La voce MORTE curata da Amilcare è tratta da: Nuovo dizionario di Teologia,. a cura di Giuseppe Barbaglio e Severino Dianich, Edizioni Paoline, 1977 M orte SOMMARIO - I. La morte nell'attuale cultura: 1. Morte e società industria-le; 2. La morte nel pensiero marxista; 3• Riflessioni culturali sulla morte; 4. Conclusioni. II. La morte in riti e costumi non cristiani. III. Il messaggio biblico sulla morte: 1. La morte nell'AT; 2. Morte e riflessione teologica del NT; 3. La morte di cristo. IV. Riflessioni teologiche sulla morte: 1. Congedo di una concezione; 2. La sorella morte; 3. Morte come opzione radicale; 4. La morte come rivelazione del rapporto uomo-Dio. Il problema che la morte contiene è strettamente unito al tema della vita dopo la morte, tanto da sembrare che la comprensione stessa della morte dipenda dall'impostazione filosofico-cristiana della forma di vita possibile dopo questa esistenza (Immortalità, Risurrezione). Nel presente dizionario tuttavia i due problemi vengono trattati separatamente, permettendo un'ampiezza maggiore, e forse un confronto di diverse opinioni. Per questa impostazione tratterò il tema della morte in modo strettamente limitato al fatto della morte, prescindendo per quanto possibile da quello che può accadere dopo la morte. La mia riflessione terminando là dove termina la vita stessa rimane quindi ancora una riflessione sulla vita, o se si preferisce, una riflessione sulla morte come dimensione della vita e come evento finale della vita. La morte viene dunque qui considerata in se stessa, anche se questo modo di riflettere sulla morte ha delle forti limitazioni. I - LA MORTE NELL'ATTUALE CULTURA - L'uomo non muore come l'animale, ma tenta in diversi modi di porre il fatto della morte in un universo coordinato di valori e di norme, dove anche l'assurdo della morte dovrebbe trovare un certo senso. La morte presentandosi come una realtà interroga l'uomo, che lungo la sua storia tenta appunto di comprendere la realtà e di situare se stesso nell'oggettività. La risposta che l'uomo dà a questo interrogativo radicale deve essere cercata nel fatto culturale globale, inteso come un insieme di riflessioni diverse (filosofiche, psicologiche, teologiche, ecc.) e di modi di comportamento concreti, dove i valori ideali e il dato fattuale s'incontrano in un dinamismo storico interminabile. Tenuto conto di questo, mi propongo di cogliere in questa prima parte la comprensione della morte elaborata dall'attuale cultura occidentale, intendendo per cultura il fatto globale con cui l'uomo si rapporta alla realtà, nella duplice dimensione di creatura e di creatore. 1. MORTE E SOCIETÀ INDUSTRIALE - Anticamente, e ancor oggi nelle società semplici, la visione della morte faceva parte dell' esperienza quotidiana: i bambini vedevano morire in casa i malati e i vecchi, parlavano con i moribondi, osservavano il cadavere, partecipavano al lutto. Esisteva dunque un contatto diretto con la morte. L'esperienza della morte dell'altro veniva vissuta inoltre come una propria morte, in quanto l'altro era indispensabile, e in un certo senso insostituibile, per la propria vita. Nelle società industriali l'atteggiamento nei confronti della morte ha subìto profonde trasformazioni: se da una parte è aumentato il contatto indiretto con la morte (gli strumenti della comunicazione sociale mettono quotidianamente l'uomo di fronte al fatto della morte di numerose persone in tutto il mondo), il contatto diretto è quasi completa-mente scomparso, in quanto il rapporto con il fatto concreto della morte viene delegato a particolari istituzioni, come ospedali, case di riposo e agenzie funerarie. La tendenza fondamentale è di giungere a far scomparire la morte dalla società, rendendola culturalmente e socialmente invisibile. Separando i sani dai malati e dai vecchi, cioè da 1 quelli che sono vicini alla morte, si sottrae praticamente all'uomo l'incontro esistenziale con la morte, incontro che risulta sgradevole e imbarazzante. Nella società industriale la scomparsa di una persona è facilmente sostituibile, e questo impedisce di sentire la morte dell'altro come propria morte. Quei pochi incontri diretti che ancora si hanno con la morte, come la morte violenta negli incidenti stradali o nei fatti criminali o la morte di una persona sona appartenente alla propria famiglia, si riducono ad esperienze momentanee prive di ripercussione interiore, volutamente minimizzate per un'apparente volontà di vivere. Lo stesso concetto di morte viene censurato: è un luogo comune della nostra cultura il rappresentarsi la morte come una disgrazia, come un errore tecnico. Vi è una tendenza a bandire dalla coscienza pubblica il triste evento della morte: è scomparso l'uso e lo stato del lutto, il funerale di stato tenta da una parte di sottrarre la morte all’incapacità delle singole persone di far fronte a un confronto con questo triste evento, e dall'altra di rendere la morte spettacolo. Si ingenera in modo tacito l'idea che la società risolve il problema della morte, proprio come è compito della società risolvere il problema del singolo uomo che si avvicina morte (il vecchio, l'ammalato e infine il morto). Penso che tutto questo sia quanto mai evidente nel modo di impostare il problema della morte nella società americana, e in parte in quella inglese. È nata una nuova scienza, la mortuary science: essa si propone di trovare i mezzi più adatti per spogliare gli stati emotivi delle persone colpite da un grave lutto da elementi dolorosi e irritanti come l’afflizione, la coscienza di una colpa e la presenza di turbamenti interiori. L'allestire un funerale è divenuto una professione e suppone un intero complesso di qualificazioni tecniche includenti trattamenti del cadavere, l’imbalsamazione, il truccare, le tecniche psicologiche per allontanare dai sopravvissuti sentimenti fastidiosi e la capacità di orchestrare un ampio spettacolo che permetta al cadavere di scomparire in un modo indolore e perfino piacevole. L'intera operazione conosce una quantità di eufemismi per evitare parole come cadavere, porre nella bara, seppellire, al fine di nascondere la realtà repellente della morte. Un grossissimo giro di affari economici si aggiunge a questo mito illusorio rendendolo ulteriormente strumentalizzabile. Nella nostra società industriale dunque l'atteggiamento