n° 35 Marzo Giugno 2012 - Teatro Stabile di Genova

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ANNO XII | NUMERO 35 | MARZO | GIUGNO 2012
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La scuola delle mogli
Molière e il Teatro
Giovanni Raboni
La scuola delle mogli
Marco Sciaccaluga
La “querelle”
Ciò che vide il maggiordomo Ciò che vide il maggiordomo Ospitalità
Arthur Burke
Giorgio Gallione
Spettacoli ospiti
Diario di Orton
Biografia Orton
alla Corte e al Duse
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Rassegna Mises
Intorno al testo
Hellzapoppin
Le Grandi Parole
I Dialoghi di Platone
Programma
Enrico V
Alla Corte, “La scuola delle mogli” di Molière e, al Duse, “Ciò che vide il maggiord o m o ” d i J o e O r t o n
RIDERE CHE EMOZIONE!
Giunta ormai a tre quarti del suo percorso anche questa stagione 20112012 si dimostra felicemente riuscita, con un aumento contenuto ma
molto significativo del numero degli spettatori in relazione allo scorso anno. Andamento felice e significativo soprattutto perché conseguito in un momento di oggettiva,
generale difficoltà, e che sta ancora
una volta a significare una considerazione anche in altre occasioni verificata: che la cultura nelle sue declinazioni più diverse, proprio nei
momenti di crisi riesce a proporsi
quale riferimento, sostegno, appoggio, e che a lei le persone si rivolgono per trovare una sponda dai valori forti. E questa considerazione da
sola basta a rendere per noi importanti le occasioni di incontro che il
nostro lavoro ha con il pubblico.
Anche pensando al momento che
attraversiamo, nella stagione in
corso siamo stati attenti a non caricare di toni troppo scuri le nostre
proposte, e abbiamo privilegiato il
comico e il riso, ineguagliabili lenti
di ingrandimento sulla società e
sulle sue storture.
Su questa linea abbiamo prodotto
Moscheta di Ruzante, Don Giovanni di Molière con la Compagnia Gank, e collaborato a Tinello
italiano di Altan prodotto dall’Archivolto. Su questa linea continuiamo adesso proponendovi un
capolavoro assoluto del teatro comico di tutti i tempi, La scuola
delle mogli di Molière e, sempre
in coproduzione con l’Archivolto
(Compagnia a noi fortemente legata per origine e affinità), una
pagina di grande satira contemporanea qual è Ciò che vide il maggiordomo dell’inglese Orton.
Per restituire tutta la forza comica
e di critica sociale delle pagine di
Molière la regia di Marco Sciaccaluga ha spostato la vicenda in un
ambiente piccolo borghese degli
anni ‘20. A Eros Pagni il compito di
guidare una parte importante della
nostra Compagnia Stabile interpretando il personaggio di Arnolfo, che
lo stesso Molière portò a enorme
successo suscitando clamorose risate ma anche provocando, nella malata società del suo tempo, scandalo e l’accusa di essere volgare e immorale. Alla altrettanto, anche se
diversamente, malata società di oggi si rivolge la satira, attraversata
da follia, di Joe Orton, nello spettacolo diretto da Giorgio Gallione
e interpretato da un’altra metà
della nostra Compagnia Stabile.
Carlo Repetti
(continua a pag. 6)
ALLA CORTE, EROS PAGNI INTERPRETA MOLIÈRE
E r o s P a g n i c o n A l i c e A r c u r i i n u n a s c e n a d e l l o s p e t t a c o l o (foto M a rc e l l o N o r b e r t h )
Nuova produzione del Teatro Stabile di
Genova, La scuola delle mogli di Molière è
un capolavoro di analisi psicologica e comportamentale, sotteso da una travolgente
“vis comica” nella quale la società francese
del Seicento (ma anche tutti gli spettatori
teatrali dei tre secoli e mezzo seguenti, che
hanno visto più volte trionfare la commedia)
ha avuto modo di rispecchiarsi con un misto
di sgomento e di complicità, a causa della
“scandalosa” forza del suo assunto narrativo
e della originalità con cui vengono definiti i
suoi personaggi. Lo spettacolo è in scena al
Teatro della Corte dal 13 marzo al 5 aprile.
Diretta da Marco Sciaccaluga, nella versione
italiana di Giovanni Raboni, la commedia –
accolta al suo apparire da clamorose risate e
da furiose polemiche da parte dei benpensanti – è interpretata da Eros Pagni nel ruolo
di Arnolfo, che Molière scrisse per sé, al cui
fianco sono Alice Arcuri (Agnese), Roberto
Serpi (Orazio), Jean-Marc Stehlé (Alain),
Mariangeles Torres (Giorgina), Federico
Vanni (Crisaldo), Marco Avogadro (Enrico),
Massimo Cagnina (Oronte) e Antonio
Zavatteri (un notaio). La scena è firmata da
Jean-Marc Stehlé e Catherine Rankl (anche
costumi), musiche di Andrea Nicolini e luci
di Sandro Sussi. Rappresentata per la prima
volta nel 1662, La scuola delle mogli di
Molière racconta la storia dell’amore impossibile tra un uomo anziano e una ragazza che
egli ha educato con il progetto di farne la
moglie ideale; ma è anche un inno squisitamente teatrale alla libertà individuale, che
mal sopporta i vincoli imposti dall’autoritarismo ideologico di cui si alimentano i sogni
pedagogici e matrimoniali di Arnolfo, il
quale, a causa della propria radicale sfiducia
nelle donne, è convinto che sia meglio una
moglie poco attraente e sciocca che una
consorte bella e intelligente.
L’ANARCHICA COMICITÀ DI JOE ORTON, AL DUSE
Frutto della collaborazione tra il Teatro
Stabile di Genova e il Teatro dell’Archivolto,
Ciò che vide il maggiordomo di Joe Orton
debutta sul palcoscenico del Duse mercoledì
11 aprile, con repliche sino al 22 aprile.
Messa in scena da Giorgio Gallione per l’interpretazione di Ugo Dighero (Dr. Prentice),
Mariagrazia Pompei (Geraldine Barclay),
Mariangeles Torres (Mrs Prentice), Pier Luigi Pasino (Nick), Antonio Zavatteri (Dr. Rance), Mauro Pirovano (sergente Match), quella di Orton è una farsa socialmente graffiante, caratterizzata da un dialogo brillante e da
una costruzione narrativa dal ritmo frenetico. L’azione si svolge interamente e in tempo
reale nell’ufficio ospedaliero dello psichiatra
Dr. Prentice dove all’inizio egli riceve una
ragazza per un colloquio di lavoro, dando
così il via a una folle girandola di eventi punteggiati da litigi e diagnosi affrettate, travestimenti e scomparse improvvise. Ciò che
vide il maggiordomo travolge lo spettatore
nel gioco dell’amore, della vita e della morte,
rovesciando sul palcoscenico una comicità
che non lascia respiro. Quello proposto da
Joe Orton è un meccanismo teatrale a orologeria che fa saltare ogni certezza e travolge
ogni logica, coinvolgendo nell’azione personaggi esasperantemente folli, ma in apparenza assolutamente credibili: oltre al “padrone
di casa” che cerca di nascondere le sue divagazioni amorose, la commedia chiama in
causa una moglie nevrotica e ninfomane,
un’apprendista segretaria forse un po’ troppo ingenua, un allucinante e irreprensibile
ispettore sanitario, un giovane e maldestro
fattorino d’albergo, un poliziotto con dubbie
capacità investigative.
Rappresentata nella versione italiana di
Raoul Soderini, Ciò che vide il maggiordomo si avvale della scena e dei costumi di
Guido Fiorato e delle luci di Sandro Sussi.
U g o D i g h e r o , M a u r o P i r o v a n o , M a r i a g r a z i a Po m p e i , P i e r Lu i g i Pa s i n o , A n t o n i o Z a v a t t e r i ,
M a r i a n g e l e s To r r e s d u r a n t e l e p r o v e d i C i ò c h e v i d e i l m a g g i o r d o m o ( f o t o B e p i C a r o l i )
LE GRANDI PAROLE DI PLATONE
RASSEGNA DI DRAMMATURGIA CONTEMPORANEA
C o r t e ,
P i c c o l a
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m a r z o
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a p r i l e
I Dialoghi di Platone sono ancora oggi in grado di offrire un criterio d’interpretazione della realtà e di far riflettere sulle problematiche contemporanee? Il
nuovo ciclo delle Grandi Parole nasce dalla ipotesi che si possa dare una risposta
positiva a questa domanda e, con la guida di cinque illustri studiosi e testimoni del
nostro tempo (Gianni Vattimo, Vito Mancuso, Massimo Cacciari, Giulio Giorello, Paolo
Flores d’Arcais), intende verificarla attraverso un ampio repertorio antologico affidato alle voci di grandi interpreti della scena italiana (Omero Antonutti, Elisabetta Pozzi,
Eros Pagni, Massimo De Francovich, Massimo Venturiello), affiancati per l’occasione da
alcuni attori della compagnia dello Stabile (Federico Vanni, Orietta Notari, Massimo
Mesciulam, Massimo Cagnina, Roberto Serpi, Massimo Malagugini, Roberto Alinghieri). Il ciclo prende il via sabato 17 marzo (ore 17) con la lettura quasi completa del
Simposio (argomento: “Amore ed erotismo”), per sviluppare poi, lunedì 19 (ore 20.30), il
tema “L’anima e il suo destino” attraverso i grandi miti contenuti in Fedro (la biga alata),
Fedone (l’immortalità dell’anima) e La Repubblica (mito della caverna e mito di Er). Sabato
24 (ore 17) è la volta del Protagora (“Virtù e conoscenza”), seguito lunedì 26 (ore 20.30) dal
trittico Timeo, Teeteto e Menone (“Scienza e reminiscenza”), per concludere lunedì 2 aprile
parlando di “La libertà e la legge” sul filo delle argomentazioni trattate nel Critone.
