Il secondo Heidegger Il fondamento, il nulla e l`essenza della verità

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IL SECONDO HEIDEGGER
Il fondamento, il nulla e l’essenza della verità
Essere e tempo, come abbiamo visto, non dà la risposta alla domanda del senso dell’essere.
Proprio per questo Heidegger imprimerà una svolta al suo pensiero (Kehre). Tuttavia Heidegger
aveva affermato in Essere e tempo che l’orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in
generale è la temporalità (grazie al rapporto privilegiato dell’Esserci con l’essere). La concezione
dell’essere alla luce della temporalità, significava contrapporsi alla tradizione occidentale della
metafisica. Nella tradizione metafisica occidentale, tutto ciò che esiste ha un fondamento (Grund);
questo fondamento è alla base della spiegazione di ogni cosa. Proprio per questo, il sapere
metafisico, secondo la tradizione filosofica, è scire per causas. La metafisica della tradizione è una
metafisica della sostanza. Per Heidegger invece il fondamento dell’essere è l’Esserci, grazie al suo
rapporto con l’essere. Nella tradizione il fondamento era identificato con Dio (causa sui), per
Heidegger il fondamento è invece l’Esserci, che è la condizione di possibilità di darsi del mondo.
Ma questo Esserci che è Grund è Abgrund, cioè non fondato, perché l’Esserci, in quanto esistenza
gettata nel mondo, è libertà che tutto fonda, che a sua volta però non fonda se stessa.
Tramite l’Esserci, allora, l’essere si rende visibile nell’ente, ma non si risolve in esso. Esso è
piuttosto come una “luce” o un “orizzonte”, una “radura” (Lichtung) che, attraverso l’Esserci, rende
visibile l’ente. La metafisica occidentale, secondo Heidegger ha obliato la luce dell’essere, vedendo
l’essere semplicemente nell’ente. Quella che lui chiama “differenza ontologica” è proprio questa:
altro è l’essere dall’ente. Ora, solo l’Esserci è capace di andare oltre l’ente. Se cogliamo l’essere a
partire dall’ente, esso ci appare come il ni-ente, il nulla dell’ente. L’essere colto a partire dall’ente è
il nulla (dell’ente), il ni-ente. L’esperienza del nulla è allora la stessa esperienza dell’essere. La
metafisica occidentale è la metafisica del nulla.
Se in Essere e tempo la verità era considerata in modo esistenziale come un modo d’essere
dell’Esserci (il Dasein illumina il mondo), dopo la Kehre, la verità è intesa come l’accadere
dell’essere stesso che, in quanto Lichtung (radura), lascia essere l’ente, rendendolo visibile. La
verità, dunque, per Heidegger, non è una proprietà dell’intelletto o del cogito, non appartiene
all’uomo, ma è rivelazione dell’essere stesso, ciò che inerisce all’essere stesso. A partire da Platone
il vero era stato assimilato a ciò che risulta visibile agli occhi dell’intelletto (idea). La verità perciò
veniva ridotta alla correttezza del pensare o del volere. Per Heidegger la verità è l’accadere
dell’essere stesso, o l’essere in quanto evento (Ereignis). La verità come evento la si deduce anche
dalla sua semantica (aletheia): essa implica un superamento del non-nascondimento. Il carattere del
non-nascondimento della verità, che corrisponde allo stesso essere, non dice semplice apertura ma
anche condizione permanete di nascondimento (velamento) che sempre si realizza nell’ostendersi
dell’essere.
Metafisica, oblio dell’essere e nichilismo
La metafisica occidentale, secondo Heidegger, ponendosi il problema dell’essere, lo ha
eluso subito limitandosi a un’indagine intorno all’ente. Da Anassimando a Nietzsche, la metafisica
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sarebbe soltanto una “fisica”, dimenticando la differenza fra essere e ente. La metafisica sarebbe
pertanto oblio dell’essere, che giunge addirittura a un oblio dell’oblio. Essa diviene ontologia se non
ontoteologia, insieme cioè di ontologia, teologia e logica: ontologia perché interessata all’ente,
teologia perché fa dipendere tutti gli enti dall’ente supremo che fonda tutti e che è Dio, logica
perché pensa l’ente in riferimento alla ragione, instaurando un predominio del pensiero sull’ente.
