Nemmeno l`austerità flessibile può funzionare Occorre una

Nota
(18 novembre 2014)
Nemmeno l’austerità flessibile può funzionare
Occorre una vera politica espansiva
Tutte le ultime previsioni macroeconomiche indicano l’Europa e, in particolare l’Eurozona,
come l’area economica che continua a crescere di meno al mondo. L’Europa, purtroppo,
non è ancora fuori dalla crisi. Rappresentando ancora la più grande area produttiva e
commerciale del pianeta, il Vecchio continente può e deve tornare a crescere, deve
recuperare l’obiettivo della piena e buona occupazione, deve rilanciare il “modello sociale
europeo” e svolgere così un ruolo fondamentale nella soluzione della crisi globale. Anche
per questo nell’ultimo G-20 a Brisbane le politiche di austerità sono state fortemente
criticate e isolate, dichiarando che l'emergenza per l'intero pianeta resta la crescita e la
creazione di posti di lavoro.
Nonostante la crescente letteratura, i tratti strutturali della crisi globale non sono ancora
stati elaborati e affrontati a livello istituzionale, in ambito nazionale e internazionale
(compresi i vertici «G»), né come crisi di domanda, né come crisi del modello di sviluppo,
né come crisi del pensiero economico dominante. Tuttavia, dal 2008 a oggi, sono state
messe in campo politiche economiche molto differenti nelle maggiori economie avanzate.
Negli Stati Uniti e in Giappone sono state realizzate politiche monetarie, fiscali ed
economiche a sostegno della crescita e dell’occupazione; mentre nell’Area euro sono
state perseguite politiche di controllo dei conti pubblici e dell’inflazione. Da un lato,
dunque, si è scelto di contrastare recessione e disoccupazione, allentando vincoli
monetari, di finanza pubblica e controllo dei prezzi; dall’altro, invece, si è scelto di
controllare deficit e debiti pubblici contro le speculazioni finanziarie e la stabilità dei prezzi
per mantenere le “ragioni di scambio” dei paesi esportatori. In poche parole, gli Stati Uniti
di Barack Obama e il Giappone di Shinzō Abe hanno affrontato la crisi – pur con le dovute
differenze – attraverso politiche espansive, a vantaggio dell’economia reale, del lavoro e
della società; nell’Area euro sono stati difesi i grandi capitali finanziari, i creditori dei debiti
sovrani e i vantaggi competitivi dei paesi più mercantilisti, a scapito dell’economia reale
(praticamente di tutti gli altri), del lavoro e della società, aggravando ulteriormente la crisi.
1
I risultati delle diverse politiche economiche possono essere espressi attraverso alcune
relazioni fra variabili macroeconomiche1.
La prima relazione evidenzia il nesso tra austerità e crescita: più è aumentata in modo
iniquo la pressione fiscale o tagliata la spesa pubblica, per contenere l’indebitamento netto
della P.A. (o deficit) e il debito pubblico (nell’Area euro e, con essa, in Italia), e più intensa
è stata la recessione; viceversa, meno è stata prestata attenzione al deficit e maggiore è
stata la crescita del PIL in questi anni di crisi.
PIL e deficit pubblico (in % del PIL), media annua 2009-2014
1,5
USA
1,0
0,5
PIL
Giappone
0,0
-10,0
-9,0
-8,0
-7,0
-6,0
-5,0
-4,0
-3,0
Area Euro
-0,5
R=-0,356
-1,0
Italia
-1,5
Deficit/PIL
Fonte: FMI, World Economic Outlook (ottobre 2014).
Tra il 2009 e il 2014 negli USA portando il deficit mediamente sopra il -9% è stata
raggiunta una crescita media annua dell’1,3%. Nei paesi dell’Area euro le politiche di
austerità hanno trattenuto il deficit pubblico in rapporto al PIL mediamente attorno al -4,2%
(-3,7% in Italia) generando una perdita annua di PIL reale mediamente del -0,2% (-1,3% in
Italia). In questo modo, quindi, non è stato possibile nemmeno risanare i conti pubblici,
perché l’effetto dell’austerità si è riversato sullo stesso denominatore del rapporto
1
Le relazioni tra variabili macroeconomiche qui elaborate sono tutte riconducibili alla scuola di pensiero economico
keynesiano. Cfr. P. Tridico, 07 novembre 2014, “USA, Giappone, Europa: politiche economiche alternative a confronto”,
www.economiaepolitica.it.
