpo e l’intelligenza sull’appetito,comegliuomini nel loro insieme dominano sugli animali, come il maschio domina sulla femmina, così gli uomini più dotati di intelligenza e di capacità di comando dominanosuquellipiùdotati di forza fisica e quindi atti a servire come schiavi, come veri e propri strumenti animati. Anche le famiglie, di cui la comunità politica si compone (essendo però al tempo stesso, come abbiamo visto, il loro autentico fondamento), sono strutturate secondo questi rapporti di gerarchia naturale; l’uomo libero, il signore e padrone, comanda ma in modi diversi allo schiavo, alla femmina e al ragazzo: comanda allo schiavo perché questi non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa dell’anima,alladonnaperché essa la possiede senza autorità, al ragazzo perché la possiede ma non sviluppata. Il comando sulla donna è del tipo di quello del governante sul governato, e potrebbe essere avvicinato a un governo costituzionale. Il comando sul figlio, invece, è similealcomandoregale,esi basa sull’autorità fondata sull’affetto e sull’età più matura. La base economica della famiglia è data dalla proprietà, e una parte importante della trattazione aristotelicaèdedicataproprio all’amministrazione domestica, cioè al modo in cui la ricchezza può essere acquistata, accresciuta e scambiata. Aristotele accetta lo scambio di beni per soddisfare le necessità della vita, ma condanna come innaturale lo scambio di beni contro denaro finalizzato all’accrescimento illimitato dellaricchezza. Non ultimo dei difetti dellaRepubblicadiPlatoneè, secondo Aristotele, quello di aver sacrificato, in nome dell’unità dello stato, il ruolo della famiglia e della proprietà.Aquestoproposito, Aristotele esamina diversi possibili ordinamenti della proprietà, che si distinguono da quello in cui possesso della terra e consumo dei prodotti sono entrambi privati; le possibilità prese in esamesono:proprietàprivata della terra, ma con uso comune dei prodotti, proprietà comune con uso privato,proprietàcomunecon uso comune. Quindi, Aristotele muove diverse obiezioni al sistema della proprietà comune, che nella repubblica platonica valeva per i custodi. Innanzitutto il sistema della comunanza sembra destinato a generare contrasti tra chi, lavorando molto, ottiene, in proporzione, poco e chi, lavorando poco, ottiene, in proporzione, molto: c’è da attendersi risentimento e rimostranze dei primi nei confronti dei secondi. Un eccesso di comunità, inoltre, continuaAristotele,generaun sovrappiù di conflitto e di contrasto, come si può osservare spesso tra i compagnidiviaggio,cioètra coloro che sono costretti a unacomunitàforzata. A favore della proprietà privata parlano, per Aristotele, molte considerazioni: chi deve occuparsi personalmente di ciòcheèsuo,sicuramentene avrà maggior cura di quanta nonavrebbeperbenicomuni; inoltre, l’essere proprietario di qualcosa è una grande sorgente di felicità, che si collega con il naturale amore persestessi.Questoamoredi sé non è un male e non deve essere condannato, a meno chenontrapassiinegoismo,e cioè in un amore eccessivo. Altrettanto può dirsi per il denaro: non c’è niente di malenelnormaledesideriodi ricchezza, purché non sia eccessivo e smodato. Solo la proprietà, inoltre, consente il godimento che viene dal lasciare agli amici l’uso dei propri beni, cioè in altre parole consente di coltivare quellapregevolevirtùcheèla liberalità. Per tutte queste considerazioni, Aristotele conclude dunque che la proprietà privata è preferibile allaproprietàcomune,mache il sistema migliore è quello dove alla proprietà privata si accompagna anche un uso largamente comune dei beni privatamente posseduti: «è meglio, come si vede, che la proprietà sia privata, ma si faccia comune nell’uso: abituare i cittadini a tale modo di pensare è compito particolare del legislatore»34. È questa la soluzione più equilibrata,checompenetrail naturale amore di sé con la felicità che viene dalla generosità, la cura (non egoistica ed esagerata) di ciò che è proprio con la liberale disponibilità nei confronti degli altri, il momento ineliminabile della particolarità con quello altrettanto importante dell’universalità. Il difetto fondamentale della Repubblica platonica, infatti, è quello di avere esagerato troppo l’unità dello stato35, e di avere pensato che la negazione della proprietà privata producesse la fine delledivisionitragliuominie una «meravigliosa amicizia» e armonia. Le cause di divisione però, obietta Aristotele, non nascono solo dalla proprietà, e dalle liti e contese a essa legate, ma dalla malvagità degli uomini che, se avessero tutto in comune, disputerebbero tra loro in modo ancor più violento. Infine, osserva Aristotele,sePlatoneeracosì convinto della superiorità della proprietà comune, perché l’ha applicata solo ai guardiani e non anche alle altreclassidellasocietà? Riprendendoiltemadella proprietà nel capitolo VII del libro II della Politica, Aristotele osserva inoltre che mentre l’uguaglianza delle proprietà ha carattere statico, la società umana è invece in movimento: per esempio, c’è chihapiùfigliechinehadi meno, e già questa semplice dinamicasconvolgegliassetti che si vorrebbero eguali della proprietà. L’ineguaglianza delle proprietà, inoltre, non è l’unicanélaprincipalecausa di conflitto e di sedizione: «i più grandi mali si commettono in vista dell’eccesso, non del necessario»36, mentre grandi contese vengono dall’ineguaglianza delle cariche e degli onori, così come dal carattere illimitato dei desideri «per il cui soddisfacimento i più vivono»37. «Senza dubbio, l’eguaglianzadiproprietàtrai cittadini è uno dei fattori che contribuiscono a eliminare discordie tra loro»38, ma non basta di per sé ad assicurare laconcordiaelavitabuona. Il problema fondamentale della comunità politica, insomma, è per Aristotele quellodelrapportotraunitàe differenze: certamente lo stato, come la famiglia, deve realizzare l’unità, ma non in modo assoluto”, dev’essere simile a un coro, non a una voce solista. «Al contrario, è indispensabile che lo stato, essendo, come s’è detto prima, pluralità, realizzi mediante l’educazione comunità e unità»40; l’unità non deve essere imposta attraverso la negazione delle differenze, ma risultare da unagiustaeducazioneedaun giustosensodellavirtù;deve essere un’unità la cui forza sta proprio nel saper ospitare dentro di sé i diritti legittimi della particolarità. Lo stato, peraltro,spiegaAristotelenel capitoloIX del libro III, non ha per fine né quello di garantire la sicurezza, né quello di facilitare l’attività economica. Tutto questo è certamente necessario, ma il fine dello stato dev’essere collocatopiùinalto:«lostato ècomunanzadifamiglieedi stirpi nel viver bene: il suo oggetto è un’esistenza pienamente realizzata e indipendente»41; è, come Aristotele dice poco più avanti, «il vivere in modo feliceebello»42. Il governo politico peraltro,soprattuttoquandosi eserciti nell’ambito della comunità di liberi ed eguali, dev’essere ben distinto da altreformedicomando,come quello del padrone sullo schiavo o del padre sulla famiglia: tra i liberi e gli eguali,tuttiricopronoaturno il ruolo di governante e di governato: quando sono al potere lo esercitano nell’interesse dei governati, mentre possono occuparsi dei propri interessi quando rientrano nella semplice condizione di governati43. Ma qual è la costituzione migliore, quella che meglio può realizzare il fine cui la vitadellostatodevetendere? Ricollegandosi alla riflessione platonica, Aristotele elabora una tipologia che prevede sei formedicostituzione:tretipi di costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia e politeia) e tre tipi di costituzioni degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia). Le costituzioni giuste o rette sono quelle dove il potere di governo vieneesercitatoperilbenedi tutti, in vista di un interesse comune a governanti e governati; mentre sono degeneri quelle costituzioni dove i governanti governano soloperassicurarel’interesse proprio, e non quello dei governati. All’interno di queste due grandi categorie, le forme di governo si distinguono poi a seconda che, a esercitare il potere, siano uno, pochi o molti. La distinzione tra le forme di governo, però, non ha una valenza puramente quantitativa ma, al contrario, ha un significato largamente sociale: ciò vale soprattutto per l’oligarchia, che è il governo della minoranza ricca, e per la democrazia, che si ha quando il potere è nelle mani della moltitudine povera. Ma quale sarà il governo migliore, quello di uno, di pochi o di molti ? Nel capitolo xi del libro III, Aristotele presenta diverse argomentazioniafavoredella superiorità del governo dei molti: in primo luogo, anche se nessuno dei molti eccelle per virtù e saggezza, essi nel loro insieme e attraverso il confronto raggiungeranno una saggezza che è superiore a quella di ogni singolo isolatamente preso, anche il migliore; in secondo luogo, proprio perché i molti sono tantidinumero,escluderlidal governo dello stato potrebbe essere pericoloso per la stabilità della costituzione; in terzo luogo, anche se i molti non possiedono l’arte del governo, ciò non vuol dire che essi non abbiano titolo per giudicare chi governa. Qui Aristotele propone uno dei più forti argomenti a favore della democrazia: è vero che coloro che partecipano a un banchetto non possiedono l’arte culinaria come la possiede il cuoco; ma, rispetto al cuoco stesso, essi sono migliori giudici del risultato che egli ha prodotto e che, dopotutto, a loro deve piacere. La casa, continua Aristotele, deve andar bene a coloro che ci abitano,nonall’architettoche l’ha costruita. Infine, è vero che gli esponenti della moltitudine singolarmente presi non sono particolarmente saggi, e quindi sembrerebbe sbagliato affidarloroilgoverno,machi governainquestocasononè mai un singolo, ma un’assemblea, un gruppo, un comitato (che quindi mette insieme la saggezza di più persone); e poi, il governo non è propriamente delle persone ma, sopra di esse, delleleggi. Certo, continua Aristotele, se in una città vi fosse un uomo indiscutibilmente superiore agli altri per saggezza e per virtù, allora sarebbe più saggio affidare a lui il governo e la costituzione migliore sarebbe la monarchia.Mapoichéquesto nonècheuncasolimite,sarà più opportuno affidarsi al governodialcuniodimolti. Se si esclude la monarchia restano dunque, tra le costituzioni rette, l’aristocraziaelapoliteia.Ed è quest’ultima, il cui nome significa appunto «costituzione», a essere quella cui Aristotele attribuisce il maggior valore. La politela è la forma retta della democrazia; e cioè quella costituzione che, essendosempreunaformadi governo dei molti, non ha però quelli che secondo Aristotele sono i difetti della democrazia come governo della moltitudine povera: e cioè il fatto che in essa il numero prevale sul merito e che si afferma una concezione della libertà per cui ognuno è padrone di fare ciò che più gli aggrada. La politeia,inrealtà,sebbenesia la forma retta della democrazia, è vista piuttosto da Aristotele come una commistionetrailgovernodi pochi e il governo di molti, che però inclina di più verso il momento democratico che non verso quello oligarchico. Per esempio, mentre la democrazia non pone alcun requisito di censo per la partecipazione alle assemblee, e l’oligarchia lo esigeelevato,lapoliteiaporrà si dei requisiti di censo, ma tali che consentano una larga partecipazione del ceto medio. Per quanto riguarda poi le cariche pubbliche, la democrazialeassegnaasorte e indipendentemente dal censo, l’aristocrazia solo ai ricchi e per elezione; la politeia accoglie dalla democrazia il principio dell’indipendenza dal censo, e dall’aristocrazia quello dell’elezione: le cariche sono aperteancheainonricchi,ma attraverso un meccanismo elettivo, che garantisca quell’elementodelmeritoche invece la forma degenerata e plebea della democrazia sacrifica. Il pregio della politela comunque sta per Aristotele,checomeabbiamo visto è sempre attento alla sostanza sociale delle forme politiche,nelfattocheinessa nongovernanonéiricchinéi nullatenenti, ma il ceto medio: lo stato migliore è quello ove tutti i cittadini possiedono sostanze sufficienti44edèancheilpiù stabile, perché grandi ricchezze e grandi povertà suscitano i rivolgimenti che portano in ultima istanza alla tirannide. La ricerca sui requisiti che deve possedere la polis per costituire l’orizzonte idealenelqualepossaattuarsi lavitabuonapergliindividui è sviluppata in modo particolaredaAristotelenegli ultimi libri della Politica, il VII e l’VIII. Ma questa ricerca suppone che prima si torni ad affrontare il problema, già messo a tema in particolare nell 'Etica Nicomachea, di quale sia la vita buona per l’uomo. Certamente è condizione della felicità che l’uomo possa disporre dei tre tipi fondamentali di beni: i beni esteriori, quelli del corpo e quelli dell’anima. Tuttavia mentreiprimiduetipidibeni debbono essere ricercati senza eccesso, e solo nella misuraincuisononecessari,i beni dell’anima non soffrono di questi limiti, e sono quelli che meglio assicurano il conseguimento della felicità. La felicità per l’uomo consiste essenzialmente, per Aristotele,nell’eserciziodelle virtù, sia delle virtù dianoetiche, che si esplicano nella vita teoretica, sia delle virtùetiche(comeadesempio la giustizia, il coraggio, la temperanza, l’amicizia), che siattuanonellavitapratica. Discutendo la questione se sia preferibile la vita politica e pratica o quella puramente teoretica (come sarebbe quella di chi, stranieroinunapolis-edera ilcasodellostessoAristotele ad Atene -, si dedica alla ricerca senza partecipare agli affari della città) Aristotele giungeallaconclusionechela vita felice è quella in cui l’esercizio della virtù si esplica in entrambe le direzioni, e che la città migliore è quella che consente appunto ai cittadini di estrinsecare in tutte le possibiliformelaloroattività secondovirtù. Il fine della polis, lo abbiamo visto, non è semplicementeilvivere,mail vivere bene, attraverso le varie attività che a questo scopoconcorrono;eperciòla polis deve possedere certi requisiti,comeperesempiole giuste dimensioni: affinché i cittadini possano partecipare allavitapolitica,eleggerecon consapevolezza e amministrare imparzialmente lagiustizia,lapolisnondeve essere così grande che essi non possano conoscersi tra loro. Il corpo dei cittadini, d’altraparte,lasciafuoridisé tutti quelli che non sono, per varie ragioni, idonei a esercitare virtuosamente l’attivitàpolitica:accantoalle donne e agli schiavi, non ne fanno parte neppure i lavoratori manuali, i contadini e i mercanti, cioè coloro che svolgono funzioni che li vincolano alla dimensione delle necessità vitali e che non dispongono deltempoliberopercoltivare sestessiaifinidiunavirtuosa partecipazione alla vita pubblica. Quindi la felicità, comeeserciziodelievirtùnel contestodellapolis,nonèun ideale che possa essere universalizzato; la libertà di alcuni presuppone che altri portino il carico della necessità. Affinché la polis costituisca un orizzonte nel qualedivienepossibilelavita buona per gli uomini, le attività che sono comandate dalla necessità devono essere subordinate a quelle attività chesonounfineinsestesse, come l’attività politica e quella teoretica. Compito dellapoliticaèappuntocreare lecondizioniperchéciòpossa accadere, e quindi mettere i cittadini nelle condizioni di poter realizzare, nella comunità,lalorofelicità. 4.Dalla«polis» alla«cosmopolis». Quando Aristotele ancora tesseva l’elogio della polis, questa forma politica era già entrata nella fase della sua decadenza. Con l’impero di Alessandro Magno e con le grandi monarchie che a esso faranno seguito, si affermano nuove forme politiche che, alla limitata comunità della polis, sostituiscono un orizzonte politico molto più universalistico, e all’interno delqualediventaimpensabile quella partecipazione diretta del cittadino, quel governare edesseregovernatiaturno,in cui Aristotele aveva visto la pienezzadellavitapolitica. Nell’età delle grandi monarchie e degli imperi, al senso di comunità dellapolis subentra un nuovo atteggiamento intellettuale, che per un verso è più universalistico, per altro verso più individualistico. Caduta la vecchia distinzione tra Greci e barbari, comincia ad affermarsi l’idea della eguaglianza fra tutti gli uomini, di una natura umana che è la stessa in ciascuno. Per altro verso, gli individui che non trovano più l’autorealizzazione nella politica si ripiegano verso l’interno, nella ricerca di forme di saggezza che li aiutino a bastare a se stessi, quali che siano le condizioni politicheincuiessisitrovino a vivere. Mentre il saggio epicureo coltiva l’ideale di vivere nascosto e non prende parte alla vita politica, lo stoicismo si nutre della prospettiva della cosmopolis, di una grande repubblica in cui popoli diversi possano vivere in pace rispettandosi paritariamente, perché si sottopongono tutti all’unica e universale legge della ragione. Il saggio stoico, quindi, a differenza di quello epicureo, non si ritrae dalla politica, ma anzi partecipa allavitapubblicaamenoche ciò non gli venga reso impossibile; l’orizzonte ideale della cosmopolis non gliimpediscedioffrireilsuo servizioallapatriaparticolare incuisitroviavivere. Il saggio stoico è dunque un uomo superiore alle passioni,fedeleaunrigoroso concetto della virtù e del dovere, capace di accettare serenamente il destino e persinolamorte.DallaGrecia questa morale si diffonde in ampi strati dell’élite intellettuale romana, da Seneca a Marco Aurelio, in cui si uniscono la figura dell’imperatore e quella del filosofo. Ma prima ancora l’influenza dello stoicismo, e più precisamente di quello che si definisce stoicismo «medio»,siritrovanell’opera diCicerone(106-43a.C.). L’apporto di maggior rilievo che Cicerone e la cultura romana danno allo sviluppodelpensieropolitico occidentale, e che qui vogliamo solo limitarci a ricordare, sta nella centralità che conferiscono al concetto di diritto. A fondamento dell’ordine giuridico, per Cicerone, vi è una legge di natura o legge della ragione, che è eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini e tutte le latitudini. Essa incarna la Giustizia ed è superiore a tutte le leggi umane positive. La res publica, ovvero la comunità politica, è un’unione tra uominichesiassocianoperla loro utilità comune vincolandosi sotto una certa legge cui danno il loro consenso. Conformemente all’orientamento giuridico che è così decisivo per la cultura romana, la comunità politica è vista come una societàdiuominicheètenuta insieme dal vincolo del diritto;èsolograziealdiritto, infatti,chesirealizzal’uscita dalla barbarie primordiale e l’accessoallacomunitàcivile. Il compito del magistrato, ossia di chi detiene il potere di governo, è quello di mettereinoperaildiritto:egli èlaleggecheparla,edènella leggechevivelarespublica. Si afferma in tal modo una nuova concezione che pensa lo stato e la politica a partire dallacentralitàdellecategorie giuridiche, e che sarà determinante per tutto lo sviluppodelpensieropolitico fino alla modernità contrattualista. 1Perlastoriadelconcetto cfr. la voce «Politilk» di v. SELLIN, IN Geschichtliche Grundbegriffe; trad. it. Politica, Marsilio, Venezia 1993. 2 VERNANT, Le origini delpensierogrecocit.,p.44. 3Ibid.)p.81, 4 Tucidide, La guerra del Peloponneso,5.84sgg.Suldialogo dei Melii e degli Ateniesi cfr. L. canfora, Tucidide e l’impero, Laterza,Roma-Bari1992. 5LetteraVII,324c-325b [trad. it. di A. Maddalena in PLATONE,Opere,Laterza,Bari 1966,vol.II]. 6Politico305e[trad.it. diA.Zadro,ibid.,vol.I], 7Gorgia517[trad.it.di F.Adorno,ibid.,vol.I], 8Gorgia469. 9 WOLIN, Politica e visionecit.,p.86. 10 Repubblica 520-521 [trad. it. di F. Sartori, in PLATONE, Opere cit., vol. II]; cfr.ancheLeggi4.715. 11 F. M. CORNFORD, Plato’s Commonwealth, in The Unwritten Philosophy andotherEssays,Cambridge University Press 1967, pp. 47-67,inparticolarep.55. 12Repubblica,339a. 13Ibid.,343d-e. 14Ibid.,359a-b. 15Ibid.,351-352. 16Ibid.,436-437. 17Ibid.,443-44418 Questo punto è ben sottolineato da CORNFORD, Plato ’s Commonwealth cit., p.62. 19Ibid.,370c. 20Ibid.,414b. 21Ibid.,548c. 22Ibid.,555d. 23Ibid.,557a. 24Ibid.,560e. 25Ibid.,564a. 26Ibid.,473c. 27 m. ISNARDI parente, II pensiero politico dì Platone, Laterza, Roma-Bari 1996,pp.32-35. 28 Etica Nicomachea, 1094I31-12 [trad. it. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1986]. 29Ibid.,I094b14-16. 30 Per questo aspetto di metodo, importantissimo per tutta la cosiddetta rinascita della filosofia pratica, si può vedere il volume di G. bien, La filosofia politica di Aristotele, trad. it. il Mulino, Bologna2000,pp.108sgg. 31 WOLIN, Politica e visionecit.,p.97. 32 Polìtica, i28obio [trad. it. di R. Laurenti in ARISTOTELE, Opere, vol. IX, Laterza,Bari1973]. 33Politica1253aI8-30. 34Ibid.,1263a40. 35Ibid.,1263b9; 36Ibid.,1267a14. 37Ibid.,1267b4. 38Ibid.,1267a38-39. 39Ibid.,1263b32. 40Ibid,1263b38. 41Ibid.,1280b32-33. 42Ibid1281a2. 43 Ibid., I278b301279a13. 44Ibid.,1296a1. III.Lacittàdell’uomoe lacittàdiDio I.Larivoluzione cristiana.Paoloe Agostino. Sebbene il messaggio cristiano sia un messaggio di redenzione il cui nucleo di significato si colloca in uno spaziodiversodaquellodella politica, l’intreccio tra cristianesimoepoliticaècosì determinante per la storia dell’Occidentechenonsipuò fare a meno di dedicare a questo tema qualche considerazione, per quanto assolutamente rapida e sommaria. Il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano è da vedersi innanzitutto nel fatto che in esso il tema dell’eguaglianza di tutti gli uomini, che già era stato posto dallo stoicismo, si trasvalutainquellodelvalore infinito di ogni singolo individuo,inquantocreatoda Dio. Il cristianesimo quindi travolge il quadro di una società divisa in signori e servi, padroni e schiavi, perchétuttequestedistinzioni nonhannopiùalcunvaloredi fronte a ciò che accomuna tuttigliuomini,ecioèalloro essere figli di Dio. Come è scrittonellaLetteraaiGalati di Paolo «non c’è più né Giudeo né greco, né schiavo nélibero,néuomonédonna, perché tutti siete una sola persona in Gesù Cristo». Come è evidente a chi legga ilDiscorsodellamontagna,il cristianesimo attua un completo rovesciamento dei valori che erano stati dominanti nella classicità: al posto della forza e della potenza predica la carità e la fratellanza, al posto della ricchezzalapovertà:sivolge con misericordia verso i più poveri, i più umili, persino i peccatori; riconosce il valore assoluto dell’uomo anche nell’umile, nel servo, nel lavoratore manuale, cioè anche là dove il pensiero classico aveva visto l’impossibilitàdirealizzarela virtùelariuscitaumana. La rivoluzione cristiana, però, sebbene destinata a dispiegare nel tempo enormi ricadute politiche, non si pensa come una rivoluzione politica e non vuole essere tale. Paolo, dopo aver tolto ognivaloredavantiaDioalla distinzionetraschiavieliberi, servi e padroni, non afferma che debba essere soppressa: esorta i primi a continuare a obbedire e i secondi a comandare in modo giusto e umano, nella consapevolezza che quei ruoli non sono più decisivi e appartengono a un mondo destinato a tramontare. Conformemente al detto evangelico che comanda di dare a Cesare quel che è di Cesare, i cristiani non aspirano a fondare un nuovo e diverso regno su questa terra: Cristo insegna che il suo regno non è di questo mondo. D’altra parte, una predicazione radicalecomequellacristiana non può non minare, in qualche misura, le basi di legittimità degli ordinamenti politici esistenti. Dare a Cesare quel che è di Cesare significa anche, infatti, non dargli di più di quel che propriamente gli appartiene. Il cristiano è tenuto a una doppia lealtà, a Cesare e a Dio, e non c’è dubbio che, ove insorga un conflitto di doveri, sia l’obbligo nei confronti del Signore quello chedeveprevalere. Anchedaquestopuntodi vista, la rottura rispetto al mondo classico della polis è completa: mentre quella esigeva dall’individuo una lealtàpiena,colcristianesimo è posta la distinzione tra ciò che è dovuto allo stato e ciò che invece (come per esempio la dimensione spirituale dell’individuo) non appartiene allo stato e può essere anche in tensione con esso. Con ciò, e sebbene attraverso mille vicende e conflitti, è aperta la possibilità per una articolazione di libertà più complessa e ricca di quella che non fosse possibile nella polis.Perunverso,quindi,il cristianesimononè,nonvuol essere una rivoluzione politica,eanziassicuralasua lealtà al potere politico esistente; per altro verso ne minainvariomodolebasidi legittimità. Perseguitato nell’impero Romano fino a che non si converti a esso l’imperatore Costantino, il cristianesimo da parte sua cominciò subito ainterrogarsisullalegittimità del potere politico, sul suo fondamento, sulla sua autonomiaeisuoilimiti;eil pensiero cristiano su questi temi dette luogo a soluzioni molto differenziate e anche divaricate. Per il Paolo della Lettera aiRomani,i cristiani devono obbedienza all’autorità politicaperchéquestaautorità proviene da Dio, e quindi opporsi a essa equivale a mettersicontrounordineche riceve da Dio la sua legittimità. Chi si comporta bene, continua Paolo, non deve temere nulla dall’autorità pubblica; chi invece fa il male, dev’essere giustamente punito dalla sua «spada» che, in questa funzione di amministratrice dellagiustizia,èesecutricedi un comando divino. Perciò l’obbedienza che i cristiani devono al potere pubblico nondeveesseresolomotivata dal timore della punizione, ma è anche un obbligo di coscienza, dato appunto il fondamento in ultima istanza divinodelpoterelegittimo. Quando però, dopo la conversione di Costantino, il cristianesimo acquista piena cittadinanza nell’impero, i problemi politici e dottrinali che la nuova religione deve affrontare divengono assai più articolati e complessi. Diventa necessario, infatti, stabilire i limiti e le competenze dei due poteri, quello spirituale e quello temporale, che devono coesistere;esiapreperciòun terreno di conflitti che segneràinmododeterminante tuttalastoriadellacristianità. Ilrapportotraleduecittà è al centro dell’opera di Agostino De civitate Dei. L’occasione da cui l’opera prende le mosse è la volontà di difendere il cristianesimo dall’accusa che i pagani gli avevanomossodopoilsacco di Roma operato da Alarico nel 410, l’accusa cioè di avere determinato la crisi dell’impero. A coloro che rimproveranoilCristianesimo di essere all’origine dei mali che hanno colpito Roma, Agostino ricorda che Roma aveva già subito rovesci e sventure anche prima che si diffondesse la nuova religione; ma soprattutto si interrogasuqualèilvalorein base al quale dobbiamo giudicare uno stato, e quindi su quale è il giudizio che si debbadaresuRoma. Seilcriteriopergiudicare uno stato dev’essere quello dellaveragiustizia,cioèdella giustizia cristiana, allora si deve sostenere, dice Agostino, che la Roma pagana, anche quella del tempo di Cicerone, non è stata una vera res publica, perchélemancavaappuntola vera giustizia, che consiste neldareaciascunociòchegli è dovuto e quindi anche nel dare a Dio ciò che gli spetta: fuori dalla giustizia cristiana, insomma,nonc’èunpopolo, un ordine politico, uno stato che sia realmente legittimo1: «dove non vi è una tale giustizia, non vi è neppure una unione di uomini associati dal consenso del diritto e dal bene comune»2. In quanto vi manchi la giustizia, sostiene Agostino nel libro IV della Città di Dio,iregnidegliuomininon si distinguono in realtà dalle associazioni dei briganti, che siunisconoperdepredareesi danno una norma per dividersi il bottino: «Bandita la giustizia, che altro sono i regni se non grandi associazioni di delinquenti ? Elebandedidelinquentiche altro sono se non piccoli regni? Si ha infatti un’associazione di uomini quando un capo comanda, è stato accettato un patto sociale e la divisione del bottino è regolata da certe convenzioni»3. Si deve anche ricordare, peraltro,chelanecessitàdello stato, nella visione di Agostino,nonèqualcosache risponda alla natura dell’uomo, ma rimanda piuttosto alla natura umana corrottaedisordinatachesiè determinata in seguito al peccato originale. Nel disegno divino, non c’era il dominio dell’uomo su altri uomini, ma solo quello dell’uomo sugli animali. Il dominio degli uomini sugli uomini,ilgovernocoercitivo, è reso necessario dalla corruzione del peccato originale e ne è anche il castigo4. Tuttavia, il giudizio di Agostino sullo stato non si arrestaallaaffermazioneche, dovenonvièveragiustizia,lì non vi è neppure né popolo né stato. Anche un ordine politico che non attinga alla giustizia ha infatti una sua funzione che, se non deve essere esaltata, deve essere però riconosciuta come significativa e positiva. Se si adotta un criterio meno intransigente per ragionare sulla legittimità di una associazione politica, si deve riconoscere che questa soddisfa il suo scopo quando riunisce una moltitudine di esseri ragionevoli uniti nel perseguire i beni che prediligono, e assicura loro un ordinamento di pace e di concordia. Ma,sesiassumonoquesti punti di partenza, allora si può affermare che i Romani furono effettivamente un popolo e una res publica, la cui funzione fondamentale, peraltro,fuquelladiunificare il mondo preparando il terreno per l’avvento della predicazione cristiana. Per Agostino dunque, come è stato scritto, «nell’ordine della vera storia della salvezza l’effettiva importanza della Roma imperiale consiste nel mantenimento della pace sulla terra come condizione perladiffusionedelVangelo. Imperiestatinonsonoopera del demonio e neppure sono inséunbenecheabbialasua giustificazione nella legge di natura.Laloroorigineènella iniquità dell’uomo, e il loro relativo significato poggia sulla conservazione della paceedellagiustizia»5. Quello che veramente importa nella storia dell’uomononèlagrandezza degli imperi, le cui vicende sonocomunquegovernatedal disegnodivino,malalottatra la civitas Dei e la civitas terrena. Le due città non si identificano rispettivamente con la Chiesa e con lo stato, ma designano piuttosto due opposti modi di vivere: nella Chiesa concretamente esistente (che pure della città celeste è la prefigurazione), noncisonosoltantoigiustie gli eletti, ma anche individui destinatiaesseredannati;elo stesso accade nella società politica. Le due città sono pertanto da intendersi come due società governate da principi contrapposti: la città terrenaèun’unionechenasce per soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione, la cupidigia; è governata dall’amore di sé spinto fino all’indifferenza nei confronti di Dio. La città di Dio, ovvero la città celeste, è invece governata dalla legge dell’amore, dell'umiltà, del sacrificio di sé. Essa è la società dei giusti che vivono questo mondo da stranieri, come un transito verso la redenzione. Il dualismo tra le due città, intrecciate e destinate a conviveredaltempodiCaino eAbele(chenesonoleprime incarnazioni) per tutta la duratadellastoriadell’uomo, terminerà soltanto nella fine escatologica, quando si instaureràlacittàdiDioecon essalaperfettaconcordia. E a partire da questo orizzontechesiprofilaanche il modo in cui, secondo Agostino, devono essere pensatiirapportitralaChiesa e lo stato cristiano, cioè quello stato che professa la vera fede. Ognuno dei due poteri ha la sua autonoma sfera d’azione: lo stato si occupa dell’uomo nella sua dimensione materiale e brandisce la spada che punisce; la Chiesa invece cura gli interessi spirituali. Sebbene le due sfere siano distinteeindipendenti,quella spirituale è superiore, anche perché la sua giurisdizione non è limitata nello spazio e nel tempo: mentre gli stati sono soggetti al tempo la Chiesa è al di sopra del tempo, perché si situa nella prospettiva escatologica della città celeste. Essa peraltro nonesitaaservirsidellostato come suo «braccio secolare» per reprimere l’eresia: la spada dell’impero deve accorrere in soccorso della fede col timore che ispira ai miscredenti. 2.Ilpoteredel ponteficeeilpotere politico. Il problema del reciproco rapporto tra i due poteri, quello sacro del pontefice e quello politico dei re o degli imperatori, attraversa tutta la storiadelMedioevocristiano, generando una lunga serie di interpretazioni e di conflitti. Per un verso i due poteri devono essere distinti in quanto sono diverse le funzioni che spettano a ciascuno di essi; ma il problema è se si debbano considerare entrambi i poteri come derivanti direttamente da Dio, e quindi posti su un piano di coordinazione e di cooperazione reciproca, fermo restando che ognuno è sovrano nella sua sfera di competenza; oppure se, partendo dal fatto che il poteredellaChiesasicolloca spiritualmente su un piano più alto, si debba porre una supremazia del pontefice, e fardiscenderedaluianchela legittimazione del potere politico. Il principio dell’indipendenza reciproca dei due poteri, ciascuno sovranonelsuoambito,passa perciò in secondo piano quanto più si sottolinea il rango superiore del potere pontificale, fino al punto di subordinare o assorbire il diritto dello stato nel diritto ecclesiastico. La dottrina del primato del potere papale su quello secolare verrà sostenuta dalla Chiesa con sempre maggiore energia nei secoli che seguono alla morte di Agostino. Essa in questo modosiavvianelladirezione di quello che è stato definito l’«agostinismo politico», e che però si allontana dalle originarie tesi agostiniane, giungendo a subordinare sempre più decisamente la politica ai fini sovrannaturali di cui l’autorità religiosa è custode. È questa la linea di pensiero che verrà difesa già dapapaGregorioMagnoalla fine del vi secolo, e successivamentedaIsidorodi Siviglia. Nell’800, con l’incoronazione di Carlo Magno in Roma da parte di papa Leone III, la restaurazione dell’idea imperiale nel Sacro Romano Impero avviene sotto l’egida della Chiesa di Roma, che le conferisce il crisma della legittimità; l’alleanza tra la Chiesa e gli imperatori, tuttavia, implica anche il rischio per la Chiesa di venir riassorbita dal potere politico e di cadere sotto la sua egemonia. Sfaldatosi nel periodo successivoallamortediCarlo Magno, l’impero verrà poi ricostruito da Ottone I re di Germania che nel 962 riceverà la corona imperiale da papa Giovanni XII; ma il nuovo imperatore, pur proclamandosi devoto figlio dellaChiesaedifensoredella cristianità,cercheràdimettere laChiesasottolasuatutelae rafforzerà il suo potere con i vescovi-conti da lui stesso nominati. L’accrescersi del potere imperiale, che con Ottone II pretenderà di esercitare il proprio controllo anche sul papato, porterà successivamenteallalottaper leinvestitureealconflittopiù asprotrapapatoeimpero.La battaglia per riconquistare l’autonomia della Chiesa e il suo esclusivo diritto di conferire le cariche religiose saràsostenutaconlamassima energia, nel conflitto che lo oppone all’imperatore Enrico IV di Germania, da IldebrandodiSoana,salitoal soglio pontificio come Papa Gregorio VII nel 1073. Poiché l’imperatore continuava ad arrogarsi la nomina dei vescovi, ed era arrivato al punto di far convocare un sinodo che dichiarasse la deposizione di Gregorio VII, il papa, dopo averloscomunicato,proclama lasuadeposizione,edichiara sciolti i sudditi dall’obbligo dell’obbedienza: l’imperatore Enrico IV sarà costretto all’umiliazionediimplorareil perdono del papa a Canossa. In quanto successore di Pietro, che ha ricevuto direttamente da Cristo il poteredisciogliereelegare,il papa, sostiene Gregorio VII, possiede l’unica vera autorità universale, alla quale chi detiene un’autorità di origine meramente umana come l’imperatore non può che essere sottoposto: come ogni cristiano, anch’egli è sottomesso al giudizio e alle sanzioni del pontefice romano, che deve insegnare ai sovrani della terra l’umiltà eabbatternel’orgoglio. In modo ancora più netto la superiorità del potere papale sarà riaffermata da InnocenzoIVcontroFederico II,conlacuisconfittacrollerà il sogno degli imperatori tedeschi di restaurare la monarchia universale. L’universalismo della Chiesa di Roma non dovrà più misurarsi con un altro universalismo, quello imperiale, ma con la nuova realtà di organismi politici più limitati e più compatti comelecittàeiregni. 3.Tommaso d’Aquino, Alla metà del xiii secolo, con la diffusione delle traduzioni latine delle opere di Aristotele, il pensiero cristiano dà luogo a un grandioso rinnovamento, segnato dalla figura imponente di Tommaso d’Aquino. La riscoperta di Aristotele apre la via a un nuovo modo di pensare lo spazio della politica, nella positività e nella autonomia delle sue ragioni umane. Mentre in Agostino la riflessione sulla politica partiva da una concezione pessimistica della natura umana,dall’ideacheilpotere politico fosse reso necessario dalla corruzione di questa natura attraverso il peccato originale, e quindi da una netta antitesi tra la dimensione della natura e quella della grazia, in Tommaso al posto di questa antitesi subentra, anche in seguito alla ricezione del pensiero politico di Aristotele, una visione improntata non alla frattura ma alla prosecuzione e alla continuità: la natura e la realizzazionedelbeneterreno si superano e si compiono nella dimensione della grazia edellarealizzazionedelbene spirituale. E in questo orizzonte la politica costituisce appunto una sfera che, sebbene sia collocata su un piano puramente umano, halasuaprecisaautonomiae il suo positivo spazio in quanto attraverso di essa si attuailbenedell’uomo. La legge che sta al di sopra di tutte e che governa l’intero universo è per Tommasolaleggeeternache coincide con la sovranità di Dio su tutte le creature. Questa legge, che è appunto la volontà del monarca supremo, coincide con la ragione divina e ordina tutto invistadelmeglio.Poichéla legge eterna governa tutte le cose, anche le creature ragionevoli (cioè capaci di provvedere per sé e per gli altri) vi sono sottoposte, ma in una maniera particolare: il modoincuigliuominidotati di ragione partecipano della legge eterna è la legge naturale. La legge è una regola delle azioni che obbligaacompierecertecose evietadifarnealtre;lalegge naturale è nei suoi precetti essenziali nota a tutti gli uomini,validainognitempo, e le sue prescrizioni sono finalizzate al bene comune. La legge naturale prescrive quindi tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo, mentre proibisce ciò che va contro questo fine. Essa comandaquindidiagireperil bene, e perciò è fondamentalmenteinaccordo con l’ordine naturale delle inclinazioni umane, che guidanol’uomoversociòche è bene per lui. Essa quindi prescrive di fare il bene e di evitareilmale;dinonfaredel male a coloro con i quali viviamo;ditendereaunavita in cui si realizzi la natura razionaledell’uomo. Poiché però la natura umana può anche deviare da quelli che sono i suoi fini positivi, e la ragione può essere alterata dalle passioni, dalle cattive abitudini o dalla malvagità naturale, è necessario che gli uomini siano educati alla disciplina della virtù, e siano puniti qualora se ne allontanino: questa è la funzione delle leggi umane, che assicurano che tra gli uomini regnino la pace e siano bandite le ingiurie reciproche, grazie al timore del castigo che queste stesse leggi comminano ai trasgressori. Le leggi umane, quindi, hanno il loro fondamento razionale nella legge di natura, che non devono mai contraddire:unaleggeumana ingiusta,cioèchevacontrola legge di natura, non può essere neppure chiamata legge. Derivando dalle leggi di natura, però, le leggi umane le articolano e le specificano: dai principi generali della legge di natura discendono le proibizioni fondamentali (come per esempio non ammazzare); mentre in modo diverso derivanodallaleggedinatura tutte le specificazioni riguardantiimodi,itempi,la naturadellepunizioniecc.La giustizia si definisce come la volontà costante di dare a ciascuno il suo, mentre il dirittovienedistintoindiritto naturale e diritto positivo: naturale è quello che deriva dallanaturastessadellacosa, mentre positivo è quello che deriva o da un accordo privato, o da un patto pubblico,odaciòcheèstato stabilitodalprincipe. Seguendol’impiantodella Politica di Aristotele, Tommaso considera il vivere insocietàcomeconformealla natura dell’uomo: l’uomo fa parte della famiglia e questa della città, e il bene del singolo perciò non è un fine ultimo, ma dev’essere ordinato al bene comune. Il potere politico, cioè quello che si esercita non sugli schiavi o sui servi ma sui liberi, è una necessità della convivenza umana, che non dipendedalfattochelanatura si sia corrotta attraverso il peccato originale. Anche nello stato di innocenza ci sarebbe bisogno del potere politico, perché gli uomini tendono per loro natura a vivere in società e la vita in società non sarebbe possibile senonvifosseunpotereche regolal’azionedeisingoliela orientaversoilbenecomune. Come il corpo dell’uomo ha bisogno di un’unità direttiva che comanda all’agire e lo orienta verso il bene, così la moltitudine degli uomini ha bisogno di una direzione per non disgregarsi caoticamente epervenireorientataversoil bene comune. Il bene comune, peraltro, non è in conflitto con il bene del singolo perché, essendo questi per sua natura un membrodellafamigliaedella società, realizza il suo bene solo nel contesto di un bene piùvasto.Laleggedev’essere dunque finalizzata non al bene di un singolo, ma all’utilità generale dei cittadiniedev’essereconsona alle circostanze e alle consuetudini nelle quali si deve applicare. Inoltre la leggepoliticanondeveenon puòpuniretuttiiviziàiquali si abbandonano gli uomini non virtuosi, e che sono condannati dalla legge morale:essadevepuniresolo i vizi più gravi e quelli attraversoiqualigliindividui nuoccionoaglialtri,comeper esempio l’omicidio, il furto ecc. Se è vero che, come abbiamo detto sopra, una legge ingiusta non è una legge, fino a che punto gli uominisonotenutiaobbedire a essa, e fino che punto le possono opporre una giusta resistenza ? Per rispondere a questa domanda, secondo Tommaso, bisogna distinguere tra diversi tipi di ingiustizia. Se un legge ingiusta comanda qualcosa contro Dio, per esempio imponendo un culto idolatrico, allora gli uomini non devono in nessun caso obbedire a essa, perché il comandodiDioèsuperiorea quello del principe e vincola l’uomo anche contro di esso. Diverso è il caso delle leggi inique che sono tali perché attentanoaquelbenecomune chelaleggeavrebbeinveceil compito di promuovere. Questeleggicontrariealbene umano possono essere ingiuste in diversi sensi: o perché mirano solo a soddisfareilbenedelprincipe e non quello della comunità, o perché escono dai limiti di competenza di chi le emana, o ancora perché impongono oneri ai sudditi in modo iniquo. Queste leggi (che si potrebbero definire come delle vere e proprie «violenze»), in quanto ingiuste, non obbligano nel foro interno ovvero in coscienza; però, aggiunge Tommaso,inquantoessenon ci impongono di violare i comandi divini, può essere consigliabile rispettarle per evitarescandaliodisordine. Il governo tirannico dà luogo a un caso tipico di legge ingiusta, perché (e anche qui Tommaso segue Aristotele) è quello dove la legge non è indirizzata al bene comune ma al solo vantaggio del despota. Sebbene Tommaso condanni ingeneralelaribellionecome un peccato, non considera come atto sedizioso la resistenza opposta al tiranno. Rovesciare un governo tirannico, perciò, è lecito e non configura atto di ribellione, a meno che i disordini causati da questo rivolgimento non determinino, per la moltitudine, mali peggiori di quellicheessasubivasottoil potere tirannico. Secondo Tommasononèinvecelecito, per un privato cittadino, uccidereiltiranno. Per quanto riguarda la questione di quale sia la migliore forma di governo, ancheinessaTommasosegue l’orientamento della Politica di Aristotele: nella Summa Theologica l’Aquinate sostiene che la forma migliore di regime politico non è né la monarchia, né l’aristocrazia né la democrazia, ma una forma mista, che riassuma in sé i vantaggi di tutte e tre le forme «pure»: il potere di comando dev’essere detenuto da un’autorità unica (monarchia); questa deve essereaffiancatadaunampio corpo di cittadini qualificati (come vuole l’orientamento aristocratico);conformemente invece al principio democratico, questi governanti dotati di idonee qualità devono essere scelti nell’ambito del popolo ed eletti dal popolo stesso. Il pensierodiTommasosembra però assumere una curvatura diversa nel De regno (noto anche come De regimine principium,), un’opera indirizzata al monarca di Cipro. Qui, Tommaso sostienecheilgovernodiuno solo è preferibile al governo di molti, adducendo numerose ragioni in proposito. Verso la fine del xiiisecolo,quandoTommaso scriveva il suo trattato, si stavaappuntoconsumandola forma politica imperiale e si stavano cominciando ad affermareiregniparticolari. Nelle sue tanto ampie riflessioni, infine, Tommaso non manca di discutere il punto che, come abbiamo accennato, era stato al centro per secoli di molte lotte e conflitti: e cioè quello del rapporto tra potere politico e potere religioso. Tommaso ribadisce che il potere spirituale, cioè quello del pontefice, è superiore al poteresecolare;quest’ultimo, però, è soggetto alle intromissioni del primo non nellemateriecheriguardanoi suoi scopi precipui, e cioè la felicità terrestre, ma solo in ciò che tocca il fine della beatitudine eterna. Questo pensiero viene ribadito e chiaritonelDeregno:comeil fine terreno è subordinato al fine soprannaturale, così il potereterrenoèsubordinatoa quello sacerdotale (valeva l’inversonellasocietàpagana dove, essendo fine supremo l’acquisto dei beni temporali, ilpoteredelsacerdotedoveva essere subordinato a quello del re). Il re dunque deve presiedere a tutte le funzioni umane e assicurare l’attuazione della vita buona suquestaterra:assicurandola pace,chetuttioperinobene,e che ci sia sufficiente abbondanza delle cose che sono necessarie per vivere bene. Ma la vita buona su questa terra è poi nel suo insiemeordinataaunfinepiù alto, e cioè quello della beatitudineceleste,lacuicura è nelle mani non del re ma dell’autoritàreligiosa. Bisognerà aspettare la Monarchia di Dante, agli inizi del xiv secolo, perché questa subordinazione venga messa radicalmente in discussione. Riproponendo il tema dell’impero come unica garanziadellagiustiziaedella pace universale Dante (il cui pensiero sembra a questo proposito colorarsi di venature averroiste) sosterrà al tempo stesso la netta indipendenza dei due fini ai quali la vita umana è ordinata: quello della beatitudineterrena,alqualesi perviene attraverso gli insegnamentifilosofici,eche è di competenza dell’imperatore;equellodella beatitudineceleste,alqualesi perviene attraverso le verità rivelate e gli insegna-menti spirituali, e che è di competenzadelpontefice.Per Dante non vi è dunque subordinazione del potere secolare rispetto a quello Spirituale; e il primo, non meno del secondo, riceve la sua investitura direttamente daDio,senzaintermediari.È chiaro che il potere politico dovrà, a quello religioso, rispettoedevozione(comesi legge nella conclusione della Monarchia) senza però che ciòconfigurialcunaformadi vera e propria subordinazione. 4.Larotturadella «respublicachristiana» elaRiforma protestante. La crisi dei due universalismi concorrenti e complementari, quello della Chiesaequellodell’impero,è già ampiamente aperta quando Dante ne traccia, nella Monarchia, i reciproci confini.Fallisce,agliinizidel Trecento, il tentativo teocratico di papa Bonifacio VIII di ricondurre all’obbedienzàilrediFrancia Filippo il Bello, impegnato a rafforzare il potere centrale dellamonarchiaaidannidella nobiltà e del clero; e l’impresa imperiale di Enrico VII, che scende con le sue truppeinItalianel1310,eal quale Dante guarda come a una speranza, naufraga tre anni dopo con la morte di Enricostesso. Nel 1324 Marsilio da Padova, schierato a favore dell’imperatore Ludovico il Bavaro e contro la Chiesa romana che lo aveva scomunicato, pubblica un’opera, il Defensor Pacis, nella quale le pretese ecclesiastichediun’egemonia sul potere politico vengono respinte con violenta forza polemica: la legge che deve governarelacittàdeveessere il frutto della volontà dei cittadini o della loro parte prevalente, in senso sia quantitativo che qualitativo. L’autorità politica non può ammettereunsuperioresopra di sé, e perciò la tesi della plenitudo potestatis (cioè della pienezza di potere) sostenuta da Bonifacio VIII deve essere respinta: questa moltiplicazione dei poteri e delle possibili occasioni di conflitto, anzi, è incompatibile con quello che è lo scopo dell’unione politica, e cioè assicurare la paceelaconcordia.Ancheil francescano Guglielmo di Ockamsibatte,intesticome il Dialogus de potestate papae et imperatoris, del 1342, contro la tesi della pienezza del potere papale anche nelle cose temporali; e difendelalibertàdeicristiani dalle pretese del pontefice di dettare legge anche nel campo politico, che determinerebbero la peggiore delletirannie. Nei primi decenni del Trecento la crisi dei due grandi universalismi medievali è sempre più evidente: a essa concorrono unamolteplicitàdifattoriche imprimono alla storia dell’Occidente una svolta di enorme rilievo, la svolta verso la modernità. Per quanto riguarda la Chiesa, questaèattraversata,apartire dal trasferimento della sede papale ad Avignone sotto il diretto controllo di Filippo il Bello, da una sequenza di gravissime crisi: dalla cattivitàavignonesealgrande scisma d’Occidente (13781417), con due papi, e infine addiritturatre,acontendersiil soglio pontificio. Il processo che porterà alla nascita dei grandi stati nazionali (a cominciare dalla Francia e dall’Inghilterra) spinge le monarchie a voler esercitare un potere diretto sulle chiese nazionali, che devono essere rese indipendenti da Roma. Mentre la corruzione della chiesa romana, sempre più assorbita nei suoi interessi temporali, innesca i primi movimenti di critica radicale e di riforma, che combinano istanze di rinnovamento spiritualeconspintenazionali (è il caso per esempio di WyclifinInghilterraediHus in Boemia). Intanto, ai primi decenni del Quattrocento, il movimento conciliare (con i concili di Costanza e di Basilea) afferma una visione collegiale della Chiesa dove hanno più peso i rappresentanti delle nascenti nazioni e si mette in discussione l’autorità del papa. ConlaProtestadiLutero, che nel 1517 affigge sulla porta del castello di Wittenberg 95 tesi contro il commercio delle indulgenze (uno dei molti mali che affliggevano la Chiesa di Roma,echedapiùpartieda tempovenivanodenunciati)si rompe l’unità del cristianesimo europeo. Nel 1520 Martin Lutero, un monacoagostiniano,bruciala bolla di scomunica che era stataemessacontrodiluidal papaLeoneX,edàl’avvioa quel processo di riforma religiosa che in breve tempo farà proseliti in molti Paesi d’Europa. La riforma distrugge la struttura gerarchica della Chiesa che era stata una delle grandi istituzioniportantidelmondo medioevale: per Lutero, infatti, non c’è più un ruolo specificodelsacerdoziocome intermediario tra Dio e i fedeli; egli sostiene la dottrina del sacerdozio universaledeicredenti;riduce il numero dei sacramenti riconoscendone soltanto tre (l’eucaristia, il battesimo e la penitenza, che hanno il loro fondamento nella sacra Scrittura,mentreglialtrisono stati istituiti dall’autorità ecclesiastica); afferma il principio del «libero esame», per cui ogni credente può rapportarsi direttamente al testo sacro, e interpretarlo, senza la mediazione dell’autorità ecclesiastica; a questo fine, traduce in tedesco la Bibbia e ne sollecita la diffusione tra i credenti in modo che la possanoleggeredirettamente. Alla negazione dell’autorità ecclesiastica gerarchicamente strutturata corrisponde però, in Lutero, unaaltrettantoforteinsistenza sul dovere dell’obbedienza alleautoritàpolitichevigenti, che lo porterà ad appoggiare interminidrasticieviolentila repressione da parte dei principi tedeschi della rivolta dei contadini, che si ispiravanoalletesiradicalidi ThomasMuntzer.Ricercando l’appoggio dei principi nella sualottacontroRoma,Lutero tesse la più dura apologia dell’autorità politica, la cui repressione del male e della disobbedienza dev’essere spietataesenzalimiti. A partire dal suo peculiareorizzonteteologico, caratterizzato da una netta scissione e da una mancanza di mediazione tra l’ordine della natura e quello della grazia, Lutero giunge a una visione del mondo politico dove la separazione agostiniana tra le due città, quellaterrenaequellaceleste, è ulteriormente radicalizzata andando molto al di là di quanto aveva sostenuto l’autoredellaCittàdiDio.Le antitesi proprie dell’insegnamento paolino e agostiniano (legge e grazia, carne e spirito, fede e opere, libertà e servitù) vengono da Lutero ulteriormente drammatizzatenellascissione tra il regno terrestre e quello spirituale.IlregnodiDioèun regno di grazia e di misericordia, di una grazia che l’uomo non può guadagnarsi con le opere, perché è un puro e gratuito donodivino.Ilregnoterreno, invece, è irrimediabilmente segnato dalla perversità e dal disordine della natura umana cheèconseguenteallacaduta nel peccato originale. Contrariamente a quanto accadeva in Tommaso, dove la felicità terrena, con la sua positività, era inserita in un orizzonte finalistico indirizzatoversolavettadella beatitudineceleste,perLutero nonvièmediazionetraidue regni, e quello terreno, spogliato di ogni intrinseco valore e positività, si oppone polarmente a quello della grazia e della misericordia: esso «è un regno d’ira e severità, perché non sa che punire, vietare, giudicare e condannare, per tenere a frenoimalvagieproteggerei buoni»6. Come è stato scritto, perciò, il potere, in Lutero «non si esercita più nei confronti di un popolo organicamenteenaturalmente riunitonellacomunitàpolitica -secondounclassicodisegno ancora presente in Marsilio ma già abbandonato da Machiavelli -, né è più legittimato dal suo ruolo di garante e interprete di un comuneordinedifiniaiquali ciascuno e tutti sono legati. Esso, al contrario, nasce per raffrenare una moltitudine d’individualità singolarmente senzienti e desideranti e, proprio perché tali, tra loro ferocemente divise e contrastanti. Un potere politico nato da questi presupposti si deve perciò manifestare nel modo più decisoeinattaccabile»7.Maè proprio la radicale scissione luterana tra i due regni, che consegna quello dell’uomo a una pura malvagità e immanenza, priva di una regola finalistica e di una intrinsecapositività,chepone alcuni dei presupposti culturali per la modernità politica come sarà pensata a partire da Hobbes, nel suo orizzonte di pessimismo antropologico e di radicale individualismo. Così come sarà a partire dall’esperienza delle guerre di religione, che insanguineranno l’Europa in seguito alla Riforma, che verrà faticosamente affermandosi la tesi della tolleranzaedellaconvivenza, in uno stesso stato laico, di dottrinediverse. 1 agostino,De Civitate Dei, 19.21, trad. it. Edizioni Paoline, Roma 1963, pp. 1068sgg. 2Ibid.,19.23,p.1078. 3Ibid.,4.4,p.178. 4Ibid.,19.15,pp.1060- 62. 5K.Lowith,Significato e fine della storia (1949), trad.it.EdizionidiComunità, Milano1972,p.194. 6 M. lutero, Scritti politici,Utet,Torino1986,p. 510. 