C o r t e ,
Dal 15 maggio al 2 giugno, il Teatro
Stabile di Genova propone nell’anfiteatro eretto sul palcoscenico
della Corte (Piccola Corte) la XVII
edizione della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea. Il cartellone prevede la “mise en espace” di tre nuovi testi provenienti da
paesi extraeuropei. Nell’ordine, dal
15 al 19 maggio (ore 20.30) sarà
rappresentato Benedictus di Motti
Lerner proveniente da Israele, Iran
e Stati Uniti; sarà poi la volta, dal
22 al 26 maggio, di La huelga de
las escobas (Lo sciopero delle scope) scritto dalle argentine Roxana Aramburu, Patricia Suárez e
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m a g g i o
Mónica Ogando; mentre dal 29
maggio al 2 giugno (sempre alle
20.30) sarà la volta di Offices, scritto dal più giovane degli statunitensi fratelli Coen, Ethan, noti soprattutto per la loro attività cinematografica. Tre testi caratterizzati
da un forte impatto etico e sociale,
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g i u g n o
capaci di parlare del mondo attuale ora con una storia di fantapolitica come in Benedictus (lo scoppio
della guerra dell’Occidente contro
l’Iran che non ha voluto dismettere
la produzione atomica) per la regia
di Roberto Alinghieri; ora attraverso l’evocazione di un tragico sciopero avvenuto a Buenos Aires nel
1907: La huelga de las escobas per
la regia di Mario Jorio; ora anche
radiografando con humour graffiante la quotidianità di tre situazioni che vedono protagonisti impiegati di oggi, come fa Ethan
Coen in Offices, che si avvale della
regia di Matteo Alfonso.
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2 l La scuola delle mogli
ARNOLFO Dovrei mettermi in casa, io, una donna di
AGNESE Sono così stupita
CRISALDO Questo vostro progetto mi preoccupa;
ORAZIO Comunque sia, la deliziosa Agnese
spirito che non ha sulla bocca che la corte e i
di quanta gioia se ne può provare!
comunque vada, prendere una sposa
ha saputo incantarmi.
salotti, che scrive in versi e in prosa letterine galanti?
E pensare che ancora non ne sapevo niente...
è per voi, caro amico, un’impresa rischiosa.
È, vi giuro, un autentico gioiello.
(Atto I, scena prima)
(Atto II, scena quinta)
(Atto I, scena prima)
(Atto I, scena quarta)
Un poeta comico e drammatico
Con La scuola delle mogli Molière porta sulla scena la disincantata conoscenza delle cose umane
Uno dei più grandi poeti del ‘900,
Ezra Pound, ha detto una volta
che traducendo non dobbiamo
scrivere come avremmo scritto se
fossimo stati al posto dell’autore,
ma come l’autore scriverebbe se
fosse al nostro posto. Sembra un
paradosso, ed è invece, credo,
semplicemente la verità. Solo che
la verità è, nella maggior parte dei
casi, irraggiungibile, e il massimo
che possiamo fare è tendere ad
essa, sforzarci (senza trucchi e
senza iattanza) di rendere un po’
meno vertiginosa la distanza che
ce ne separa. Traducendo La
scuola delle mogli ho cercato di
orientare in questo senso tutte le
scelte linguistiche (non solo lessicali e sintattiche ma anche, e forse
più ancora, timbriche e tonali,
insomma “musicali”) alle quali mi
sono via via trovato di fronte.
Come ogni testo, anche una traduzione scopre strada facendo il
proprio destino, cresce, per così
dire, su se stessa: e dunque, man
mano che procedevo, le scelte si
sono fatte sempre più obbligate e,
insieme, più “naturali”. Riguardo
alla metrica era necessario prendere, invece, una decisione a priori: bisognava decidere, insomma,
prima di mettersi al lavoro, come
cavarsela con l’implacabile alessandrino a rima baciata dell’originale. Valendomi anche di precedenti esperienze (soprattutto
quella fatta traducendo - non una,
ma addirittura due volte - la Fedra di Racine), ho scartato sia l’ipotesi del doppio settenario (il
cosiddetto “martelliano”), che è
un verso, secondo me, d’una mo-
notonia difficilmente sopportabile
ed è in ogni caso lontanissimo
dalla morbidezza dell’alessandrino
francese; sia quella dell’endecasillabo sciolto (che a teatro ha, per il
mio orecchio, un che di troppo
alfieriano, di troppo austero e al
tempo stesso concitato) e ho
optato per un libero e vario susseguirsi di endecasillabi e settenari,
cioè dei due versi più classici e
insieme più “fisiologici” della tradizione italiana. Il mio intento,
spero non illusorio, era quello di
creare un continuum sonoro sempre riconoscibile ma mai del tutto
prevedibile, e capace – cosa ancora più essenziale – di un’estrema
adattabilità al ritmo del parlato.
Tale scelta comporta, ovviamente,
l’abbandono della corrispondenza
che in una traduzione per teatro,
ammesso che l’abbia altrove, non
ha, a mio avviso, alcuna importanza; altra e ben più decisiva conseguenza è la fedeltà alla sublime
scioltezza della prosa molièriana
che essa mi ha, spero, consentito.
Ho detto “prosa” e voglio chiarire
che non si tratta di un lapsus.
Molière non è Racine: non è, voglio dire, un grande poeta, bensì
un grandissimo prosatore che per
obbedire alle convenzioni dell’epoca e alle richieste del pubblico
ha scritto in versi un certo numero dei suoi capolavori. Io ho cercato di farla rivivere e in qualche
misura di liberarla, la sua grande
prosa, inserendola in una gabbia
metrica più agile e lieve, e soprattutto meno coercitiva, meno punitiva di quella dell’originale.
Giovanni Raboni
Stufo dei vecchi sistemi?
Nella sua bella e appassionata conferenza del 1886 su La scuola delle
mogli, il commediografo Henri
Becque s’interrogava su chi fosse
Molière per concludere: «Un autore
drammatico, il primo e forse il solo
poeta comico». E, nel corso degli
anni, questo primato della teatralità ritorna continuamente negli
scritti o nella conversazione di
coloro che hanno riflettuto su La
scuola delle mogli, lontano da
quel clima di scandalo e di polemiche che ne aveva caratterizzato il
debutto nel 1662. A cominciare dal
tedesco Gotthold E. Lessing che
nel suo diario di lavoro, Drammaturgia di Amburgo, polemizza a
distanza con Voltaire, il quale aveva
definito la commedia di Molière
«un lungo racconto», per sostenere
con acute osservazioni la virtù e la
grandezza squisitamente teatrale di
una pièce in cui «tutto è azione
anche se sembra narrato». E sulla
stessa linea si muove anche, nel secolo seguente, Victor Hugo il quale,
nella prefazione al suo Cromwell,
considerata da molti il manifesto
del teatro romantico, si lancia in un
travolgente elogio dell’autore di La
scuola delle mogli: «Racine è elegiaco, lirico, epico; Molière è drammatico. È giunta l’ora di fare finalmente giustizia delle critiche piene
di cattivo gusto contro il suo mirabile stile, e di proclamare a gran
voce che Molière sta al vertice della
nostra drammaturgia». Sino ad
arrivare a Louis Jouvet che, con le
sue regie e interpretazioni, ha concorso più di ogni altro nel Novecento a collocare Molière nel pantheon dei classici, proprio perché ha
saputo affrontare – sono le sue parole – La scuola delle mogli come
un «puro gioco teatrale, sulle cui
singole scene si potrebbero scrivere
interi volumi spiegando, alla maniera di Proust, tutti i sentimenti e
tutte le sensazioni fisiche che ci
sono in ognuna di loro; ma poi, quello che davvero conta, quello che
garantisce la vittoria di una interpretazione, è che il pubblico ride».
La rappresentazione di Molière
come autore interamente votato al
palcoscenico e che solo qui esprime compiutamente tutta la sua
grandezza ritorna anche nelle pagine a lui dedicate dal critico statunitense Harold Bloom nel suo Il
canone occidentale, dove si legge
Sopra: Roberto Serpi, Marco Avogadro, Eros Pagni, Massimo Cagnina, Federico Vanni. In basso: Eros Pagni e Antonio Zavatteri
della «religiosa devozione al teatro» dell’autore di La scuola delle
mogli, ma anche di come nelle sue
commedie «la verità è sempre elusiva, sempre relativa, sempre
osteggiata da singoli, schieramenti
e scuole. Nella misura in cui riusciamo a toccare la coscienza di
Molière, accantonando la sua evidente infelicità domestica, si può
cogliere compiutamente come solo
una ferma fede nel teatro gli abbia
conferito quel certo distacco o
serenità che ci compiaciamo di
ascrivere anche a Shakespeare.
L’alta visione comica, quando nulla
le fa difetto (come nel caso di
Molière), è indubbiamente conturbante e in ultima analisi persino
causa di sgomento. Alla genialità
senza pari di Molière appartiene la
capacità di scrivere quelle che definirei “farse normative”», in cui
anche i personaggi più negativi e i
suoi avversari più strenui «non
sono mai rappresentati come caricature», proprio perché nelle sue
commedie (quindi anche in La
scuola delle mogli) si ha sempre
«la sensazione che nell’anima ci sia
qualcosa d’altro che non è né vizio,
né illusoria libertà». E la cosa affa-
scinante nel suo teatro è che, però,
proprio i protagonisti delle commedie di Molière, a differenza ad
esempio di Amleto e di Iago, non
possono sapere quale sia questa
altra qualità dell’anima umana, perché essi sono negati «all’ascolto di
se stessi».
La scuola delle mogli, annotava
ancora Victor Hugo, rivela tutta la
sua verità e modernità perché sa
valorizzare sino in fondo «il drammatico principio del grottesco,
della commedia: la risata si mescola senza paura con la precisione
dell’analisi umana dei personaggi,
dando vita a scene memorabili e
sublimi». Scene che traducono,
appunto, la più profonda analisi
dell’animo umano in un’azione
squisitamente teatrale. E proprio
per questo, poteva concludere
Henri Becque, non si deve mai cercare di migliorare Molière, ma caso
mai riconoscergli nella realtà del
palcoscenico quello che soprattutto si merita: «Molière non è un filosofo: il filosofo è Cartesio; Molière
non è un pensatore: il pensatore è
Pascal; Molière non è un iconoclasta come Voltaire, né un riformatore come Rousseau. Che cosa è dun-
...e allora cambia!
que Molière? È un autore drammatico. Un uomo che ha per istinto,
per genialità o per missione quella
di rappresentare i propri simili.