2
deficit/PIL. Non è stato possibile rispettare nemmeno i parametri dettati dagli stessi Trattati
europei a cui si è ispirata l’euro-austerità. Inoltre, la caduta della domanda effettiva,
causata dalla flessione dell’occupazione e dei redditi, ha diminuito ulteriormente le entrate
fiscali.
Non a caso il debito pubblico ha continuato ad aumentare ovunque, anche se negli USA
(dal 72,8% del PIL nel 2008 al 105,6% nel 2014) e in Giappone (dal 191,8% al 245,1% del
PIL in sei anni) è stato utilizzato per misure espansive; al contrario nell’Eurozona (dal
70,3% del PIL nel 2008 al 96,4% nel 2014) l’incremento è dovuto a misure recessive e
depressive. L’Italia, pur avendo un elevato debito pubblico già prima della crisi, ha
registrato un aumento inferiore alla media dei paesi dell’Euro (dal 106,1% del PIL nel 2008
al 136,7% nel 2014). Sebbene gli attacchi speculativi sul nostro debito sovrano abbiano
concentrato l’attenzione politica e mediatica sullo spread e sulle finanze pubbliche, il modo
migliore per arginarne il rischio di insolvenza, aumentarne la sostenibilità ed evitare la
spirale recessiva-depressiva-deflattiva sarebbe dovuto essere sin dall’inizio quello di
scommettere quei 28,8 punti di PIL sulla crescita, cioè su investimenti, occupazione e
salari.
Allo stesso modo, confrontando l’inflazione con il tasso di disoccupazione2 nel 2014
emerge la divergenza tra le politiche monetarie restrittive e quelle espansive. Con la
politica economica nota come “Abenomics”, il Giappone ha praticato misure monetarie
espansive per contrastare la crisi e il lungo periodo di stagnazione e deflazione. La Bank
of Japan (BOJ) ha fissato tassi di inflazione ben sopra il 2% (al 2014, è prevista al 2,7%),
riportando il tasso di disoccupazione al 3,7%. Negli Stati Uniti, il contenimento della
disoccupazione è stato un tema centrale del dibattito pubblico e della politica economica,
al contrario del contenimento dei prezzi. Grazie alla forte politica di quantitative easing
della FED, il tasso di disoccupazione USA è tornato a livelli pre-crisi (6,3%) e l’indice dei
2
La cosiddetta Curva di Phillips esprime l'esplicita relazione tra inflazione e disoccupazione: allorché l'inflazione risulta
elevata, la disoccupazione diviene modesta (e viceversa). Un'implicazione di questa conclusione per la politica
economica sarebbe stata che i governi avrebbero potuto controllare inflazione e disoccupazione, tramite una politica
keynesiana, dovendo semplicemente risolvere un problema di trade-off tra i due obiettivi della politica economica,
scegliendo un punto sulla curva dove posizionare il sistema economico. Tuttavia nel 1970, molte economie avanzate
sperimentarono contemporaneamente elevati livelli di inflazione e disoccupazione (fenomeno noto con il termine di
“stagflazione”), esponendo la teoria della Curva di Phillips agli attacchi dei liberisti (più precisamente dei monetaristi,
capitanati da Milton Friedman). Di conseguenza, l'idea che sussistesse una relazione semplice, prevedibile e persistente
tra inflazione e disoccupazione fu trascurata fino a oggi, in cui la nuova «grande crisi» ripropone l’attualità della Curva di
Phillips. In ogni caso, nuove teorie, basate soprattutto sul concetto di “aspettative razionali”, sono nate per cercare di
spiegare la stagflazione.
