Euro c ra c k?
Verso una p ossib ile imp losione d ell’ Euro p a d ell’ euro?
Vla d im iro Gia c c hé – Bo lo g na , 25 g e nna io 2014
1
La crisi europea si situa nel contesto di una crisi economica strutturale dei paesi a capitalismo avanzato.
Questa crisi, esplosa nel 2007, segna la fine di un modello di sviluppo che, pur con tutte le sue distorsioni,
aveva sostenuto la crescita di questi paesi per oltre 30 anni: il modello di sviluppo imperniato sulla finanza e
sul debito (soprattutto privato).
(Ho argomentato questa tesi in Titanic Europa, Aliberti, 2012, 2a. ed., pp. 7-46)
La risposta che è stata data alla crisi dalle classi dominanti è partita dal presupposto che quel modello
potesse tornare a funzionare come prima.
Si rendeva però necessario risolvere il problema delle imprese fallite (gran parte del mondo finanziario
internazionale) e più in generale del debito privato. Inoltre la crisi (proprio per il fatto di essere una crisi
strutturale e non soltanto dipendente – come tuttora ingenuamente si sostiene – dalle attività a rischio del
mondo finanziario) evidenziava un altro problema: un consistente eccesso di capacità produttiva.
Le politiche adottate hanno affrontato entrambi i problemi in modo coerente con il presupposto della
ripristinabilità del modello e con la connessa necessità di tutelare i grandi poteri finanziari e le grandi
corporations. Quindi:
1) Il debito privato è stato trasformato in debito pubblico, con una socializzazione delle perdite su
scala che non ha precedenti storici comparabili (ad es., nella sola Europa non meno di 5.000 miliardi
di euro sono stati resi disponibili alle grandi imprese finanziarie in crisi), e successivamente accollato
ai cittadini - e in particolare ai lavoratori - attraverso le politiche di austerity.
2)
2
È stata effettuata un’ingente distruzione di capacità produttiva.
Per fare luce su questo secondo aspetto (che ha ricevuto molto minore attenzione delle politiche di
austerity, ma che non è affatto meno importante) possiamo rifarci ad un documento della Commissione
Europea del 22 gennaio 2014, riferito al cosiddetto “industrial compact”, ossia alle misure comunitarie a
sostegno dell’industria.
2
A st r on ge r Eu r ope a n
I n du st r y for Gr ow t h a n d
Econ om ic Re cove r y
Te ch n ica l
Br ie fin g
3
L’impatto della crisi è rappresentato in questa slide:
I m pa ct of t h e Econ om ic Cr isis
• 3 m illion in du st r ia l j obs lost since crisis
started
I mpact of the Economic Crisis
million
industrial
jobs
lost since
• •I n3 dust
r ia
l pr odu
ct ion
1 0 %crisis
low e r than prestarted
crisis
• I ndustrial production 10% lower than precrisis
• Consumer and business con fide n ce ve r y low
• Consumer and business confidence very low
• Decline in manufacturing and competitiveness
• Decline in manufacturing and competitiveness
4
3
Questi sono, invece, gli obiettivi che la Commissione Europea si prefigge:
Goa l
4
• Currently industry accounts for ca. 16% of EU GDP
• Need to reverse the declining trend
• M a in Goa l: I n du st r y a ppr oa ch 2 0 % of GD P
2020
• Also, increase trade in goods in the internal
market to 25% of GDP by 2020
• And, 25% of SMEs to engage in markets outside
Europe in the medium-term
5
La situazione attuale, a giudizio della stessa Commissione Europea, non è incoraggiante:
la ripresa post-crisi si è arrestata…
Th e r e cove r y h a s st a lle d
EU 2 7 p r od u ct ion t r e n d
6
5
…e c’è un problema strutturale di competitività rispetto alle altre aree del mondo
Ot h e r ch a lle n ge s: boost in g
com pe t it iv e n e ss
• EU productivity growth is lagging
behind its main competitors
Tot a l fa ct or pr odu ct iv it y : t ot a l e con om y ( 2 0 0 0 = 1 0 0 )
6
We need to
take the
opportunities of
the new
industrial
revolution and
increase our
competitiveness
in the long run
Questo grafico in realtà non ci dice soltanto che l’Unione Europea evidenzia un andamento della
produttività totale dei fattori peggiore di StatI Uniti e Giappone.