generale verso la morte tende a non prendere posizione nei suoi confronti. Questo non è certamente un atteggiamento nuovo originario della nostra società; nuovo è il modo in cui attualmente si evita di mettersi di fronte al fatto della morte. Mentre infatti i precedenti rifiuti della morte erano tentativi intellettuali di alcune correnti di pensiero, l'attuale rifiuto appare di più come rifiuto derivante da una prassi legata alla stessa struttura della società industriale; ed e questa prassi che interessa e modella il rapporto delle masse di fronte alla morte. Nietzsche, p. es., rifiutava il pensiero della morte per pensare alla vita e all'esaltazione individuale della persona. La corrente epicurea operava una riduzione della morte, in quanto la considerava come morte totale e fine della stessa capacità di soffrire. Gli stoici invece accettavano la morte come fatto talmente naturale da appartenere in modo armonico all'ordine cosmico, retto da una provvidenza. Si assiste in queste correnti a una riduzione oggettivistica della morte, Nel pensiero più vicino a noi, influenzato dal primato della coscienza scienza soggettiva, la morte rivela l’assurdità della condizione umana, e di fronte ad essa il rifiuto diviene rivolta: basti pensare alle produzioni di Camus e di Malraux Qui però ci si mette di fronte alla morte, la si prende sul serio, ma non è possibile trovare una sia pur minima soluzione. L'atteggiamento attuale mi sembra dunque derivare dall'impossibilità di affrontare il problema della morte propria della società borghese per il suo spirito illuministico e razionalistico. Questa impossibilità si è organizzata in un modello di prassi che aiuta l'uomo a non porsi il problema della morte e a non lasciarsi toccare dalla sua assurdità. 2. LA MORTE NEL PENSIERO MARXISTA - « Tutti portano con sé nella tomba i fiori di un tempo, alcuni dei quali sono secchi e irriconoscibili. Una sola categoria di uomini va verso la morte priva di ogni consolazione tradizionale: è l'eroe rosso. Proclamando fino al suo assassinio la causa per la quale è vissuto, egli avanza lucidamente, freddamente, coscientemente verso il Nulla al quale gli si è insegnato a credere in quanto spirito libero. Il suo sacrificio è diverso da quello degli antichi martiri: questi morivano, quasi senza eccezione, con una preghiera sulle labbra, sicuri di avere così 2 meritato il cielo. Ma l'eroe comunista, sotto gli Zar come sotto Hitler o sotto qualsiasi altro regime, si sacrifica senza speranza di risurrezione. Il suo venerdì santo non è confortato — e ancor meno soppresso — da nessuna domenica di Pasqua, nella quale egli debba tornare personalmente alla vita. Il cielo verso il quale i martiri tendevano le braccia in mezzo alle fiamme e al fumo, questo cielo non esiste per il materialista rosso; eppure egli muore come confessore di una causa, e la sua superiorità non può essere confrontata se non con quella del cristiano dei primi tempi o con quella di Giovanni Battista »1. Così Bloch caratterizza la morte secondo il pensiero marxista, mostrandone ad un tempo la radicale nullità e la presenza di una "fede" che la trascende. Prima però di giungere alla posizione di Bloch conviene vedere brevissimamente la posizione classica del pensiero marxista. La morte, come la sofferenza, il dolore e tutti gli sforzi faticosi che l'uomo deve compiere, fanno parte del rapporto che unisce l'uomo alla natura; questo rapporto viene designato con il termine di lotta. L'uomo, che dà un senso alle cose, non ha con la natura che un solo legame: la lotta. L'assurdità del male rimanda all'assurdità della natura, donde il male appunto proviene e l'uomo non può che assumersi il compito di condurre una guerra spietata contro la natura, fino a giungere a un perfetto dominio su di essa. Il marxismo vede nella posizione cristiana una forma di platonismo che tenta di introdurre un senso nella vita e nella morte partendo dall'esterno, che sarebbe appunto Dio. Esso vuole invece rimanere fedele alla terra e alla storia dell'uomo e si sforza di cogliere nel progetto storico sociale un eventuale "senso" della morte, anche se propriamente non si può par-lare di senso, perché la morte è anteriore e al di fuori di ogni senso. In questa prospettiva anche per il marxismo non tutto finisce con la morte: « Rifiutiamo di credere che tutto sia finito. La tavola sopravvive al falegname e 1'opera all'artigiano. Di fronte al peso sconvolgente di una morte, non soltanto siamo lì a rendere testimonianza alla persona morta, ma ad assumere l'impegno di continuare l'opera avviata » 2. Per questo muoiono veramente e completamente solo gli sfruttatori e i loro complici, e tutti coloro che hanno costruito la loro vita solo per se stessi. La trascendenza cristiana in un al di là viene sostituita con un'emergenza che va verso il futuro; l'azione salvatrice di Dio è rimpiazzata dal progetto storico-sociale che gli uomini vanno costruendo nella storia. Al fondo ci sta certo una diversa antropologia: « La coscienza più disposta ad accogliere il marxismo è quella che non mette niente al di sopra della libertà dell'uomo padrone del proprio destino, mentre la coscienza più disposta ad accogliere la fede cristiana è la coscienza che non mette nulla al di sopra della possibilità offerta all'uomo di accedere a una stabilità e a una perfezione» 3. Non si tratta propriamente di una posizione idealistica dove il soggetto scompare in un tutto ideale, quasi un laico fantasma del Dio cristiano trascendente, ma di una visione dove l'uomo è colto all'interno dei legami complessi che ha con gli altri e con la realtà. Neppure in questa visione sociale infatti la morte acquista propriamente un senso, essa rimane per il marxismo un fondamentale non-senso. Leggermente diversa mi sembra la posizione della corrente calda del marxismo: basti qui ricordare il già citato pensiero di Bloch. Il suo pensiero sulla morte rimane aperto a un interrogativo serio che ruota su un gran “può essere" e che affonda le sue radici nella concezione antropologica di Bloch. Onestà di fronte alla realtà della morte, che non può essere in alcun modo mistificata, e speranza in una dimensione ugualmente presente alla realtà si danno la mano in un cerchio di pensieri suggestivi. «Ma se il nostro nocciolo — un homo assolutamente absconditus,. in cui è racchiuso l'unico mistero genuino, il mistero della stessa nostra più prossima immediatezza — non si è mai oggettivato, allora esso non può, non essendo ancora realmente nato, neppure realmente svanire. Anzi: ciò che la sua prossima vicinanza, in tutta la sua più profonda profondità non è ancora stato portato alla luce del nostro essere, questo homo intensivus sed absconditus, proprio perché esprime il non essere ancora divenuto, sta ancora nettamente al di fuori del territorio dell'essere annientante della morte» 4. Questa visione antropologica, e non propriamente il progetto socialista, fonda la speranza di Bloch e apre una possibilità oltre la morte ben più solida del semplice permanere dell'opera e della missione del singolo nel progetto sociale. 