Non chiedetegli di esporre delle
idee: le idee, egli le esprime solo
attraverso i propri personaggi, trasformandole in qualcosa di ridicolo
quando diventano eccessive. Non
chiedetegli un messaggio morale;
egli è dalla parte di Agnese contro
Arnolfo, ma nello stesso tempo sa
che Agnese è un po’ colpevole. Non
chiedetegli un consiglio pratico;
egli sa benissimo che i suoi personaggi non possono assolutamente
cambiare, perché sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Molière
ha solo bisogno di dar loro una
seconda vita, la vita teatrale. Ha
bisogno di fissare nel mondo dell’arte dei caratteri che, senza di lui
e senza i suoi personaggi, resterebbero disseminati e dispersi nella
natura. Se volete a tutti i costi trovare un insegnamento in Molière,
che sia allora un vero insegnamento, alto e universale, come sanno
esserlo solo quelli che si ricavano
da tutte le grandi manifestazioni
dello spirito e della disincantata
conoscenza delle cose umane».
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La scuola delle mogli l 3
Conversazione con Marco Sciaccaluga regista dello spettacolo in scena alla Corte
Corna e segreti nascosti
nella provincia francese
In polemica con Voltaire,
Lessing sostiene che la grandezza di La scuola delle mogli
deriva dal fatto che nella
commedia “tutto è azione,
anche se sembra narrato”.
Sono perfettamente d’accordo
con Lessing e aggiungerei che
in questa commedia tutto è
teatro, anche se sembra letteratura. La genialità teatrale di
Molière si manifesta in questo
caso nel lasciare fuori di scena,
tra un atto e l’altro, lo svolgimento degli avvenimenti, per
concentrare tutta la sua attenzione sull’effetto che apprendere ciò che è accaduto provoca nei personaggi, e in particolare in Arnolfo. Come accadrà
poi anche in La brocca rotta di
Kleist, chiaramente influenzata
per quanto riguarda la struttura drammaturgica da La scuola delle mogli, Molière ci racconta qui la storia di un’identificazione tra giudice e imputato: una storia che ha l’andamento di un suspense, tanto
più coinvolgente perché, proprio come accadrà al giudice
Adamo, gli unici a sapere di
questa identità sono lo stesso
Arnolfo e gli spettatori. E questo dà a tutta la commedia non
solo un originale sapore drammaturgico, ma anche la straordinaria forza metaforica di
un’avventura teatrale che sa
raccontarci sia l’inesorabile
contrasto tra i nostri sogni e lo
svolgimento della realtà, sia
come la vita degli esseri umani
è caratterizzata dall’inesorabile
difficoltà a radicarsi in una consapevole identità.
Proprio dal contrasto tra ciò
che Arnolfo ha programmato
e i fatti che egli viene ad apprendere attraverso i racconti dei suoi interlocutori nasce anche la potente comicità
della commedia.
Certo, in La scuola delle mogli
si parla di corna e di contrasto
tra le generazioni, e innumerevoli sono le occasioni per ridere; ma lungi dall’essere consolatoria, in Molière, la risata è
anche la chiave per scoprire
tante verità. La trama della
commedia può essere raccontata come il contrasto tra un
sogno totalitario (il progetto di
Arnolfo di creare in Agnese la
A l i c e A r c u r i , M a r i a n g e l e s To r r e s , J e a n - M a r c S t e h l é
moglie ideale) e la libertà individuale, che anche a loro insaputa si concretizza nell’amore
che nasce “naturalmente” tra
Agnese e Orazio. Come Faust,
Arnolfo sogna l’eterna giovinezza, anche se non ha più bisogno d’incontrare Mefistofele,
perché il diavolo lo porta dentro di sé, nella propria cattiva
coscienza; e come Frankenstein ordisce il folle programma di dare vita alla creatura
perfetta attraverso la quale
realizzare la sua aspirazione
all’immortalità.
Ma si tratta pur sempre di
una commedia e alla fine il
suo sogno è destinato a spezzarsi nel contrasto con la realtà e con la natura umana.
La forza di La scuola delle
mogli deriva non solo da quello che racconta, ma anche e
soprattutto dal modo in cui lo
fa. Quello che Molière propone
non è un affresco metafisico o
una metafora esistenziale, ma è
soprattutto una piccola storia
privata di provincia, attraverso
la quale però sa far nascere
l’immagine di un’umanità e di
una società senza tempo, dove
si alimenta l’illusione che i
catechismi, i regolamenti e le
ideologie possano governare la
natura, piegandola al loro pro-
grammatico volere.
Perché hai scelto di spostare
l’ambientazione della commedia dal Seicento al primo Novecento?
Sul tema della collocazione nello spazio e nel tempo della messa in scena di un classico credo
bisognerebbe innanzitutto abbandonare ogni posizione pregiudiziale: quella dei registi che
esibiscono la modernizzazione
come unico dato di originalità,
ma anche quella degli spettatori più conservatori che si scandalizzano di fronte all’inserimento nella rappresentazione
di elementi non legati al momento cronologico in cui un’opera è stata scritta. Nel teatro
che mi piace fare e vedere, il
problema delle modalità di rappresentazione nasce innanzitutto da una ragione narrativa.
Personalmente sono sempre
molto rigoroso nell’analisi critica del testo che sto mettendo
in scena, ma sono anche convinto che nel teatro d’interpretazione questo profondo rispetto per la parola dell’autore
non passi affatto attraverso
l’appiattimento figurativo sull’epoca in cui un testo è stato
scritto. Anzi, mi piace pensare,
credo con buon fondamento,
che se Molière o Shakespeare
potessero assistere oggi alla rappresentazione di una loro opera sarebbero quanto meno stupefatti nel veder entrare in scena personaggi vestiti con abiti
del Seicento. Il teatro è sempre
coniugato al presente e la forza
di un classico sta nella sua capacità di parlarci ancora, senza
condizionamento a-priori e
senza forzature pregiudiziali.
E allora, da dove nasce la scelta di raccontare La scuola delle mogli proprio in questo modo?
Da un’esigenza prevalentemente narrativa, dicevo. Ci è sembrato di leggere nella commedia l’esplicito rinvio a una
realtà piccolo borghese e questo ci ha indotto a pensare a
uno spazio che appartenesse
soprattutto al tempo in cui la
borghesia ha assunto uno specifico riconoscimento sociale.
A questo punto con gli scenografi Jean-Marc Stehlé e Catherine Rankl abbiamo fatto diversi tentativi guardando agli ultimi due secoli, per fissarci poi
su quell’epoca specifica non
tanto per precise ragioni critiche, ma per una serie complessa di suggestioni culturali, che
in me hanno riguardato soprattutto certo cinema francese che
amo, con in primo piano quello
di Claude Chabrol che forse
meglio di ogni altro ha saputo
dare spessore universale all’evocazione di un universo provinciale. Messa in moto l’immaginazione, poi tutto è venuto
un po’ da sé, senza forzature e
senza compiacimenti citazionisti; portando in primo piano, a
sorpresa anche per noi, un
clima da vaudeville cechoviano. Ciò che veramente mi interessa è raccontare quella storia
che Molière confina in un piccolo microcosmo privato, avendo però la capacità di farlo esplodere, in modo da investire
anche la nostra realtà contemporanea, come spero possa accadere anche alla nostra scatola scenica, che rinvia a un universo in cui si sente il profumo
di baguette e il suono della fisarmonica, ma anche a piccole
cose di cattivo gusto, a segreti
nascosti, a orchi in agguato, che
cercano invano di condizionare
lo sbocciare della natura.
a cura di a.v.
Poesia di Boileau in onore dell’amico Molière
“Lascia che gli invidiosi brontolino”
Invano mille spiriti gelosi,
Molière, osano con disprezzo
Censurare la tua opera più bella;
La sua ingenuità piena di fascino
Andrà per sempre negli anni
A divertire la posterità.
La tua Musa con utilità
Dice piacevolmente la verità;
Ognuno trae vantaggio alla tua scuola;
Tutto è bello, tutto è buono:
E la tua parola più scherzosa
È spesso un dotto sermone.
Come ridi piacevolmente!
Con quanta sapienza scherzi!
Colui che seppe vincere Numanzia,
Che sottomise Cartagine alla sua legge,
Un tempo col nome di Terenzio
Seppe forse scherzare meglio di te?
Lascia che gli invidiosi brontolino;
Hanno un bel gridare a tutti i venti
Che addolcisci invano la volgarità,
Che i tuoi versi non hanno nulla di piacevole:
Se tu sapessi piacere un po’ meno,
Non dispiaceresti tanto a loro.
Nicolas Boileau (1636-1711), in Le Delizie della poesia galante,1663 (25 settembre)
La battaglia intorno a “La scuola delle mogli” nella Parigi del Re Sole
La scuola delle mogli (L’école
des femmes) è stata rappresentata per la prima volta sul palcoscenico del Théâtre du Palais-Royal il 26 dicembre 1662.
Il suo grande successo fa subito
esplodere una “querelle” (la
prima della carriera di Molière) che si protrae per quasi
due anni. I benpensanti e i devoti sono soprattutto scandalizzati dalle “Massime del matrimonio” che Arnolfo consegna
ad Agnese nella seconda scena
del terzo atto, individuando in
esse la presa in giro di una pre-
dica e, ancora più grave, la parodia dei comandamenti di Dio.
La commedia procura a Molière
anche un’accusa per oscenità a
causa delle ambiguità che sottendono il dialogo tra Arnolfo e
Agnese nel secondo atto.
La “querelle” si allarga ben presto coinvolgendo letterati, drammaturghi e commediografi rivali, autori debuttanti alla ricerca
di notorietà. Si sottolinea subito, e non senza ragione, il debito di Molière nei confronti di
una novella di Scarron (La précaution inutile) e di un rac-
conto contenuto nella raccolta
Facétieuses Nuits di Straparole;
ma c’è anche chi, come il poeta
Boileau, prende con decisione
le difese di Molière.