Ci dice anche un’altra cosa:
che il confronto, in particolare con gli Stati Uniti, ha cominciato ad essere sfavorevole per L’Unione Europea
nel suo complesso dal 1999, ossia dall’anno dell’introduzione della moneta unica;
e che esso è particolarmente sfavorevole proprio per i paesi europei che hanno aderito alla moneta unica.
7
Ovviamente stiamo parlando di medie.
Del resto, anche il contributo del settore industriale (manifatturiero e costruzioni) al prodotto interno lordo
dei diversi paesi europei è molto differenziato.
Per il 2011 (ossia prima della crisi del 2012-2013) può essere raffigurato come segue:
M a n u fa ct u r in g a n d con st r u ct ion
7
As a p ct of GD P, 2 0 1 1
Sou rce: Eurost at ; STATEC for LU ( LU 2010)
Come si può notare,
delle prime 8 posizioni 4 sono coperte da paesi della cintura manifatturiera che ruota attorno allo hub
industriale tedesco (Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia) e un’altra è coperta dalla stessa
Germania.
L’Italia ormai non esprime un dato superiore alla media europea.
(si può notare inoltre che la 3° posizione dell’Irlanda è un dato alterato dal fatto che grazie al dumping
fiscale praticato da questo paese, che applica tasse del 12,5% alle imprese, molte imprese manifatturiere
hanno spostano la sede legale o stabilimenti secondari in Irlanda, pur mantenendo la produzione effettiva
altrove)
8
Quanto alla dinamica della produzione manifatturiera pre- e post-crisi , e in particolare di quella rivolta
all’export extraeuropeo, si può vedere dallo spostamento delle quote raffigurato qui:
Sh a r e of EU e x por t s
8
Cou n t r y sh a r e of EU e x por t s of g ood s, 2 0 0 6 a n d 2 0 1 1
EU sh a r e of w or ld t r a d e ( e x clu din g in t r a - EU t r a d e )
2 0 0 6 : 1 7 .3 %
2 0 1 1 : 1 5 .5 %
Sour ce: Eur ost at
La torta nel complesso si è ridotta, ma la quota relativa della Germania si è accresciuta.
9
La dinamica positiva dell’export tedesco è più chiara se consideriamo la progressione della bilancia
commerciale tedesca.
9
Da quest’ultimo grafico è evidente che la dinamica positiva dell’export tedesco ha preso l’avvio con la
moneta unica ed è cresciuta in modo pressoché costante, con la sola eccezione del 2008 e del 2009 (in cui
comunque è stato mantenuto un consistente avanzo della bilancia commerciale).
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Ma vediamo quali sono state le destinazioni dell’export tedesco nella prima metà del 2013:
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Come è facile osservare, la parte del leone è rappresentata dall’export all’interno dell’Unione Europea, e in
particolare dell’Eurozona. Basti pensare che l’export verso la Cina (6%) è pari ad appena i 2/3 dell’export
verso la Francia (9%), non supera quello verso l’Olanda (6%), ed è di poco superiore alle esportazioni
tedesche in Austria e in Italia (5% in entrambi i casi).
E in effetti il surplus commerciale tedesco matura quasi per intero in Europa.
(Anzi, sino a pochissimi anni fa la bilancia commerciale tedesca verso l’Asia era in passivo)
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Qual è il segreto di questo successo?
La crescita della produttività del lavoro? No.
La stagnazione, e per un buon numero di anni addirittura il calo, dei salari.
In effetti, a fronte di un aumento della produttività del lavoro che è stato del 14% dopo il 2000,
praticamente nulla è stato trasferito ai salari (+2%: linea rossa del grafico qui sotto),
mentre sono per contro letteralmente esplosi i profitti (+41%: linea blu).
Questo è il modello tedesco.
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Negli ultimi anni, le misure di austerity imposte (dall’Europa a guida tedesca) nei paesi in crisi dell’Europa
del Sud hanno modificato la destinazione dell’export tedesco, riducendo la quota destinata all’Europa a
vantaggio di quella verso paesi extraeuropei.
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Il tentativo di riequilibrare le esportazioni in direzione dell’Asia, e in particolare della Cina, è evidente.
Ma ricordiamoci che la proporzione dell’export tedesco è oggi quella raffigurata nel grafico 10.
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Il lascito di questa crisi, come pure delle misure assunte per contrastarla, è riassumibile in poche parole:
si aggrava la divergenza tra i paesi europei.
Si tratta di una dinamica esplosiva per la tenuta di un’area valutaria: infatti divergenza economica significa
tra le altre cose che è diventa sempre più difficile tenere paesi dall’andamento economico divergente sotto
il cappello di un unico tasso di interesse.
