ANTROPOLOGIA TEOLOGICA Manenti don Franco

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE
Diocesi di Crema, Cremona e Lodi
ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
Manenti don Franco
Dispensa ad uso degli studenti
Anno accademico 2009-2010
Antropologia Teologica 2009-2010
2.
Introduzione
Giovanni Paolo II all'inizio del suo pontificato invitava gli uomini e le donne suoi
contemporanei a «spalancare le porte a Cristo», perché «Cristo sa cosa c'è dentro l'uomo. Solo
lui lo sa!». E nell'Enciclica programmatica “Redemptor hominis” chiariva il senso di questo
invito:
«L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati,
parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la
sua inquietudine e incertezza e anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e
morte, avvicinarsi a Cristo»1.
Nelle parole del papa ritroviamo quanto il concilio Vaticano II aveva, anni prima, dichiarato:
«In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo era figura di quello venturo (Rm 5,14) e cioè di Gesù Cristo
Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore,
svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione»2.
Il discorso del Papa e del Concilio è “antico” e, tuttavia, capace di mostrarsi “nuovo”.
“Antico” perché appartiene alla fede cristiana, la quale, fin dal suo sorgere, presenta agli
uomini “Gesù di Nazareth, figlio di Dio, Redentore dell'uomo” e confessa che «in nessun altro
c'è la salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito
che possiamo essere salvati» (At 4,12). “Nuovo”, perché anche l'uomo contemporaneo, al pari
di quello antico, si chiede: «Tu chi sei?» (cfr S. Agostino, Confessioni X, 6,9) e cerca di
“conoscere se stesso”.
Anche la ricerca dell'uomo contemporaneo, come quella dell'uomo antico, anzi forse
più di quella, appare problematica, in difficoltà a individuare risposte soddisfacenti. Per questo
la fede cristiana ripete anche all'uomo contemporaneo il suo antico convincimento, che cioè
Gesù è il Redentore dell'uomo e che lui sa cosa l'uomo porta nel proprio cuore. Lo ripete, non
solo perché, diversamente, tradirebbe se stessa, ma anche perché si rende conto che di questa
verità tanto “antica” c'è bisogno anche oggi, all’inizio del terzo millennio e che Gesù Cristo va
incontro anche agli uomini della nostra epoca con le stesse parole: «Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi» (Gv 8, 32).
La teologia condivide il convincimento della fede cristiana che Gesù Cristo è il
Redentore dell'uomo e si fa carico del suo impegno a comunicarlo anche all'uomo
contemporaneo, indicandone le ragioni. Il servizio che la riflessione teologica offre alla fede è
quello di portarla a una comprensione critica della verità cui aderisce (Gesù è il Redentore
dell’uomo) e accompagnarla nel dar ragione di questa verità di fronte agli uomini del proprio
tempo.
L'antropologia teologica (Ath)3 s’interessa alle domande che accompagnano da sempre
l’esistenza dell’uomo: “Chi è l’uomo? Donde viene? Qual è il suo destino? Qual è il senso del
1
RH, 10.
GS, 22.
3
Cfr L. SERENTHÀ, Uomo dal punto di vista teologico, in “Dizionario Teologico Interdisciplinare” (DTI)
III, ELLE DI CI, Torino 1977, 523-556; F. G. BRAMBILLA, Antropologia, ScCatt 114 (1986) 601-618;
ID, L'uomo nella luce della fede cristiana, AA.VV., Un invito alla teologia, Glossa, Milano 1998, 163-179; ID,
Antropologia teologica, in G. BARBAGLIO, G.P. BOFF, S. DIANICH (a cura di), Teologia, S.Paolo, Cinisello
B. 2002,72-108; ID, Uomo-donna, G. BARBAGLIO, G.P. BOFF, S. DIANICH (a cura di), Teologia, op cit,
2
Antropologia Teologica 2009-2010
3.
suo essere nel mondo?”; presenta e rende ragione della risposta che la rivelazione da’ a queste
domande. L’interesse della teologia per l’uomo deriva dalla fondamentale caratteristica
soteriologia della fede cristiana, la quale confessa Gesù “venuto per noi e per la nostra
salvezza”. La teologia condivide l’interesse per l’uomo con le altre “scienze”, con le scienze
umane che studiano l’uomo da un particolare punto d’indagine (biologico, etnologico,
psicologico, sociologico…) e con la filosofia, il cui obiettivo è d’indagare il carattere di mistero
del “fenomeno umano” e di evidenziare la grammatica fondamentale dell’esperienza umana
(antropologia fondamentale)4.
L’Ath, che è l’antropologia ispirata dalla fede, è impegnata a proporre la visione specifica
della fede cristiana e a illustrare la relazione d’inseparabilità e di differenza nei confronti delle
altre visioni culturali e/o religiose. La fede cristiana parla di un uomo che si compie
definitivamente, conformando la propria vicenda alla figura filiale della libertà di Gesù. L’Ath
non si limita a enunciare gli asserti della fede cristiana, ma s’impegna a mostrare come quel
compimento che la libertà dell’uomo riceve da Gesù, mediante lo Spirito Santo, dall’incontro
con la Sua vicenda singolare, risponde definitivamente a quel desiderio di “salvezza” che
l’uomo “sente” e che da sé non riesce a risolvere.
Per assolvere a questo compito l’Ath istituisce un confronto critico con le forme
storiche con cui l’uomo cerca di comprendere la verità di se stesso e di realizzare il proprio
destino (la propria salvezza) e dialoga con l’antropologia fondamentale che evidenzia come la
struttura antropologica è costituita da una domanda, da una ricerca di senso e di verità. La
relazione tra lo specifico cristologico e l’universale antropologico ha la funzione di mostrare
come l’evento di Gesù Cristo compie e attua definitivamente la ricerca della verità da parte
dell’uomo.