Qualche settimana dopo il
debutto della commedia, Donneau de Vise accusa Molière di
essere un autore al servizio dei
potenti, alludendo al sostegno
anche economico che gli viene
tributato dal re Luigi XIV. A
tutti i suoi nemici, Molière replica pubblicando e rappresentando La Critique de L’école des
femmes, ma la cosa non fa che
rinfocolare la “querelle”: Donneau de Vise gli risponde con
Zélinde ou la Veritable Critique
de L’école des femmes; Molière
allora dedica la sua commedia
ad Anna d’Austria, considerata
una perfetta “devota”; a sua
volta Boursault, amico dei fratelli Corneille, fa rappresentare
all’Hôtel de Bourgogne Le Portrait du peintre ou la Contrecritique de L’école des femmes e
vi pone in appendice la Chanson à la conquille, scritta da
Donneau de Vise con espliciti
insulti a Madeleine Béjart e
allo stesso Molière, il quale
scrive allora L’impromptu de
Versailles, in cui ridicolizza la
recitazione pomposa degli attori dell’Hôtel de Bourgogne. In
risposta, Donneau de Vise fa
rappresentare La vengeance
des Maquis, in cui attacca gli
attori di Molière, mentre alcune parodie di L’école des femmes iniziano a circolare per
Parigi. Al culmine della “querelle”, Montfluery padre, direttore dell’Hôtel de Bourgogne,
giunge esplicitamente ad accusare Molière di aver sposato la
propria figlia (Armande Béjart), ma il re Luigi XIV in persona mette tutto a tacere
accettando di fare da padrino a
Louis, il figlio di Armande e di
Molière. Dopo qualche scaramuccia ancora, infine, le acque
si calmano e Nicolas Boileau
mette termine alla lunga “querelle” dedicando a Molière la
sua Satire II, in cui loda l’autore di L’école des femmes perché,
contrariamente a quello che
hanno fatto i suoi nemici, non
si è mai abbassato ad attaccare
la loro vita privata.
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4 l Ciò che vide il maggiordomo
Psichiatria, sesso, equivoci e happy end: Joe Orton racconta la contemporaneità della sua Inghilterra
Risate e travestimenti per una farsa scatenata
La scandalosa comicità di “Ciò che vide il maggiordomo” raccontata in un libro per le scuole
Il dottor Rance e la psicanalisi
Martin Esslin sostiene che in Ciò
che vide il maggiordomo “non c’è
neppure un cenno di vera critica
della psichiatria o della psicoanalisi”; ma questo è evidentemente
falso. La critica che Orton fa della psichiatria non è affatto superficiale. Il dottor Rance ha una sua
teoria sulla condizione di Geraldine. Nulla di quello che lei o altri dicono o fanno è in grado di
contraddire questa teoria, nella
quale Rance ha una fede incrollabile. Orton usa i metodi di Rance
per ingigantire il senso di spaesamento e di perdita di identità di
tutti i suoi personaggi, non solo di
Geraldine. E così facendo Orton
si allontana dalle comode convenzioni della farsa tradizionale,
nella quale l’ordine viene ristabilito quando i personaggi smettono di fingere e, infine, si dicono
reciprocamente la verità. In Ciò
che vide il maggiordomo, la verità non ha nessun potere e ogni
cosa viene interpretata a modo
suo da Rance, servendo solo ad
avvalorare le proprie teorie. Rance è convinto che Geraldine sia
pazza. Non c’è nulla che lei possa
fare per evitare l’umiliazione di
essere rasata e costretta in una
camicia di forza, segregata in una
cella imbottita. Quando è travestita da maschio, Geraldine non
Joe Or ton
può far nulla per convincere il
dottor Rance che in realtà è una
ragazza: siccome lui si è messo in
testa che lei sia un ragazzo di cui
il dottor Prentice ha abusato, per
Rance è evidente che sta fingendo un’identità femminile per mitigare il senso di colpa conseguente alla sua attività omosessuale.
Mr e Mrs Prentice
Il dottor Prentice è un personaggio da farsa più tradizionale. Egli
è convinto che, se sarà abbastanza abile, potrà celare a tutti i suoi
misfatti. Per questo, quando Prentice abbandona la finzione che ha
dato inizio all’intera catena degli
eventi, secondo le convenzioni
della farsa, egli dovrebbe avviarsi
verso la risoluzione del caos. Tuttavia, la verità non lo aiuta. Prentice è un personaggio da farsa
convenzionale intrappolato in
una farsa non convenzionale. La
signora Prentice semplicemente
“sorride con infinita pazienza” e
afferma: «Se vogliamo salvare il
nostro matrimonio, ti conviene
ammettere francamente che alle
donne preferisci di gran lunga i
ragazzi». Le sue seguenti parole
rivelano l’origine di questo modo
di pensare: «Il dottor Rance mi ha
spiegato le cause della tua aberrazione». Siccome il dottor Rance
ha un proprio criterio per stabilire la verità, l’unica soluzione possibile è quella che lo avvalorerà.
Solo in questo caso, i personaggi
possono ritornare a uno stato che
assomigli alla normalità.
L’happy end
Orton arriva a questa soluzione
presentando al pubblico ciò che a
prima vista potrebbe essere un
“happy end” convenzionale. Nick
si rivela essere il fratello di Geraldine. Il dottore e la signora
Prentice sono i loro genitori. I
membri della famiglia sono riuniti e si abbracciano sul palcoscenico. In molte commedie, questo
sarebbe il momento di calare il
sipario e ringraziare il pubblico.
Orton invece non concede al suo
pubblico il lusso di dimenticare.
Orton e Wilde
“Mi piacerebbe scrivere una commedia bella come L’importanza
di chiamarsi Ernesto”, ha dichiarato nel 1966 Orton. Di fatto ci
sono numerose somiglianze tra la
commedia di Wilde e Ciò che vide
il maggiordomo. Entrambe coinvolgono personaggi che pretendono di essere altre persone.
Entrambe si concludono con la
scoperta che i personaggi principali fanno parte della stessa
famiglia. Entrambe traggono
gran parte del loro umorismo
dalla logica spietata che sottende
i loro dialoghi. Secondo me, però,
Ciò che vide il maggiordomo è
più esilarante di L’importanza di
chiamarsi Ernesto. Nella commedia di Wilde, i personaggi sono
motivati soprattutto dalla noia o
dalla curiosità, mentre i personaggi di Orton sono mossi da
bisogni reali. Non è per un frivolo
capriccio che Geraldine si traveste con l’uniforme di Nick. Senza
abiti, lei non può lasciare la clinica. Se non scappa, sarà richiusa
in una cella imbottita. Nick deve
fingere di essere un poliziotto e
arrestare se stesso o sarà arrestato realmente da un poliziotto
vero. È la necessità che costringe
Ciò che vide il maggiordomo a
procedere con un ritmo così frenetico. L’urgenza si riflette nel
dialogo. I personaggi di Wilde
hanno l’agio di conversare durante il tè; quelli di Orton si sparano
battute mentre passano da una
crisi ad un’altra. In Ciò che vide il
maggiordomo, le battute comiche
si accavallano: siccome sono tutte
molto buone, la conseguenza è
che una nuova battuta giunge
prima che il pubblico abbia finito
di ridere della precedente.
(da Laughter in the Dark. The Play of
Joe Orton di Arthur Burke,
Student Guides, London 2001)
DAL DIARIO DI ORTON: IL PIACERE E LA FATICA DI SCRIVERE
Mercoledì 28 dicembre 1966
Ho lavorato sodo tutto il giorno
a Ciò che vide il maggiordomo.
Ho scritto una scena in cui
Geraldine si traveste da infermiera indiana. Poi, l’ho tagliata
sebbene ci fosse parecchio da
ridere. Sosteneva l’azione. Ma
ogni volta che qualcosa mi fa
ridere come un matto è un
chiaro segno che deve essere
eliminata.
Sabato 14 gennaio 1967
Nel pomeriggio terminata la
prima stesura di Ciò che vide il
maggiordomo. È troppo lunga.
Devo essere capace di tagliare.
Sabato 11 marzo
Kenneth Halliwell suggerisce
che, per Ciò che vide il maggiordomo, la citazione da Giovenale
“Quis custodiet ipsos custodes”
sarebbe appropriata.
Domenica 2 luglio
Oggi ho riletto Ciò che vide il
maggiordomo e sono soddisfatto. Ci sono parti che devono
essere riscritte e altre che devono essere chiarite. Ma non si
tratta di granché. Mi piace questa parte del lavoro. È una pulizia finale.
Mercoledì 12 luglio
Ho trascorso l’intera mattina a
battere a macchina Ciò che vide
il maggiordomo. Kenneth sta
rileggendo la seconda metà
della commedia. Ha suggerito
uno o due tagli. Seguirò il suo
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consiglio. La commedia è sufficientemente lunga, per cui
posso tagliare ciò che non è una
buona battuta o ciò che non è
necessario per la comprensione
della commedia.
Lunedì 17 luglio
Ho portato Ciò che vide il maggiordomo a Peggy (Ramsay). Ha
guardato il titolo e ha detto:
«Oh! Sembra il titolo di una vecchia farsa!». È stata molto colpita dalla citazione di (Cyril)
Tourneur. Sono curioso di sapere quali saranno le sue reazioni.
Domenica 23 luglio
Ieri mattina Peggy mi ha telefonato. Abbastanza presto.
Giovedì notte fino a tardi ha
letto Ciò che vide il maggiordomo in una camera d’albergo a
York. «Le persone devono aver
pensato che sono matta» ha
detto. «Ridevo come una matta.
È la migliore cosa che hai fatto
finora. Tecnicamente è superiore a Il malloppo». Aveva una o
due riserve. «Il Lord Ciambellano non ti permetterà di
mostrare su un palcoscenico
l’attributo di Churchill» mi ha
detto. «Pensavo di modificarlo
in quello del Presidente Kennedy» ho risposto. «Oh, ma
sarebbe molto molto peggio!»
ha detto Peggy. «Lui è un martire. Non riusciresti a farla franca.
E l’altra cosa è l’incesto. Semplicemente non so se tutto
quello scopare di genitori e figli
sarà permesso». Ha detto: «La
commedia è destinata a fare
scandalo. E sarebbe un peccato.
Sarebbe proprio un peccato, se
il tuo grande talento venisse
sempre associato a soggetti
scandalosi o che creano preoccupazione». Ho lasciato il copione a Liz (la segretaria di Oscar
Lewenthal), la quale mi ha
detto che avrebbe ribattuto la
pagina con la didascalia: “Il dottor Prentice prende un contraccettivo dalla scrivania”. «Così per
non infastidire troppo il Lord
Ciambellano».
Mercoledì 26 luglio
Oscar mi ha detto che aveva
trovato un errore nel Maggiordomo. Nella prima scena
Geraldine spiega che “sua madre” è stata mandata in pezzi da
una statua. «Non era la sua
matrigna?» ha chiesto Oscar.