7 G. cotta, La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la polìtica della modernità, il Mulino, Bologna2002,p.134. IV.Ilparadigmadel contratto I.Ilmodello contrattualista. Al modello classico che pensa l’ordine politico come finalizzato al vivere bene nella comunità, la filosofia politica della modernità contrappone il modello contrattualistico, che, nelle sue differenti versioni, domina le vicende del pensieropoliticotraHobbese Kant salvo poi riproporsi, in unanuovadeclinazione,nella filosofia politica del tardo xx secolo. La forza del modello contrattualisticononstacerto nella pretesa di ricostruire il processo storico-genetico dellasocietàpoliticaapartire da individui originariamente pensati come isolati. Se lo si intendesse così, il modello contrattualista andrebbe effettivamenteincontroatutte le obiezioni, molto facili e banali,cheneltempoglisono state mosse, a cominciare da quella,inognisensodecisiva, inforzadellaqualelapretesa di separare l’umanità dalla socialità, e di porre un uomo isolato che sia già uomo prima ancora di instaurare il legame sociale con i propri simili, non è altro che una ridicola «robinsonata», come avrebbe detto ironicamente Marx alludendo al Robinson CrusoediDefoe. L’interesse del modello contrattualista non è certo da vedersi,dunque,nelfattoche esso fornisce uno schema lungo il quale ricostruire la genesi dello stato politico; esso risiede invece in una problematica completamente diversa, che lo strumento contrattualista sembra particolarmente adatto ad affrontare: e cioè la problematica della legittimità dell’ordine statale ovvero del carattere vincolante dell’obbligo politico che a esso ci lega. Il modello contrattualista, perciò, è essenzialmenteunmetodoper dare una risposta razionale alla domanda che in un certo senso fa tutt’uno con il pensieropoliticoecioè:come deve essere organizzato uno stato legittimo, cui tutti i cittadinisianotenutiadareil loro assenso. Se si ragiona utilizzando lo schema del contratto, la via per rispondere a questa domanda viene aperta e tracciata in modo straordinariamente limpido e interessante: l’ordine politico legittimo, si dirà, è quello che deciderebbero di darsi individui che, come in un esperimento mentale, non vivessero già in uno stato costituito, ma si trovassero invece a vivere in una condizione prepolitica e prestatale,prividirapportidi subordinazione reciproca e quindi in una situazione di sostanziale eguaglianza e libertà. Sta in questo, e non certoaltrove,ilgrandevalore rivoluzionario dell’idea contrattualistaeilsuonucleo profondo di senso: l’ordine politicolegittimoèquelloche meriterebbe il consenso razionaledapartediindividui liberi ed eguali, che si trovassero a scegliere come organizzare la loro convivenza partendo da una condizione prepolitica ovvero, come diranno i contrattualisti, da uno «stato dinatura». L’idea contrattualistica, insomma, non esprime una verità storica ma una questione controfattuale; non risponde alla domanda come sono andate le cose, ma a quella su come dovrebbe essere organizzato un ordine politico legittimo. Gli argomenti contrattualisti quindi, nelle loro differenti versioni, mostreranno innanzitutto che, se gli individui si trovassero a vivere in una condizione prepolitica, essi sceglierebberodidarvitaallo stato,chequindièlegittimato in quanto è una istituzione che, qualora non si fosse già data, gli individui avrebbero scelto di darsi; in secondo luogo, obiettivo del pensiero contrattualista sarà quello di mostrare, partendo dalla ipoteticasituazioneinizialedi scelta, quali istituzioni gli individui si sarebbero dati; perché appunto legittime, nella prospettiva contrattualista, sono solo quelle istituzioni cui gli individui in situazione inizialeavrebberodatoilloro assenso. Nella tradizione contrattualistica, però, incontriamo molti modi, profondamentediversigliuni dagli altri, di rappresentarsi quelle che dovrebbero essere le caratteristiche strutturali di unordinepoliticolegittimo:e le risposte sono diverse, tra l’altro,perchécambiailmodo in cui viene prospettata la situazione iniziale, mutano le caratteristiche che vengono attribuite agli attori che ne sonoprotagonisti,cosìcomei criteridirazionalitàsecondoi quali essi operano le loro scelte. Val la pena di soffermarsi su quello che, senza troppe forzature, possiamo chiamare il paradigma contrattualista perché esso può essere considerato il paradigma concettuale più forte e consistente cui abbia dato luogo la filosofia politica normativa,cheinfattiaessoè in qualche modo tornata anche dopo un periodo di lunga eclisse. Accingiamoci perciò ora a ripercorrerne le figure e le mutazioni più rilevanti. 2.Lacesuradi ThomasHobbes. Ciò che consente di individuare in Thomas Hobbes (1588-1673) il vero padre della filosofia politica moderna è innanzitutto la chiarezza con la quale egli prende le distanze dal modo classicodipensarelasocialità elapoliticitàdell’uomo,così come era stato tramandato nella Politica di Aristotele. Mentre nella visione aristotelica l’assestarsi degli uomini in rapporti di convivenza gerarchicamente ordinata può essere visto come un processo naturale e spontaneo, che non ha nulla di particolarmente «improbabile» e non richiede dunquesofisticatespiegazioni che ne rendano conto, nella visione hobbesiana vale esattamentel’opposto.Perun verso non ci sono ragioni «naturali»inforzadellequali alcuni uomini siano, per così dire, destinati a comandare e altri a obbedire. Hobbes sa bene, e lo ricorda nel Leviatano1cheAristotele,nel primolibrodellasuaPolitica, ha sostenuto che vi sono uominipiùsaggi,predestinati dalla natura a comandare, e altri meno dotati, e fatti per ubbidire. Ma questa presunzione di una originaria e naturale ineguaglianza di capacità che, se si desse, consentirebbe agli uomini di assestarsi in rapporti naturali e ordinati di comando e obbedienza, è secondo Hobbes, come ora vedremo, smentita dalla ragione e dai fatti. A smentire il carattere artificiale e «improbabile» dell’ordine politico non vale neppure il richiamo, anch’esso aristotelico, a quegli animali politici che, come le api e le formiche, vivono naturalmente in società senza aver in alcun modo istituito l’ordine al qualesottostanno.Gliuomini, infatti,nonsonoassimilabilia questi ordinati animali, per molte ragioni tra cui quelle che gli uomini sono costantemente in competizione tra loro, che la soddisfazione che più li gratifica è quella di essere superiori agli altri, che sono dotati di ragione e quindi la usanopercriticareilmodoin cui vengono condotti gli affaricomuni,chepossiedono l’arte della parola grazie alla quale possono far apparire buono ciò che è cattivo e cattivociòcheèbuono2. La destrutturazione della socialità naturale (e naturalmente gerarchica) di Aristotele non è quindi nient’altro che la implicazionecriticadelledue tesi principali che Hobbes in positivo sostiene, e che sono tra loro strettamente connesse, e cioè la tesi della naturale eguaglianza tra gli uomini(cheimpediscelorodi assestarsi spontaneamente in rapporti gerarchici) e quella della loro conflittualità (che impedisce loro di convivere pacificamente a meno che non si siano dati delle «artificiali» istituzioni coercitive, che questa conflittualità tengano a freno). Hobbes (che avrebbe potuto anche addossare ai sostenitori dell’ineguaglianza il difficile onere della prova) dimostra con argomenti semplici ma efficaci che gli uomini sono eguali «per natura», e che quindi è implausibile e illegittimo spacciare come naturale qualsiasi rapporto gerarchico tra di essi: quanto alla forza fisica, gli uomini possono anchedifferire,masitrattadi differenze non dirimenti perché, infine, anche il più debole ha abbastanza forza per uccidere, magari con l’astuziaoatradimento,ilpiù forte. Quanto alle facoltà mentali, la «prudenza» si acquistaconl’esperienza,che ovviamente è alla portata di tutti; e inoltre i sostenitori dell’ineguaglianza dovrebbero spiega re perché, se gli uomini sono ineguali quanto alle facoltà dello spirito, accade che ognuno pensi dentro di sé di essere più saggio degli altri: «non c’èsegnopiùgrandediegual distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte»3. Gli uomini, dunque, sono e si pensano eguali; nel senso che anche le diseguaglianze che pur sussistono non alterano questa fondamentale parità, e quindi non potrebbero mai giustificare la naturale sottomissione degli uni agli altri. Ma sono anche, per Hobbes, altamente conflittuali; anche se individuare con chiarezza i motivi profondi del conflitto, al di là della letteralità dei testi in cui Hobbes li espone, non è proprio cosa semplice: quasi che il nostro, per mostrarel'implausibilitàdiun ordine socio-politico naturalisticamente e aristotelicamente pensato, avesse accumulato ragioni di conflittualitàanchealdilàdi quello che una tessitura di pensiero coerente consenta. Le linee di ragionamento, comunque, sono fondamentalmente due. In primo luogo, individui che si trovassero in uno stato di natura entrerebbero in conflitto per diffidenza: non potendo nessuno essere certo di non venir aggredito e ucciso dagli altri, ciascuno dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere in anticipo onde evitare di fare la stessa fine. In secondo luogo, gli uomini entrano in conflitto perché animati da quella passione che Hobbes chiama la gloria: la maggior soddisfazione, il piacere più ambito,gliuominiloprovano nel compararsi con gli altri e nel vedere affermata e riconosciuta la propria superiorità; ma se ognuno vuol esser superiore, il confronto non potrà che trasformarsiinconflitto. Ma c’è di più. Alle riflessioni fin qui ricordate Hobbes aggiunge anche una teoria della necessità del conflitto nello stato di natura di taglio più propriamente giuridico: se si ammette che ogni uomo ha per natura dirittoadautoconservarsi,ea usare tutti i mezzi atti a tale scopo, allora ne consegue che,nonessendocinellostato di natura una legge comune condivisa, ognuno è il solo giudice di ciò che è necessario alla propria autoconservazione. Si può direperciòche,finchénonvi è una legge comune, ognuno ha diritto a tutto; ma, poiché tutti hanno diritto a tutto, questi diritti entrano necessariamente in conflitto, e la conseguenza è che gli uomini si ritrovano dunque a vivere in uno stato di guerra dove neanche il più piccolo dirittoègarantito. In ultima istanza, però, si può forse affermare che la radice più profonda del conflitto, al di là di tutte le deduzioni presentate da Hobbes, sta proprio nella fondamentale eguaglianza tra gli uomini che della teoria hobbesiana costituisce il saldo e moderno assunto di partenza: poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà «naturalmente» di sottomettersi a un altro. E quindi il conflitto potrà nascere in ogni momento, finché gli individui non avranno trovato il modo di istituireunpoterecomune. Lo stato prepolitico, o stato di natura, caratterizzato dalla mancanza di un potere comune, non può essere pertanto che uno stato di guerra di tutti contro tutti. In quantoconflittuale,lostatodi naturaèunostatodipericolo, insicurezzaemortedacuigli individui non possono non desiderare di uscire: come diceHobbes,inunadellesue note e più eloquenti espressioni, nello stato di natura, «la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutaleebreve»4. Lo stato prepolitico significa dunque guerra, insicurezzaemorte.Epoiché ogni uomo desidera prima di ognialtracosaconservarsiin vita, la ragione gli prescrive di cercare la pace e di conseguirla. Le regole di condotta che, se venissero seguite da tutti gli uomini, assicurerebbero loro la pacifica convivenza sono chiamatedaHobbes«leggidi natura». Una legge di natura, infatti, è «una regola generale, scoperta dalla ragione,chevietaadunuomo di fare ciò che è lesivo della suavita»5: le leggi di natura, perciò, comandano agli uomini di astenersi da tutti quei comportamenti che, costituendo un torto nei confronti degli altri, produrrebbero la guerra e dunque metterebbero a repentaglio l’autoconservazione.Dabuon teorico della ragione calcolante,Hobbesritieneche i comportamenti giusti siano anche quelli che per gli uomini sono convenienti, poiché costituiscono appunto la condizione di una pacifica convivenza. Le leggi di natura, dunque, sono i precetti di una morale razionale della reciprocità che, se fosse seguita da tutti gliuomini,consentirebbeloro diviverebeneeinpace.Esse ci impongono di trattare gli altri come vorremmo essere trattatinoi,dirispettareipatti e di astenerci da ogni specie di torto che potremmo voler commettere ai danni degli altri. In quanto ci ordina di cercare la pace, la legge di natura ci impone innanzitutto di rinunciare al nostro diritto sopra tutte le cose, e di conservare solo tanta libertà nei confronti degli altri quanta ne concediamo agli altri nei confronti di noi stessi. Ma il problema è che, nello stato di natura, e cioè finché manca un potere comune, le leggi di natura, cioè i comandi di questa morale razionale, non sono per gli uomini veramente vincolanti. In quella situazione, infatti, nessuno può avere garanzie del fatto che gli altri non gli faranno torto, non lo aggrediranno, non gli sottrarranno le sue cose,nonlouccideranno,non gli mancheranno di parola. E proprioperquesto,ancheseè assolutamente morale e ben disposto verso gli altri, nessun uomo può razionalmente attenersi a ciò che la legge di natura gli prescriverebbe. Essa, per dirloconlaclassicalocuzione latina, mi obbliga soltanto in foro interno, non in foro externo. Anzi, per pure ragionidirazionaleprudenza, iodevoesseresemprepronto adattaccareperprimo,anon mantenere la parola data, a fare agli altri quei torti che devotemeredaloro.Questoè l’unico comportamento razionale in una situazione dove non c’è alcun ordine pubblico, e dove quindi ognuno deve pensare in primo luogo a salvaguardare sestesso. Perliberarsidallestrettoie di questa situazione, gli individui hanno davanti a sé una sola via d’uscita: stringere tra di loro un patto in forza del quale ognuno di loro rinuncia (a condizione che anche gli altri facciano altrettanto)atuttiidirittiche avevanellostatodinaturaeli trasferisceaunsovrano,sotto l’imperio del quale tutti potrannoviveresicurieitorti saranno puniti. La formula e le conseguenze di questo contrattosonodaHobbescosì esposte: «Io autorizzo e cedo ilmiodirittodigovernareme stesso a quest’uomo o a questaassembleadiuomini,a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato,inlatinocivitas.Questa è la generazione di quel grandeLeviatanoopiuttostoperparlareconpiùreverenza -diquelDiomortale,alquale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale,lanostrapaceela nostradifesa...»6. Attraversoilpatto,quindi, gli individui istituiscono un potere sovrano, in modo da poter vivere in un ordinamento di pace e di giustizia; la legge naturale viene sostituita dalla legge civile o positiva, cioè dalla legge che il sovrano riterrà opportuno emanare. Il potere che gli individui, spogliandosi tutti insieme del loro diritto a governare se stessi, hanno conferito a uno solo (o a un gruppo di uomini), è ora un potere assoluto in quanto, per inoppugnabili ragioni di ordinelogico,nonpuòessere soggetto a limiti. In primo luogo, questo potere non è limitatodalcontrattograzieal qualeènato:ilpatto,infatti,è stipulato tra gli individui, e non tra gli individui e il sovrano; questi ne è solo il beneficiario. In secondo luogo, il potere sovrano non può essere limitato nel suo eserciziodalleleggidinatura: queste sono ora sostituite dalleleggipositive,ecioèda quelle che il sovrano detta; riappellarsi ora alle leggi di natura significherebbe far ricadereilcorpopoliticonella incertezza e nella anarchia. Néilsovranoèlimitatodalla leggepositiva,anzi,inquanto nedisponepienamente,egliè al di sopra della legge, legibussolutus. Infine, il potere sovrano nonpuòesserelimitatodaun altro potere perché, se così fosse,siverrebbeacreareun potere «limitante» superiore al potere sovrano stesso. Questopoterelimitante,asua volta, non potrebbe essere limitato da altro, pena un regresso all’infinito (a un certo punto è necessario fermarsi,anankestenai,come aveva insegnato Aristotele introducendo, al vertice del suo universo fisico, il «Motore Immobile»); ne consegueperciòcheilpotere sovrano, se è tale, non può essere limitato, e dunque è potereassoluto. Questo però non implica cheisudditinongodanodella loro giusta libertà. Per Hobbes, come per i teorici della liberta «negativa» della quale ci occuperemo più avanti, libertà significa essenzialmente assenza di impedimenti, e quindi vi è sempre libertà finché l’individuo può disporre di spazi d’azione nei quali muoversi a piacimento senza esserne impedito: la libertà deisudditi,dunque,siesplica in tutte quelle azioni che il sovrano omette di regolare, come per esempio «la libertà di comprare, di vendere e di fare altri contratti l’uno con l’altro, di scegliere la propria dimora, il proprio cibo, il proprio modo di vita, di istruire i figli nel modo che pensano sia idoneo e di fare altrecosesimili»7. Nella straordinaria tessituralogicadellateoriadi Hobbes, che proprio per questo rimarrà sempre per il pensieromodernounpuntodi partenza inaggirabile, il modello contrattualista sembra dunque trovare una delineazione, in prima battuta, assai chiara e rigorosa. La legittimità dell’ordinepoliticosibasasul fatto che gli individui che ne fossero privi sceglierebbero, per fortissime ragioni di utilità, di dare vita a esso, onde evitare i mali che altrimenti lo stato di natura riserverebbe loro, e cioè insicurezza e morte. Ogni individuo, peraltro, deve spogliarsi totalmente dei propri diritti a favore del sovrano; se così non fosse, infatti, e se l’individuo ne trattenesseunapartepersé,il problema di determinare il punto dove finiscono i diritti del sovrano e cominciano quelli del suddito (mancando ovviamente una istanza terza e superiore in grado di dirimerlo, perché al di sopra del sovrano non c’è nulla), nonfarebbealtrochericreare le basi per una condizione di guerra,ecioèdiinsicurezzae morte; anche il diritto di proprietàc’èsoloinquantoil sovrano lo concede. È chiaro che ciò significa che il sovrano può commettere abusi, perché non c’è istanza che lo tenga a freno, salvo il suopersonalerapportoconle leggi naturali e divine; ma anche la più dura sovranità assoluta è preferibile alla condizione misera e incerta dello stato di natura: se la condizione prepolitica è così invivibilecomeHobbescela rappresenta, qualsiasi ordine statale è a essa preferibile, al di là dei rischi di dominio arbitrario che necessariamente, per inoppugnabiliragionilogiche, porta con sé. Sebbene non limitato, d’altra parte, il potere sovrano esiste per garantirepaceesicurezza;nel momento in cui non ne fosse piùcapaceequestevenissero meno, il corpo politico perderebbe la sua ragion d’essere e i sudditi non sarebbero più in alcun modo tenutiall’obbedienza. Nel ragionamento hobbesiano, così apparentemente limpido e inoppugnabile,restanoperòa ben guardare non pochi problemiaperti,chesonostati messi in risalto tanto dagli sviluppi successivi della filosofia politica di impianto contrattualista, quanto dalla ricca discussione che si è sviluppata, soprattutto nella seconda metà del Novecento, intorno alla interpretazione delpensierodiHobbes. Una prima grande questione è quella che riguarda l’interpretazione hobbesiana dello stato di natura: prima Rousseau (ce ne occuperemo tra breve), e molto più tardi gli interpreti marxisti, rimprovereranno a Hobbes di avere illegittimamente proiettato, nello stato di natura prepolitico, quelle istanze conflittuali e quella brama di autoaffermazione e di superiorità che sono sostanzialmente estranee all’uomo naturale e che invece caratterizzano quell’autentico bellum omnium contra omnes che è lasocietàcivileborghese,con la sua spietata lotta concorrenziale e la sua inesaustacompetizioneperla ricchezza e per gli onori; come potrebbero tutte queste pulsioni, proprie dell’individualismo competitivo della società mercantile moderna, appartenere a uomini che ancora devono affacciarsi sullaprimasogliadellaciviltà ? La seconda grande questione è quella che riguarda le modalità dell’uscita dallo stato di natura e le motivazioni, di tipoegoistico-utilitario,sucui essa si fonda. Se gli uomini hobbesiani sono soltanto dei calcolatori razionali tesi ad assicurarsi l’autoconservazione, perché mai non dovrebbero essere sufficienti, a questo fine, strumenti diversi dal patto politico che vincola tutti egualmente, come per esempio l’alleanza di una parte degli individui che assicurerebbe ordine e dominiosuun’altraparte8? Inoltre,pensareilrispetto dell’obbligo politico come basato fondamentalmente su motivazioni utilitarie, e cioè sultimorechelastraordinaria forzadelLeviatanogenerain chi sarebbe tentato di trasgredire, appare, se scrutata attentamente, come una soluzione del tutto insufficiente.Comehanotato uno dei grandi interpreti novecenteschi di Hobbes, Howard Warrender9, riprendendo un passaggio dal Behemoth dello stesso Hobbes, se il rispetto dell’obbligo politico fosse basato semplicemente sul timore,siandrebbeincontroa delle difficoltà insolubili: ammettiamo pure che i cittadini obbediscano per timore della forza pubblica; masucosasibaseràallorala fedeltà di questa al potere costituito ? La conseguenza che si deve trarre da queste considerazioni è che, sia per quantoriguardalanascitadel corpopolitico,siaperquanto concerne il suo mantenimento, la pura razionalità strategica sembra insufficiente ad assicurarli. Così come insufficiente è la risposta che Hobbes dà allo «stolto», cioè a colui che ritiene che i patti debbano essere rispettati solo finché conviene,rispostacheancora una volta si basa su una presunta convenienza utilitaria del mantenere la paroladata. Ma se il fondamento utilitaristico-strategico si rivela troppo debole per sostenere l’architettura politica hobbe-siana, ecco allora che acquistano valore interpretazioni, non prive di agganci nei testi stessi di Hobbes, in forza delle quali genesi e mantenimento del corpo politico non possono fareamenodiunfondamento dimoralità,equindidiunpiù forte riferimento a quelle leggi naturali che altrimenti restano, nel pensiero hobbesiano, un tema che si presenta solo per essere abbandonato. In questa prospettiva, allora, l’uscita dallo stato di natura conflittuale può essere pensata non più come dettata da mere ragioni utilitarie, ma da una più complessa tessitura morale: gli uomini che in prima istanza, come moderni,sipensanoeguali,e perciò si scontrano per la superiorità, arrivano, proprio attraverso l’esperienza dura e catastrofica del conflitto, a riconoscersicomeeguali10;e solo a partire da questo passaggiosipuòcomprendere il fondamento egualitario dellostatoattraversounpatto diognunocontutti,enonsul merodominiodiunapartesu un’altra.Siaprequilospazio per un’altra lettura del paradigma contrattuale, dove i contraenti del patto non appaionopiùcomeguidatida mere ragioni utilitarie, ma da una altrettanto fondamentale consapevolezza morale dell’eguaglianza tra gli uomini. Un ultimo grande gruppo di problemi è quello che riguarda il carattere assoluto del potere sovrano che col patto si verrebbe a istituire. La tesi hobbesiana è che sia razionale,dapartedeisudditi, rinunciare a tutti i propri diritti per ottenere in cambio la sicurezza; ma, si chiederà Rousseau, consegnarsi a un sovranorinunciandoaipropri diritti significa davvero garantirsi la sicurezza, o non vuoldirepiuttostopassareda un’insicurezza a un’altra ? A questo problema si connette in modo diretto quello della natura del potere sovrano, se debba trattarsi, cioè, di un potere sovrano monarchico, aristocratico o democratico. LepreferenzediHobbessono tutteperilpoteremonarchico (sebbene, formalmente, le tre forme di governo siano egualmente possibili), ma questa scelta non sembra inserirsi in modo molto coerente nella prospettiva contrattualista: se gli individui devono spogliarsi del proprio potere su di sé, perché dovrebbero cederlo a un individuo particolare, e non (come sosterranno Spinoza e Rousseu) alla collettività democratica di tutti i cittadini ? Questa difficoltà, del resto, era avvertita dallo stesso Hobbes il quale, negli Elementi di legge naturale e politica, aveva sostenuto, a differenza di quanto dirà poi nel Leviatano, che «la democrazia precede tutte le altre istituzioni di governo» perché, anche per dar vita a una forma di governo aristocratica o monarchica, è necessario che si sia prima costituita una collettività democratica dei cittadini che potrà,seloriterràopportuno, scegliere di affidare la sovranità a uno o a pochi11. Ma a motivare il mancato incontro di Hobbes con la democrazia (e l’abbandono della tesi sostenuta negli Elementi) sono fondamentalmente, come è stato detto, da un lato la terribile attualità del problema della guerra civile, edall’altrolaconsapevolezza della «forza dirompente delle passioni»12. 3.Ilpatto democraticodiSpinoza. Una declinazione democratica del patto sociale la troviamo invece nella prospettivadiSpinoza(163277), che pure a quella di Hobbes è per certi versi affine. Anzi, ancor più hobbesiano di Hobbes è il modo in cui Spinoza prospetta lo stato di natura: nellostatodinatura,sostiene, il diritto e la potenza coincidono, e il diritto di ognunosiestendepropriofin dove arriva la sua potenza13. Non essendoci leggi vincolantipertutti,nellostato dinaturaciascunindividuoha pienodirittoatuttociòcheè in suo potere: ognuno ha diritto a conservare se stesso eaperseguireilproprioutile in tutta la misura che la sua potenzagliconsente.Perciòed ecco un punto dove si evidenzia più nettamente l’assoluta radicalità di Spinoza-nellostatodinatura nonsolononvièpeccato,ma noncisononeppureilbenee il male, il giusto e l’ingiusto: ilfattocheognunoaffermise stesso per quanto glielo consente la sua potenza non dà luogo, su questo piano puramente naturalistico, ad alcungiudiziomorale.Benee male esistono solo quando vengono stabiliti da leggi civili che esprimono una volontà comune. Nello stato di natura, privo di leggi, parlaredibeneodimalenon hasenso. Tuttavia anche per Spinoza,comeperHobbes,lo stato di natura non è una condizione nella quale sia piacevole rimanere. Certo, se gliuominifosserotuttisaggi, evivesserotuttisottolaguida della ragione, le cose nello stato di natura andrebbero ottimamente, ognuno eserciterebbe il suo diritto senzarecarealcundannoagli altri.Lasaggezza,però,nonè affatto la condizione normale degli uomini: per lo più essi sonosoggettiagliaffettiealle passioni, che li spingono a nutrireinimiciziaperglialtri, a odiarli, danneggiarli e ingannarli. Se gli uomini permanessero nello stato di natura, perciò, essi sarebbero condannatiavivereinmezzo alle inimicizie e agli odi, a danneggiarsi gli uni con gli altri, a non poter godere di una vita tranquilla e sicura. Ne deriva che, se gli uomini vogliono ricercare davvero il loro utile e la loro sicurezza, devono uscire dallo stato naturale:devonorinunciareal diritto su tutto, di cui godevano in quello stato (e cheliportavaaconfiggeretra loro), e cederlo alla collettività stringendo con tutti gli altri un patto sociale. Col patto gli individui rinunciano al loro diritto di natura (compreso il diritto di vendicarsidelleoffesesubite) e lo cedono alla collettività dando vita allo stato: da questo momento in poi solo l’autorità statale ha il diritto di imporre le leggi e di punire; e la minaccia della punizione è il modo più sicuro per convincere i cittadini ad astenersi dal danneggiareingiustamentegli altri. Ma come dev’essere organizzatolostato?Mentre Hobbes prediligeva la forma monarchica,Spinozasostiene invece con grande forza che lamigliorformadigovernoè quella democratica. Nella democrazia, infatti, il diritto di cui ognuno godeva nello stato di natura non viene trasferito a un individuo particolare (il monarca o il sovrano) ma alla collettività di tutti coloro che hanno sottoscritto il patto sociale. L’ordinamentodemocraticoè quello che maggiormente rispettalalibertàchelanatura haconcessoaognuno:inesso infatti«nessunotrasferiscead altriilproprionaturalediritto in modo così definitivo da nonesserepoipiùconsultato; ma lo deferisce alla maggior parte dell’intera società, di cui è membro, e per questo motivo tutti continuano ad essere uguali come erano nel precedente stato di natura»14. Nonsarebbeperciòunascelta razionale quella di colui che, una volta constatata la necessità di spogliarsi dei propri diritti, scegliesse di cederli a un individuo o a un gruppo di individui particolari, anziché alla totalitàdeicittadinidicuiegli stessoèparte. Ma vi è anche un altro aspetto per il quale la concezione di Spinoza si distinguemoltonettamente,e criticamente, da quella di Hobbes. Il patto sociale, una voltasottoscritto,nonè,nella prospettiva spinoziana, per nullairrevocabile.Gliuomini che lo hanno sottoscritto, lo hanno fatto per meglio garantire il proprio utile; ma se la società non attua quella utilità comune che è la vera ragionedelpatto,essononha piùalcunmotivodiesistere,e dunque può venire annullato edistrutto. Proprio perché la ragion d’esseredelpattoèlacomune utilità, inoltre, l’autorità sovrana che col patto viene istituita non ha un potere assoluto sui sudditi: nessuno si spoglia dei suoi diritti al puntodarinunciareaciòche caratterizza la sua natura di uomo.«Percuièragionevole ammettere che ciascun uomo riservi sempre a sé molti dirittiiquali,diconseguenza, dipendonodallasuavolontàe non da quella di altri». La rinuncia ai diritti naturali, insomma, non è totale e illimitata perché una simile rinuncia non sarebbe razionale, e perché vi sono diritti cui l’uomo non può rinunciare senza cessare di essereuomo. Il primo di questi diritti inalienabili è per Spinoza la libertà di pensiero, un diritto che non potrebbe essere ceduto se non rinunciando all’umanità stessa. Lo stato può vietare determinati modi di agire; ma non deve far nulla contro la libertà di pensiero, di parola e di insegnamento (salvo nel caso estremo in cui costituisca un pericolo immediato per l’esistenzadellostatostesso). Ogni cittadino ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche se se ne serve per criticare i decreti dello stato; ciò che allo stato deve interessare è il comportamento del cittadino, non le sue idee. Quella di Spinoza è dunque una versione del modello contrattualista molto legata a quelladiHobbes,cheperòse ne allontana per quanto riguarda la valorizzazione della forma di governo democraticael’insistenzasui diritti cui gli individui non potrebbero rinunciare neanche se lo volessero, perché questo entrerebbe in contrasto con la loro stessa naturaumana. 4.Ilcontratto liberalediJohnLocke. Mentre in Spinoza il modello contrattualista subisce una torsione in senso democratico, John Locke (1632-1704),purmantenendo ilriferimentoalpattosociale, costruisce un orizzonte politico che per certi versi è quasi l’opposto di quello hobbesiano.Lockepuòessere considerato infatti il vero fondatore del contrattualismo liberale, per il ruolo centrale chesvolgononelsuopensiero il tema dei diritti naturali, la questione dei limiti che da questidirittivengonopostial potere dello stato, e, soprattutto, il concetto della proprietà, il cui carattere di diritto sacro e inviolabile è uno degli assi portanti dell’intera costruzione lockiana. «Definisco il potere politico - scrive Locke in apertura della sua opera politica più importante, il Secondo trattato sul governo - come diritto di formulare leggichecontemplinolapena di morte e, di conseguenza, tutte le pene minori, in vista d’una regolamentazione e conservazionedellaproprietà; di usare la forza della comunità per rendere esecutive tali leggi e per difendere lo stato da attacchi esterni: tutto questo soltanto ai fini del pubblico bene»15. «Il grande e fondamentale intento per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà»16. Per quanto riguarda l’originaria eguaglianza, almeno dal lato politico, e quindiinmeritoairapportidi naturalistica subordinazione gerarchica, il punto di partenza di Locke è quello stesso di Hobbes: gli uomini sono per natura eguali, e nessuno può pretendere di avere sugli altri più potere e autorità di quanto gli altri ne abbiano su di lui: l’eguaglianza implica questa condizione di perfetta reciprocità per quanto riguarda la soggezione e il dominio reciproco17. Questo è il punto che Locke sottolinea contro i teorici della derivazione del potere politico dal potere paterno, come Robert Filmer col suo Patriarca; anche per Locke, come per Hobbes, non vi sono rapporti di subordinazione o di soggezione per natura, e il poteremonarchicononderiva né da quello divino né da quellopaterno. Se quindi Locke condivide col suo illustre predecessore il punto di partenza propriamente moderno dell’eguaglianza, ben diversa è però la concezione che egli sviluppa perquantoriguardalostatodi natura. Poiché gli uomini sono eguali e indipendenti la ragione comanda loro (ed ecco la legge di natura) il precetto secondo il quale «nessunodeveledereglialtri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi». La legge di natura è, come in Hobbes, quella regola il cui rispettoassicura«lapaceela sopravvivenza di tutto il genere umano»; dove però Lockesiallontanadall’autore delLeviatano,ènellatesiper cui «la legge di natura è per tutti vincolante»18: essa obbligainmodopieno,enon solo in foro interno, come invece aveva sostenuto Hobbes. Ma su quali argomentisifondaquestatesi lockiana? La legge di natura obbliga perché, anche nello stato di natura, i modi di punire chi la trasgredisce ci sono: non c’è un potere istituito che applichi sanzioni ai trasgressori (perché altrimentinonsaremmonello stato di natura), ma ognuno ha il diritto di punire coloro cheattentanoallalegge,eciò dovrebbe, secondo Locke, scoraggiarne la violazione. È vero che essa sarebbe vana (come aveva sostenuto Hobbes) se non vi fosse nessuno dotato del potere di renderla esecutiva, ma per fortuna le cose non stanno così: anzi, nello stato di natura ognuno ha il diritto di punire chi trasgredisca le norme della ragione e della giustizia. Checisiaildiritto,senon addirittura il dovere, di intervenire contro gli aggressorieidelinquentiedi punirli, non sembra contestabile. Il problema che invece si pone è il seguente: comefunzionaconcretamente questa punizione, in una situazione in cui non vi sono organi speciali deputati a questoscopo,chedispongano dellaforzanecessariaechesi possano richiamare a una legittimità universalmente riconosciuta? Come vedremo tra breve, il problema dell’amministrazione della giustizia è proprio quello in forza del quale si genera il passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Ma accanto alla legge di natura, l’altropuntofondamentalesul quale John Locke prende le distanzedaThomasHobbesè proprio la concezione dello stato di natura. Si può discutereseequantolateoria lockiana dello stato di natura siacoerenteoinvecesiainse stessa incerta e oscillante19. Manellesuelineegeneralila teoria sembra abbastanza chiara. È necessario innanzitutto, contro Hobbes, distinguere nettamente tra stato di natura e stato di guerra, e non confonderli come fossero una cosa sola. Lo stato di guerra è stato di «inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio»20,epuòesseresia un risultato della degenerazione dello stato pacifico di natura, sia una sorta di interruzione che si verificadentrolostatocivile, quando un uomo vuole sottometterne un altro con la forza. Lo stato di natura, invece, è definito addirittura da Locke come uno «stato di pace, benevolenza, assistenza e difesa reciproca»: «Quando gli uomini vivono insieme secondo ragione, senza un sovrano comune sulla terra, col potere di giudicarsi tra loro, si ha lo stato dinatura»21.Quindi,sebbene, a differenza che in Hobbes, stato di natura e stato di guerra siano ben distinti tra loro, lo stato di natura corre sempre il rischio di degenerare in stato di guerra. Perchélostatodiguerrasiha quando qualcuno voglia ridurre in suo potere qualcun altro, ma questa situazione, che può presentarsi tanto nello stato di natura quanto nellostatocivile,sisviluppa, nei due casi, diversamente: nello stato civile intervengono la polizia e la legge e lo stato di guerra cessa, nello stato di natura, dove non c’è un giudice comune, lo stato di guerra, una volta che sia iniziato, tende a non finire più. Può avertermine,selecircostanze sono favorevoli, ma può anche durare ininterrottamente. LaconclusionecheLocke ne ricava, pertanto, è la seguente: per allontanare il rischio di ricadere continuamente nello stato di guerra, gli uomini devono associarsi tra loro abbandonando lo stato di natura e istituire un potere sovranoeungiudicecomune che possa risolvere imparzialmente le controversie. Lo stato civile quindi conferma in buona sostanza la validità della legge di natura, ma assicurando inoltre la possibilità di risolvere le controversie in modo imparziale attraverso un giudicecomune. Lo stesso approccio vale perlaproprietà,cheèunodei temi centrali del liberalismo lockiano. Anzi, l’importanza storica del liberalismo di Locke sta proprio nell’aver stabilito uno stretto legame tra proprietà privata e libertà individuale. Questo punto è così importante che talvolta Lockeraccogliesottoilnome generale di proprietà tutti quei beni che lo stato deve assicurare all’uomo: vita, libertà e averi sono tutti, per Locke, «proprietà» dell’individuo22. Lostatocivile,perciò,ha come suo compito primario quello di assicurare e difenderequellaproprietàche già si può acquistare nello stato di natura. Su questo punto la teoria lockiana della proprietàsidistinguetantoda quella di Hobbes quanto da quelladiGrozioePufendorf. PerHobbeslaproprietàviene solo dopo l’istituzione dello stato (nello stato di natura tutti hanno diritto a tutto); è lo stato che decide cosa l’individuo possa considerare come sua proprietà privata, e nessuno se ne deve lamentare23. Per Grozio e Pufendorf la proprietà è possibile anche prima dello stato,maacondizionechevi sia il tacito consenso degli altri uomini. Per Locke invece la proprietà privata precedelostato,el’individuo la acquisisce legittimamente «facendo tutto da solo», cioè senza bisogno di passare per ilconsensodeisuoisimili. Ma vediamo allora come, in Locke, si legittima l’appropriazione privata di quello che è il primo bene appropriabile,ecioèlaterra. L’appropriazione privata non è una condizione originaria, perché la condizioneoriginariaèquella in cui le cose naturali non sononéprivatenédinessuno (res nullius) bensì sono di tutti collettivamente considerati. Il punto di partenzaèquindilaproprietà comune. Ma su cosa si basa allora la legittimità della proprietà privata ? Ecco il quesito al quale Locke cerca di dare risposta. L’argomentazione lockiana è originale e acuta; essa parte da un assunto di fondo: «Benché la terra e le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui». A partire da questa base apparentemente solidissima, si sviluppa tutta l’argomentazione lockiana, con i seguenti passaggi. Se l’uomo è proprietario della sua persona, è anche proprietario del suo lavoro e di ciò che con il suo lavoro produce. Se l’uomo quindi prende qualcosa dalla natura e vi mischia il suo lavoro, il prodotto che ne risulta, dal quale il lavoro non è più separabile, è anch’esso proprietàdell’uomocheloha generatoconlasuafatica.Ma se è vero che il lavoro legittima l’individuo ad appropriarsi del frutto del lavoro, perché sarebbe ingiusto che il suo lavoro diventasse proprietà comune, sarebbe però anche ingiusto che gli altri uomini non avessero terra da coltivare, ovvero materia prima sulla qualeesercitareillorolavoro. Perciò la conclusione che Locke trae è che l’uomo ha diritto di appropriarsi di ciò cuihamischiatoilsuolavoro, acondizionecherestimateria lavorabile per gli altri, altrettanta e altrettanto buona24. Poste così le basi della sua teoria della proprietà, Locke passa a criticare la teoria del consenso altrui come condizione necessaria per l’appropriazione privata di risorse originariamente comuni. Chi si appropria privatamentedellamateriada luilavoratanelquadrofinqui enunciato non toglie nulla a nessuno; perché mai quindi dovrebbe esserci bisogno di consenso ? Inoltre la teoria del consenso è, si perdoni il gioco di parole, un controsenso, perché se per appropriarsipersonalmentedi qualcosa fosse necessario un consenso, che a rigore dovrebbe essere dato da tutta l’umanità, l’uomo sarebbe mortodifameprimadipoter arareuncampo,catturareuna preda, anche solo raccogliere unpo’dibacche. La teoria lockiana dell’appropriazione è quindi, secondo il suo autore, tanto conformeallaleggedinatura che anche nel mondo civilizzato, dove i rapporti di proprietà sono ormai fissati dalle leggi positive che li governano, il pesce che uno pescanelmare(solopossesso comune rimasto) è proprietà di chi ha fatto la fatica di andarlo a pescare, che non è certo tenuto a dividerlo con altri (cioè con i proprietari comuni del mare da cui il pesceproviene). L’acquisizione della proprietà privata con il proprio lavoro, però, ha secondo Locke dei ben precisi limiti: ognuno può prendere, dei frutti della natura, tanto quanto può consumare; sarebbe contrario alla legge di natura, invece, raccogliere frutta o pescare pesce, sottraendolo alla potenzialeraccoltadapartedi altri,perlasciarlomarcire.Lo stesso discorso vale per quella che è al tempo di Lockelaproprietàprivataper eccellenza, e cioè la terra: «Quanto terreno un uomo zappa, semina, migliora e coltiva,ediquantopuòusare il prodotto, tanto è di proprietà sua. Col suo lavoro egli lo ha, per così dire, recintodallaterracomune»25. Poichéalleoriginiditerrave n’erainabbondanza,nessuno veniva danneggiato dalla recinzione, così come «nessuno viene danneggiato dalfattochequalcunobevaa grandi sorsi l’acqua di un fiume»26. Nel rispetto di questa leggedinatura,c’èpostoper tutti:perquantograndesiala popolazione, terra da coltivare ce ne sarebbe per ognuno.Quindi,perunverso nessunohafondatimotiviper lamentarsi, per altro verso tutti dovrebbero ringraziare coluichelavorandolaterrala fafruttare.Chilavoralaterra, infatti, ne incrementa enormemente la produttività, e quindi contribuisce all’accrescimento del monte dibenichel’umanitàhaasua disposizione. Perciò, chi si appropria della terra e ne fa unusoproduttivoèancheun benemeritodell’umanità. Si può però porre ancora un’altra questione: perché il diritto all’appropriazione privata che viene dal lavoro prevale sull’originario diritto di proprietà in comune ? La risposta di Locke è molto interessante:ilvaloredeibeni è dato molto più dal lavoro che non dalla materia prima, e quindi chi ci ha messo il lavorohamoltopiùdirittosu unbenedelproprietariodella materia prima, il valore della quale,senonlavorata,tendea zero. Quindi Locke per un verso fonda la teoria del valore-lavoro, che sarà fatta propria dall’economia politica classica fino a Marx, per altro verso ribadisce che nessuno ha motivo di lamentarsi, perché ciò che è statoappropriatohaunvalore pressoché nullo. La prova di questo primato del lavoro la forniscono i popoli d’America che, nonostante le enormi risorse naturali, sono poverissimi: «il sovrano d’un ampio e fertile territorio mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese»27. Questo dimostra due cose: 1) che la ricchezza ècreataperil99percentodal lavoro; 2) Che gli appropriatori/lavoratori, incrementando i beni a disposizione della società, migliorano la situazione anche dei non appropriatori, cioèdeibracciantidicuiparla qui Locke. E quindi questa è un’altraragionepersostenere che nessuno ha motivo di lamentarsi per l’appropriazioneprivata. Lo stato presente dei rapportidiproprietàcimostra però che questa originaria modalità di legittima appropriazione, dove tutti sono lavoratori e piccoli proprietari, è stata superata dandoluogoadiseguaglianze molto più grandi nella ripartizionedelleproprietà.Si pone quindi la domanda se esse siano o meno legittime. La risposta di Locke è molto chiara: finché non c’era il denaro, non si poteva accumulare più di tanto, perché si sarebbe deteriorato. Conildenaro,invece,diventa possibile un’accumulazione illimitata: per esempio, possederegrandiestensionidi terraevenderneiprodotti.La legittimità di questa più estesa diseguaglianza non riposa su un patto, ma sul fatto che gli uomini hanno conclusountacitoaccordotra loro circa l’uso del denaro, accordo che è dimostrato dal fatto che tutti accettano il denaro, lo scambiano e lo prendono in pagamento dei loro beni. Ma l’accettazione del denaro equivale alla accettazione, da parte di tutti gli uomini, della possibilità dell’accumulazioneillimitata. Da vero padre del pensiero liberale, quindi, Locke sviluppa una giustificazione estremamente accurata e ben argomentata della appropriazione privata delle risorse naturali e del capitalismo inteso come accumulazione illimitata e fine a se stessa (economia cioè che, grazie al denaro, si svincola dal limite dei bisogni). Ma quali sono i punti deboli a partire dai quali si potrebbe discutere criticamentelateorialockiana della proprietà ? Possiamo limitarci a elencarli sinteticamente: a) il concetto della proprietàdisénonsembradel tutto convincente, perché nessun uomo può legittimamente vendersi, come invece può vendere le sueproprietà; b) più in generale, le abilità di qualcuno non gli appartengono in modo esclusivo perché egli le ha apprese da altri che gliele hannoinsegnate(lafamigliae lasocietà)equindianchenel suo lavoro il contributo propriamente individuale è unapiccolaparte(letecniche e i saperi che generano la gran parte della ricchezza sonoilprodottodellavorodi tuttelegenerazioniumane); c) vi è infine il problema delle generazioni: perché chi arriva dopo, quando tutto è diventato proprietàprivatadiqualcuno, dovrebbeaccettareilfattoche con il denaro si sia resa possibile la proprietà senza limiti, fatto da cui deriva l’impossibilità di avere accesso alle risorse produttive, perché sono tutte giàappropriate? La risposta implicita di Locke a questo terzo argomento è quella che farà scuolaeverràripresaintutto il pensiero liberale, da Adam Smith fino a John Rawls: ancheilpiùpoverobracciante ingleseècomunquepiùricco delpiùriccodeireselvaggi,e quindi in ogni caso non ha nulla di cui lamentarsi. Ma l’argomento potrebbe forse essere messo in crisi da una semplice domanda: cosa preferireste essere, un braccianteounre? Lostatonascedunqueper salvaguardare quei diritti che gli individui hanno già in forza della legge di natura (vita, libertà, proprietà). Ciò su cui Locke insiste maggiormente è che, associandosi nello stato, gli individui istituiscono un giudice che è legittimato a risolvere le controversie, in quanto è al di sopra dei due contendenti. Ma se questa è l’essenza del passaggio alla società politica, allora ne conseguechelasovranitànon può essere, come invece aveva sostenuto Hobbes, assoluta. La società politica, infatti,siidentificaperilfatto che in essa nessuno dev’essere più giudice in causa propria. Ma il sovrano assoluto, che riassume in sé tanto il potere legislativo quantoquelloesecutivo,nelle eventuali controversie con i sudditi è giudice in causa propria, e quindi si trova, rispetto a coloro che sono soggetti al suo dominio, esattamente nello stato di natura. Il potere assoluto, quindi, anziché superare lo stato di natura, lo reinstaura nelpuntodecisivo,ecioènel rapporto tra i sudditi e il sovrano. Ponendo l’accento su questo punto, Locke formula un’altra delle tesi fondamentali del liberalismo moderno: non si esce veramente dallo stato di natura se non c’è una salvaguardia anche nei confrontidelpoteresovrano. Ma vediamo finalmente quali sono le caratteristiche principalichecontrassegnano secondo Locke il patto politico. Esso è sottoscritto dagli individui liberamente; chi vuole - ed ecco ancora il forte presupposto individualistico - può non aderire a esso; formando un solo corpo politico tutti s’impegnano, onde l’unità ne sia garantita, a seguire il volere della maggioranza; lo scopo del patto non è solo quello di sopravvivere ma di «vivere bene, nella tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle loro proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella società non appartengono»28. Unendosi nello stato, dunque, gli individui istituiscono un supremo potere, che è innanzitutto potere di fare leggi e di risolvere le controversie: questo è per Locke il potere legislativo, che può avere la forma di una democrazia, di una oligarchia o di una monarchia. Quale che ne sia la forma, però, il potere legislativo deve sottostare, per adempiere i suoi scopi, a delleregoleoadeilimitiben precisi29: 1) Diritti inalienabili: deve muoversi nell’ambito fissatodallaleggedinatura,e nel rispetto dei diritti inalienabili che da questa discendono. La legge di naturacostituisceuna«norma eternapertuttigliuomini»,e dunqueancheperilegislatori, che devono limitarsi a tradurlainleggepositivaead assicurarneilrispetto. 2)Principiodilegalità: il potere deve governare attraversoleggigeneralicerte e non attraverso decreti estemporaneioadpersonam. 3) Intangibilità della proprietà:«ilpoteresupremo non può togliere a un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso». Le tasse per mantenere lo stato devono avere il consenso dellamaggioranzadeisudditi. 4) «Il legislativo non devenépuòtrasferireadaltri il potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da quelle cui l’ha affidato il popolo»: per esempio non lo puòdareaundittatore. Macomesipuògarantire che il potere legislativo rimanganell’ambitodiquesti limiti?LarispostadiLockea questo problema è da ricercarsi nella sua teoria dellaarti-colazionedeipoteri. Argine contro il pericolo della degenerazione tirannica è la chiara distinzione tra il potere legislativo e il potere esecutivo: il primo deve riunirsi, solo periodicamente e non in permanenza, per legiferare, mentre il secondo deveassicurarecoattivamente l’obbedienzadeicittadinialle leggi. Chi dispone della coazione non dispone della legge, e a essa è anzi vincolato,mentrechilegifera nonhaalcunpoteredirettodi coazione. Il legislativo è il potere supremo, ma la coazione spetta a quello esecutivo che è al primo subordinato. Il modello ispiratore di fondo delle tesi lockiane è quello inglese del King in Parliament, e con la riflessione su questo punto Locke si pone proprio alle origini del costituzionalismo moderno. Con questo però il problema non può dirsi risolto.Poniamoilcasocheil legislativo voglia render schiavo il popolo, e quindi non si attenga ai limiti da Locke scrupolosamente fissati; cosa accade allora? A questa domanda Locke risponde con la (problematica) teorizzazione del diritto di resistenza: mancando di un giudice superiore cui appellarsi nei confrontidiunlegislativoche lo voglia rendere schiavo, il popolohadirittodiappellarsi al cielo, ovvero a una legge superiore alla legge positiva che lo autorizza a rovesciare ilgovernochevengamenoal suo mandato. Il diritto di resistenza non può essere legge positiva, ma in ultima istanza si fonda sulla legge naturale, che è superiore alla stessaleggepositiva. La teoria del diritto di resistenza, però, incorre nelle grandi difficoltà concettuali che più tardi Kant metterà con molta precisione in risalto: non essendoci un giudice superiore in grado di dirimerelecontroversietrail popolo e il sovrano, col diritto di resistenza si ricade nellostatodinaturanépiùné meno di quanto accadeva nel casodelpoteredispotico. 