Lo si è visto con chiarezza in occasione dell’ultimo taglio dei tassi di interesse praticato da Draghi:
in Germania non sono mancate le voci critiche, perché si tratta innegabilmente di tassi eccessivamente
espansivi per l’economia tedesca, mentre per altre economie dell’area sono appropriati o addirittura ancora
troppo restrittivi.
Si tratta di una dinamica che nel lungo periodo è difficilmente governabile.
Con la crisi si è materializzato uno degli incubi dei fautori dell’unione monetaria europea:
uno shock asimmetrico, che colpisce cioè con diversa violenza i diversi paesi dell’area.
Per capire come la crisi abbia colpito in misura differente i diversi paesi sarà sufficiente questo grafico
dell’Economist:
15
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Purtroppo, tra i primatisti di questa crisi – ossia tra i paesi che ne sono stati colpiti più severamente – c’è il
nostro paese. Nel confronto storico, la nostra crisi attuale è peggiore non soltanto della crisi del 1929, ma
anche di quella del 1866. Di fatto, quella odierna è la peggiore crisi dall’Unità d’Italia in avanti.
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LA RECESSIONE DI OGGI NEL CONFRONTO STORICO: IL PIL
16
17
LA RECESSIONE DI OGGI NEL CONFRONTO STORICO:
LE COMPONENTI DELLA DOMANDA (1)
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LA RECESSIONE DI OGGI NEL CONFRONTO STORICO:
LE COMPONENTI DELLA DOMANDA (2)
18
19
LA RECESSIONE DI OGGI NEL CONFRONTO STORICO:
LE COMPONENTI DELLA DOMANDA (3)
Se disaggreghiamo le varie componenti della domanda, è evidente che quella più colpita è rappresentata
dagli investimenti. E questo significa pessime prospettive di crescita futura.
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Anche il confronto tra l’attuale crisi italiana e quella degli anni Trenta in Germania e Stati Uniti è tutt’altro
che confortante:
20
L’ ITALIA DI OGGI A CONFRONTO CON GLI STATI UNITI
E LA GERMANIA DEGLI ANNI TRENTA: IL PIL
Ma c’è di più: non si tratta di una crisi di breve durata.
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L’andamento del pil italiano pro capite è il peggiore dell’Unione Europea dal 1999, ossia dall’anno di
introduzione dell’euro:
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Nel confronto con gli Stati Uniti il calo del pil pro capite (a parità di potere d’acquisto) risale all’inizio degli
anni Novanta, e da allora è continuato senza interruzioni significative.
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Un altro problema, per la tenuta dell’eurozona, è rappresentato da un fenomeno che ha fatto la sua
comparsa negli ultimi mesi, ed è direttamente causato dalla recessione aggravata dalle politiche di
austerity: si tratta della deflazione.
L’aumento dei prezzi nell’eurozona è ormai molto lontano dal tetto del 2% che rappresenta la soglia di
intervento della BCE per raffreddare i prezzi (alzando i tassi d’interesse). Ma nel senso che è sensibilmente
più basso
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Non solo: la situazione dei paesi più colpiti dalla crisi è nettamente peggiore di questa media.
Grecia, Cipro e Irlanda sono già in deflazione.
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La divergenza sempre maggiore tra paesi all’interno dell’eurozona è ben visibile nel tasso di disoccupazione:
la media è in crescita e ai massimi storici (12%), ma ai picchi di Grecia, Spagna (27%) e Portogallo (18%)
fa riscontro un tasso di disoccupazione del 6,8% della Germania (dato di gennaio).
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Anche il deleveraging, ossia la riduzione dell’esposizione delle banche, colpisce in misura differenziata i
paesi europei.
I crediti sono in diminuzione ovunque…
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…ma la contrazione del credito, in particolare alle imprese non finanziarie, è molto più accentuata nei paesi
del Sud Europa, tra cui l’Italia. Ecco due grafici che riguardano il nostro paese. Il primo evidenzia il calo dei
crediti a residenti, ripartiti per settori di attività economica.
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Il secondo riguarda l’andamento dei depositi e dei crediti relativamente alle imprese non finanziarie.
Evidente il calo dei crediti.
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Il secondo grande pericolo per la tenuta dell’area valutaria, dopo la divergenza economica tra i paesi
dell’eurozona, è rappresentato dalla balcanizzazione finanziaria, ossia dalla risegmentazione dei mercati
finanziari e dal loro ridisegnarsi secondo linee coincidenti con i confini nazionali.