In particolare, il NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment), oggetto della teoria del livello “naturale” di
disoccupazione, definisce nel lungo periodo il tasso di disoccupazione oltre il quale l’inflazione aumenta senza
sospingere l’occupazione. Il NAIRU viene attualmente utilizzato per calcolare il livello dell’output gap, cioè della distanza
tra PIL reale e PIL potenziale di un paese, su cui si misura l’andamento “strutturale” del deficit e del debito pubblico (cioè
al netto della cosiddetta “componente ciclica” dovuta alla sfavorevole congiuntura negativa), in ragione dei vincoli del
Fiscal Compact: in sintesi, più risulta alta la disoccupazione “naturale”, meno è ampio l’output gap e più diventa difficile
rispettare i parametri europei. Per questo si è acceso in Europa un forte dibattito sulla determinazione del NAIRU. Per
quanto riguarda il NAIRU italiano, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione sulla base dei rapporti di forza
internazionali e, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione, è stato rideterminato il NAIRU
verso l’alto, provocando una riduzione nel tasso di crescita del PIL potenziale dell’Italia e, a sua volta, un più contenuto
valore dell’output gap e della componente ciclica, con effetti negativi sul calcolo dei saldi di bilancio in termini strutturali.
In altre parole, l’apparente scelta “tecnica” disvela l’obiettivo politico di controllare l’inflazione mantenendo il tasso di
disoccupazione molto alto. Vi è una riprova nella “quadro macroeconomico programmatico” del Governo descritto nella
Nota di aggiornamento del DEF2014, in cui è previsto l’obiettivo di un tasso di disoccupazione pari all’11,2% al 2018,
ben lontano dai livelli pre-crisi (nel 2007 era il 6,7%).
3
prezzi oscilla attorno al 2%. Producendo inflazione, peraltro, si riduce il livello reale del
debito pubblico e, aumentando il PIL nominale, diventano più sostenibili le finanze
pubbliche.
Inflazione e disoccupazione, previsione 2014
3,0
Giappone
2,5
Inflazione
2,0
USA
1,5
1,0
0,5
Area Euro
Italia
0,0
3,0
-0,5
5,0
7,0
9,0
11,0
13,0
15,0
Tasso di disoccupazione
Fonte: FMI, World Economic Outlook (ottobre 2014).
Nell’Unione Europea, invece, il governo dell’inflazione ha dominato le politiche monetarie e
fiscali della BCE, conducendo, paradossalmente, alla deflazione e al rischio di una lunga
stagnazione nell’Area Euro. Emblematico il caso italiano, in cui l’inflazione stimata per il
2014 è lo 0,1% e il tasso di disoccupazione aumenta al 12,6%. Le istituzioni economiche e
monetarie europee hanno mantenuto i tassi di interesse relativamente più elevati e, solo di
recente, in vista della deflazione e della svalutazione dell’Euro, sono state annunciate
politiche monetarie «non convenzionali». La CGIL ritiene ormai indispensabile l’acquisto
da parte della BCE di titoli di debito sovrano degli stati in difficoltà per arginare la il rischio
della deflazione. Certo, se l’Europa, sin dall’inizio della crisi, avesse proceduto – come la
FED o la BOJ – alla mutualizzazione del debito pubblico in eccesso, si sarebbero potute
politiche espansive finanziando nuovi investimenti produttivi, come proposto anche dalla
CES3.
3
Dieci anni di rilancio degli investimenti, in cui si chiede agli Stati membri di destinare il 2% del PIL al finanziamento del
piano: duecentocinquanta miliardi di euro l'anno, per un grande processo di reindustrializzazione dell'Europa (anche
4
La stessa relazione inversa che sussiste fra inflazione e disoccupazione può essere
riscontrata fra inflazione e deficit, oppure fra disoccupazione e deficit.
Va, comunque, precisato che l’aumento della base monetaria agisce in modo pro-ciclico,
ovvero soprattutto sul versante dell’offerta e l’aumento della liquidità nel sistema
finanziario non è detto che comporti un aumento della liquidità nel sistema economico e
produttivo e, ancor meno, che questo si traduca in nuova domanda aggregata. Non a caso
il Giappone ha registrato una nuova «recessione tecnica» (variazione congiunturale del
PIL nel terzo trimestre 2014 pari a -0,4%, dopo il -1,9% del secondo trimestre),
ridimensionando le previsioni in corso d’anno, anche se non aumenta la disoccupazione.