In questo modo l’antropologia cristiana appare «come la realizzazione indeducibile e il
compimento corrispondente di un’antropologia fondamentale della fede, realizzazione e
compimento manifestati nella figura storica, libera e definitiva, con cui il mistero di Dio si
rivela in Gesù e nello Spirito»5 e «indaga il procedimento con cui l’uomo accede alla verità di
se stesso, attuando nella fede la propria libertà e conformandola al senso dell’umano apparso
nella vicenda dell’obbedienza di Gesù Cristo al Padre e della sua dedizione agli uomini
mediante lo Spirito»6.
L’ Ath si colloca nell'ambito della teologia dogmatica, il cui compito specifico è di
«perseguire e mettere in risalto, sotto la guida del magistero della Chiesa, l'intelligibilità della
rivelazione nel suo valore salvifico, rendendone ragione agli uomini»7. La rivelazione, di cui la
teologia dogmatica cerca l'intelligibilità, coincide con la “storia della salvezza”, cioè con la
storia degli uomini chiamati a diventare figli di Dio in Gesù Cristo. Cristo quindi sta al centro
di questa storia, la quale è “salvifica” proprio per la missione di Gesù Cristo a favore degli
uomini, missione che si compie con il dono dello Spirito Santo. In ragione di questo la “storia
della salvezza” rivela Dio, la Trinità e a sua volta viene compresa solo a partire dalla Trinità.
1828-1870; ID, Atropologia teologica, Queriniana, Brescia 2005 (= Antropologia teologica); L. LADARIA,
Atropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1986; O. H. PESCH, Liberi per grazia. Atropologia teologica,
Queriniana, Brescia 1988; I. SANNA, Chiamati per nome. Antropologia teologica, S. Paolo, Cinisello Balsamo
2
1994; G. COLZANI, Atropologia teologica. L'uomo paradosso e mistero, EDB, Bologna 1997 ; A. SCOLA, G.
MARENGO, J. PRADES LÓPEZ, La persona umana. Antropologia teologica, Jaca Book, Milano 2000; B.
MORICONI (a cura di), Antropologia cristiana. Bibbia, teologia, cultura, Città Nuova, Roma 2001.
4
Cfr A. MARGARITTI, Uomo e verità. Note di antropologia filosofica, Lodi 1983; P.A. SEQUERI, Uomo I.
Antropologia dal punto di vista filosofico, in DTI III, ELLE DI CI, Torino 1977, 510.522:
5
F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, G. BARBAGLIO, G.P. BOFF, S. DIANICH (a cura di), op cit,
99.
6
ID, Uomo e donna, op cit, 1830.
7
CEI, Regolamento degli studi teologici dei Seminari maggiori d'Italia, 37.
Antropologia Teologica 2009-2010
4.
Conseguentemente la teologia dogmatica, se vuol far cogliere la logica della “storia della
salvezza”, deve comprendere come parti fondamentali:
- Lo studio della Trinità (trattato su Dio);
- Lo studio della missione del Figlio (Cristologia);
- Lo studio della missione dello Spirito (trattato sulla Chiesa, Antropologia).
La struttura del Corso è ricavata dalla vicenda storica dell'Ath, approdata al
riconoscimento di Gesù Cristo come “principio” e “forma” del discorso cristiano sull'uomo.
Riconoscimento che è in sintonia con quanto fa sapere la rivelazione: “in Gesù Cristo l'uomo
è stato scelto prima della creazione del mondo” (Ef 1,4), è “stato predestinato a essere
conforme all'immagine del Figlio” (Rom 8,29). Per cui l'uomo «resta inevitabilmente legato a
Gesù Cristo, poiché in Gesù Cristo ha la sua ragione d'essere e coerentemente solo in Gesù
Cristo può trovare il suo senso»8. Cioè l'uomo esprime e compie liberamente il proprio essere
nella forma di Gesù, sapendo di essere figlio di Dio in Gesù Cristo per un dono dello Spirito
Santo.
Il percorso
I. La vicenda dell'Ath
Dalla storia emerge l'imprescindibilità del riferimento cristologico per un'antropologia
che si qualifica “cristiana”, ricavata cioè dalla rivelazione e non dalla filosofia come sembra
risultare l’antropologia manualistica.
Dalla storia però emergono anche le aporie presenti nei vari tentativi di svolgere la fondazione
cristologica dell'antropologia, con la conseguente necessità d’indicare la condizioni della
corretta articolazione della relazione cristologia-antropologia.
1. L'antropologia manualistica
2. Il superamento dell'antropologia manualistica. Le soluzioni aporetiche
3. Condizioni per una corretta articolazione della relazione cristologia-antropologia
II. La figura normativa dell'uomo secondo la Predestinazione
Questo primo momento delinea la verità dell'uomo nella storia, in quanto legge il senso
dell'uomo secondo la predestinazione di Gesù Cristo, cioè la volontà di Dio, gratuita ed
efficace, che tutti gli uomini diventino figli di Dio nel Figlio suo Gesù (tema della
predestinazione). Per questo Dio pone una realtà “altra” da lui, ma “riconducibile” a lui,
capace di una comunione (libera) con lui, perché disponibile ad assumere i tratti di Gesù (tema
della creazione). L'uomo trova il senso profondo del proprio essere lasciandosi incorporare a
Cristo, mediante lo Spirito Santo (tema della grazia).
1. Il mistero della predestinazione
2. La libertà come “creazione” in Cristo.
3. La grazia come “incorporazione” a Cristo
8
G. COLOMBO, L'ordine cristiano, Glossa, Milano 1993, 17.
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5.