Questa sera ho ribattuto due
pagine del primo atto per rendere la cosa più logica. Anche
Kenneth dice di aver trovato un
altro errore. Nella prima scena,
Geraldine dice che non sa battere a macchina. Ma nell’ultimo
atto sente che le sue esperienze
hanno influenzato la sua velocità di battere a macchina. Ho
promesso di modificare in velocità a stenografare.
Giovedì 27 luglio
Oscar ha sottolineato i suoi progetti per Ciò che vide il maggiordomo. «Vuoi che venga prodotto al Court?», mi ha chiesto.
(continua a pag. 5)
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(Segue da pag. 4)
«Non penso sia una commedia
da Court», ho ribattuto. «Sinceramente nemmeno io», ha
detto Oscar: «Ora l’abbiamo
mandata al Lord Ciambellano,
ma che cosa facciamo se ritorna con richieste di tagli? Intendo dire, per esempio, che
quasi sicuramente lui non permetterà i riferimenti al signor
Churchill, giusto?». «Ma se è
solo una statua?». «Non sarà
molto contento», ha aggiunto
Oscar: «E cosa dire poi delle
leggi sulla calunnia?». «Cosa ho
detto in fondo su Churchill?» ho
domandato. «Stai dicendo che
ha un grande attributo» ha
spiegato Oscar. «Ma questo non
è sicuramente ingiurioso» ho
ribattuto. «Non chiamerei in
giudizio nessuno per avermi
detto che ho un grosso attributo. Nessun uomo lo farebbe.
Addirittura io potrei pagare
qualcuno per dirlo». Oscar ha
tirato su con il naso per un minuto poi ha detto che pensava
a Ralph Richardson nel ruolo
del dottor Rance. Non sono
molto sicuro. Sebbene ammiri
Richardson, direi che ha dieci
anni di troppo per il ruolo. E
non è proprio famoso per la sua
recitazione comica. «Mi piacerebbe Alastair Sim» ho detto.
Oscar non ne era entusiasta. Sia
io che Kenneth abbiamo pensato che Oscar non dava un
buon consiglio suggerendo Richardson. Ma non mi sono sentito di discuterne fino a tardi.
(da The Orton Diaries
edited by John Lahr
ed. Methuen, London 1986)
INCONTRI
NEL FOYER
INGRESSO LIBERO
INTORNO A “LA SCUOLA DELLE MOGLI”
E A “CIÒ CHE VIDE IL MAGGIORDOMO”
Mercoledì 21 marzo
(ore 17,30): Conversazione
con Marco Sciaccaluga,
Eros Pagni
e gli altri interpreti di
La scuola delle mogli.
Mercoledì 18 aprile
(ore 17,30):
Conversazione
con Giorgio Gallione
e gli attori di
Ciò che vide il maggiordomo.
Entrambi gli incontri sono
condotti da Umberto Basevi
e organizzati in collaborazione
con l’Associazione per il
Teatro Stabile di Genova
e I Buonavoglia.
Conversazione con Giorgio Gallione regista dello spettacolo in scena al Duse dall’11 al 22 aprile
La follia della realtà
ORTON
UNA
METTE IN DISCUSSIONE LE CONVENZIONI SOCIALI E SMASCHERA
BORGHESIA RICETTACOLO DI VIZI, DEGENERAZIONI E AMORALITÀ
Divertire senza rassicurare, far
ridere insinuando dubbi e domande, coinvolgere nell’intreccio
capovolgendo la realtà. È l’effetto spiazzante della comicità di
Orton che Giorgio Gallione si
propone di portare sulla scena
con la regia di Ciò che vide il
maggiordomo, di Joe Orton appunto, in programma al Duse
dall’11 al 22 aprile, con una coproduzione del Teatro Stabile e
del Teatro dell’Archivolto.
Per Gallione non si è trattato,
però, del primo impatto con l’autore inglese amico e collaboratore dei Beatles, perché alla fine
degli anni ‘80 aveva già curato la
messa in scena di un’altra sua
opera, Il malloppo, assieme a
quelli che poi sono diventati i
Bronkoviz.
Com’è stata questa nuova esperienza con il teatro di Orton?
Per me è stato come tornare in
territori già conosciuti. Quando,
circa venticinque anni fa, mettemmo in scena Il malloppo,
Orton era appena stato tradotto
in italiano dalla Costa & Nolan e
ci innamorammo subito della
sua comicità dissacrante e della
sua scrittura che confina con
molti altri linguaggi, teatrali e
non solo (penso per esempio a
Wilde, a Feydeau, a Labiche).
Orton era convinto che le sue
opere dovessero essere messe in
scena in modo realistico e per
questo litigò sovente con i suoi
registi che invece tendevano a
enfatizzare la vena d’inverosimiglianza che è presente nei suoi
testi e che mette in discussione
il principio di realtà.
Un aspetto che colpisce in Ciò
che vide il maggiordomo è il
fatto che spesso siano proprio
le parole, o meglio l’uso che ne
fanno i personaggi, a capovolgere la realtà, indipendentemente dai fatti che accadono.
Attraverso le parole e i comportamenti dei suoi personaggi
Orton mette in discussione tutte
le convenzioni sociali e smaschera il vero volto di quella borghesia che non ha più nulla di presentabile, perché è in realtà un
contenitore di vizi, degenerazioni e amoralità. Basta spostare un
tassello e tutta l’impalcatura
crolla, e tu devi credere a tutto,
anche all’inverosimile.
Il suo spettacolo rispetta fedelmente il testo?
Sì, naturalmente ci sono alcuni
problemi legati alla traduzione
dall’inglese, perché qualche battuta basata su giochi di parole
inevitabilmente si perde. Io ho
eliminato, invece, i riferimenti
storici puntuali: Churchill, per
esempio, nello spettacolo diventa semplicemente il Premier.
Quando posso preferisco scappare da confini storici troppo
precisi per privilegiare una dimensione più assoluta. Del resto
mi pare che Ciò che vide il maggiordomo non abbia perso nulla
della sua attualità, indipendentemente dai riferimenti alla storia o alla società anglosassone.
Ci sono aspetti o temi che sulla
scena ha voluto sottolineare
più di altri?
Ho enfatizzato un po’ quella
forma di esibizionismo sociale,
presente nel testo di Orton, per
la quale tu esisti solo se sei visibile, se fai parte della società
dello spettacolo. Non è un caso
che, per esempio, la preoccupazione principale di uno dei personaggi, il sergente Match, sia
quella di raccogliere materiale
per completare il libro che sta
per pubblicare. Io ho provato ad
alzare un po’ l’asticella su questo
aspetto dell’importanza dell’apparire, forzando leggermente i
costumi di scena in questa direzione. Ogni personaggio ha un
elemento che svelerebbe all’occhio di un patologo la presenza
di una distonia, porta con sé fin
dall’inizio una “spia” di quello
che è e che magari solo successivamente svelerà di sé. Ci sono
personaggi spudorati, come
Nick, che si presentano subito
per quello che sono e questa è
una scelta chiaramente eversiva.
Nick, infatti, entra in scena esibendo fin dall’inizio la sua carica
erotica; altri personaggi, invece,
si propongono inizialmente
come i rappresentanti dell’ordine e della morale e poi svelano
poco a poco le proprie degenerazioni o la propria follia. Tutti,
però, hanno fin dall’inizio sulla
scena un “segnale” di quello che
sono veramente. Del resto il
fatto che la storia d’amore fra
due personaggi, lo psichiatra e
sua moglie, sia iniziata con uno
stupro in un armadio, non comporta solo la distruzione dell’autorità della psichiatria, ma anche
di tutte le false regole del bon
ton. La scelta di forzare un po’ i
costumi è stata influenzata, poi,
anche da un certo feticismo che
pure è presente nel testo: che
tutta la vicenda ruoti attorno
allo smarrimento e al ritrovamento di un “idolo” di marmo, il
pene della statua del Premier, mi
pare emblematico...
Per la scenografia che scelte
avete fatto?
C’è una battuta del testo che mi
è sembrata illuminante, quando
a un certo punto un personaggio
chiede chi ha progettato la stanza e aggiunge: “Sembra disegnata da un pazzo”. Che in uno spettacolo sulla psichiatria qualcuno
dica questo della stanza in cui si
svolge la scena mi pare significativo della volontà dell’autore di
teatralizzare la follia e il paradosso, e io ho tentato di forzare
un po’ su questo. All’inizio avevo
pensato alla stanza piena di
porte di un quadro di Magritte,
poi abbiamo deciso, con lo scenografo Guido Fiorato, di esplicitare il fatto che si tratti di un
luogo medico e l’abbiamo tappezzato di lastre radiografiche.
“Ciò che vide il maggiordomo” è
quello che vede chi guarda dal
buco della serratura e le lastre
sulle pareti sono il simbolo di
questa analisi della società attraverso una lente che ne mette in
luce le degenerazioni. Siamo in
una società malata che viene
curata dai matti: il più matto di
tutti, infatti, è proprio lo psichiatra, che è anche quello meno
credibile dal punto di vista etico,
visto che, fra l’altro, ha commesso uno stupro, ha tentato di
uccidere sua moglie e ha quasi
avuto anche un rapporto incestuoso.
Che reazioni vorrebbe suscitare nel pubblico con questo spettacolo?
Vorrei che gli spettatori si divertissero ma vorrei anche riuscire
a trasmettere quella forza minacciosa e allarmante che c’è
nella comicità di Orton, senza
nascondere quella sua tendenza
a teatralizzare la follia di fondo
della società contemporanea. La
degenerazione del potere, dell’autorità, dell’etica, della sessualità, del buon senso, non ha
nulla di tranquillizzante nel teatro di Orton, anche quando
suscita il riso.
Annamaria Coluccia
Le opere e la vita
1933 – John Kingsley Orton nasce il 1°
gennaio a Leicester.
1949 – Inizia a occuparsi di teatro con la
Leicester Drama Society, con i Bats
Players e i Vaughan Players.
1951 – Si trasferisce alla Royal Academy
of Dramatic Art, dove incontra Kenneth
Halliwell.
1953 – Lavora come assistente al palcoscenico all’Ipswich rep. Scrive con
Halliwell il romanzo The Silver Bucket.
1954-1956 – Scrive i romanzi Lord
Cucumber, The Machanical Womb, The
Last Days of Sodom e The Boy Hairdress
(tutti pubblicati nel 1998).
1957 – Scrive Between Us Girls (pubblicato nel 1998).