Un processo particolarmente significativo a questo riguardo (anche perché è stato una delle cause
determinanti dello scoppio della crisi del debito nei paesi cosiddetti “periferici” dell’eurozona), è il
progressivo rimpatrio dei crediti effettuati dalle banche tedesche e francesi nei confronti degli altri paesi
del’eurozona.
Ecco la situazione per quanto riguarda la Germania…
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…ed ecco la situazione quanto alla Francia
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Gli effetti di questo rientro a casa dei capitali prestati dalle banche tedesche e francesi
è chiaramente visibile nella percentuale di titoli di Stato italiani posseduti da investitori esteri:
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Ma ovviamente il ritrarsi di capitali stranieri ha avuto effetti pesanti anche sull’andamento della borsa
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Quali sono le previsioni di crescita per i prossimi anni?
Sarà possibile una decisa inversione di tendenza?
A questo fine sarebbe in verità necessaria una forte crescita.
Le previsioni però ci dicono che quest’anno in Italia non vi sarà nulla del genere.
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Gustavo Piga ha ripreso recentemente nel suo blog
(http://www.gustavopiga.it/2014/la-ripresina-che-uccide/)
alcuni grafici e alcuni passi dell’ultimo bollettino della Banca d’Italia.
La disoccupazione continuerà a crescere.
Anche perché di fatto l’unico elemento dinamico in termini di prodotto è rappresentato dall’export
(la stessa ripresa degli investimenti fissi lordi sarà in realtà anemica, se raffrontata con il 30% perduto negli
ultimi anni)
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Non solo: il vero e proprio crollo degli investimenti da parte delle imprese di minore dimensione
nel secondo semestre 2013 segnala che il settore manifatturiero italiano è ancora nel pieno della crisi.
La distruzione di capacità produttiva, in altre parole, va avanti
(e fa venire il dubbio che gli stessi numeri sulla ripresa futura degli investimenti del grafico precedente siano
eccessivamente ottimistici).
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E’ lo stesso bollettino della Banca d’Italia a sintetizzare efficacemente la situazione in un passo molto
significativo
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In altre parole:
continuano ad annaspare
-
le imprese di minore dimensione
-
quelle che producono per il mercato interno;
si tratta di imprese prevalentemente (anche se non esclusivamente) situate nel Mezzogiorno.
Che è come dire che nella Grande Divergenza, quella che continua ad allontanare l’Italia dal gruppo di testa
dei paesi europei, ce n’è una più piccola, ma potenzialmente non meno devastante per il nostro paese:
la divergenza Nord-Sud.
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Abbiamo visto in azione diverse “d”:
divergenza, deindustrializzazione, disoccupazione, deflazione, deleveraging.
Per le sorti dell’euro è decisivo capire se queste “d” ne possono produrre un’altra:
il default di uno Stato europeo sul proprio debito.
Che non si tratti di un interrogativo astratto ce lo insegna l’esperienza degli anni scorsi,
quando a più riprese l’eurozona è stata a un passo dalla rottura
proprio a motivo delle tensioni sui titoli di Stato di diversi paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia).
A un vero e proprio default non si è arrivati, ma di fatto in Grecia è già in atto una ristrutturazione del debito
(tanto più dolorosa quanto più essa è tardiva: ci si sarebbe dovuti arrivare a metà 2010).
Quanto agli altri paesi citati, ecco cosa si legge in una ricerca recente di Macquarie Equities Research
(European Banks. “Back to life, back to reality”, 7 gennaio 2014, p. 51):
“Italia, Portogallo, Irlanda e Spagna sono tutte nazioni per cui si prevedono livelli crescenti di debito in
percentuale del pil. Questo è chiaramente insostenibile ed evidenzia che le sfide con cui la regione deve fare
i conti sono state in fondo affrontate in misura limitata”.
C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, dal canto loro, ritengono che in base all’esperienza storica l’ottimismo dei
governi europei circa la possibilità di uscire dal debito senza una sua ristrutturazione sia ingiustificato:
“In Europa, dove la crisi finanziaria si è trasformata in diversi paesi in crisi del debito sovrano, la fase attuale
di negazione del problema è contrassegnata da un approccio della politica ufficiale basato sull’assunto che
la crescita normale possa riprendere per mezzo di un mix di austerity, pazienza e crescita. Si pretende che i
paesi avanzati non abbiano bisogno di utilizzare gli strumenti standard adoperati dai mercati emergenti,
che comprendono ristrutturazioni del debito, inflazione elevata, controlli dei capitali e significativa
repressione finanziaria… Questo modo di vedere le cose è in contrasto con i precedenti storici. In gran parte
delle economie sviluppate, ristrutturazioni o conversioni del debito, repressione finanziaria, e fiammate
inflazionistiche sono state parte integrante della soluzione data a situazioni di notevole eccesso di debito”.