III. La storia della libertà dell'uomo in riferimento alla Predestinazione
Dopo la presentazione della struttura della libertà dell'uomo, osserviamo come questa si
è effettivamente costruita nella vicenda storica. Dalla storia emerge che la libertà umana,
destinata da Dio a dar vita a una storia conforme a quella di Gesù (tema dello stato originario)
ha tentato di costruirsi a prescindere dalla decisione di Dio (tema del peccato originale) e che
Dio è rimasto fedele alla decisione originaria - la predestinazione - nei confronti dell'uomo. La
fedeltà di Dio alla predestinazione si esprime nei confronti dell'uomo peccatore come perdono
(tema della giustificazione in Cristo).
1. La vocazione soprannaturale dell'uomo (lo stato originario)
2. La solidarietà dell'uomo nel peccato di Adamo (il peccato originale)
3. La solidarietà dell'uomo nella vittoria di Cristo (la giustificazione, il merito)
4. L'esito escatologico della storia (la conclusione della storia della libertà creata),
dove è descritto l'inserimento definitivo della storia dei singoli e dell’umanità nel
mistero di Cristo Risorto9.
IV. La figura dell' “uomo spirituale”
Si tratta d'indicare le linee di fondo della figura del credente cristiano, dell'uomo cioè che
è “incorporato” a Gesù Cristo, vive da figlio a immagine del Figlio. All'interno di questo
prospettiva viene recuperato il trattato sulle virtù, quali doni che strutturano il credente
cristiano come “uomo spirituale”.
1. La figura del credente-cristiano
2. Le virtù
9
La trattazione del tema è affidata al corso di Escatologia.
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6.
I - La vicenda dell'Ath
1. L'antropologia manualistica
2. Il superamento dell'antropologia manualistica. Le soluzioni aporetiche
3. Le condizioni per la corretta articolazione della relazione cristologia-antropologia
La vicenda dell’Ath10 è segnata dal passaggio da un'antropologia ricavata dalla filosofia
(antropologia manualistica) a un'antropologia ispirata dalla rivelazione. L'antropologia
manualistica è il prodotto della teologia manualistica, mentre un'antropologia ispirata dalla
rivelazione è il compito assunto dalla teologia contemporanea.
1. L'antropologia manualistica
L'antropologia prodotta dalla teologia manualistica11 si trova disseminata in vari trattati
(De gratia, De Deo creante et elevante, De peccato originali, De novissimis), diversi per ispirazione e
metodo. La conseguenza è la disorganicità e la frammentarietà del discorso, con l'impossibilità
di offrire una visione organica dell'uomo.
Formatasi in epoca razionalista (sec XVII) e consolidatasi nella seconda metà dell'800, la
teologia manualistica presenta una marcata finalità apologetica e appare ispirata da una
particolare impostazione filosofica. La finalità apologetica emerge dal duplice confronto con la
ragione illuminista e la Riforma protestante e dal modo con cui risolve l’esigenza di formare i
pastori d’anime.
L’intenzione apologetica è attuata, non tanto nell’interpretare il dato di fede, nel dare
ragione di quanto la rivelazione offre e la fede crede, quanto piuttosto nel sostenere
l’interpretazione cattolica contro l’interpretazione offerta dalla Riforma protestante e nel
difendere il dato rivelato dalla contestazione della regione illuminista, la quale, separatasi dalla
fede, intende sottomettere l’autorità della rivelazione, riconosciuta dalla fede, alla verifica della
propria critica entrando così in conflitto con la fede.
La particolare impostazione filosofica che caratterizza la teologia manualistica è
riconducibile alla sintesi elaborata da Christian Wolff12. La teologia manualistica s’ispira a
Wolff per l’aspetto strutturale e l’orientamento generale del pensiero. Il filosofo tedesco,
nell’intenzione di riordinare il sapere universale con la definizione di un nuovo quadro della
enciclopedia delle scienze, distingue tra scienze razionali e scienze empiriche (suddivise a loro
10
Cfr L. SERENTHÀ, Problemi di metodo nel rinnovamento dell'antropologia teologica, “Teologia” 1 (1976) 150184; F.G. BRAMBILLA, Il concilio Vaticano II e l’antropologia teologica, ScCatt 114 (1986) 663-676; ID, Antropologia teologica, G. BARBAGLIO, G.P. BOFF, S. DIANICH (a cura di), Teologia, op cit, 72-108; O. H.
PESCH, Liberi per grazia. Antropologia teologica, op cit, 15-43; G. COLZANI, Recenti manuali di antropologia
teologica in lingua italiana e tedesca, “Vivens Homo” 3 (1992) 391-407; G. COLOMBO, Sull'antropologia
teologica, “Teologia” 20 (1995) 229-234.
11
Cfr G. COLOMBO, La teologia manualistica, ID, La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 305-335 (= La
ragione teologica); ID, La teologia prima e dopo il Concilio Vaticano II; ID, La ragione teologica, 73-89; ID, La
teologia moderna, “Teologia” 19 (1994) 13-47. Per il nostro tema, 20-29.
12
Ch. Wolff (1679-1754) è considerato l'esponente più illustre dell'illuminismo tedesco. Avviato agli
studi teologici, s’interessa di matematica e filosofia. Propone il metodo rigoroso della prima per
superare le contraddizioni religiose seguite alla Riforma protestante. Il suo modello di ricerca filosofica
è il pa- radigma del razionalismo che sostiene l'esigenza di un metodo rigoroso di analisi razionale
nell'accostare la realtà. E’ l’esponente dell’impresa di un sapere universale (enciclopedismo), impegnato
ad assumere tutto ciò che è conoscibile. Cfr Y. CONGAR, Théologie, DthC, XV, 1946, 433ss; N.