5.Iduepattidi Jean-Jacques Rousseau. Con Rousseau (1712-78) tutta la problematica del contrattualismo hobbesiano e lockiano viene sottoposta a un rovesciamento critico radicale: il contrattualismo cessadiporsicomeorizzonte entro il quale in ultima istanza si legittimano gli assetti di potere vigenti per trasformarsi in leva di un pensiero critico, tendenzialmente rivoluzionario. La più netta espressione di questo rovesciamento radicale la troviamo nelle stesse parole di Rousseau: «Apro i libri di diritto e di morale, ascolto filosofiegiureconsultietutto pieno dei loro insinuanti discorsi deploro le miserie dellanatura,ammirolapacee la giustizia prodotte dallo stato civile, benedico la saggezza delle istituzioni pubbliche e, vedendomi cittadino, mi consolo di essereuomo.Beneistruitosui miei doveri e sulla mia felicità, chiudo il libro, esco discuolaemiguardointorno: vedo popoli disgraziati che gemono sotto un giogo di ferro, il genere umano schiacciato da un pugno di oppressori, una folla affamata, stremata dalla pena e dalla fame, di cui il ricco beve in pace il sangue e le lacrime, e dovunque il forte armato contro il debole del temibile potere delle leggi». Seilcontrattualismohaposto alla radice del patto sociale uomini liberi e eguali, il problema dal quale Rousseau prendelemosseapparesubito chiaro:comehapotutoquesta eguaglianza originaria capovolgersi in quelle strutture di dominio e di oppressioneche,allosguardo del ginevrino, segnano e inquinano ogni società civile moderna. «L’uomo è nato libero e dappertutto è in catene»; ma come si è compiuto questo capovolgimento ? Di fronte allaconstatazionedellarealtà universale del dominio, il patto sociale si disloca su un terreno controfattuale, normativo, rivoluzionario. La teoria politica normativa si distingue dall’analisi scientifica della società esistente, delle sue strutture oppressive. «Per la prima volta in Rousseau la diseguaglianza sociale non è solo oggetto di denuncia e di condanna morale. Al contrario essa è compresa geneticamente nella sua razionale necessità»30. E il primo compito della teoria diventa quindi quello di svelare come le strutture inegualitarie del dominio abbiano potuto sorgere, stabilirsi, godere persino del consenso degli oppressi. L’eguaglianza di partenza non si conserva, seppur trasvalutata, nella società civile, ma si capovolge nel suo opposto, l’ineguaglianza: ed è pertanto di questa che Rousseausiaccingearendere ragione.Individuatogiànella replica alle obiezioni che Stanislao Leszczynski aveva mosso nei confronti del Discorso sulle scienze e le arti («La fonte prima del male è la disuguaglianza»)31, il tema è l’oggetto precipuo del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini,cheRousseaudedica, nel 1754, alla repubblica di Ginevra. L’attacco alla funzione legittimante del giusnaturalismoprecedentesi concentra in primo luogo sulla questione dello stato di natura: se per Hobbes la condizione miseranda dello stato di natura legittimava qualsivoglia stato civile, anche quello più oppressivo, Rousseau non può che rovesciarne i presupposti: il limite di fondo dello stato di natura hobbesiano, popolato da uomini avidi, orgogliosi, desiderosi di opprimersi l’un l’altro,ècheinessovengono attribuite all’uomo naturale quelle che non sono altro, in realtà, che passioni caratterizzanti l’uomo civilizzato, anzi, corrotto e rovinato da una civiltà malsana. Diversa è la critica nei confronti dello stato di natura lockiano: mentre Hobbes pone (giustamente) tra stato di natura e stato civile una netta cesura, ma poi la nega proiettando nel primo caratteristiche che appartengono solo al secondo, Locke incorre in un altrettanto grave peccato di apologia, perché, con la sua visione continuistica del rapporto tra stato di natura e stato civile, retrodata abusivamente al primo (legittimandoli) istituti che, come quello della proprietà, possono appartenere solo all’umanità civilizzata. Lucidissimo nella critica del modoincuilostatodinatura venne pensato dai suoi predecessori, Rousseau pretende di costruirne finalmente una visione sciéntifica. Per lui lo stato di natura non è uno stato di guerraperilsemplicemotivo cheèunostatodiisolamento: l’uomo naturale di Rousseau èunuomosolocheabitauna naturanonostile,nelrapporto conlaqualenonhadifficoltà a soddisfare i suoi limitati bisogni. Lo stato di natura non è affatto, come continuano a ripetere coloro contro cui Rousseau polemizza, una condizione «miserabile», anzi si può paradossalmente affermare, contro Hobbes, che esso sia «ilpiùadattoallapace,ilpiù conveniente al genere umano»32. Non vi è quindi alcunanecessitàchecostringa a uscirne (semmai il problema è come se ne sia usciti, dato il suo carattere pacifico e stabile) e il passaggio allo stato civile è determinato solo dal «concorso fortuito di parecchie cause esterne che potevano anche non verificarsi mai e senza le quali l’uomo sarebbe rimasto eternamente nella sua condizione primitiva»33: una condizione nella quale l’ineguaglianza era sconosciuta perché delle due specie di disuguaglianza tra uomini, quella naturale e quella morale o politica, la primaèdigranlungalameno importante e, nello stato di natura, non esercita «quasi nessunainfluenza»34. Ma come si costituisce dunque l’insopportabile ineguaglianzachecaratterizza la società civile o borghese ? Il processo di costituzione della società ineguale e oppressiva si addensa attorno a uno snodo fondamentale, cheèquellodellaproprietà:« Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questoèmio,etrovòpersone abbastanza ingenue da credergli,fuilverofondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano coluiche,strappandoipaletti ocolmandoilfossato,avesse gridato ai suoi simili: ‘Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono dituttiechelaterranonèdi nessuno,voisieteperduti’»35. Quiildiscorsolockianoè rovesciato: lungi dall’essere acquisizione legittima, l’appropriazioneèunasagace impostura, che si stabilizza soloperl’ingenuitàdeigonzi che ne sono le vittime. L’ineguaglianza delle proprietà è il vero stigma della società corrotta, è la cesura maggiore nel fatale percorso storico verso la società borghese, acquisitiva, rapace,ineguale. Questo percorso però, a partiredalprimomomentoin cuilaperfettasolitudinedello stato di natura s’incrina, sembra procedere in modo sostanzialmente continuo e inesorabile, e tale quindi da ridimensionare la cesura che Rousseau stesso, peraltro, ha voluto segnare, iniziando la seconda parte del suo Discorso sull’ineguaglianza proprio col passo appena citatosullaproprietà. Appare manifesto, infatti, che il processo degenerativo di cui Rousseau ripercorre minuziosamente le tappe (ponendosi, così, anche tra i fondatori della moderna scienza antropologica e sociale), fa tutt’uno, nel Secondo discorso, con la dimensionedellasocialitàche soppianta quella della originaria solitudine: quando gliuominismettonodierrare nei boschi e si riuniscono formando raggruppamenti di famiglie, di villaggio, e poi via via sempre più vasti, si sviluppa subito quel sentimentodelconfronto,dell ’amour propre, quella stima dellapropriasuperioritàcheè laradiceprimadellosviluppo dell’ineguaglianza,pensatain terminicherichiamanomolto l’antropologia hobbesiana della competizione. La passionedell’orgoglio,chelo spinge a competere con gli altri per superarli, non appartiene e non può appartenere all’uomo naturale, che è fondamentalmente solitario, ma domina gli individui non appena cominciano a stringerelegamireciproci:«il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente divenne anche il più considerato, e fu il primo passoversoladisuguaglianza e al tempo stesso verso il vizio »36. Le prime emergenze della corrazione e della diseguaglianza si trovano quindi, dice Rousseau, già nel primitivo statodisocietà,cheèsimilea quello in cui si trovano ancora «i popoli selvaggi a noi noti», e che però non va confuso col vero stato di natura e anzi ne è molto lontano, perché ha già sviluppato,conlasocialità,il morbo che spinge l’uomo al confronto e a dipendere dall’opinione degli altri: «l’uomo socievole, sempre proiettato fuori di sé, non sa viverechedell’opinionedegli altri»37.Gliuominiavrebbero potuto rimanere a lungo in questo stato di ineguaglianza soloembrionale,senonfosse intervenuto lo sviluppo delle abilità tecniche, dell’agricolturaedellavoroa determinare,conladifferenza dei talenti, quella delle proprietà, e quindi a spianare lastradaall’ineguaglianzanel suosvilupposenzapiùlimiti: perché la proprietà nasce dal lavoro, come in Locke, ma, poiché gli uomini hanno diversa forza, capacità e talento, il lavoro di alcuni procura loro maggior proprietà di quanto non accada ad altri. È così completamentespianatalavia versolacorruzione,versouna società divisa in padroni e servi, dove l’apparire grandi, ricchi e superiori agli altri diventa più importante di ciò che davvero si è, dove non regna altro che «questo universale desiderio di reputazione, di onori e di distinzione che ci divora tutti», che rende gli uomini tutti «concorrenti, rivali, o piuttosto nemici», al punto che i ricchi e potenti, pur rimanendo tali, «smetterebbero di essere feliciseilpopolosmettessedi esseremiserabile»38. Il proliferare dell’ineguaglianza, il polarizzarsi di ricchezza e povertà,l’impossibilità,daun certo punto in avanti, di legittimare la proprietà con unaremotaoriginenellavoro, gettano la società non ancora politicamente organizzata in una condizione di conflitto e di disordine: qui si ha dunque, non nello stato di natura,ilveroepropriostato di guerra. E da esso gli uomini sono usciti, dice Rousseau, con un patto politico che è stato proposto dai ricchi ai poveri, e che ha costituito «il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo»39: uniamoci, hanno proposto i ricchi ai poveri, sotto un potere politico comune che assicuri a ognuno le garanzie della legge e quindi protegga i deboli dai soprusi e dalla violenza, mentre al tempo stesso garantisce ai ricchi il sicuro godimento delle loro proprietà. Ma si tratta di un patto iniquo e che i poveri accettarono solo per ingenuità, perché, mentre distruggeva la libertà naturale, legittimava per sempre «la legge della proprietà e della diseguaglianza». Sanciva quindi una proprietà che, se in prima battuta nasceva dal lavoro, in seguito era divenuta vieppiù frutto di inganno, appropriazione e rapina,eallaqualesisarebbe dovuto dunque obiettare che, per appropriarsi di ciò che eccedeva le necessità di sopravvivenza proprie di ciascuno, sarebbe stato necessario «il consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano». Iniquo è dunque, vuol dire Rousseau, anche il patto sociale così comelohaprospettatoLocke, perché, se i nullatenenti accettano di lasciare la loro libertà naturale sottomettendosi alla legge civile, non è razionale (ma è invece frutto di cecità, di dabbenaggine o di incapacità di comprendere l’inganno altrui) che lo facciano senza pretenderechevengarimessa in discussione anche la distribuzione delle proprietà che, in modi diversi e spesso usurpatori, si è venuta fino a quel momento determinando. Sitrattainsommadiunpatto che non sarebbe razionale sottoscrivere, perché i ricchi ci guadagnano troppo e i poveri troppo poco rispetto a ciòchecedono. Mentre nel Discorso sull’ineguaglianzalasocialità si configura di per sé come unadimensionedi«caduta»e di alienazione, poiché induce l’uomo a perdere la vera consapevolezzadisestessoe a guardarsi solo attraverso il riflesso che vede negli occhi degli altri, è attraverso una visionepiùcomplessaemeno negativa del rapporto sociale (elaborata in quel testo di passaggio che è il Manoscritto di Ginevra) che Rousseau giunge a porre le condizioni per delineare il quadro di quel patto equo e razionalechevienedisegnato nelContrattosociale:dovele caratteristiche dell’uomo sociale devono essere prese conrealismo,perciòcheesse effettualmente sono, ma al tempostessodevonolasciarsi ricondurre nella trama razionale e condivisa della politica. Bisognerà dunque considerare, dice Rousseau, gliuominicomedifattosono (nella loro conflittuale particolarità) e le leggi come possono essere, in modo che si possano associare la giustizia e l’utilità, ciò che il diritto permette e ciò che l’interesseprescrive. I punti di partenza fondamentali della concezione rousseauiana del contrattononsonolontanida quelli che già erano stati fissati modernamente da Hobbes e Locke. L’ordine sociale non è dato per natura maèunordineartificialeche deve essere istituito tra uomini-originariamente liberi ed eguali: sono destituite di ognifondamentoleteorieche vedono il potere sovrano come una derivazione del potere patriarcale, o come scaturente da una superiorità naturale di alcuni rispetto ad altri, o come derivante da un presunto (ma secondo Rousseau in realtà contraddittorio)dirittodelpiù forte. «Poiché nessun uomo ha un’autorità naturale sul suo simile, e poiché la forza non produce nessun diritto, alla base di ogni autorità legittima restano dunque le convenzioni»40. Ma come dev’essere pensata allora la convenzione tra gli uomini dalla quale ha origine il governo legittimo ? Per comprenderlo conviene vedere, innanzitutto, in che modo, secondo Rousseau, essa non può essere razionalmenteprospettata. II potere legittimo non può essere pensato, dice Rousseau polemizzando soprattutto con Grozio, come il risultato di un patto di sottomissione in cui un popolo aliena la sua libertà nei confronti di un sovrano divenendone suddito. La tesi di Rousseau è innanzitutto che sarebbe irrazionale, da parte di un popolo, sottoscrivere un patto di questo genere, e che, anche qualoraunpopololofacesse, questo patto sarebbe comunque nullo, e non potrebbe dunque servire per legittimare un qualsiasi ordine politico dato. A sostegno di questa tesi Rousseau adduce diverse ragioni: a)sarebbeirrazionale,per i sudditi, spogliarsi della libertàperottenereincambio la sicurezza che un sovrano assoluto dovrebbe garantire, perché sotto un governo dispotico, che tra l’altro può dichiarare guerre a suo piacimento, la sicurezza dei sudditinonèaffattogarantita. Essi perciò cedono qualcosa senza ottenere nulla in cambio. b) Ma un contratto in cui una parte sola cede qualcosa, e non riceve niente in cambio, è nullo o insensato. c)Nessunagenerazione di uomini, comunque, può alienare la libertà delle generazioni successive, perchéessanonleappartiene. d) La libertà non è qualcosachesipossaalienare (ovvero cedere) come una proprietà:seunuomosidesse a un altro e questi gli ordinasse di commettere un crimine, l’uomo non sarebbe per questo dispensato dalla sua responsabilità morale: il crimineresterebbeuncrimine suo. Perciò, sostenere che la libertà dell’uomo può essere alienata, equivale a negare all’uomo la responsabilità delle sue azioni, a disconoscere la sua natura di essere morale e responsabile41. e) Ammesso per assurdo che un popolo possa alienare la sua libertà e sottomettersi a un sovrano assoluto, resta sempre valido il fatto che, come avevano sostenuto molti teorici del giusnaturalismo, tra cui Pufendorf, perché un popolo possa darsi a un re è necessario che esso si sia primacostituitocomepopolo: un pactum subjectionis non può darsi se non si presuppone un anteriore pactum unionis; per potere decidere qualcosa, tutti devono prima aver deciso, all’unanimità, di unirsi e di sottomettersi a ciò che la maggioranza deciderà. Caduta la pretesa di porre la radice legittimante della sovranità in un pactum subjectionis, tutta la questione della convenzione originaria su cui si edifica lordine politico va ripresa dallefondamenta. Ammesso quindi che gli uominisitrovino(perragioni riducibili alla precaria autoconservazione) a dover usciredallostatodinaturaper dar vita all’ordine politico, e assodato che sarebbe insensato che essi si spogliasserodellalorolibertà, ilproblemacheessidebbono risolvere si pone nella forma seguente: «trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comunelapersonaeibenidi ciascunassociato,mediantela qualeognunounendosiatutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima»42. E il problema può essere risolto, secondo Rousseau, soltanto da un patto di tipo tutt’affatto particolare: tutti gli individui alienano totalmente i loro diritti in favore del corpo politico comune che tutti insieme costituiscono; per dirlo con le parole di Rousseau, «ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la direzione della volontà generale; e noi come corpo riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». È questo, dice Rousseau, l’unico patto politico razionalmente possibile: rinunciando infatti al diritto di autogovernarsi da sé, l’individuo accetta che gli altri abbiano un diritto su di lui, ma al tempo stesso acquisisce un diritto sugli altri,equindinonperdenulla dellasualibertà.Mentreperò nello stato di natura la sua libertà di autogovernarsi poteva essere in ogni momento negata dalla forza altrui, ora la libertà messa in comune ha dalla sua la forza dituttoilcorpopolitico,edè quindi assicurata. L’individuo, nel patto così formulato, non perde libertà (in quanto riottiene ciò che cede) e in più acquista la certezzadipotergoderedella libertàcheha. Sebbene nella critica del potere assoluto di un re o di un despota Rousseau si fosse mosso su una linea antihobbesiana, quando descrive la clausola del patto eglitornadinuovoaHobbes allontanandosi radicalmente da Locke: il patto esige infatti, da ciascuno, l’alienazione totale di tutti i suoi diritti in favore della comunità; per la semplice e ovvia ragione che, se gli individui conservassero dei diritti contro la comunità, cioè contro il corpo politico sovrano, non essendoci un giudice superiore ad ambo le parti per dirimere eventuali controversie, dato che non può esserci nulla sopra il sovrano, le controversie si trasformerebbero in contese, e si regredirebbe a quello statodinaturadacuiinveceil patto doveva assicurare l’uscita. D’altra parte, secondo Rousseau, di questi diritti contro il sovrano non c’è neppure bisogno: perché il sovrano, «essendo formato solo dei privati che lo compongono, non ha né può avere interessi contrari ai loro»43. Questa impostazione si applica innanzitutto al diritto di proprietà, che invece Locke aveva considerato intangibile: per Rousseau «ciascun membro della comunità,nelmomentoincui essa si forma, le si offre così comeallorasitrova,contutte le sue forze, di cui fanno parte i beni che possiede»44; in rapporto ai membri della comunità, lo stato è, in forza delcontrattosociale,padrone di tutti i loro beni; ciò non significa, precisa Rousseau, cheibenidebbanopassaredi mano, ma vuol dire piuttosto che il diritto di ciascun privato sul suo terreno è sempre subordinato al diritto della comunità sul tutto; altrimenti non vi sarebbe né stabilità nel vincolo sociale, né forza reale nell’esercizio dellasovranità.Ilcompitodel patto sociale non è quello di sancire l’abbandono dell’eguaglianzanaturaleelo stabilirsi dell’ineguaglianza, al contrario, è quello di rinforzare l’uguaglianza naturale nella forma di «un’eguaglianza morale e legittima».Ladifferenzatrai buoni e i cattivi governi, da questo punto di vista, è che neiprimil’eguaglianzaèsolo apparente, e serve a «mantenere il povero nella suamiseriaeilricconellasua usurpazione»; mentre in verità «lo stato sociale giova agli uomini solo in quanto posseggano tutti qualcosa e nessuno di essi abbia qualcosaditroppo»45. Dopo aver fissato nel primo libro del Contratto le clausole che devono caratterizzare il patto sociale, e che non possono essere mutate né alterate, Rousseau apre il secondo libro dell’opera ricordando che l’istituzione dello stato è legittima e razionale non semplicemente per uscire dallo stato di natura, ma per perseguire un preciso fine, che è il bene o l’interesse comune. Come è stato osservato, è proprio qui che Rousseau sottolinea quello che, distinguendolo dalle teorie giusnaturalistiche dei suoi predecessori, viene ad essere «il tratto forse più caratteristico della sua teoria: quello che fa consistere la politicanongiànellagaranzia diinteressicontrastanti,bensì inciòcheinquestiinteressiè immediatamente comune, nel punto di unione dove si accordano e si fanno solidali»46. Ma proprio per questo lo stato rousseauiano non può essere altro che una costituzione dell’eguaglianza, che è il primo presupposto perché un interesse comune possa venir evidenziato e possa affermarsi (mentre l’ineguaglianza è, al contrario, ciò che, divaricando gli interessi, rendeimpossibileallostatodi rimanere conforme alla sua ragione istitutiva). Uguaglianza non vuol dire, precisa Rousseau, che i gradi di potenza e di ricchezza debbano essere «assolutamente identici»: vuol dire però che nessun cittadino dev’essere in grado diimporrelasuavolontàaun altro se non in forza delle leggi, e che nessuno dev’essere abbastanza ricco da poter comprare un altro e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi. L’eguaglianza è dunque condizione di uno stato che abbiadimirailbenecomune ma, più in profondità, è condizionedellalibertàstessa («lalibertànonpuòsussistere senza di essa»): perché le grandi diseguaglianze consentono ai più ricchi di comprare la libertà pubblica, e spingono i più poveri a venderla. Tuttavia, è la stessa «forza delle cose», dice Rousseau, che tende incessantementeadistruggere l’eguaglianza; così come è la spinta inestirpabile dell’interesse particolare, saldamente radicata in ogni individuo, a rendere estremamente arduo quello che pure dell’istituzione politica è il fine e prima ancora la ragion d’essere, e cioè appunto la realizzazione di un bene comune. Perché «l’accordodituttigliinteressi sicostituisceinopposizionea quello di ciascuno. Se non ci fossero interessi diversi... tutto andrebbe da sé, e la politica cesserebbe di essere un’arte»47. La comunità politica rousseauiana diventa così, in ultima istanza, il terreno di una lacerazione drammatica: là dove vi è società vi sono individui con interessi particolari e confliggenti; ma vi è certamente anche interesse comune, perché, se non vi fosse, la società cesserebbe semplicemente di esistere48.Ilcompitodifficile dell’arte politica è appunto quellodigovernarelasocietà a partire da questo interesse comune, di cui la volontà generale è voce, senza lasciarsi travolgere dalla spinta centrifuga degli interessiantagonisti.Compito difficile perché non è affatto scontato che la volontà generale, che dà voce all’eguaglianzaeall’interesse comune, coincida con la volontàcheilpopolosovrano di fatto esprime: la volontà generale può divergere dalla volontà di tutti, che è una semplice somma di interessi particolari; e il popolo può essereingannatoepuò Nella tessitura del pensiero rousseauiano, dunque, l’arte della politica diventa un’arte così difficile da lasciare forse addirittura disperare nella sua stessa possibilità: «la volontà particolare agisce senza posa controlavolontàgenerale»49, e il terreno della politica rimane segnato da un conflitto strutturale, dove «l’opposizione tra le finalità delle due volontà, tra préferencesedegalité appare assolutamente inconciliabile»50: il trascendimento dell’interesse particolare nella volontà generale appare concettualmentearduosenon impossibile; e la difficoltà di fondo del pensiero del ginevrino,cherestaperaltroil vero fondatore della democrazia moderna, si condensa nella ricerca di una improbabilecoincidenzadella singolarità individuale con il tutto sociale, nell’aporia che nasce dal tentativo di tenere insieme il citoyen dedito alla virtù repubblicana e al bene comune e l'homme della società civile, impossibilitato a trascendere la sua particolaristica natura51. Un’aporia che nel pensiero democratico ed egualitario di Rousseau non trova soluzione,echeilMarxdella Questioneebraicacercheràdi superare, come vedremo, togliendo alla radice la particolaritàstessa. 6.Kanteil contrattocomeidea dellaragione. ComeinHobbes,anchein Kant la riflessione sulla politica sembra prendere le mosse da un corposo presuppostoantropologico,al quale è bene dare subito il dovutorisalto:allaradicedel rapporto interumano vi è quella che Kant chiama nella quarta tesi del saggio sull’idea di storia universale dal punto di vista cosmopolitico - la «insocievole socievolezza» dell’uomo.Kantnonsostiene, come Hobbes, che l’uomo è lupo per l’altro uomo, ma pone la questione in modo assai più articolato: l’uomo, afferma, ha una naturale inclinazione ad associarsi, perché solo nella società con gli altri può sviluppare al meglio le sue disposizioni naturali. Ma ha altrettanto fortemente una tendenza a dissociarsi, poiché è caratterizzatodalla«proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo il proprio interesse».L’uomo,inoltre,si aspetta che anche gli altri faccianolostesso,equindiin questo senso è sempre in guerra con loro. Ma ciò «risveglia tutte le forze dell’uomo», lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia,edeglièspinto«dal desiderio di onore, potere o ricchezza, a procurarsi un rango tra i suoi consoci, i qualinonpuòsopportare ma di cui anche non può fare a meno»52.L’uomokantianoè quindi sociale, ma anche egoista e antisociale, e i due momenti non si possono separare(contuttalatensione reciproca che generano), perché per prevalere sugli altri bisogna porsi in relazioneaessi. L’egoismo e la dedizione al proprio privato interesse non sono per Kant, come erano invece per Rousseau, fenomeni appartenenti a una sorta di storica corruzione da cui la natura umana potrebbe essere emancipata. Una simile emancipazione per un verso non sarebbe possibile, dato il carattere strutturale che queste caratteristiche rivestono nella visione kantiana («da un legno così storto - scrive Kant - come è quello di cui è fatto l’uomo non si può fare nulla di completamente diritto») 53, ma per altro verso non sarebbeneppuredesiderabile, poiché solo attraverso l’egoismo e la competizione che ne deriva si sviluppano i talenti dell’uomo, le sue capacità, la sua razionalità. Ciò che prima facie si potrebbe giudicare negativamente svolge in realtà un ruolo altamente positivo. « Senza quelle proprietà, in sé certo non propriodegned’essereamate, dell’insocievolezza, dalla quale nasce la resistenza che ognunodevenecessariamente incontrare nelle sue pretese egoistiche, tutti i talenti rimarrebbero eternamente racchiusi nei loro germi, in un’arcadica vita pastorale di perfetta concordia, appagamento e amorevolezza: gli uomini, mansueti come le pecore che conducono al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore superiore di quello che essa ha per questo loro animaledomestico»54. Ciònonvuoldirecheper Kant la competizione sia un valoreinsé:essaèpiuttostoil mezzo attraverso il quale si produce ciò che ha valore, e cioè lo sviluppo della razionalità, della cultura, dellascienza,dellaricchezza. Proprio in quanto tesse l’elogio della competizione comenecessariaalprogresso, d’altra parte, Kant non può non introdurre il tema di quellacheoggichiameremmo eguaglianza delle opportunità (cheèpoilaformapiùtipica dell’eguaglianza liberale): è tollerabileunadiseguaglianza anche considerevole nelle condizioni economiche, scrive Kant, purché però a nessuno sia impedito, se il suotalento,lasuaattivitàela suafortunaglieloconsentono, di «riuscire con il proprio merito ai più alti gradi della gerarchiasociale»55. La concezione kantiana dello stato di natura presenta fondamentalmente due aspetti, uno dei quali lo avvicina a Hobbes, mentre l’altro sembra invece collocarlo in una posizione più simile a quella di Locke. Il primo aspetto è quello per cuiancheperKant,comeper Hobbes,lostatodinaturanon può che essere uno stato di guerra: «lo stato di pace, fra uomini che vivano l’uno accanto all’altro, non è uno stato di natura (status naturalis); questo è invece uno stato di guerra, anche se non sempre comporta lo scoppio delle ostilità ma piuttosto la minaccia di esse. Lostatodipacedevedunque essere istituito, infatti l’astenersidalleostilitànonè ancora sicurezza, e se tale sicurezza non viene garantita aunvicinodall’altro(ciòche puòaccaderesoloinunostato in cui vi siano leggi), quello può trattare questo, al quale ha richiesta tale garanzia, comeunnemico»56. Tuttavia, sebbene costituisca uno stato di guerra, quantomeno potenziale, lo stato di natura puòesseredefinitosoloinun certo senso uno stato nongiuridico. Esso è tale perché non si è ancora costituita quella unione civile che dà luogo al passaggio allo stato giuridico 57. Ma, in un altro senso, esso non è del tutto non giuridico, poiché in esso sono già vigenti dei rapporti di diritto privato tra gli individui, sebbene in un modo peculiare, che Kant definisce provvisorio e non perentorio: «se prima dell’entrata nello stato civile nessun acquisto si volesse riconoscere anche solo provvisoriamente come legittimo, allora quello stato stesso sarebbe impossibile. Perché, secondo la forma, le leggi nello stato di natura contengonointornoal‘mio’e al ‘tuo’ le stesse condizioni prescritte dalle leggi nello statocivile,inquantoessosia pensato unicamente secondo concetti puramente razionali; tuttaladifferenzaèchenello stato civile sono indicate le condizioni che assicurano l’esecuzione (conformemente alla giustizia distributiva) delle leggi dello stato di natura. Se dunque non ci fosse nemmeno provvisoriamente un ‘mio’ e un ‘tuo’ esterni nello stato di natura, non ci sarebbero neppure doveri giuridici riguardoadesso,néquindici sarebbe alcun comando che imponessediusciredaquello stato»58.Proprioinquantovi ègiàunaleggerazionaleche regola i rapporti di diritto privato tra gli uomini dello stato di natura, diventa doveroso il passaggio allo stato civile, dove non è più possibile a ognuno «fare di testa propria»59 (con la bellicosità che a ciò si connette); finché sono nello stato di natura, privi di un giudice comune, gli uomini non commettono ingiustizia sesicombattono,scriveKant; si rendono però colpevoli di una somma ingiustizia se vogliono rimanere in quello stato, dove «nessuno è certo del suo contro la prepotenza degli altri»60. Perciò Kant può scrivere che è proprio «daldirittoprivatonellostato naturale» che «scaturisce ora il postulato del diritto pubblico: tu devi, in base al rapportodicoesistenzachesi stabilisce tra te e gli altri uomini, uscire dallo stato di naturaperentrareinunostato giuridico, vale a dire in uno stato di giustizia distributiva»61. Ecco quindi che la transizione dallo stato di natura allo stato giuridico si configura, in Kant, in un modo profondamente diverso da quello che aveva caratterizzato gli altri grandi autoridelcontrattualismo:per Kantlacreazionediunordine giuridicoè,primaancorache una necessità, un atto doveroso,lacuidoverositàsi radica proprio nel fatto che, nello stato di natura, vi sono si dei diritti che devono essere riconosciuti agli individuiinforzadiunalegge dellaragione,maquestidiritti restano ineffettuali e richiedono quindi che si dia vita alla coazione statale per garantirli. L’uscita dallo stato di natura, d’altra parte, non è solo doverosa, ma risponde anche, come aveva insegnato ilcontrattualismoprecedente, all’interesse degli uomini stessi:«Acostringerel’uomo, altrimenti così ben predisposto ad una libertà incontrollata, ad entrare in questo stato di coazione, è la pena; e precisamente la massima fra tutte le pene, quella che reciprocamente si procurano gli uomini, le cui inclinazioni fanno si che essi non possano stare a lungo l’uno accanto all’altro in selvaggia libertà» 62. Proprio perché la costituzione dello stato civile, oltre a essere doverosa, è qualcosa cui gli uomini sono spinti dalla necessità e dallo stesso interesse egoistico, Kant può scrivere nella Pace perpetua che «il problema dell’instaurazione dello stato, per quanto ciò possa suonare aspro, è risolvibile anche da un popolo di diavoli (purché abbianointelletto)»63. Dalfattochecostituirelo statosiaundovere,invece,si ricava una conseguenza di rilievo, a proposito della quale la dottrina kantiana prendenettamenteledistanze da quella lockiana. Mentre per Locke la decisione di spogliarsi della libertà naturale coinvolge solo coloro che la fanno propria, mentre chi non aderisce a essa resta come prima nello stato di natura, fermo restando che « nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato all’altruipoterepoliticosenza ilsuoconsenso»64,inKantla questione si pone del tutto diversamente. Proprio in quanto l’uscita dallo stato di natura è un dovere, a questo dovere corrisponde il diritto, da parte di chi sia entrato in una costituzione civile, di costringere a farne parte anchechivorrebberimanerne fuori,semprechécostuisiain condizione di entrare in relazione con coloro che fanno parte dello stato civile, e non sia irrevocabilmente e assolutamente separato da essi: «Ma l’uomo (o il popolo) nel semplice stato di natura mi priva di questa sicurezza e mi lede già soltantoconl’essereinquesto stesso, in quanto si trova accantoame;sebbenenondi fatto(facto), ma appunto con la mancanza di leggi del suo stato(statoiniusto),percuiio sono costantemente minacciato da lui e lo posso costringereadentrareconme in uno stato comune-legale o a ritirarsi dalla mia vicinanza»65. Il punto è di estrema rilevanza, perché mentreper Locke,eperilliberalismo più in generale, la legittimità dell’ordine politico dipende dal consenso di fatto che gli individui hanno dato a esso, perKantessadipendeinvece dalconsensochegliindividui sono tenuti a dare, perché rifiutarsiaessovorrebbedire sceglieredipermanereinuno stato di ingiustizia, mentre l’adesione non è altro che l’adesione doverosa a una legge della ragione, e non ha niente a che vedere con una preferenza che, fattualmente, gli individui possono nutrire o meno. Proprio per questo suo collocarsi radicalmente nell’ambito del normativo il contrattualismo kantiano va oltre il problema di motivare l’adesione al patto con la convenienza degli individui (anche se Kant ritiene che l’adesione sia anche conveniente) così come risultanonespostoallacritica hegeliana secondo la quale l’idea del contratto porrebbe riduttivamenteallabasedello stato i singoli con «il loro arbitrio, la loro opinione e il loroespressoconsenso,datoa piacimento Costituire l’unione statale è quindi un dovere; ma - si potrebbechiedere-sitrattadi un dovere morale o di un dovere giuridico ? Come notava puntualmente Bobbio nelle sue lezioni kantiane67, alla questione deve darsi una rispostaarticolata:certamente costituirelostato,ondeuscire dall’ingiustizia, è qualcosa che somiglia molto a un dovere morale (e Kant ne parla infatti, nel saggio sul Detto comune, come di un dovere «primo» e «incondizionato»perquelche riguarda il rapporto esterno degli uomini in generale); tuttavia, non si può dimenticare che, quando si parla di rapporti esterni, si è giànellasferadelgiuridico,e cheinoltreildoverediuscire dallo stato di natura è giuridicoinunsensopreciso, nelsensocioèpercuivièda parte degli altri un diritto di costringereiriottosiaentrare nello stato giuridico. E un dovere la cui osservanza vienegarantitadallacoazione non può essere altro che un dovere giuridico; ma un doveregiuridico,ovviamente, non nel senso del diritto positivo, che è appunto ciò che dev’essere costituito, ma nelsensodeldirittonaturaleo diragione. Si può dunque affermare cheinKantèproprioildiritto naturale, o di ragione, a costituireiltramitetralostato di natura e lo stato civile: si deve passare allo stato politico, insomma, per assicurare e consolidare la giuridicità solo provvisoria e pericolante dello stato di natura. Questo passaggio, quindi, è doveroso proprio perchévièunaleggenaturale che è anteriore alla legge positiva, il cui carattere obbligante si può riconoscere a priori per mezzo della ragione, e che quindi obbliga anche se non è posta da un legislatore. Tra le leggi esterne, che non appartengonocioèallamorale ma al diritto, quelle il cui carattere vincolante può essere riconosciuto a priori permezzodellaragionesono legginaturali;«mentrequelle che senza una reale legislazione esterna non obbligano per nulla, e che in conseguenza senza questa legislazione non sarebbero leggi, si chiamano leggi positive»68. La filosofia o la dottrina razionale del diritto non si accontenta di conoscere quali sono, in un determinato stato, le leggi positive, ma mira a stabilire un «criterio universale per mezzo del quale si può riconoscere in generale ciò che è giusto e ciò che è ingiusto»69. Ora, dal momento che, diversamente dalla moralità, il diritto riguarda soltanto le relazioni esterne tra gli uomini, il criterio del giusto, ovvero il «Principio universale del diritto» può essere secondo Kant formulato come segue: «Qualsiasiazioneèconforme aldirittoquandopermezzodi essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale»70. L’unico «dirittooriginario»chespetta all’uomo in forza della sua umanità è «la libertà (indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui) in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo unaleggeuniversale»71. Una volta posto così il primo principio, vediamo ora quali sono secondo Kant le caratteristiche che definiscono l’ordine giuridico: il diritto, innanzitutto, appartiene al mondodellerelazioniesterne, riguardacioèilrapportotrale libertà che i diversi individui hanno di agire nel mondo esterno: la sua funzione è quelladiregolarelarelazione traunapluralitàdiarbitrinon già prescrivendo ad essi dei fini cui debbano adeguarsi, ma soltanto ordinando il modo della loro coesistenza, affinché ognuno possa esplicare il proprio arbitrio tanto quanto è possibile coesistendo con una eguale esplicazione dell’arbitrio altrui. In quanto attiene alla libertà esterna, inoltre, il diritto è inseparabile dalla coazione,ovverodallafacoltà di costringere: se qualcosa è mio diritto, ciò vuol dire al tempostessocheiohodiritto a costringere gli altri a rispettarlo. Ma qual è allora il giusto ordinamento giuridico, ovvero l’ordinamento giuridico che soddisfa i requisiti di validità razionale ? Lo stato giuridico, in quanto associazione di individuiliberiedegualisotto leggi, si deve fondare su principichevengonoprimadi ogni legge che lo stato possa emanare, poiché sono la struttura della costituzione dello stato secondo i principi razionali.Questitreprincipia priori dello stato giuridico sono (secondo la formulazione, che qui assumiamo, del saggio Sul dettocomune): a.lalibertà, b.l’uguaglianza, c.l’indipendenza. Illustriamonerapidamente ilcontenuto.Lelibertàchelo stato deve garantire sono da Kant messe a fuoco soprattutto sotto due profili: da un lato i diritti che concernono l’uso pubblico della propria ragione, dall’altro il diritto di ognuno diricercarelapropriafelicità come meglio crede, purché naturalmente non pregiudichi l’altrui diritto di fare altrettanto. Soffermiamoci innanzitutto sul primo aspetto: tra i diritti inalienabili dell’uomo Kant annovera, già nel famoso scritto del 1783 Che cos’è l’illuminismo,ildirittodifare uso pubblico della propria ragione in tutti i campi, e quindi anche di criticare pubblicamente con gli scritti le dottrine religiose e le autorità politiche. Una critica che non può mai tradursi in disobbedienzaalleleggidello stato, anche se ritenute inique, ma che, come insegnano i principi dell’illuminismo,èstrumento essenziale per rischiarare le menti e per trasformare e riformare, nel tempo, quelle costituzionipolitichechenon siano conformi ai principi di libertà.Aidirittifondamentali e inalienabili appartengono quindi la libertà di religione, la libertà di pensiero, la libertà di critica pubblica: qualsiasi atto del potere sovrano teso a limitarli sarebbeillegittimo,eanchese un intero popolo deliberasse di spogliarsi volontariamente di questi diritti la sua decisionesarebbenulla,priva di alcun valore; anzi, configurerebbe in realtà un crimine contro la stessa natura umana la cui destinazione consiste proprio nel progredire e nellosviluppare le sue disposizionirazionali. L’altro aspetto fondamentaledellariflessione kantianasuidirittiinalienabili riguarda quella che si potrebbedefinirel’autonomia privatadell’individuointesosecondo le stesse parole di Kant-come«uomo»,ovvero membro della società civile. Compito dello stato non è quello di promuovere paternalisticamente il bene dei sudditi (questo sarebbe per Kant il peggiore dei dispotismi),masoloquellodi garantirelecondizioniperché ognunopossaricercareilsuo benessere e la sua felicità comemegliocrede:«Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (nel modo in cui questi pensa il benessere di altri uomini), maognunodevepotercercare la sua felicità per la via che gli appare buona, purché non ledal’altruilibertàditendere adanalogofine»72. Daunlatoquindilostato deve lasciare gli individui liberi di perseguire i fini che essi preferiscono, dall’altro deveessererettononinmodo arbitrario ma secondo leggi (dev’essere, cioè, stato di diritto). Da qui la peculiarità della riflessióne kantiana sulle forme di governo, che tradizionalmente venivano distinte in monarchia, aristocraziaedemocrazia.Per Kant la distinzione più importantenonriguardailchi deve governare (uno, pochi, tutti), ma il come si deve governare:osecondoleggi(e questo è lo stato che Kant chiama repubblicano), o secondo arbitrio, come accade nel dispotismo. Al concetto di repubblicanismo si collega quello di divisione deipoteri:perchéungoverno nonsiadispoticoènecessario che la funzione legislativa, che è la funzione suprema nella quale si esprime la volontàcollettiva,siadistinta da quella esecutiva e da quellagiudiziaria. Accantoalprincipiodella libertà Kant pone, come abbiamo visto, quelli della eguaglianza e della indipendenza. L’eguaglianza non è eguaglianza nell’accesso ai beni, ma eguaglianza di fronte alla legge: essa richiede perciò la negazione dei privilegi ecclesiastici, feudali e nobiliari, in modo che tutti i cittadini siano egualmente soggetti alla legge e che a nessuno sia impedito di accedere alle posizioni migliori. Il principio dell’indipendenza afferma invece che i cittadini, che devono obbedire alle leggi, hannoildirittodiesserneessi stessi gli autori. Il potere legislativo,però,noncompete secondo Kant a tutti coloro che vivono sotto la giurisdizione di uno stato; lo possonoesercitaresolocoloro che sono indipendenti anche nella loro vita materiale ed economica, ovvero che possiedono un capitale o una abilità che consente loro di mantenersi, senza dover vender le proprie braccia. Indipendenti, e quindi cittadini, sono perciò il proprietario e anche l’artigiano, ma non il lavoratoreagiornata,ilservo domestico e la donna; non sono pienamente cittadini coloro che, se dovessero esprimersi politicamente, finirebbero fatalmente per esprimerelavolontàdicoloro dacuidipendono. Le leggi giuste, d’altra parte, non sono frutto di una volontàarbitraria,madevono essere conformi alla ragione. La fonte della legittimità di una legge non è né il contratto come fatto realmente accaduto, né semplicemente il consenso effettivo dei cittadini, ma piuttosto il contratto originario come idea della ragione, alla quale tanto il legislatore quanto i cittadini devono sentirsi vincolati: il primo deve emanare solo quelleleggicuituttoilpopolo potrebbedareilsuoconsenso, e i secondi devono obbedire alleleggicomesederivassero dalla loro volontà riunita. E per converso una legge è ingiusta quando sarebbe impossibile che tutto un popolo desse a essa il suo consenso. Laleggeallaqualetuttoil popolo potrebbe dare il suo consenso, d’altra parte, può essere solo una legge razionale e universale, ispirata all’unico principio di garantire il rispetto della libertà di ciascuno. In questo senso si può dire che Kant, col suo repubblicanismo, dà luogo a un tentativo di pensare un rapporto di reciprocitàocomplementarità tra il momento liberale dei diritti individuali e quello rousseauiano della volontà generale: la legge giusta è quellacuilavolontàgenerale del popolo potrebbe dare il suo assenso (e perciò il fondamentodellalegittimitàè la volontà generale), ma la legge cui ognuno potrebbe dare il suo assenso non può accoglierenelsuosenoalcun principio particolare che differiscadall’unicoprincipio universale e razionale, e cioè quello di garantire la eguale libertà di tutti. Kant dunque costituirà un punto di riferimentoessenziale,finoai giorni nostri, per un pensiero politico che voglia tenere insieme e articolare in modo coerente il principio liberale dell’autonomiadell’individuo e quello democratico della sovranità del corpo collettivo deicittadini. 1 T. hobbes, Leviatano, trad. it. a cura di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976,p.148. 2 Ibid., pp. 165-66. Questo tema è uno di quelli messi maggiormente a fuoco nella interpretazione hobbesiana di Mario Reale, che in queste pagine teniamo presente; si veda il suo La difficile eguaglianza. Hobbes eglianimalipolitici:passioni morale socialità, Editori Riuniti,Roma1991. 3hobbes,Leviatanocit., p.118, 4Ibid.,p.120. 5lbid.,p.124. 6Ibid.,p.167. 7lbid.,p.208. 8 Cfr a questo proposito Reale, La difficile eguaglianza,pag.236 9 Cfr. h. warrender, Il pensiero politico di Hobbes (1957), trad. it. Laterza, Roma-Bari1995. 10 È questa, nel suo schema più sintetico, la linea di lettura proposta da reale neltestosopracitato. 11 B. spinoza, Trattato teologico-politico, tradotto e commentato da A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, Einaudi,Torino1980,p.377. 12 reale, La difficile eguaglianzacit.,pp.266-67. 13 B. spinoza, Trattato teologico-politico, tradotto e commentato da A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, Einaudi,Torino1980,p.377. 14Ibid.,pp.384-85. 15 j. locke, Secondo trattato sul governo, trad. it. EditoriRiuniti,Roma1970.§ 3p.52 16Ibid.,§124,p.141. 17Ibid.,§54,p.91. 18Ibid.,§6,p.54. 19 Su questo, come su altri aspetti del pensiero lockiano, si legge ancora utilmenteilcorsodilezionidi n. bobbio, Locke e il diritto naturale,Giappichelli,Torino 1963. 20 locke, Secondo trattatosulgovernocit.,§19, p.64. 21Ibid. 22Cfr.adesempioi§§ 87e123. 23T.HOBBES,Decive, 12.7. 24 Condizione enunciata, per esempio, nei §§ 27 e 36 del SecondoTrattato. 25 locke, Secondo trattato sul governocit.,§32,p.74. 26lbid.,S33,p.75. 27Ibid.,§41,p.82. 28Ibid.,§95,p.121. 29 Su questo punto cfr. bobbio, Locke e il diritto naturale cit.,pp.259sgg. 30 M. reale,Le ragioni della politica. Rousseau dal «Discorso sull’ineguaglianza» al «Contratto», Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983, p. 277. 31J.-J.Rousseau,Scritti politici, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1994, vol. I, P4432Ibid.,p.162. 32Ibid.,p.162. 33Ibid.,p.171. 34Ibid.,p.171. 35Ibid.,p.173. 36Ibid.,p.179,corsivo nostro. 37Ibid.,p.204. 38Ibid.,p.200. 39Ibid.,p.187. 40 rousseau, Contratto sociale, in Scritti politici cit., vol.II,p.87 41 Discorso sull' ineguaglianza,ibid.,vol.I,p. 194. 42 Contratto sociale cit., p.93. 43Ibid.,p.96. 44Ibid.,p.98. 45Ibid.,p.210. 46 Reale, Le ragioni della politicacit.,p.435. 47Ibid.,p.211. 48Ibid.,p.101. 49Ibid.,p.155. 50 reale, Le ragioni dellapoliticacit.,p.486. 51Ibid.,p.591. 52 I. kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari1995,p.33. 53Ibid.,pp.35-36. 54Ibid.,p.33. 55Ibid.,p.140. 56Ibid.,p.169. 57 I. KANT, Metafisica dei costumi, trad. it. Laterza, Bari1970,p.133. 58Ibid.,p,141;cfr.anche p.69. 59Ibid.,p.140. 60Ibid.,pp.134-35· 61Ibid.,p.134. 62kant,Scrittidistoria politica e diritto cit., pp. 3435. 63Ibid.,p.184. 64 locke, Secondo trattatosulgovernocit.,§95, p.131. 65kant,Scrittidistoria politicaedirittocit.,p.169. 66 G. w. F. hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2000, § 258 aggiunta,p.197. 67 N. bobbio,Diritto e stato nel pensiero di Kant, Giappichelli, Torino 1969, pp.210-14. 68 kant,Metafisicadei costumi,cit.,p.27. 69Ibid.,p.34. V.Societàcivileestato I.Lospartiacque dellaRivoluzione. Mentre le vicende del paradigma contrattualista si snodano lungo quella che, riprendendo una periodizzazione marxista ma largamente condivisibile, si può caratterizzare come l’epoca dell’ascesa sociale dellaborghesia,apartiredalla Rivoluzione francese il quadro cambia completamente. Acquisita l’affermazione, sul piano teorico,deiprincipidilibertà e di eguaglianza che caratterizzano il pensiero modernoapartiredaHobbes, echelaRivoluzionefrancese pone come sue bandiere, il problema diventa quello di consolidare questi principi in un nuovo assetto, capace di stabilizzarsi lasciandosi alle spallelefiguredellasovranità popolare, «terroristica», della fase giacobina della Rivoluzione francese. Per i liberali,quindi,elovediamo, oltrecheinMadamedeStaël, in modo paradigmatico nella figura e nell’opera di Benjamin Constant, la questione decisiva diventa quella di accogliere sì, con l’eguaglianzagiuridicaditutti gli individui, anche il principio della sovranità popolare, ma al tempo stesso di porre a esso dei limiti ferrei.Ilsignificatoeilvalore storico del liberalismo postrivoluzionario sta in sostanzanelmodoincuiesso si pone il problema, per dirla con una locuzione che ha goduto di molta fortuna, di términer la Révolution·, il problema dei liberali postrivoluzionarièquelloper unversodimantenereforteil legame con alcuni principi dell’89, liberamente rivissuti; e per altro verso di segnare unacesura,edifarediquesti principiilpuntodipartenzaa partire dal quale costruire nuovastoriaenuovopensiero politico.Comeèstatoscritto, ilproblemachesipresentaai liberali della Restaurazione, decisi comunque a non tagliare il filo ideale che li lega alla grande Rivoluzione, può essere espresso nei seguenti termini: «come si esce idealmente dalla più grande rivoluzione del tempo moderno, come se ne appresta, con la parola di Tocqueville, l’epilogo, e come si dipanano perciò nuove forme culturali e politiche,nuovastoria?Come sa bene, ancora alla metà del secolo, Tocqueville, si tratta di un passaggio difficile; l’assestamento secondo i propri principi... ha in primo luogobisognodiunadistanza liberatrice,comesostratoalla liberazione delle scelte. Il tema è allora quello della conchiusione ideale della Rivoluzione»1. Il liberalismo postrivoluzionario, dunque, mantiene la connessione con Γ89, ma al tempo stesso riflette sui rischi e i pericoli della sovranità popolare, di cui gli anni della rivoluzione hanno consentito di fare esperienza. Il rischio, in primo luogo, è quello che la sovranità popolare si trasformi, come era accaduto nella fase giacobina della rivoluzione, nella dittatura popolare, o meglio esercitata da coloro che pretendono di rappresentare il popolo. Ma, forse ancora di più, il rischio è che l’uguaglianza politica dei cittadini, che si è affermata come principio inderogabile attraverso il contrattualismo e le rivoluzioni, voglia trovare la sua coerente prosecuzione nell’eguaglianza sociale, come già rivendicano le correnti più radicali della Rivoluzione francese, all’interno della quale appaiono le prime forme di comunismo non più utopistico ma politico, come la Congiura degli eguali di Babeuf e Buonarroti (1796). La questione che la Rivoluzione ha aperto, dunque, è se l’eguaglianza politica non debba necessariamente dar luogo all’eguaglianza sociale; esito che per certi versi può apparire persino fatale e inevitabile perché, se la maggioranza che vive in condizioni economiche di deprivazione e di disagio ha accesso ai diritti politici, è evidente che li utilizzerà per far leggi che portino alla redistribuzionedellaproprietà e alla garanzia pubblica del diritto al lavoro, ovvero alla soppressione delle condizioni diprivilegioeconomicoealla instaurazione progressiva dell’eguaglianza sociale. Su questo sfondo di problemi assolutamente comune ragionano tanto i liberali quanto i loro nemici: i primi nella ricerca di un equilibrio che consenta di mantenere il principio moderno e rivoluzionario dell’eguaglianza politica (che soloireazionarieinostalgici si ostinano a negare) ma al tempo stesso di confinarlo entro ben precisi limiti, e impedirgli di straripare nel senso di una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società. Proprio quello che, invece, rivendicano, nella logica di una coerenza egualitaria, i secondi. Per i liberali, non porre dei limiti alla sovranità popolare significa spianare la strada a unpoteredittatoriale,equindi rinnegare i principi di libertà della Rivoluzione e quasi tornare indietro all’assolutismo; per gli altri, invece, le libertà della Rivoluzione devono essere attuate concretamente, facendo sì che ognuno disponga delle risorse per esercitarle effettivamente. Nell’epoca postrivoluzionaria, perciò, non si tratta più di rivendicare,comeavevafatto il contrattualismo, il fondamento egualitario e individualisticodelpotere,da un lato, l’eguaglianza delle opportunità nella competizione sociale e di mercato, contro i privilegi nobiliari, dall’altro: il problemaèpiuttostoquellodi pensareseecomequestidue momentipossanocomporsiin un struttura solida ed espansiva, capace di tenere produttivamente dentro di sé tanto il principio moderno dell’uguaglianza politica quanto quello, parimenti moderno, dei diritti dell’individuo comprensivi delle sue libertà private e della libertà di comprare e vendere sul mercato le merci non meno che il lavoro. Dal punto di vista dei critici del liberalismo, invece, il problema è quello di partire da questa tensione costitutiva del moderno per volgerla nella direzione di una libertà ed eguaglianza sostanziale o, quantomeno, di un crescente riempimento delle libertà giuridiche e formali con contenuti sociali. Per dirla con le parole di un acuto pensatore politico contemporaneo, Jacques Bidet2, la questione del pensiero politico postrivoluzionario è quella di capire se, e come, possano stare insieme la contrattualità centrale dei cittadini, fondamento del potere politico e dello stato, e la contrattualità interindividuale degli uomini che interagiscononellospaziodel mercato, in quello che soprattutto Hegel e Marx individueranno come l’ambito della società civile, distintadallostato.Sitratterà allora di limitare lo stato per lasciar spazio al libero dispiegamento della società civile, come vogliono i liberali,oinvecediforzarela contraddizione che, tra i due termini, già Hegel aveva posto? Sono queste le grandi tensioni che attraversano il pensiero dell’epoca postrivoluzionaria, e che dividono le menti che su di essesimisurano. 2.Benjamin Constantelalibertàdei moderni. Il percorso di pensiero di Benjamin Constant (17671830) muove i suoi primi passi proprio nel fuoco dei conflitti della Rivoluzione francese, ai quali egli prende partedaquando,il24maggio 1795, arriva a Parigi, in compagnia di Madame de Staël.IlTermidoro(27luglio 1794) ha posto fine alla dittatura giacobina, cercando di «porre termine» alla Rivoluzione ma in realtà inaugurando una fase di lotte e di incertezza che si concluderà con il colpo di stato di Napoleone del 18 brumaio 1799. La collocazione che Constant intende darsi appare già in questi anni molto chiara: difesa dei principi di libertà ed eguaglianza della Rivoluzione, che si sviluppa attraverso una polemica su duefronti:daunlatocontroi giacobini,chehannostravolto i principi dell’89 instaurando una dittatura arbitraria e violenta, dall’altro contro i nostalgici della monarchia, che proprio dagli eccessi del giacobinismo traggono argomenti per perorare il ritornoalvecchioordine.Ma ènelperiodonapoleonicoche Constant (il quale, critico dell'impero, sceglie l’esilio a partiredal1803,anchesepoi, con il Napoleone dei «cento giorni», terrà un comportamento diverso) elabora i fondamenti teorici del suo pensiero politico, al cui centro è la inderogabile necessità di limitare il potere politico, affinché esso non possa trasformarsi in dispotismo. I Prìncipi di politica del 1806 prendono le mosse propriodall’analisicriticadel pensierodiRousseau,neicui errori sono da rintracciarsi, secondo Constant, le radici profonde dei «crimini con i quali i nostri demagoghi hannospaventatoilmondo»3. Rousseau ha perfettamente ragione, secondo Constant, quando individua, attraverso la pur insostenibile volonté générale, nella volontà dei cittadini l’unica fonte dalla qualepuònascereun’autorità politicalegittima:sesirifiuta il fondamento divino del potere politico, infatti, non resta che una soluzione, e cioèfondarelasualegittimità sul consenso di coloro che a esso devono sottoporsi. Ma questo principio incontestabile, che Constant intende in modo assai generico come una sorta di principio del consenso, compatibile con ogni tipo di costituzione, dalla teocrazia, alla monarchia, alla repubblica, non basta ancora per definire quale sia un governo legittimo. Una volta determinata la fonte dell’autorità, restano da stabilire i suoi compiti, ovvero i limiti del suo esercizio. L’errore fatale di Rousseau, allora, concerne proprio questo punto: egli afferma infatti che la costituzione del corpo politico presuppone l'alienazione totale, da parte degli individui, di tutti i loro diritti, e dà luogo pertanto a un potere che, anche se esercitato dalla collettività, risulta, come quello hobbesiano, assoluto ovvero privodilimiti;tesisullaquale concordano gli illuministi radicaliHolbacheMably,per il quale il potere legislativo, chedichiaraerendeesecutiva la volontà generale, non può essere sottoposto ad alcuna limitazione.DunqueConstant finisce in sostanza per attaccarelostessoconcettodi volonté générale rousseauiana. Per negare che questa alienazione completa dell’individuo alla comunità sia rischiosa, Rousseau sostienecheinrealtàsitratta di un’alienazione in cui l’individuononperdenulla,e anzi guadagna, perché, unendosi con gli altri in un corpo comune, acquisisce su tutti loro gli stessi diritti che cedeaglialtrisudilui,conin più la forza comune per garantire questi diritti. Il fattodiesserepartedelcorpo sovrano, obietta però Constant, non è per l’individuounaveragaranzia: infatti, quando si passa all’organizzazione pratica dell’autorità sociale, il sovrano è costretto a delegarla,el’azionecompiuta a nome di tutti è, di fatto, gestitadapochi,alcuipotere l’individuo si trova infine consegnato. Non è vero, conclude Constant, che l’individuo cedendo i suoi diritti al corpo comune in realtà li conserva; perché chi esercitadifattol’autoritànon èmaiilcorpocomunenelsuo insieme,maunapartediesso, che può anche farne un uso arbitrario. Il potere illimitato è quindi sempre dispotico, anche quando esso sia nelle mani non di individui particolari, ma della totalità deicittadini. Ma allora come e dove devono essere fissati i limiti del potere legittimo ? La riflessione sui limiti del potere si articola, per Constant, in due direzioni: in primoluogosipuòragionare, come ha fatto Montesquieu quando ha proposto nel suo Spinto delle leggi il modello della Costituzione inglese, sulla limitazione del potere tramite divisione e articolazione, partendo dal principio che un potere non puòesserelimitatochedaun altro potere; è questa la via del costituzionalismo, che tenta di elaborare un assetto dei poteri dove essi si controllino a vicenda, in modo che nessuno possa trasformarsi in arbitrio. Il costituzionalismo è un tema sulqualeConstantcontinuerà sempre a interrogarsi e al quale darà un contributo importante. La limitazione reciproca dei poteri però, secondo Constant, è ancora insufficiente a impedire il dispotismo: «la reciproca sorveglianza delle diverse frazioni dell’autorità è utile soltanto per impedire ad una di esse di ingrandirsi a spese delle altre. Ma se la somma totale dei loro poteri è illimitata, se è permesso a queste autorità riunite di invadere tutto, chi impedirà loro di coalizzarsi per opprimere a loro piacimento?»4. Perché un assetto politico non scivoli nel dispotismo e garantisca la libertà individuale, dunque, non bastaneppureladivisionedei poteri. Ciò che è essenziale, invece, è stabilire con nettezzagliambitineiqualiil potere politico può esercitare la propria competenza, e quelli invece che esso deve lasciarefuori,perchélelibere scelte degli individui vi regninoincontrastate. Macome,inbaseaquale principio, fissare questo limite ? Poiché la sottomissione a un potere estraneo è una cosa che preferiremmo comunque evitare, esso deve limitarsi strettamenteaquellefunzioni che sono indispensabili per l’esistenzastessadellasocietà civile: sul piano interno la sicurezza dei cittadini e dei loro averi, sul piano esterno l’organizzazione di una forza armata per garantire la sicurezza dello stato; queste due funzioni richiedono inoltre una certa tassazione sulleproprietà,senzalaquale esse non potrebbero venir finanziate. Ogni estensione dell’autorità della stato oltre questi limiti minimi è illegittima. E dove l’autorità statale finisce comincia lo spazio dei diritti individuali cheessanonpuòlimitare,ma solo proteggere dalle eventualiinterferenzedialtri: «I diritti individuali si compongono di tutto ciò che resta indipendente dall’autorità sociale». Essi perciò dovrebbero consistere «nellafacoltàdifaretuttociò che non nuoce ad altri, ovvero nella libertà d’azione; nel diritto di non essere costretti a professare alcuna fede,fosseanchequelladella maggioranza,dicuinonsisia convinti, ovvero nella libertà religiosa; nel diritto di manifestare il proprio pensiero, con tutti i mezzi di espressione, a patto che questa espressione non nuoccia ad alcun individuo e non provochi alcuna azione colpevole; infine nella certezza di non essere trattati arbitrariamente, come se si fossero superati i limiti dei diritti individuali, vale a dire nella garanzia di non essere arrestati, detenuti o giudicati che secondo le leggi e le forme»5. Una attenzione particolare Constant dedica alla difesa dell’opinione pubblica e del suo strumento principe,lalibertàdistampa: essa costituisce un indispensabile presidio dei diritti degli individui perché, se non vi fosse, le violazioni dei diritti, potrebbero essere perpetrate molto più facilmente, non potendo venir denunciate pubblicamente: i tribunali potrebberogiudicareinmodo ingiusto, gli innocenti potrebbero essere messi in prigione, i detentori dell’autorità potrebbero fingere di ignorare le violazioni che i loro apparati commettono. Nella visione constantiana, comunque, il potere dello stato dev’essere strettamente funzionale a garantire l’esistenza della società civile. Il fine è l’ordinato sviluppo di questa, nellaqualel’individuoesplica la sua libertà; lo stato ne è soltanto il mezzo, e diviene illegittimo se vuole essere qualcosa di più. Ma qual è allorailruolocheresta,inun quadro così concepito, per la sovranitàpopolare? Per un verso, come è chiaro, il potere legislativo detenuto dai rappresentanti del popolo dovrà essere esercitato dentro limiti rigorosamente fissati e molto ristretti, affinché non invada quella sfere della vita individuale e sociale che non sono di competenza della politica. Proprio per evitare questo rischio, però, i diritti politici, e cioè innanzitutto il dirittodivotarepersceglierei propri rappresentanti, non potrannoessereestesiatuttii cittadini: «per esser membro di un’associazione politica bisogna avere un certo grado di cultura e un interesse comune con gli altri membri dell’associazionestessa»6;ei nullatenenti, «coloro che l’indigenza mantiene in un’eterna dipendenza e condanna, fin dall’infanzia, a lavorigiornalieri,nonsononé più illuminati dei fanciulli riguardo agli affari pubblici, né più interessati degli stranieri a una prosperità nazionale di cui non conoscono gli elementi e di cui godono i vantaggi soltantoindirettamente»7.Per essere cittadini si devono conoscereipropriinteressi:si deve quindi disporre di una cultura, del tempo libero per coltivarla, delle proprietà che sonolacondizionepergodere di questi agi. E perciò, conclude seccamente Constant: «solo la proprietà rende gli uomini capaci dell’esercizio dei diritti politici; solo i proprietari possono essere cittadini». E un proprietario, precisa Constant, non è semplicemente chi possiede qualcosa, ma chi detiene «un redditofondiariosufficientea mantenersi durante l’anno senza essere obbligato a lavorare per altri»8. I diritti politicidevonoesserelimitati acolorochegodonodiquesta sovrana condizione di indipendenza, che non sono obbligati a lavorare per vivere. Nella sua durezza «classista», il ragionamento di Constant non manca però diunasuapeculiarecoerenza. Si badi bene, egli non considera, come aveva fatto Locke, la proprietà come un diritto che preesiste alla società,esucuiquestanonha alcunpotere,cioènonlapone sullo stesso piano dei fondamentali e intangibili dirittidilibertà:laproprietàè una «convenzione sociale», e quindi non è in linea di principio sottratta alla giurisdizione della società. Tuttavia, è ugualmente «sacra» e «inviolabile», anche se lo è mediatamente, poiché essa si connette in modo inscindibile «ad altre parti dell’esistenza umana, di cui alcune non sono assolutamentesottomessealla giurisdizione collettiva ed altre non vi sono sottomesse che in maniera limitata»9. In quanto strettamente connessa alla libertà dell’individuo, la proprietàvieneagoderedella protezionecheaquestaspetta didiritto,echetrovaulteriore giustificazionenelfattochela proprietà privata è, per Constant, condizione di ogni progressoebenesseresociale; mentre la sua soppressione, costringendo tutti a lavorare, distruggerebbe ogni possibilità di avanzamento spirituale e intellettuale, di cui tutta la società raccoglie poiibenefici. La proprietà privata è dunque elemento essenziale di una società civile libera e capacedimiglioraresestessa. Edèproprioperquestochei diritti politici dei non proprietari devono essere negati: se infatti essi ne disponessero, li userebbero per redistribuire la proprietà, perimporledeilimitisocialie infine per distruggerla. Questo principio non comporta però una divisione dellasocietàinclassieordini rigidamente distinti, come accadevanell'ancienrégime: perché la proprietà è per sua natura mobile, e può essere tantofacilmentepersaquanto acquisita da chi ne abbia i meriti e le capacità: le leggi non devono far nulla per limitare questa «salutare» circolazione. Il rapporto tra politica e società civile è al centro anche di quello che è indubbiamente il più famoso tra i testi di Constant, il Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella deimoderni(1819).Latesidi Constant, presente in tutto lo sviluppodelpensieropolitico fino ai giorni nostri, è che la libertà può intendersi in due sensi fondamentalmente diversi. Nel senso degli antichi, la libertà, così come viene praticata nella polis, consiste essenzialmente nella partecipazione diretta al potere politico: è la libertà come autogoverno, una libertà collettiva che peraltro è perfettamente compatibile, osserva Constant, con «l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme» e con la privazionediquellicheanoi moderni sembrano diritti fondamentali, come per esempiolalibertàdireligione che, sostiene Constant, «sarebbe sembrata agli antichi un crimine e un sacrilegio»10. Si ricordi, per esempio, che Socrate fu condannato a morte in Atene perchéaccusatodiempietà. La libertà nel senso dei moderni, al contrario, è fondamentalmente libertà dell’individuo privato: «il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte,némaltrattatoinalcun modo a causa dell’arbitrio di unoopiùindividui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di sceglierelasuaindustriaedi esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne»;diandareevenire senza dover chiedere permesso;ildirittodiriunirsi conaltrisiaperragionaresui propri interessi che per professare un culto o per qualsiasi altro motivo; e infine il diritto non già di esercitare direttamente e in prima persona il potere politicoeamministrativo,ma di influire in vari modi su di esso, per esempio con l’elezionedeirappresentantio conlapressionedell’opinione pubblica. Che i moderni debbano preferire questo secondo tipo dilibertà,d’altraparte,risulta damolteragioni:neglistatidi grandidimensioni,l’influenza del singolo sulle decisioni politiche è minima; la partecipazione diretta alla politica, inoltre, non essendoci più gli schiavi, costringerebbe l’individuo a trascurare gli affari e il commercio, che lo assorbono completamente e gli danno soddisfazioni più visibili; dal commercio inoltre gli uomini apprendono l’amore per l’indipendenza individuale e al tempo stesso la convinzione che «tutte le volte che i governi pretendono di fare i nostri affari li fanno peggio e con maggior dispendio di noi»11. La conclusione è netta: «Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo che essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti»12. La vera libertà dei moderni, dunque, è la libertà privata, quella che Hegel e Marx chiameranno la libertà del membro della società civile. La libertà politica è anch’essa fondamentale, ma principalmente in quanto strumento per garantire la libertàchepiùcistaacuore, quella propriamente individuale.Seicittadininon controllassero il potere politico, questo potrebbe finire per privarli anche di quei godimenti privati cui essi tanto tengono. Perciò, anche la libertà politica è preziosa. Un rinchiudersi eccessivo nella sfera privata, inoltre, non comporterebbe solo il rischio di perderne le garanzie, ma implicherebbe una sorta di angustia morale dalla quale l’esercizio della libertà politica ci libera, mettendoci in contatto con orizzonti più ampi. Senza libertà politica non c’è perfezionamento e progresso morale, ma questo non toglie che la sua funzione fondamentale resti pur sempre quella di garanzia della libertà privata13. Sul rapporto tra le due libertà, dunque, la riflessione di Constant resta in qualche modoaporetica:perunverso eglisirendecontoche,senza la partecipazione politica, l’intero assetto delle libertà rischia di crollare; ma, per altro verso, come tener viva la partecipazione politica, se l’individuo moderno, che Constantcoglieintuttalasua radicalità, è prevalentemente concentrato nella sua dimensione privata ? È vero chelareligione,cuiConstant affida un ruolo importante, costituisce a sua volta un legametragliuomini;manon si tratta di un legame di naturapolitica. Una operante garanzia dellalibertà,peraltro,richiede secondoConstantcheipoteri pubblicisianoarticolatieben delimitati nelle loro competenze: ed è su questi temi che si esercita la complessa riflessione costituzionale di Constant. L’elemento più originale dellasuacostruzioneconsiste nell’affiancare, al potere legislativo e a quello esecutivo, una terza istanza cheConstantdefiniscepotere neutro o preservatore, che, elettodalpopoloetotalmente indipendente dagli altri due, si pone come una sorta di arbitroingradodidirimernei conflitti. A questi si affiancanoaltriduepoteriche Constant concepisce come elettivi, e cioè da un lato quello amministrativo locale edall’altroquellodeigiudici, cui deve essere garantita la massimaindipendenza. 