In questa fase, in presenza di basse aspettative di imprese e consumatori, per indurre un
aumento dei prezzi è più opportuno intervenire con misure anti-cicliche, direttamente sulla
domanda. Creare lavoro, aumentare gli investimenti pubblici e i consumi collettivi
rappresentano il modo migliore per uscire dalla crisi e ritrovare un sentiero di crescita e di
sviluppo.
Le politiche di austerità allontanano la ripresa aggravando la crisi di domanda e non
risolvono nemmeno i nodi strutturali dell’economia, nemmeno sul versante dell’offerta, su
cui si concentrano le cosiddette “riforme strutturali”. L’inseguimento della competitività da
costi tramite svalutazione del lavoro e deflazione salariale contribuisce drammaticamente
alla riduzione della dimensione dell’economia nazionale e dell’occupazione, distruggendo
capacità produttiva e potenziali di crescita e sviluppo. Non esiste recupero della
produttività senza un aumento della domanda effettiva4, cioè senza nuova occupazione,
nuovi redditi da lavoro, nuovi investimenti e nuovi consumi, individuali e collettivi.
Il PIL pro-capite reale è definito come misura approssimativa del reddito che un paese
produce e rende mediamente disponibile a ogni abitante, ma costituisce anche una misura
della produttività rappresentativa – soprattutto nei confronti internazionali – del sistema
economico e produttivo, incorporando matematicamente il numero di lavoratori impiegati
nel processo e, contemporaneamente, il numero di ore rese necessarie ai questi lavoratori
per produrre tale volume di prodotto, oltre alle altre principali variabili socio-demografiche,
istituzionali e tecnologiche5 e all’inflazione.
utilizzando i fondi europei dell’Industrial Compact o per lo Sviluppo e la Coesione), di specializzazione del suo apparato
produttivo, di riconversione in senso sostenibile dell'industria pesante, di interventi sulle reti infrastrutturali, di rilancio
dell'informatica e delle tecnologie per le comunicazioni, di trasformazione del modello energetico e delle fonti di
produzione, di riqualificazione professionale dei lavoratori europei. Un piano sostenuto anche da interventi mirati sulla
tassazione (dalla Tassa sulle transazioni finanziarie a livello internazionale all’introduzione di una nuova imposizione
patrimoniale a livello nazionale), per reperire le risorse necessarie a sostenere il peso degli interessi di obbligazioni e
titoli emessi nell'ambito della gestione finanziaria del piano. http://www.etuc.org/new-path-europe
4
Dal punto di vista teorico ci si può riferire alla Legge di Kaldor-Verdoorn, che mette in relazione la crescita della
produttività – la cui debolezza rappresenta uno degli elementi strutturali che hanno caratterizzato il declino della nostra
economia negli anni pre-crisi – con la crescita dell’output, individuando in quest’ultima la variabile indipendente.
Interpretata dal lato della domanda, la legge afferma che la crescita della produttività è indotta dalla crescita della
domanda aggregata e, in particolare, dalla domanda interna.
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Il PIL pro-capite può essere espresso dalla seguente equazione: Y/Pop = Y/H * H/E * E/L * L/P15 * P15/Pop, dove Y =
reddito nazionale o PIL reale; Pop = popolazione residente; H = ore lavorate; E = occupati; L = forza lavoro; P15 =
popolazione attiva. Le determinanti della produttività sono, perciò, riconducibili a variabili socio-demografiche (tasso di
fecondità, invecchiamento della popolazione, incidenza della popolazione straniera, popolazione attiva, tasso di
partecipazione, tasso di inattività, livello di occupazione e disoccupazione, ecc.); variabili istituzionali (regolazione del
5
PIL pro-capite e domanda interna prima e durante la crisi, variazione media annua
Fonte: FMI, World Economic Outlook (ottobre 2014).