Da qui l’equazione: metafisica = nichilismo. Infatti, pensando l’essere a partire dall’ente, esso alla
fine è il non-ente, è il ni-ente. Perciò, dal momento che, secondo Heidegger, la metafisica non è
semplicemente una parte della filosofia (come la logica o la gnoseologia) ma ciò che sta alla base di
tutte le manifestazioni di un’epoca (dall’arte, alla religione, all’etica e alla politica), - e questo
perché essere ed esserci si coappartengono originariamente - l’Occidente, che è la terra della
metafisica, è anche la terra dell’Occaso, la terra dove tramonta il sole, la terra della sera, del
tramonto dell’essere. Nietzsche sarebbe il culmine di questo tramonto metafisico. Riducendo
l’essere alla volontà di potenza (alla volontà creatrice dell’uomo), egli porta al massimo grado
l’oblio occidentale dell’essere, ovvero la propensione a fare dell’uomo la misura di tutte le cose.
Iniziato col platonismo (l’essere viene ridotto a idea o a valore), proseguito con Cartesio (la realtà è
identificata con la certezza che ne ha il soggetto pensante), giunge a termine con Nietzsche che vede
nella volontà di potenza l’intima essenza dell’essere. Di qui il destino della metafisica occidentale
nella risoluzione della tecnica (che vedremo più avanti) e il compito di Heidegger di voler superare
la metafisica, contro e oltre Nietzsche.
Essere, uomo ed evento
Fino ad ora abbiamo parlato di essere e di oblio dell’essere, ma che cos’è l’essere secondo
Heidegger? Non possediamo una definizione di Heidegger alla maniera classica, ma una serie di
concetti-metafore che illustrano il significato.
1. L’essere non è l’ente (o un ente e neppure l’ente supremo che è Dio), ma ciò che lascia
essere l’ente, lo rende visibile. Può essere inteso come la sveltezza che accade, l’orizzonte o la
radura al cui interno gli enti diventano manifesti. L’uomo non può rapportarsi agli enti (e a se
stesso) se non all’interno di questa previa comprensione dell’essere
2. L’essere non è una presenza stabile o una struttura, ma un accadere, , cioè un evento che
si, di volta in volta, in destini che fondano epoche. Perciò esso ha una manifestazione privilegiata
nel linguaggio.
3. L’essere è un evento che si manifesta e si nasconde poiché il suo presentarsi nell’ente
coincide con il suo assentarsi.
4. L’essere –evento – linguaggio nella dialettica di rivelazione/nascondimento, apre e
istituisce varie epoche e vari mondi: l’evento eventualizza, istituisce, fa accadere mondi, culture…
5. Essere e uomo sono strettamente congiunti, perché se l’uomo è in quanto appartiene
all’essere, l’essere, a sua volta, è di per se stesso riferito all’uomo. L’uomo non è mai senza essere e
l’essere non si dàò mai senza l’uomo. Questa originaria coappartenenza è Ereignis, evento, perché
ha il carattere storico della’accadere e dell’istituire aperture e mondi tramite l’uomo.
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Essere e pensare
Questa diversa accezione dell’essere rispetto alla tradizione, Heidegger addirittura lo traduce
anche dal punto di vista grafico, segnando una croce su Sein, o riprendendo il termine antico Seyn.
Questo a voler dire che si pone in continuità col pensiero autentico. Per Heidegger, allora, l’essere
non è oggettivabile; la conoscenza dell’essere non si raggiunge mediante un processo fondato
sull’astrazione; l’essere non è trascendente nel senso classico del termine; l’essere non è immanente
nel senso moderno di intendere l’immanenza; l’essere non è il Dio della fede religiosa e della
tradizione cristiana. L’essere sarebbe oggettivabile se fosse rappresentabile e, se fosse tale, se ne
potrebbe indicare la sostanza. L’impotenza delle nostre facoltà logiche di fronte all’essere lo
qualifica, almeno per noi, come al di là di ogni rappresentazione di ogni oggettivazione
sostanzialistica. L’essere non è cosa, ma evento, non un fatto ma un apparire, un sopraggiungere, il
suo spessore ontologico è quello della manifestazione, esso è epifania.