3.Alexisde Tocquevilleela democraziainAmerica. Discendente da genitori aristocratici e fedeli alla dinastia borbonica, Alexis de Tocqueville (1805-59) è un discepolo di Constant che però finisce quasi per rovesciarne gli esiti, recuperando il valore di quella libertà politica che in Constant era rimasta comunque subordinata alla libertà privata. I suoi studi sulla democrazia americana nacquero in seguito a un viaggio che, nel 1831, egli compì nel nuovo continente, dopo che, nel 1830, la dinastia borbonica era stata soppiantata, sul trono francese, da Luigi Filippo d’Orléans, al quale Tocqueville aveva giurato fedeltà, non senza però provare disagio per questa rottura dei legami che univano la sua famiglia ai Borboni. Il viaggio non gli consenti solo di prendere le distanze dalla nuova situazione politica che si era creata nel suo paese, ma gli offri l’opportunità di quello studioravvicinatodellanuova democrazia americana da cui sarebbero nati i suoi libri più influenti: la Democrazia in America, pubblicato in due partieinduetempinel1835 e nel 1840, e L’Antico Regime e la Rivoluzione, del 1856. Mentre il liberalismo di Constant credeva ancora di poter arginare l’impatto della democrazia attraverso la limitazionedeldirittodivoto ai soli proprietari, la posizionediTocqueville,che di Constant è ammiratore e discepolo, si caratterizza innanzituttoperchéegli,forte dell’esperienza americana, prende atto del carattere inarrestabile dell’affermarsi della democrazia, alla quale perciò ritiene che sarebbe vano opporsi. Egli cerca perciò innanzitutto di individuare le caratteristiche del nuovo universo politico democratico che va affermandosi, mettendone in risalto tutti i pericoli ma senzacoltivarel’illusioneche il processo possa in alcun modovenirbloccato. ConConstanteconmolti pensatori politici della prima metà dell’Ottocento, Tocqueville condivide però unpresuppostodifondo:sela democraziasiidentificaconil suffragio universale, e se la maggioranza della società è composta da poveri, o comunque da gente priva di proprietà, allora con la democrazia il potere politico, o più precisamente il potere legislativo, è consegnato alla classe non proprietaria. Constantvolevainognimodo scongiurare quest’esito; Tocqueville ne prende atto: «Il suffragio universale assegna dunque realmente il governo della società ai poveri»14. È questa una delle tesidifondocheTocqueville sviluppa nella prima parte della Democrazia: con il governo democratico il popolo, la massa dei non proprietari, diventa davvero sovrana:«Ilpopoloregnanel mondo politico americano come Iddio regna nell’Universo.Essoèlacausa e il fine di ogni cosa: tutto esce da lui e tutto finisce in lui»15. Seaquestopropositosiè potuto parlare, e non a torto, di una sorta di esagerata sopravvalutazione della sovranità popolare, dettata più dal timore e dalla diffidenza che da una effettivaanalisidellarealtà16, l’altro tema fondamentale su cui Tocqueville costruisce la suaanalisidellademocraziaè quello della «eguaglianza delle condizioni»: per l’aristocratico Tocqueville è proprio questa eguaglianza che dà il tono generale alla società democratica, che sopprime qualsiasi privilegio giuridico, di status, di ceto. L’eguaglianza delle condizioni, perciò, è un concetto dai contorni non strettamentedefiniti,chestaa indicare in sostanza quella che per Tocqueville è una caratteristica di fondo della «mentalità» democratica: il non riconoscere alcuna superioritàdirangoodialtro genere, e il collocare tutti gli individui su un medesimo terreno. Non è vero perciò, neanche per un pensatore liberale come Tocqueville, che la democrazia sia un mero strumento attuativo del liberalismo; piuttosto, essa si definisceperdellequalitàche la caratterizzano anche al di là delle forme giuridicopolitiche, come per esempio questa «mentalità». L’eguaglianza delle condizioni, peraltro, è ben compatibile anche con le più grandi diseguaglianze economiche: la democrazia americana è caratterizzata da un grande divario tra ricchezza e povertà, ma questo non implica una divisione «antropologica», perché la proprietà e le ricchezze sono altamente mobili e l’individuo può trovarsi a occupare, in breve spazio di tempo, posizioni molto diverse nella scala sociale. Proprio perché considera ineluttabile l’affermarsi del «dogma» della sovranità popolare e della eguaglianza delle condizioni, Tocqueville vuole mettere in guardia dai costi che lo sviluppo della democrazia comporta in terminidiautonomiaelibertà dell’individuo, che si trova sempre più sottomesso a quella che egli definisce l’onnipotenza o, peggio ancora, la «tirannide della maggioranza». La fenomenologia di questa degenerazione è così ricca e suggestiva che a essa attingeranno, ancora nel Novecento,tuttiicriticidella società di massa. L’onnipotenza della maggioranza si esprime negli spazi sempre più grandi che vengono occupati dal potere legislativo, esercitato da deputati fortemente condizionati dall’opinione popolare.Leleggisonomolto numerose e soggette a cambiamenti frequenti; il potere legislativo è praticamenteprivodilimiti,e in questa assenza si annida perTocquevilleilgermedella tirannide. La maggioranza peraltro controlla, negli Stati Uniti, anche tutti gli altri poteri: dall’esecutivo, al giudiziario eletto dal popolo, fino al potere non istituzionalizzatodellastampa e dell’opinione pubblica. Ma questo significa, per Tocqueville, che l’individuo non dispone di vere garanzie qualora i suoi diritti vengano violati col beneplacito della maggioranza del popolo. L’arringa contro la tirannide dellamaggioranzaculminain pagine durissime sulla sorte che attende la libertà di discussioneedipensiero:«In America, la maggioranza tracciauncerchioformidabile intorno al pensiero. Nell’interno di quei limiti lo scrittore è libero, ma guai a lui se osa oltrepassarli». «Nessuno scrittore, qualunquenesialanotorietà, può sfuggire all’obbligo di incensare i suoi concittadini. La maggioranza vive dunque in una perenne adorazione di sé medesima...» Severissima è la conclusione che Tocqueville trae: «Non conoscounpaeseincuiregni, in generale, una minore indipendenza di spirito e una minore vera libertà di discussione come in America»17. Nello sviluppo del pensiero di Tocqueville, perciò, la critica classicamente liberale (segnata, come in Constant, dal trauma del giacobinismo) dellademocraziacomepotere illimitato delle classi non abbientisitrasforma,comesi vedebenenellasecondaparte della Democrazia, in una riflessione sui nuovi rischi della società egualitaria (nel sensodettosopra)edimassa, caratterizzata da una decadenza e «dipendenza» dell’individuo che viene diagnosticata in modo tanto più netto quanto più resta vivoinTocquevilleilricordo di ciò che ormai non si può piùrestaurare,ecioèillibero e potente individuo aristocratico. «Nei secoli di aristocrazia, che hanno preceduto il nostro, vi erano dei privati potentissimi e un’autorità sociale assai debole»18; nel tempo democratico il rapporto si inverte, e alla crescente impotenza degli individui fa da contraltare un potere socialesemprepiùsmisurato. Non si tratta più, però, del potere incontrollato della massa democratica e plebea, fantasma che si è materializzato al tempo dei giacobini;sitrattapiuttostodi un potere pubblico tanto più onnipervasivo quanto più anonimo, a cui fa da contraltare un individuo privato che si spoliticizza, e che si dedica al culto del denaro e delle sue piccole soddisfazioni materiali. La minaccia che Tocqueville vedeall’orizzonte,perciò,èsì quella di un dispotismo, ma di nuovo genere, un dispotismo«mite»:«Secerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari,coniqualisoddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tuttiglialtri...Aldisopradi essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo siincaricadiassicurareiloro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite ... Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agenteeregolatore;provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loroprincipaliaffari,dirigele loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere ?»19. Questa società soffocata da «una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi» che comprimonoogniveralibertà e indipendenza individuale, soddisfacendoaltempostesso il profondo bisogno degli individui di essere guidati ed esonerati dal rischio, configura una specie di «servitù regolata e tranquilla», assolutamente compatibile con tutte le «forme esteriori della libertà». Non manca però, in Tocqueville, la riflessione sulle tendenze che si oppongono, o potrebbero opporsi, a questa involuzione della democrazia in dispotismo mite, adatto a uomini ricchi di piccole passioni e di piccole ambizioni, ma privi di quelle grandi. Se l’uguaglianza democratica tende a produrre uomini chiusi nella loro dimensione individualistica, privi di legame sociale20, incapaci di uscire dalla «solitudine del proprio cuore»21 (e in ciò ben accetti al dispotismo che vuole governarli), questa tendenza puòesserecontrastata,enella società americana in buona misura lo è, da una grande rivitalizzazione della libertà politicaedellapartecipazione civica: «Molti in Francia scrive Tocqueville considerano l’eguaglianza delle condizioni come un primo male e la libertà politica come un secondo. Quando sono obbligati a subire l'una, si sforzano perlomeno di sfuggire all’altra. E io dico che, per combattere i mali che l’eguaglianza può produrre, non vi è che un rimedio efficace:lalibertàpolitica»22. Tocqueville si sofferma infatti ampiamente su tutte quelle istituzioni che, nell’America democratica, danno modo ai cittadini di porsi come soggetti attivi di partecipazione politica, recuperando quasi, in alcuni aspetti, quella «libertà degli antichi» che era parsa a Constant ormai inaccessibile alla modernità; l’autore della Democrazia in America insisteinmodoparticolaresul grande valore della democrazia municipale e dell’associazionismo: poter gestire direttamente gli affari cheliriguardanosuscitanegli individuiunacuraperilbene pubblico e rivitalizza quei legami sociali che l' individualismo del benessere minaccia di recidere: «Le libertàlocali,chefannosiche ungrandenumerodicittadini riçerchino l’affetto dei loro vicini e dei loro parenti, conducono dunque continuamente gli uomini gli uni verso gli altri, malgrado gli istinti che cercano di separarli, e li costringono ad aiutarsi fra loro»23. La sfida fondamentale della democrazia sta dunque per Tocqueville, che in ciò si rivela come un pensatore straordinariamente acuto e attuale, nella capacità di non lasciarsi assorbire dall’orizzonte della spolitìcizzazione e di un benessere tutto individualistico, nello sforzo di tener viva la diretta partecipazione politica dei cittadini. La sua critica delle tendenze dispotiche della società di massa, peraltro, investeinmododecisoanche ilsocialismo,chediquellagli sembra riassumere in sé gli aspettipeggiori.Deputatonel periodo che va dal 1839 al colpo di stato di Luigi Napoleone, Tocqueville non mancadischierarsi,nel1848, contro coloro che vorrebbero proseguire la rivoluzione democratica in rivoluzione sociale. Nel suo memorabile discorso su, o megliocontro, il diritto al lavoro, il socialismo diventa il concentrato di tutti quei mali che Tocqueville aveva visto minacciare il futuro della società democratica: «La Rivoluzione francese non ha avuto la pretesa ridicola di creare un potere sociale che assicurassedipersestessola fortuna, il benessere, l’agiatezza di ogni cittadino...»24. Proprio ciò che invece vuol fare il socialismo quando, reclamando il diritto al lavoro, chiede che lo stato si sostituisca alla previdenza individuale, si intrometta nelle industrie, imponga a essedeiregolamenti,sifaccia insomma paternallsticamente carico del benessere di tutti. Tocqueville propone così, ora, una contrapposizione secca tra socialismo e democrazia, che non sembra molto coerente con quello che, sulla democrazia, egli stesso aveva scritto qualche anno prima. Ma la ricchezza del suo pensiero sta forse proprio nelle sue contraddizioni, ambiguità o ambivalenze:chenefannoun pensatore aperto a molte interpretazioni anche assai contrastanti, ma comunque straordinariamenteprofetico. 4.Illiberalismo radicalediJohnStuart Mill. La lettura della Democrazia in America di Tocqueville esercitò una notevole influenza sul pensiero di John Stuart Mill (1806-73) che, formatosi nell’orizzonte intellettuale di suo padre James Mill e dell’utilitarismo di Jeremy Bentham, ne modificò notevolmente l’impostazione, fino a giungere all’elaborazione di un pensierosocialeepoliticonel quale confluiscono molti motivi diversi, e la cui originalità sta soprattutto nel dar luogo a quello che si potrebbe chiamare un liberalismo radicale, caratterizzato per un verso dalla apertura nei confronti delsocialismoeperl’altroda una difesa della libertà e dell’anticonformismo individualemoltopiùnettadi quella che era stata propria deipensatoriliberaliclassici. Mentre l’utilitarismo di Bentham aveva posto come fine della morale e della legislazione quello di realizzare la massima felicità per il maggior numero, John Stuart Mill, senza rinnegarne il principio, si rende conto però che la felicità degli individui non può essere in alcun modo ridotta alla ricerca del benessere individuale strettamente inteso, ma anzi può essere talvolta conseguita più facilmente se ci si dedica a fini apparentemente non utilitaristici come il contribuire alla felicità degli altri o più in generale allo sviluppo delle facoltà e delle capacità umane. Non tutti i piaceriumani,perlui,stanno sullo stesso piano, e l’errore dell’utilitarismo classico sta proprio nel non aver dato spazioadistinzioni. La sua visione progressivaeumanistica,ela sua indignazione per le condizioni di ingiustizia sociale e di deprivazione, portaronoMillaguardarecon molta simpatia al movimento socialista e cartista, e a concedere ampio spazio alla critica socialista della proprietà privata nel suo capolavoro di teoria economica, che si iscrive nellalineadiDavidRicardoe di James Mill, i Principi di economiapoliticadel1848. Una delle tesi più caratteristiche del Mill economista è che, mentre le leggi che governano la produzione della ricchezza sono assimilabili a delle verità fisiche, del tutto indipendenti dalla volontà umana, la distribuzione della ricchezza, invece, dipende dalle leggi e dalle consuetudinidellasocietà,ed è quindi modificabile attraverso l’intervento cosciente degli uomini. Mill critica, perciò il modo in cui laricchezzaèdistribuitanella società del suo tempo; e sostiene che, se la conseguenza di un ordinamento sociale fondato sullaproprietàprivataèchela ricchezza venga distribuita in proporzione quasi inversa al diretto contributo lavorativo, allora questo ordinamento dev’essere modificato, forse anche sostituendo a esso un sistema comunistico. Un sistemadiquestotipo,d’altra parte, potrebbe comportare deirischiperquantoriguarda lo sviluppo libero e multiforme della personalità umana, che per Mill resta il fine fondamentale; in questo caso sarebbe preferibile combattere i mali derivanti dall’istituto della proprietà privataattraversounapolitica di riforme sociali, a cominciare dalla diffusione dell’istruzione e dalla limitazione della crescita dellapopolazione:misureche risulterebbero sicuramente efficaci per combattere il male della povertà, e che vannoaffiancateadaltretese nella medesima direzione, come la limitazione delle successioni, la sostituzione dellagrandeproprietàterriera con la piccola proprietà contadina, lo sviluppo della produzione cooperativa. «Non bisogna attendersi scriveMillneiPrincipi-che ladivisionedelgenereumano indueclassiereditarie,datori di lavoro e lavoratori, possa essere eternamente conservata».C’èdaaspettarsi piuttostochequestadivisione venga sostituita da nuove forme associative e cooperative, tra lavoratori e datoridilavorootraglistessi lavoratori. Mill critica quindi del capitalismo il fatto che esso si basi su una distribuzione ineguale delle proprietà che è il sedimento di passate sopraffazioni, mentre difende il principio della libera concorrenza con la sola eccezione della concorrenza tra i lavoratori. Egli però non crede che lo sviluppo, l’accumulazione e quindi la stessa lotta concorrenziale debbano continuare all’infinito, anzi ritiene che sia inevitabile giungere a uno «stato stazionario», con il quale l’umanità si lascerà finalmente alle spalle la continua corsa all’accrescimento del guadagno. Per quanto riguarda il contributo di Mill alla filosofia politica, questo si trova innanzitutto in quella cheèlasuaoperapiùfamosa e più letta, il volumetto On libertydel 1859. Ispirato alla stessa preoccupazione che avevaanimatoTocqueville,e cioè che l’invadenza dello stato e la tirannide della maggioranza possano soffocare ogni spazio per la libertà degli individui, On liberty si propone di determinare i limiti che il potere pubblico e la legislazione non possono varcare, ovvero quelle sfere di libera azione individuale che alla normazione statale debbono restare comunque sottratte.Ilprincipiodiquesta limitazione, nel modo in cui Millloformula,èsemplicee univoco: lo stato non può vietare alcuna azione dell’individuo che non rechi dannoadaltri:«Ilsoloscopo per il quale si può legittimamente esercitare un potere su un qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è quello di impedirgli di nuocere agli altri.Ilbene,fisicoomorale, di questo individuo, non è una giustificazione sufficiente»25. Se definiamo paternalista un’autorità politica che pone ai sudditi delle limitazioni motivate da una miglior conoscenza, vera o presunta, di quello che è bene per loro, allora dobbiamodirecheMill,dopo Kant, è uno dei critici più fermi del governo ispirato a principipaternalistici. Adifferenzadialcunidei suoi predecessori, Mill non fondalasuatesicircailimiti del potere dello stato né su una teoria dei diritti naturali, nésuunabasecontrattualista: la riconduce piuttosto, come dice egli stesso, al criterio di utilità (che resta per lui il criterio supremo) inteso però nel senso più ampio del termine, e facendo riferimento agli «interessi permanenti dell’uomo come essere perfettibile»26. Il principio di minima limitazione della libertà, in altreparole,nonvienebasato su un diritto dell’individuo alla non-interferenza, ma sulleconseguenzepositive,in terminidiutilitàrettamentee largamente intesa, che ne discendono. Proprio per questo la sua tesi viene dimostrata da Mill, in primo luogo, per quanto riguarda il casodellalibertàdiopinione. Il potere politico che pretendesse di vietare la pubblica espressione di opinioni che l’autorità o la maggioranza ritengono perniciose, deleterie, o semplicemente sbagliate, commetterebbe, sostiene StuartMill,untortonontanto contro i sostenitori di quelle opinioni, che verrebbero limitati nella loro libertà, quanto contro l’umanità in generale, contro gli uomini viventi e ancor più contro quelli che verranno. L’argomento di Mill è molto chiaro; ammettiamo il caso cheunacertaopinionevenga proibita: « Se l’opinione è giusta, essi vengono privati dell’opportunità di abbandonare l’errore per la verità;seèsbagliata,perdono un beneficio quasi altrettanto grande: la percezione più chiaraepiùvivadellaverità, prodotta dal contrasto con l’errore»27.Perescludereche una certa opinione sgradita possaungiornorivelarsivera, prosegue Mill, ci si deve arrogare la pretesa di una certezzaassolutadelleproprie idee che dovrebbe essere estraneaaogniuomodibuon senso; l’esigenza di mantenere sempre una apertura fallibilista è rafforzata dal fatto che molte idee ritenute certissime in epoche passate si sono rivelate, in seguito, non solo false, ma persino assurde. Se l’opinione che oggi viene ritenutafalsaevieneproibita dovesse essere vera, la proibizione sarebbe un ostacolo sul cammino dell’umanità in cerca del vero. Ma anche se l’opinione proibita fosse falsa, il proibirla renderebbe impossibile all’opinione vera di chiarire e motivare se stessa nel confronto con la suanegazione,elaridurrebbe infine a un dogma non chiarito e non articolato. La cosa più probabile, d’altra parte,concludeStuartMill,è che l’opinione dissidente non sia né del tutto vera né del tutto falsa, ma contenga una parte della verità (così come l’opinionemaggioritariachea essasicontrappone);proibirla vorrebbedireperciòimpedire all’opinione prevalente di correggersiemigliorarsi. Non c’è progresso verso la verità, insomma, senza libertà di discussione, così come non vi è progresso sociale se i fautori delle diverse opzioni (aristocratici e democratici, socialisti e difensori del mercato) non hanno modo di esprimerle e di sostenerle con uguale libertà28. Il ragionamento che vale per le opinioni si applica anche (con la sola esclusione diciòcherecadannoadaltri) agli stili di vita e ai comportamenti: se non vi fosse la possibilità per gli individui di sperimentare modi di vita eterodossi, sgraditi al conformismo dei più e al potere dello stato, sarebbe impedito agli uomini di conoscere ciò che forse potrebbe portarli a una vita piùrealizzataepiùfelice.La possibilità per l’individuo di svilupparsi autonomamente, seguendoipropriimpulsipiù personali e spontanei e sottraendosi alla tirannia conformistica della maggioranza, non è solo uno dei principali fattori della felicità umana, ma «quello sicuramente più essenziale al progresso individuale e sociale»29:«illiberosviluppo dell’individualità è uno degli elementi essenziali del bene comune», ma un elemento che rischia di scomparire, come aveva denunciato Tocqueville, quanto più la tirannidedellamaggioranzasi afferma a scapito dell’originalitàdeisingoli. Derivadaciòlacriticadel paternalismo, ovvero della pretesa di proibire agli individui comportamenti (come per esempio il bere o l’assunzione di sostanze nocive) che, senza recar dannoadaltri,sembranoperò contrari al loro stesso bene: «nessunapersonaogruppodi persone è autorizzata sostiene Mill - a dire a un’altra persona matura che per il suo bene non può fare dellasuavitaquelchesceglie difarne»30. Qui arriviamo alla punta più radicale, e anche controversa, del liberalismo milliano.Inprimoluogo,non è facile distinguere un comportamento che reca dannoadaltridaunochenon lo fa: si potrebbe sostenere che il danno dipende dai criteri di liceità che ogni società si dà, e che mutano storicamente. In secondo luogo,seammettiamochesia lecito, o magari anche doveroso, impedire a un individuo,ancheconlaforza, di gettarsi in un fiume per annegarsi, che obiezione ci può essere, per esempio, alla proibizione di far uso di sostanze che danneggiano, in modo accertato, la salute, la vita e la lucidità mentale dell’individuostesso?Perché non sarebbe lecito, in questo caso,costringeregliindividui in vista del loro stesso bene? Oppure: se il principio di libertà è difeso per ragioni conseguenzialiste, cioè in quanto genera buone conseguenze consentendo agli individui di perseguire il loro bene, non perde la sua ragion d’essere quando il comportamento dell’individuo va manifestamente contro il suo stessobene? Alla plausibilità di queste obiezioni Mill oppone una seriediargomentichesono,a nostro giudizio, non conclusivi ma comunque rilevanti: 1) il singolo è la persona più interessata al proprio benessere, più di quanto non lo sia la società; 2)lasocietàhaavutoinogni caso il modo, con l’educazione,diprevenirenel singolo i comportamenti sgraditi; 3) se non si ponessero dei limiti all’ingerenzadelpubblicosui comportamentiprivati,questo finirebbe per punire, come è successo infinite volte nella storia, non ciò che è provatamente dannoso per i singolistessi,matuttociòche va contro le sue preferenze e soprattutto le sue superstizioni: basti pensare alla persecuzione nei confronti delle persone irreligiose o giudicate immorali. Insomma, non si può conferire alla società un potere che essa ha sempre dimostrato, nei secoli, di non sapereusarebene. Vi sono però delle eccezioni: è lecito proibire agli individui di vendersi come schiavi, anche se lo volessero, perché il principio di libertà non può essere usato per legittimare la rinuncia, seppure volontaria, alla libertà stessa: «la facoltà di alienare la propria libertà non è libertà»31. Così come non è una violazione della libertà, né dei genitori né dei figli,l’istruzioneobbligatoria, che però secondo Mill non deve essere affidata a un unico sistema educativo statale. E infine, Mill precisa che il principio della libertà individuale non ha niente a che fare con la dottrina del libero scambio 32: limitare la concorrenza, per esempio, è quasi sempre sbagliato, ma nonèunattentatoallalibertà, poiché il commercio non è una libertà privata ma un’attività sociale, soggetta perciòalleleggichelasocietà leprescrive. La sua visione dell’uomo come essere che si realizza sviluppando in modo autonomo e originale le sue piùpropriecapacitàinfluenza anche la visione che Mill ha della democrazia. Per un verso,inquantofautorediun avanzamento culturale e intellettuale di tutti gli uomini,Millpensachequesto sarebbe senz’altro favorito dalla partecipazione alla politicaattraversoilsuffragio universale democratico. D’altra parte, egli, come i suoi predecessori liberali, è ben consapevole di vivere in una società fondamentalmente divisa in classi,edovelamaggioranza della popolazione appartiene allaclassepiùpovera.Perciò, nel suo saggio Sul governo rappresentativo (1861), sostiene che il suffragio universale applicato secondo la regola un uomo/un voto porrebbe il potere legislativo nellemanidellamaggioranza più povera e meno colta, comportandoquindiilrischio di una legislazione classista, ingiusta, attenta solo agli interessi immediati della maggioranzaenonaquellidi lungo termine, delle altre classi, delle generazioni a venire. A questi inconvenienti Mill pensò che si potesse porre rimedio non già eliminando il suffragio universale (anche se ne escludeva gli analfabeti e gli indigenti che non pagavano tasse) ma piuttosto introducendo il correttivo del voto plurimo, in modo tale che tutti avessero a disposizione un voto, ma che lepersonepiùistruite,esperte e qualificate ne avessero più d’uno (un uomo di cultura, per esempio, poteva averne cinqueosei,unimprenditore tre, un capo operaio due). In questo modo si sarebbe potuta ottenere una legislazione non classista e sensibile agli interessi generaliedilungoterminedi tutta la società. Sempre pensando a una democrazia dell'intelligenza, e quindi antilivellatrice, Mill ritiene che le leggi non dovrebbero essere elaborate dal Parlamento, ma da una commissione ristretta e qualificata, mentre il Parlamento dovrebbe limitarsi a discuterle, approvarle o respingerle. Il votoplurimo,peraltro,erada Mill considerato più che un espediente per evitare la legislazione di classe: si trattava di una misura in se stessa giusta perché, scriveva Mill, «non è utile, ma dannoso, che la costituzione del paese debba dichiarare che l’ignoranza abbia diritto al potere politico quanto l’istruzione». Proprio perché il suo pensiero costituisce, come abbiamo visto, il tentativo di tenere insieme molte e diverse esigenze intellettuali, Millèall’originenonsolodel liberalismo radicale, che rifiuta ogni paternalistico intervento nella sfera privata, ma anche del liberalsocialismo e di un modello di democrazia centrato sullo sviluppo culturale degli individui, che è stato opportunamente definito «democrazia di sviluppo»(Macpherson). 5.Ilsuperamento hegelianodel liberalismo. Anchelafilosofiapolitica diHegelsicostruisceintorno alla centralità del tema moderno della libertà; essa è caratterizzata dalla libera volontà universale fondamento dello stato -, pensata in una prospettiva che, senza negare alcune acquisizioni di fondo del liberalismo, le inserisce però inunacornicepiùampia,che nericonosceilrelativovalore e ne evidenzia anche i limiti. La filosofia del diritto hegeliana si articola in tre grandi parti dedicate rispettivamente al diritto astratto, alla moralità e all’eticità. L’oggetto delle prime due parti è proprio quellodimostrarecometanto la dimensione della mera libertà giuridica, quanto quella della libertà morale delineata secondo il modello kantiano, non costituiscano un modo soddisfacente di pensare la libertà: nella visione di Hegel, infatti, la libertà dell’individuo non consiste compiutamente né nella sua facoltà di operare come persona giuridica, capace di disporre di sé e delle sue proprietà e di concludere contratti con altre personegiuridiche,eneppure nella sua capacità di autodeterminarsi come persona morale capace di scegliere in base alla ragione senzalasciarsidominaredalle inclinazioni. Entrambi questi modi di intendere la libertà, sebbene abbiano il merito di insistere sul momento irrinunciabilmente moderno della soggettività, colgono il significato della libertà solo inmodoastrattoeparziale:la libertàinfatti,secondoHegel, non va intesa tanto come possibilità per l’individuo di determinarsi in una direzione o in un’altra, ma più compiutamente dev’essere compresa come il fruire di quelle condizioni e di quei rapporti oggettivi che consentano all’individuo la sua autorealizzazione33, che gli assicurino le condizioni per esplicare la sua libera personalità. Da questo punto di vista tanto la libertà del diritto astratto quanto quella della moralità kantiana risultano insufficienti: la libertà del diritto astratto conferisce all'individuo soltanto delle facoltà, mentre la libertà morale kantiana gli prescrive di agire secondo massime universalizzabili. Ma quali sono le massime universalizzabili? La tesi hegeliana è che si può rispondere a questa domanda solo se già si presuppone il valore di determinati istituti sociali, che però la moralità kantiana è incapace di generare da sé mostrandone la razionalità: se si assume l’istituto della proprietà, allora la massima che consente il furto non è certamente universalizzabile; ma come sappiamo che deve esserviproprietà? La libertà concreta, perciò, non può essere pensata come mera capacità di autodeterminazione individuale; essa viene ricostruita piuttosto, da Hegel, come l’insieme di quegliistitutinelcontestodei quali gli individui possono godere,adiversilivelli,delle condizioni per la loro autorealizzazione, E questa è appunto la terza sfera della filosofia del diritto, la sfera dellaeticità,cioèdellalibertà attuatainconcreteistituzioni, che a sua volta si articola nelle tre dimensioni della famiglia,dellasocietàcivilee dellostato. Rispetto al liberalismo, che pensava la libertà dell’individuoessenzialmente come esplicantesi nella dimensione della società civile, e che vedeva lo stato fondamentalmente come il garante di questa libertà (civile, privata o economica) la posizione di Hegel costituisce per molti aspetti un superamento. In primo luogo egli mostra, contro il contrattualismo, che non si può pensare lo stato come il risultato di un patto tra individui privati, quasi che si dessero prima i soggetti di contratto nell’ambito della società civile e poi l’organismo politico che li stabilizza e li garantisce. Al contrario, per Hegel, come già per Aristotele, lo stato, cioèl’organismopolitico,èil momento che precede gli altri: non ci sono individui capaci di autodeterminarsi liberamente,famiglia,società, senza l’unità politica che di tutto ciò costituisce la condizione. Ma proprio per questo non ha senso affermare che l’unità politica sia semplicemente un mezzo per garantire quello che i liberali allaConstantponevanocome il fine prevalente, e cioè il godimento delle libertà private da parte del membro dellasocietàcivile.PerHegel èveroilcontrario,ecioèche lostatoèscopofinale,finein se stesso, mentre il supremo dovere dei singoli è innanzitutto quello di essere componentidellostato34. Peraltro, l’individuo che persegue il proprio interesse egoisticoinstaurandorapporti discambioconaltriindividui egoisti, e che costituisce appunto il soggetto operante nelladimensionedellasocietà civile e di mercato, lungi dal costituire la figura unica o dominante della soggettività, comeaccadeinmoltevisioni liberali, ne è semplicemente un aspetto parziale. Il primo istituto all’interno del quale gli individui trovano le condizioni della loro autorealizzazione,infatti,non è la società civile, ma la famiglia, che ha la sua determinazione nell’amore e nell’unità tra i componenti. La separazione tra gli individui interviene solo successivamente, e presuppone alla sua radice questa dimensione di più originaria e insostituibile unità, di spontanea dedizione aunbenecomune. L’ambito della società civileèinvecequelloincuisi afferma la separazione degli individui, come persone private dedite al soddisfacimento dei loro bisogni e interessi egoistici. Si tratta, per Hegel, di una dimensione fondamentale: lo sviluppo dell’individuo, infatti, presuppone la sua separazione dall’unità immediata, la conquista dell’autonomia; l’errore sta solo nel considerare questa sfera come la dimensione unica o fondamentale per la vita dell’individuo; sta nel non capire, in altre parole, che gli individui possono confrontarsi nella società civile come portatori di interessi egoistici solo in quanto sono iscritti nell’orizzonte di altre istituzioni, non di mercato, cheassicuranolalorounitàe la salvaguardia dell’interesse comune, come la famiglia a un primo gradino e le istituzioni dello stato a un livellopìualto. Esulterrenodellasocietà civile,però,chesigeneranoil progresso e la civiltà: il lavoro, la sua divisione sempre più articolata, la moltiplicazione dei bisogni, losviluppodellemacchine,la sempre crescente intensificazione dei rapporti di scambio; in questa sfera, come avevano insegnato Mandeville e Adam Smith, i vizi privati si trasformano in pubbliche virtù, «l’egoismo soggettivo si rovescia nel contributo all’appagamento deibisognidituttiglialtri»35. Nella visione hegeliana, però (e anche in questo egli prende le distanze da presupposti largamente condivisi tra i pensatori di orientamento liberale), le conquiste della società civile generano a loro volta problemi che' essa non è in grado di risolvere con i suoi stessi strumenti, cioè confidando semplicemente nelle virtù della mano invisibileedellaconcorrenza: la sua legge è quella di uno sviluppocheèsiimpetuosoe privo di limiti (perché non sono più i bisogni a comandarelaproduzione,ma è quest’ultima a generare sempre nuovi bisogni), ma al tempostessoinegualeepieno di contraddizioni. La dinamica spontanea della società civile, infatti, tende per Hegel a generare da un lato la più straordinaria accumulazione di ricchezza, dall’altrolaconcentrazionedi povertà e deprivazione, la formazione della «plebe»: «malgrado l'eccesso della ricchezza, la società civile non è ricca abbastanza, cioè nellerisorseadessapeculiari non possiede abbastanza per ovviare all’eccesso della povertà e alla produzione dellaplebe»36. È questo paradosso, inseparabile dalla natura stessa della società civile moderna, a rendere necessarie, all’interno stesso dellasocietàcivile,istituzioni non di mercato, e anzi aventi il precipuo scopo di operare nel senso del bene comune e della solidarietà. Si tratta degli istituti che in Hegel vanno sotto il nome di «polizia» e di «corporazione»;laprimahail compito di regolare diversi aspetti della vita sociale ed economica sottraendoli alla loro accidentalità: armonizzare gli interessi di produttori e consumatori, fissare i prezzi dei beni di prima necessità, esercitare sorveglianza sull’educazione, svolgere per i poveri quelle funzioni che la famiglia non puòadempiere.Ancorpiùche la polizia, la corporazione, cheriuniscegliappartenentia un determinato ceto o professione,èperHegelquasi una seconda famiglia: nel senso che, oltre a porre dei limiti al libero mercato, ripropone, al livello più complesso della società civile, quelle funzioni di solidarietà che in un primo tempo erano state proprie della famiglia (i più ricchi, ad esempio, hanno obblighi verso la corporazione,cheintalmodo puòsoccorrerecolorocheper accidente sono caduti in povertà). Perciò già nella società civile si pongono, attraverso il rilievo che viene conferito ai momenti del bene comune e della solidarietà, quelle radici etiche che poi si dispiegheranno compiutamente nello stato, che, nelle classiche definizionidatedaHegel,èla realtàdell’ideaetica,ilregno della libertà sostanziale, il momento in cui l’interesse universale si attua consapevolmente, non sopprimendo gli interessi particolari, ma anzi accogliendoli in sé e mediandosiattraversodiessi. «Lostato-scriveHegelinun passaggio davvero centrale della sua riflessione - è la realtà della libertà concreta: ma la libertà concreta consiste nel fatto che l’individualità personale, e i di lei particolari interessi tanto hanno il loro completo sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistemadellafamigliaedella società civile), quanto che essi, o trapassano per se stessi nell’interesse dell’universale, o con sapere e volontà riconoscono il medesimo e anzi come loro proprio spirito sostanziale e sono attivi per il medesimo come per loro scopo finale, cosìchenél’universalevalga e venga portato a compimento senza il particolareinteresse,saperee volere,négliindividuivivano come persone private meramente per l’ultimo, e non in pari tempo vogliano nell’universale e per l’universale e abbiano un’attivitàcoscientediquesto fine. Il principio degli stati moderni ha questa enorme forzaeprofondità,dilasciare il principio della soggettività compiersi fino all 'estremo autonomo della particolarità personale, e in pari tempo di ricondurre esso nell' unità sostanzialeecosìdimantener questainessomedesimo» 37. La grande forza dello stato moderno, se lo paragoniamo all’unitàsostanzialemameno differenziata dello stato anticoodellapolis,stainciò: che in esso per un verso si afferma il principio cristiano eborghesedell’infinitovalore della soggettività, spinto fino all’estremo del perseguimento autonomo dell’interesse più particolare, mentre per altro verso gli individui riconoscono il loro necessario legame con l’intero e quindi assumono consapevolmente l’interesse generalecomeilloroproprio interesseescopofinale.Nella prospettiva hegeliana perciò, come è stato scritto, «v’era unalibertàformale,reale,che eralalibertàdeisingolicome privati, soggettiva; e sopra di essa v’era una libertà sostanziale, pur essa reale, che era la libertà dei singoli autocoscienti del proprio legame col tutto, insieme oggettivaesoggettiva»38. L’individuo che, nella compagine statale, realizza i suoi interessi particolari, comprende che il bene del tuttoèlacondizioneprimaria della sua soggettiva autorealizzazione, e assume quindi l’interesse della generalità come suo proprio interesse cosciente; e in tal modo l’interesse dello stato nons’imponecomeoggettivo sopra le teste degli individui, masimediaattraversoilloro operareconsapevole. Ma come è possibile che si attui questa mediazione di universalitàeparticolarità,se lasocietàcivileèquelmondo lacerato e contraddittorio che lo stesso Hegel ci ha descritto, in paragrafi la cui tensione dialettica e critica non è inferiore a quella che troveremo in Marx, che propriosuquestebasicrederà di dover smentire la conciliazionehegeliana? Inrealtàlamediazionedi universale e particolare è possibile, in Hegel, perché già nella stessa società civile se ne dà la preparazione: questa è sì il mondo degli interessi conflittuali e della polarizzazione di ricchezza e povertà, ma al tempo stesso contiene la possibilità di superare le sue lacerazioni: sia attraverso gli istituti della polizia e della corporazione, sia perché non è un mondo puramente atomistico, ma è invece organicamente strutturato nell’articolazione delletreclassioceti(Stände) che la compongono: il ceto sostanziale, formato dai proprietari terrieri, il ceto industriale, nelle sue varie articolazioni artigianale, manifatturiera, commerciale, e nella sua organizzazione in corporazioni; e infine il ceto generale, cioè quello dei funzionari dello stato, che ha comepropriocompitolacura, appunto, degli interessi generali. Lasocietàcivilequindi,al di là del suo atomismo, contiene già un’articolazione organica e armonica dei diversi interessi. E su questa basesielevaquell’organismo compiuto, cerchia di cerchie, che è lo stato. La struttura costituzionale dello stato, a sua volta, si dispiega nell’articolazione dei tre poteri che non devono essere pensati nella logica della «separazione», ma piuttosto come momenti e determinazionidiunintero:il potere sovrano, che costituisce il culmine e il principio della totalità, che detiene la decisione ultima e che compete al monarca costituzionale; il potere governativo, che deve eseguire e applicare le decisioni; e il potere legislativo, al quale concorrono tanto i due poteri precedentemente menzionati quanto l’elemento dei ceti, nelle sue tre componenti dei proprietari fondiari, dei funzionari e della classe industriale che è la protagonista della società civile moderna. Che il potere legislativo venga da Hegel strutturato attraverso una rappresentanzadeicetiedelle corporazioni è un passaggio fondamentale per tutta la sua costruzione, e sul quale non per caso si incentrerà la critica di Marx. Nell’elementodeiceti,infatti, le differenze, organicamente strutturate,dellasocietàcivile giungono ad avere un significato e un’attività politica. La rappresentanza cetuale,inaltreparole,nonfa astrazionedaidiversiinteressi della società civile come accade invece nel caso della rappresentanza universale e indifferenziata; non separa il sociale dal politico, e non distacca quest’ultimo dalla vita e dagli interessi della società. Hegel critica la concezione che, sciogliendo lediversecerchieecomunità in una moltitudine di individui, «tiene appunto perciò la vita civile e la vita politica separate l’una dall’altra, e colloca questa, per così dire, in aria, poiché la sua base sarebbe soltanto l’astratta singolarità dell’arbitrio e dell’opinione, quindi l’accidentale, non una base in sé e per sé stabile e legittima»39. Che invece i diversiinteressisiconservino e si trasvalutino sul terreno della politica è, nella prospettiva hegeliana, un passaggio essenziale per attuare quella mediazione di universalità e particolarità nella quale sta propriamente la forza dello stato moderno: la rappresentanza per ceti costituisce non solo l’elemento che media tra popolo e governo, ma soprattutto la concreta possibilità di saldatura tra gli interessi, organicamente articolati in cerehie, che si fanno valere nella società civile,euninteressegenerale al quale essi concorrono come tali, al di fuori della finzione della rappresentanza astratta e proiettata nel cielo disincarnato della politica. Nella critica di questa, Hegel anticipa chiaramente Marx; mamentreperquest’ultimola contraddizione tra l’uomo egoistadellasocietàcivileeil cittadino astratto e «celeste» della politica è la contraddizione stessa della società borghese moderna, che può essere superata solo con la trasformazione rivoluzionaria di questa e delle sue strutture, per Hegel le cose non stanno così: la separazionedisocietàcivilee stato politico (momenti che devono permanere nella loro differenza) si concilia nell'elevarsi della società civile a società politica attraverso la rappresentanza per ceti, e quindi nella costruzione di una mediazioneorganicatraidue momenti, necessaria così come lo è la mediazione organicatragliinteressidelle varie cerchie che compongono la società. Hegel, dunque, coglie l’aporia della politica moderna che anche Marx collocheràalcentrodellasua riflessione, ma al tempo stesso non riesce a prospettarne una soluzione che si collochi anch’essa all’altezzadellamodernità:le sue premesse antiindividualistiche (che lo portano sempre a privilegiare il momento dell’unità sostanziale), e perciò non democratiche, lo portano a ricercare un superamento dellarappresentanzamoderna attraverso istituti «organici» comeicetielecorporazioni, che però egli stesso sa tramontati e che, soprattutto, vorrebbero incardinare l’individuo moderno in rapporti ai quali esso non si lasciapiùridurre. 6.Marx: eguaglianzapoliticae ineguaglianzasociale. Dopo una prima fase di orientamento piuttosto liberale, Marx viene elaborando il suo pensiero politico proprio attraverso una critica serrata della Filosofia del diritto hegeliana, e soprattutto del modoincuiinessasiponeil rapporto tra società civile e stato. NellaprospettivadiMarx, il punto di maggior profondità dell’analisi hegeliana sta nel fatto che Hegelhacoltolaseparazione moderna tra la società civile (ilterrenosucuiagisconogli individui con i loro interessi particolari)elostato(illuogo dell’interesse universale) in tutta la sua nettezza; ma il limite della filosofia hegeliana, nella prospettazione che Marx ne offre, è quello di aver ricercato una soluzione illusoria di questa contraddizione, reintroducendo all’interno dellaseparazionemodernatra società civile e stato politico elementi di mediazione che provengono dall’ordine antico, premoderno, come ad esempiolarappresentanzaper ceti(Stände). Per Marx invece l’analisi critica della società moderna devepartiredallaseparazione che strutturalmente la caratterizza. La società civile è il regno degli individui privati che perseguono, nel quadro di una economia di mercato, i loro interessi particolari: essa è quindi caratterizzatadall’esistenzadi ampie diseguaglianze di denaro, di proprietà, di cultura, di posizione sociale. Ma ciò che caratterizza il moderno è che queste diseguaglianzedicondizione, a differenza che nella società feudale, perdono il loro significato politico: mentre nella società feudale la condizione di servo o di signore è anche una condizione politica, nella società moderna, nata dalla rivoluzione francese, tutti i cittadini sono politicamente eguali, a prescindere dalla posizione che occupano nella società,aprescinderesesiano possidenti o nullatenenti. Le resistenze contingenti che le classi proprietarie possono opporre a questa eguaglianza politica non tolgono che essa sia il principio strutturale del politicomoderno,chesivede già dispiegato nelle società borghesipiùsviluppate,come per esempio quella del Nordamerica. Ma se è vero che la Rivoluzione borghese rende tutti eguali politicamente,comecittadini, e quindi sopprime il significato politico dell’ineguaglianza sociale, non meno rilevante è l’altro latodiquestatrasformazione, sul quale Marx insiste: la Rivoluzione borghese non sopprime l’ineguaglianza sociale, ma solo il suo significatopolitico;essaanzi, dando luogo a una società civile e di mercato separata dallo stato, lascia che l’ineguaglianza possa svilupparsi su questo terreno, e si limita ad assicurare che essa venga politicamente neutralizzata nella eguaglianzatraicittadini.Da quinascequellocheèunodei problemi fondamentali di Marx come filosofo politico: come si deve pensare il rapporto tra queste due dimensioni, cioè tra l’ineguaglianzasociale,chesi dispiega nella società modernaattraversoilmercato e il capitalismo, e l’eguaglianzapolitica? Nel saggio Sulla questione ebraica Marx affronta questo problema attraverso un’analisi delle Dichiarazioni dei diritti elaborate nel corso della Rivoluzione francese. In esse si trova la distinzione tra i dirittidell’uomo(lasicurezza, la libertà, la proprietà) che tutelano appunto i diritti dell’individuo privato, membrodellasocietàcivile,e i diritti del cittadino, che concernono invece la partecipazione al potere pubblico, la libertà politica. I primi garantiscono l’uomo in quanto«membrodellasocietà civile, cioè individuo ripiegatosusestesso,sulsuo interesse privato e sul suo arbitrioprivato,eisolatodalla comunità»40. I secondi istituiscono una comunità politica ma solo come una sfera particolare della società separatadallealtre,cheastrae dalla vita concreta degli individui, dal modo in cui essi riproducono la loro esistenza, dal loro lavoro. Lo statopolitico,quindi,secondo Marx, domina «senza dominare realmente, cioè senza penetrare materialmente il contenuto delle restanti sfere non politiche»41. Ma torniamo allora a quella che ci sembra la domanda di fondo: come si deve pensare, secondo Marx, il rapporto tra queste due sfere ? Se lo si pensa alla manieraliberale(peresempio almodo,diConstant)idiritti politici costituiscono nulla più che la garanzia degli intangibili e inviolabili diritti dell’uomo: ma ciò significa, nellaprospettivadiMarx,che l’eguaglianza politica diventa nient’altro che un’uguaglianza illusoria, la cui funzione è quella di difendere, e al tempo stesso mascherare,l’ineguaglianzae i rapporti di dominio che regnano nella società civile. Inessainfattiiproprietaridei mezzi di produzione, dei capitali e della terra, esercitano un vero e proprio dominio su coloro che, essendone privi, si trovano nellaletteraleimpossibilitàdi riprodurre la propria vita e quindi sono costretti a vendere, riducendosi a «merce», la propria forzalavoro, che i capitalisti acquistano solo in quanto produca per loro un plusvalore, cioè se i proletari lavorano di più di quanto è necessario per riprodurre gli strumenti di produzione e i loro mezzi di sussistenza. Se si intendono i diritti politici, in modo classicamente liberale, solo come una garanzia dei diritti privati e dellelibertàdimercato,allora essi diventano una copertura illusoria dell’ineguaglianza reale. Nelle prospettive democratico-radicali però (e Marx cita a questo proposito Robespierre) ai diritti politici si attribuisce un significato molto più ampio: l’eguaglianza politica diventa (equestoeraappuntociòche temeva un liberale come Constant) una leva per mettere in questione l’ineguaglianza sociale, per esempio attraverso il livellamentodelleproprietà,il riconoscimento del diritto al lavoro, o misure simili. La contraddizione tra eguaglianza politica e ineguaglianza sociale si dispiega in questo caso nel tentativo di adeguare le condizionisocialialprincipio della eguale sovranità dei cittadini, che è incompatibile con l’esistenza della povertà e, come aveva insegnato Rousseau, di una marcata ineguaglianza dei possessi. La soluzione democraticogiacobina, però, non è agli occhidiMarxmenodifettosa di quella liberale: mentre quest’ultima accetta e riconosce francamente la società ineguale, il giacobinismo ne pretende un superamento illusorio. Lo stato politico non può sopprimere le ineguaglianze della società civile e i connessi rapporti di dominio perché esso non è che l’altra faccia complementare della societàcivileineguale,sulcui fondamento riposa: lo stato politico non può sopprimere le ineguaglianze della società civilesenzatoglierealtempo stesso anche sé medesimo come stato politico separato. La contraddizione tra eguaglianza politica e ineguaglianza sociale, perciò, si può superare solo con l’eliminazione di entrambi i termini contrapposti e complementari: e cioè, come Marx scrive nella sua giovanile critica della filosofiadeldirittohegeliana, attraverso una democrazia integrale che non sia più soltanto politica, cioè che instauri la comunità umana a partiredallivellodellavoroe della effettiva ri-produzione della vita, e non solo in un ambito politico, astratto e posto accanto alle ineguaglianze reali, contro le qualinonhanessunpotere. La rivoluzione come la pensa Marx, dunque, sopprimel’antitesitrasocietà civile e stato politico, per rifondare la comunità umana a partire dalla libera associazione dei produttori; e ciò implica l’estinzione del potere politico come dimensioneseparatadaquella in cui si attua l’effettiva riproduzione della vita degli individui. Le linee di questa trasformazione vengono tracciate da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848: attraverso la conquista della democrazia, il proletariato si impadronisce del potere politico e lo usa come leva per sopprimere la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e quindi le differenze di classe. Una volta che queste, dopo una fase di conflitti e di «interventi dispotici», saranno superate, e la produzione sarà tornata nelle manidegliindividuiassociati, «il potere pubblico perderà il carattere politico». Infatti, «il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra»42; superata la contrapposizionetraleclassi, diunpoterepoliticoseparato dalla società non ci sarà più bisogno. Ma se questo è, nelle sue linee generali, lo schema teorico,lecosesifannoassai più complicate quando ci si inoltrasulterrenodellastoria effettuale: che rapporto vi è tralelotteperlademocrazia, che si combattono nell’Europa del 1848, e in Francianellaformapiùaspra, e il cammino della rivoluzione sociale ? Per Marx deve trattarsi di un rapportodistrettasuccessione e continuità: il proletariato partecipa alla rivoluzione democraticaelasostienecon la sua forza, ma il suo programma è quello di non consentire che la rivoluzione si arresti, bensì di renderla permanente, proseguendo la rivoluzionedemocraticanella rivoluzione sociale. Ben sapendo che in questo percorso gli interessi del proletariato giungeranno necessariamente a scontrarsi con quelli della borghesia, come ha mostrato la vicenda del 1848 in Francia, il cui punto nodale, per Marx, è la repressionedellainsurrezione operaia parigina di giugno a operadelleforzeborghesi. Mentre la rivoluzione del 1848inFranciasichiude,nel dicembre del 1851, con il colpo di stato di Luigi Bonaparte, alla sua sconfitta nel 1870, a Sedan, nella guerra franco-prussiana, seguirà un nuovo episodio insurrezionale, la Comune di Parigi (1871). Al di là delle sue scarse possibilità di successo, la Comune dà a Marx l’occasione per tornare a riflettere sulla questione dello stato politico: in essa egli vede infatti il modello abbozzato di una organizzazione politica di tipo nuovo, che si distingue dalla democrazia rappresentativa borghese perchéinessailpotereviene esercitato o direttamente dal popolo, a livello locale, oppure attraverso delegati che, percependo salari da operai, possono essere revocatiinqualsiasimomento esonovincolatiaunmandato imperativo da parte dei loro elettori43. La Comune insomma sembra dar corpo per la prima volta all’idea marxianapercuilostatodeve cessare di essere un organo chegravasullasocietà,conla suaburocrazia,isuoicostiei suoiprivilegi,madeveessere invece strettamente subordinato alla società, che deve organizzarsi quanto più possibile nella forma dell’autogoverno. Nel 1875 infine, discutendo criticamente il programma elaborato per il congresso di unificazione della socialdemocrazia (Gotha, 22-27 maggio I 875)44, Marx precisa un aspetto ulteriore del suo modo di intendere la trasformazione rivoluzionaria dellasocietà:nellaprimafase della società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, la distribuzione dei beni avverrà secondo il principio « a ciascuno secondo il suo lavoro»; nella fase più matura della società comunista, invece, dopo che le forze produttive e la ricchezzacollettivasisaranno sviluppate oltre ogni possibilità oggi immaginabile, la società potrà finalmente lasciar spazio a un principio più libero e più elevato: «da ciascuno secondo le sue capacità,aciascunosecondoi suoi bisogni». Si giunge con ciò, non v'è dubbio, a quello che è il momento più arditamente utopico del pensiero di Marx; tuttavia, le difficoltà maggiori della sua teoria non derivano forse da questo eccesso di slancio utopico, ma da un problema più strutturale: la sua visione di una società come libera associazione dei produttori implicainfattiunasortadide- differenziazione rispetto alle complesse articolazioni di sferedellasocietàmoderna.E quindi appare, nonostante il suo straordinario potenziale di criticità, incapace di includere nel suo orizzonte teorico la dinamica di crescente evoluzione, complessificazione e differenziazione che sembra caratterizzare i processi di sviluppodellesocietàumane. L’importanza della teoria di Marxèdavedersiquindinon tantonegliesiticuiessamette capo, quanto nella domanda difondocheessaconforzae radicalità pone, e che concerne appunto il rapporto tralademocraziapoliticaela suabaseeconomicaesociale. 