La loro conclusione:
“il finale di partita della crisi finanziaria globale probabilmente richiederà una qualche combinazione di
repressione finanziaria (una tassa occulta sui risparmiatori), vera e propria ristrutturazione del debito
pubblico e privato, conversioni, inflazione alquanto più elevata, e svariate misure di controllo dei capitali
nell’ambito della regolamentazione macroprudenziale”
(C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, Financial and Sovereign Debt Crises: Some Lessons Learned and Those
Forgotten, IMF Working Paper, dicembre 2013, pp. 3-4).
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Una cosa è certa: sinora l’unica diga contro il default dei debiti sovrani in Europa non è stata rappresentata
dalle politiche di austerity, ma da un altro fattore che questo grafico evidenzia con chiarezza:
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Questo fattore è rappresentato dagli interventi della BCE:
prima i prestiti alle banche (fine 2011-inizio 2012), che hanno scongiurato una crisi bancaria legata ai
problemi del debito pubblico (senza però risolvere in radice il problema);
poi (luglio-settembre 2012) la manifestata intenzione di usare lo scudo antispread e di fare “tutto ciò che
serve” per non far saltare la moneta unica.
Basterà?
No, se le condizioni economiche dei paesi interessati peggioreranno in misura tale da rendere il debito fuori
controllo.
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Considerazioni conclusive
La situazione descritta sopra, in particolare con riguardo alla deflazione europea, era imprevedibile?
Tutt’altro. Ecco cosa affermò Luigi Spaventa in un discorso parlamentare del 12 dicembre 1978,
in cui motivò la posizione del PCI contraria all’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo
(il progenitore dell’euro):
“Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella
quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti
non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe
derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere
uno sviluppo più rapido della domanda interna.”
Nello stesso discorso Spaventa difese tra l’altro la propria posizione dalle accuse di voler bloccare il processo
dell’integrazione europea, e lo fece con parole che ci fanno venire in mente certi dibattiti dei nostri giorni:
“Si ritiene che l’edificazione del sistema monetario rappresenti il primo sussulto dell’idea europea dopo anni
di letargo; l’occasione non può e non deve andare persa; pur di rafforzare la Comunità, occorre sopportare
anche i sacrifici che derivano dalle imperfezioni tecniche del sistema. Questo è un argomento che occorre
valutare con attenzione, perché è il più serio e il più nobile che ci venga offerto. Obiettare a questo
argomento è pericoloso, perché si rischia di essere marchiati di antieuropeismo, si rischia di essere marchiati
come nazionalisti, come retrogradi, perché esiste anche una sorta di terrorismo ideologico europeistico.
Ma obiettare si deve. Sono quelle del sistema monetario, imperfezioni tecniche o non piuttosto i difetti di
una creatura nata politicamente male e politicamente malformata? Non derivano, queste imperfezioni,
dagli egoismi nazionali degli altri paesi più forti della Comunità? Perché mai, altrimenti, i costi che ci si
chiede di sopportare dovrebbero essere solo i nostri, mentre non paiono esservi costi per i paesi più forti?”
Le parole di Spaventa, purtroppo, disegnano la situazione di oggi:
39
-
un’unione asimmetrica (in cui ad es. le regole per l’unione bancaria sono fatte apposta per tutelare
il fragile e opaco sistema bancario tedesco dallo sguardo indiscreto della BCE, mentre si preparano
stress test sulle banche che sfavoriranno il nostro sistema finanziario);
-
un’unione in cui lo spettro della deflazione è sempre più concreto, mentre la Germania, oggi come
ieri, pretende che i costi dell’integrazione li paghino solo gli altri e procede nella marcia distruttiva
del suo mercantilismo, fatta di moneta forte, ultramoderazione salariale e (conseguente) rifiuto di
sviluppare la domanda interna;
-
un’unione in cui trionfa il pensiero unico neoliberista, da ultimo nelle surreali affermazioni del
presidente francese Hollande, che ha deciso di votarsi – al pari dei governanti tedeschi (CDU e SPD)
all’economia dell’offerta, giungendo a fare della “Legge di Say” (“è l’offerta che crea la domanda”) la
propria proposta politica.