In questa prospettiva, perciò, pensare l’essere non si riduce a un atteggiamento logico, ma un
“raccogliersi” nell’apertura dell’essere (perché essere ed Esserci si coappartengono, sono
cooriginari. Il pensiero non procede dalla volontà di ricerca critica, ma nell’abbandono,
nell’inabbissarsi, nella discesa alla rivelazione dell’essere, all’essere che viene a noi dalle
profondità sena fondo. Il pensiero è dunque abbandono (Gelassenheit), quiete serena che non cerca
spiegazioni, deducioni o procedimenti dimostrativi. Il pensare è prima di tutto esperienza del
pensare, oltre il dominio logico del pensiero. Pensare è ringraziare: Denken ist Danken.
C’è dunque un rapporto tra essere e Esserci che si fonda sull’ineffabile: questo costituisce il
nostro esperire, è il mistero del nostro situarci nell’essere. Questo rapporto originario tra essere ed
Esserci getta luce sul piano dell’esperienza religiosa. Heidegger, a proposito, non parla di Dio.
L’essere non è Dio. Dinanzi all’essere siamo in un situazione di a-teismo, di assenza di Dio, che
non è esclusione polemica ma impossibilità. Heidegger sembra soffermarsi riverente alla soglia del
numinoso e delineare una sorta di pietas del pensiero. L’essere di Heidegger non è Dio, ma lo
spazio del sacro, secondo le affermazioni di Alberto Caracciolo. È lo spazio sgomberato dal Dio dei
filosofi (il Dio identificato come essere degli enti) della crisi religiosa contemporanea.
La centralità dell’essere e la polemica antiumanistica
Ormai è chiaro che nella riflessione di Heidegger abbiamo assistito a un progressivo
spostamento dall’uomo all’essere, ovvero al tentativo di non pensare più l’essere e il mondo a
partire dall’uomo, ma l’uomo e il mondo a partire dall’essere, fino al punto che il problema intorno
all’essenza dell’uomo cessa di essere un problema per fare posto al problema dell’essere. Da qui
una impostazione antiumanistica che caratterizza il secondo Heidegger. Secondo Heidegger, infatti,
ogni dottrina che cerca di spiegare l’ente a partire dall’uomo e in vista dell’uomo, facendo così
dell’uomo la misura dell’essere, subordina l’essere all’uomo. Perciò l’umanesimo, come quello di
Sarte ad esempio, che innescò la polemica sull’antiumanesimo di Heidegger, non sarebbe una
dottrina antimetafisica, ma proprio il risultato della metafisica occidentale stessa. Per Heidegger,
“l’uomo è piuttosto ‘gettato’ dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così e-sistendo,
custodisca la verità dell’essere, affinché nella luce dell’essere l’ente appaia come quell’ente che è”.
In questa seconda fase del suo pensiero appare chiaro come l’esistenza non è pensata più come
progetto, ma come l’estatico stare dentro la verità dell’essere, e il progettare è proprio dell’essere e
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non dell’Esserci: “Nel progettare, chi getta non è l’uomo, ma l’essere stesso, il quale destina l’uomo
nell’e-sistenza dell’esser-ci come sua essenza”.
In questo stare dentro l’evento stesso dell’essere da parte dell’Esserci, significa che l’uomo
esiste di volta in volta in orizzonti storico-culturali che precedono la sua progettualità, a cui
appartiene, di cui non è il soggetto. Così l’arte cessa di essere prodotto umano e diviene evento
dell’essere stesso. Allo stesso modo, il linguaggio non è creazione dell’uomo, ma qualcosa di
“ricevuto”, a cui l’uomo risulta consegnato. Inoltre, parrebbe, con questa prospettiva che non ci
sarebbe posto per l’uomo e per le sue iniziative. Heidegger, a proposito, parla di un “destino”
dell’essere non come di un fato necessario a cui l’uomo si abbandona nel suo essere gettato
nell’esistenza, ma come ciò che è inviato all’uomo dall’essere (Geschick): è un destino che destina,
come un appello che richiede una risposta parte dell’uomo
Arte, poesia e linguaggio
La dottrina dell’essere come evento trova un luogo di spiegazione e di ispirazione nella
teoria dell’opera d’arte. L’arte è la messa in opera della verità. Il nucleo dell’opera d’arte è quello di
mostrare la verità dell’ente, e quindi il significato autentico delle cose. Non che questo avvenga
attraverso una imitazione, ma per il fatto che un’opera d’arte è aprimento di ciò che un mezzo della
vita quotidiana è in verità. L’arte, più che riprodurre, istituisce la verità, è automanifestazione stessa
dell’essere in quanto radura (Lichtung) dell’ente e accadere di aperture storiche, in quanto istituisce
epoche. Non è il contesto che influisce sull’opera d’arte, ma l’opera d’arte che influisce sul
contesto.