1959 – Scrive la sua prima commedia:
Fred and Madge (pubblicata nel 1998)
1961 – Scrive il romanzo The Vision of
Gombold Proval (pubblicato nel 1998
con il titolo Head to Toe).
1962 – Scrive la commedia The Visitors
(pubblicata nel 1998). È arrestato con
Halliwell per furto e dannneggiamento di
libri e condannato a sei mesi di carcere. In
prigione scrive The Ruffian on the Stair.
1963 – Scrive la commedia Entertaining
Mr Sloane (Intrattenendo il Signor Sloane).
1964 – Entertaining Mr Sloane è rappresentata al New Arts Theatre Club di
Londra. Scrive The Good and Faithful
Servant e Loot (Il malloppo). The Ruffian
on the Stair è trasmesso dalla BBC Radio.
1965 – Scrive The Erpingham Camp.
Entertaining Mr Sloane viene rappresentato a Broadway.
1966 – Scrive Funeral Game. The
Erpingham Camp è trasmesso dalla
Rediffusion Television.
1967 – Loot vince l’Evening Standard
Award per la migliore commedia del
1966. Scrive per i Beatles la sceneggiatura Up Against It. The Ruffian on the
Stair e The Erpingham Camp, unite sotto
il titolo Crimes of Passion, vengono rappresentate al Royal Court di Londra.
Scrive What the Butler Saw (Ciò che vide
il maggiordomo). Il 9 agosto Kenneth
Halliwell uccide Joe Orton a colpi di martello e poi si suicida.
1969 – Il 5 marzo Ciò che vide il maggiordomo viene rappresentato sul palcoscenico del Queen’s Theatre di Londra.
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spettacoli ospiti
Malavitaeterna
Non tutto è risolto
di Gian Piero Alloisio
Duse, 14 marzo – 18 marzo
di Franca Valeri
Corte, 10 – 15 aprile
(segue da pag. 1)
14 marzo > 20 maggio 2012
valori universali. Con Stefano Santospago,
Ludovica Modugno e Lorenzo Gleijeses.
rispettata, abbia qualche scossone emotivo.
Alla fine, il suo Riccardo non trova neanche un
cavallo, un prezzo vantaggioso per un regno.
Kohlhaas
Definita dal suo autore e interprete “operina
musicale teatrale sulla marginalità”, Malavitaeterna racconta una storia ambientata in
un centro per tossicomani e altri emarginati.
Uno spettacolo pieno di vitalità, affidato soprattutto al canto e al recitato su musica eseguita dal vivo. Radiografia di una società che
si sta drogando: senza saperlo, senza volerlo,
senza sentirsi in colpa. Con Alloisio, sono in
scena la sorella Roberta e Federico Sirianni.
A novant’anni passati, la signora della scena
italiana Franca Valeri gioca in assoluta libertà
con la propria avventura esistenziale e artistica, ma evita accuratamente di cadere nell’autobiografismo. Scrive e interpreta una
commedia arguta, ironica, elegante; abitata
da personaggi sempre un po’ matti, a cominciare dalla sua Contessa, alle prese con il passare degli anni e con una situazione finanziaria alquanto sgangherata. Con Licia Maglietta
e Urbano Barberini.
di Remo Rostagno e Marco Baliani
da Heinrich von Kleist
Duse, 26 – 29 aprile
Acoustic Night 12
Incontro musicale tra Europa e Canada. La
dodicesima edizione dell’Acoustic Night di
Beppe Gambetta e i suoi ospiti (James Keelaghan, André Brunet, Eric Beaudry) rende
esplicito già nel sottotitolo (L’edizione dei due
mondi) quel movimento di andata e ritorno
tra le due sponde dell’ Oceano Atlantico che
ha sempre contraddistinto le sue “kermesse”
artistiche e culturali. Un nuovo appuntamento con la chitarra acustica (ma non solo).
Storia di Tönle
Il principe
di Homburg
Considerata (insieme con La marchesa von
O.) la maggiore opera narrativa di Kleist, Michael Kohlhaas, mette in gioco, attraverso la
storia di un uomo che diventa ingiusto per
eccessivo amore della giustizia, il contrasto
tra l’individuo e la società, scegliendo infine di
risolvere il conflitto nell’ambito del riconoscimento del valore oggettivo della giustizia,
fondamento dello Stato. Di e con Marco Baliani.
di Mario Rigoni Stern
Duse, 20 – 25 marzo
di Heinrich von Kleist
Corte, 18 – 22 aprile
Riccardo III
di Mario Jorio da William Shakespeare
Duse, 2 – 6 maggio
fuori abbonamento
di Beppe Gambetta
Corte, 3 – 4 – 5 maggio
dette e di corruzione morale, che spazio può
rimanere per una storia d’amore? Diretto da
Vito Malcangi con Giuliana Manganelli nel
ruolo di Erodiade.
Il motore ad acqua
di David Mamet
Duse, 15 – 20 maggio
fuori abbonamento
Un testo di Mamet mai rappresentato in
Italia e proposto da una compagnia di giovani formatisi alla Scuola dello Stabile.
Riusciranno le fonti di energia pulita a sconfiggere la crisi economica? Ambientata ai
tempi della Grande Depressione, la commedia racconta l’odissea di un giovane inventore che ha progettato una macchina che
produce energia consumando solo acqua piovana. Regia di Mauro Parrinello.
Il venditore di profumi
di Mario Bagnara
Duse, 8 – 13 maggio
fuori abbonamento
Ministero Beni e Attività Culturali
soci fondatori
COMUNE DI GENOVA
Nel racconto di Stern, da cui lo spettacolo è
tratto, l’esistenza degli umili s’intreccia con i
grandi avvenimenti della Storia. Alle prese
con la legge austriaca e, poi, con la tragedia
della Grande Guerra, la vita di Tönle, contadino e pastore, corre via rapida e intensa; a
contatto con la natura e alla ricerca della
pace interiore. Un grande narratore, fatto
rivivere dalla recitazione epica di Petruzzelli.
Un giovane militare prussiano del Settecento
di fronte al contrasto tra i suoi romantici sogni di gloria e l’implacabile oggettività della
legge. L’opera forse più significativa del grande scrittore tedesco viene riproposta da Cesare Lievi, nel duecentesimo anniversario della sua morte, nella sua sconvolgente capacità di definire personaggi, di dar vita a sentimenti e a passioni, di costruire un mondo di
PROVINCIA DI GENOVA
REGIONE LIGURIA
«Una visione, una teoria, un punto di vista»
sulla tragedia scespiriana, sottolinea Mario
Jorio. Un gioco teatrale alla ricerca di un personaggio. Forse anche una parodia: certo la
costruzione “arbitraria” di motivazioni profonde che sommate fanno sì che la storia, pur
Nella commedia di Orton torna, con
nostra sincera gioia, un attore
ormai noto al grande pubblico, Ugo
Dighero. Ciò che vide il maggiordomo è pieno di situazioni imbarazzanti, tentativi di seduzione, scambi di identità, aggressioni e inseguimenti, in una storia che ci travolge
rovesciandoci addosso una comicità senza tregua nel rappresentare
un folle mondo fatto di rapporti fra
politica, sesso e potere, molto simile a quello che ci siamo appena lasciati dietro la porta (almeno speriamo!). Accanto a questi spettacoli tutti nostri, a completare l’ultima
parte della stagione una decina di
spettacoli ospiti fra cui spiccano la
prova di una spiritosissima signora
della scena, Franca Valeri, e l’appuntamento internazionale di Beppe
Gambetta con i suoi amici virtuosi di
chitarra. Infine con i cinque appuntamenti con Platone e i suoi interpreti migliori, e con le nostre Mises en
espace porteremo a compimento
una stagione che avevamo promesso come “piena di emozioni”. Forse
abbiamo mantenuto la promessa.
Carlo Repetti
sostenitore
La biblica storia di Salomé che, istigata da
Erodiade, chiede a Erode la testa di Giovanni
il Battista, viene fatta rivivere da Mario Bagnara nell’ambito del suo prediletto “teatro
di parola”. In un contesto d’intrighi, di ven-
sostenitore
numero 35 • marzo 2012
Edizioni Teatro Stabile di Genova
piazza Borgo Pila, 42 | 16129 Genova
www. teatrostabilegenova.it
Presidente Prof. Eugenio Pallestrini
Direttore artististico e organizzativo Carlo Repetti
Condirettore Marco Sciaccaluga
Direttore responsabile Aldo Viganò
Collaborazione Annamaria Coluccia
Segretaria di redazione Monica Speziotto
Autorizzazione Trib. Genova n. 34 del 17/11/2000
partner della stagione
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R a s s e g n a d i d r a m m a t u r g i a c o n t e m p o r a n e a Dal 15 maggio al 2 giugno, in scena alla Piccola Corte tre novità di autori extraeuropei
Trittico tra passato, presente e futuro
Prodotta dal Teatro Stabile di Genova, la Rassegna giunge quest’anno alla XVII edizione con alle spalle più di cinquanta proposte di nuovi testi, molti dei quali sono poi diventati dei veri e propri
spettacoli di produzione. Tre storie ambientate in un possibile futuro (Benedictus), in un passato scosso dalla lotta per la sopravvivenza (La huelga de las escobas) e in un presente sempre attuale (Offices).
ISRAELE - IRAN - STATI UNITI
ARGENTINA
STATI UNITI
PICCOLA CORTE
PICCOLA CORTE
PICCOLA CORTE
da martedì 15 a sabato 19 maggio (ore 20.30)
da martedì 22 a sabato 26 maggio (ore 20.30)
da martedì 29 maggio a sabato 2 giugno (ore 20.30)
Benedictus
La huelga de las escobas
Offices
(Benedictus)
(Lo sciopero delle scope)
(Uffici)
di Motti Lerner
di Roxana Aramburu, Patricia Suárez e Mónica Ogando
di Ethan Coen
versione italiana di Enrico Luttman
versione italiana di Ernesto Franco
versione italiana di Luca Viganò
regia di Roberto Alinghieri
regia di Mario Jorio
regia di Matteo Alfonso
Tra fantapolitica e realtà. Mancano poche
ore all’attacco Usa all’Iran che non ha
obbedito al divieto di dotarsi di armi
nucleari. Due amici divisi dalla storia, un
iraniano e un israeliano, si danno appuntamento in segreto in un monastero
romano, per cercare di fermare una guerra
che si preannuncia catastrofica. Il loro
incontro è spiato dai servizi segreti americani e dal monaco benedettino che li ospita. Fra i ricordi di un’ antica amicizia e l’urgenza dei protagonisti di modificare le
cose a proprio favore, la storia viaggia a ritmo di thriller verso una violenza che sembra
ormai inevitabile. La scansione del lento e implacabile trascorrere delle ore concorre fino
alla fine a far mantenere il fiato sospeso allo spettatore.