3 3. RIFLESSIONI CULTURALI SULLA MORTE - Filosofia e psicologia hanno approfondito il tema della morte. I loro contributi mi sembrano preziosi sia per comprendere il peso della morte nella nostra attuale cultura, sia infine per elaborare una riflessione teologica adeguata. Heidegger ha fatto della morte la chiave fondamentale del suo pensiero e insieme la chiave per la comprensione autentica dell'essere. La morte da una parte è la misura dell'essenza finita dell'uomo, dall'altra la misura dell' essere che appare in modo finito nell'uomo. Nella luce della morte, e soltanto in essa, l'uomo diviene autentico, poiché sullo sfondo di una possibilità per il nulla ogni 'altra possibilità positiva si può trasformare in cantico all'essere e pub apparire l'essere in quanto tale. Sullo sfondo della morte anche la libertà acquista spessore. La morte rendendo insicuro il domani concentra l'interesse della libertà sulle decisioni dell'oggi, che appaiono definitive e totali. Sembra contraddittoria questa interpretazione che vede nella morte lo sfondo per un'autentica costruzione dell'essere e afferma che la presenza della morte in ogni situazione è condizione indispensabile per dare ad ogni istante la sua pienezza. Ma nella vita umana, dominata da una dialettica tensione tra l'appello alla pienezza dell'essere e la condanna al nulla della morte, sembra contraddittoria ogni soluzione. Il me-rito fondamentale di questa riflessione heideggeriana sta nell'aver mostrato che la morte, prima di essere un evento finale e puntuale della vita, è la dimensione stessa del poter vivere umano, e allora essa deve essere collocata nell'ampio orizzonte dell'essere limitato. Allo stesso risultato è giunta anche una riflessione psicologica, partendo soprattutto dal binomio sessuale nel quale solamente si dà l'uomo reale esistente. Nel complesso biologico la sessualità appare ad un tempo come espressione della vita e come rivelazione della mortalità individuale. Essa assicura l'immortalità della specie, e manifesta la mortalità del soggetto vivente. Freud ha strettamente legato il principio del piacere con l'istinto della morte, ed è proprio l'esperienza sessuale che li pone intrinsecamente uniti. In questa linea Oraison interpreta il passo di Luca (20, 35-36), dove si dice che « coloro che saranno ritenuti degni dell' altro mondo e della risurrezione dei morti non prendono moglie né marito, e nemmeno potranno più morire... » come un accostamento tra l'uso della sessualità e la morte, come realtà che si danno congiuntamente e solo in questa vita 5. Proprio perché l'essere esiste come diviso in una bipolarità sessuale e proprio perché non può mai giungere a una compiuta unità che superi la dualità (il frutto dell'incontro sessuale è infatti a sua volta sessuato), per questo l'uomo muore. Ma allora, di nuovo, questa morte l'uomo la vive come anima stessa della sua vita, e proprio là dove maggiormente coglie la vita maggiormente coglie anche la morte. Questa ricerca nelle riflessioni culturali attuali potrebbe continuare investendo l'antropologia filosofica, e anche la biologia stessa, che relativizza oggi fortemente il concetto di vita e di morte. 4. CONCLUSIONI - L'esame del modo in cui la società industriale ha sistemato il fatto concreto della morte ci aveva portato a dire che l'uomo attuale non vuole pensare alla morte e tenta di lasciarla al di fuori della sua esperienza esistenziale. Questo vuol forse dire che oggi non si prende la morte sul serio? Il pensiero marxista più che non prendere sul serio la morte sembra dare molto maggior peso a questa vita e a questa terra nell'orizzonte di un progetto storico-sociale. Le riflessioni culturali sembrano aver scoperto la morte come l'altra faccia della vita. La mia conclusione è che il rifiuto apparente della morte da parte della nostra società sorge come conseguenza per aver scoperto tutta la serietà della morte, e per non aver più la possibilità di evadere la realtà della morte con schemi religiosi idealistici. Queste conclusioni possono essere verificate da un confronto con altri costumi con l'intento di cogliere come altri popoli e altre culture hanno vissuto il problema della morte. II - LA MORTE IN RITI E COSTUMI NON CRISTIANI - I riti e le tradizioni funebri sono generali, quanto lo è la morte. Essi variano secondo la coscienza che l'uomo acquista del mistero della vita, e differiscono secondo le varie culture, secondo che l'uomo è primitivo, o religioso, o completamente secolarizzato. In ogni modo manifestano l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla 4 morte. Cercherò di trarre dai diversi riti alcune linee comuni, che possono indicare la comprensione della morte presso altre culture. Innanzitutto bisogna osservare che di fronte alla morte che si fa presente in un membro di un gruppo sociale la vita degli altri uomini subisce una minaccia, ed essi sentono il bisogno di difendere la vita collettiva con vari mezzi a sfondo magico-religioso. Per i primitivi il cadavere è fonte di impurità e il timore del contagio o della contaminazione è tenuto vivo dai diversi riti di purificazione. In Africa, p. es., quando muore una persona importante tutta la vita del villaggio si ferma, la comunità è preoccupata di se stessa e c'è pericolo di perdere il contatto con la vita del cosmo. I riti di separazione mettono in luce la necessità di impedire al defunto un ritorno al villaggio: il cadavere è portato fuori di casa attraverso un passaggio praticato nel muro, lo si porta alla sepoltura per una strada secondaria, la sua casa viene purificata o distrutta