La bellissima mente di Keplero che vide

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La bellissima mente di Keplero che vide - Non c'è scienza senza magia, come non - Il Sole 24 ORE
06/10/13 20:11
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11 marzo 2013
La bellissima mente di Keplero che vide con
l'occhio di Galileo
di Giuseppe Ceretti
Non c'è scienza senza magia, come non c'è nulla di reale se la mente umana non sa navigare nel fantastico. E'
il letto nel quale scorre il fiume del romanzo "L'occhio di Galileo".
Il genio del matematico imperiale Johannes Keplero tale non sarebbe stato se non avesse ricevuto impulso
proprio dall'anima irrazionale che fu in lui, e lo rese appieno figlio del suo tempo.
Jean-Pierre Luminet, negli appunti posti a conclusione dell'opera, scrive che la visione del mondo di questo
grande geometra del creato poggia su basi diversissime da quelle delle scienze che utilizzeranno i risultati cui
è arrivato: «La realtà è che l'universo di Keplero era identico a quello di molti suoi contemporanei, pervaso
cioè da influenze occulte». Eppure e forse proprio in virtù della sua anima di mistico, egli ha avuto il coraggio
di osare, offrendo all'umanità le leggi che regolano i movimenti dei pianeti, l'intuizione della gravità e altre
fondamentali scoperte sulle eclissi, il sole, le comete.
L'autore, astrofisico, poeta e musicista oltre che romanziere, lavora all'osservatorio di Meudon ed è direttore
del Cnrs,il Centro nazionale francese della ricerca scientifica.
Un poliedrico narratore, dunque, che si serve della sua competenza, che come un bravo meccanico usa e
conosce alla perfezione i propri strumenti , sapendo tuttavia che da soli non bastano per assemblare la
macchina che nessuno ha mai costruito.
Egli prende le mosse dai funerali dell'astronomo e matematico danese Tycho Brahe, grande osservatore di
stelle e pianeti che fu il primo ad allontanarsi, pur senza compiutamente abiurarla, dalla teoria del vecchio
sistema tolemaico e ci guida in un affascinante itinerario nella prima metà del Seicento tra i tumulti di guerre
e nel pieno dello scontro cruento tra cattolici e protestanti.
Il solo personaggio inventato per necessità è l'io narrante, John Askew, diplomatico inglese, spia a tempo
perso, scienziato dilettante, al servizio della Compagnia della Virginia.
Se Keplero è il deus ex machina, perché il titolo "L'occhio di Galileo"?
Perché la vera protagonista è la scienza ovvero la sua affascinante avventura, il confronto tra diversi approcci,
la creazione di menti che hanno nella geniale intuizione il solo comune denominatore, ma poi procedono per
sentieri spesso divergenti. E' il caso di Keplero e Galileo e della loro sfida-dialogo a distanza. I due vivono in
luoghi affatto diversi, inconciliabili, la cultura protestante e il pesante clima della controriforma cattolica sono
un diaframma quasi insuperabile.
Come mischiare il vino e l'olio, confessa il nostro Virgilio-Askew all'indomani dell'incontro a Venezia con
Galileo. Da un lato la miracolosa capacità di Keplero di cavare l'essenza da un mondo di astrazioni e dall'altro
la straordinaria abilità di Galileo nello spremere
ben bene gli oggetti per costruire nuove macchine:"Ma è proprio nell'occhio sul cielo il punto di convergenza:
quei due sono di una complementarietà assoluta".
E' l'occhio di Galileo,abilmente forgiato nelle parti più preziose dagli inimitabili vetrai di Murano e di cui
Keplero conosce a fondo come nessun altro i meccanismi di funzionamento, l'oggetto proibito che fa da
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collante al racconto.
Il viaggio del telescopio dall'uno all'altro è gravido di un pericolo ben più grande di una qualsiasi collana della
regina di cui vanno a caccia di moschettieri di Dumas: è simbolo della conoscenza, è un pericolo per chi osa
sfidare le teorie immutabili dell'universo, la filosofia naturale aristotelica, le Sacre scritture.
Nella realtà entrambi, Galileo e Keplero, pagheranno la loro sete di conoscenza, il primo costretto all'abiura e
il secondo in perpetua fuga da Ferdinando d'Asburgo, fino alla morte nel 1630 a Ratisbona. L'imperatore punì
il suddito riformato più con l'indifferenza che con i fatti, senza mai cancellare la qualifica di mathematicus che
gli era stata assegnata, semplicemente svuotandola.
Luminet ha il pregio dello scienziato in grado di proporre la materia tanto amata senza mai dimenticare i
doveri dell'intreccio romanzesco: esemplare a questo proposito è il gioco a enigmi con il quale Galileo
propone all'inquieto Keplero le proprie scoperte con il telescopio o le missive che i due si scambiano con false
piste per mandare fuori strada gli inquisitori.
L'eclettico autore inserisce la scienza nel corso naturale della vita degli uomini, fatto di passioni e grandi
ideali, ma anche di meschinità e desideri niente affatto celesti. Il suo Keplero sa essere, di volta in volta,
generoso e avido, cinico e ingenuo altruista, idealista e pragmatico. Di celeste resta il segreto della natura, la
sua bellezza che risiede non solo nella geometria delle forme, ma nell'armonia. E l'incessante spinta alla
conoscenza.
«Bisognerebbe prendere una della macchine volanti di Leonardo e andare a vedere lassù come funziona in
realtà» confessa Galileo ad Askew che risponde: «Una volta Keplero mi ha detto, col suo fare ironico, di essere
andato su Marte per determinarne l'orbita».
Non è un caso che il sogno di conoscere i territori inesplorati dell'universo continui,oltre 400 anni dopo quella
confessione. E che Keplero sia sempre tra noi, mentre sono dimenticati per sempre coloro che hanno distrutto
la sua tomba in nome di un cieco fanatismo.
11 marzo 2013
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