1 M. reale, Storia, cultura e politica. Una rilettura della ‘Cultura francese nell’età della Restaurazione’ di Adolfo Omodeo, in «Annali dell’istituto italiano per gli studi storici», XI (1989-90), pp. 535-97, in particolare p. 551. 2 Di cui si veda, per questo tema, Teoria della modernità (1990), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1992. 3 L’edizione critica e completa dei Prìncipi di Constant è quella di E. Hofmann, Les «Principes de politique» de Benjamin Constant, 2 voli., Droz, Genève 1980; il primo volume contiene la tesi di Hofmann. Le nostre citazioni sono tratte dall’antologia curata da s. de luca, Il pensieropoliticodiConstant, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 117. 4Ibid.,p.124. 5Ibid.,p.127. 6Ibid.,p.139. 7Ibid.,p.140. 8Ibid.,p.144. 9Ibid.,p.145. 10 Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quelladeimoderni,trad.it.in deluca(acuradi),Ilpensiero politico di Constant cit., p. 188. 11Ibid.,p.192. 12Ibid.,p.194. 13Sulrapportotraledue libertàinConstantsipossono ricordare il breve intervento dicroce(ConstanteJellinek: intorno alla differenza tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, in Etica e politica, cit., pp. 244-250) e la replica diG. Calogero, La «libertà degli antichi» e la «libertà dei moderni». Note suConstant,inSaggidietica editeoriadeldiritto,Laterza, Bari 1947, pp. 56-73, che vede in Constant la «sintesi armonica»traiduemomenti. Perunaietturaequilibratacfr. il volume di a. zanfarino, La libertà dei moderni nel costituzionalismo di Benjamin Constant, Giuffrè, Milano 1961. Una interpretazione del liberalismo di Constant in chiave fortemente «democratica»èquelladiM. barberis (Benjamin Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso, Il Mulino, Bologna 1988), discussa criticamente in reale, Storia, culturaepoliticacit.,pp.564 sgg. e nella utile rassegna di s. de luca, La riscoperta di Benjamin Constant (19801993): tra liberalismo e democrazia,in «La Cultura», XXXV(1997),nn.1e2,pp. 145-74e295-324. 14 A. de Tocqueville, La democrazia in America, trad. it. Rizzoli, Milano 1999, p. 200. 15Ibid.,p.66. 16 a. M. battista, Tocqueville. Un tentativo di sintesi, «Trimestre», XVIII (1985) n. 3-4, pp. 171-244; poi ripubblicato in id.. Studi su Tocqueville, Cet, Firenze 1989. 17 Tocqueville, La democrazia in America cit., pp.260-61. 18Ibid.,p.742. 19Ibid.,p.733. 20Perquestoaspettosi vedano le pagine dedicate a Tocqueville nel volume diE. pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo modernoeperditadellegame sociale, Bollati Boringhieri, Torino2001. 21 Tocqueville, La democraziacit.,p.516. 22Ibid.,p.522. 23Ibid.,p.521. 24 Tocqueville, Discorso sul diritto al lavoro, manifestolibri,Roma1996,p. 52. 25j.s.mill, Sulla libertà, trad. it. Sugarco, Milano 1990,p.32. 26Ibid.,p.34. 27Ibid.,p.41. 28Ibid.,p.85. 29Ibid.,p.99. 30Ibid.,p.128. 31Ibid.,p.168. 32Ibid.,p.156. 33Suquestopuntoinsiste molto, nella sua lettura hegeliana, A. honneth, II dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel (2001), trad. it. manifestolibri,Roma2003. 34 Hegel, Lineamenti di filosofiadeldirittocit.,§258. 35Ibid.,§199. 36Ibid.,s245. 37Ibid.,§260. 38 G. marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella 'Filosofia del diritto’ hegeliana, Bibliopolis, Napoli1978,p.85. 39Ibid.,§303. 40 K. MARX, Sulla questione ebraica, in K. MARXeF.ENGELS,Opere complete, vol. III, Editori Riuniti,Roma1976,p.178. 41 K. MARX, Dalla critica della filosofia hegelianadeldiritto,ibid.,p. 35. 42 κ. Marx e f. ENGELS, Manifesto del Partito Comunista, in Opere complete, cit., vol. VI, EditoriRiuniti,Roma1973,p.506. 43 K. Marx, La guerra civile in Francia,in K. marx e f. engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1966, pp.908sgg. 44 K. marx, Critica al programmadiGotha,inmarx eengels,Operesceltecit.,pp. 951-75. Parteterza. Concettieteorie dellafilosofia politica VI.Concettidellateoria politica I.Alcune premesse. Sesigettaunosguardoad ampio raggio sul pensiero politico così come si è dipanato nel mondo contemporaneo, vediamo che in esso emergono tre grandi assi concettuali, ovvero tre grandi concetti politici: liberalismo, democrazia, socialismo.Èattornoaquesti tregrandipolichesisviluppa la vicenda della politica e della teoria politica ottonovecentesca, ed è questo il motivo per cui ora vogliamo fermarciarifletteresudiessi. Come ha scritto Giovanni Sartori, «liberalismo e democrazia, assieme a socialismo e comunismo, sono le etichette che compendiano la lotta politica delxixexxsecolo.Diqueste etichette nessuna è chiara, ancheselapeggiocapitaèla prima (liberalismo) e la più facile da chiarire è l’ultima (comunismo)»1. Sarebbe ovvio, a questo punto, far notare che la lotta politica nel Novecento ha avutoanchealtri,piùtemibili protagonisti: si pensi soltanto al fascismo e al nazismo. Al di là di ogni altra considerazione possibile, però, ci limiteremo a osservare che, per non occuparcene qui, c’è almeno una ragione ben chiara: liberalismo, socialismo e democraziasonoconcetticon un forte contenuto normativo che ancora oggi, con maggiore o minor successo, sono presenti nella discussione pubblica delle società democratiche. Altrettanto non può dirsi, per fortuna, delle ideologie politiche della destra reazionaria del Novecento, cheperaltrosoloincasiassai rari assumono lo statuto di qualcosa che possa definirsi filosofia. Ma perché diciamo che liberalismo, socialismo e democraziasonoitreconcetti politici fondanti della modernità?Perduemotivi:in primo luogo perché essi si sviluppanofondamentalmente a partire dall’epoca delle rivoluzioni borghesi, e in secondo luogo perché possonovenircompresicome letture diverse, e certamente anche antagonistiche, di un’unica radice comune, e cioè del principio moderno dellaegualelibertà. Il principio dell’eguale libertà è quello che sta alla base delle moderne Dichiarazioni dei diritti. Nel Bill of Rights della Virginia (1776), ad esempio, si legge: «all men are by nature equally free and independent»; la più famosa di tutte le enunciazioni dei diritti, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, recita, all’articolo primo: «Gli uomini nascono e rimangono liberiedegualineidiritti»2. Alla base della modernità politica c’è dunque il principio di eguale libertà, quella che Etienne Balibar, nelvolumeLefrontieredella democrazia, ha chiamato la proposizione di egaliberté3. La modernità politica, come abbiamo visto quando ci siamooccupatidelparadigma contrattualista, si fonda sull’assunto che non vi sono rapporti di subordinazione naturale tra gli uomini, ovvero rapporti di signoria e servitù.Inquestaprospettiva, eguaglianza e libertà si interpretano reciprocamente, si legano in un nesso che è costituitoinmodotalepercui ognunodeiduetermini,sene vogliamo esplicitare il significato moderno, ha bisogno di richiamare in qualche modo l’altro. E tuttavia, come scrive Balibar, la proposizione di egaliberté ècomeunasortadinucleoda cui si dipartono molte interpretazioni possibili, anche confliggenti tra loro. Perciò, prima di tracciare un quadrosinteticodiquelleche abbiamo individuato come le grandi teorie politiche della modernità, è opportuno soffermarsi sul nucleo generatore dal quale tutte scaturiscono, e cioè sul concettodilibertàesullesue diverseinterpretazioni. 2.Ilconcetto modernodilibertà. La tesi di fondo dalla quale prendiamo le mosse, comeabbiamogiàaccennato, ècheliberalismo,democrazia e socialismo costituiscano i tre modi, tipicamente moderni, di interpretare quegli assunti di libertà ed eguaglianza che costituiscono,percosìdire,il codice genetico della modernità politica. L’analisi delconcettodilibertà,perciò, potrebbe anche essere fatta coincidere con la delineazione delle vicende che questo concetto ha conosciuto nel conflitto delle grandi ideologie politiche moderne. Prima di procedere a essa, però, ci sembra opportuno fare alcune premesse di fondo, quasi definitorie, onde rendere più chiara la mappa delle interpretazioni che, del concettodilibertà,sonostate offertenegliultimiduesecoli. Da un punto di vista analitico e definitorio, si possonotracciareinnanzitutto alcune coordinate di base. In primo luogo, il concetto di libertà politica non coincide certamente con quello di libertà inteso in senso metafisico: forse si potrebbe sostenere che il concetto di libertà politica presuppone il concetto,moltocomplesso,di libertà in senso metafisico (come possibilità di determinarsi autonomamente a compiere un’azione libera)4; ma pure i due concetti devono essere distinti. Il concetto di libertà politica riguarda infatti il modo in cui l’uomo è libero nell’ordine politico e sociale. Il problema del concetto politico di libertà è quindi quello di cosa significhi essere liberi nel momento in cui si agisce nel contesto di rapporti di interazione con altriuomini,normatidaleggi giuridiche, morali e da costumi, e tali comunque da imporre all’azione di ognuno diversitipidivincoli. Nella discussione sul concetto di libertà, una fortuna particolare ha goduto la tesi secondo la quale del concettopotrebberodarsi,per così dire, due definizioni fondamentali,chealorovolta possono essere pensate o come definizioni alternative del concetto di libertà (tali cioèchesel’unaèveral’altra è falsa e viceversa) oppure comechiarificazionidiaspetti diversidelconcettodilibertà, nel senso che esso conterrebbe due momenti, distinti ma entrambi essenziali per la sua accurata delineazione. Si allude, come i lettori avranno già compreso, alla dicotomia divenuta ormai classica tra libertà negativa e libertà positiva, della quale le più lucideillustrazionisipossono ritrovare negli scritti di Norberto Bobbio e di Isaiah Berlin5. La definizione della libertà che privilegia il senso negativo del termine viene formulata, all’alba del pensiero politico moderno, proprio da Hobbes6: per Hobbes la libertà consiste propriamente nell’assenza di impedimenti esterni che ostacolino un uomo nel fare ciò che vuole. Libertà è dunque, in questo primo e fondamentale teorico, libertà negativa: assenza di impedimenti esterni, nonimpedimento.Inquestosenso dilibertà,l’uomochepagaun debito per non finire in prigione, dice Hobbes, compie un’azione libera, perché nessun impedimento fisicoglivietavaditrattenere perséciòchedovevaadaltri. Questoprimosensodilibertà negativa, però, ci riporta in realtà al concetto di libertà che abbiamo indicato come «metafisico»; dal punto di vista dell’interazione in una società politica, infatti, non avrebbe senso dire che io sono libero di non pagare i debiti, cioè di fare qualcosa chelaleggemivieta:ciòche è proibito dalle leggi è appunto ciò che (nel senso politico del termine libertà) nonsiamoliberidifare.Qual è allora il senso del concetto di libertà nell’ambito della società politica ? Anche a questopropositolarispostadi Hobbes è molto chiara: poiché le leggi regolano necessariamente una parte delle azioni dei sudditi e non latotalità(perchéatalfineci vorrebbe un numero di leggi infinito), la libertà sta nell’agire a proprio piacimento in tutte le cose che la legge ha volutamente omessodiregolare,esiattua per esempio, dice Hobbes, nella «libertà di comprare, di vendere, e di fare altri contrattil’unoconl’altro,edi sceglierelapropriadimora,il propriocibo,ilpropriomodo divita»oilmododieducarei figli7. Quanto più ampio è l’ambito delle azioni che la legge ha omesso di regolare, tanto maggiore è la libertà (nonmetafisica,mapoliticae sociale)degliindividui8. Nel senso «negativo» del termine, libertà significa dunque poter disporre di se stessi col minimo di interferenze da parte dei poteri pubblici o degli altri individui. I difensori della libertà negativa, come ha scritto Berlin, che ne è uno dei più convinti sostenitori, non sono interessati al problema di «chi deve comandare?», ma a una questione tutt’affatto diversa: «in quali ambiti io sono padrone, e posso agire senza interferenze da parte di altri ?» Vi è tanto più libertà negativa,quindi,quantopiùè estesa l’area in cui gli individui si governano da soli, senza dover rispondere adalcunodelleloroscelte. I teorici della libertà positiva, invece, concentrano la loro riflessione proprio su quegli aspetti che la concettualizzazione negativa della libertà lascia in ombra. In primo luogo, infatti, essi pongono l’accento su quella domanda che, nella prospettiva della libertà negativa,apparivainsostanza secondaria: chi deve comandare? Chi deve essere autore delle norme che sono comunque indispensabili per assicurare l’ordinata interazione sociale? La più netta e originaria concezione della libertà positiva, com’è noto, è quella di Rousseau: essereliberisignificanongià godere degli spazi d’azione che le norme comunque ci lasciano, ma, propriamente, vuol dire essere autori di quelle stesse norme: non obbedireadaltreleggisenon a quelle che noi stessi ci siamo dati9. È da questo primo concetto di libertà positiva che si sviluppa quindi, palesemente, la teoria democratica. Vi sono però anche altri aspetti che il concetto negativo di libertà lascia in ombra. Uno dei più rilevanti haachefare,perdirlamolto semplicemente,conlerisorse e le effettive opportunità. In questa prospettiva, la domanda che viene posta al centro dell’attenzione è la seguente: ha senso affermare cheiosonoliberodidecidere i miei pasti, o di comprare e vendere ciò che voglio, se, per esempio, non dispongo deldenarochemiconsentadi acquistare del cibo, o di comprare qualsiasi altro bene ? In che senso è libero di comprarechimanca,difatto, dellerisorseaciònecessarie? Si presenta così la possibilità di formulare un secondo concetto di libertà positiva, distinto da quello che abbiamo indicato per primo: in questo secondo senso essere positivamente liberi significadisporredeimezzie delle risorse che ci consentano di godere effettivamente delle libertà che la legge ci attribuisce, di non lasciarle sulla carta. È questo il concetto che ritroveremo nelle teorie socialiste. Il secondo concetto di libertàpositiva,comesembra evidente,èpiùproblematicoe complesso del primo; ma se ne può distinguere anche un terzo, che forse è il più problematico di tutti e che assomigliamoltoaquelloche Berlin assume come suo bersaglio polemico nel famoso saggio sui Due concetti di libertà. In questo terzo senso, essere liberi significa non solo obbedire a normechenoistessicisiamo dati, ma a norme che siano espressione della nostra volontà razionale, non di una mera volontà arbitraria, che forsepotrebbeanchelasciarsi guidare da motivazioni sbagliateoirrazionali.Essere liberi, in questo senso, significa obbedire alle norme della ragione e quindi, paradossalmente, potrebbe voler dire anche obbedire a norme che contraddicono la nostra empirica, arbitraria e forse irrazionale volontà. Dal puntodivistadiquestoterzo concettodellalibertàpositiva (che peraltro viene curiosamente apprezzato, entro certi limiti, anche da uno studioso tipicamente liberale come John Gray)10 non è contraddittorio affermare,conRousseau,che qualcuno può essere «costretto»aesserelibero. Una volta che si siano così delineati, per quanto in modosommario,alcunimodi possibili di intendere la libertà,siapreallariflessione unasceltatradiverseopzioni possibili: per un verso si può andare, più o meno decisamente, nella direzione dì affermare che il «vero» concettodilibertàèunosolo, e quindi mostrare l’inconsistenzaol’incoerenza di quelli che al concetto preferito si oppongono (questa era, a mio giudizio, l’intenzione originaria di Berlin, poi in qualche modo corretta in seguito). In alternativa, si può assumere questapolisemiadelconcetto di libertà come punto di partenza per una riflessione cheleggalalibertàcomeuna realtà multidimensionale, a piùfacce,tutterilevantianche se non egualmente importanti, perché alcune di questefaccecostituisconoper così dire dei territori di confine, dove la riflessione sulla libertà diventa più problematica, rischiosa e incerta. Senza entrare qui nel vivo di simili analisi, che peraltro torneranno in modo più concreto quando esamineremoilliberalismo,il socialismo e la democrazia, mi pare che si debba però formulare almeno una considerazione. La distinzione più solida concettualmente (cioè quella tralibertànegativacomenonimpedimento e libertà positivacomeobbedienzaalle leggi che noi stessi ci siamo dati) si può rendere ancora più chiara se, andando oltre l’ideanondeltuttoperspicua del non-impedimento, la si formula così: la libertà negativa richiede che sia ampio lo spazio che le leggi lasciano agli individui per decidere da soli; la libertà positiva richiede che, delle leggi, gli individui siano autori, cioè richiede che almenounaseriediquestioni fondamentali siano decise dalla collettività dei cittadini. La libertà negativa vuole massimizzare l'ambito delle decisioni private, la libertà positiva rivendica decisioni collettive. Se le cose stanno così, però, la partita tra i sostenitorideidueconcettidi libertà antagonisti sembra prospettarsi nel modo seguente. In primo luogo, pare difficile negare che l’autolegislazione democratica accresca la libertà degli individui; essa infatti non toglie la libertà di cui essi godono nell’ambito incuileleggitacciono,mane attribuisce loro un’altra aggiuntiva, quella appunto di concorrere alla determinazionedelleleggi. In secondo luogo, però, i sostenitori della libertà negativa potrebbero ribattere che nessuno vorrebbe appartenere a una collettività democraticadilegislatori,che legiferasse però anche sugli aspetti più minuti o privati della vita dell’individuo: sarebbe difficile parlare di libertà ove le decisioni collettivepotesseroesercitarsi inogniambitoesenzalimiti. Senzanegarelavaliditàdi questo punto, i sostenitori della libertà positiva potrebbero ancora ribattere: ammesso che si debba porre un limite agli ambiti che le decisioni collettive possono regolare, chi avrebbe la competenza a fissarlo ? Non dovrebbero essere i cittadini stessi, e non sarebbe quindi esso, ancora una volta, il fruttodidecisionicollettive? E ciò non implica, allora, riconoscere di nuovo il primato alla libertà positiva, intesa come autolegislazione, rispettoallalibertànegativa? La disputa potrebbe continuare; ma per ora ci basta mettere in evidenza il punto che fin qui si è acquisito: difficilmente sostenibile ci sembra la pretesadiprendereunaspetto del concetto di libertà e identificarlo con la «vera» interpretazione del concetto stesso. Più plausibile appare allora l’idea che il compito dellateoriapoliticasiaquello di costruire una visione che del concetto di libertà catturi il più possibile gli aspetti diversi;nellaconsapevolezza, però, che non si tratta per nientediuncompitoscontato, perché le diverse dimensioni della libertà possono anche essere tra loro conflittuali, e quindi non è detto che possano essere tenute tutte insieme in un orizzonte coerente. Il confronto e lo scontro tra le ideologie politiche negli ultimi due secoli, peraltro, può essere proprio letto come un confronto tra interpretazioni in conflitto della libertà, ed è a partire da questa chiave di lettura che ora ne descriveremoalcunitrattiche cipaionoessenziali. 3.Liberalismo. Sebbene se ne faccia continuamente uso (soprattutto in tempi recenti, neiqualiilconcettoètornato ampiamente in auge) il concetto di liberalismo è uno dei più difficili da determinare o definire con una qualche pretesa di univocità. Anche all’epoca delsuotrionfoilliberalismo- ha scritto Harold Laski - non fu mai «un complesso organico di dottrine e di esperienze»; al suo sviluppo hanno contribuito «correnti dottrinali così diverse nelle loro origini da rendere la chiarezza difficile e la precisione forse irraggiungibile»11. Di liberalismi ve ne sono un’infinitàditipi(quindicine indicava Sebastiano Maffettone in una pagina introduttiva a un suo studio sull’argomento)12, ricondurli a un minimo denominatore concettuale pare impresa difficilissima, e sembra già molto affermare, riprendendo una fortunata idea wittgensteiniana,chetraivari liberalismi sono riscontrabili tutt’al più alcune vaghe «somiglianzedifamiglia». Se però del concetto vogliamo continuare a servirci (e pare che non sia così facile farne a meno), il tentativo di determinarne il significato non sembra si possa eludere13. Anche se è certamente impervio, perché, già sul piano puramente lessicale, la situazione è più ingarbugliata di quanto non accada per altri concetti politici. Una prima questione che sipone,anchesolodalpunto divistalessicale,èquellache concerne la distinzione o la identità di significato tra liberalismo e liberismo. Si tratta, com’è noto, di una distinzione che appartiene soloallalinguaitalianaeche nonhadegliesattiequivalenti nelle altre lingue, e la cui importanza fu rivendicata soprattutto da Benedetto Croce in una famosa discussione con l’economista liberale e liberista Luigi Einaudi14. La tesi di Croce a questo proposito era molto chiara: mentre il liberismo è una dottrina che si situa sul terreno economico, per affermare le virtù del libero scambio e criticare i limiti che a esso si vogliano imporre, il liberalismo si collocasuunterrenodiverso, etico e politico, e perciò, diceva Croce, è teoricamente compatibile anche con una visione non liberista, ma persino socialista, dell’economia15. La questione della legittimità o meno della distinzione, quindi, non è certo soltanto una questione lessicale: anzi, mette in risalto quello che resta comunque (anche a prescindere dalla peculiare concezione del liberalismo che di Croce era propria)16 unodeiproblemidifondoper chi voglia tentare una chiarificazione del liberalismo: in che misura una scelta liberale implica una presa di posizione a favoredellaproprietàprivata, della sua libera disponibilità, e della libertà di scambiare sul mercato i propri beni e il propriolavoro? Delicatiproblemilessicali nasconoanchesecivolgiamo aun’areaculturalediversada quella italiana, e cioè agli Stati Uniti. Qui l’aggettivo liberalindicaunavisionedel liberalismo molto diversa da quellachepotremmoindicare come liberalismo classico, tradizionale o liberista. Vi sono perciò studiosi contemporanei che si spingono fino al punto di affermare che i liberals americani sono altra cosa rispetto alla tradizione liberale: Sartori scrive che sono i socialisti di un paese senza socialismo17; per Cubeddu,tradurreliberalcon liberale significa dar luogo a un colossale equivoco18, perché il pensiero liberal, sebbeneaccolgaalcunivalori del liberalismo19, appartiene in sostanza a un filone diverso, di matrice democratica e sociale, che in Europa si definirebbe socialdemocratico. I liberals perciò, secondo Cubeddu, non possono ascriversi al liberalismo come lui lo intende;inunpensieroliberal come quello di Rawls, per esempio, viene teorizzato un diritto alla giusta ripartizione deibenisocialiprincipali,che implica necessariamente uno stato interventista e quindi sembra contraddire alcuni principi del liberalismo classico. All’estremo opposto rispetto ai liberals si colloca invece quello che negli Stati Uniti viene chiamato libertarianism (che somiglia moltoaquellocheinitaliano definiamo liberismo, mentre libertario in italiano ci fa pensare più ad anarchico), e che in sostanza è una teoria dello stato minimo (come quella avanzata da Robert Nozick)otendenteazero.La radicalizzazione estrema di questa posizione è il cosiddetto anarcocapitalismo, che difende le libertà di mercato ma è convinto che si possano anche mercatizzare tutte le principali funzioni svolte dallostato20. Anche dal punto di vista lessicale, quindi, la questione diidentificareilnucleodiciò che chiamiano liberalismo appare non poco complicata. Certamente, i sostenitori di alcune visioni specifiche del liberalismo possono essere inclini a espungere, dal liberalismo, quelli che difendono interpretazioni polarmente opposte. Ma allo studioso che, in queste dispute, si pone nella posizione dello spettatore, sembra più produttiva l’idea di assumere, grosso modo, come liberali tutte le posizioni che si autodefiniscono tali, per indagare quali siano le caratteristiche a esse comuni, e quindi per strutturare concettualmente quelle somiglianzedifamigliachea primavistaappaionovaghee confuse. Una buona proposta di chiarificazione della questione, a mio avviso, si può formulare seguendo alcune linee guida piuttosto semplici. In primo luogo il concetto di liberalismo può esserechiaritoperdifferenza: ciò che mi sembra accomunare le molte posizioni liberali, al di là delle profonde differenze che tra di esse intercorrono, è il conferire maggiore importanzaaidirittidicuigli individui devono godere, dando invece minor rilievo alla loro partecipazione ai processi di decisione collettiva e di autogoverno. Un primo punto di chiarificazione, dunque, consiste a mio avviso nel distinguere le posizioni liberali da quelle democratiche: mentre per queste ultime hanno rilievo primario i diritti all’autogoverno, per le posizioni liberali il rapporto si inverte, e i diritti all’autogoverno o sono decisamente svalutati (come in Hayek) oppure costituiscono semplicemente un aspetto, in nessun caso primario, del più ampio pacchetto di diritti che la comunità politica deve garantireagliindividui. Comune a tutte le posizioni liberali, dunque, è l’idea che la funzione fondamentale dello stato sia quella di garantire i diritti degli individui che, anche quandononsonodecisamente ancoratiinunaleggenaturale o razionale, anche quando non preesistono allo stato, hanno però un primato rispetto alle scelte della politica e alle decisioni della democrazia: costituiscono quindi,fondamentalmente,un limite della politica e un vincolo che le decisioni democratiche devono comunque rispettare. Gli aspetti invece in forza dei quali le posizioni liberali si diversificano sono a mio avviso fondamentalmente due,moltointrecciatitraloro: la valutazione della democrazia e quella della giustizia economico-sociale. Perciò, fermo restando il primato e la centralità dei diritti, vi sono posizioni liberali(èilcasoperesempio di Hayek e di Gray) che ritengono che una società liberapossaformarsianchein assenza di democrazia, e che vedono quindi quest’ultima più come una minaccia che come una garanzia di tutela delle libertà; mentre ve ne sono altre (si pensi a Rawls) che invece accolgono pienamente la democrazia lasciando da parte le riserve «liberali»controdiessa. Una analoga polarità si registra per quanto attiene al giù-dizio sugli assetti economico-sociali: a un estremo si collocano coloro che, come Hayek o Nozick, ritengonocheladistribuzione più giusta della ricchezza sia quella che risulta dalla competizione regolata dei soggetti sul mercato; all’estremooppostosisituano invece coloro che pensano che, tra i diritti che debbono essereassicuratiatutti,visia anchequellodigodere,inuna misura più o meno egualitaria,dell’accessoaipiù importantibenisociali. Se guardiamo allo spettro di posizioni che così si viene delineando, possiamo anche osservarecheidueprincipali criteri di distinzione spesso tendono a coincidere: coloro chehannomenofiducianella democrazia, sono anche coloro che credono più decisamenteinunasocietàdi mercato; quelli che hanno meno riserve nei confronti dellademocrazia,spessosono anche gli stessi che considerano irrinunciabili i diritti di giusta ripartizione sociale. Tuttavia, non è necessariochesiacosì:come fa notare un liberale radicalmenteegualitariocome Philippe Van Parijs, affermare ampi diritti di giustizia sociale potrebbe anche richiedere di porre stretti limiti alla democrazia, perché le decisioni della maggioranza democratica potrebbero non risultare favorevoliaquestidiritti21. Sullabasediquesteprime considerazioni,cisembrache si possa addivenire, in materia di definizione del liberalismo, al seguente risultato. Appartengono sostanzialmente al liberalismo tutte quelle posizioni che condividono la tesi del primato e della centralità dei diritti, visti comelimitiaciòchelostato o la democrazia possono imporre ai cittadini; la differenziazione dei molti liberalismi è generata soprattuto da due fattori, e cioè dall’attitudine più o meno aperta nei confronti della democrazia e dal modo in cui si interpretano i diritti economici e sociali. Per quest’ultimo aspetto, troviamoaunestremocoloro che difendono la inviolabilità dei diritti di proprietà e la legittimità delle sole transazioni di mercato, all’altro coloro che invece ritengono che, tra i diritti irrinunciabili, vi sia quello a una certa quota di beni sociali, da garantirsi a tutti anche a scapito dei più possidenti.Tragliestremidel liberalismo proprietario e del liberalismo socialista vi sono naturalmente moltissime posizioni intermedie. Ma è importante sottolineare che ancheilliberalismosocialista ed egualitario (si pensi per esempio a Van Parijs) resta secondo la schematizzazione che noi proponiamo liberalismo, perché, appunto, considera il diritto a determinati beni o dotazioni comeundirittofondamentale di libertà, che dovrebbe prevalereinlineadiprincipio sulledecisionidemocratiche. Come abbiamo cominciato a mostrare, ciò che caratterizza, dal nostro punto di vista, un approccio definibile come liberale, è il porre a fondamento della convivenza sociale individui dotati di diritti: diritti che vengono considerati innati, inalienabili o inviolabili nel senso che gli individui non potrebbero rinunciare a essi neancheselovolessero,eche le leggi pubbliche devono assumere come un limite invalicabile. Il principale tratto caratteristico del liberalismo è appunto la convinzione che il fine delle leggi pubbliche sia quello di tutelare i diritti indisponibili degli individui, cioè di assicurare a essi una sfera protettadalleintrusionisiada parte di altri individui sia da partedeipoteripubblici. Comescriveunpensatore che esprime il punto di vista liberale in modo davvero classico, Benjamin Constant, vi è «una parte dell’esistenza umana che resta necessariamenteindividualee indipendente, e che è, di diritto, fuori da ogni competenza sociale. La sovranità non esiste che in maniera limitata e relativa. Dove inizia l’indipendenza dell’esistenza individuale, là si arresta la giurisdizione di questasovranità»22. Gli individui, pertanto, sono considerati, nella prospettivaliberale,comedei portatori di diritti dei quali il corpo politico non può disporre, e che deve limitarsi atutelare. ComesileggegiànelBill of Rights della Virginia (1776), gli individui hanno «diritti innati» di cui non potrebbero privarsi neanche selovolessero;equestidiritti comportano, «il godimento della vita, della libertà, mediante l’acquisto e il possesso della proprietà, e il perseguireeottenerefelicitàe sicurezza»23. Nel liberalismo quindi la società politica nasce (lockianamente) per confermare e assicurare i diritti imprescrittibili dell’individuo: libertà della persona,libertàdireligionee dipensiero,libertàdidisporre delpropriolavoroedeipropri averi. Come si legge ancora nella Costituzione rivoluzionaria francese del 1793, «il governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili. Questi diritti sono l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza,laproprietà»24. Ma la salvaguardia dei diritti degli individui esige che vengano posti dei ben precisi limiti all’esercizio del potere politico sovrano: il sovrano non può essere più pensatocomecoluichestaal di sopra delle leggi, che è legibus solutus·, al contrario, nello stato di diritto, l’esercizio del potere deve essere rigorosamente sottoposto alla legge così come lo sono i comportamenti di ogni cittadino. L’illimitata e assolutasovranitàhobbesiana dev’essere domata e ricondottaentroprecisilimiti, altrimenti la società politica mancherebbe il suo scopo, perché l’individuo non potrebbe dirsi in alcun modo sicuro dei suoi diritti. Nella tradizione del liberalismo, pertanto, la teoria dei diritti inalienabili si sposa con quella dello stato a poteri limitati: «Garanzia dei diritti e controllo dei poteri sono i due tratti caratteristici dello stato liberale» 25. E la garanzia del fatto che il potere sovrano non si trasformiinpoteredispoticoè data fondamentalmente dalla divisione dei poteri, la cui teorizzazione si trova già in Locke, ma poi soprattutto in Montesquieu e nel costituzionalismo successivo, che deriva in buona misura dalle riflessioni sulla divisione dei poteri nella costituzione inglese sviluppate nell’XI libro dello Esprit des Lois. Nella costituzione federale americana del 1787 si trova appunto realizzato un assetto costituzionale in cui tutti i diversi poteri, « tutti intrinsecamente limitati», sono «disposti in modo che possano e debbano reciprocamente frenarsi, utilizzando le tecniche del bilanciamento che la tradizione inglese ancora mettevaadisposizione»24. Accanto alla tesi del primato dei diritti individuali e a quella che il potere pubblicodev’esserelimitatoe diviso, affinché nessuno ne possa disporre in modo arbitrario e incontrollato (mettendo così a repentaglio quei diritti che sono il primo bene da salvaguardare), vi sonopoiunaseriedialtretesi che si dispongono attorno a questo nocciolo duro del pensiero liberale, e che vengono variamente argomentate, come abbiamo visto, dai pensatori che nella linealiberalesiiscrivono. Fondamentale è il rifiuto di misurare la bontà di un ordine politico a partire da unaconcezionesostantivadel bene comune: da questo punto di vista i grandi capiscuola del liberalismo sonocoloroche,comeKante Mill, argomentano contro ogni forma di paternalismo politico(anchesenontuttele concezioni sostantive sono necessariamentepaternaliste), difendendo l’idea che ogni individuo ha il diritto di cercare il suo bene o la sua felicità dove meglio crede, e che in ciò non deve essere impedito da un’autorità politica che pretenda di insegnargliqualèilsuovero bene. Nel liberalismo contemporaneo, come per esempio quello di Rawls, questo principio viene riformulatoneiterminidiuna «prioritàdelgiustosulbene». Da ciò consegue più o meno direttamente l’idea, nata sul terreno dell’economia di mercato, che la competizione tra individui non sia un aspetto criticabile della società individualistica, di cui una società migliore potrebbe liberarsi, ma invece un modo straordinariamente efficace persvilupparealmeglioiloro talenti e le loro capacità, generando benefici non solo per coloro che nella competizione risultano più capaci ma, di riflesso, ancheperl’interasocietà,che in modo più o meno mediato viene a goderne i frutti. All’idea di competizione si accompagna spesso, nel pensieroliberale,quellacheè il suo necessario complemento, e cioè l’eguaglianza delle opportunità, che a sua volta può essere intesa in molti modi diversi, più o meno esigenti. A questi temi si affianca inoltre, in molte visioni liberali, la concezione dello stato come una sorta di male necessario: esso implica infatti, in ogni caso, che l’individuo debba obbedire a un potere estraneo; ma, se questo è vero, l’autorità e le competenze dello stato devonoesserelimitatequanto piùpossibile,ridotteaciòche risulta davvero indispensabile, in modo che sia minimizzata l’area in cui l’individuo non è padrone di se stesso. A questo tema si aggiunge talvolta, in alcune versioni del liberalismo, l’idea che la partecipazione politica non è un bene in sé, ma ha il suo valore nell’essere strumento per garantire e conservare le fondamentalilibertàprivate. Dal nostro sguardo sulla galassia dei liberalismi ci sembra,perciò,dipotertrarre la seguente conclusione: vi è un nucleo formato da alcune tesidifondo,comeilprimato dei diritti individuali, la limitazione del potere pubblico, il rifiuto dell’idea sostantiva di bene comune e delpaternalismopolitico,che funziona come una cartina di tornasole e ci dà un criterio per collocare una teoria dentroofuoridall’ambitodel liberalismo. Vi sono poi una seriedialtretesichesonoun po’ periferiche rispetto a questo nucleo e che possono essereononesserepresentiin posizioni che si definiscono liberali. E vi sono infine altri temi, come quello del ruolo da attribuirsi alla libertà di mercato o (dalla parte opposta) all’eguaglianza di risorseodibeniprimari,dove iliberalismi,senzacessaredi essere tali, si divaricano radicalmente, cosicché a un estremo possiamo trovare il «liberalismo proprietario» di un Hayek o di un Nozick, e all’altro estremo il liberalsocialismo di Hobhouse, di Rosselli, di Calogero”,einuncertosenso anche del Rawls di Teoria dellagiustizia. 4.Socialismo. Non meno ambiguo e sfuggente del concetto di liberalismo è quello di socialismo28:enondaultimo perché,selosivuolecogliere nei suoi lineamenti più essenziali,bisognainqualche modo allargare la visuale oltrelastraordinariainfluenza storica che in questo campo ha avuto il marxismo: il socialismo, infatti, ha una lunga storia prima del marxismoedopodiessoe,se lo vogliamo mettere a fuoco come concetto politico, è il suo nucleo essenziale, o addirittura comune, che dobbiamotentaredicogliere. Non si va fuori strada, io credo, se si afferma che il nucleo generatore del socialismo è fondamentalmente di tipo negativo o critico: il socialismo «allo stato nascente», le cui prime manifestazioni incontriamo giànell’etàdeiLumi,oanche più indietro, è una critica di ispirazionefondamentalmente moraledellaproprietàprivata e della ineguaglianza sociale che a essa si accompagna. Il socialismo è quindi una negazione dell’ineguaglianza sociale,unaprotestacontrodi essa e la sua illegittimità, e contro le sue manifestazioni antropologiche (egoismo, rapacità, accumulazione) in vistadellacostituzionediuna società più giusta e più eguale, che molti socialisti cercano di progettare o descrivere meritandosi così, da parte di Marx, il rimproverodiutopismo. Se si considerano le ideologie socialiste allo stato nascente, non vi è una fondamentale differenza tra socialismo e comunismo; vi sono piuttosto alcuni principi di fondo, che cominciano a esseredefinitieprecisatinelle correnti più radicali ed egualitarie della Rivoluzione francese, come quella che fa capoaGraccoBabeuf.Questi principi di fondo si riducono in sostanza a poche tesi basilari. Per dirla con le parole di Filippo Buonarroti, nella sua Congiura per l'eguaglianza, «la natura ha dato a ogni uomo un diritto ugualealgodimentodituttii beni». «Lo scopo della società è di difendere questa eguaglianza» 29. Il punto di partenza del socialismo, quindi, è che, radicalizzando le tesi della Rivoluzione francese, l’affermazione che tutti gli uominisonoegualineidiritti vaintesanelsensopiùampio, coerenteecomprensivo:eciò vuol dire non solo nei diritti di libertà e nei diritti politici, ma anche nel diritto di accedereaibenieallerisorse. Segliuominisonoegualinei diritti,aessiappartieneapari titolo il diritto di godere dei beni naturali e dei benefici della cooperazione sociale, alla sola condizione che non facciano mancare ad essa il loro apporto. Questi principi vengono esposti, nei primi decenni dell’Ottocento, da scrittoripoliticidiispirazione babuvista e buonarrotiana. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino redatta nel 1832 da Albert Laponneraye, per esempio, si legge: «I diritti principali dell’uomo sono quelli di provvedere alla conservazione dell’esistenza edellalibertà».«Questidiritti appartengono egualmente a tuttigliuomini,qualunquesia la diversità delle loro forze fisicheemorali».«Lasocietà ha l’obbligo di provvedere alla sussistenza di tutti i suoi membri»30.Glistessiconcetti si ritrovano nell’opera sulla questione sociale scritta nel 1840 dal babuvista JeanJacques Pillot: «Essendo l’umanità formata da esseri assolutamente identici, non può ammettere nel suo ambitonépriminéultimi,né grandi né piccoli, né potenti né deboli, né orgogliosi né umili...Lasocietàhaquindiil compito di dare ad ogni membrolamaggiorequantità possibile di benessere, assicurandoglil’appagamento delle sue vere necessità; e in cambio di questo beneficio ognuno deve usare, per la società,tuttelesuefacoltàper ilbenessereditutti»31. Dal punto di vista socialista, perciò, talenti e capacitànoncostituisconoun titolo per appropriarsi di una quota maggiore di beni o di risorse;comescriveCabetnel Viaggio in Icaria (1840), «il talento e il genio sono i risultati dell’educazione impartita dalla società, e ... l’uomoditalentononsarebbe nulla senza la società»32. SullastessalineaProudhonin Che cos’è la proprietà: «il talento è una creazione della societàassaipiùcheundono della natura; è un capitale accumulato e colui che lo riceve non è che il depositario» 33. Ciò che caratterizza il socialismo, quindi, è una visione cooperativaesolidaristicadel rapporto sociale: poiché l’individuo, con i suoi talenti e con le sue capacità, è in buona misura un risultato della cooperazione sociale, alla quale è per molti versi debitore, allora egli non può accampare un diritto assoluto su ciò che produce col suo lavorooilsuotalento,maha dei doveri nei confronti della società, così come ha dei diritti verso di essa: la ripartizione dei frutti della cooperazione sociale, perciò, deve ispirarsi a principi solidaristici, e primariamente al principio di distribuire secondo i bisogni, come se tutti avessero reciprocamente sottoscritto, per dirla con le parole del protocomunista Cabet, «una assicurazione generaleemutuacontroogni accidenteeogniavversità»34. Alla base del socialismo vi sono dunque un’idea forte della cooperazione sociale e unavisionesolidaristicadella giustizia e della libertà degli uomini.Essoriposaperciòsu assunti di tipo etico o normativo che, a ben guardare, si possono rintracciare anche in una teoria, come quella di Marx 35,che,secisiattienealsuo dettato esplicito, non sembra voler intrattenere nessun rapporto con l’etica o con le concezionidellagiustizia. Ma come è possibile tradurre questa ispirazione di fondoinunastrutturasociale nuova,chesuperil’ingiustizia e l’ineguaglianza che sempre hannoregnatotragliuomini? Nei socialisti dell’epoca premarxiana troviamo, a questo proposito, alcune indicazioni di fondo largamente comuni: essi propongonol’abolizionedella proprietà privata e la generalizzazionedeldirittoal lavoro, la pianificazione coordinata della vita sociale ed economica e il superamentodell’anarchiadel mercato, che dovrebbe accompagnarsi, sul piano antropologico, a un progressivo superamento dell’egoismo e della pulsione rapaceversoilguadagno,che dovrebbero lasciare sempre più spazio a un solidale sentimento di comunità e di fraternità. Pretendendodidistaccarsi completamente dalle scuole socialiste che li hanno precedutiMarxedEngels,nel Manifesto del Partito Comunista, rivolgono a esse il rimprovero di utopismo. Tuttavia, per quante resistenze mostrasse su questo punto, anche Marx non può fare a meno di delineareinmodonontroppo lontano dai suoi predecessori quelle che dovrebbero essere le istituzioni portanti di una società giusta al di là del capitalismo: essa richiede la socializzazione o statalizzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio, e la sostituzione dell’anarchiadelmercatocon la produzione pianificata, cioè in sostanza la collettivizzazione dell’economia. Non sta qui, dunque,ilpuntodifondoche segna il distacco di Marx dall’utopismo: sta piuttosto nel fatto che Marx prova a mostrare come si possa giungere a una società giusta oltre il capitalismo; e quindi, non dando importanza a quelle che considerava futili ricette per la cucina dell’avvenire, si concentra sullo studio scientifico del capitalismo, delle sue dinamiche e delle sue contraddizioni; perché una prospettiva di superamento può aprirsi solo attraverso di esse, e non restando nell’ambito di mere istanze morali. Marx approfondisce la riflessione sul tema del socialismo nelle note critiche che scrive, nel 1875, a commento del progetto di programma che era stato preparato per il congresso di unificazione della socialdemocrazia tedesca. Qui Marx intende con socialismo(ovveroconprima fase della società comunista) una società collettivistica basatasullaproprietàcomune deimezzidiproduzioneesul principio«aciascunosecondo ilsuolavoro»;eloconsidera come una forma di cooperazione sociale ancora difettiva che verrà superata, nella fase più elevata e ricca delcomunismo,daunaforma di cooperazione basata sul superiore principio: «Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni»36. Con il «revisionismo», chesisviluppagrossomodoa partire da quando, nel 1899, EduardBernsteinraccogliein volumealcunisuoiscritticon il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della 37, socialdemocrazia l’opzione socialista viene nuovamente presentata nella chiavediunatensioneeticadi ispirazione kantiana, e nella prospettiva di uno sviluppo gradualista: il socialismo «revisionista» si caratterizza per una serie di opzioni: rifiuto dell’idea della rivoluzione come atto violento e «puntuale» (sulla scorta di quanto aveva già sostenuto l’ultimo Engels nellaPrefazionedel1895alle Lotte di classe in Francia di Marx); identificazione del socialismo con il progresso deilavoratorinelquadrodella democrazia; rifiuto di una letturaestremista,manicheao catastrofista della società e dell’economiaafavorediuna lettura più duttile, che riconosce le potenzialità di sviluppo del capitalismo, il ruolodelleclassimedieedei contadini, la crescita dei consumi, l’espansione del capitalismo con l’azionariato diffuso ecc.; grande importanzaattribuitanonsolo al movimento cooperativo, ma anche allo sviluppo della democrazia amministrativa, municipale e locale, e alla crescita dei servizi sociali (istruzione, sanità ecc.); trasposizione del fine socialista in un orizzonte sempre più lontano e indefinito da attendere pazientemente (attendismo) per concentrarsi sui progressi sociali di volta in volta possibili (con il famoso slogan: «il fine è nulla, il movimentoètutto»). La vicenda della socialdemocrazia tedesca del primoNovecentotrovalasua conclusione, ingloriosa, nel voto che la socialdemocrazia esprimeafavoredeicreditidi guerraalloscoppiodelprimo conflittomondiale. L’esperienza socialdemocratica riprenderà, su basi diverse, nel secondo dopoguerra. I cardini della politica socialdemocratica così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni del Novecento sono fondamentalmente: difesa del diritto al lavoro e politiche per l’occupazione; affermazione dei diritti dei lavoratorisulluogodilavoro (a cominciare dalla limitazione dell’orario); fornitura di servizi sociali essenziali ai cittadini attraverso lo sviluppo del Welfare State (istruzione, sanità, edilizia, trasporti); espansione della democrazia anche nelle sue forme autonomistiche, locali e partecipative; emancipazione delledonne. L’opzione alternativa è quella cui darà adito l’iniziativa politica di Lenin che, contrapponendosi al binomio social-democratico tra un’ortodossia di sfondo e una politica riformista nei fatti,apriràconlarivoluzione d’Ottobre una nuova fase della storia mondiale, dell’Europa e ancor più del Terzo Mondo. Ponendosi come gli unici interpreti capaciditradurreininiziativa politica l’insegnamento di Marx i partiti comunisti nati dal processo innescatosi con la Rivoluzione sovietica, a suavoltafruttodell’ecatombe della grande guerra, si accingono a costruire un socialismo che da un certo punto in poi diventa socialismodistato,basatoda un lato sulla collettivizzazione economica, dall’altro sul potere del partito unico e perciò sulla negazione di un vero pluralismopolitico. Nelmomentoincui,però, il tempo ha fatto calare il sipario sullo spettacolo terribile delle lotte politiche che hanno segnato il Novecento, la difficoltà o l’aporia fondamentale del socialismo, non solo come esperienza storica, ma anche come concetto politico, appareintuttalasuanettezza: ilsocialismodistatocostruito dai comunisti, certo a fronte dienormidifficoltàinterneed esterne, non è riuscito a mantenerelesuepromessedi liberazionedegliuomini,edè crollato grazie al combinato disposto di una forte pressione esterna, di una sempre più evidente inefficienza economica e di un bisogno di libertà che aveva lasciato inappagato. Il socialismo democratico ha dovutorinunciareatuttiisuoi obiettivi più ambiziosi di trasformazione sociale per porsi «realisticamente» come l’ala sinistra della democrazia, impegnata a porre un argine al dominio del mercato e alle conseguenti ineguaglianze, richiamando al rispetto di certi doveri minimi di solidarietàsociale,cheormai, almenonelmondocristianoe occidentale, ben pochi hanno l’ardire di respingere apertamente. Perciò la vicenda storica del socialismo, che così fortemente ha segnato lo sviluppo sociale degli ultimi centocinquant’anni, ha qualcosa di paradossale: per unversononsièrealizzatala prospettata trasformazione sociale, né in forma gradualista e progressista, né in forma di rottura rivoluzionaria. L’ambizione che l’uomo potesse prendere in mano le sorti della sua storia, che potesse governare l’economia attraverso gli strumenti della pianificazione,sièinfrantadi fronte alla sue difficoltà intrinseche e alle avverse circostanze esterne; il sogno dell'«uomo nuovo» è uscito sconfitto dal confronto con un’antropologia «possessiva» che ha rivelato una sua tenacissima forza di resistenza.Maperaltroverso i movimenti socialisti e comunisti hanno inciso assai profondamentenonsolonelle strutture sociali (attraversate da conflitti che hanno generato più giustizia, più eguaglianza, più democrazia) ma anche nelle idee e nelle ideologie più diffuse. Se non ci fossero stati in campo l’Urss e la sua sfida non avremmo avuto uno straordinario personaggio come Roosevelt, né Beveridge e lo sviluppo del Welfare State. E sul piano della teoria politica si può tranquillamente affermare, per esempio, che il valore dell’eguaglianza non solo nei diritti di libertà, ma anche nell’accessoaibeniprimarie alle risorse fondamentali, proprio grazie all’impatto del socialismo, è oggi riconosciuto anche nelle più avanzateteorieliberali,come per esempio quelle di John RawlsoRonaldDworkin.Se oggi il liberalismo gode di tanto successo è anche perché, in molti suoi esponenti, ha saputo accoglieredentrodiséistanze socialistiche ed egualitarie che invece il liberalismo classico, anche nei suoi migliori rappresentanti come Tocqueville, decisamente respingeva. Perciò crediamo sipossaaffermarechelacrisi delsocialismocomeazionee teoria politica, non trascini con sé quei principi di eguaglianza, giustizia e solidarietà sociale che del socialismo hanno costituito l’ispirazione più antica e autentica,econiqualianche la riflessione politica contemporaneaèimpegnataa confrontarsi, se non altro perché sono una componente e una naturale estensione dellademocrazia. Unarecenteeutilemessa a punto su questo tema è quella tracciata da John Roemer nel suo interessante libro Un futuro per il socialismo: il principio socialista, secondo Roe-mer, è quello che afferma che in una società giusta, ogni individuo deve avere pari opportunità di autorealizzazioneebenessere, di influenza politica e di status sociale. Alcuni dei termini usati in questa proposta possono apparire problematici, come per esempio quello di autorealizzazione. Roemer precisa, pertanto, che con autorealizzazioneegliintende un concetto che affonda le sue radici, tra l’altro, nel pensierodiMarx,echestaa significare «lo sviluppo e l’applicazione del talento di un individuo in modo da conferire significato alla vita»38.L’altroconcettopoco definito, nella succinta definizione di Roemer, è quellodipariopportunità,che introduce all’interno del discorso socialista un tema il cui codice genetico è originariamente liberale. Ma su questo punto bastino qui due rapidissime considerazioni: dicendo che ciò che deve essere eguagliato non sono l’autorealizzazione e il benessere, ma le opportunità di autorealizzazione e benessere, si sottolinea che comunque all’individuo resta una responsabilità per se stesso,dallaqualeneppurela società più solidaristica può esimerlo.Insecondoluogo,il concetto di eguaglianza di opportunitàpuòancherestare vago (anche se dovrebbe necessariamenteincluderedei contenuti imprescindibili, comeperesempiol’istruzione per tutti); in questa sede è sufficiente precisare che le interpretazioni socialiste di questo concetto saranno comunque assai più esigenti delle interpretazioni liberali classichediesso. Ma se si intende il socialismo come criterio o principio, allora la prima conseguenza che ne deriva è cheessononsiidentificacon un certo modello di società oppure con certe istituzioni specifiche,comeperesempio la proprietà pubblica dei mezzi di produzione; esso si colloca a un livello di astrazione più alto rispetto a ognisingolasceltaconcreta,e lascia quindi aperto il problemadiindividuarequali siano gli strumenti migliori e piùidoneiperraggiungeregli obiettivisocialisti,sesianola proprietà pubblica, il socialismo di mercato sul quale ragiona Roemer, l’economia mista con una fortetassazioneredistributiva, o altro. Tutti gli assetti possono essere in linea di principio ugualmente validi (un po’ come accadrà anche nellaTeoriadellagiustiziadi Rawls), purché funzionino perraggiungerequeifinichei socialisti si propongono di conseguire. Vi è però anche un secondo punto che merita di essere messo a fuoco: i socialisti, se accettiamo il punto di vista di Roemer, vogliono che gli individui abbiano pari opportunità di autorealizzazione e benessere e pari opportunità (democratiche) di influire sulle scelte pubbliche. Ma si possono volere le due cose insieme ? Come ha scritto Philippe Van Parijs in un interessante saggio, che s’intitolaproprioLajusticeet la démocratie sont-elles incompatibles?, «la relazione tra democrazia e giustizia, lungi dall’esprimere un’armonia prestabilita, è al contrario altamente problematica»39. Per un verso, infatti, non si può essere socialisti senza essere democratici: le scelte che riguardano l’autorealizzazione e il benessere degli individui devono essere opera degli individui stessi, e non possono certo venire affidate a un governo di «custodi» benevolieautocratici.Maper altro verso, se si assume il principio democratico che i cittadini devono avere pari opportunità di influire sulle scelte pubbliche, come si potrà negare loro il diritto di compieresceltechevadanoin unadirezionediversarispetto a quella che pare auspicabile ai socialisti ? Perciò, se si definisce il socialismo seguendo la interessante proposta di Roemer, esso si configuracomeiltentativodi pensareunpuntod’equilibrio, che non può non essere sempredifficileeprecario,tra duevaloridifondocheperun verso si richiamano reciprocamente, ma che per altroversorestanoeterogenei. Aconsiderazioninondiverse, peraltro,sigiungeanchesesi assume come punto di partenza un orizzonte di teoria democratica: per un verso non si può essere democraticisenzanutrireuna qualche tensione verso istanzesocialistiche,perchéle pari opportunità di influire sulle scelte pubbliche presuppongono una certa uguaglianza sociale (altrimenti prevarrà sempre l’influenza dei più ricchi e potenti); ma questo significa per l’appunto imporre dei precisi limiti a quelle scelte democratiche che per altro versosonostateassuntecome ilvalorefondante.Iltemadel socialismo, perciò, si intreccia strettamente con quello della democrazia, se almeno la si intende, come oravedremo,inunadiquelle chepossonoesseredefinitele sueversioni«esigenti». 