MERKER, C. Wolff e la metodologia del razionalismo, Riv.Crit.Storia Fil. 22, 1967, 271-293; 23, 1968, 21-38;
F. BARONE, Wolff (Wolf, Wolfins) Christian, “Enciclopedia filosofica” VIII, Roma 1979, 921-924.
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7.
volta in scienze teoriche e pratiche). La distinzione garantisce alle scienze empiriche uno
sviluppo autonomo e libero dall’ipoteca metafisica e alle scienze razionali uno sviluppo
secondo le esigenze logiche.
La sintesi wolffiana fornisce uno schema utile alla teologia manualistica, impegnata a
dare ordine alle tesi teologiche nate disorganicamente per l’impostazione controversistica e
dogmatica di questa stessa teologia.
Il confronto con l’Illuminismo
Nel conflitto la ragione illuministica tende a espropriare la fede della capacità veritativa,
dato il suo carattere pregiudizialmente “soggettivo”, in contrasto col carattere “oggettivo”,
universale, che, a giudizio della ragione critica, la verità deve mostrare.
Il principio “scientifico” dell’Illuminismo pone più attenzione al problema dell'esercizio
efficace della ragione che alla questione del senso, della fondazione delle condizioni originarie
della ragione stessa. Si tratta di una concezione strumentale, che considera la verità possesso
della ragione, non invece meta cui la ragione si apre. La ragione cui si fa riferimento è la
“ragione pura”, che, separata dalla fede, costruisce un mondo a propria misura, libero dalle
interferenze della fede, con la presunzione di costruire la realtà invece di riconoscerla13.
La teologia manualistica non contesta tale figura di ragione - in nome dell'unità del
conoscere umano, al cui interno ha senso distinguere tra fede e ragione - ma l'asseconda,
accettando di «rinchiudersi nel mondo della fede, come suo proprio mondo, collocato in
posizione contigua ma separata dal mondo della ragione»14.
Sulla separatezza tra fede e ragione si fonda la teologia del “duplice ordine” (naturale e
soprannaturale), che assegna alla competenza della fede il mondo soprannaturale e alla
competenza della ragione (filosofica, scientifica) quello naturale.
In campo antropologico la teologia del duplice ordine provoca una duplice tendenza:
da un lato l'identificazione dell'ordine della creazione con quello della natura, che porta a non
riconoscere il carattere di “mistero” della creazione evidenziato dalla Scrittura e, in particolare,
il suo riferimento a Cristo; dall'altro la concezione dell'ordine soprannaturale in termini di
sovrapposizione all'ordine naturale, con la difficoltà a evitare un rapporto estrinseco tra i due
ordini15.
Il confronto con la Riforma protestante
La prevalente preoccupazione di difendere la dottrina cattolica dagli errori, soprattutto
dalle negazioni della Riforma, impedisce alla teologia di offrire un’organica visione del dato
rivelato, di cogliere il nesso tra le singole verità rivelate, perché la limita alla confutazione
dell'errore, al punto in cui l'avversario è messo a tacere16. Tale teologia, chiamata pure teologia
“controversistica”17, in quanto impegnata nelle controversie suscitate dalla Riforma, diventa
teologia “dogmatica”, perché interessata a esaminare gli aspetti del dato rivelato che hanno
avuto l'autorevole chiarificazione del Magistero (i dogmi), non più considerati strumento
13
Sulla separazione tra fede e ragione e la pretesa di quest'ultima di risolvere in se stessa la realtà cfr G.
COLOMBO, La teologia moderna, art cit, 34-39.
14
G. COLOMBO, La teologia prima e dopo il Concilio Vaticano II, art cit, 77.
15
Sul tema del Soprannaturale cfr H. DE LUBAC, Il mistero del Soprannaturale, Jaca Book, Milano 1978;
ID, Agostinismo e teologia moderna, Jaca Book, Milano 1978; G. COLOMBO, Il Soprannaturale, ID, Del
Soprannaturale, Glossa, Milano 1996, 335-361.
16
Cfr L. SERENTHÀ, Teologia dogmatica, AA.VV, DTI I, ELLE DI CI, Torino 1977, 264.
17
Cfr Y. CONGAR, Théologie, in “Dictionnaire de Théologie Catholique” XV, Paris 346-447; H.
SMOLINSKY, La vicenda della teologia controversistica, in FACOLTA’ TEOLOGICA DELL’ITALIA
SETTENTRIONALE, Storia della teologia IV (Età moderna), Piemme, Casale M. 2001, 67-124.
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8.
interpretativo della rivelazione, ma punto di partenza da difendere e dimostrare con lo stesso
dato rivelato.
Il Magistero rappresenta il punto di partenza della riflessione teologica, la quale si
comprende come spiegazione e difesa di quanto viene definito dal Magistero. L'esito è «il frazionamento della dottrina in tesi, disposte secondo una successione più o meno logica, ma
generalmente non rispondente all'ordine proprio della rivelazione»18. Da qui l'esigenza di dare
organicità a queste tesi disorganiche.
La formazione dei pastori d’anime
Alla teologia viene chiesto di farsi carico della formazione dei pastori. Una formazione
mirata non tanto ad avere interpreti del dato rivelato, quanto piuttosto dei difensori della fede
cattolica contro gli errori della Riforma e gli attacchi del mondo moderno, che si presenta
estraneo, se non addirittura ostile, alla fede.
I Trattati (manuali)
Duplice l’obiettivo assegnato ai trattati prodotti dalla teologia manualistica. Anzitutto al
trattato è chiesto di dare sistemazione alle testi elaborate in modo disorganico e poste in
discussione dalla controversi antiprotestante e antimoderna.