Prima della crisi, gli Stati Uniti registravano un tasso medio annuo del PIL pro-capite reale
del 2,1% in corrispondenza di una crescita annua della domanda interna del 3,6%. In
Giappone la domanda nazionale cresceva mediamente dello 0,8% per una crescita della
produttività reale di appena l’1%. Nell’Area euro ad una variazione media annua della
domanda interna del 2,2% (in Italia 1,8%) si accompagnava una crescita media annua del
PIL pro-capite reale dell’1,8% (in Italia 1,4%). Dal 2008 la domanda interna americana è
cresciuta mediamente solo dello 0,8%, consentendo però una crescita del PIL pro-capite
reale dello 0,4%; a differenza dell’Eurozona, dove alla flessione media annua della
domanda interna del -0,5% (in Italia -1,7%) ha corrisposto la caduta della produttività
media del -0,4% l’anno (in Italia -1,7%). Il Giappone recupera posizioni e, anche nella crisi,
sostiene la domanda nazionale che cresce mediamente lo 0,5% ogni anno sollevando
dello 0,3% l’anno la crescita del PIL pro-capite.
lavoro, grado di copertura della contrattazione e tasso di sindacalizzazione, grado di estensione del welfare, politiche
attive e ammortizzatori sociali, sistema fiscale, livello di responsabilità sociale delle imprese, infrastrutture, capitale
sociale, ecc.); variabili tecnologiche e produttive (capitale umano, diffusione dell’ICT, investimenti in ricerca e
innovazione, propensione all’internazionalizzazione, ecc.).
Anche qui, dal punto di vista teorico, la scomposizione matematica del PIL pro-capite rinvia alla Legge di Okun, legge
empirica di matrice keynesiana che associa ad ogni punto aggiuntivo di disoccupazione ciclica (differenza tra tasso di
disoccupazione naturale e disoccupazione totale), 2 punti percentuali di gap di produzione: se nell’equazione
precedentemente illustrata, teniamo costanti il tasso di attività (L/P = L/P15 * P15/Pop) ed il reddito (Y), sapendo che la
popolazione (Pop) e il tasso di unità di prodotto per occupato (Y/E = Y/H * H/E) crescono nel tempo, ne scaturisce che il
tasso di disoccupazione aumenta. Pertanto, la politica economica dovrebbe far aumentare il reddito e il tasso di attività
nella stessa misura della popolazione e del prodotto unitario per occupato, favorendo così una diminuzione della
disoccupazione nel lungo periodo. La legge tiene conto anche del fatto che le variazioni di produzione influiscono in
modo meno che proporzionale sulla disoccupazione (in quanto a fronte di una crescita della domanda, le imprese
preferiscono chiedere ai loro dipendenti più ore di lavoro piuttosto che assumere nuova manodopera e viceversa) ed è
possibile che parte dei nuovi assunti non siano ufficialmente previsti nella forza lavoro (essendo classificati come
lavoratori “scoraggiati” o inattivi). La Legge di Okun traduce in cifre l'insegnamento keynesiano, evidenziando la
proporzione tra l’obiettivo di aumento dell'occupazione e l’aumento della produzione necessario, ottenibile soltanto
attraverso la domanda pubblica, ossia tramite regolazione e aumento della spesa pubblica, soprattutto in periodi di crisi.
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Appare ormai evidente che la tesi della cosiddetta «austerità espansiva» non ha
funzionato. Anzi, ha peggiorato la situazione. Solo negli ultimi mesi, al settimo anno di
crisi, di fronte alla deflazione e all’aggravamento della situazione provocato proprio dalle
politiche economiche sbagliate, la governance economica europea propone di moderare il
rigore con alcune misure espansive. Ma non si possono conciliare austerità e crescita.
Ogni leva monetaria o fiscale espansiva viene annullata dalle misure economiche
all’insegna dell’austerità e, anzi, l’effetto finale è addirittura negativo e controproducente.
Nemmeno la cosiddetta «austerità flessibile», perciò, basterà a risolvere la crisi e a
salvare l’Europa.
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