Le conseguenze di questa posizione di Hollande sono state ben sintetizzate da Wolfgang Münchau in un
articolo del Financial Times del 19 gennaio scorso:
1. Il risultato del tentativo di risolvere un problema di domanda aggregata attraverso politiche
dell’offerta sarà necessariamente fallimentare anche in Francia, come lo è stato altrove.
2. Lo spostamento delle politiche francesi in questa direzione avrà “un impatto immediato sulla
periferia dell’eurozona. Se la Francia si affanna ad allinearsi alla Germania alle condizioni della
Germania, non c’è da aspettarsi pietà per nessun altro”
3. Questa situazione evidenzia infine che “il nuovo consensus copre l’intero spettro della politica
mainstream. Se vivete nel continente europeo e avete un problema con la Legge di Say, gli unici
partiti politici che vi serviranno saranno quelli dell’estrema sinistra o dell’estrema destra”
(W. Münchau, The real scandal is France’s stagnant economic thinking, Financial Times, 19 gennaio
2014)
Come si vede, il pensiero unico è più forte che mai – e non si fa problemi ad abbracciare teorie che non
hanno neppure il pregio della novità (la Legge di Say fu formulata nel 1803, e Marx poté farsene beffe
mezzo secolo dopo).
Per sconfiggerlo, bisogna far uso di categorie all’altezza della situazione, e soprattutto capire che il nemico
attuale non è più quello degli anni Settanta e Ottanta:
-
Non è lo spettro della svalutazione, ma la certezza della svalutazione interna (in pieno corso).
-
Non è l’inflazione, ma la deflazione (che rende insostenibile i debiti pubblici e privati).
-
Non è lo spettro dell’isolamento internazionale rispetto a un’Europa in costruzione (ma quale
Europa poi?), ma le costrizioni insostenibili di trattati europei che colpiscono l’Italia più che
qualunque altro stato dell’Unione: ricordiamo che dal 2015 dovremo non più soltanto attenerci al
(già folle) criterio assoluto del pareggio di bilancio, ma ridurre il nostro debito del 5% annuo
rispetto alla parte che eccede il 60% del prodotto interno lordo. In concreto: fare manovre da 50
miliardi l’anno.
A questi problemi non ha senso rispondere nel modo in cui spesso in passato la sinistra italiana ha risposto,
e cioè spingendo per un maggiore processo di integrazione europea anche dal punto di vista politico.
In questa Europa, nell’Europa la cui costituzione materiale (economica) è rappresentata dai Trattati attuali
(e in particolare dall’Atto Unico Europeo del 1986 in poi), la blindatura politica altro non sarebbe che
un’ulteriore arma, e potentissima, a chi vuole difendere lo status quo:
ossia una situazione in cui gli Stati europei competono tra loro
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-
a colpi di dumping sociale (meno diritti e meno salari)
-
e a colpi di dumping fiscale (meno tasse per le imprese).
Oggi la priorità deve essere un’altra:
41
-
il rifiuto di ulteriori cessioni di sovranità;
-
lo smantellamento dei vincoli del fiscal compact;
-
smetterla di considerare l’euro una variabile indipendente e un’Europa senza euro come il terreno
di manifestazione dell’apocalisse.
Oggi anche insospettabili europeisti sono giunti a pensare che precisamente l’euro rappresenti un
ostacolo sulla strada di un’effettiva integrazione europea (effettiva e non basata sul colonialismo interno
che oggi sempre più chiaramente si prefigura). Francois Heisbourg, ad es., ritiene necessario uno
“smantellamento programmato” della moneta unica (La fin du reve Européen, Paris, Stock, 2013).
La consapevolezza che nelle condizioni attuali l’area monetaria stessa è diventata un problema si sta
facendo strada anche nell’opinione pubblica europea, e in particolare nel nostro paese, come mostra questo
grafico di Deutsche Bank realizzato in base a sondaggi d’opinione:
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E se è giusto dire che i veri nemici dell’Europa e della moneta unica sono le forze che oggi accrescono la
divergenza tra i paesi europei, che spingono i paesi periferici in deflazione, che portano la
disoccupazione a sempre nuovi massimi – perché precisamente questi processi creano le condizioni per
“un’implosione incontrollata e distruttiva” dell’area valutaria (sono le parole con cui ho voluto chiudere
il mio Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2013,
p. 288) -, dobbiamo del pari essere consapevoli che se non si riusciranno a scardinare in tempi brevi
quei vincoli imposti dai Trattati, la stessa uscita dalla moneta unica diventerà una necessità.
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