La teologia manualistica, come abbiamo precedentemente rilevato, di fronte alla “sfida”
portata dalla Riforma, assume come compito preminente, non tanto quello d’interpretare il
dato di fede (la rivelazione), quanto piuttosto quello di difenderlo. Per la difesa è scelto un
punto di partenza assestato: il pronunciamento del Magistero (il dogma).
La scelta muta la funzione del dogma nel procedimento teologico, in quanto il dogma
non è più inteso come strumento critico e autorevole d’interpretazione della rivelazione, ma
punto di partenza per la difesa e la spiegazione della fede cattolica.
L’impostazione del manuale documenta questa scelta. La trattazione viene svolta per
“articoli”. Ogni articolo espone in partenza la dottrina cattolica definita dal Magistero (tesi);
successivamente è offerta la prova della S. Scrittura e della Tradizione, eventualmente con la
ragione teologica, infine si affrontano i problemi speculativi, per cogliere il senso del dato
rivelato, collegare, illuminare a vicenda le affermazioni della rivelazione, ricavare conclusioni,
rispondere a obiezioni.
Il secondo obiettivo assegnato al manuale è la formazione dei pastori. Di fronte alla
necessità di formare i sacerdoti, soprattutto nei seminari, decretata dal concilio di Trento, la
funzione “pastorale” della teologia è identificata soprattutto nel compito di formare pastori,
che non siamo tanto interpreti del dato rivelato, ma predicatori e difensori della fede cattolica
contro il protestantesimo e il mondo moderno che si allontana sempre più dalla fede.
I trattati “De Gratia” e “De Deo creante et elevante”19
Il trattato De Gratia20
Il trattato sorge nell'ambito della teologia controversistico-dogmatica, impegnata a
mostrare la validità delle posizioni cattoliche contro quelle della Riforma protestante. Il punto
di riferimento diventa il magistero, in particolare il concilio di Trento che, contro la giustizia
18
C. COLOMBO, La metodologia e la sistemazione teologica, AA.VV, Problemi e orientamenti di teologia dogmatica I,
Marzorati, Milano 1957, 3.
19
Per la storia dei due trattati cfr. F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, G. BARBAGLIO, G.P. BOFF,
S. DIANICH (a cura di), Teologia, op cit, 87-96.
20
G. COLZANI, Il trattato "De Gratia". Presentazione storico-bibliografica, “Vivens homo” 4 (1993) 375-389;
G. COLOMBO, Sull'antropologia teologica, art cit, 229-234.
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9.
imputata sostenuta dalla Riforma, insegna il carattere interiore della giustificazione come fatto
che modifica realmente l'uomo giustificato. Viene così ricuperata la nozione medioevale della
grazia come habitus, cioè come una qualitas che, offerta alla natura umana, produce una reale
modificazione accidentale della natura stessa.
La concezione della grazia come habitus configura la prima parte del trattato, il quale
riprende, anche se in una prospettiva diversa, il discorso medioevale sulla giustificazione. I
temi trattati sono quelli dell’esistenza, della natura e proprietà della giustificazione cristiana; la
preparazione e la vita di grazia successiva alla giustificazione.
Il trattato De Deo creante et elevante21
La vicenda del De Deo creante et elevante, a differenza del De Gratia, mostra come il trattato
ha preso forma in modo più affrettato ed è stato messo in crisi più facilmente. Il primo
trattato che presenta questo titolo è quello di D. Palmieri22. Significativo quello che l’autore
scrive nella prefazione: la prima parte (De Deo creante) espone le tesi sull'azione creatrice di Dio
e i suoi effetti, accessibili alla ragione; la seconda parte (De Deo elevante) raccoglie le tesi sul
soprannaturale, fornite dalla rivelazione.
La giustapposizione della parti allude a due separate considerazioni sull’uomo: una
offerta dalla ragione, l’altra dalla rivelazione. Dietro questa trattazione sta l’interpretazione del
rapporto ragione-fede, natura-soprannatura, secondo uno schema dualistico e giustapposto,
dove la razionalità della fede è giustificata dal fatto che tra le verità proposte dalla rivelazione,
alcune sono di per sé accessibili anche alla ragione (come la creazione), altre non lo sono,
anche se da essa non sono escluse. Il carattere filosofico del trattato emerge dai contenuti
esposti.
La prima parte parla di Dio creatore, considerato non nel suo agire salvifico, ma nel suo
essere assoluto e necessario, confrontato con la contingenza degli esseri creati. Sono indicati
gli effetti dell’azione creatrice divina: mondo, uomo e angeli. L’uomo, dopo essere stato
presentato con il mondo in generale, viene considerato in ciò che lo differenzia dagli esseri
materiali (l’anima), in sintonia con la tradizione platonico-aristotelica. La configurazione del
trattato denuncia una concezione dell’uomo come “natura”, come una realtà definita a
prescindere dal rapporto storico-salvifico con il piano di Dio, perché può essere identificata
sulla base di alcune caratteristiche che provengono dalla sua natura, alla quale sono ricondotte
alcune tesi ricavate dalla rivelazione, ma accessibili anche alla ragione.
La seconda parte tratta dell’uomo nella condizione originaria e del peccato originale.
Parlando dell’uomo nella condizione originaria sono elencati i doni ricevuti da Dio, quelli
naturali (proporzionati alla natura), preternaturali (superano la natura, nel senso che, pur
collocati nella natura per quanto riguarda il loro contenuto, sono dipendenti dalla grazia per la
loro attuazione: la scienza infusa, l’integrità, l‘immortalità…) e soprannaturali (non sono un
elemento costitutivo della natura, né una sua conseguenza, né una sua esigenza). Il peccato
originale è inteso come perdita dello stato originario. La sua considerazione è svolta secondo
un concetto di giustizia dove manca la dimensione cristologico-salvifica. Per cui i contenuti del
peccato (cosa ha fatto Adamo, cosa è trasmesso ai discendenti di Adamo, quale legame si
stabilisce tra lui e i suoi discendenti…) sono indicati a partire dalla caduta di Adamo più che in
riferimento a Gesù Cristo.