Buenos Aires 1907. Il governo della Repubblica Argentina decide di aumentare l’affitto dei condomini popolari dove risiedono
soprattutto emigranti italiani, ma le donne
di Boca y Barracas non ci stanno e scendono in piazza con i loro figli, fronteggiando la polizia armate solo dello loro scope.
L’uccisione di un ragazzo di quindici anni
mobilita la protesta di più di quindicimila
persone, appoggiate da anarchici e socialisti. Il movimento va avanti per alcuni mesi,
ma poi inesorabilmente si spegne e molti
degli scioperanti stranieri sono espulsi dal paese. Nato da un episodio storico, il testo è
caratterizzato da un piglio epico con qualche riconoscibile reminiscenza brechtiana.
Tre atti unici scritti dal più giovane dei
fratelli Coen, noti soprattutto per l’attività
cinematografica. In Peer Review, un anonimo impiegato, malvisto dai colleghi, rivela
di possedere qualità incomprese e impreviste dai superiori e dai vicini di stanza. In
Homeland Security, l’attenzione si concentra su un agente segreto, con moglie e due
figli, che entra in crisi esistenziale per aver
perso una preziosa valigetta. In Struggles
Session, infine, l’assurdità della vita in un
ufficio emerge dall’odissea di un funzionario che, licenziato e poi riassunto con promozione, impara presto l’arte dei suoi
superiori e le leggi spietate della società capitalistica. Incomprensione, stupidità e
coazione a ripetere. Tre riflessioni in stile Coen, agili e ironicamente accattivanti, sulla disumanità del mondo del lavoro, non solo made in Usa.
Nato in Israele nel 1949, Motti Lerner ha studiato matematica e fisica a Gerusalemme e
teatro a Londra e San Francisco. Tra il 1976 e il 1979 ha scritto e diretto numerosi spettacoli
sperimentali. Dal 1979 al 1984 è stato direttore e drammaturgo del Khan Theatre di
Gerusalemme. Ha scritto sceneggiature per i principali teatri e canali TV israeliani. Molte
delle sue opere sono state rappresentate negli Stati Uniti, in Europa e in Australia. Insegna
“politic playwriting” all’Università di Tel Aviv. Ha tenuto conferenze in Europa, in U.S.A e
nelle università israeliane sul teatro israeliano e sul conflitto israelo-palestinese.
La huelga de las escobas nasce dall’incontro sul palcoscenico di tre donne connazionali
provenienti da esperienze diverse. Roxana Aramburu è un’attrice e drammaturga argentina
che ha vinto in patria numerosi premi teatrali con opere contrassegnate in prevalenza dalla
capacità di affrontare temi riguardanti i diritti umani e il rapporto con la storia nazionale;
Patricia Suárez, nata a Rosario nel 1969, è un’affermata giornalista e scrittrice, impegnata
anche nella realizzazione di testi teatrali di successo; e Mónica Ogando è una docente universitaria, insegnante di sceneggiatura cinematografica e di disegno dell’immagine, che ha
fatto sovente anche l’attrice in spettacoli alternativi.
Nato a Minneapolis nel 1957 da una famiglia ebraica, Ethan Coen è noto soprattutto per i
film di successo realizzati in coppia con il fratello Joel, di cui firma in prevalenza la sceneggiatura e la produzione, ma si occupa con passione anche di narrativa (una raccolta delle
sue opere letterarie è stata pubblicata da Einaudi con il titolo I cancelli dell’Eden) e soprattutto di teatro per il quale ha scritto, oltre ai tre atti unici che compongono Offices, anche
Almost an Evening, Relativity Speaking e Happy Hour.
“ I n t o r n o a l t e s t o e o l t r e ”, q u a r t a e d i z i o n e
Sei scuole, dieci insegnanti, undici gruppi di lavoro su otto spettacoli rappresentati nel corso della
stagione sui palcoscenici dello
Stabile di Genova. Per il quarto
anno consecutivo, il progetto Intorno al testo e oltre, promosso da
un gruppo di docenti coordinati
dalla prof.sa Carla Olivari, prosegue nel suo coinvolgimento delle
scuole della Liguria con la finalità
di agevolare la formazione di
“spettatori consapevoli”.
Dall’inizio dell’anno, infatti, sono
nati alcuni gruppi di studenti (e
forse altri si aggiungeranno prima
del 30 aprile, che è la data ultima
per presentare i risultati della propria ricerca) che stanno lavorando su spettacoli di riferimento,
assistiti dai loro insegnanti e supportati a richiesta dal Teatro
Stabile con testi, conferenze e
incontri con i protagonisti.
Guidati dalla prof.sa Alba Chicco,
gli studenti della classe IV C del
Liceo Scientifico Nicoloso da Recco hanno concentrato la loro attenzione su Arlecchino servitore
di due padroni di Goldoni e La
scuola delle mogli di Molière.
Al Liceo Classico D’Oria, il prof.
Marco Martin segue il lavoro della classe I C su ITIS Galileo di Marco Paolini; mentre la prof.sa Simonetta Spinelli dell’Istituto Montale di Genova sta coordinando il
lavoro della classe II B linguistico
su Romeo e Giulietta di William
Shakespeare, che è stato scelto come spettacolo di riferimento anche dalla classe IV D del Liceo
Classico Colombo, assistita dalla
prof.sa Alessandra Barisone e dal
prof. Luigi Cavagnaro. Sempre al
Colombo di Genova, altri due
gruppi stanno lavorando intorno
ad altri spettacoli: la classe III D
ha scelto, infatti, di analizzare con
la prof.sa Barisone The History
Boys di Alan Bennett, e contemporaneamente le classi IV e V sempre del corso D stanno approfondendo insieme alle prof.se Sonia Pastorino e Maria Rosaria Di
Garbo una riflessione su Elektra
di Hugo von Hoffmansthal.
Intanto, al Liceo Artistico KleeBarabino, la prof.sa Paola Boschieri sta conducendo tre studi
paralleli su Macbeth di Shakespeare nelle classi II, III e IV sezione I;
mentre al Liceo Scientifico Cassini di Genova la prof.sa Laura Forte, affiancherà il lavoro di Mauro
Pirovano nel seminario di teatro
promosso dallo Stabile genovese,
con la finalità di guidare i partecipanti alla riflessione multimediale su Ciò che vide il maggiordomo. Valutati da una commissione composta da docenti e giornalisti, tutti i lavori prodotti nelle
scuole nell’ambito del progetto
Intorno al testo e oltre saranno
presentati in pubblico, nel foyer
del Teatro della Corte, nel corso
del mese di maggio.
Hellzapoppin nel Foyer della Corte
Giovedì 29 marzo, ore 17
Presentazione del libro
Lunaria teatro: viaggio nei teatri “minori” della Liguria
con l’autrice Silvana Zanovello interviene Daniela Ardini
in collaborazione con l’Associazione Lunaria
Mercoledì 11 aprile, ore 17,30
Conversazioni con i protagonisti
incontro con Franca Valeri e gli interpreti di “Non tutto è risolto”
a cura di Umberto Basevi
in collaborazione con l’Associazione per il Teatro Stabile di Genova e I Buonavoglia
Giovedì 12 aprile, ore 17,30
Presentazione del libro
Arie d’opera al cinema
con l’autrice Franca Olivo Fusco, interviene Roberto Iovino
in collaborazione con la Fondazione Mario Novaro
Venerdì 13 aprile, ore 17
Pagine messaggere d’amore
“La notte sarà sempre tenera...” di Zelda e Scott Fitzgerald
in collaborazione con l’Associazione “L’incantevole aprile”
INGRESSO
LIBERO
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Grandi Parole
Alla Corte un ciclo dedicato all’attualità del filosofo greco. INGRESSO LIBERO
Platone, l’importanza del dialogo
Scritti quando ormai la grande
stagione del teatro greco
stava per finire, i Dialoghi di
Platone conservano all’interno del loro assunto filosofico
una forte idea di teatralizzazione del dibattito sui valori
umani. E ciò non solo per la
loro struttura narrativa, fatta di
domande e risposte, relazioni
tra esseri umani ben definiti,
tra i loro modi diversi di vedere il mondo, ma anche per la
vivacità e la concretezza che
caratterizza la parola dello
scrittore Platone, il quale,
insieme all’esposizione dei
concetti, sa sempre evocare
anche azioni, rapporti personali, stati d’animo, facendo dei
suoi interlocutori (con in primo piano il maestro Socrate)
dei veri e propri personaggi
teatrali. È da queste considerazioni che nasce la scelta di
dedicare il XVII ciclo delle
Grandi Parole ai Dialoghi di
Platone, ma anche dal progetto di offrire al pubblico dello
Stabile l’occasione di riflettere
sulla valenza universale dei
temi che tali Dialoghi affrontano, aperti come sono a un
confronto con la realtà contemporanea. Nulla di astratto o
di troppo specialistico, dunque; anche perché Platone è
un filosofo per il quale la speculazione teoretica va sempre di pari passo con l’urgenza
di tradurre il pensiero in comunicazione e in azione. Ad
accompagnarci lungo il percorso tracciato da alcuni temi
squisitamente platonici, ci saranno, nell’ordine cronologico
d’intervento, Gianni Vattimo,
Vito Mancuso, Massimo Cacciari, Giulio Giorello e Paolo
Flores d’Arcais, i quali introdurranno la lettura da parte di
attori di primo piano della
scena nazionale di alcuni Dialoghi di Platone, che verranno
fatti rivivere sul palcoscenico
della Corte ora in forma quasi
integrale (Simposio, Protagora,
Critone), ora tramite uno scelto
apparato antologico (Fedro, Fedone, La Repubblica, Teeteto,
Menone, Timeo).