e gli vengono spezzate le membra e legati i piedi. I riti di integrazione provvedono a reinserire la vita della comunità nel ciclo vitale. Anche le varie pratiche religiose prescritte in moltissime culture, come commemorazioni funerarie o culto dei defunti, rivelano una certa paura di fronte agli spiriti dei defunti, i quali devono essere tenuti buoni. Infine secondo alcuni etnologi l'uso di distruggere gli oggetti del defunto o bruciandoli o mettendoli nella fossa con il cadavere (unitamente alle persone a lui care, come le mogli e gli schiavi) potrebbe indicare ancora la necessità di separarsi completamente da tutto ciò che, essendo in qualche modo legato al defunto, può essere la presenza della morte. Come secondo aspetto generale i riti mostrano in maniera evidente, a volte in maniera disperata e patetica, che l'uomo si rifiuta di ammettere una fine totale e assoluta. La fede in una qualche forma di sopravvivenza è un elemento fondamentale nelle usanze funerarie. Presso i primitivi la protezione del corpo del defunto e la sua conservazione si basano sulla convinzione che tutto questo impedisca o ritardi la morte definitiva. Alla credenza che l'uomo continui a vivere dopo la morte si riferisce anche l'uso di provvedere al defunto quanto gli possa servire per il viaggio ultraterreno, come armi, cibo, soldi. Nelle religioni superiori, come il musulmanesimo, induismo e buddismo, questa fede si esprime apertamente nelle preghiere e nelle formule di fede, che quasi sempre rimandano a una visione filosofia generale. Così ogni cultura ha elaborato con la propria fantasia un regno dei defunti, non completamente staccato da questo mondo, ma neppure troppo in contatto con esso, una via di mezzo dunque tra la minaccia che la morte esercita sulla vita e la credenza che anche la morte è parte della vitae che non si muore mai completamente. I riti funebri infine esprimono un tentativo di integrare la morte nella vita e un momento dove la vita stessa si interroga radicalmente. Nella penisola dell'Indocina il monaco buddista ripete per tre volte sulla bara, appena prima che venga messa nella tomba, il seguente ritornello: « Come sono effimere tutte le cose composte! E’loro natura il nascere e il morire; venendo, esse se ne vanno; e giungono al meglio, quando ciascuna incomincia a cessare e tutto è riposo! » 6. Nella setta Joodo Shinshuu de buddismo giapponese, quando si collocano sull'altare domestico i resti della cremazione, si recita questa significativa preghiera: « La vita quaggiù è una chimera; la morte un vento impetuoso che all'uomo strappa la vita. Nessuno sa il giorno in cui dovrà morire; nessuno conosce il giorno in cui questo vento di morte strapperà la vita all'uomo. Ah, non varranno a ridargli la vita i gemiti dei suoi cari! Ossa e solamente ossa è quanto resta di questo fatale addio e questa caduca sorte non rispetta età; tutti ci uguaglia. Orsù, a tempo teniamo a cuore quello che più importa, invocando il nome di Amida, la cui misericordia è nostra salvezza» 7. I tre elementi messi in risalto colgono alcuni aspetti della morte che sotto altre forme abbiamo già incontrato nella nostra cultura, anche se dal punto di vista ritualistico ci comportiamo molto diversamente di fronte al fatto concreto della morte. 5 III - IL MESSAGGIO BIBLICO SULLA MORTE ('Immortalità) – 1 LA MORTE NELL'AT -- Non c'è una visione della morte comune all'intera bibbia, neppure al complesso degli scritti veterotestamentari. Diverse concezioni seguono le diverse tappe evolutive del pensiero ebraico, o meglio diverse visioni della morte corrispondono alle differenti intonazioni culturali che hanno caratterizzato le diverse tappe storiche del popolo eletto. Senza pretendere di fissare la successione cronologica di queste tappe le espongo in sintesi secondo un nesso logico che ne facilita la comprensione. La morte è innanzitutto una realtà naturale, il termine norma-le della vita umana. Nei patriarchi appare come il riposo al ter-mine della lunga giornata della vita; si muore bene perché si è sazi della vita. In genere l'israelita chiede solo che gli sia con-cesso di terminare i suoi giorni in pace. Solo la morte prematura o una morte improvvisa o penosa appare come una punizione e come qualcosa che non ha senso. Questa prima impostazione non è frutto di una speranza nella sopravvivenza, ma al contrario è in continuità con l'impostazione antropologica che non permette l'idea di una vita dopo la morte. Lo sheol ebraico non è che un'immensa tomba dove i morti giacciono inerti, dove cessano il bene e il male della vita (Gb 10,21; 17,13-16; 3,17-19). L'uomo ebraico continua a vivere nei suoi figli, che portano il suo nome, e nel popolo di cui egli è membro, per questo può morire tranquillo. Una prova di tutto questo sta nel fatto che rigorosamente parlando manca in tutto 1'AT un culto dei morti e il problema di comuni-care in qualche modo con i trapassati. In un secondo momento si approfondisce la riflessione sulla bellezza della vita e dei beni della terra, e questa meditazione è inserita nella visione religiosa propria dell'alleanza. La vita è l'essenza stessa di Dio; Jahve è il vivente, colui che fa vivere tutti i viventi e che dà la vita all'uomo. Come conseguenza sorge una visione negativa della morte: la morte come opposto della vita è anche l'opposto di Dio. La morte decompone lo stesso rapporto con Jahve: i morti, proprio perché morti, non possono lodare Jahve, e Dio stesso dimentica i morti, una volta che hanno passato le porte dello sheol (Sal 6,6; 30,10; 88,12-13). Qui appunto la morte diviene qualcosa di non naturale, qualcosa che deve essere spiegato, perché crea difficoltà nella visione della fede. In opposizione alla credenza mesopotamica che attribuiva la morte alla gelosia degli dèi, Israele collega la morte a una responsabilità morale dell'uomo, che rifiuta il cibo della vita (Gn 2-3). Proseguendo su questa linea la morte è vista come il male, il peccato. Bisogna però notare che nella concezione più diffusa essa è male non perchè castigo del peccato, ma perché è per sua natura anti divina, è l'opposto di Dio. Il carattere di pena proprio della morte, che si vede così chiaramente nella narrazione jahvistica di Gn 3, non si osserva altrove nell’AT 8. La riflessione del libro della Sapienza si rifà a un filone culturale particolare, con