21
Cfr M. FLICK, La struttura del trattato De Deo creante et elevante, “Gregorianum” 36 (1955) 284-290; G.
COLOMBO, Sull'antropologia teologica, art cit, 225-229.
22
D. PALMIERI, De Deo creante et elevante, Roma 1878.
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10.
Conclusione
Dalla vicenda dell'antropologia manualistica emerge l'esigenza di un superamento della
limitata prospettiva che l'ispira. La limitatezza della prospettiva è data dal fatto che
l'antropologia del manuale non risulta ricavata dalla rivelazione, ma importata dalla filosofia.
Per cui, nello svolgere un'antropologia cristiana, il riferimento diventa la rivelazione e,
conseguentemente, la cristologia. Infatti, se l'Ath è l'antropologia pensata a partire dalla
rivelazione e se la rivelazione cristiana è Gesù di Nazareth, il Cristo, ne consegue che
l'antropologia va svolta assumendo la cristologia come principio e forma del discorso cristiano
sull'uomo, nel senso che l'umanità singolare di Gesù è «il criterio ermeneutico dell'umano
antropologico»23.
2. Il superamento dell'antropologia manualistica. Le soluzioni aporetiche
L'Ath contemporanea è impegnata a superare l'antropologia della teologia
manualistica24. L'operazione si colloca all'interno di una riflessione teologica interessata ad
abbandonare la limitante prospettiva delle tesi dogmatiche elaborate dalla teologia manualistica
e che, senza abbandonare il dato dogmatico, si fa' più attenta alla globalità del dato biblico,
sollecitata dal magistero stesso. La maggior attenzione alla Bibbia conclude un processo che
porta la teologia dogmatica da “teologia del magistero”25 a “teologia della rivelazione”,
passando per la “teologia biblica”26.
La riflessione teologica promuove la nuova concezione di rivelazione, intesa non più
semplicemente come comunicazione di verità da parte di Dio all'intelligenza umana illuminata
dalla grazia (concezione intellettualistica), ma come automanifestazione/ autocomunicazione
di Dio alla/nella storia, mediante Cristo e nello Spirito (cfr DV 2).
Non si dà opposizione tra le due concezioni, in quanto la seconda accoglie e integra la
prima: l'autorivelazione di Dio implica pure la comunicazione di verità a livello intellettuale. Vi
è però radicale diversità, perché la seconda supera la prima, dato che i poli dell'evento
rivelativo non sono più le verità divine e l'intelligenza umana, ma, da un lato, il Dio rivelatore,
gratuitamente presente nella storia di Gesù e dello Spirito donato da Gesù, dall'altro, l'uomo,
chiamato a vivere liberamente la propria storia come storia dello Spirito, che fa memoria della
storia di Gesù.
La nuova visione della rivelazione esige quindi che siano chiariti i rapporti tra i due poli in cui
si svolge la storia della salvezza: Gesù Cristo come verità dell'automanifestazione
/autocomunicazione di Dio e l'uomo come destinatario della rivelazione.
* Il rapporto tra rivelazione e Gesù, prima espresso indicando Gesù soprattutto come
colui che dice le verità divine, viene ora descritto identificando Gesù e rivelazione, perché è
Gesù, l'Unigenito del Padre, l'avvenimento di verità, in quanto determina il senso del reale
23
24
F. BRAMBILLA, Il concilio Vaticano II° e l'antropologia teologica, art cit, 674.
In relazione alle proposte di un ripensamento cristocentrico della trattazione antropologica della
teologia manualistica cfr F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, G. BARBAGLIO, G.P. BOFF, S.
DIANICH (a cura di), Teologia, op cit, 98-99.
25
Tale teologia afferma l'esigenza di rifarsi al magistero. Di fatto il riferimento è svolto in modo troppo
unilaterale, in quanto non è la rivelazione, ma il magistero a porsi come principio della teologia, nel
senso che «la teologia in ultima analisi si risolve nella semplice ripetizione di quanto insegna il
magistero; il suo compito proprio infatti consiste e si esaurisce nel fornire al magistero le ”ragioni” bibliche e patristiche, teologiche - di quanto esso insegna», G. COLOMBO, Dalla “teologia del Magistero”
alla “teologia della Rivelazione” Corso di metodologia teologica. Pro manuscripto, Milano a. ac. 1983-84, 6.
26
Per questa teologia «il Magistero non è primo rispetto alla rivelazione e alla storia del pensiero
cristiano, ma è derivato e parziale rispetto alla rivelazione, ed è solo un momento entro la storia del
pensiero cristiano», ID, 195.
Antropologia Teologica 2009-2010
11.
storico, ne verifica l'autenticità. L'unità interna della rivelazione non è data perciò da «un
coordinamento logico, più o meno plausibile, dell'insieme delle verità definitivamente dette da
Gesù», ma dai «rapporti obiettivi, interiori e tuttavia liberamente dati e posti, tra Gesù e la
realtà nei suoi diversi aspetti: dunque tra Gesù e la realtà di Dio; tra Gesù e la realtà
dell'uomo»27. Gesù però non va considerato una specie di realtà intermedia tra Dio e l'uomo,
ma colui che «misura, dà la verità concreta all'umano precisamente in quanto egli è
l'avvenimento umano di Dio»28. In lui infatti i contorni trinitari di Dio si esprimono, a un
tempo, “veramente” e “liberamente”; la sua capacità di determinare l'umano, di esserne
liberamente la verità concreta, si fonda proprio su questo esprimersi dei contorni veri di Dio
in un'esistenza umana individuale, qual'è appunto la sua.