5.Democrazia. Sebbene abbia il suo lontano progenitore, nell’epoca moderna, in Rousseau, la teoria democratica si è sviluppata lentamenteneiduesecoliche abbiamo alle spalle, così come lentamente e in epoca relativamente recente si sono affermate in Europa, tra la fine del xix secolo e la metà di quello seguente, le istituzioni fondamentali della democrazia, prima fra tutte il suffragiouniversale. Sebbene costituisca anch’esso un terreno che ha ospitato interpretazioni fortemente divaricate, il concetto di democrazia si presta,inprimabattuta,auna definizione piuttosto chiara: mentreilliberalismorichiede l’uguaglianza dei diritti individuali, e il socialismo l’uguaglianza di autorealizzazioneebenessere, il principio della democrazia è l’eguaglianza politica entro una comunità (un demos), ovvero l’eguale partecipazione di tutti i cittadini adulti alle decisioni politichevincolantipertutti. La democrazia quindi rovescia l’idea (carica di un illustre passato, a partire da Platone) che solo alcuni uomini, i più qualificati o i più saggi, abbiano diritto di prendere le decisioni politiche. Ma come si giustifica, allora, il principio dell’uguaglianza democratica?Nellatradizione di pensiero che risale a Rousseau,echevieneripresa da uno dei maggiori teorici della democrazia del Novecento, Hans Kelsen, la democrazia si fonda sul concetto di libertà intesa in senso positivo: se gli uomini devono vivere sottoposti alle leggi coercitive di uno stato, l’unica soluzione perché essi non perdano la loro libertà è che, di queste leggi, sianoessistessigliautori.Se dobbiamo essere comandati, «Io vogliamo essere da noi stessi»40. Alla democrazia vista in questa prospettiva si associa immediatamente il principio di maggioranza: poiché vogliamo essere in grado di decidere, non possiamoaspettareognivolta diaverraggiuntol’unanimità: sceglieremo quindi il principio di maggioranza perché esso minimizza il numerodicolorochedevono obbedire a leggi cui non hanno dato il loro consenso. Neigrandistati,d’altraparte, al principio di maggioranza deve aggiungersi quello parlamentareche,basatosulla finzionedellarappresentanza, costituisce in realtà un compromesso praticamente necessariotral’esigenzadella libertà come autogoverno e una indispensabile divisione dellavoro. Nella prospettiva di Robert A. Dahl, uno dei più importantiteoricidemocratici contemporanei, la giustificazione della democrazia procede in maniera un po’ diversa: non prende le mosse dalla libertà ma dall’idea di eguaglianza. Allabasedellademocraziavi è l’idea della eguaglianza tra gli uomini intesa come «uguale considerazione che deveesseredataalbeneeagli interessi di ciascuna persona»41; l’idea di eguaglianzasitraducequindi, per Dahl, in un principio di pari considerazione degli interessi: gli interessi di ogni cittadino non valgono più di quellidiognialtro,equestoè un principio che si può assumere senza particolari oneri dimostrativi, poiché sarebbe assai difficile argomentare in modo convincentelatesiopposta,e cioèchegliinteressidialcuni debbano venire privilegiati a scapitodiquellidialtri.Seal principio della pari considerazione degli interessi aggiungiamo quella che Dahl chiama la presunzione di autonomia personale («in assenza di una palese dimostrazione del contrario, ognuno dovrebbe essere ritenutoilmigliorgiudicedel proprio bene o dei propri interessi»)42, disponiamo di tutto quel che ci serve per sostenere la tesi che non c’è miglior governo di quello democratico:«Seilbeneogli interessi di ciascuno devono avere uguale peso. e se ciascunadultoèingeneraleil miglior giudice del proprio bene o dei propri interessi, alloratuttiimembriadultidi un’associazione sono nel complesso sufficientemente ben qualificati a partecipare alle decisioni collettive vincolanti che influenzano il loro bene o i loro interessi, cioèaesserecittadiniapieno titolodeldemo»43. Se si parte da un assunto dieguaglianzatragliuomini, dunque,lademocraziarisulta giustificata in quanto è il miglior modo di tutelare paritariamente gli interessi di tutti, attraverso la loro partecipazione alle decisioni collettive. Le soluzioni alternative, come quella di affidare la tutela degli interessi di tutti a un despota benevolo o a un governo platonico di saggi «custodi», danno certamente minori garanzie di quante la soluzione democratica, sempre imperfetta e migliorabile nelle sue attuazioni, possa comunque offrire. Il modo in cui la democrazia viene giustificata influisce naturalmente anche sulla forma che le diverse teorie della democrazia vengono ad assumere44: qui per semplicità vorremmo limitarci a distinguere tre opzioni teoriche: la democrazia come «metodo», la teoria realistica della democrazia, e infine quella che si potrebbe definire la teoria «dinamica», ovvero, per riprendere un’idea di Macpherson, la «democrazia disviluppo». 5.1.Democrazia comemetodo. L’idea di democrazia comemetodoèquellachesta alla base della definizione minima o essenziale di democrazia proposta da NorbertoBobbioinunsaggio del fortunato volume che si intitolava appunto Il futuro dellademocrazia.PerBobbio si ha democrazia quando vengono soddisfatte le seguenti condizioni: 1) alle decisioni collettive partecipanoinmododirettoo indiretto un numero molto alto di cittadini; 2) sono vigenti regole per decidere, a cominciare dalla regola di maggioranza; 3) i cittadini hanno la possibilità di sceglieretraalternativerealie dispongono di quelle libertà (di espressione, di riunione, di associazione) che sono necessarie affinché queste alternative possano essere scelte con una certa dose di consapevolezza, e cioè dopo che sono state proposte, illustrate e confrontate nel dibattitopubblico45. Nel pensiero del Novecento,ilmaggiorteorico della democrazia come metodoperdecidereèstatoil giurista e filosofo del diritto Hans Kelsen (1881-1973). Per Kelsen la democrazia implica innanzitutto, come suo presupposto teorico di fondo, la fine della credenza inunaveritàassolutaoinun bene assoluto (come quello che orienta, a per esempio il pensiero di Platone); essa presuppone in sostanza il relativismo46.Comeformadi stato, la democrazia si basa sull’idea rousseauiana della libertà come autogoverno: nella lettura kelseniana è l’ideadilibertà(trasformatasi in sovranità popolare) a costituire il nucleo dell’idea didemocrazia,enonl’ideadi eguaglianza47, a meno che non la si intenda come la semplice eguaglianza dei diritti politici. Alla democrazia, quindi, non appartengono necessariamente specifici contenuti di eguaglianza sociale, anzi, la democrazia, per Kelsen, è un «metodo di creazione dell’ordine sociale»48 che non dice nulla sul modo in cui, concretamente, questo ordine deveesserestrutturato. Molto attento a distinguere tra ideologie e realtà, Kelsen sottolinea ripetutamente come la democrazia attuabile negli stati moderni costituisca (innanzitutto a causa della mediazioneparlamentare)una realizzazione molto limitata rispetto all’idea di democrazia come autogoverno. Tuttavia l’idea di fondo resta quella che le decisioni politiche debbano essere in qualche modo riconducibili, sia pure attraverso la mediazione dei partiti e del parlamento, alla volontà dei cittadini. Proprio per questo Kelsen delinea un modello di democrazia con caratteristiche molto precise: primato del parlamento rispetto all’esecutivo; preferibilità del sistema proporzionale, più rappresentativo, rispetto a quello maggioritario; necessità di non intendere le decisioni come mera espressione della volontà della maggioranza ma piuttosto come un compromesso tra maggioranza e minoranza, che le regole e le procedure parlamentari rendono spesso necessario,echecomunqueè per Kelsen sempre auspicabile, perché le decisioni politiche debbono essere quanto più possibile il frutto delle volontà dei cittadini e dei loro interessi, attraverso l’indispensabile mediazione della aggregazione in partiti. «È chiaro che l’individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale, non potendo esercitare un reale influsso sulla formazione della volontà dello stato. La democrazia può quindi esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche ... cosicché, fra l’individuo e lo stato, si inserisconoquelleformazioni collettive che, come partiti politici, riassumono le eguali volontà dei singoli individui»49. L’ostilità nei confronti dei partiti, sostiene Kelsen,èallafineostilitànei confrontidellademocrazia50. Il valore del metodo democratico per giungere a decisioni collettive, d’altra parte,losicomprendemeglio - per Kelsen - se si ha presente la composizione della società moderna, attraversata da aspri conflitti di interessi e, soprattutto, di classi:inunmondosolcatoda duri conflitti di classe come quello dei primi decenni del Novecento, la democrazia (nel modo in cui la intende Kelsen, e cioè ampiamente rappresentativa e orientata al compromesso) è l’unico metodopergestireilconflitto pacificamente,ondeimpedire che esso degeneri (come di fatto accadeva, nel mondo che Kelsen aveva intorno) in guerracivile. 5.2.Lateoria realisticadella democrazia. Se Kelsen mantiene ancora, sia pure come mera base di partenza, il punto di riferimento rousseauiano della teoria democratica, le teorie propriamemte realiste, a partire da quella di Schumpeter, recidono del tutto questo legame, inclinandopiuttostoapensare lademocraziasulmodellodel mercato. Non possono più essere presi per buoni, per Schumpeter, gli assunti sui qualisibasavaquellacheegli definisce come la «dottrina classica della democrazia» di impianto rousseauiano: non esiste un bene comune al quale le diverse volontà individuali possano orientarsi per dar luogo a una volontà generale; e alla volontà degli individui come soggetti politici nello stato moderno non possono essere attribuite quelle caratteristiche di autonomiaerazionalità51che sono necessarie per farne dei soggetti autonomi di decisioni: la volontà del cittadinosiriduceapocopiù che «un fascio confuso di impulsi vaghi, operanti su slogans e impressioni equivoche»52. Riprendendo dunque per certi aspetti l’impostazione élitistica di Mosca e di Pareto, Schumpeter rompe con la visione tradizionale dellademocrazia,cheprevede una direzione ascendente della volontà politica dal basso verso l’alto, e rovescia decisamente il senso del vettore politico: non è la volontà dei cittadini a dar luogo, sia pure attraverso molte mediazioni e rappresentazioni, alla decisione politica (come accadeva ancora in Kelsen). Al contrario, il primo attore sulla scena sono le élites politiche, e il consenso di cittadini è la posta in gioco della lotta concorrenziale che queste élites ingaggiano per conquistarselo. La democraziapuòessereperciò, a questo punto, definita nel modo seguente: «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggettoilvotopopolare»53. Le scelte politiche, come aveva insegnato la teoria delleélites,sonosemprenelle mani di piccoli gruppi che hannoilpoterediprenderele decisioni; ma, diversamente dalle forme di potere autocratico, la democrazia si caratterizzaperilfattochetra queste élites si instaura una competizionesimileallalotta concorrenziale degli imprenditori per conquistare consumatori, una competizione che ha come oggetto la conquista del voto dei cittadini. Come la concorrenza sul mercato, anche la concorrenza sul mercato politico non è mai perfetta, e anzi può essere talvolta più o meno alterata, distorta, persino fraudolenta. Vi è democrazia, comunque, finché vi è un minimo di concorrenza, e finché resta agli elettori la possibilità di non votare per un governo che abbia tradito le loro aspettative, determinandone lacaduta. Proprio perché la funzione del voto popolare non è quella di tradurre in decisioni politiche la volontà degli elettori, ma più semplicemente (e passivamente) quella di accettareunacertaleadership, non vi è più nessuna ragione per preferire, come aveva fatto Kelsen, un sistema elettorale proporzionale. Anzi, se il problema è solo quello di dare l’investitura a una leadership (riservandosi soltanto di togliergliela qualora essa si riveli insoddisfacente) il sistema maggioritario sembra assai piùfunzionale54.Lafunzione del cittadino democratico, in sostanza, si risolve in quella, assai ridotta, di decidere chi debba essere il leader. Ma, nel momento in cui si chiamano i cittadini a esprimere il loro parere, i giochi sono già stati fatti nell’ambito dei partiti, che perSchumpetersonoappunto gruppi «i cui membri si propongono di agire di concerto nella lotta per il potere politico». Se questa è «realisticamente» la loro natura, allora ben si comprende il fatto, che altrimenti resterebbe inspiegabile, che partiti diversi o persino opposti adottino programmi straordinariamentesimili55:la lorofunzioneinfatti,inquesta visionedellademocrazia,non è altro che quella di conquistare il consenso di un elettore medio che, per quanto sia intellettualmente evoluto nell’ambito dei suoi affariodellasuaprofessione, quandosiesprimesulterreno politico, dove non ha conoscenze di prima mano e preparazione scientifica, dà fatalmente luogo a comportamenti infantili e primitivi. Alla visione schumpeteriana della democrazia (di cui offre una critica efficace e sintetica Danilo Zolo ne II principato democratico)56 si può avvicinare per certi aspetti quella di Giovanni Sartori, chesottolineaanch’eglicome il vero potere dell’elettorato sia soprattutto quello di «scegliere chi lo governerà»57; mentre l’analogia tra mercato e democrazia è stata sviluppata soprattutto nella Teoria economica della democrazia di Anthony Downs58. In questa prospettiva, non sembri un paradosso, le preferenzedeivotantiequelle dei rappresentanti sono completamente distinte: i votanti sono interessati ai programmipoliticiealmodo in cui essi entrano nella loro funzione di utilità; ai rappresentanti invece i programminoninteressanoin quanto tali, ma solo come strumentiperraccoglierevoti (che è lo scopo in vista del quale i programmi vengono confezionati). Da qui si genera il cosiddetto risultato dell’elettore «mediano»: i rappresentanti che si fanno concorrenza tendono a presentare piattaforme politiche convergenti e sovrapponibili, appunto, a quella preferita dall’elettore «mediano». Ma l’ipotesi «ultrarealistica» che ai candidati sia del tutto indifferente il prodotto che offrono è andata incontro a critiche, che hanno messo variamente in risalto le difficoltà di una comprensione della democrazia che la riduca a mercato59. Approfondendo l’analisi dellademocraziarealeRobert Dahlnesottolineailcarattere pluralistico: si deve infatti a lui l’introduzione del termine «poliarchia», con il quale Dahl si riferisce alle democrazie esistenti in numerosi paesi dell'Occidente, e caratterizzate dalla diffusione dei diritti politici (dal suffragio universale alla libertàdiespressione),dauna pluralità di fonti di informazione alternative e dalla libertà di associazione, cioè dal fatto che i cittadini hanno «il diritto di costruire associazioni e organizzazioni relativamente indipendenti, come pure partiti politici e gruppi di interesse indipendenti» 60. Nella riflessione di Robert Dahl, però, all’analisi della democrazia reale (descritta come «poliarchia») si affianca progressivamente una riflessione che assume caratteristiche criticonormative, e che si pone il problema se la «poliarchia» siaabbastanzademocratica,e dicomesipossacostruireuna democraziapiùsoddisfacente, che vada oltre i limiti della «poliarchia». L’analisi realistica della democrazia così com’è non blocca, ma anzi apre la possibilità di interrogarci sui modi per superare i limiti che nella democrazia esistente si riscontrano. 5.3.Lademocrazia disviluppo. È proprio in questa direzione che si muovono i teorici di quella che, con C. B. Macpherson, potremmo chiamare la democrazia di sviluppo61. In questa prospettiva (che è stata diversamente espressa nelle opere di John Dewey, dello stesso Macpherson, di Cunningham) una visione come quella di Schumpeter non rappresenta la fisiologia della vita democratica, ma piuttosto la, sempre incombente, patologia: la democrazia infatti tradisce se stessa nel momento in cui il vettore della volontà politica non va più dal basso verso l’alto ma dall’alto verso il basso, e i cittadini diventano l’oggetto delle strategie messe in atto da parte delle élites politiche per conquistarneilconsenso. Due sembrano essere gli aspetti che caratterizzano più nettamente le visioni della democraziacomeunprocesso dinamico, alla radice del quale c’è una idealità di fondo che tende sempre ad andare oltre le acquisizioni della democrazia reale. In primoluogo,vièl’ideachela democraziapoliticaèpartedi un più vasto processo di democratizzazione della società, e che solo in questo contesto assume veramente il suo significato. John Dewey per esempio, nel suo The Public and its Problems, del 1927, sostiene che bisogna tener sempre presenti due aspetti: la democrazia come idea sociale e la democrazia politica come sistema di governo: «l’idea di democraziaèpiùestesaepiù ampia dell’esempio che di essa può dare anche lo stato piùperfetto.Perattuarsi,essa deveinfluiresututtiimodidi associazione umana, sulla famiglia, la scuola, l’industria, la religione; e gli stessi modi politici di attuazione, le istituzioni governative,nonsonocheun meccanismo per offrire a un’ideaimezzidifunzionare in modo effettivo» 62. La democrazia dunque non è soltanto un metodo politico ma, più originariamente, un ideale di società: «La democrazia - scrive Dewey è qualcosa di più di una formadigoverno.Èprimadi tuttountipodivitaassociata, di esperienza continuamente comunicata»63.Èunatesiche viene ripresa e sviluppata anche in Macpherson e in Cunningham64, che ne riprende e ne svolge l’insegnamento: come scrive il primo in Democratic Theory, la democrazia è «un tipodisocietà-uncomplesso globale di relazioni tra individui -»65 e non semplicemente una forma di governo. Ne discende l’esigenza di affiancare alle istituzioni della democrazia politica processi di democratizzazione della vita associata,inunavisionedella democrazia come processo dinamico ed espansivo66 che nonsiacquietanelleformedi volta in volta raggiunte. All’espansione della democrazia in sfere della società diverse da quella propriamente politica ha dato un contributo importante anche Robert Dahl, con la sua ricerca sulla democrazia nelle aziende67 e, più in generale, sul rapporto tra democraziaedeconomia. L’altro aspetto che mi sembra centrale nelle visioni dinamichedellademocraziaè quellocheconcerne,perdirla ancora con Dewey, il ruolo del pubblico, e più precisamente del dibattito e delladiscussionepubblica.Se non si accetta il fatto che i cittadini restino al margine dei processi effettivi di formazione della volontà politica, limitandosi sostanzialmente a esprimere una delega, diventa centrale la riflessione sui modi in cui essi possono far sentire la loro voce, concorrendo allo sviluppo di un’opinione pubblica attiva, informata e influente. Uno dei più gravi pericoli che minacciano la democrazia, osserva sempre John Dewey, è l’eclisse del pubblico,ovveroilfattochei cittadini si riducano a quei consumatoripassividiofferte politiche che vengono rappresentati nella teoria schumpeteriana. Il conteggio dei voti, che è essenziale in democrazia, «deve necessariamente essere preceduto da discussione, colloquio e persuasione»68; e il principio di maggioranza sarebbe insensato come pretendono i suoi detrattori, senoncisisoffermasseanche sul modo in cui le maggioranze si devono formare: e cioè attraverso il dibattito pubblico e il confronto critico degli argomenti. Le teorie dinamiche della democrazia, ponendo le istanze di una democratizzazione della società e di una centralità della discussione pubblica, costituiscono quindi il polo opposto rispetto alle teorie realistiche;omeglio,possono anche far propri aspetti analitici che sono evidenziati dalle teorie realistiche, ma se ne distinguono soprattutto perché colgono il «fatto» della democrazia in modo molto più ricco e più complesso, in quelle potenzialità espansive che gli ineriscono, e che esso può sempredinuovorigenerare. 1G.sartori,Democrazia: cosaè,Rizzoli,Milano2000, p.195. 2Cfr.LeCartedeidiritti, a cura di F. Battaglia, Sansoni, Firenze 1947, p. 119. 3 E. balibar, Le frontiere della democrazia, trad. it. manifestolibri, Roma 1993, pp.83sgg. 4 Per una utile presentazione della discussioneanaliticasuquesti temisivedailvolumeacura diM.decaro,Lalogicadella libertà,Meltemi,Roma2002. 5DiN. bobbio si vedano soprattutto, tra i numerosi interventi su questo tema, il volume Politica e cultura, Einaudi,Torino1955,pp.160 sgg. e il libretto Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino 1995; si legga inoltre il saggio di M. BOVERO, Libertà,in Alla ricerca della politica. Voci per un dizionario, a cura di A. D’Orsi, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 33-52; di I. berlin si legga il classico Quattro saggi sulla libertà (1969), trad. it. Feltrinelli, Milano 1989. Per la discussione intorno alle tesi diBerlincfr.ilvolumeacura diI.cartereM.RICCIARDI, L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996 e il recente scrittodiG.CADONI,Suun celebre saggio d'Isaiah Berlin, in «Il pensiero politico», XXXV (2002), n. 2, pp. 302-19. Per una panoramica generale sul concetto di libertà si veda il volumetto di M. barberis, Libertà, il Mulino, Bologna 1999. 6 hobbes, Leviatano cit., p.205. 7Ibid.,p.208. 8 È questo un concetto che, come ricorda bobbio in Eguaglianzaelibertà,cit.,p. 47, si trova anche in Locke (Secondo trattato, § 22) e in Montesquieu(Lospiritodelle leggi,XII,2). 9 rousseau, Contratto sociale,cit.,p.98. 10 Cfr. gray, Liberalismo (1986}, trad. it. Garzanti, Milano1989, 11H.LASKi,Leorigini delliberalismoeuropeo,trad. it.Firenze1971,pp.2-3. 12 s. Maffettone, Fondamenti filosofici del liberalismo, in R. dworkin e s. Maffettone, I fondamenti del liberalismo, Laterza, Roma-Bari1996,pp.129-30. 13 Come sottolinea, per esempio, G. bedeschi nella Avvertenza alla seconda edizione della sua Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 1992. Tra i tentativi di dare una visione complessivadelliberalismosi possono leggere utilmente gray, Liberalismo cit.; R. cubeddu, Atlante del liberalismo,Ideazione, Roma 1997 (si tratta in entrambi i casi di volumi molto vicini alla prospettiva di Hayek);p. p. portinaro, Profilo del liberalismo, pubblicato di seguito al saggio di B. constant, Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino 2001, pp. 37-158. Ma non si dimentichi il classico G. de RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo (1925), Laterza,Roma-Bari1995. 14Itestidellapolemica, con altri che la illustrano, si leggono in B. croce e L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, Ricciardi, Milano- Napoli 1957. Per una recente riflessione sul tema «liberalismo e liberismo», che tende ad archiviare la disputa come appartenente ormai al passato, cfr. cubeddu, Atlante del liberalismocit.,pp.113sgg. 15 Cfr. croce, Etica e politicacit.,pp.266-67. 16 Su questo tema vedi la critica di bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo, in Politica e cultura cit., pp. 211-68. 17 sartori, Democrazia:cosa è cit., p. 206. 18cubeddu,Atlantedel liberalismocit.,p.91. 19Ibid.,p.95. 20 Uno degli esponenti più noti di questa corrente è M. rothbard; tra i molti testi tradotti anche in italiano si può vedere L'etica della libertà, Liberilibri, Macerata 1996. 21 Cfr. P. van parijs, La justice et la démocratie sontelles incompatibles?, in Sauver la solidarité, Éditions du Cerf, Paris 1995, pp. 2760. 22 constant, Prìncipi di polìticacit.,p.123. 23Cfr.Lecartedeidiritti cit.,p.45. 24Ibid.,p.131. 25 bobbio, Politica e culturacit.,p.168. 26 M. Fioravanti, Costituzione, il Mulino, Bologna 1999, p. 105. Su Montesqieu e il costituzionalismo si leggono ancora utilmente le pagine dello studioso legato alla Scuola di Francoforte f. neumann, LO STATO democratico e lo stato autoritario (1957), trad. it. il Mulino, Bologna 1973, pp. 181-241. 27 Sul liberalsocialismo cfr. il volume collettaneo, a curadiM. bovero, v. murae F. sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova ItaliaScientifica,Roma1994, nonché il volume di F. sbarberi, L'utopia della libertà eguale, Bollati Boringhieri,Torino1999. 28 Sulla difficoltà di definire «socialismo» insiste anchej.-p.thomasnellavoce «Socialisme» del Dictionnaire de philosophie politique, a cura di P. RaynaudeS.Rials,Puf,Paris 1997. 29 F. Buonarroti, Congiuraperl'eguaglianzao di Babeuf, a cura di G. Manacorda, Einaudi, Torino 1946,pp.277e279. 30 a. laponneraye, Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1832), trad. it. in II socialismo prima di Marx, a cura di G. M. Bravo, Editori Riuniti,Roma1966,pp.15260. 31 j. j. PILLOT, Né castelli né capanne (1840), trad.itinIIsocialismoprima diMarxcit.,p.407. 32 Riportato da G. M, Bravoin II socialismo prima diMarxcit.,p.490. 33 p. j. PROUDHON, Checos'èlaproprietà(1840), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1974,p.203. 34 Riportato da G. M. Bravoin II socialismo prima diMarxcit.,p.480. 35 Per una analisi della concezione della libertà e dellagiustiziainMarxsiveda il volume a cura di s. Petrucciani e f. s. trincia, Marx in America. Individui, etica,scelterazionali,Editori Riuniti,Roma1993. 36 Marx, Critica al programma di Gotha cit., p. 962. 37 E. Bernstein, I presuppostidelsocialismoei compiti della socialdemocrazia, trad. it. Laterza,Roma-Bari1974. 38J.E.roemer,Unfuturo perilsocialismo(1994),trad. it.Feltrinelli,Milano1996,p. 17. 39Cfr.ilvolumettodivan parijs, Sauver la solidarité cit. 41 R. A. Dahl, La democrazia e i suoi critici (1989), trad. it. Editori Riuniti,Roma1990,p.127. 42Ibid.,p.150. 43Ibid.,p.158. 44 Un’ottima panoramica recente sulla teorie della democraziaè(dopoillibrodi D. HELD, Modelli di democrazia, il Mulino, Bologna 1997) il volume di F.CUNNINGHAM,Theories of Democracy. A Critical Introduction, Routled-ge, London-NewYork2002.In italiano, una sintetica guida storica al pensiero democratico è E. GREBLO, Democrazia, il Mulino, Bologna 2000; utile anche la lettura della voce «Demokratie» dell’opera Geschichtliche Grundbegriffe, tradotta in italiano come volume a sé presso Marsilio nel 1993 (Democrazia: ne sono autori W. Conze, R. Koselleck, H. Maier, C. Meier, H. L. Reimann). 45 Cfr. N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, pp. 47. 46 Kelsen, Essenza e valore della democrazia cit., p.141. 47Ibid.,p.133. 48Ibid.,p.134. 49Ibid.p.56. 50Ibid.,p.62. 51 J. A. Schumpeter, Capitalismo socialismo democrazia (1954), trad. it. Etas Libri, Milano 1984, p. 242. 52Ibid.,p.342. 53Ibid.,p.257. 54Ibid.,p.260. 55Ibid.,p.269. 56 D. zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 111sgg. 57 SARTORI, Democrazia : cosaècit.,p.75. 58 A. downs, Teoria economica della democrazia (1957), trad. it. il Mulino, Bologna1988. 59 Interessanti riflessioni sul rapporto tra economia e politica in questa prospettiva si trovano nell’intervento di M.GrilloenelCommentodi M. Reale inclusi nel volume Relazioni pericolose. L’avventura dell’economia nellaculturacontemporanea, a cura di A. Boitani e G. Rodano, Laterza, Roma-Bari 1995,rispettivamentepp. 75- 97e98-108. 60DAHL,Lademocraziae isuoicriticicit.,p.334. 61 Cfr. c. B. MACPHERSON, La vita e i tempi della democrazia liberale (1977), trad. it. Il Saggiatore, Milano 1980; 62 j. Dewey, The Public anditsProblem(1927), trad. it. Comunità e potere, La NuovaItalia,Firenze1971,p. 113. 63 j. DEWEY, Democrazia e educazione (1916), trad. it. La Nuova Italia,Firenze1992,p.133.Il passo è citato nell’utile volume di M. alcaro, John Dewey. Scienza prassi democrazia, Laterza, RomaBari1997,p.112. 64DiF. CUNNINGHAM si vedano il volume Teoria della democrazia e socialismo (1987), trad. it. EditoriRiuniti,Roma1991,e The Real World of Democracy Revisited, Humanities Press, Atlantic Highlands,NewJersey1994. 65 c. B. macpherson, DemocraticTheory.Essaysin Retrieval, Oxford University Press1973,p.51. 66 Una visione dinamica dellademocraziaèquellache viene proposta da M. REALE, La fragilità della democrazia vincente, in AA.VV., Per un nuovo vocabolario delta politica, a cura di L. Capuccelli, Editori Riuniti, Roma1992,pp.15-175. 67 R. DAHL, La democrazia economica (1984), il Mulino, Bologna 1989 68 J.DEWEY, Comunità e poterecit.,p.162. VII.Teoriepolitichea confronto I.Lateoriadella giustiziadiRawls. Con A Theory of Justice, pubblicata negli Stati Uniti nel 1971, John Rawls ha impresso una vera e propria svolta al pensiero filosoficopolitico della contemporaneità. La Teoria della giustizia di Rawls, infatti, ha riportato al centro della discussione filosoficopolitica l’approccio normativo,cheilprevaleredi altriorientamentidipensiero, realistici o marxistici, aveva relegato piuttosto sullo sfondo nei decenni del secondo dopoguerra. A partire dalla sua pubblicazione, la teoria rawlsiana non ha suscitato solo un’enorme quantità di discussioni critiche e di interpretazioni, ma ha anche stimolato, per contrasto, la costruzione di teorie alternative che assumono quelladiRawlscometermine diparagonecritico,comeper esempio il liberismo di Robert Nozick o le teorie comunitarie. ComeRawlschiariscegià nelle primissime pagine del suo libro, il tema specifico della sua indagine è quello della giustizia sociale1. Per affrontarlo è necessario perciò prendere le mosse da unaconcezione,seppurmolto essenziale, di cosa sia una società. Egli la definisce, quindi, come «un’associazione più o meno autosufficiente di persone che, nelle loro relazioni reciproche,riconosconocome vincolanti certe norme di comportamento e che, per la maggior parte, agiscono in accordoconesse»2. Lasocietà,precisaRawls, puòesserequindiconsiderata come un «sistema di cooperazione teso ad avvantaggiare coloro che vi partecipano», e che si basa quindi su una certa ripartizione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale tra i partecipanti a essa. La società, precisa ancoraRawls,ècaratterizzata siadaconflittochedaidentità di interessi: vi è identità di interessi perché la cooperazione sociale rende possibilepergliindividuiuna vita migliore di quella che avrebbero senza di essa; ma vi è anche conflitto di interessi perché Rawls presume che ognuno preferisca avere per sé una quota maggiore di benefici e una quota minore di oneri. Date queste semplici e poco controverse premesse, la ricercaverteràdunqueintorno al problema di quali siano i giustiprincipiinbaseaiquali deve essere organizzata la struttura fondamentale della società e, quindi, la ripartizione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale. Ma come procedere nella ricerca di questi principi normativi ? Per rispondere a questo problema Rawls riprendel’ideadifondodella teoria del contratto sociale, che egli ritrova in Locke, RousseaueKant:iprincipidi giustizia per la struttura fondamentale della società, sostiene, sono quelli che sarebbero oggetto di un accordo originario, ovvero quelli sui quali si metterebbero d’accordo individui liberi, eguali e razionali, tesi a perseguire i propri interessi, che si trovassero a dover istituire le norme fondamentali della lorocooperazionesociale. È molto importante, nella prospettivadiRawls,stabilire le caratteristiche della situazione originaria a partire dalla quale si deve trovare l’accordo sui principi di giustizia; su questo punto lo schema contrattualistico va precisato, e se ne devono sciogliere le ambiguità. Non possono essere considerati giusti principi, infatti, quelli che scaturirebbero da un contratto concluso, in un ipotetico stato di natura, tra individui reali, portatori di dotazioni differenziate di forza fisica, intelligenza, abilità, e così via. Se si partisse da una situazione di questogenere,ilcontrattoche le parti sottoscriverebbero non potrebbe non risentire delle ineguaglianze di partenza, e quindi non potrebbe essere definito giusto 3. È per questo che i contrattualisti, a partire da Hobbes, si preoccupavano di mostrare che nello stato di natura gli individui erano sostanzialmente uguali. Poiché però è difficile sostenere la tesi che il punto di partenza sia un’eguaglianza di fatto, Rawls si muove nella direzione di precisare le condizioni nelle quali si devono trovare i contraenti per poter dar luogo a un contrattogiusto. Vi sono innanzitutto alcune condizioni di sfondo: lepartidelcontrattosonotese apromuovereilpropriobene, non sono né altruiste né invidiose, si trovano nella condizione di «scarsità moderata», cioè in una situazione in cui le risorse non sono così abbondanti da rendere superflui gli schemi di cooperazione né così esigue da condannarli al fallimento. Ma, se si vuol giungere a un contratto giusto, il vincolo fondamentalechedeveessere impostoallepartièquelloche Rawls definisce il «velo di ignoranza»: le parti devono scegliere i principi di giustizia disponendo certamente di informazioni generali sulla società umana; ciascuno però deve ignorare quali sono le sue specifiche doti (intelligenza, forza, talenti),qualèilsuopianodi vita e la sua concezione del bene, quale posto andrà a occupare nella società. Solo sesisupponecheicontraenti siano sottoposti a questa limitazione, si può assumere che essi daranno luogo a un contratto giusto, poiché, dal momento che nessuno conosce i propri interessi specifici, si potrebbe dire giocando un po’ con le parole,tuttiavrannointeresse atutelaregliinteressiditutti. Lacondizionedelvelodi ignoranza,peraltro,nonèche un modo ingegnoso e un po’ tecnico per dire una cosa moltosemplice4:uncontratto giusto è quello che verrebbe sottoscritto da contraenti imparziali; e le parti sotto velo di ignoranza sono imparziali perché, non conoscendolepropriedotiei propri interessi, sottoscriveranno solo accordi chetutelinoinparimisuragli interessidiciascuno. Ma quali sono dunque i principi per le istituzioni fondamentalisuiqualileparti idealizzate del contratto rawlsianosiaccorderebbero? Nella formulazione che Rawls ne dà nella Teoria della giustìzia essi sono i seguenti: Primo principio - Ogni personahaunegualedirittoal più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti. Secondo principio - Le ineguaglianze economiche e socialidevonoessere: a) per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il principio del giusto risparmio,e b)collegateacarichee posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianzadiopportunita5. Lasciandodaparteimolti problemi di dettaglio che questeformulazionirawlsiane possono porre, conviene concentrarsi sulle linee essenzialidelragionamento.I principidiunasocietàgiusta, per Rawls, vertono su due questioni basilari: il primo riguarda il pacchetto delle fondamentalilibertàliberalie democratiche, che dev’essere a tutti garantito; il secondo, più discusso e controverso, concerneinveceiltemadelle ineguaglianze economicosociali:se,efinoachepunto, in un orizzonte contrattualista, esse sono legittime ? La risposta di Rawls, e cioè l’argomentazioneafavoredel secondo principio, si articola come segue. Le parti contraenti in posizione originaria sono tutte interessate a massimizzare la propria dotazione di «beni principali», cioè di quei beni cheservonoarealizzareogni pianodivitaecheincludono, accanto alle libertà, i redditi, le ricchezze è le basi per il rispetto di sé. Essi quindi, in prima istanza, stabiliscono che ricchezze e redditi siano ripartiti in modo eguale tra tutti i partecipanti alla cooperazione sociale6. Tuttavia, come sostiene Rawls,nonc’èmotivoperché questasceltasiadefinitiva.Le parti,abbiamosupposto,sono reciprocamentedisinteressate, e ciò vuol dire che ognuno è interessatosoloadaumentare la propria dotazione di beni principali; non gli importa quale sarà la dotazione degli altrienonnutresentimentiné di generosità né di invidia. Perciò, nel caso in cui una distribuzione ineguale (per esempio una retribuzione maggiorepergliindividuipiù produttivi) consenta (accrescendo la produttività complessiva della cooperazione sociale) di aumentare la dotazione di beni principali di cui gode ognuno, anche chi riceve di meno,nonvisonomotiviper non accettarla; anzi, una situazione dove, grazie a una distribuzioneineguale,tutti,e in particolare coloro che prendono di meno, stanno meglio, verrebbe preferita a una situazione dove vige l’eguaglianza, ma ognuno guadagna meno di quel che guadagnerebbe nella situazione ineguale. Intuitivamente, l’argomentazione di Rawls appare piuttosto forte. Proviamo a ripercorrerla in termini semplificati: se si dà il caso che, a retribuzione uguale, tutti si impegnino poco nel lavoro e a ognuno spetti quindi una modesta quantità di beni, appare ragionevole introdurre incentivi per chi è più produttivoinmodotaleche,a prezzo di una certa ineguaglianza, a ognuno tocchi però un pacchetto di beni maggiore. L’ineguaglianza rawlsiana, un’ineguaglianzacheproduce vantaggi per tutti, unita a eguali opportunità (dove cioè ognuno può accedere col suo impegno alle posizioni più retribuite) appare preferibile, nella situazione originaria di scelta, all’eguaglianza perfetta. Il «principio di differenza» di Rawls sembra dunque superiore rispetto a quello di intransigente eguaglianza. Ma si possono ipotizzare anche altri principi di distribuzione, con i quali quello rawlsiano si deve confrontare. Tra le alternative, spiccano da un lato quella di un principio puramente «meritocratico», e dall’altra quella di un principio utilitarista, che afferma che si deve massimizzare l’utilità media prevista, preferendo cioè una situazione dove mediamente tutti hanno di più, anche se coloro che capitano peggio possono avere persino meno di quanto spetterebbe loro con una distribuzione eguale. Rispetto al principio di massimizzazione dell’utilità media, quello rawlsiano è il fruttodiunasceltapiùcauta: inessoinfatti,anchechiavrà meno avrà comunque di più di quello che gli sarebbe toccato in una situazione di eguaglianza. Le parti rawlsiane scelgono il principio di differenza facendosi guidare dal principio del maxi-min·. «Al buiosullanostrasortesociale e naturale, scegliamo quella distribuzioneincuièmigliore la condizione di chi sta peggio»7. L’uso di questo principiodisceltarazionaleè stato ampiamente criticato, ma ciò non toglie che l’idea diRawlsabbiacomunqueuna sua forza. Si deve ricordare, infatti,chelaprimasceltache farebbero dei soggetti in posizione originaria sarebbe quella per l’eguaglianza; sembra ragionevole abbandonare l’eguaglianza se vi è la certezza di stare meglio, mentre sarebbe assai più azzardato abbandonarla per una situazione dove l’utilità media è più alta, ma dove un singolo sfortunato o pocoabilehaunaprospettiva di vita anche peggiore di quella, già modesta, che avrebbenellostatodiperfetta eguaglianza. Perché mai le parti contraenti dovrebbero assumersiquestorischio? Lo stesso tipo di obiezionesipuòmuoverenei confronti dei sostenitori di principi «meritocratici», cioè di principi in forza dei quali l’ineguaglianza è legittima anche se non migliora la prospettiva dei più svantaggiati. Nella posizione originaria i soggetti non conoscono le loro doti, non sanno se sono abili o incapaci, intelligenti o stupidi, dotati di un forte carattere oppure deboli e inetti;ragionanoquindicome se gli potesse capitare di trovarsi dall’una o dall’altra parte,scegliendounprincipio di distribuzione meritocratico (molto ai più capaci, poco agli altri) farebbero cosa molto incauta, e rischierebbero di darsi la zappasuipiedi. Peraltro, anche prescindendo dal velo di ignoranza,Rawlssostieneche il suo principio di differenza dovrebbe comunque essere accettato dai meglio dotati: essi devono in ogni caso cooperare nella società con i meno dotati, e hanno quindi bisogno che questi ultimi accettino una distribuzione sociale ineguale; ma questi ultimi non la accetteranno se dal contributo dei più dotati non verrà anche un miglioramento per la loro posizione. Il principio di differenza, quindi, è la condizione per una cooperazione sociale che non è solo giusta, ma anche stabile e accettabile da tutti. Come è stato scritto, «la struttura sottostante l’argomento per il principio di differenza risiede ... più che in un generale pregiudizio umanitario a favore degli svantaggiati, nell’idea che le istituzioni collettive sono costituite in vista di un’intrapresa cooperativa»8; il principio di differenza, infatti, sostiene Rawls, è anche un principio di reciproco beneficio: «sembraessereunabaseequa rispetto a cui i più dotati, o i più fortunati nei fatti contingenti della società, possono attendersi la collaborazione degli altri... » 9. Rawls infine aggiunge anche un’ulteriore riflessione a sostegno del suo principio didifferenza,cheriprendeun punto sul quale aveva insistito,comeabbiamovisto, la tradizione socialista: dato che gli individui non «meritano» né i loro talenti naturali (forza, intelligenza, saluterobustaecosìvia)néle qualità che acquisiscono graziealnascereealcrescere in circostanze familiari e sociali favorevoli (fiducia in se stessi, fermezza di carattere ecc.)10 - si tratta infatti di qualità che essi hanno grazie a una sorte fortunata - allora non si può dire neanche che essi «meritino» i maggiori guadagni che, grazie alle qualità che possiedono, riesconoaottenere.Perciòun principio moderatamente egualitario e redistributivo come il principio di differenza è da preferirsi rispetto a un principio meritocratico. Riassumiamo quindi il percorso fin qui compiuto: le partiinposizioneoriginaria,e sottoposte al velo di ignoranza, scelgono come principi per la cooperazione socialedaunlatounprincipio di eguale libertà, dall’altro il principio di differenza, in forza del quale le ineguaglianzesonoconsentite se vanno a beneficio di tutti in condizioni di eguali opportunità: non sapendo se saranno molto abili o poco abili, i contraenti optano, prudentemente, per quella distribuzione dove anche i menofortunatiavrannodipiù cheinognialtroassettodella società. Aldilàdelsuosofisticato impiantoconcettuale,lateoria rawlsiana della giustizia sociale costituisce anche una prospettiva all’interno della quale si possono giustificare normativamente gli interventi redistributivi dello stato sociale del benessere:l’ineguaglianzanei redditi,infatti,ègiustificabile soloinquantocontribuisceal miglioramento della situazione di tutti. E questo puòavvenireancheattraverso l’intervento dello stato che, tassando i redditi più alti, ne utilizza i proventi per fornire servizi o sussidi che migliorino la situazione di ciascuno, e in particolare dei piùsvantaggiati. Lo sviluppo successivo della riflessione di Rawls, però, fa emergere un problema al quale il filosofo dedica in modo sempre più mirato la sua attenzione: i principi esposti in Teoria della giustizia si inseriscono inunabenprecisaconcezione morale, in un moralità di ascendenza kantiana incentrata sull’equità o sull’imparzialità, che si traduce nell’artificio teorico della posizione originaria e del velo di ignoranza. Il problema che però a questo punto si pone è abbastanza evidente: se si prende sul serio il pluralismo, e cioè il fatto che noi viviamo in società caratterizzate da una grande varietà di visioni morali, di religioni, di ideologie, come si può pensare che i principi di giustizia che devono regolare la cooperazione sociale siano l’espressione di una visione morale particolare, nella quale molti cittadini delle nostre società non si riconoscerebbero ? In un orizzonte liberale come quello di Rawls, in altre parole, i principi di giustizia che devono vincolare tutti non possono essere ispirati a una specifica «dottrina comprensiva» (la moralità kantiano-liberaleincuiRawls stesso si riconosce) ma devono essere accettabili anche dai sostenitori di visioni diverse. Perciò la giustificazione morale dei principi di giustizia (che Rawls ha elaborato nella Teoria del 1971) non è più sufficiente: si tratta ora di darne una giustificazione puramente politica11, cioè una giustificazione che non dipenda dall’assunzione di unateoriamoraledeterminata nédall’accettazionedialcuna «dottrinacomprensiva»,esia quindi ricevibile da ogni persona ragionevole, quali che siano i suoi orientamenti ideali e morali. Con Liberalismo politico (1993) Rawls si propone appunto di mostrarecheisuoiprincipidi giustizia possiedono questi requisiti: essi sono tali da poter essere accettati da tutte le persone ragionevoli, quali che siano le loro credenze filosofiche,moralioreligiose, come principi che fissano equi termini della cooperazione sociale. Le persone ragionevoli sono infatti quelle che, prendendo atto come di un fatto ineliminabile e positivo del pluralismo che caratterizza le società moderne, intendono ricercare principi di cooperazione sociale che siano accettabili per tutti, mentre irragionevoli sono coloro che pretendono di imporre ad altri di vivere secondo la loro visione religiosa, morale o filosofica. Se si vuol dar luogo a una cooperazione sociale equa, cioèrettadaprincipichetutte le persone ragionevoli possano accettare, allora questi principi devono essere scelti dal punto di vista della posizione originaria, cioè da un punto di vista che non privilegia nessuno. A proposito dei principi di giustizia, dunque, potrà realizzarsi quello che Rawls definisce un «consenso per intersezione» (overlapping consensus), cioè un’adesione non solo da parte di coloro che hanno una visione liberale della vita e della politica, ma anche di quanti, partendo da dottrine diverse (per esempio cattolici o socialisti) giungono attraverso loro ragioni a condividere i medesimi principi. Dopoavermostratocome i suoi principi possano costituire la base per la convivenza, all’interno dello stato, tra i cittadini liberali e quelli che si riconoscono in altre visioni, purché ragionevoli, Rawls riflette infine (Il diritto dei popoli, 1999) sui principi che dovrebbero regolare la convivenza tra popoli, e in particolaretraipopoliliberali e quelli che non lo sono, che hanno idee di giustizia differenti, e che si possono definire, nella prospettiva di Rawls, come «popoli gerarchici decenti» (Rawls propone l’esempio immaginario del Kazanistan, un paese islamico che non accettaseparazionetrastatoe Chiesa, che però rispetta i fondamentali diritti umani, e che, anche se non è democratico, prevede istituzioni di consultazione dei vari gruppi che lo compongono). Tra i principi che verrebbero scelti, in una posizione originaria, dai rappresentanti dei popoli per regolarelaloroconvivenzavi sono, accanto a quelli tradizionali che implicano il rispetto dell’indipendenza, dellasovranitàedeitrattati,il principio che «i popoli sono tenuti a onorare i diritti umani» e quello secondo il quale: «i popoli hanno il doverediassisterealtripopoli che versano in condizioni sfavorevoli tali da impedire loro di avere un regime sociale e politico giusto o decente»12. 2.Alternativealla teorìadellagiustizia. LateoriadiRawlsnonha solo suscitato una straordinaria mole di discussioni, ma è stata anche all’origine di teorizzazioni alternative,chehannoassunto quellarawlsiana,inmodopiù omenodiretto,cometermine di paragone o di riferimento polemico. 2.1.Illiberismodi RobertNozick. Col suo testo del 1974 Anarchia, stato, utopia13, Robert Nozick ha proposto una visione della giustizia radicalmente alternativa a quella di Rawls, che rientra nel filone di un liberalismo liberista e antiegualitario, e checertamenteaffondalesue radicinelpensierodelgrande economista e pensatore liberistaFriedrichvonHayek. Il punto di partenza della riflessionediNozicksonogli individui con i loro diritti, concepiti lockianamente comediritticheappartengono a essi prima e a prescindere dall’istituzione dello stato. Gli individui sono liberi e padronidisé,enessunohail dirittodiusarli,controlaloro volontà, per i propri scopi. Immaginiamo, dunque, suppone Nozick, che questi individui si trovino a vivere nello stato di natura, ovvero nella condizione pre-statuale; per ovviare ai mali di questa condizione, messi in rilievo nella tradizione giusnaturalistica, non è però necessario imboccare la strada del contratto, visto come unico modo per generare uno stato legittimo. In modo più semplice e lineare, dice Nozick, la nascitadellostatolegittimosi può spiegare secondo una logicanondicontratto,madi mercato: per garantirsi la sicurezza, gli individui cominceranno dapprima a costituire associazioni di mutua protezione, e poi, con la divisione del lavoro, ad acquistare protezione da compagnie costituite da altri individui-imprenditori per vendere questo servizio. I problemi derivanti dall’esistenza di una pluralità di compagnie di protezione avranno come conseguenza che, su uno stesso territorio, resterà prima o poi una sola compagnia di protezione dominante. Poiché l’adesione alla compagnia di protezione è volontaria, alcuni potranno sceglieredirestarnefuoriedi continuareafarsigiustiziada soli; ma ciò comporterà problemi di difficile soluzione in caso di controversie tra gli affiliati alla compagnia (che hanno delegato a essa la protezione e la soluzione delle controversie) e gli indipendenti. Per garantire ai propri clienti sicurezza e corrette procedure di risoluzione dei conflitti, la compagnia di protezione dominante dovrà dunque proibire agli indipendenti di farsi giustizia da soli; ma questo, secondo Nozick, non violerà i loro diritti se, come risarcimento della proibizione, la compagnia estenderà loro la sua protezione e il suo soccorso nellarisoluzionedeiconflitti. Si giunge così, attraverso un meccanismo governato da una smithiana «mano invisibile», alla genesi dello statominimo,cheèlegittimo perché nasce senza violare i dirittidinessuno:colorocuiè stato impedito, per la sicurezza di tutti, di farsi giustizia da soli, sono stati infatti risarciti con l’elargizione gratuita dei servizi di protezione e non hanno quindi subito alcun torto.Conquestoprimopasso Nozickvuoldimostrarecheè possibile dar luogo alla costituzione di uno stato (minimo) legittimo anche senza passare per un contratto; tuttavia, l’inclusione forzosa degli indipendenti nello stato, per quantolirisarciscadiciòche perdono, sembra piuttosto in contrasto con l’impostazione libertaria che Nozick stesso afferma di voler difendere, e rischia perciò di compromettere la tenuta di tuttalasuacostruzione. Ilpassoulterioreèquello che concerne la teoria della proprietà: dopo aver negato la base contrattualista della teoria di Rawls, Nozick ne contesta anche gli esiti egualitari e redistributivi. L’assuntodipartenzaèmolto vicinoaquellolockiano:seio sonoliberoovveropadronedi me stesso, sono padrone anche dei miei talenti e delle mie capacità e di ciò che grazieaessiriescoaprodurre o a guadagnare: quindi, se uno stato «più che minimo» miimponedipagaretasseper finanziare servizi sanitari o educativi, o sussidi per i disoccupati e gli indigenti, esso dà luogo a una violazione dei miei diritti di autoappartenenza. Perciò, tanto legittimo è lo stato minimo, quanto illegittimo è, per contro, uno stato che voglia assumersi compiti più ampi rispetto a quelli di garantire la sicurezza e l’amministrazione della giustizia, e che pretenda di imporretasseaisuoicittadini aquestoscopo.L’unicateoria della giustizia accettabile si traduceperciò,perNozick,in una«teoriadeltitolovalido»: ognuno possiede legittimamente ciò che ha acquisito o attraverso una giustaacquisizioneiniziale,o attraverso un libero trasferimento del bene da qualcunoaqualcunaltro. La critica di Nozick alle politiche egualitarie o redistributive, dunque, funziona soltanto a condizioneche: a)sipossapensareuna genesi legittima dello stato senzapassareperilcontratto; b) le proprietà e le ricchezze attualmente possedutesianoilrisultatodi acquisizioni iniziali giuste e di conseguenti legittimi trasferimenti. (Altrimenti si dovrebbe dar corso, secondo lo stesso Nozick, alla redistribuzionediproprietàla cui storia pregressa non soddisfi i requisiti di legittimità). Entrambe queste assunzioni, però, sembrano difficilidasostenere:laprima per i motivi che abbiamo già accennato, la seconda perché presuppone che si possa ricostruire dall’origine la storia delle proprietà attualmente possedute e che in essa non si riscontrino atti di usurpazione, conquista, violenza ecc. Essendo, dunque, altamente problematici i presupposti, sembra difficile trarre dallo schemateoricodiNozickuna argomentazione stringente per contestare le politiche statali egualitarie di impianto rawlsiano. 