una diversa antropologia e cosmologia. Alla luce della morte nasce una particolare meditazione sulla vita umana, la morte illumina la vita e ne rivela il senso. La viene allora un bene fragile e fuggitivo, un'ombra, un soffio, un nulla (Sal 39,5ss; 89,48; Gb 14,1-12; Sap 2,2-5). É una vanità perché la sorte finale è uguale per tutti, e unisce perfino la sorte dell'uomo a quella dell’animale: « Tutti vanno a un solo luogo; tutti vengono dalla polvere, tutti ritornano nella polvere. Chi può sapere se il fiato dell’uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra? » (Ec 3,20-21). Infine due prospettive portano a concepire una speranza oltre la morte: da una parte l’allargamento progressivo della potenza di Dio porta Israele a pensare che Dio può dominare anche la morte e lo sheol; da un'atra parte la morte definitiva e totale del giusto mette fortemente in crisi la fede nell'alleanza e spinge a credere che Jahve non abbandonerà il suo servo. Jahve deve avere qualche mezzo perché la comunione con lui possa essere conservata a coloro che gli sono fedeli; diversamente in definitiva non ci sarebbe alcuna differenza tra rettitudine ed empietà (Sal 16,10; 49,16; 73,23-28). Quando la speranza si esprime in tutta la sua maturità prende l'unica forma 6 possibile per 1'antropologia ebraica: la risurrezione del corpo. Questa speranza interessa dapprima solo Israele (Ez 37) o il servo sofferente (Is 53,10-12), ma alla fine nella prospettiva messianica escatologica riguarda tutti gli uomini nel contesto di una nuova creazione (Is 26,19; 25,8; Dn 12,2). Neppure questa prospettiva finale sembra però cambiare il carattere contingente della morte, che per tutto 1'AT rimane fondamentalmente la fine dell'uomo. 2. MORTE E RIFLESSIONE TEOLOGICA DEL NT - Il processo di teologizzazione dell'evento biologico della morte raggiunge nel NT la sua compiuta espressione, fino a fondere il concetto di morte fisica con quello della morte "spirituale". La caratteristica fondamentale di questa riflessione teologica sta nel fatto che la morte e la vita diventano del tutto relative rispetto all'avvenimento manifestatosi in Gesù Cristo. Vi è innanzitutto un ampio discorso sulla morte intesa come situazione propria e caratteristica di tutta l'umanità, situazione appunto teologica prima che fisica. Questa morte è legata al peccato di Adamo (Peccato originale) e ogni uomo, e dietro essa agisce « il principe di questo mondo ». Proprio come il peccato questa morte si estende su tutti gli uomini utilizzando perfino la legge e rendendo schiavi tutti i figli di Adamo. L'opera essenziale di Cristo è vista in questa prospettiva come duello con la morte: egli ha assunto la nostra morte, e morendo per noi ha definitivamente sconfitto la morte. Il cristiano è chiamato a morire con Cristo e passare con lui dalla morte alla vita: questo morire-risorgere si vive nel battesimo e nella vita quotidiana. Si tratta qui dunque di un'ampia teologia dove l’intera realtà umana è vista e valutata a partire dall’avvenimento di Gesù Cristo: a quella luce la realtà umana appare in se stessa come morte, poiché è unicamente quello che è avvenuto in Cristo che merita il nome di vita. L'esperienza di fede di ciò che si è fatto presente in Gesù manifesta chiaramente che tutta la vita dell'uomo è sotto il segno del peccato e della morte, se vista al di fuori del rapporto con Cristo. Contemporaneamente però si coglie pure l'irrompere di una vita nuova, o meglio che unicamente in Cristo la vita è la vera vita, già ora presente. « In verità, in verità vi di-co: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha man-dato ha la vita eterna e non è sottomesso a condanna, ma è passato dalla morte alla vita » (Gv 5,24); « Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se è morto vivrà » (Gv 11,25). Il rapporto con Cristo diviene il criterio di lettura di tutta la realtà: essa appare "morte" senza di lui, e con lui la vita è la vera vita. Che rapporto ha tutto questo con il fatto della morte biologica? I due discorsi si assommano al punto che perfino i primi cristiani credettero forse che per loro non ci sarebbe stata la morte fisica. In questo orizzonte la morte biologica diviene l'epifenomeno della situazione umana, ossia quel punto dove maggiormente si manifesta ciò che l'uomo è senza Dio (morte) e ciò che è per dono di Dio (risurrezione). La vita e la morte come situazioni concrete stanno ugualmente davanti a Dio: « Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore » (Rm 14,8); « Che vegliamo o che dormiamo, viviamo insieme con lui » (1Ts 5,10); « Per questo in-fatti Cristo è morto ed è ritorna-to alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi » (Rm 14,9). Non solo la morte non ci può separare da Dio (Rm 8,38), ma può addirittura essere un guadagno (Fil 1,21) e una liberazione finale (2Tm 4,18). L'uomo è dunque liberato dalla morte maledetta, da quel tipo di morte che scaturiva dal peccato; la morte "naturale" non è più la separazione da Dio, ma un congiungersi a lui. Si danno dunque due tipi di morte: una morte maledetta che indica la lontananza da Dio, e una morte "naturale" che indica la fine di questa vita senza mutare il rapporto con Dio. Queste due morti si danno distintamente: i credenti hanno già alle loro spalle la maledizione della morte prima della fine della loro vita; gli iniqui hanno ancora davanti a sé questa morte anche dopo la loro morte fisica (Ap 20,6.14). La speranza nella risurrezione diviene un dato fondamentale, strettamente legato all'opera di Cristo e alla risurrezione (1Cor 15,12-36). Il Cristo è colui che dà la vita facendo partecipare alla sua esistenza di risorto. Se da una parte abbiamo qui un certo entusiasmo che rischia di mistificare la realtà concreta della morte, da un'altra parte troviamo l'indicazione teologica più profonda, che 7 consiste nell'inquadrare il dato della morte nell'ampio rapporto che lega l'uomo con tutta la realtà a Dio, dove Dio è colui che risuscita i morti (2Cor 1,9) e l'uomo colui che è venduto in potere del peccato e della morte (Rm 7,13-14). 