La lingua tedesca usa due termini al posto della nostra parola poesia, ossia Poesie e
Dischtung. Giovandosi di questa sfumatura, Heidegger distingue la poeticità in senso ampio, nota
essenziale di ogni espressione artistica, che espriem col termine Dichtung, e la poeticità che si
espriem attraverso le parole del linguaggio, la poesia in senso stretto: Poesie. La poesia, tra le varie
arti, è la più specifica perché, attraverso il linguaggio, porta a svelamento l’accadere originario
dell’essere. Il linguaggio poetico è linguaggio che evoca l’essere.
Ogni arte è, nella sua essenza, poesia (Dichtung), ma Heidegger da il primato alla poesia
(Poesie) perché vi scorge in essa la forma propria del linguaggio.
E l’uomo esiste da sempre nel linguaggio e come linguaggio. Secondo Heidegger, non esiste
apertura di mondi se non all’interno di una “linguisticità originaria della nostra esperienza del
mondo”. Siamo consegnati al linguaggio e non c’è esperienza che non sia sempre in qualche modo
anche esperienza linguistica. Soltanto nel linguaggio gli enti possono apparire ed essere. “Il
linguaggio - afferma Heidegger – nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e
all’apparizione”. “Nessuna cosa è dove la parola manca”.
Ma per Heidegger il linguaggio non è una estrinsecazione fonica dell’interiorità umana, né
un mezzo di comunicazione. Molto di più è, per Heidegger, la “casa dell’essere”, ovvero il luogo
dove si eventualizza l’evento dell’essere. Casa di cui l’uomo non è proprietario, ma ospite: non è
l’uomo a possedere il linguaggio, è il linguaggio a possedere l’uomo. Il linguaggio è dunque la casa
dell’essere, la dimora, un “dire originario” che diviene evento (Ereignis). Questo dire originario
preesiste all’iniziativa dell’uomo e che l’uomo può raggiungere solo con il faticoso esercizio
dell’ascolto.
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La parola poetica allora coincide con questo dire originario. Per questo l’essere si manifesta
nella poesia (in quanto la poesia rispecchia il dire originario): nel linguaggio poetico l’essere
accade.
La tecnica
La metafisica trova il suo compimento nella tecnica: essa è il suo destino. A suo giudizio, la
tecnica era pensata dai greci in termini di produzione, cioè come un rendere-manifesto ciò che
prima non era svelato. Anche la tecnica moderna è una sorta di disvelamento, ossia essa trae fuori
dalla natura l’energia da accumulare e da impiegare. Se gli antichi con la tecnica favorivano l’opera
della natura e la seguivano nei suoi autonomi meccanismi, i moderni invece “accumulano” l’energia
naturale. In altri termini, l’uomo provoca la realtà, cioè la riduce a “fondo”. Nel mondo della
tecnica però alberga un pericolo: lo smarrimento dell’essenza dell’uomo e lo smarrimento
dell’essenza della verità, in quanto la tecnica è metafisica realizzata. La tecnica è l’esito scontato
dello sviluppo per cui l’uomo, obliando l’essere, si lascia travolgere dalle cose, rendendo la realtà
puro oggetto da dominare e da sfruttare. Questo atteggiamento, secondo Heidegger, non si fermerà
quando si arriva a minare le basi della vita stessa: è un atteggiamento onnivoro. Si tratta di una fede,
la fede nella tecnica come dominio su tutto.
Se la metafisica occidentale mette capo alla sua dissoluzione nella tecnica, il superamento
della metafisica implica l’avvento di un pensiero essenziale antitetico al pensiero calcolante della
tecnica. Tale pensiero si concretizza in un pensiero memorante che ha lo scopo di mantenere vivo il
problema dell’essere, al di là del lungo oblio che ha caratterizzato la metafisica lungo i secoli. Tale
pensiero è quello poetante, perché, in questo tempo di povertà, secondo Heidegger, un tempo nel
quale non si avverte neanche la povertà della povertà, solo i poeti sono capaci di evocare “le tracce
degli dei fuggiti”…
Il presente scritto è una sintesi a uso degli studenti di FORNERO –TASSINARI, Le filosofie del
Novecento, 739-767.
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