2.2.Lacritica comunitariadel liberalismo. Un’altra linea di riflessionechesièsviluppata in polemica diretta nei confronti di Rawls è quella spessoindicataconl’etichetta genericaeforseancheunpo’ fuorviante di «comunitarismo». A questo orizzonte di pensiero sono stati ricondotti autori che in realtà perseguono progetti teorici tra loro molto diversi come Michael Sandel, Alasdair Mac-Intyre14, Charles Taylor”. Se vi è un punto che accomuna questi pensatori,aldilàdellegrandi differenze che pure li caratterizzano,èlacriticanei confronti di alcuni assunti di fondodellateoriarawlsiana,e del liberalismo più in generale. L’obiettivo polemico di questi pensatori, come scriveva Sandel in uno dei libri che hanno aperto il dibattitosulcomunitarismo,è quell’impostazione dominante nel liberalismo contemporaneo in forza della quale «la società, essendo composta da una pluralità di persone,ciascunaconipropri fini,interessieconcezionidel bene, è meglio ordinata quando è governata da principi che di per sé non presuppongono alcuna particolare concezione del bene; ciò che giustifica soprattutto questi principi normativi non è il fatto che essi massimizzino il benessere sociale o promuovano altrimenti il bene, quanto piuttosto che sianoconformialconcettodi diritto, una categoria morale datacheprecedeilbeneedè indipendente da esso. Questo è il liberalismo di Kant e di gran parte della filosofia morale e politica contemporanea, ed è questo liberalismo che mi propongo dimettereallaprova»16. Obiettivo polemico delle impostazioni comunitarie è dunqueinprimoluogolatesi liberale della priorità del giusto sul bene, che si regge su alcune assunzioni di base che costituiscono il filo che lega la critica kantiana del paternalismo politico al liberalismo contemporaneo: 1) vi sono molte concezioni del bene o visioni della vita buona in disaccordo tra loro; 2) non ci sono ragioni dirimentipersceglierneunaa scapitodellealtre;3)compito della società è solo garantire che ciascuna ricerca individuale della vita buona possa svilupparsi al meglio e senzadetrimentoperglialtri. La politica liberale pretende, per dirla con Maclntyre, di essere ispirata solo da regole che devono essere «neutrali rispetto a insiemi di credenze rivali e concorrenti intorno alla migliore maniera di condurre una vita umana»4. Ma la domanda che i critici del liberalismo si pongono è duplice: questa neutralità delle istituzioni politiche rispetto alle diverse visioni del bene o della vita buona è realizzabile?E,ammessoche lo fosse, sarebbe desiderabile? Pensatori come Sandel e Maclntyre rispondono negativamente a entrambe le questioni. A proposito della prima, basta addentrarsi in materie dove le controversie sono scottanti per vedere che si danno importanti conflitti normativi circa i quali è praticamente impossibile individuare norme capaci di posizionarsi rispetto a essi in modo neutrale: ogni normazione implica scelte che inevitabilmente privilegiano l’una o l’altra delle visioni del bene alternative. Come è stato scritto, per esempio, «il caso dell’aborto - ma si potrebbe citare anche la discussione intorno alla pena di morte o all’eutanasia - mostra quanto sia illusoria quella separazione tra giustizia e visioni del bene su cui fa perno l’idea liberale di neutralità delle istituzioni. Nel caso di questi moral issues il terreno su cui una posizione neutrale può attestarsi è virtualmente ridotto a zero. Non si vede come si possa svincolare il giudizio legale sull’ammissibilità dell’aborto ... da una presa di posizione morale sul diverso status dellavitadelfetorispettoalla vita del neonato, né come si possa decidere sulla ammissibilità della pena di morte o dell’eutanasia senza prender posizione fra diverse concezioni della persona umana»18. Se ci si incammina decisamentesuquestastrada, come fa per esempio Sandel, la tesi rawlsiana circa la priorità del giusto sul bene viene completamente rovesciata:lasceltadinorme giuste non può pretendere di restare neutrale fra visioni controverse del bene, anzi nonpuòevitaredischierarsia favore dell’una o dell’altra delle visioni del bene alternative. Ma c’è di più: nellaprospettivadiSandel(e qui emerge l’orientamento propriamente comunitario, e fortemente discutibile, della sua riflessione), gli individui non sono neppure in condizione di scegliere in senso proprio, quasi fossero soggetti astratti e disincarnati da legami e impegni normativi (punto sul quale insiste, da buon hegeliano, Charles Taylor), tra visioni alternative di quella che è la vitabuonaperloro.L’identità dell’io è consustanziale, per Sandel, alla sua visione del proprio bene, che certo l’individuo può modificare attraverso le esperienze e i processi di formazione, ma dalla quale non si può distanziare assumendo un puntodivistaesterno,perché con essa ne va della sua identità. Rispetto alle diverse visioni del bene, quindi, non si dà un punto di vista superiore e imparziale muovendo dal quale esse possano essere giudicate e distanziate, poiché esse non sono l’oggetto su cui si giudica, ma piuttosto lo strumentoel’orizzontegrazie al quale formiamo i nostri giudizi. Esse sono inestricabilmente intrecciate col nostro modo di identificarci come persone e con le forme di vita e di comunità alle quali apparteniamo,enellequalila nostra identità si forma. Perciò il comunitarismo contrapponeaunavisionedel giusto astratta e neutrale una visionedelbenesostanzialee situata: essa si radica in quella imprescindibilità del legame di comunità sociale grazie al quale esistiamo come soggetti; all’individualismo liberale, giudicato astratto e atomistico, si contrappone la consapevolezza, fortemente nutrita, soprattutto in Taylor, di riferimenti hegeliani, del carattere costitutivo che il nesso sociale, e il tessuto normativo che lo rende possibile, ha per le personalitàindividuali. Per gli autori che si muovono lungo questa linea di pensiero, dunque, l’ideale liberaledellaneutralitànonè attingibile: se anche fosse attingibile, però, non sarebbe comunquedesiderabile,anche perché i singoli individui possono non essere in grado di giudicare in modo razionale e ponderato quale siaillorobene,edunquenon viènulladimaleselasocietà e la politica esercitano una funzione di guida e di indirizzo, anche attraverso norme (Sandel difende, per esempio, quelle che limitano la libertà della pornografia) ispirate non da una impossibileneutralitàliberale ma da una visione sostantiva delbenecomune. Le difficoltà o le aporie interne alle posizioni di tipo comunitario non sono poche, e sono state prontamente messeinrisalto;perunverso esse non fanno i conti con l’ampiopluralismoculturalee religioso che caratterizza ormai le società occidentali moderne: in esse appare semprepiùdifficiletracciarei confini di un «noi» e dei corrispondenti valori condivisi.Insecondoluogola tesi, che troviamo per esempio in Maclntyre, secondo la quale ogni giudizio normativo è formulato dall’interno di una tradizione, e ne dipende, dà adito a risultati paradossali: se la tesi della intrascendibilità delle tradizioni appartiene essa stessaaunatradizione,allora nonhacogenzaperchinonsi riconoscainquellatradizione (non è un enunciato teorico che tutti debbano accettare); se invece trascende le tradizioni - ponendosi come tesi universalmente valida allora smentisce il suo stesso assunto«contestualista». E tuttavia, come spesso accade, se assai debole è, nelle posizioni comunitarie, lapartecostruttiva,altrettanto non può dirsi per la parte critica: anche quando si definisce l’estensione o la portata delle libertà fondamentali, come abbiamo visto, è difficile evitare di prendereposizionetravisioni controversedelbeneodicosa sia la vita buona per l’uomo. E ciò vale a maggior ragione quando si affrontano i problemi della giustizia distributiva, e cioè di quali benidebbanoessereassegnati eachi. 2.3.AmartyaSen elateoriadelle capacità. Nella prospettiva rawlsiana questo difficile problema si risolve con il ricorso alla teoria dei beni principali, sulla quale Rawls ritorna più volte nel suo itinerario teorico apportandole anche alcuni significativi cambiamenti19.I beni primari costituiscono strumenti necessari per il perseguimento di tutti gli scopi umani, e quindi per il perseguimento delle diverse concezionidelbenedicuigli individui, in una società pluralistica, sono portatori: essenzialmente, essi includonolelibertàdibase,la libertà di movimento e la libera scelta del tipo di occupazione, il potere e le prerogative delle cariche e delle posizioni di responsabilità, il reddito e la ricchezza, e infine quelle che Rawls chiama le basi sociali del rispetto di sé20. I beni primari, precisa Rawls nel saggio del 1988 su La priorità del giusto, non sono lecosechequalcunopotrebbe desiderare di più in base alla sua dottrina comprensiva ovvero alla sua visione del bene: «essi non corrispondono ai valori fondamentali della vita umana praticamente per nessuno. Qualcuno potrebbe sostenere, perciò, che concentrarsi sui beni primari significa intervenire in buona parte nello spazio sbagliato... »21. Ma in realtà non è così, perRawls,poichél’indicedei beni primari fa parte di una concezione politica della giustizia,equindideveavere semplicemente la funzione, datoilfattodelpluralismo,di criterioaccettabiledatuttiper giustificare le richieste in conflittotralorodeicittadini. Restano però delle difficoltà: per un verso sembra difficile sganciare la formulazione della lista dei beni primari da una qualche visione sostantiva (e perciò controversa) di cosa sia bene pergliuomini.Peraltroverso sorge un problema sul quale si è concentrata soprattutto l’attenzionedell’economistae premio Nobel Amartya Sen. Vi sono due modi in cui qualcuno può essere svantaggiato da una distribuzione anche eguale di beni primari: può esserlo in quanto la sua personale ricerca della vita buona può giovarsi meno, rispetto ad altri, del paniere di beni messoasuadisposizione,per motivi attinenti alla dottrina comprensiva nella quale egli si riconosce. Ma qualcuno puòesseresvantaggiatoanche perché, indipendentemente dalla dottrina comprensiva cui aderisce, a parità di dotazione dei beni primari, ottiene acquisizioni inferiori, adesempioperchéèportatore di una qualche forma di disagioodihandicap:aparità di beni primari, per esempio, chi è costretto ad affrontare spese ingenti per cure mediche avrà minori possibilità di condurre una vitasoddisfacente. Il punto sul quale Sen insiste,dunque,èchevisono molte condizioni personali e sociali che influenzano la conversione di redditi e risorseinqualitàdellavita 22. Se quest’ultima è ciò che ci deve interessare, allora per Sen è più opportuno porre in primo piano non i beni primari in quanto strumenti per perseguire i propri fini, madirettamentela«vitareale che la gente riesce a vivere (o,facendounpassoinpiù,la libertàdi realizzare vite reali cui si possa a ragion veduta darevalore)»23. Proprio per mettere a tema questo aspetto, che si può definire anche «libertà sostanziale», Sen introduce due concetti che sono caratteristici per la sua riflessione, quelli di «funzionamento» e «capacitazione»: «Il concetto di ‘funzionamento’, le cui radici sono chiaramente aristoteliche,riguardaciòche una persona può desiderare in quanto gli dà valore - di fare o di essere. Questi funzionamenti cui viene riconosciuto un valore vanno dai più elementari, come l’esserenutritoasufficienzae il non soffrire di malattie evitabili, ad attività o condizioni personali molto complesse, come l’essere in grado di partecipare alla vita della comunità e l’avere rispetto di sé. La ‘capacitazione’ di una persona non è che l’insieme dellecombinazionialternative difunzionamenticheessaèin gradodirealizzare.Èdunque unaspeciedilibertà:lalibertà sostanziale di realizzare più combinazioni alternative di funzionamenti (o, detto in modo meno formale, di mettereinattopiùstilidivita alternativi)»24. Nella prospettiva di Sen, insomma, la società desiderabile non è quella che massimizza la dotazione di beniprimaripergliindividui, ma quella che massimizza la lorolibertàsostanziale,intesa come possibilità di scelta tra diversi insiemi di ‘funzionamenti’.Manontutti i funzionamenti hanno la stessaimportanza;l’eticaela teoria politica, per Sen, devonooccuparsianchedella questione di quali siano «i funzionamenti da includere nell’elenco delle cose importanti da realizzare»25. La qualità della vita delle persone,spesso,secondoSen, può non essere colta bene attraverso una misura standardizzata come quella del reddito; altre variabili possono essere decisamente più importanti (come per esempio la mortalità, la morbilità, l’istruzione, la libertà e i diritti). Ma, per poter dire questo, bisogna entrarenelcampodeigiudizi di valore, ovvero della discussione pubblica su quali siano i funzionamenti che consideriamo più essenziali per una buona qualità della vita degli individui. In tal modo, il problema del bene (che il primato rawlsiano del giusto voleva relegare sullo sfondo) rientra decisamente in primo piano nella riflessionediteoriapolitica;e questo accade in modo ancor piùdecisonellariflessionedi una pensatrice come Martha Nussbaum26, che riabilita senzaincertezzeunapproccio di tipo aristotelico e una teoriadelbene.Delresto,non è detto che l’approccio del giusto e quello del bene debbano essere alternativi: essi possono anche compenetrarsi reciprocamente,nelsensoche una teoria della giustizia stabilisce come e perché tutti devono avere accesso ai beni fondamentali, mentre una teoria dei beni si occupa appuntodellanaturadiquesti. 3.Habermasela teoriadellademocrazia. La riflessione politica di Habermas si radica fortemente all’interno dell’orizzonte di teoria morale elaborato dallo stesso Habermas e da Karl-Otto Apel nella chiave di un’etica del discorso. Alla base della teoria della democrazia che Habermas costruisce in Fatti e norme vi è infatti un principio che definisce, in chiavediscorsiva,cosadebba intendersipernormavalida,e che Habermas chiama «principio del discorso»: «sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali»5. Nell'ambitodellafilosofia pratica, però, bisogna distinguere fra due tipi di norme d’azione: le norme morali e le norme giuridiche. Il principio del discorso, perciò, dev’essere specificato e differenziato per divenire idoneo a generare norme dei due diversi tipi. Da esso discendono, quindi, tanto un principio morale di universalizzazione (le norme valide sono quelle che tutti i coinvolti potrebbero discorsivamente accettare perchéleconseguenzechene derivano per gli interessi di ciascun singolo sono preferibili a quelle che deriverebbero da norme alternative) quanto un principio concernente le norme giuridiche legittime, che Habermas chiama il principio democratico: «Possono pretendere validità legittima solo le leggi approvabili da tutti i consociati in un processo discorsivodistatuizioneasua volta giuridicamente costituito»28. Il principio della democrazia, che sta a fondamento della teoria politicadiHabermas,èquindi il punto d’incontro tra lo strumento del diritto, che è indispensabile per regolare le interazioni sociali nelle società moderne, e il principio dell’accordo discorsivo di tutti gli interessati,sulqualesolopuò fondarsi la validità di norme pratiche; il principio habermasiano della democrazia ci dice quindi che, per essere legittime, le norme giuridiche che governano la nostra convivenza sociale devono essere il risultato di processi discorsivi precisamente e rigorosamente istituzionalizzati, capaci quindi di generare un diritto legittimo in quanto discorsivamentefondato. Questo è appunto il compitodelleistituzionidella democrazia. Superando la dicotomia che ha caratterizzato tanta parte del pensieropoliticomodernotra le libertà liberali dell’individuo privato e la sovranità popolare teorizzata dai democratici (a partire da Rousseau), Habermas ritiene che la democrazia debba essere pensata a partire non da una contrapposizione ma, alcontrario,daunrapportodi cooriginarietà e di complementarità tra l’autonomia liberale dell’individuo privato e l’autonomia pubblica dei cittadini: diritti individuali e sovranità popolare, se rettamente intesi, non stanno inconflitto,masiintegranoe si presuppongono reciprocamente. Se la sovranità popolare viene compresa come un grande processo discorsivo (istituzionalizzato in procedure e norme) essa presuppone che gli individui che vi partecipano siano tutelatinellelorolibertàenei loro diritti: i diritti degli individui, quindi, per un verso sono condizioni del processo democratico, presuppostiindispensabilidel suo svolgimento, mentre per altro verso ne sono anche il risultato, poiché i diritti sono anche quelli che i cittadini democratici si autoattribuiscono. I diritti fondamentali che definiscono l’assetto di uno stato democratico devono essere pensati, perciò, come quei diritti che i cittadini devono riconoscersi reciprocamente, quando decidono di regolare legittimamente la loro convivenza con strumenti giuridici:idiritti,quindi,non preesistono alla comunità politica, ma la comunità politica, a sua volta, non può prescinderedaidiritti. I diritti fondamentali che costituiscono l’architrave di una democrazia formano, secondo Habermas, un sistema articolato in diverse categorie; compito del filosofo politico è appunto quello di indicare le grandi categoriedidirittichedevono esserepresentiinunlegittimo statodemocratico:staràpoiai cittadini riempire di contenutoquestoschema. Itipididirittivengonoda Habermascosìindicati: 1) diritti che tutelano le parilibertàindividuali(cioèi classicidirittiliberali); 2) diritti che definiscono lo status di membro associato, cioè a qualetitolosiappartieneaun certodemos; 3) diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propridiritti; 4)dirittiapartecipareai processi discorsivi di creazione del diritto, cioè dirittiaesercitarel’autonomia politica (ovvero diritti democratici); 5) diritti di ripartizione sociale, cioè diritti a godere di condizioni di vita che consentano di utilizzare con pari opportunità i diritti elencatineipuntida1a429. Per Habermas i diritti, come si diceva, formano un sistema nel senso che tutti i tipi di diritti sopraelencati sono necessari perché si possa avere una democrazia ben funzionante. Inoltre, proprio perché il centro focale della sua riflessione è la democrazia, Habermas include (nel punto 5 del suo sistema dei diritti) i diritti sociali, non in quanto fine a se stessi, ma piuttosto in quanto precondizioni per il pienoeserciziodituttiglialtri diritti. Per Habermas, si potrebbe dire quindi: il fine dellasocietànonèlagiustizia sociale,maessaè,inqualche misura, imprescindibile in quanto condizione della democrazia. Nella democrazia il discorso si istituzionalizza grazie a un sistema di diritti; ma con ciò si genera anche quella che è la sua più caratteristica ambiguità. Fondandolasualegittimitàsu procedure discorsive (a due livelli, quello informale dell’opinione pubblica e quello istituzionalizzato dei parlamenti) la comunità democratica dei cittadini per unversopresupponechetutti partecipino alla ricerca cooperativa delle soluzioni migliori;peraltroverso,però, consente anche che ognuno prenda parte al processo democratico facendo un uso puramente strategico e autointeressato dei propri diritti.Lademocraziacomela pensa Habermas è dunque strutturalmente aperta a due esiti ben diversi: i titolari di diritti possono accogliere l’invito a misurarsi con gli altrisulterrenodeldiscorsoe a confrontarsi ricercando gli argomenti migliori (e in tal modo la sostanza discorsiva della democrazia prende corpo e si sviluppa) oppure possono usare i loro diritti di comunicazione e di partecipazione solo come strumento per perseguire strategicamente i propri interessiegoistici. Proprio perché si mantenga viva la fragile sostanza comunicativa della democrazia,èimportanteche il Parlamento, ovvero il discorsoistituzionalizzato,sia sempre stimolato e controllatodaldiscorsolibero e informale che si svolge nella sfera dell’opinione pubblica, attraverso la stampa, i movimenti, le iniziative dei cittadini. La sovranità popolare discorsivamente pensata ha bisogno,pernonimpoverirsi, di entrambi questi aspetti: la deliberazione formale in sedi istituzionalizzate, da un lato, e il dibattito informale dell’opinione pubblica dall’altro. Essa richiede inoltre che venga arginata l’invadenza di quei poteri sociali che, colonizzando in vario modo, grazie al possesso di risorse economiche, i mezzi di comunicazione e il dibattito pubblico, costituiscono una minaccia per l’autentica sostanza discorsiva della democrazia. Ilcarattere«esigente»del modello habermasiano di democrazia si mostra anche nellacriticacheeglirivolgea un modello di democrazia da lui considerato minimale, come per esempio quello proposto anni addietro da Norberto Bobbio. La traduzione bobbiana della democrazia in una serie definita di requisiti minimali non coglie, secondo Habermas,«lasostanzad’una concezione genuinamente proceduralista della democrazia». Con Dewey, e andando anche oltre le sue riflessioni, Habermas ricorda che fonda-mentale per la democrazia non è tanto la decisione a maggioranza, quanto il processo discorsivo che a essa ha condotto e che «può svolgere funzioni d’integrazione sociale solo grazie all’aspettativa d’una qualità ragionevole dei suoi risultati»30. Ma questo è possibile solo se la sovranità popolare viene strutturata ed esercitata in modo da mantenersi conforme alla sua natura di potere comunicativo, sostiene Habermas riprendendo un tema di Hannah Arendt. «A stretto rigore - scrive Habermas - questo potere comunicativo nasce dall’interazionechesicreatra una formazione della volontà istituzionalizzata come stato di diritto, da un lato, e sfere pubbliche culturalmente mobilitate, dall’altro; queste ultime,alorovolta,poggiano sulle associazioni di una società civile egualmente separata sia dallo stato che dall’economia». Una delle principali difficoltà che caratterizzano la teoria habermasiana della democrazia, però, è quella di comprendere il rapporto che in essa si stabilisce tra gli aspetti normativi e quelli descrittivi. Il modello della democraziadeliberativanonè inteso da Habermas come un puro modello normativo, che non abbia nulla a che vedere con la realtà. Al contrario, i processi di intesa discorsiva sono ben radicati nelle strutture dei mondi vitali moderni, che si riproducono anche grazie a essi; la razionalità del discorso è per molti versi già attiva e operante nelle articolazioni della società moderna, più di quanto non vedano le teorie «realistiche» che considerano la democrazia solo come conflitto strategico o mercato politico: «irrealistica è l’ipotesi che ogni comportamento sociale possa essere pensato come agire strategico e dunque spiegato in termini di calcolo egocentrico e utilitaristico. Questo modello ha una forza di spiegazione sociologica manifestamentelimitata»31. Ma il rifiuto di una visione puramente strategica dell’agire politico democratico sembra talvolta indurre Habermas a incorrere nell’errore opposto, e cioè in quella che è parsa ad alcuni «una visione ampiamente idealizzata della comunicazione, e in particolare del dibattito pubblico democratico»32. Le ragionisullequalisibasauna simile critica sono evidenti: nelle democrazie reali, il potenziale di razionalità discorsiva può essere ridotto o neutralizzato se l’opinione pubblica viene manipolata e colonizzata dai grandi strumenti di comunicazione di massa; l’influenza del pubblico ragionante rischia sempre di essere schiacciata da quella delle lobbies e dei grandi poteri sociali, di cui anche Habermas appare preoccupato, ma ai quali dedica però solo poche e rapide considerazioni; insomma, anche la politica democratica del discorso pubblico sembra dover fare i conti, in modo più radicale di quanto in Habermas non accada, con la questione dei poteri che si sottraggono alla mediazione comunicativa, e anzi le impongono il loro pesantecondizionamento. 4.Lacrìticadel normativismo:la teoriadelpoteredi Foucault. Uno dei rimproveri che più frequentemente si muove alle teorie normative (tornate prepotentementeinaugenegli ultimi decenni) è proprio quellodinonavereocchiper la ineludibile dimensione del potere e della forza che caratterizzerebbe, quasi come unasuacostantestrutturale,la dimensione della politica, e ne sarebbe inseparabile. Da questo punto di vista, la società giusta di Rawls o la democrazia discorsiva di Habermas finiscono per apparire come una sorta di astratte elucubrazioni, cieche di fronte al dato che la politica, anche nella modernità liberale e democratica, non può svincolarsi dal suo fondo duro e inquietante, da quel polemos che ne ha sempre costituitol’essenza. Il pensatore che nel Novecento ha radicalizzato con maggiore energia la tesi chelapolitica,nelsuoessere più profondo, sia definita dal conflittoirriducibiletraamico enemicoèstatoCarlSchmitt; ma, a partire da Schmitt, la questione della politica come ambito del potere, del dominio,dellaforza,èstataal centro di un ricchissimo spettro di riflessioni che, pur svolgendosi nelle direzioni più differenti, sono però accomunate dalla convinzione della vanità del progetto normativistico, che si propone di tracciare alla luce della ragione (o della ragionevolezza),lecoordinate della società libera e giusta, del potere «buono», addomesticato e ricondotto alle sue sorgenti comunicative. Mentre Schmitt finisce in sostanza per fare l’apologia della politica come conflitto senza quartiere, del suo irriducibile nocciolo di dominio, non mancano nei tortuosi itinerari del pensiero del Novecento percorsi di riflessione che di quello schmittiano costituiscono quasi il rovesciamento speculare: in pensatori come Simone Weil o Hermann Broch la tesi che la politica sia il puro regno della forza vieneassuntacomeveritàma al tempo stesso rovesciata di significato: non più apologia della politica, ma consapevolezza tragica della sua irredimibilità33. Il realismo politico schmittiano sta però alla radice anche di un altro tipo di esito, quello messianico-escatologico cui dà luogo Walter Benjamin, soprattutto negli scritti degli anni Venti: se il diritto è, quanto alla sua stessa costituzione, violenza, allora non ha senso ragionare intorno al buon ordine giuridico;sitrattapiuttostodi collocarsi nell’orizzonte del suo trascendimento messianico34. Latesidellapoliticaodel diritto come puro potere o pura forza, non riconducibile a una misura di giustizia, si presenta quindi nel pensiero del Novecento come suscettibile di curvature tra loro anche radicalmente antitetiche: dall’apologia della forza che riduce la giustizia a mero flatus vocis, alla tesi che, piegando il realismoinun’altradirezione, mantiene si la giustizia ma come qualcosa che non è di questomondo,echehailsuo luogo solo in una trascendenza extramondana o escatologica. In entrambi i casi, si vorrebbe dire, il mondo degli uomini è destinalmente assegnato a un orizzonte di violenza e di peccaminosità, che è tanto poco razionalmente dicibile (dirlo razionalmente, infatti, significa già trascenderlo) quantofortementesegnatoda più o meno espliciti presuppostiteologici. Su una linea più nietzscheana, a mio avviso, che schmittiana, si colloca invecequelloche,traiteorici del potere, si conquista comunque un rango di primo pianograzieallasuaassoluta originalità:conlesuericerche genealogiche e micrologiche, MichelFoucaultimprimealla riflessione sul potere una svolta che costituisce una vera e propria rottura. Per Foucault il potere è tanto coestensivo con la realtà umana e sociale quanto irriducibile ai modi tradizionali attraverso i quali èstatorappresentato. In primo luogo, il potere non è qualcosa che si concentri nella istituzione statale o nei luoghi deputati della sovranità, ma vive piuttosto in un insieme di pratiche che attraversano la societàinognisuoaspetto:si tratta perciò, per Foucault, di costruireuna«microfisicadel potere», di tracciarne le mappe inseguendolo in tutte le pratiche e istituzioni nelle quali esso si incarna: dai luoghidellareclusione,come prigioni e manicomi, ai luoghi di lavoro, dagli ospedali alle pratiche mediche, fino alle forme di controllo sul corpo degli individui e sulla sessualità. Perciò - ed ecco un altro aspetto saliente della riflessione foucaultiana - tra potere e sapere (per esempio ilsaperemedico,psichiatrico, sessuologico), tra potere e forme del discorso, vi è una interconnessione molto più intrinseca e profonda di quanto a prima vista non appaia: non è che il potere condizioniilsapere,lopieghi ai propri scopi; non è così perché sapere e potere sono costitutivamente, strutturalmente intrecciati: «non si può infatti configurare un elemento di sapere se, da un lato, non è conforme a un insieme di regoleecostrizionipropriodi un certo tipo di discorso scientificoinunadataepoca; e se, d’altro canto, non è dotato degli effetti di costrizione tipici di ciò che è convalidato come scientifico, o semplicemente razionale o comunque recepito. Viceversa nulla può funzionarecomemeccanismo di potere se non si afferma con procedure, strumenti, mezzi, obiettivi che possano essere convalidati in sistemi più o meno coerenti di sapere»35. Maproprioperlapotenza costitutivacheappartienealla diade potere/sapere, il potere non può essere più rappresentato, secondo Foucault, come qualcosa che semplicemente opprima e reprima gli individui, i loro bisognioleloropulsioni;più radicalmente, il potere li produce, li costituisce, ha natura quindi non repressiva maproduttiva·, esso struttura e codifica le soggettività e i comportamenti. Per esempio, scrive Foucault, non era ovvio che «il desiderio, la concupiscenza, il comportamentosessualedegli individui dovessero effettivamente articolarsi gli unisuglialtriinunsistemadi sapere e di normalità chiamato sessualità». Ma, prosegue, «comprendere l’accettabilitàdiunsistemaè inseparabile dalla comprensione di cosa lo rendadifficiledaaccettare:la suaarbitrarietàsottoilprofilo della conoscenza, la sua violenza in termini di potere»36. Ma ciò significa cheognistrategiaopraticadi potere si scontra con attriti e resistenze, ingaggia sempre un conflitto con strategie di potere concorrenti: in un giocoagonisticodivolontàdi potenzacheameparericordi molto da vicino quello nietzscheano. Mailfattosingolareèche Foucault, come è noto, non intenderinunciareallospazio della critica, anzi lo rivendica: solo che, nella sua prospettiva, la critica non è qualcosachefacciaappelloa un principio o criterio razionale che trascenda il potere, ma è (e non può essere diversamente) tutta interna all’intreccio conflittuale di strategie di poterecuinellarealtàsociale nulla è sottratto. Il paradosso cui a mio avviso questa posizione dà luogo è il seguente: per un verso si legge nietzscheanamente la realtà con le categorie della volontà di potenza, per altro verso, a differenza di Nietzsche, non si prende partitoperlapotenza,maper il contropotere, per le forme di resistenza. Ma, se tutto è forza, cosa motiva questa presa di partito ? Abbandonati gli ormeggi trascendentali non resta che, pura e infondata, la «decisione di non essere governati»37, o, più precisamente, quello che Foucault chiama un «atteggiamento morale e politico», che si potrebbe definire semplicemente come «l’arte di non essere governati o, se si preferisce, l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo»; pertanto, continua Foucault, «proporrei come prima definizione generale dellacriticalaseguente:l’arte di non essere eccessivamente governati»38. La rinuncia alla riflessione sul potere legittimo,motivatatantodalla consumazione postmoderna della razionalità e del trascendentale, quanto dal sospetto che questi criteri mettano capo in fondo alla legittimazione dei poteri esistenti, lascia spazio solo per una politica critica intesa come resistenza, destabilizzazione, decostruzione; una linea di fuga che, se affascina molti esponenti del pensiero soprattutto francese contemporaneo, resta però consegnata, al di là dei suoi discutibilipresuppostiteorici, a una sorta di «cattiva infinità», di circolo senza uscita tra «governamentalità» edecostruzione. 5.Femminismoe teoriapolitica. Ilproblemadifondodelle teorie femministe è quello di mettereatema,esottoporrea critica, una forma di potere tanto pervasivamente diffusa nella società, quanto ignorata dalle più influenti tradizioni di teoria politica: il potere, o la supremazia sociale, del sesso maschile su quello femminile. Sviluppata già, alla fine del Settecento, negli scrittidiMaryWollstonecraft o di Olympe de Gouges, la criticadelpatriarcatocomedi uno degli assi portanti della civiltà occidentale (e non solo), diventa il centro di sofisticate elaborazioni teoriche, le più importanti delle quali vengono sviluppateapartiredaglianni SettantadelNovecento. Una delle autrici più influenti, a partire dalle quali si sviluppa quello che verrà definito come il pensiero della differenza sessuale, è Luce Irigaray, che intraprende,apartiredallibro del 1974 Spéculum. L’altra donna39,unacriticadelmodo in cui, all’interno dell’ordine simbolico maschile (messo a fuoco in un primo tempo soprattutto attraverso la lettura critica di Freud e di Lacan), viene compresa e rappresentata la donna, e in modoparticolarelasessualità femminile. Nella visione che è propria di Freud e della psicanalisi, sostiene Irigaray, la donna è vista fondamentalmentecomenonmaschio, è letta attraverso le categorie della «assenza» e della«mancanza»,comecolei che non possiede e «invidia» l’organosessualemaschile:la differenza sessuale, dunque, non viene pensata nella sua specificità e autonomia, ma ridottaameraprivazione. Questa peculiare svalorizzazionedelfemminile è ciò che caratterizza da sempre l’ordine simbolico patriarcale. Il potere degli uomini sulle donne nella società,perciò,siradicae.fa tutt’uno con un ordine simbolico e con un sistema deisaperi(equisiamovicini all’intreccio foucaultiano di potereesapere)cheassumeil sesso maschile come «paradigmadell’interogenere umano»,inmodocherispetto a esso «il sesso femminile risulta non pienamente umano, ossia umano ma di gradoinferiore,incompiuto... Visto che sugli uomini si modella il genere umano per eccellenza, il differire delle donne dagli uomini diventa una differenza che corrisponde a una mancanza o inferiorità»40. L’ordine simbolico patriarcale (l’ordinechedaalcuneautrici è definito come «fallologocentrico»), dunque, secondo una proposta interpretativa che, come nota Cavarero, è ampiamente condivisa dal pensiero femminista, si struttura come un sistema a economia binaria, duale e gerarchica, dove il maschile rappresenta il polopositivoedominanteeil femminile il polo negativo e dominato; esempi di questo modo di pensare bipolare sono le dicotomie cultura/natura, ragione/passione, mente/corpo, pubblico/privato41. Nell’ordine simbolico patriarcale, che è momento inscindibile del dominio maschile sulla donna, il maschile si identifica con l’universale, mentre la donna è privazione, umanità incompleta, e si definisce attraverso quei caratteri che l’uomoleattribuisceechela donna stessa fa propri nella suaautocomprensione. A partire da questa linea di riflessione si sviluppa anche una critica dell’eguaglianza politica moderna. In un primo tempo essa si pone come eguaglianzadituttiicittadini, dove resta inteso però che i cittadini sono solo i maschi, mentre le donne ne sono escluse. Nel corso del Novecento, invece, l’eguaglianza politica si spinge a includere tutti gli individui«senzadifferenzadi sesso»; ma questa inclusione nell’eguaglianza nasconde però, sostiene Adriana Cavarero, un singolare paradosso: «Prima coerentemente escluse, le donne vengono poi incluse attraverso una logica di omologazione che prescinde dal fatto che sono donne e non uomini»42. In altre parole,siconsentealledonne di diventare uguali agli uomini, mentre però esse restano donne, e si vuole che tali restino, «a tutti gli effetti pratici e simbolici»: mentre gliuominisicollocanosenza attriti in una eguaglianza pensata a loro misura, le donne per entrarvi devono rinunciare alla loro differenza. Mentre la linea di ricerca che parte dalla Irigaray e si sviluppa nel pensiero italiano della differenza sessuale intrattiene un dialogo critico con i grandi autori del pensiero europeo (Freud e Lacan, Heidegger e l’ermeneutica, Foucault e Derrida),leteoriefemministe nell’àmbito della cultura anglosassone da una parte recepiscono e radicalizzano i temi del decostruzionismo (come è per esempio il caso diJudithButler)43, mentre in altri settori sviluppano un confronto ravvicinato con le teorie morali e politiche universalistiche che hanno in Rawls il loro esponente di maggiorprestigio44. In questo contesto, una tappafondamentaleèsegnata dal lavoro di Carol Gilligan (In a Different Voice, 1982) chesviluppaunacriticadella psicologia morale evolutiva di Lawrence Kohlberg, alla quale anche Habermas aveva fatto riferimento per corroborareearticolarelasua teoria morale universalista. Nei suoi studi di psicologia evolutiva,Kohlbergdistingue diversi livelli di sviluppo della coscienza morale: da uno stadio preconvenzionale, in cui il fanciullo comprende le nozioni di giusto e sbagliato solo in termini di punizioni e ricompense che ne derivano, si passa a uno stadio convenzionale, dove il buoncomportamentoèquello conforme alle regole date dallafamigliaedallasocietà, e infine a uno stadio postconvenzionale, dove i dilemmi morali non vengono risolti col riferimento alle regole di fatto vigenti, ma richiamandosi a principi o valori morali di tipo universale. La riflessione dellaGilligan45partedalfatto che, poste di fronte ai test usati da Kohlberg per misurare il livello di consapevolezza morale raggiunto da un soggetto, le ragazze tendevano a collocarsi ai livelli più bassi, senza raggiungere quello considerato da Kohlberg come lo stadio più elevato di consapevolezzamorale. Gilligan propone un’interpretazionealternativa, rispettoaquelladiKohlberg, di questa situazione: il fatto che le donne tendano in generale a non risolvere i dilemmi morali in base a principi astratti e universali nonsignificachenonabbiano raggiunto un completo sviluppo della competenza morale (come si dedurrebbe dalla teoria di Kohlberg), ma èpiuttostoindicedelfattoche l’etica femminile si lascia guidare da orientamenti diversi che, se misurati sulla scala presunta universale di Kohlberg, appaiono come inferiori. Per esempio, a un testchechiedeseunsignore, la cui moglie è gravemente malata, e che non ha i soldi per le medicine, fa bene a rubarle, i soggetti maschi tendonoarisponderedisì,in base a principi generali e astratti come per esempio quello che la vita di una persona è più importante del diritto di proprietà. Le risposte dei soggetti di sesso femminile sono invece più sfumate e articolate, più attente a tutti i problemi del contesto (per esempio: se il maritoperrubarelemedicine finisce in galera, chi si occuperà della moglie malata ?) Le conseguenze teoriche che la Gilligan trae dalle sue osservazioni sono molto chiare;nelledonnesiosserva unapproccioallamoralenon inferiore, ma diverso da quello più congeniale ai maschi:lesceltegiustenonsi ricavano da principi universali ma, in modo sensibile al contesto, dai rapporti e dai legami preesistenti, dalle aspettative dichiattendechecisiprenda cura di lui: «le donne hanno più spesso a che fare con istanze particolarissime e che ci si aspetta che vengano soddisfatte. Immerse come sono in una rete di relazioni, le donne sono indotte a prendere sul serio sempre e solo altri particolari, altri concreti, come dice la Benhabib, cioè caratterizzati da bisogni che chiedono risposte. Ed è questo l'orientamento morale che le donnehannoneiconfrontidel mondo»46. Propria delle donne, insomma, è un’etica della cura, che si distingue dall’etica universalistica dei principi perché non ha il suo termine di riferimento in un «altro generalizzato», ma si indirizza alla persona concreta che esprime un bisogno, una richiesta di attenzioneediaiuto.Nonviè dunque, secondo la Gilligan, un unico parametro di pensiero morale, un’unica concezione del giusto: a un’eticamaschiledeiprincipi fa da contraltare un’etica femminiledellacura. Questaaffermazionedella differenza femminile, però, pone un problema che la stessa teoria femminista ha messo subito a fuoco: sostenere la specificità femminile nel senso di un’etica della cura significa iscriversi ancora una volta nell’orizzonte binario dell’ordine simbolico patriarcale, modificandolo solo con una diversa indicazione di valore: «la donna come natura e come essere oblativo è precisamente ciò che l’uomo posiziona, da millenni, come altro da sé e per sé. Il gesto femminista di cambiare il segno della dicotomia, esaltando il valore positivo delle equazioni donna/natura e donna/al truismo, contro il valore negativo delle equazioni uomo/tecnologia e uomo/egoismo, più che dissolvere l’ordine patriarcale, dunque, lo legittima»47. In altre parole, «quella della Gilligan è in fondo la consacrazione del ruolo tradizionale delle donne»48, nel senso che non fa altro che conferire valore alla posizione che l’ordine patriarcale ha da sempre assegnatoalledonne. Accantoaposizionicome quelle fin qui ricordate, che assumono come proprio oggetto polemico l’universalismo della teoria morale e politica, ve ne sono altre che invece accettano in qualche misura i presupposti di questo universalismo, ma non le conseguenze che in genere se ne derivano: è il caso per esempio della riflessione di Susan Mol1er Okin49.LaOkinsviluppa,dal punto di vista delle donne, una critica stringente di alcune prospettive influenti della teoria politica contemporanea, come per esempio il liberismo di Nozick, il comunitarismo di MacIntyre e la teoria della giustiziadiRawls. Alla teoria di Nozick, Okinobiettache,sesiaccetta l’assioma liberista secondo il quale ciascuno è proprietario diséediciòcheproducecol suo lavoro e la sua fatica, allorasenedovrebbetrarrela conseguenza assurda che i figli sono proprietà delle donne, che faticosamente li mettono al mondo. Al comunitarismo, Okin fa notare che le tradizioni di pensieroeticoediriflessione sulla vita buona che questo vorrebbe valorizzare (in particolare, nel caso di Maclntyre, quella aristotelica etomistica)prevedonoperle donne un ruolo irrimediabilmente subalterno, e quindi non sono certo tradizioni alle quali il pensiero etico femminile si possarichiamare. Diversoèilgiudiziodella Okin su Rawls: per l’autrice, meritodiRawlsècertamente quello di avere messo nel giusto risalto il ruolo che la famigliasvolge,nellasocietà, comefattorechecondizionae determina le opportunità di cui gli individui possono giovarsi. Il limite dell’autore di Teoria della giustizia, invece, è quello di non avere tratto, dai principi che egli pone alla base della sua costruzione, tutte le conseguenze che se ne sarebbero potute ricavare, al finedimettereindiscussione la struttura sessista della famiglia e della società esistente: la critica della Okin, quindi, non si rivolge contro i principi della teoria diRawls,mapiuttostocontro ilmodoincuiegliliapplicae lisvolge.Sesiapprofondisce l’idea del velo di ignoranza, assumendo che le parti in posizione originaria non conoscono il proprio sesso, e se al tempo stesso si assume latesi(enunciatadallostesso Rawls) secondo la quale la famiglia è una delle istituzioni sociali fondamentali, allora se ne deve trarre, andando oltre Rawls,laconseguenzachele parti in posizione originaria dovrebbero preoccuparsi di estendere anche alla sfera familiare e ai rapporti di genere i principi di giustizia, cosa che implicherebbe una sostanziale revisione del modo in cui ha funzionato fino ad oggi l’istituzione familiare, ma anche una riconsiderazione del modo in cui i rapporti di genere sono strutturatinellenostresocietà. A differenza di altre pensatrici femministe, dunque, la Okin non sottopone a critica i presupposti di fondo dell’universalismo; pensa, al contrario, che li si debba prendere sul serio più di quanto la teoria politica non abbia fatto, per criticare alla lucediessiilsessismoancora vigente nelle nostre società. AllateoriadellaOkin,perciò, sono state mosse delle osservazioni critiche esattamenteopposterispettoa quelle indirizzate alla prospettiva della Gilligan: concentrando tutta l’attenzione sulla giustizia all’internodellafamigliaenei rapporti di genere, la Okin trascurerebbe la rilevanza della differenza femminile, e l’esigenza di politiche sociali non meramente egualitarie ma differenti. La sua riflessione rappresenta quindi unodeipoliall’internodiuna discussione complessa e intrecciata, che per un verso rivendicaladifferenzacontro un sedicente universalismo che è in realtà discriminatorio, per altro verso vede anche che la differenza femminile è stata in parte costruita dall’ordine dominante del patriarcato, e non è quindi un’essenza da riattingere o da valorizzare. Una questione difficile, che porta la Okin a concludere, dialogandoconlafemminista radicale Catharine MacKinnon, che «non possiamo in alcun modo saperequantoecomedonnee uomini siano diversi, fino a quando non potremo vederli in una situazione di eguaglianza»50. 1 j. RAWLS, Una teoria dellagiustizia(1971),trad.it. Feltrinelli, Milano I99 75. P· 24· 2Ibid.,p.22. 3Perulteriorichiarimenti su questo punto cfr. w. kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea (1990), trad. it.Feltrinelli,Milano1996,p75· 4 Come sottolinea giustamente kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea citp. 83. 5Rawls,Unateoriadella giustiziacit„p.255, 6Ibid.,p.136. 7 s. Veca, Il paradigma delle teorìe della giustìzia, in aa.vv., Manuale di filosofia politica, a cura di S. Maffettone e S. Veca, Donzelli,Roma1996,p.172. 8 s. Maffettone, Utilitarismo e teoria della giustizia, Bibliopolis, Napoli 1982, p. 18. Sulla centralità del tema della cooperazione sociale nella Teoria della giustizia di Rawls si veda l’interessante articolo di L. salvatore, Rawls, la cooperazione e l'Aristotele che è in noi (surfisti esclusi), in «Filosofia e questioni pubbliche», VI (2000) n. 2, pp. 141-61. Sul principio di differenza e la cooperazione in Rawls è da leggere B, barry, Teorie della giustizia (1989),trad.it.IlSaggiatore, Milano 1996, pp. 239 sgg. Invece, una lettura di Rawls nella prospettiva di un dialogocriticotramarxismoe contrattualismo è quella di j. bidet: cfr. John Rawls et la théorie de la justice, Puf, Paris 1995 e Théorie generale,Puf,Paris1999,pp. 323-43. 9rawls, Una teoria della giustiziacit.,p.99. 10Ibid.,p.100. 11 Sulla distinzione tra giustificazione morale e giustificazione politica si veda l’articolo di s. Maffettone,SostieneRawls..., in «Filosofia e questioni pubbliche»,I(1995)n.1,pp. 79-92. 12 J. RAWLS, Il diritto dei popoli(1999), trad. it. a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Torino 2001, pp. 47-48. 13 R. nozick, Anarchia, stato, utopia (1974), trad. it. Le Monnier, Firenze 1981; ora in nuova edizione presso IISaggiatore. 14Dicuicfr.soprattutto Dopo la virtù. Saggio di teoriamorale(1984),trad.it. Feltrinelli,Milano1988. 15 Tra le principali opere di TAYLOR sono da ricordare Radici dell'io. La costruzione dell'identità moderna (1989), trad. it. Feltrinelli, Milano 1993 e II disagio della modernità (1991), trad. it. Laterza, Bari 1994. Su Taylor si legga p. costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano2001. 16 M. SANDEL, Il liberalismo e i limiti della giustizia (1982), trad. it. Feltrinelli, Milano 1994, p. 11. 17 a. MACiNTYRE, Il patriottismo è una virtù? (1984), trad. it. in a. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, EditoriRiuniti,Roma1992,p.71. 18 Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo cit., pp.LII-LIII. 19 Precisazioni rispetto all’impianto di Teoria della giustizia si trovano per esempio nei saggi: Il costruttivismo kantiano nella teoriamorale(1980),trad.it. in Saggi, Edizioni di Comunità, Torino 2oor, pp. 77-79; Utilità sociale e beni primari(1982),ibid.,pp.139 sgg.;La priorità del giusto e idee del bene (1988), ibid., pp.212-14.20 20 RAWLS, Il costruttivismo kantiano cit., p.77. 21 RAWLS, La priorità del giustocit.,p.212. 22Suquestotemasiveda ilfascicolomonograficodella «Rivista di filosofia», XCII (2001) n. i, dedicato appunto a «La qualità della vita», e curato da E. Lecaldano e S. Veca. Accanto al saggio di Veca si legga, nel fascicolo, quello di I. CARTER, Funzionamenti e capacità : unacriticaliberalealleteorie di Sen e Nussbaum (pp. 4970). 23 A. SEN, Lo sviluppo è libertà (1999), trad. it. Mondadori, Milano 2001, P· 77· 24Ibid.,p.79. 25Ibid. 26Dicuicfr.peresempio il recente M. nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, il Mulino, Bologna 2002. 27 j. Habermas, Fatti e norme.Contributiaunateoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), trad. it. Guerini e Associati, Milano 1996,p.131. 28Ibid.,p.134, 29Ibid.,pp.148-49. 30ibid.,p.360. 31Ibid.,p.400. 32 Cfr. per esempio Y. SYNTOMER, La démocratie impossible. Politique et modernité chez Weber et Habermas, La Découverte, Paris1999,p.368. 33 Su questa linea di pensiero,chenellasualettura svolge e al tempo stesso rovescia il realismo nella direzione dell'impolitico, ha insistito molto Roberto Esposito; una sintesi efficace della sua prospettiva è la introduzionealvolumedalui curatoOltrelapoliticacit. 34 w. benjamin, Per la critica della violenza (1921), trad. it. in Angelus No-vus, Einaudi,Torino1962. 35 M. FOUCAULT, Illuminismoecritica,trad.it. Donzelli,Roma1997,p.55. 36Ibid.,pp.56-57. 37Ibid.,p.61. 38Ibid.,pp.37-38. 39 Trad. it. Feltrinelli, Milano1975. 40 A. Cavarero, Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in F. restaino e a. cavarero, Le filosofìe femministe, Paravia, Torino1999,pp.116-17. 41Ibid.,p.119. 42 Di cui cfr. Corpi che contano.Ilimitidiscorsividel corpo, Feltrinelli, Milano 1996. 43Ibid.,p.126. 44 Per uno sguardo d’insiemesivedailsaggiodi A. E. GALEOTTI, Teorie politiche femministe, in Manuale di filosofia politica cit.,pp.47-67. 45L’operaprincipaledic. GILLIGANèConvocedidonna. Etica e formazione della personalità (1982), trad. it. Feltrinelli, Milano 1987. Il pensiero della Gilligan è presentatoediscussoinmodo chiaro ed efficace nel saggio di i. salvatore, Teoria femminista e critica, in Ragionevolidubbi,Seminario diUrbino,acuradiP.Costa, M.RosatieI.Testa,Carocci, Roma2001,pp.124-43. 46Ibid.,p.131. 47 Cavarero, Il pensiero femministacit.,pp.120-21. 48 salvatore, Teoria femminista e critica cit., p. 132. 49 Cfr. soprattutto, di s. M. OKIN, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico (1989), trad.it.Dedalo,Bari1999.A propositodellaOkinsivedail volume III (1997) n. 2 della rivista «Filosofia e questioni pubbliche», con saggi della stessaOkinediE.Galeotti,I. Salvatore,A.Pauncz. 50 Cfr. l'intervento di okin,ivi,p.77. VIII.Questioniperla filosofiapolitica I.Il«fondamento» deidirittiedella democrazia. Nelle due proposte più influenti all’interno della discussione odierna sulla teoria politica normativa, quelladiJohnRawlsequella di Jürgen Habermas, la questione del rapporto tra teoriamoraleeteoriapolitica nontrovaunarisoluzioneche possa dirsi del tutto soddisfacente. Mentre il Rawls di Teoria della giustizia costruiva la sua riflessione a partire da un orizzontemorale,cheperaltro non veniva giustificato nelle sue ragioni ultime, quello di Liberalismopoliticodistingue nettamente tra giustificazione morale e giustificazione politica,esostienelatesiche la seconda dev’essere indipendente dalla prima, poiché l’ordine politico deve essere accettabile dai sostenitori di «dottrine comprensive» diverse e antagoniste tra loro, purché ragionevoli. La visione rawlsiana lascia però in buona misura aperto il problemadicomesidebbano determinare, appunto, i confini del ragionevole: se i confini del ragionevole vengono stabiliti sullo stesso terrenodelragionevole,allora lo scotto che si paga per rispettare il pluralismo delle dottrine comprensive è la rinuncia a una costruzione teorica che possa dirsi basata su solidi fondamenti razionali; se invece i confini del ragionevole fossero determinati da una precisa teoria filosofica, allora la politica verrebbe di nuovo a dipendere da una dottrina comprensiva, e si ricadrebbe nella posizione che il Rawls diLiberalismopoliticovoleva superare. Come è stato scritto: «il vantaggio in termini di realismo pluralista sembra essere pagato dall’ultimo Rawls in termini difiacchezzamotivazionalee debolezza normativa. Addirittura, si potrebbe dire che più si procede in una direzione, più si arretra dall’altra»1.Inaltreparole,la pretesa di sganciare la teoria politica dalla sua dipendenza daunagiustificazionemorale sembra per un verso facilitare, ma per un altro verso rendere più difficile la giustificazionerazionaledella teoriapoliticastessa. Per quanto riguarda questo problema, però, anche la prospettiva di Habermas non sembra del tutto priva di incoerenzeinterne:Habermas rifiuta, non molto diversamentedaRawls,difar dipendereiprincipidelgiusto ordine politico da una prospettivamorale,allaquale lapoliticafinirebbeperessere gerarchicamente subordinata. Al tempo stesso, però, egli come abbiamo visto - fa derivare il principio della democrazia da un più originario principio del discorso, in forza del quale sonovalidequellenormeche potrebbero meritare il consenso da parte di tutti i partecipanti a un discorso pratico.Aquestopunto,però, appare assai convincente l’obiezione secondo la quale, nel principio del discorso, è già contenuto il nucleo di quello che verrà poi più precisamente articolato come moralità2: ma se questo è vero, ne consegue, contro le intenzioni di Habermas, che la teoria della democrazia, derivando dal principio del discorso, dipende sostanzialmente da assunti di teoria morale, anche se nega questa dipendenza rifiutando la subordinazione gerarchica del diritto democraticamente statuitoallamorale. L’esigenza che sta alla basedelleriflessionidiRawls e di Habermas su questo punto è a mio giudizio tanto chiara e comprensibile, quanto insidiata da una certa tensione o contraddizione interna:perunversosivuole mantenere un qualche nesso tra teoria politica e teoria morale (tagliarlo completamente significherebbe uscire dalla dimensione della teoria politica normativa); per altro verso si ritiene che il riconoscimento del pluralismo e della autonomia delmomentopoliticoesigano che questo non dipenda da teorie morali specifiche, che inunasocietàpluralisticanon possono essere condivise da tutti. Ma né Rawls né Habermas riescono a soddisfare insieme le due esigenze delle quali si fanno portatori. Perciò, per quanto riguarda la questione del nesso tra giustificazione morale e giustificazione politica, appare più coerente una linea che si ispiri ad alcune delle osservazioni che sono state proposte da KarlOtto Apel nella sua discussione critica delle tesi habermasiane. In primo luogo, sembra chiaro che la ricerca intorno al giusto ordine politico non può tagliareilcordonechelalega a una concezione della giustizia, che viene elaborata innanzitutto in sede di teoria morale;questaeradelrestola posizione tanto del primo Rawls quanto del primo Habermas. Chiarito questo punto, si tratta però di indagare quale teoria morale sia in grado non solo di offrire una sufficiente giustificazionerazionaledise medesima, ma anche di costituire lo sfondo per una costruzione politica che non sacrifichi la fonda-mentale istanza del pluralismo. L’ipotesi che mi pare più percorribileèpertantoquella, avanzata da Apel e in una certa fase anche da Habermas, di assumere come punto di partenza una teoria morale che (come l’etica del discorso apelianohabermasianao,prima,l’etica del dialogo del filosofo italiano Guido Calogero) per unversoèingradodiaddurre solidi argomenti a proprio sostegno, per l’altro non sembra meno pluralistica della visione di Rawls: si tratta,infatti,diun’eticailcui nucleo è la disponibilità ad ascoltare tutte le voci e tutte leistanzeumane,echequindi lascia fuori solo coloro che nonsonodispostiasentirele ragioni degli altri, e che pretendono di imporre con la forzailpropriopuntodivista. Un’etica del discorso o del dialogo, però, non è solo profondamente pluralistica ma, al tempo stesso, è anche in grado di mostrare perché ogni individuo razionale la dovrebbe accettare o, detto diversamente, perché non potrebbe trovare argomenti validi per rifiutarla. In sostanza, l’argomento che si può addurre a sostengo della validità di un’etica del discorso o del dialogo può essereformulatocomesegue. Supponiamo di intraprendere una discussione teorica intorno al problema, se si diano principi etici suscettibili di giustificazione. Prima ancora di rispondere, eventualmente, che di tali principinonsenedanno(così risponderebbero,infatti,molti tra i filosofi contemporanei), chiunquesipongaseriamente ilproblemadovrebbedisporsi nell’atteggiamento di chi, come partecipante a un dibattito argomentativo, è pronto a dare ascolto a tutti gli argomenti che gli verranno proposti, e a prestare a ciascuno di essi pari attenzione. Non appena si cominci a esaminare un problema,osiintraprendaun dibattito, insomma, si accetta già quella che potremmo chiamare la fondamentale norma della discussione critica, che impone di sottoporre ogni tesi al confronto discorsivo e di prestare ascolto agli argomenti di tutti i partner della discussione. Ma l’ascolto e il rispetto che si devono a tutti gli argomenti non possono non estendersi anche alle persone, che sono tutte possibili dialoganti e argomentanti. E perciò dalla norma della discussione critica,chechiunquepartecipi a un dibattito non può non fare propria, discende anche una più impegnativa norma morale,cheappuntoprescrive di prestare ascolto alle ragioni, alle istanze e alle esigenze di tutte le persone. Come scrive Apel: «Nell’apriori dell’argomentazione è insita la pretesa di giustificare non solo tutte le affermazioni della scienza ma, al di là di qùeste,tuttelepreteseumane (anche le pretese implicite, che sono contenute nelle azionienelleistituzioni,degli uomini nei riguardi di altri uomini). Chi argomenta riconosceimplicitamentetutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della comunicazione che si possono giustificare tramite argomenti razionali ... e si impegna al tempo stesso a giustificaretramiteargomenti le proprie pretese nei confronti degli altri»3. Il principio di un’etica del discorso, quindi, prescrive fondamentalmente il rispetto el’ascoltodelleragionidegli altri; e afferma che la giusta risoluzione dei conflitti che dovessero insorgere tra esigenzeincontrastoèquella che risulterebbe dal dialogo argomentativo e paritario tra tutti gli interessati e i coinvolti, impegnati in coresponsabilità solidale nella ricercadiquellesoluzioniche meglio rispondano agli interessiditutti. A mio parere, è solo a partire da questo orientamento etico di fondo che si può (tentare di) proporre una risposta alla domanda, che sempre si ripresentainfilosofiapolitica, su quale sia il «fondamento» deidirittiedellademocrazia. Dal principio etico che prescriveilrispettodituttele persone, con i loro bisogni, pretese e interessi, consegue anchelagiustificazionediun ordine giuridico-politico che garantisca l’eguaglianza di diritti,ovverol’egualelibertà e dignità di tutte le persone, nonsolocomemeroprincipio morale, ma come norma di cui si impone, anche coattivamente, il rispetto. L’esigenza di superare la mera moralità in un ordine giuridico ha la sua radice nella moralità stessa: essa infatti mi prescrive di rispettarelealtrepersone,ma nonpuòrealmenteobbligarmi a ciò finché io non abbia la garanziacheancheglialtrisi comporteranno così nei miei confronti. Se non la si intendesseinquestomodo,la morale diverrebbe paradossalmente la via per trasformare chi ne segue la regola in preda disarmata di chiinvecelacalpesta.Perciò, «ilprincipiodeldialogononè soltanto il principio della persuasione disarmata, ma anche il principio della coercizionegiuridico-politica, cioè della difesa efficace di coloro che rispettano la sua regola da coloro che invece nonintendonorispettarla»4. Il principio etico in forza del quale le esigenze di tutte lepersonehannodirittoapari considerazione e rispetto (un principio simile lo abbiamo incontrato anche nella riflessione di Robert Dahl intorno ai fondamenti della democrazìa) deve quindi costituire il filo conduttore per individuare le linee di fondo di un ordine giuridico legittimo. Fermo restando naturalmentechelacomunità giuridicamente organizzata dei cittadini di uno stato non può essere in alcun modo assimilata a una comunità etica:questasarebbeilregno, semplicemente pensabile, di individui che si regolano nei loro rapporti reciproci secondo quanto prescrive il punto di vista morale. La comunità politica, invece, conferisce agli individui dei diritti il cui fine è quello di assicurareaessiegualelibertà e dignità; ma resta in ogni caso una comunità reale di individui che possono avere un senso di giustizia ma possono anche essere decisamente autointeressati ed egoisti, che sono portatori di dotazioni naturali e sociali per tanti aspetti ineguali, e che possono servirsi dei loro diritti fondamentalmente per scopi di autoaffermazione; perciò la comunità politica non attuerà mai compiutamente quell’ideale di eguale rispetto per tutte le persone che pure ne deve ispirare gli istituti fondamentali, e al quale essa si deve sempre commisurare, come alla sua promessa in qualche modo sempre inevasa. 