3. LA MORTE DI CRISTO - Penso innanzitutto che l'evento della morte-risurrezione di Cristo (come fatto) riemerga come dato non assimilabile definitivamente neppure dalle riflessioni neotestamentarie. Esso è il nucleo che contesta ogni teologia, compresa quella del NT, per questo bisogna parlarne a parte. Gesù Cristo non ha storicamente vissuto la morte con quei sentimenti "cristiani" già descritti da Paolo nelle sue lettere; egli ha piuttosto sperimentato la morte come l'ebreo dell'AT: nell'abbandono e nella decomposizione del suo rapporto con Dio stesso. Gesù aveva predicato e testimoniato con i miracoli l'irrompente vicinanza di Dio agli uomini peccatori e abbandonati, ma questo approssimarsi di Dio all’uomo viene meno nell'esperienza dolorosa della morte in croce . Gesù non aveva certamente dato un significato chiaro alla sua morte , e sicuramente i suoi discepoli rimasero scandalizzati per il fallimento teologico connesso con la sua morte. Sicuramente Gesù morì gridando, e forse immerso in una certa disperazione: i vangeli mostrano chiaramente lo sforzo progressivo di mitigare la durezza di questa morte per renderla più conforme alla susseguente morte "cristiana", ma contemporaneamente mostrano il fallimento esistenziale e ideologico che avvenne nella morte di Gesù. Il paradossale confronto con la morte di Socrate, che è oramai un luogo comune 9, mette in luce il tipo di morte drammatica che Gesù ha subito: nella sua morte Gesù si è sentito abbandonato non solo dagli uomini, ma anche da quel Dio che aveva annunziato come vicino all'uomo sofferente (Mr 15,34), e in questo totale abbandono ha sperimentato il suo fallimento. Ma ecco l'annuncio paradossale della fede: in questa morte dolorosa, prevista dalla prassi giuridica romana per gli schiavi e i malfattori, Dio si è identificato con Gesù morto, senza impedirne l'esperienza dolorosa, ma collocandosi oltre, e nel mettersi in contatto con la morte Dio si rivela come colui che chiama all’essere chi non è e al nuovo essere chi più non esiste. «mentre nell’AT Dio appariva infinitamente lontano dalla morte e per nulla toccato dalla irrazionalità mortale, nella morte di Gesù egli invece subisce il contatto della morte. Identificandosi con Gesù morto, Dio si è realmente esposto all'estraneità aggressiva della morte, ha esposto la sua divinità alla potenza della negazione. E lo ha fatto proprio per essere presente in questo modo per tutti gli uomini... Ma se Dio non cessa neppure nella morte di rapportarsi a noi... allora vuol dire che nel cuore della irrelazionalità della morte è nato un nuovo rapporto di Dio con l'uomo... Dio si inserisce proprio là dove si spezzano i rapporti e le relazioni vengono meno. E in questo disinteressato esporsi di Dio si rivela la sua stessa essenza » 10. Questo è il contenuto stesso della risurrezione, la quale deve essere vista non come una successiva fase temporale dopo la morte, ma come l'altra faccia della morte, ossia come la morte dal punto di vista di Dio. Tutta la fede del NT parte da questo punto centrale, e da qui risale a comprendere l'intera vita di Gesù: e La fede, secondo cui Dio sarebbe diventato uomo, non è sorta soltanto dopo la morte di Gesù ma si fonda nella sua morte e solo in seguito è stata messa in connessione con la sua nascita » 11 Infine naturalmente l'annuncio di questo evento si pone come riguardante tutti gli uomini, sollevando un'istanza per tutti e garantendo una promessa per tutti 12. Le interpretazioni che la morte di Gesù ha avuto nel NT sono naturalmente diverse. Gli Atti degli Apostoli considerano la morte di Gesù come un errore giudiziario, corretto poi da Dio, quindi come un pretesto per giungere alla risurrezione. La teologia di Paolo nel suo insieme è sicuramente una teologia della croce, anche se non focalizza teologicamente il fatto puntuale della morte. Nei sinottici l'evento salvifico viene localizzato all’inizio dell’esistenza storica di Gesù, e la sua morte appare come la conclusione, non solo come successione cronologica ma anche nella dimensione della profondità, della sua dedizione a Dio. In Giovanni invece attraverso le tematiche della /gloria (doxa) e dell'ora la morte di Gesù è vista come la manifestazione di Dio, che proprio nella croce vive la comunione con gli uomini, stipulando con loro la nuova alleanza. La stessa tesi è sostenuta 8 dal vangelo di Marco. Tutto quanto il NT dice sulla morte dell'uomo si legittima partendo in modo più o meno esplicito dal fatto nuovo della morte-risurrezione di Gesù Cristo. Si giunge così alla paradossale conclusione che il cristiano può vivere una morte migliore, dal punto di vista teologico, della stessa morte di Cristo. IV. - RIFLESSIONI TEOLOGI-CHE SULLA MORTE - Una ricerca storica a mio avviso potrebbe confermare l'idea di fondo che la riflessione sulla morte è sempre in sintonia con la visione della vita e viene teoreticamente declinata sui postulati fondamentali dell'antropologia. Mi limito a prendere in esame alcune correnti teologiche attuali. 1. CONGEDO DI UNA CONCEZIONE - Tradizionalmente la morte viene vista come separazione dell'anima dal corpo: questo significa che l'anima, intesa come principio di conoscenza, volontà e responsabilità dell'uomo, lascia il corpo corruttibile, e che l'uomo, anche dopo questo distacco, rimane in qualche modo capace di conoscere e di volere e conserva per sempre la responsabilità della vita condotta quaggiù. Questa dottrina è oggi filosoficamente negata dal materialismo e dall'esistenzialismo; teologicamente è rifiutata dalla teologia protestante e da numerosi teologi cattolici. Qui il problema è quello dell'antropologia: è infatti in questo ambito che generalmente si rifiuta oggi la concezione dell'uomo come anima e corpo. Secondo Flick-Alszeghy anche il Vat II avrebbe mostrato un'apertura verso un'antropologia unitaria, diversa da quella tradizionale, che si rifà non propriamente alla bibbia ma alla filosofia greca 13. Questa concezione della morte inoltre appare tipicamente idealistica: l'uomo non è radicalmente toccato dalla morte, non muore nella sua totalità, ma solo nel suo corpo. Una simile morte "apparente" contrasta oltre che con tutta la cultura attuale anche con la visione biblica della morte 14. 