in collaborazione con
Amore e erotismo
L’anima e il suo destino Virtù e conoscenza
Scienza e reminiscenza
La libertà e la legge
SIMPOSIO
FEDRO, FEDONE, LA REPUBBLICA
PROTAGORA
TIMEO, TEETETO, MENONE
CRITONE
conduce Gianni Vattimo
leggono Omero Antonutti
conduce Vito Mancuso
leggono Orietta Notari
conduce Massimo Cacciari
leggono Eros Pagni
conduce Giulio Giorello
leggono Massimo De Francovich
conduce Paolo Flores d’Arcais
leggono Massimo Venturiello
Federico Vanni
Elisabetta Pozzi
Massimo Mesciulam
Massimo Cagnina
Roberto Serpi
Massimo Malagugini
Roberto Alinghieri
SABATO 17 MARZO, ORE 17.00
LUNEDÌ 19 MARZO, ORE 20.30
SABATO 24 MARZO, ORE 17.00
LUNEDÌ 26 MARZO, ORE 20.30
LUNEDÌ 2 APRILE, ORE 20.30
Il Simposio è una delle opere di Platone
insieme più note e più misteriose. Colui
che racconta, Apollodoro, non è stato testimone diretto dei fatti evocati, ma riferisce ciò che gli è stato detto da un amico
che aveva partecipato alla serata in onore
di Agatone, il drammaturgo vincitore
delle Grandi Dionisiache. Il clima è quello
di una festa, con lo scorrere abbondante
del vino, nel corso della quale gli amici
scelgono di trascorrere il tempo parlando
di Amore ed erotismo. A turno, ciascuno
farà il suo elogio della divinità più inquietante dell’Olimpo, Eros. Il primo a prendere la parola è Fedro e via via intervengono
molti altri: il commediografo Aristofane
costretto a ritardare il suo intervento dall’urgenza del singhiozzo, il festeggiatissimo Agatone e il sempre sorprendente
Socrate, sino a che la rumorosa irruzione
di Alcibiade permetterà di concludere in
allegria il simposio, lasciando che il vino e
il sonno prendano il sopravvento su tutti,
Socrate escluso.
Due voci femminili per ripercorrere attraverso quattro tra i più famosi miti platonici (il mito della biga alata dal Fedro, quello dell’immortalità dell’anima dal Fedone
e quelli della caverna e di Er, esposti
rispettivamente nel libro VII e nel libro X
di La Repubblica) il viaggio dell’anima
umana dalla nascita alla morte, e alla
reincarnazione. La nascita come caduta
dall’Empireo, la vita sulla terra e la
volontà di risalita, l’illusione delle apparenze sensorie e la ricerca della verità, il
grandioso quadro dell’immensa pianura
dell’Aldilà dove le anime che hanno scontato la pena nell’Ade o che provengono
dalla colonna di luce celeste si troveranno
a dover scegliere la loro vita futura sotto il
governo di Ananke e l’amministrazione
delle Moire. Quattro miti per raccontare il
ciclo della vita: altrettante testimonianze
delle alte qualità di Platone scrittore il
quale, attraverso la parola, sa sempre
evocare spazi e costruire situazioni di
grande tensione emotiva.
La virtù è insegnabile? E la conoscenza, al
di là dei suoi contenuti nozionistici, è trasmissibile da una generazione all’altra?
Protagora è uno dei Dialoghi in cui
Platone affronta in modo esplicito il rapporto di Socrate, per il quale la verità è il
risultato di una disinteressata ricerca
comune, con i Sofisti, che di virtù e conoscenza si proponevano maestri, facendosi
lautamente pagare. Ma, pur nelle diversità di concezioni educative e di visione
del mondo che separa i due protagonisti,
qui il rapporto tra Socrate e Protagora
appare improntato a un reciproco rispetto.
Questo dà al Protagora un’impronta esplicitamente teatrale, con un bel prologo
che costruisce un clima e definisce l’argomento che si andrà trattando e un corpo
drammatico caratterizzato dal duello verbale e concettuale tra i due filosofi che,
pur muovendo entrambi da posizioni di
diffidenza reciproca, si dimostreranno disponibili a modificare le proprie idee a
confronto con le argomentazioni dell’altro.
L’idea che il mondo fisico sia stato scritto
in linguaggio matematico giunge a
Galilei attraverso una lunga tradizione
che fa capo alla cultura greca, e in particolare alla scuola platonica. Come si legge
nel Timeo, infatti, è stato il Demiurgo che,
incaricato di mettere ordine nel kaos originario, ha assunto come modello la
razionalità del mondo delle idee, con la
conseguenza che da quel momento
scienza e reminiscenza sono diventati concetti inscindibili nel pensiero di Platone.
Se conoscere vuol dire ricordare, dice il
“suo” Socrate nel Teeteto, identificando la
propria attività con quella della madre
levatrice, il compito del filosofo è essenzialmente quello di aiutare gli altri a partorire la loro verità. Una verità raggiungibile da tutti, purché perseguita senza
ottusi preconcetti, come ben dimostra nel
Menone l’esperimento condotto con lo
schiavo che, pur completamente ignaro
di geometria, giunge “da solo” a dimostrare il teorema di Pitagora.
Critone racconta il penultimo giorno di
vita di Socrate e, nella rivisitazione che
Platone fa della biografia del Maestro, precede solo di poche ore l’esecuzione della
condanna a morte raccontata nel commovente finale del Fedone. Nel dialogo, che è
uno dei più brevi della produzione platonica, il ricco Critone cerca invano di convincere Socrate a fuggire dal carcere. La
guardia è corrotta e gli amici sono pronti
a ospitarlo. Ma tocca a Socrate spiegare
ancora una volta al sempre più disarmato
discepolo la differenza che c’è tra sopravvivere e vivere, tra libertà individuale e
riconoscimento di appartenere ad un
mondo sociale, con le sue leggi a volte
anche ingiuste, ma che non possono
certo essere trasgredite per utilitaristico
calcolo personale. La riflessione di
Platone sul tema della necessità fondante
della Legge, possiede ancora oggi una
grande attualità, a testimonianza della
preziosa eredità che l’opera di Platone ha
lasciato a tutta la storia dell’Occidente.
Gianni Vattimo è nato nel 1936 a Torino,
dove si è laureato in Filosofia; ha poi seguito i corsi di Gadamer e Loewith all’Università di Heidelberg e ha studiato
con Hans-Georg Gadamer e Luigi Pareyson. Dal 1964 ha insegnato all’Università di Torino, nella quale è stato
Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Negli anni Cinquanta, insieme a Furio
Colombo e Umberto Eco, ha lavorato ai
programmi culturali della Rai-Tv. È autore
di numerosi libri, tra i quali forse il più
famoso è Il pensiero debole (1983), in cui
propone il passaggio dalle unità forti alle
molteplicità deboli, dall’autoritarismo alla
democrazia. Sostenitore di una comune
finalità tra filosofia e politica (Addio alla
verità, 2009), Vattimo è dal 1999 anche
parlamentare europeo.
Vito Mancuso è nato nel 1962 a Carate
Brianza da genitori siciliani. Ha studiato
teologia nel seminario arcivescovile di
Milano. È dottore in teologia sistematica e
docente a contratto presso la Facoltà di
filosofia dell’Università Vita-Salute San
Raffaele di Milano. Durante gli studi ha
lavorato nel mondo dell’editoria (Edizioni
Piemme, Edizioni San Paolo, Mondadori) e
oggi è editorialista di “La Repubblica”. Tra
le opere da lui scritte c’è L’anima e il suo
destino (2007) che affronta alcuni temi
platonici presenti anche in questa serata,
alla quale ha prestato il titolo. Più recentemente ha pubblicato Disputa su Dio e dintorni (con Corrado Augias, 2009), La vita
autentica (2009) e Io e Dio. Una guida dei
perplessi (2011).
Massimo Cacciari è nato nel 1944 a
Venezia. Laureato in filosofia a Padova,
inizia la carriera universitaria nel 1980. Nel
2002 fonda la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele a
Cesano Maderno, di cui è Preside fino al
2005 e dove è tornato a insegnare dopo gli
anni in cui è stato sindaco di Venezia (dal
1993 al 2000). Al centro della sua riflessione filosofica si colloca la crisi della razionalità moderna, già ravvisata nel pensiero di
Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e
Ludwig Wittgenstein. Numerose le sue
opere pubblicate, tra le quali basti ricordare Pensiero negativo e razionalizzazione
(1977), Icone della legge (1985),
Dell’inizio (1990), Della cosa ultima
(2004) e Hamletica (2009).
Giulio Giorello è nato nel 1945 a Milano.
Si è laureato in Filosofia nel 1968 e in
Matematica nel 1971. Ha insegnato alle
Facoltà d’Ingegneria (Pavia), Lettere e
Filosofia (Milano), Scienze (Catania). È
titolare della cattedra di Filosofia della
Scienza all’Università degli Studi di Milano.
Dalle prime ricerche in filosofia e storia
della matematica, i suoi interessi si sono
ampliati verso le relazioni tra scienza, etica
e politica. Collabora con il “Corriere della
Sera”. Ha pubblicato, tra l’altro, Le stanze
della ricerca (1992), Prometeo, Ulisse,
Gilgamesc (2004), Introduzione alla filosofia della scienza (2006), Albert
Einstein. Il Socrate della fisica (2009), La
filosofia della scienza nel XX secolo
(2010). Dirige la collana “Scienza e idee”
delle Edizioni Cortina.
Paolo Flores d’Arcais è nato nel 1944 a
Cervignano del Friuli. Filosofo, pubblicista e
ricercatore universitario, dirige la rivista
“MicroMega” ed è collaboratore di “Il Fatto
Quotidiano”, “El Pais”, “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e “Gazeta Wyborcza”.
Inizia a occuparsi di politica nell’organizzazione giovanile del P.C.I., dal quale viene
ben presto espulso. Sempre molto attivo
sul piano politico e culturale, partecipa al
Sessantotto e attraversa, quasi sempre da
posizioni minoritarie, i momenti più
importanti della storia degli ultimi decenni. Tra le sue opere più significative, Etica
senza fede (1992), L’individuo libertario
(1999), Hannah Arendt. Esistenza e
libertà, autenticità e politica (2006) e
Albert Camus filosofo del futuro ( 2010).
a Palazzo Ducale
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28 aprile – 19 agosto 2012
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Mario Dondero. Dalla parte dell’uomo
9 giugno – 19 agosto 2012
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Letture Europee. Tra storia, disincanto e futuro possibile
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