2.Sistemadei dirittiedemocrazia. Volendo esprimere gli stessi concetti con il linguaggio del contrattualismo, si potrebbe dire che gli istituti di un ordine giuridico legittimo sono quelli che si darebbero, nell’atto di costituire una comunità politica, individui che volessero regolare giuridicamente la loro convivenza in modo tale da assicurare l’eguale rispetto per gli interessi di ciascuno. La finzione contrattualista è un buon metodo per enucleare gli istituti di un ordine politico legittimo, purché sia chiaro che il contratto o meglio l’accordo che può generare un ordine politicosiffattononèunpatto sottoscritto da soggetti reali, presi così come sono (con i lorointeressiegoisticieiloro diversi potenziali di minaccia), ma un patto i cui autorisonoindividuiegualie imparziali (per dirla con Rawls, individui che si autoimpongono un velo di ignoranza). Se mettiamo a confronto, come aspetti fondamentali di unasocietàgiusta,daunlatoi principidigiustiziadiRawls, dall’altroilsistemadeidiritti in cui per Habermas si concreta una buona democrazia, possiamo a mio pareregiungereadalcunenon troppo problematiche considerazioni. Come abbiamo visto, mentre in Rawls la struttura di una società giusta si basa su una dualità di principi (il primo assicura la libertà, il secondo determina i margini entro i quali deve essere contenuta la diseguaglianza), in Habermas viene proposta unaarticolazionepiùampia,i cui punti nodali sono a mio avviso i diritti «classici» di libertà,idirittidemocraticiei diritti sociali. In Habermas però, anche questo va sottolineato, il tema della giustizia sociale ha una rilevanza sostanzialmente inferiore a quella che ha nel primo Rawls: per Habermas, infatti, i diritti che egli chiama «di ripartizione sociale»noncostituisconoun fine in sé, ma sono per così direstrumentalialgodimento degli altri diritti (agli individui devono essere assicurate certe condizioni sociali, perché altrimenti essi non potranno godere veramentedeidirittidilibertà odeidirittidemocratici). Se si riparte dal fondamentale assunto etico circa la pari dignità degli interessidituttelepersone,la via più promettente da seguire sembra quella che, per così dire, si colloca a mezza strada tra Rawls e Habermas: i diritti e gli istituti nei quali si traduce l’istanza dell’eguaglianza o della giustizia sociale non possono essere visti, come accade in Habermas, come sostanzialmente «funzionali» agli altri diritti; al contrario, devono essere assunti come diritti fondamentali a pari titolo dei diritti di libertà individuale e dei diritti democratici. Con Habermas, d’altra parte, è opportuno distinguere chiaramente tra i dirittidilibertàindividualeei dirittidemocratici,perchéessi fanno riferimento a due dimensioni diverse di esplicazione della libertà, il rapporto tra le quali non è affatto semplice e scontato, e anzimeritaattentariflessione. Solo attraverso una siffatta articolazione, il «sistema dei diritti», per riprendere l’espressione habermasiana, può effettivamente costituire un quadro all’interno del quale sia assicurato il pieno e concreto rispetto per tutte le persone.Sitrattaoradicapire meglio, però, come le tre dimensioni fondamentali dei diritti di libertà, dei diritti democratici e dei diritti sociali debbano essere pensate ciascuna per sé e, al tempostesso,nelnessochele unisce. In primo luogo, i diritti di libertà individuale costituiscono la garanzia di base perché ognuno sia non solotutelatonellasicurezzae nella persona, ma possa sviluppare, attraverso la libera scelta dei suoi modi di vita,lasuaricercadelproprio bene, e possa far valere liberamenteleproprieistanze e i propri punti di vista: essi tutelano l’insopprimibile esigenza dell’individuo, più che mai sentita nella tarda modernità, di disporre di uno spaziodisceltesquisitamente personali, di cui egli solo si assume la responsabilità. I diritti democratici assicurano che gli interessi, i valori, le esigenze di ognuno concorrano, attraverso il dibattito pubblico e le appropriate procedure di rappresentanza e di deliberazione, alla formazione delle leggi. I diritti sociali (che potrebbero essere articolati attraverso un apparato concettuale come quello proposto da Sen, che prima abbiamo ricordato) hannolafinalitàdiassicurare aciascunolecondizioniperil più ampio sviluppo possibile della sua personalità umana, ovvero, per usare il linguaggio di Sen, dei suoi «funzionamenti» e delle sue «capacitazioni». Il rapporto tra questi differenti ambiti di diritti, però, non è né semplicenélineare.Permolti versiidirittifannosistemain quanto si presuppongono reciprocamente: i diritti democratici, per esempio, presuppongono come loro precondizioni i diritti di libertà e i diritti sociali5; questi altri tipi di diritti, per parte loro, presuppongono i dirittidemocraticiinquantoè solo nell’esercizio dell’autolegislazione, costituzionaleoordinaria,che icontenutipiùdeterminatidei diritti di libertà e dei diritti sociali possono essere legittimamente fissati: essi quindi hanno bisogno della sovranitàpopolareperlaloro determinazione ed esplicitazione, così come questa ha bisogno dei diritti di libertà e dei diritti sociali come sue precondizioni. Questa idea del reciproco presupporsi6sipuòfarvalere pertuttiitipididiritti:idiritti di libertà richiedono quelli democratici per la loro garanzia (lo diceva già Constant) e quelli sociali per le risorse che, della libertà, consentono il concreto esercizio. I diritti sociali, senza i diritti di libertà e i diritti democratici, non potrebbero conferire agli individui quelle condizioni che essi stessi devono in ultimaistanzagiudicarecome funzionali allo sviluppo della loroindividualità. Tuttavia, anche se si assume la tesi, ben fondata a mio avviso, che un sistema dei diritti così concepito costituisca una delle strutture portanti di una democrazia «nonapparente»,ènecessario mettere a fuoco anche un altroaspetto:traidiversitipi di diritti non regna nessuna armonia prestabilita, nel senso che il gioco degli equilibri tra di essi include necessariamente tensioni o frizioni,chesolonelconcreto esercizio della pratica democratica si possono sciogliere. Per esempio: fin dove si estende il legittimo esercizio della libertà privata individuale, il campo dei comportamenti leciti? Il tentativo liberale di tracciare in quest’ambito dei confini invalicabili (per esempio attraverso il «principio del danno» di John Stuart Mill) non può dirsi pienamente riuscito. E forse è più coerente sostenere, con Habermas, che, una volta stabilito il principio della presupposizione reciproca di autonomia privata e autonomia pubblica, i precisi confini tra le due sfere devono essere determinati mediante l’agire politico e mutano con le circostanze storiche: «Come non si può circoscrivere una volta per tutte la sfera dell’autonomo perseguimento degli interessi privati di contro alla sfera in cui si realizza il ‘bene comune’, nemmeno si può ritagliare entro la sfera comunemente definita del diritto privato una vera e propria sfera dell’intimità. Il dibattito sulla pornografia dimostracomestabilirequesti confini sia una questione difficile, che deve sempre poter essere demandata al confrontopolitico»7. A me pare che qui Habermas colga perfettamente il punto, la cui problematicità va messa a fuoco con precisione: per un verso la democrazia presuppone i diritti di libertà e i diritti sociali che ne sono precondizioni;peraltroverso questidirittivengonoappunto stabiliti nel processo democratico, che sempre di nuovo li reinterpreta e li ricodifica. E non è detto che questo circolo debba necessariamente prendere la forma di un circolo virtuoso. Quello che si può sostenere dalpuntodivistadellateoria è che, se quanto fin qui si è detto è vero, la democrazia intesa nel senso ampio del termine, e cioè come l’insieme sinergico dei diritti di libertà, dei diritti sociali e dei diritti politici è, come è stato talvolta sostenuto, una questione di gradi: tanto più si attua e si espande quanto più rende giustizia a tutte le sue dimensioni, da quella della libertà squisitamente individuale a quella della partecipazione politica attiva, fino a quella della più ampia garanzia di diritti sociali espansivi. Il che significa naturalmente anche saper gestire, attraverso il dialogo democratico, le tensioni che sempreinsorgonotraidiversi aspetti della libertà, che in fondo rimandano, come abbiamo visto, alle grandi tradizioni liberale, democraticaesocialista. Se si ragiona su questa linea,cioènellaprospettivadi una filosofia politica «democratica» nel senso che abbiamo appena specificato, la tesi, sulla quale ormai convergono sia Rawls che Habermas, della «priorità del giustosulbene»dev’esserein una certa misura ricalibrata. Non per andare nella direzione comunitarista di una priorità del bene sul giusto, ma piuttosto in quella diunpiùbilanciatoequilibrio tra queste due dimensioni. Il punto risalta in tutta la sua evidenza se ci si sofferma sulla questione dei diritti sociali ovvero dell’eguaglianza di risorse: mentre il primato del giusto impone a Rawls di fermarsi all’idea che la distribuzione dei beni primari dev’essere quanto più possibile eguale (fatto salvo il principio di differenza), le critiche mosse a questa scelta rawlsiana, per esempio da Sen, portano alla conclusione che una società ben ordinata non può fare a meno di operare delle scelte circa quelli che si considerano i «funzionamenti»olecapacità più importanti per gli individui, da promuovere e garantire. Nel far questo, però, la politica non può non lasciarsi guidare da concezioni di ciò che è bene pergliindividui,che,comele concezionidelgiusto,devono essere elaborate e verificate nel dibattito pubblico, e quindi sono in ultima analisi legittimate dal consenso discorsivo degli individui stessi.TantoinRawlsquanto in Habermas, invece, prevale l’idea che le questioni concernenti il bene (il filosofo tedesco le definisce questioni «etiche»), a differenza di quelle concernentiilgiusto(cheegli chiama questioni «morali»), poiché fanno riferimento a visionicontroversediciòche ognuno intende come la vita buona per sé, non siano suscettibili di un’argomentazione tanto rigorosa quanto quella che si può applicare alle questioni morali (dove il problema è trovare soluzioni che siano accettabili nell’eguale interessediciascuno). Sebbene questa tesi non sia priva di una sua plausibilità, essa però non può essere assunta in senso troppo rigido, come se le questionicircailbenefossero materia di pura idiosincrasia soggettiva. Al contrario, la riflessione teorica su quali sianoibenipiùimportantiper l’uomo (sulla quale si è cimentata una grande tradizione filosofica, da Platone e Aristotele a Spinoza) è terreno di argomentazionerazionalenon meno di quanto lo sia la riflessionesullagiustizia.Dal punto di vista della filosofia sociale e politica, si aprono quindi ampi spazi non solo per la ricerca di quelli che potremmo considerare come gli «elementi necessari a un funzionamento autenticamente umano»8, attorno ai quali è possibile raccogliere un ampio consenso transculturale, ma anche per una riconsiderazione dell’importantissimotemadei beni comuni, cioè di quei benicomel’ambientesano,le possibilità di comunicazione, la cultura, il cui valore non sta solo negli effetti positivi che generano, ma anche nel fattochesitrattadibeniche, a differenza di quelli di tipo acquisitivo,sonogodutisenza che questo implichi privazione per qualcun altro; anzi, sono beni di cui noi godiamosoloinquantoanche gli altri ne godono. Essi perciò dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione in una società democraticaorientataversolo sviluppoditutti. 3.Trafattie norme:ilproblema delleteorienormative. Le considerazioni che abbiamo fin qui svolto si collocano sostanzialmente nello spazio della teoria normativadellapolitica;mail problema che alle teorie normative sempre si pone è quello di come si rapportino alle realtà effettuali della politica. La teoria normativa ciparladiunasocietàgiusta, di una democrazia come potrebbe e dovrebbe essere; ma che rapporto intrattiene con i dati di fatto, spesso assaisconfortanti,dellarealtà politica effettiva ? Alcuni modi di rispondere a questa domanda sono chiaramente insoddisfacenti:loèquellodi quantiritengono(pensandoin talmododifarprofessionedi realismo) che la teoria normativa non sia altro che un esercizio sterile, un trastullo per «anime belle» che niente ha a che vedere con la dura realtà di forza e conflitto che caratterizza la politica nella sua verità di fatto.Questoatteggiamentoè poveroeriduttivoperchénon si avvede che, per quanto severa e aspra sia la realtà della politica, questioni di giustizia in essa sempre si pongono, argomenti si discutono, e pertanto il momento normativo è anch’esso radicato e presente nella verità dei fatti: negarlo significherebbe accreditare una visione della politica troppounilaterale,equindi,a ben guardare, molto poco «realistica». Altrettanto insoddisfacente è il modo di vedere verso il quale talvolta teorie come quelle di Habermas o di Rawls sembrano «scivolare»: quel modo di vedere per cui sembra che la teoria normativa possa quasi descrivere, con qualche sopportabile scostamento, la politica così come realmente è. Che non sia così, che tra normaefattosussistanongià un abisso ontologico, ma certamenteunafortetensione, è un punto di cui lo stesso Habermas (formatosi - non dimentichiamolo - alla scuola,delmarxismocritico), anche se talvolta non lo sottolinea come dovrebbe, è ben consapevole: l’assunto propriodellateorianormativa è che «non esistono impedimentidiprincipioaun ordinamento egualitario dei rapporti interpersonali». Ma, continua Habermas, «naturalmente le nostre società sono profondamente segnate sia dalla violenza manifestasiadaunaviolenza strutturale. Esse sono attraversate dal micropotere di repressioni occulte e deformate da dispotismo, emarginazione e sfruttamento. Ma di ciò non potremmo indignarci, se non sapessimochequestirapporti inverecondipotrebberoanche configurarsi altrimenti»; la critica dei rapporti di fatto, quindi, è possibile proprio a partire dall’assunto che esige «che a tutte le persone spetti unegualestatusnormativo,e che tutte debbano darsi simmetrico e reciproco riconoscimento»9. Anche Rawls, del resto, considera il consenso intorno ai principi di giustizia non come un dato, ma come qualcosa che rientra nel novero delle possibilità. Il vero problema delle teorie normative,quindi,èquellodi comprendere come la scissione tra fatto e norma possa essere elaborata, mitigata, anche se non completamente superata. Ma è il problema più complicato di tutti, che può essere affrontato seriamente solo utilizzando molti e diversi punti di vista, e che richiede anche considerazioni che esulano dall’ambito della filosofia politica intesa in sensopiùstretto. Innanzitutto, la tensione tra fatto e norma è il tema proprio con cui un agire politico che si lasci guidare da principi di libertà e di giustizia si deve misurare. Il terreno dell’agire politico, nell’orizzonte di una teoria normativa, e perciò critica, è quellodisfidareleistituzioni e le situazioni che negano il simmetrico e reciproco riconoscimento, che impongono condizioni di dominio, di deprivazione, di sfruttamento, di non-libertà. Suo obiettivo polemico sono tutte le forme di privilegio socialmente e politicamente consolidato, dal privilegio di classe al dominio di genere, dalladiscriminazionerazziale a quella etnica. E proprio in quanto si trova di fronte situazioni di consolidato vantaggiooprivilegio,l’agire politico non può fare a meno di situarsi sul terreno del conflitto: è una pratica che opera a molti livelli, nel linguaggio habermasiano dovremmodire:comunicativa e strategica al tempo stesso. Siavvaledeibuoniargomenti e del dibattito pubblico, ma anche della messa in movimento di forze e interessi la cui pressione è necessaria per scuotere privilegi di vecchia data, rapportidipoterestabilizzati, forme di non-libertà depositate nel costume e sostenute da ideologie. L’agire politico è quindi praticaaltamentecomplessae innovativa: che incrocia il terreno comunicativo (sul quale hanno insistito particolarmente Arendt e Habermas) non solo con quello strategico, ma anche con quello simbolico, identitario, talvolta persino mitico; e che deve essere capace di tenere insieme interessi e valori, e soprattutto, se vuole conseguire i propri obiettivi, di essere al tempo stesso parzialitàeuniversalità(cheè forse l’insegnamento ancora attuale che si può trarre dal concetto gramsciano di egemonia)10. Ma proprio in questo suo necessario polimorfismo hanno radice anche le inaggirabili aporie dell’agire politico. Perché a esso inerisce sempre, al di là di ogni attitudine comunicativa e di ogni riferimento all’idea di un riconoscimento simmetrico e paritario, il momento del conflitto, del polemos, dell’organizzazione di forze e interessi contro altre forze e interessi. Certo che la politica non è riducibile, come voleva Carl Schmitt, alla contrapposizione amiconemico; ma nel mondo reale avrà sempre a che fare, o almeno per molto tempo ancora, con la costante ridefinizione di linee di conflitto, anche quando si tratti di un conflitto «addomesticato» e giocato dentro le regole del diritto e della democrazia. In ciò si radica l’inevitabile aporia di ogni politica che voglia incidere sui rapporti di fatto vigenti (ad esempio per combattere o per contrastare dei privilegi): per vincere nella situazione data, anche una politica critica deve in qualche misura rendersi conforme a essa, ma ciò significa che rischia di trovarsi a sua volta in tensione con i principi ai quali si richiama. È l’aporia che, a titolo di esempio, si può illustrare perfettamente con un aforisma della Dialetticadell’illuminismo di Horkheimer e Adorno intitolato «Propaganda»: anche la propaganda per le idee migliori (indispensabile, potremmodire,perchéessesi diffondano e si affermino) le tradisce nel momento stesso in cui le diffonde: perché fa del linguaggio, invece di un medium dell’intesa, uno strumento di manipolazione degli uomini, della verità un mezzoperacquistareseguaci: «dà per scontato che il principio secondo cui la politica deve nascere da una comprensione comune non sia che un modo di dire»; la propaganda «altera la verità giànell’attodiformularla»11. Horkheimer e Adorno ne traevano la conclusione, davvero «impolitica», che fosse quindi ormai inutile rivolgersi alle masse o anche ai singoli, e che convenisse piuttosto limitarsi a lasciare un messaggio nella bottiglia. Ma se la conclusione non è d’aiuto, la diagnosi merita di esseremeditata,soprattuttoin un tempo che ha dato alla vecchia propaganda i mezzi tecnologicamente più straordinari per penetrare ovunque, e ne ha ampliato notevolmentelapotenza:ela diagnosi ci dice che anche la miglior politica si fa nel mondo com’è, e quindi ne porta su di sé i segni (nel modoincuiparlaalpubblico, nelle sue organizzazioni, in millealtriaspetti).Lapolitica ha sempre a che fare con queste aporie: non può scrollarsele di dosso, deve convivercicriticamente.Nella consapevolezza però che, in ultima istanza, l’idea che per cambiare il mondo si debba adeguarsi ad esso non può che essere contraddittoria; e che quindi è senz’altro più attendibile l’idea opposta, e cioè che chi vuol cambiare il mondo deve cominciare dal saper cambiare se stesso. Il Novecento ha visto troppa politicaanimatadallemigliori intenzioni riprodurre dentro di sé tutti i vizi di ciò contro cuivolevalottare. 4.Lapoliticadella democraziaelesfide delmondoglobalizzato. Nel mondo globalizzato che si viene delineando dopo ilcrollodelMurodiBerlinoe l’ingresso nel terzo millennio dell’era cristiana, le prospettive realistiche di una democrazia comunicativa ed espansiva sembrano trovarsi difronteasfideeadifficoltà moltodiversedaquelleconle quali dovevano confrontarsi nelmondobipolare. Da qualche tempo, in molte analisi sociologiche, economiche, politiche, si tendearaccoglieregliaspetti salienti dei mutamenti che hanno trasformato gli assetti planetari sotto il concetto alquanto polisenso, ma per altriversiancheproduttivo,di globalizzazione11(infrancese si preferisce, ancora nella discussione odierna, il terminemondialisation)15. Gli aspetti principali del processo che va sotto questo nome potrebbero essere schematicamente indicati nei puntiseguenti: -Sulterrenoeconomico assistiamoallosviluppodiun mercato mondiale che ormai copre tutto il pianeta, a una crescitadellainterdipendenza tra paesi e aree diverse e a una più aspra competizione globale. Tuttavia il processo di globalizzazione non deve esserevistosoltanto,inmodo economicistico, come processo di realizzazione di un mercato unico globale. Esso deve essere analizzato ancheneisuoiaspettipolitici, culturalieantropologici. - Sul terreno politico molti sostengono la tesi che saremmo ormai entrati nell’età postwestfaliana, perché la fase attuale non vedepiùcomeattoredecisivo lo stato nazionale dotato di chiare prerogative sovrane su un territorio definito. Ci troveremmo quindi nello spazio di un ordine posthobbesiano14, dove al sistema di stati come autonome potestà sovrane si sostituisceunamolteplicitàdi livelli normativi sovra e transnazionali, di regimi regionali come l’Unione europea e di regolazioni da parte di enti sovranazionali, che configurano una sorta di multilevelgovemance. - L’ulteriore grande processo che caratterizza la fase attuale della globalizzazione, e che forse più di ogni altro ne segna la novità, è lo straordinario sviluppo delle tecnologie dell'informazione e delle reti globali fino alla dimensione diunacomunicazione-mondo, che trasforma non solo le forme del lavoro e i modi di vita e di consumo, ma anche le modalità della politica (si pensi per esempio a come diventa più difficile, per i regimi autoritari, schermarsi difronte ai flussi informativi e quindi anche rispetto alle critiche dell’opinione pubblica). - Molta attenzione è stata dedicata inoltre, negli studi recenti, alle trasformazioni chelaglobalizzazioneinduce negli stili di vita: l’antropologo indiano Arjun Appadurai, nel recente Modernitàinpolvere15,mette al centro della sua analisi della fase attuale della modernità globale i due fenomeni della comunicazione attraverso i media elettronici e delle migrazioni di massa, volontarie o forzose, come elementi che, determinando nuove dimensioni dell’immaginazione collettiva, ne potenziano anchel’impattosullestrutture e sui poteri del sistemamondo. Nel loro insieme queste trasformazioni corrodono per molti aspetti anche le basi di quellademocraziasostanziata diimportanticontenutisociali (anche se non esente da corposi limiti) che si era venuta sviluppando, con alterne vicende, soprattutto nell’Europa occidentale dopo lasecondaguerramondiale. La pressione della competizione globale e lo sviluppo di forme produttive più differenziate e articolate rispetto a quelle dell’epoca «fordista», ad alto contenuto disapereedicomunicazione, destrutturano quello che era stato (accanto a movimenti sociali come quelli dei giovani, delle donne, dell’ambientalismo) uno dei fattori fondamentali di spinta dei processi di democratizzazione e delle politiche sociali del dopoguerra: il movimento operaio organizzato, con i suoi partiti e i suoi sindacati. La «fine della società del lavoro» (Jeremy Rifkin), i mutamenti delle forme produttive e una più marcata individualizzazione degli stili di vita sembrano minare le basi stesse della politica democratica come si era sviluppata nei decenni passati: le forme organizzate tradizionali della partecipazionepoliticaedella rappresentanza appaiono per molti versi consumate, mentre i diritti sociali del Welfare sembrano troppo onerosi rispetto agli imperatividellacompetizione globale e poco aderenti alle nuove figure del lavoro «flessibile» e di una soggettività sempre più individualizzata. Lecosenonvannomeglio sul terreno della partecipazione democratica: mentre le potenzialità democratichedellenuovereti di comunicazione elettronica restano in buona parte inesplorate, la tendenza che largamente prevale è quella verso una riduzione della democrazia in senso verticistico e mediatico: le facce dei leader soppiantano il dibattito pubblico e il cittadino attivo è rimpiazzato dallospettatoredeitalk-show. Malesfidepiùimportanti per una politica democratica non sono quelle che si pongono sul piano interno, ma quelle indotte dai mutamenti nei rapporti tra le nazioni: le difficoltà cui vanno incontro le politiche tradizionali di democrazia e di giustizia sociale, si intrecciano con i nuovi problemicheoggisipongono sul terreno di una giustìzia globale. Tra le conseguenze più evidentidellaglobalizzazione vi è quella per cui le arene democratiche «domestiche» subiscono una progressiva perdita di incidenza, perché cresce il numero delle decisioni che vengono prese al di fuori di esse, e il restringersi dello spaziomondofasicheisingolistati subiscano, per esempio come inquinamento ambientale, le conseguenze di processi che si svolgono altrove, e che sono sottratti al loro controllo. La veloce mobilità deicapitalifinanziarialivello planetario condiziona le politiche economiche degli stati, mentre cresce il potere decisionale di molteplici istituzioni di governarne sovranazionale, largamente sottratte al controllo democratico. Gli ampi flussi migratori e la crescente mobilità della popolazione, inoltre, rendono sempre più incerta e difficile la determinazione dei confini deldemos;con il rischio che lacittadinanzademocraticasi riduca, negando le sue premesse universalistiche, a statuto privilegiato di una partedellapopolazione,dalla quale restano esclusi molti chepurvivonoelavoranonel territoriodellostato;allimite, potrebbe configurarsi il rischio di una sorta di nuovo apartheid16. Infine, dopo il crollo del mondo bipolare, e il permanere in campo di un’unica superpotenza, sembradelinearsinelsistemamondo una struttura di tipo imperiale,doveisingolistatinazione potrebbero ridursi tuttiallacondizionedistatia sovranità limitata, e i più deboli alla condizione di quasi-stati, a fronte della supremazia indiscussa di un unico Paese, forte della sua superiorità militare, tecnologica, economica e «comunicativa». Gli scenari della globalizzazione, perciò, pongono con forza il problema di cosa possano significare, forse non oggi, ma domani o dopodomani, diritti, giustizia e democrazia a scala mondiale; questione noneludibile,perchéèfuordi dubbio che ormai il pensiero politico deve fare i conti con una situazione inedita e dai contornipoconetti,chenonè né quella degli stati pienamente sovrani che stannotraloroinunrapporto simile allo stato di natura, né quelladiununicoSuperstato mondiale di cui non si vede né la fattibilità né la desiderabilità. Come è stato scritto, «le potenze capaci di agiresulpianoglobalenonsi muovonopiùentrolostatodi natura teorizzato dal diritto internazionale classico, bensì piuttosto sul livello mediano diunapoliticamondialecheè in via di formazione. Oggi questa politica mondiale è solo confusamente percepibile. Essa non si presenta staticamente come politica gerarchizzata nel quadrodiunaorganizzazione mondiale, bensì dinamicamente come un insieme di interferenze e interazioni tra processi politici che seguono logiche specifiche sul piano nazionale, internazionale e globale ... In tal modo vediamo aprirsi quantomeno una prospettiva per una ‘politica interna mondiale’ anche senza governo del mondo»17. Le vie che potrebbe percorrere questa costruzione di una «politica interna mondiale» sono però quanto mai difficili. E non è semplice rispondere alle domande che Habermas, a questo proposito, ha chiaramente enunciato: «Come è pensabile una legittimazione democratica delledecisionichevadaaldi làdelloschemaorganizzativo dello stato? A quali condizioni l’autocomprensione degli attoriglobalipuòtrasformarsi nel senso di indurre stati e regimi sopranazionali a intendersi progressivamente quali membri comunitari per cuinonesistaaltraalternativa se non di prendere reciprocamente in considerazione i propri interessi e rispettare gli interessigenerali?»18 La decisione da parte di stati, o di regimi sopranazionalicomel'Unione Europea, di intendersi come membri di una comunità dispostiatrattaresuunabase di reciprocità i propri interessi presuppone, anche se in forma più debole di quanto non lo presupponga una comunità statale, la condivisione di un certo insieme di principi comuni, relativi tanto alle procedure democratiche di decisione, quanto ai diritti degli individui, quanto ai criteri di giustizia distributiva o di solidarietà economica internazionale. Presuppone insomma un consenso di fondo che vada molto oltre quello, già esigente, che Rawls pone alla base della sua società di popoli19, in un orizzonte teorico che, a differenza di quello habermasiano,restamoltopiù ancoratoallasovranitàstatale nellesueformetradizionali. Ma l’affermazione di principi condivisi in tema di diritti dell’uomo e di democrazia appare, nell’orizzonte che si delinea all’inizio di questo terzo millennio, quanto mai difficile e soggetta a resistenze di vario genere: nonmancanosulloscacchiere mondiale stati che sollevano, nei confronti della nostra concezione dei diritti, riserve che non sono totalmente ingiustificate. Per un verso si sostiene che, in quanto prodotto della cultura occidentale, i diritti dell’uomononpossonoessere assunti sic et simpliciter da culture diverse da quella dell’Occidente, che hanno della libertà e della democrazia una visione profondamente diversa dalla nostra20. In secondo luogo si afferma che è piuttosto singolare che l’Occidente voglia oggi dare lezioni di diritti dell’uomo e di democraziaapaesiicuidiritti (individuali e collettivi) l’Occidente stesso ha calpestato (come in parte continua a fare) in una lunga storia di conquiste, colonialismi e imperialismi. Si aggiunge ancora, per esempio da parte dei sostenitori dei cosiddetti «valoriasiatici»,cheaquella occidentale si può legittimamente contrapporre una«viaasiaticaaidiritti»,la cui differenza specifica sta nel sotto-lineare con molta energia, facendo riferimento anche al confucianesimo, il primato degli interessi della collettività e dello stato rispetto a quelli dei singoli individui. Visonocertamentebuone ragioni per affermare, come Habermas ha sostenuto con molta convinzione, che la modernizzazione economica e la integrazione nel mercato globale costringono in qualche misura anche i Paesi che vorrebbero rifiutarla ad aprirsi a una concezione più secolarizzata e individualistica del diritto, checostituisceunelementodi contorno più funzionale per losviluppodiun’economiadi mercato21. Altri studiosi di scienzeeconomicheesociali, però, tendono a smentire la tesi di una modernità monodirezionale, dove la modernizzazione economica comporterebbe necessariamente secolarizzazione e individualizzazione: Eisenstadt, per esempio, interpreta il fondamentalismo islamico come un fenomeno per niente arcaico, ma anzi portatore di tratti tipicamente moderni22. Amartya Sen, da partesua,prendendoinesame il ben noto caso delle cosiddette «Tigri del Pacifico», evidenzia come modernizzazione capitalistica e valori antindividualistici possano convivere in modo straordinariamente efficace23: insomma, ci sono molte vie alla modernizzazione e allo sviluppo, e non tutte portano alla secolarizzazione, alla democratizzazione e ai diritti dell’individuo. Mailproblemanonnasce tanto dallo «scontro di civiltà», come suona il titolo di un libro molto citato di Samuel Huntington. Scaturisce piuttosto da un paradosso di fondo che condiziona tutta la discussione e i suoi risultati: per un verso I’Occidente pretende di presentarsi come il difensore deivaloriuniversalidilibertà, diritti e democrazia, mentre peraltroversononintendené può rinunciare alla sua smisurata superiorità economica, militare, tecnologica e mediatica, e si riserva sempre di ricorrere a essa per regolare i conti con chinonstaallesueregoledel gioco.Èquestoparadossoche dà fiato e conferisce una parvenza di legittimità a regimi integralisti e nemici dei diritti e che rende più difficilelabattagliadicoloro che, per esempio nel mondo arabo, si oppongono a essi: «Di fronte a un Occidente abbarbicato alla difesa dei propri privilegi, quanti si richiamano ai principi universali di libertà ed eguaglianza che esso, per primo, aveva enunciato, sono costretti alla difensiva da quelli che intendono squalificare ogni pretesa universalistica, mostrando che essa maschera, su scala mondiale, il regno dell’arbitrio e della diseguaglianza. L’integralismo si serve dell’egocentrismo dei ricchi per riabilitare l’egocentrismo dei poveri e proclamare il necessario ritorno alla dimensionecomunitaria»24. Perciò credo si possa affermarechelapossibilitàdi costruire un più vasto consenso intorno ai principi dei diritti e della democrazia dipende anche dal fatto che l’Occidente sia capace a sua volta di riconoscere i diritti dei popoli altri, più deboli, più poveri, che non li veda solo come una questione di ordine pubblico internazionale («stati fuorilegge», immigrazione illegaleecc.)ma,alcontrario, sia capace di costruire politiche che vadano nella direzionedellademocraziatra i popoli e della giustizia economica globale25; nella direzione, insomma, di un governo politico della globalizzazione economica, che esige che le potenze capaci di agire si impegnino, «-partecipandoattivamentea procedimenti istituzionalizzati per la formazione transnazionale della volontà26 - nel mantenimento di certi standard sociali e nella eliminazionedicertisquilibri estremi»27 su scala globale. In mancanza di prospettive politiche di giustizia tra i popoli e di lotta alle diseguaglianze su scala globalevivremoinunmondo non solo sempre più ingiusto ma anche sempre più insicuro, esposto a minacce dalle quali nessuno potrà ritenersi al riparo. Una politica che sappia resistere alla tentazione di risolvere i problemimanumilitari,eche punti non solo sull’apertura dei mercati, ma anche sul governo democratico della globalizzazione, sembra oggi molto lontana e difficile (nonostante vi siano pure segnali positivi, dai nuovi movimenti transnazionali all’emergere dei primi segni di una «società civile globale»). Ma forse lo sarebbe di meno se si comprendesse, che, su una Terra divenuta sempre più piccola,unapoliticadellacoresponsabilità solidale (per usare un’espressione-chiave di Apel) non risponde solo a ragionimorali,maanchealla difesa intelligente degli interessidilungoterminedei cittadini del Nord ricco del mondo. 5.Bioeticae biopolitica. Se le sfide della globalizzazione pongono alla politica problemi inediti e straordinariamentecomplessi, essarischiadivenirspiazzata in modo ancor più radicale dai nuovi scenari determinati dagli impressionanti salti in avanti della scienza e della tecnologia. Si pensi, per fare solounesempio,macentrale, ai progressi compiuti dalla genetica e dalle biotecnologie, e alle straordinarie possibilità che ormaisiapronodiintervenire sul vivente e di manipolarlo. Presto potrebbero diventare possibili pratiche che fino a ieri erano confinate nei libri di fantascienza: come per esempio riprodurre esseri umani per clonazione, prevedere le prospettive di vita e di salute delle persone attraverso la mappatura dei loro geni, produrre embrioni umani per scopi di ricerca, terapeuticiocommerciali. Come devono rapportarsi le società democratiche e pluralistiche con le pratiche di manipolazione del vivente che presto diventeranno possibili, e che in buona misura già lo sono ? È ovvio chelescelteinquestocampo sono profondamente influenzate dal diverso orientamento religioso o morale dei cittadini: per esempio, mentre i cristiani insistono sulla sacralità della vita umana, e quindi sulla necessitàdivietaregranparte delle pratiche di manipolazione (anche se non quelle tipicamente terapeutiche,volteallacuradi malattie genetiche) i laici assumono di solito posizioni piùduttili.Ilconflittoperò,e questo è l’aspetto più interessante, divide anche gli orientamenti laici tra di loro, in un dibattito che è ormai ampiamente avviato e nel quale sono già emerse posizioni largamente differenziate. Naturalmente, i temi di una politica della vita, o, come anche si potrebbe dire, di una «bio-politica», possono essere affrontati avvalendosi di ottiche molto diverse: si possono utilizzare argomenti religiosi, morali, prudenziali (come per esempio quello, sollevato da molte parti, secondo il quale non siamo in grado di prevedere quali possano essere gli effetti a lungo termine,perlosviluppodegli individuiedellaspecie,degli interventi sul patrimonio genetico). Dal punto di vista della filosofia politica, però, le questioni si possono discutere più specificamente in termini di diritti o di divieti: come si legittima il divieto di determinate pratiche ? Perché limitare la «libertà procreativa» delle persone impedendo che essa si avvalga di tutti gli strumentichelatecnicamette a sua disposizione ? Quali nuovi diritti devono essere stabiliti per costruire un quadro di regole legittime entro il quale si possano implementare le nuove possibilità che la tecnologia offre? La radicale novità dei problemi che qui si pongono stanelfattocherispettoaessi i fronti tradizionali del conflittopoliticorisultanoper moltiversiscompaginati,esi pone l’esigenza di costruire quasi da zero un nuovo quadro di diritti e doveri condivisi. I sostenitori di una politica ragionevolmente limitativa o «proibizionista», tra i quali si colloca anche Habermas con la sua polemica contro i «rischi di una genetica liberale»28, adducono argomenti che possono essere formulati in termini di difesa dei diritti degli individui. Discutendo intorno alle possibilità di intervenire sugli embrioni umani modificandone le caratteristiche genetiche, Habermas propone di distinguere tra un’ingegneria genetica di tipo terapeutico e una di tipo «migliorativo»; mentre la prima non sembra implicare una violazione dei diritti degli individui che dagli embrioni si svilupperanno, perché può presumerecheessidarebbero, agli interventi terapeutici, il loroconsenso,perlaseconda le cose non stanno così. Il fatto che qualcuno, per esempio i genitori, possa intervenire sul patrimonio genetico di qualcun altro, magari per favorire lo sviluppo di qualità che al genitore sembrano qualità desiderabili, implica per Habermas una asimmetria di dirittitragliindividui(alcuni possono manipolare altri, ma non viceversa) che è incompatibile con l’eguale rispettochesideveaognuno di essi: «interventi genetici migliorativi compromettono la libertà etica in quanto fissano l’interessato a intenzioni di terze persone (intenzioni che restano irreversibiliancheserifiutate) e gli impediscono di concepirsi come l’autore indivisodellapropriavita»29. Habermas conclude perciò le sue riflessioni, nel saggio Fede e sapere, ponendosi la seguentedomanda:«Ilprimo uomo che determinasse a propria discrezione un altro uomo nella sua costituzione naturale, non distruggerebbe forse anche quelle eguali libertàchesussistonotrapari proprio per assicurare la loro diversità?»30. A partire da considerazionidiquestotipo, o simili, si potrebbe addivenire alla tesi che si debba garantire a ciascuno il dirittoa«un’identitàgenetica non predeterminata da altri (con l’eccezione di alcuni casi, espressamente previsti, di gravi anomalie genetiche), come condizione dell’unicità irripetibile del singolo»31; questo tipo di diritto, da includersi tra i diritti della persona che la nuova situazione richiede, costituirebbe un ostacolo tanto per gli interventi di ingegneria genetica migliorativa, quanto per la clonazione riproduttiva, perchéinquest’ultimocasoil patrimonio genetico dell’individuo è totalmente determinato da colui che decide di produrlo. A proposito della clonazione riproduttiva si è sostenuto anchecheessaviolerebbe«il diritto ad avere un’identità unicaeildirittoall’ignoranza sul proprio futuro (o diritto a un futuro aperto)» 32. Ma in questi termini il divieto sembra meno difendibile, perché il diritto a un’identità unica è qualcosa che già manca ai gemelli monozigoti (e quindi non avrebbe senso sostenere che si tratti di un diritto fondamentale) mentre l’argomentodelfuturoaperto sarebbe valido solo se,.si presupponesse un totale determinismo genetico e si trascurassero tutti gli altri fattori che influenzano lo sviluppo di una persona. Il vero problema, perciò, è quello che nasce dalla violazione di rapporti di reciproco e simmetrico rispetto tra gli individui: il clone è un individuo la cui identità genetica gli è stata imposta da un altro a sua immagine e somiglianza e che quindi subisce le scelte che un altro ha fatto per lui senzapoterleinnessunmodo controllare, e senza potere a sua volta influire sull’altro come l’altro ha influito su di lui; si pone qui un drammatico problema di dirittidell’individuo. È vero che chiunque nasce è portatore di caratteristiche che non ha scelto e che i genitori gli hanno trasmesso ma, nel momento in cui queste diventasserooggettodiscelta, c’è da chiedersi a chi debba essere legittimamente attribuito il potere di esercitare queste opzioni; se l’individuo non può ancora esprimerle, perché i genitori dovrebbero avere questo potere su di lui ? Questo ci porta ancora una volta alla tesi per cui gli interventi legittimi sono solo quelli (chiaramente terapeutici) ai quali si può ragionevolmente supporre che coloro che li subiscono darebbero il loro consenso. Ma allora, si obietta, dovrebbero essere consentite anche tutte quelle manipolazioni genetiche che sono volte chiaramente a migliorareilcorredogenetico degli individui (che ne accrescono per esempio la forza fisica, la memoria, l’intelligenza); nessuno negherebbe ragionevolmente, se fosse in grado di esprimersi, il proprio consenso ad esse. Qui, in effetti, la questione sembra farsi più complicata. Ci sono ad esempio - sostiene Habermas - piccoli difetti fisici che alla fine possono, per le mutevoli circostanze della vita individuale, rivelarsi dei vantaggi; chi si arrogasse il diritto di eliminarli modificherebbe la biografia di qualcun altro in un modo certamente irreversibileechenonèdetto sia positivo. E, più in generale, «si potrebbe insisteresulfattochel’ideadi progettarequalitàdesiderabili percosìdire‘inassoluto’per l’uomo, pecca non tanto per tracotanzaquantopereccesso di superficialità, dato che a nessuno di noi è dato conoscere a fondo la natura umana»33. Macomunquelesivoglia affrontare, si tratta senza dubbio di questioni che pongono problemi inediti e complicati:daunapartec’èil diritto dell’individuo a non essere strumentalizzato da altri; dall’altra l’esigenza insopprimibile per gli uomini di sondare tutte le possibilità per vivere meglio, per allontanare la malattia e la morte. Molto ragionevole sembra in ogni caso l’idea cheogniinterventodebbafar riferimento al consenso almeno presumibile di colui cheneèoggetto;mentrepare assai debole la tesi che vorrebbe lasciare ai genitori tutta la libertà di scelta in materia. Anche in questo caso, l’unico orientamento di fondodalqualesipuòpartire per affrontare terreni inesplorati è l’idea di una complementaritàsinergicadei diritti individuali e della democrazia: per cui a ogni individuo deve essere riconosciuto eguale e simmetrico rispetto, mentre i termini e la concreta normazionediquestirapporti tra cittadini liberi ed eguali nonpossonoesserededottida alcuna norma trascendente, ma debbono essere il frutto del dibattito pubblico libero, paritario e informato tra i cittadinistessi. 1 Maffettone, Sostiene Rawlscit.,p.91.Perlacritica diquestoaspettodelpensiero rawlsiano cfr. anche v. marzocchi, Tre strategie di composizione del pluralismo normativo : tradizione, consenso per intersezione, discorso, in « Filosofia e questioni pubbliche», I (1995), n. 1, pp. 93-111 ; ripubblicato in Per un'etica pubblica. Giustificare la democrazia, Liguori, Napoli 2000. 2Questacriticaèmossa a Habermas da K.-O.apel in Discorso, verità, responsabilità,trad.it.acura di V. Marzocchi, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 291sgg.SulpensierodiApel cfr. il volume dello stesso marzocchi, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia diK.-O.Apel,Liguori,Napoli 2001. 3K.-O.apel, Comunità e comunicazione, trad. it. Rosenberg & Sellier, Torino 1977,p.260. 4 G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, EdizionidiComunità,Milano 1977,p.358. 5 Nel suo Contro il governo dei peggiori. Una grammaticadellademocrazia (Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 40-41) Michelangelo Bovero sostiene una tesi simile: diritti di libertà e alcuni diritti sociali sono precondizioni in mancanza delle quali la democrazia rischia di trasformarsi in democraziaapparente. 6 Un’idea che, limitatamente alla diade libertà/giustizia, è stata ampiamente sviluppata nel liberalsocialismo; si veda per esempio, di G. Calogero, Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1968; ora opportunamente ripubblicato, con una utile introduzione di Thomas Casadei, presso Diabasis, ReggioEmilia2001. 7 Habermas, Fatti e normecit.,p.373. 8 Cfr. il testo di M. nussbaum,Giustiziasocialee dignità umana, trad. it. il Mulino,Bologna2002,pp.74 sgg. dove l’autrice propone anche una lista ragionata di questi funzionamenti fondamentali. 9 j. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001) ttad. it. a cura di L. Ceppa,Einaudi,Torino2002, p. 65. Ho evidenziato alcune espressioniincorsivo,perché smentiscono assai efficacemente quanti attribuisconoaHabermasuna visione irenica o pacificata dellasocietàincuiviviamo. 10 Su egemonia, agile politicoedemocraziasilegga il saggio di M. reale, La fragilità della democrazia vincente, in aa.vv., Per un nuovo vocabolario della politica, a cura di L. Capuccelli, Editori Riuniti, Roma1992,pp.155-75. 11 M. horkheimer e th. w. adorno,Dialetticadell’illuminismo (1947), trad. it. Einaudi, Torino 1997,pp.272-73. 12 Tra gli innumerevoli libri che affrontano questo tema ci limitiamo a segnalarneunoperl’originale approccio filosofico che lo contraddistingue: Filosofie della globalizzazione, a cura di D. D’Andrea e E. Pulcini, EdizioniETS,Pisa2001. 13 Per un ricco confronto tra autori prevalentemente di lingua francese intorno al temadellamondialisationcfr. il n. 20 (secondo semestre 2002) della «Revue du Mauss», dal titolo Quelle ‘autremondialisation’?. 14Cfr.aquestoproposito G. marramao, Dopo il Leviatano, Giappichelli, Torino 1995, ora riedito da BollatiBoringhieri. 15 Trad. it. Meltemi, Roma2001. 16 Su questo tema attira l’attenzionedatempoEtienne Balibar; cfr. per esempio il suo ultimo libro, Nous, citoyens d’Europe? Les frontières, l’Etat, le peuple, LaDécouverte,Paris2001. 17 J. Habermas, La costellazione postnazionale (1998), trad. it. Feltrinelli, Milano1999,p.98. 18Ibid. 19 Cfr. Rawls, II diritto deipopolicit. 20 Per un pacato ragionamento su questi temi si veda il volume del presidente della repubblica islamicadell’Iranmohammad khatami, Religione, libertà e democrazia, trad. it. Laterza, Roma-Bari1999. 21 J. Habermas, L’inclusione dell’altro (1996), trad. it. Feltrinelli, Milano1998,p.227. 22 s. EISENSTADT, Fondamentalismo e modernità, Laterza, RomaBari 1994; in proposito si legga l’articolo di c. pasquinelli, Fondamentalismi, in «Parole chiave», 1993, n. 3 (dedicato monograficamente a questo tema). 23 Cfr. per esempio A. sen, La ricchezza della ragione. Denaro, valori, identità, trad. it. il Mulino, Bologna2000,pp.insgg. 24 M. Hussein, Venante Sud della libertà, trad. it. manifestolibri, Roma 1994, P-94· 25 Su questo tema, partendodaunaimpostazione rawlsiana ma andando molto oltre Rawls, ha scritto cose assai interessanti Thomas Pogge. 26 Qui si dovrebbe aprire il discorso intorno al tema della «democrazia cosmopolitica», a proposito del quale si vedano i molti scritti di David Held e DanieleArchibugi. 27 HABERMAS, La costellazione postnazionale cit.,p.100. 28 Habermas, II futuro dellanaturaumanacit. 29Ibid.,p.64, 30Ibid.,p.112. 31m.ToraldoDIFrancia, La sfida delle biotecnologie: ricerca scientifica, mutamento culturale, nuovi scenari per l’etica, nel numero monografico di «Parole chiave» dedicato alle Biotecnologie(n.17,1998,p. 47-70). 32 Su questi diritti, con riferimentoaglistudidiD.w. brock, si sofferma per sottoporli a critica s. pollo nell’articolo Libertà procreativa e clonazione, nel numero succitato di «Parole chiave»,pp.157-66. 33 s. Maffettone, Genetica, in Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzomillennio,IlSaggiatore, Milano 2001, pp. 131-61, in particolarep.156. Lettureconsigliate Indichiamo qui di seguito una serie di letture che possono essere utili per un approfondimento dei temi toccatinelvolume. 1.Operegeneralisulla filosofia politica e la storia delpensieropolitico. CHEVALIER,J.-J. 1979 Storia del pensiero politico, trad. it. il Mulino, Bologna1989,3voll. ESPOSITO R. E GALLI C. (A CURADI) 2000 Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Roma-Bari. GALLIc.(acuradi) 2001Manualedistoria del pensiero politico, il Mulino,Bologna. MAFFETTONE, s. e VECA s. (acuradi) 1996Manualedifilosofia politica,Donzelli,Roma. 20013 L’idea di giustizia da Platone a Rawls, Laterza, Roma-Bari. SABINE,G.H. 19613 Storia delle dottrine politiche, trad. it. EtasLibri,Milano19782. VECAs. 1998 La filosofia politica,Laterza,Roma-Bari. 2. Testi su momenti o autori della storia della filosofia politica, in ordine cronologicoperargomenti. SINCLAIR,TH.A. 1951 II pensiero politico classico, trad. it. Laterza, Roma-Bari1993. WOLIN,S.S. 1960 Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensieropoliticooccidentale, trad. it. il Mulino, Bologna 1996. GASTALDI,S. 1999 Storia del pensiero politico antico, Laterza,Roma-Bari. ISNARDIPARENTE,M. 1999 II pensiero politico di Platone, Laterza, Roma-Bari. BERTI,E. 1997 II pensiero politico di Aristotele, Laterza, RomaBari. BIEN,G. 1973 La filosofia politica di Aristotele, trad. it. il Mulino,Bologna1985. CARLYLE, R. W. e CARLYLE,A.J. 1922-36 II pensiero politico medievale, 6 voli., trad. it. Laterza, Bari 19561968. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI,M.T. 2000 II pensiero politico medioevale, Laterza, Roma-Bari. MESNARD,P. 1963-64 Il pensiero politico rinascimentale, 2 voli., a cura di L. Firpo, Laterza,Roma-Bari. 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Carter,Ian,170n,222n. Casadei,Thomas,248n. Cavarero, Adriana, 234 e n,237n. Ceppa,Leonardo,253n. Cicerone, Marco Tullio, 58,59,63. Clausewitz, Carl von, 23. distene,34. Constant, Benjamin, 24 e n, 125, 128, 129 n, 130-34, 135 e n, 136, 137, 139, 141, 151,159,160175n,180en, 248. Conze,Werner,195n. Cornford, Francis Macdonald,39n, Berlin,Isaiah,22en,170 en,171-173-. Bernstein, Eduard, 188 e n. Beveridge, sir William, 190. Bidet, Jacques, 127, 211 n. Bien,Günther,48n. Bobbio, Norberto, 6n, nen,12n,94,100n,118en, 170en,171n,176n,181n, 195,196n,227. Boitani,Andrea,200n. BonifacioVIII,73,74. Bovero,Michelangelo,11 n,170n,183n,248n. Bravo,GianMario,185n, 186n. Brock,DanielW.,266n. Costa, Paolo, 217 n, 236 n. Costantino, Flavio Valerio,62,63 Cotta,Gabriella,76n. Croce, Benedetto, 20 e n, 135n176en. Cubeddu, Raimondo, 175 n,176n177en. Cunningham, Frank, 195n,201202en. Dahl, Robert Alan, 194 e n, 200 201 e n, 202, 203 n, 245. D’AndreaDimitri,256n. DanteAlighieri,72,73. DeCaro,Mario,169n. Defoe,Daniel,77. De Luca, Stefano, 129 n, 134n,135n. Derrida,Jacques,235· De Ruggiero, Guido, 175 n. Dewey, John, 201 e n, 202en,203en,227. D’Orsi,Angelo,170n. Downs,Anthony,200en. Droetto,Antonio,89n. Dworkin, Ronald, 175 n, 190.14,118n,128,135,150, 151,152en,153-58. Heidegger, Martin, 27, 235. Held, David, 195 n, 262 n. Hobbes, Thomas, 11, 18, 49,76,77,79en,80,81en, 82-87,88en,89-94,95n99, 103,104,108,110,113,115, 125,170en,171,207. Hobhouse, Leonard Trelawny,183. Hofmann,Etienne,129n. Einaudi,Luigi,176en. Eisenstadt, Shmuel Noah, 261en. Engels, Friedrich, 159 n, 161en,162n,187,188. Enrico IV di Germania, 67. Enrico VII di Lussemburgo,73. Esposito, Roberto, 23 n, 230n. FedericoIIdiSvevia,68. Ferrara, Alessandro, IX, 30n,218. Filippo IV di Francia, dettoilBello,73.74· Filmer,Robert,92. Fioravanti, Maurizio, 182 n. Foucault, Michel, 6, 229, 230,231en,232,235. Freud, Sigmund, 233, 235. Galeotti, Anna Elisabetta, 235n,238n. GesùCristo,61,62,67. Giancotti Boscherini, Emilia,89n. Gilligan, Carol, 235, 236 en,237,239. Holbach, Paul Henri Dietrich (Thiry), baron d’, 129. Honneth,Axel,150n. Horkheimer, Max, 254, 255en. Huntington,Samuel,261. Hussein, Mahmoud, 262 n. Ildebrando di Soana vedi GregorioVII. InnocenzoIV,68. Irigaray,Luce,233,235. Isnardi Parente, Margherita,47n. Kant, Immanuel, 24 e n, 77,101,113,114en,115en, 116,117en,118en,119en, 120, 121 en, 122, 123, 145, 182,206,217. Kelsen, Hans, 193 e n, 196en,197-199. Khatami, Mohammad, 260n. Kohlberg,Lawrence,235, 236. Koselleck, Reinhart, 195 n. Kymlicka, Will, 206 n, 207n. Gilmore,MyronPiper,22 n. Glaucone,40. GiovanniXII,67. Gonnelli,Filippo,114n. Gouges,Olympede,233. Gray, John, 173 e n, 175 n,178. Greblo,Edoardo,195n. GregorioMagno,67. GregorioVII,67. Grillo,Michele,200n. Grazio,Ugo,95,108. GuglielmodiOckam,74. Habermas,Jürgen,29,30, 224 e n, 225-29, 235, 241, 242en,243,246,247,249e n,250,252,253n,254,259e n, 261 e n, 263 n, 264 e n, 265,267. Hayek,Friedrichvon,14, 175n,178,179,183,214. 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Pogge,Thomas,262n. Pollo,Simone,266n. Portinaro, Pier Paolo, 17 n,175n. ProtagoradiAbdera,35. Proudhon, Pierre-Joseph, 186en. Maier,Hans,195n. Manacorda, Gastone, 185 n. Mandeville, Bernard de, 152. Mann,Thomas,23n. Marco Aurelio Antonino, 58. Marini,Giuliano,155n. Marramao, Giacomo, 256 n. Marsilio da Padova, 73, 76. Marx,Karl,6,14,18,77, 98, 113, 128, 135, 155-58, 159en,160,161en,162en, 163,184,186en,187,188e n,189,191. Marzocchi, Virginio, 242 n. Matteucci,Nicola,6n. Meier,Christian,195n. Pufendorf, Samuel, 95, 109. Pulcini, Elena, 141n, 256 n. Rawls, John, 12, 14, 99, 177,178,182,183,190,192, 205 e n, 206, 207, 208 e n, 209, 210, 211 e n, 212,213,214en, 216, 217, 220, 221 e n, 229, 235, 238, 241-43, 246, 247, 250, 252, 253,260en,262n. Raynaud,Philippe,184n. Reale,Mario,ix,80n,86 n, 87 n, 88 n, 103 n, 111 n, 113 n, 126n, 135 n, 202 n, 254n. Reimann, Hans Leo, 195 n. Micheli,Gianni,79n. Mill,James,143. Mill,JohnStuart,142-44, 145en,146-49,182,249. MollerOkin,Susan238e n,239en. Montesquieu, Charles de Secondât, baron de La Brède etde,130,171n,181,182n. Moro,Tommaso,14. Mosca,Gaetano,198. Müntzer,Thomas,75. Mura,Virgilio,183n. Napoleone Bonaparte, 128. Neumann,Franz,182n. Nietzsche, Friedrich, 39, 40,232. Nozick,Robert,177,179, 183, 205, 214 e n, 215, 216, 238. Nussbaum,Martha,223e n,251n. Restaino,Franco,234n. Riais,Stéphane,184n. Ricardo,David,143. Ricciardi,Mario,170n. Rifkin,Jeremy,257. Ritter,Gehrard,20en. Robespierre, Maximilien MarieIsidorede,160. Rodano,Giorgio,200n. Roemer,John,190,191e n,192. Roosevelt, Franklin Delano,190. Rosati,Massimo,236n. Rosselli,Carlo,183. Rothbard,Murray,177n. Rousseau, Jean-Jacques, 86, 88, 102, 103 e n, 104-7, 108 e n, 109-14, 128, 129, 160, 171, 172 n, 173, 193, 206,225. OttoneIdiGermania,67. Ottone II di Germania, 67. PaolodiTarso,61,63. Pareto,Vilfredo,198. Pasquinelli,Carla,261n. Pauncz, Alessandra, 238 n. Salvatore, Ingrid, 210 n, 236n,237n,238n. Sandel,Michael,217en, 218-20. Sartori,Franco,38n. Sartori, Giovanni, 167 e n,176,177n,200en. Sasso, Gennaro, 16 n, 18 n,22n. Sbarberi,Franco,183n. Schmitt, Carl, 23, 229, 254. Schumpeter, Joseph Alois,198en,199,201. Sellin,Volker,33n. Sen, Amartya, 220, 221, 222en,223,248,250,261e n. Seneca,LucioAnneo,58. Skinner,Quentin,22en. Smith,Adam,99,152. Socrate,36,38,39,134. Solari,Paolo,176n. Spinoza,Baruch,88,89e n,90,91,251. Staël, Germaine Necker, Madamede,125,251. Strauss, Leo, 7, 8 n, 10 e n. Syntomer,Yves,228n. Taboni,PierFranco,8n. Tagliapietra, Andrea, 24 n. Taylor, Charles, 217 e n, 219. Testa,Italo,236n. Thomas, Jean-Paul, 184 n. Tocqueville, Alexis de, 126,136,137en,138,139e n,140,141en,142en,144, 147,190, Tommaso d’Aquino, 68, 70,71,76. Toraldo di Francia, Monica,265n. Trasimaco di Calcedone, 35,39,40. Trincia, Francesco Saverio,186n. Tucidide,17,35en. Van Parijs, Philippe, 179 en,180,192en. Veca, Salvatore, 209 n, 222n. Vernant,Jean-Pierre,15e n,34en. Viroli,Maurizio,22n. Wartender, Howard, 87 e n. Weber,Max,6en,7,16, 17en,18en,23,24en,25. Weil,Simone,23,229. Wolin, Sheldon, 19 e n, 38en,48n. Wollstonecraft, Mary, 233. Zadro,Attilio,37n. Zanatta,Marcello,47n. Zanfarino, Antonio, 135 n. Zolo,Danilo,200en.