2. LA SORELLA MORTE - Vi è tutta una lunghissima tradizione cristiana risalente fino al « cupio dissolvi et esse cum Christo » di Paolo (Fil 1,23) che considera la morte come una liberazione finale per un compimento pieno ed assoluto nella comunione di Dio. L'epoca dei martiri ha visto tutto un fiorire di questa impostazione. Basti pensare a Ignazio di Antiochia che scrive ai romani: « Vi scongiuro, risparmiatemi uno zelo intempestivo. Permettetemi di diventare pastura delle bestie; è infatti per loro mezzo che mi sarà concesso di arrivare a Dio. Io sono il frumento di Dio, e sono macinato dai denti delle bestie per diventare il pane immacolato di Cristo. Accarezzatele piuttosto, affinché siano la mia tomba e non lascino sussistere nulla del mio corpo » 15. Anche molte iscrizioni tombali dei primi secoli rivelano il desiderio della morte: il giorno stesso della morte viene chiamato il giorno natalizio, e un pensiero di ringraziamento è spesso l'epigrafe più significativa 16. Questa tradizione è poi continuata nella mistica cristiana, quasi fino ai nostri giorni. Riguardo a questo modo teologico di vedere la morte — perché tale deve essere considerato — mi sembra di dover dire che questo filone testimonia certamente una posizione della fede cristiana che sa come la morte sia stata radicalmente vinta dalla morte di Cristo, e che con Paolo proclama fieramente: «Dov’è o morte, la tua vittoria? Dov’è o morte, il tuo pungiglione? » 1 Cor 15,55). Da un'altra parte però questa riflessione sulla morte è strettamente legata alla concezione della morte come separazione dell'anima dal corpo, e di questa concezione rivela l'aspetto idealistico e poetico, non prendendo sufficientemente sul serio la realtà concreta e dolorosa della morte. Non per nulla essa trova i suoi fondamenti, oltre che nel pensiero greco, nel contesto sociale del martirio, che elabora tutto un modo particolare di rapportarsi alla realtà mondana tendendo più a sfuggirla che a sposarla. Pur con molte sfumature diverse qui la morte si ispira più alla morte di Socrate che a quella di Cristo. 3. MORTE COME OPZIONE RADICALE - Alcuni teologi considerano la morte come il compimento finale e supremo di tutta la vita umana. La morte si presenta allora come la situazione privilegiata per eccellenza, nella quale l’uomo irrompe in una completa maturazione spirituale, in 9 cui l’intelligenza, la volontà, la sensibilità e la libertà possono per la prima volta essere esercitate nella pienezza delle loro capacità, senza i condizionamenti esterni, propri della situazione mondana. Solo nella morte si realizza, per la prima volta, la possibilità di una decisione totalmente libera, che esprime l'uomo tutto intero, dinnanzi a Dio, agli altri e al cosmo 17. Questa tesi già avvertita da Troisfontaines è stata sviluppata da Rahner e ha trovato la sua sistemazione più completa in una ricerca di Boros 18. Lo studio di Boros procede su due piani: quello filosofico e quello teologico; il suo metodo teologico è quello della convergenza del Vat. I. Attraverso sette ricerche filosofiche (analisi blondeliana del volere, analisi maréchaliana della conoscenza, analisi bergsoniana della percezione e della memoria, analisi marceliana dell'amore, dialettica esistenziale della storia individuale, esperienza poetica e attuazione kenotica dell'esistenza) Boros giunge alla conclusione che «la morte è il primo atto pienamente personale dell'uomo e quindi il luogo privilegiato in forza della stessa natura dell'essere, del divenire della coscienza, della libertà, dell'incontro con Dio e della decisione sul proprio destino eterno » 19. Questa tesi elaborata in sede filosofica viene utilizzata per illuminare e coordinare sei punti della fede cattolica: il carattere definitivo dello stato raggiunto nella morte, la salvezza come comunione personale con Cristo, l'universalità della redenzione, la dottrina sul peccato originale, la dottrina sul purgatorio e i fondamenti cristologici della decisione finale. L'ipotesi scelta sembra in grado di apportare una nuova luce a tutti questi problemi teologici, e la conclusione è quella di definire. la morte come situazione sacramentale. Questa tesi è in parte condivisa anche da Boublìk 20.. Ora questa tesi, in sé molto suggestiva, presenta dal punto di vista teologico serie difficoltà. Innanzitutto essa contraddice non tanto un'esperienza della morte (della morte non si può propriamente fare esperienza), ma il fatto che l'uomo intero muore e viene meno nelle sue forze, comprese le forze spirituali; a meno alle si voglia di nuovo far ricorso alla morte come separazione dell’anima dal corpo, il che mi sembra implicitamente necessario e ammesso da questa ipotesi. « Di fatto, l'aspetto negativo di "rottura" "vela" l'avvenimento della morte, in quanto non permette di sapere, in base alla pura esperienza umana, se la morte sia davvero compimento, o non sia invece annullamento di sé » 31 . Nuovamente qui la morte non è presa sul serio, come sul serio è stata vissuta da Cristo; ed è proprio su questo punto che l'ipotesi mostra una contraddizione con l'insegnamento biblico. Secondo il NT infatti è essenziale che « la morte, come fine della vita voluta da Dio, introduce l'uomo in una passività finale che appartiene al suo essere umano come suo limite positivo. Ci siamo così pronunciati contro una teoria sostenuta suggestivamente in filosofia, ma anche nella teologia cattolica, che interpreta la morte come la decisione ultima, l'azione dell'uomo che compie la sua vita (Rahner), "l'azione per eccellenza della volontà" (Boros). Questa interpretazione è biblicamente insostenibile. Essa non prende in considerazione la morte maledetta del peccatore, in quanto l'azione che perde la vita non intende affatto la morte che produce » 22 4. LA MORTE COME RIVELAZIONE DEL RAPPORTO UOMO-DIO - Volendo esporre in questo ultimo punto quella che mi sembra la vera comprensione della morte bisogna partire tenendo presenti due punti: il dato dell'esperienza che smentisce ogni fuga idealista e mantiene la morte come morte e nient'altro, e il fatto della morte di Cristo come ci è testimoniata dalla bibbia. L'onestà intellettuale richiede che anche il credente accetti il dato della morte, come realtà piena, dove tutto l'uomo realmente muore in un angoscioso non essere più. La rivelazione stessa conferma questo prendere sul serio la morte: per la bibbia la morte è l'evento dell'irrelazionalità che irrompe totalmente nelle relazioni vitali, in questo senso è la fine della storia di una vita. Quando muore, l'uomo. è ancora soltanto ciò che era; da 'sé non diventerà più nulla e quindi non sarà nemmeno più. La seconda dimensione, che troviamo nella morte