* Per quanto riguarda il rapporto tra rivelazione e il destinatario di questa, l'uomo, va
notata la sostanziale indifferenza alle diverse visioni antropologiche da parte della concezione
intellettualistica della rivelazione, per la quale si può elaborare una sintesi tendenzialmente
completa del dato rivelato senza chiamare in causa nessuna concezione globale dell'uomo;
inoltre è sufficiente mostrare il legame tra le verità rivelate, difendere eventualmente la sintesi
raggiunta da possibili attacchi e comunicarla in modo credibile. La concezione della rivelazione
come autocomunicazione di Dio alla/nella storia mostra invece un pregiudiziale interesse per
una visione globale dell'uomo, per la sua storia, perché questa, suscitata per aderire
liberamente, mediante il dono dello Spirito, alla storia di Gesù, in cui Dio gratuitamente si
manifesta, è un momento della concezione stessa della rivelazione. L'interesse per una visione
globale dell'uomo, per la sua storia, sblocca l'indifferenza della teologia per le antropologie
proposte dalla cultura e le comunica un'attenzione più appassionata.
Assistiamo così all'emergere della categoria “storia”, riguardante la realtà singolare di
Gesù (in quanto rivelazione di Dio) e la realtà dell'uomo (in quanto destinatario nella sua
globalità, quindi anche nella sua processualità storica, della rivelazione)29.
Espressione autorevole di questo orientamento è considerato il testo di M. D. Chenu, Une
Ėcole de teologie. Le Saulchoir30. Nel volumetto, pubblicato nel 1937, Chenu «invitava a guardare
ai processi in atto nella Chiesa e nella società come a loci teologici per il fatto che in essi si poteva
27
G. MOIOLI, "Cristocentrismo". L'acquisizione del tema alla riflessione teologica recente e il suo significato, AA. VV,
La teologia italiana oggi, La Scuola, Brescia 1979, 140.
28
ID, 140. Emerge qui un'acquisizione decisiva per la teologia, il cristocentrismo, che, impegnato a documentare la centralità di Cristo nella Rivelazione, lo fa dicendo la sua singolarità. Nella prospettiva del
cristocentrismo «il divino e l'umano concreto sono - secondo “verità” e “libertà”... - “cristici”: lo sono
precisamente in Gesù e per riferimento a Gesù; e tuttavia in assoluto non si esauriscono in Gesù e non
si “riducono” a lui», ID, 146s.
Per il cristocentrismo cfr G. MOIOLI, Cristocentrismo, in G. BARBAGLIO- S. DIANICH (a cura di)
“Nuovo Dizionario di Teologia” (NDT), Paoline, Roma 1977, 210-222 e “Nuovo Dizionario di
Spiritualità” (NDSp), Paoline, Roma 1979, 354-366; G. COLOMBO, L'insegnamento della teologia dogmatica
alla luce del concilio Vaticano II, in ID, La ragione teologica, 231-264. Per una ricostruzione della storia del
ricupero del cristocentrismo cfr G. COLOMBO, Problematicità dell'Antropologia teologica, ViPe 54 V (1971)
586-595; W. PANNENBERG, Il fondamento cristologico dell'antropologia cristiana, “Concilium” 9 (1973) 6,
1073-1095; G. MOIOLI, Cristocentrismo. L'acquisizione del tema alla riflessione teologica recente e il suo significato,
art cit, 129-148; ID, Cristologia. Proposta sistematica, Pro manuscripto, Milano 1989, 55-73; W. KASPER,
Cristologia e antropologia, in ID, Teologia e Chiesa, (= BTC 60) Queriniana, Brescia 1989, 202-225.
29
Sull'acquisizione in ambito teologico del tema della “storia”' cfr G. ANGELINI, Storia e storicità, DTI
III, 337-364; F.G. BRAMBILLA, “Teologia del magistero” e fermenti di rinnovamento nella teologia cattolica, in G.
ANGELINI – S. MACCHI (ED.), La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, (= La teologia
del Novecento) Glossa, Milano 2008, 189-236.
30
M.-D. CHENU, Le Saulchoir. Una scuola di teologia, Casale M. 1982; cfr F.G. BRAMBILLA, “Teologia del
magistero” e fermenti di rinnovamento nella teologia cattolica, op cit, 198-208.
Antropologia Teologica 2009-2010
12.
svolgere l’azione di Dio e compito della teologia sarebbe appunto quello di evidenziare la
presenza di Dio nella storia»31.
Espressione dell'interesse per l'uomo, quale orizzonte in cui leggere e interpretare la
rivelazione, è la “svolta antropologica”32, che sottolinea l'esigenza non solo di sviluppare la
parte della teologia che tratta dell'uomo, ma di riflettere più a fondo sulle dimensioni
antropologiche dell'intera teologia. In tale prospettiva l'antropologia è considerata l'orizzonte
attraverso cui rileggere e interpretare il conoscere teologico.
L'interpretazione più significativa e organica di tale preoccupazione è data dall'opera di K.