di Cristo, è l'approssimarsi di Dio alla morte dell'uomo, questa è l'offerta di Dio, che definisce ad un tempo l'uomo e Dio, e illumina il loro reciproco rapporto. L'uomo si manifesta qui come incapace per un salto di qualità che lo porterebbe fuori del tempo, come impotente a perseguire fino in fondo quell'immagine di Dio, che è stata la sua 10 autocomprensione nella fede. Egli non può fare il passo al di là di se stesso, non può diventare Dio da se stesso (Gn 3,5). Questo non per un castigo, o perché Dio lo voglia mantenere in una passività eteronoma, ma perché unicamente nell'accettare la propria alienazione radicale ci si fa Dio, essendo Dio colui che si aliena nella morte e si lascia toccare dalla morte. Nella morte infatti anche Dio si rivela come colui che subisce e si aliena. Il rapporto Dio-uomo si manifesta qui come il rapporto di colui che giustifica il peccatore, di colui che chiama alla vita i morti, di colui che fa essere chi più non esiste. E tutta la vita allora si illumina di fronte a questa situazione finale, e si manifesta come il tentativo storico, mai riuscito, di gettarsi al di là di se stessi nella direzione dell'agape, tentativo che solo ora diviene possibile, non però per una precisa possibilità dell'uomo (tesi di Boros) ma per un dono di Dio. Anche qui dunque la morte è vista come sacramento, ma la fondazione di questa sacramentalità è completamente opposta a quella dell'ipotesi sopra ricordata. Così esposto il rapporto tra Dio e uomo può sembrare tipicamente protestante o eccessivamente soprannaturalistico con indicazioni antropologicamente insostenibili. Penso che questo sia in parte necessario una volta che si è deciso di prendere la morte sul serio. Il processo potrebbe però anche essere visto da un punto opposto: è la stessa persona che muore o risorge, non risorge una nuova. persona nel senso di una persona diversa da quella che era morta; vi è dunque una continuità. Perché poi questa continuità debba storicamente passare attraverso una discontinuità rimane incomprensibile, proprio come la continuità tra uomo e Dio (Gesù Cristo) sta nella discontinuità di Dio totalmente altro rispetto all'uomo. Ed è per questa inscindibile aporia che la verità della resurrezione non elimina la tragicità della morte. La fede sa che la morte ha trovato una soluzione sulla croce, tuttavia non sa perché la risposta all'attesa della vita si trova nella morte, nell’annientamento e nel "nulla".non sa, e non può sapere, perché la soluzione offerta nella morte è accompagnata dal silenzio di dio. La croce non elimina la morte, ma la pone in tutta la sua angoscia; l'insegnamento che essa dà all'uomo credente è: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »(Mc 15,34) La morte, in conclusione, «deve essere ridotta esattamente a un confine che nessun uomo può porre, perché nessun uomo può eliminarlo. La morte deve essere e deve diventare ciò che l’ha resa Gesù Cristo: la delimitazione dell'uomo soltanto da parte di Dio, il quale là dove noi siamo totalmente impotenti, non abusa della sua potenza. Là dove non possiamo fare nulla egli è presente per noi » 23. A. Giudici Note - 1 E. Bloch, Das Prinztp Hoffnung in Gesamtausgabe, Francoforte, Suhrkamp 1959, t. 5, 1378-1379. - 2 G. Mury, La sepoltura dal punto di vista marxista in Concilium 1968, 2, 371 – 3 G. Mury, Le marxiste devant la mort in VSS 77 (1966), 234; cf anche Aa. Vv., L'homme chrétien et l'homme marxiste, Parigi-Ginevra, La Palatine 1964. - 4 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Milano, Feltrinelli 1971, 320. - 5 M. Oraison, A propos d'une théologie de la mort in VSS 77 (1966) 216. - 6 J. Yiin-Hua, Annotazioni sui funerali buddhisti in Concilium 1968, 2, 358. - 7 K. Suitsu, Il buddhismo giapponese e la cremazione in Concilium 1968, 2, 365. - 8 J. L. Mckenzie, Aspetti del pensiero del vecchio testamento in Grande commentario biblico, Brescia, Queriniana 1973, 1822; cf anche G. v. Rad, Zao, Zôé in Theologisches Wórterbuch zum NT, II, 845. - 9 Cf 0. Cullmann, Dalle fonti dell'evangelo alla teologia cristiana, Roma, AVE 1971, 193-223; E. Jiingel, Morte, Brescia, Queriniana 1972, 67ss. - 10 E. Jiingel, o. c., 156-157. - 11 Ivi, 148. - 12 A. Grabner-Haider, Risurrezione e glorificazione in Concilium 1969, 1, 82-97. - 13 M. Flick-Z. Alszeghy, Fondamenti di una antropologia teologica, L.E.F. 1970, 97; cf anche A. Rudoni, Escatologia, Tonno, Marietti 1972, 85-86. - 14 Per ulteriori approfondimenti cf: J. M. G. Ruiz, Verso una demitizzazione dell'anima separata? in Concilium 1969, 1, 98-111; L. Boros, Mysterium mortis, Brescia, Queriniana 1969, 122ss; E. Jiingel, o. c., 67ss; S. Garofalo, Sulla "escatologia intermedia" in S. Paolo in Gr 39 (1958) 335-352. - 15 Padri Apostolici, Antologia patristica, Edizioni Paoline 1967, 228 (Rom 4,1). 11 16 H. Leclerq, Mort in DAL, 12, 40-41. - 17 L. Boff, Vita oltre la morte, Assisi, Cittadella 1974, 38. L. Boros, o. c. - 19 L. Boros, o. c., 136. - 20 V. Boublìk, L'uomo nell'attesa di Cristo, Bari, Edizioni Paoline 1972, 188. - 21 A. Rudoni, o. c., 116. - 22 E. Jiingel, o. c., 132. - 23 Ivi, 190. 18 BIBL. - Oltre alle opere che trattano l'escatologia (cf bibliografia di Escatologia) e alle trattazioni dei vari dizionari teologici cf: M. Bordoni, Dimensioni antropologiche della morte, Roma 1969. - L. Boros, Mysterium mortis, Brescia, Queriniana 1969. - V. Boublìk, L'uomo nell'attesa di Cristo, Bari, Edizioni Paoline 1972. - Id., La morte di Cristo in DThP 72 (1969) 74-91. - O. Cullmann, Immortalité de l’âme ou Résurrection des morts, Neuchatel 1956. - M. Cuminetti, Immortalità dell'anima o resurrezione dei corpi? La discussione nel Protestantesimo di lingua francese in SC 93 (1965) 142-156. - E. Jiingel, Morte, Brescia, Queriniana 1972. - V. Melchiorre, Sul senso della morte, Brescia, Morcelliana 1964. - M. Oraison, La mort... et puis après?, Parigi, Fayard 1967. - K. Rahner, Sulla teologia della morte, Brescia, Morcelliana 1965. - M. F. Sciacca, Morte ed immortalità, Milano, Marzorati 1959. - Aa. Vv., Le mystère de la mort et de sa célébration, Parigi, Cerf 1956. - Numeri monografici di riviste dedicati al tema della morte: Concilium 1968/2; 1969/1; 1970/10. - Gr 39 (1958). - MaisD 101 (1970). - VSS 77 (1966). LumVie 3 (1952); 24 (1965); 68 (1964); 101 (1971); 107 (1972). - Sacra Dottrina 13 (1968) 5. 12