Rahner33. Rahner parla dell'antropologia non tanto come settore particolare (trattato) della
teologia, quanto invece come sua dimensione generale, luogo “trascendentale”, dove
s'incontrano, si rivelano umanamente gli asserti teologici. L'affermazione è fatta sia sulla base
del principio gnoseologico secondo cui l'uomo, quale soggetto conoscente, non è puramente
cosa tra cose, oggetto di considerazione distinta al pari di altre cose, ma è atematicamente
presente in ogni affermazione tematica cui giunge l'attività conoscitiva (in teologia significa che
«affrontando qualsiasi argomento teologico, affrontiamo insieme le condizioni necessarie alla
sua conoscenza nel soggetto teologico e mostriamo che esistono tali condizioni aprioristiche
per la conoscenza di questo oggetto; tali condizioni implicano ed affermano già di per sé
qualcosa circa l'oggetto, il modo, i limiti e il metodo della sua conoscenza»)34, come sulla base
di una concezione del coinvolgimento dell'uomo nella rivelazione, che, quale
automanifestazione di Dio, intrattiene rapporti con il suo destinatario, la cui creazione e le
essenziali caratteristiche risultano finalizzate allo stesso evento gratuito e storico della
rivelazione. La proposta di una teologia in senso antropologico-trascendentale è giustificata
quindi in Rahner dal fatto che la rivelazione e la teologia che la spiega, sono intelligibili solo se
il loro contenuto appare corrispondente alle strutture essenziali dell'uomo. Compito
dell'antropologia trascendentale sarà individuare tali strutture, per evitare schemi teologici
impropri e reperire il criterio capace di fornire il principio ermeneutico della rivelazione:
criterio per la concettualizzazione del linguaggio teologico e principio critico dei modelli
rappresentativi.
L'esigenza di chiarire i rapporti tra Gesù Cristo, rivelazione di Dio, e l'uomo, destinatario di
questa, s'impone, in quanto l'impostazione dell'antropologia manualistica risulta insufficiente,
per la ragione che la teologia che l'ispira, data l'intonazione polemico /apologetica, assume
l'esigenza razionale come dato primario, relegando il dato di fede a funzione di supporto, di
conferma e d'integrazione. Da qui, come è già stato segnalato, il costituirsi di una antropologia
che parla dell'uomo prima secondo la sua vocazione naturale e successivamente secondo la
vocazione soprannaturale, trovando difficoltà a istituire un corretto rapporto tra le due
vocazioni.
La nuova concezione della rivelazione e il ricuperato interesse della teologia per la
Bibbia, come primo dato da cui partire, mostrano che, nella costruzione dell'Ath, la realtà
dell'uomo è definita dal riferimento a Cristo. L'Ath, ristrutturandosi su Cristo, ha il proprio
31
G. CANOBBIO, Teologia e storia: emergenza della responsabilità pubblica della fede, G. ANGELINI – S.
MACCHI (ED.), La teologia del Novecento, 413.
32
Cfr A. MARGARITTI, Per una ricerca sulla svolta antropologica in teologia, AA.VV, La teologia italiana oggi, op
cit, 254-267; ID, Svolta antropologica e istanza kerigmatica, in G. ANGELINI – S. MACCHI, La teologia del
Novecento, 237-296; AA.VV, Dimensione antropologica della teologia (IV Congresso nazionale dell'ATI) Milano
1971; G. COLOMBO, Dalla "svolta antropologica" (K. Rahner) alla "teologia della liberazione". Corso di
metodologia teologica. Pro manuscripto, Milano a. ac. 1985/86,1-58; G. PATTARO, La svolta
antropologica, EDB, Bologna 1990.
33
Cfr i saggi-manifesto K. RAHNER, Teologia e Antropologia, Nuovi Saggi III, Roma 1969, 44-72; ID,
Considerazioni fondamentali per l'antropologia e la protologia nell'ambito della teologia, Mysterium salutis IV, 11-30.
K. RAHNER, Considerazioni fondamentali per l'antropologia e la protologia nell'ambito della teologia, art cit, 12.
34
Antropologia Teologica 2009-2010
13.
centro non più nella natura umana, ma in Cristo stesso, precisamente nella sua singolarità.
Duplice il guadagno: il superamento del dualismo natura-sopranatura della teologia manualistica (lo schema delle due vocazioni - naturale e soprannaturale - non appartiene alla
rivelazione, ma rappresenta una sua interpretazione più o meno coerente, proposta da un
determinato contesto culturale e, quindi, da accogliere con la riserva della necessaria verifica) e
l'abbandono del silenzio su Cristo nell'elaborazione di un'antropologia.
L’esito dell’operazione sembra però essere, da un lato la dissoluzione dell’antropologia nella
sua determinazione teologica, ridotta a corollario della cristologia, dato che riferire l’uomo a
Cristo significa tendenzialmente non parlare dell’uomo, ma di Cristo; dall’altro lato la
tendenziale riduzione della cristologia alla sua rilevanza antropologica, in quanto la storia
singolare di Gesù resta in qualche modo assorbita dal significato del suo messaggio e la sua
persona scompare in ciò che opera per l’uomo (nel pro nobis)35.
- Alla riduzione dell'antropologia nella cristologia pare approdare la riflessione barthiana,
dove la cristologia, assunta come prospettiva del discorso teologico - tanto che i contenuti
della teologia sono sue articolazioni - finisce per attrarre e risolvere in sé l'antropologia.
Contro il ricorrente tentativo dell'uomo di edificare da sé la propria umanità, Barth annuncia
“l'umanità di Dio”, che in Gesù diventa fonte e norma dell'uomo stesso. Ogni pretesa
autocomprensione dell'uomo risulta quindi sbagliata, perché l'uomo si può dire solo a partire
dal punto di vista di Dio. Barth, volendo considerare tutto solo alla luce di Cristo, procede per
“soppressione” più che per “ricapitolazione”, per “riduzione” più che per “integrazione”36. La
“riduzione” è dovuta all'interpretazione data dal teologo tedesco al principio cristologico della
rivelazione, dove l'evento di Cristo non pare sufficientemente mantenuto nella sua concreta
storicità, ma ridotto a rappresentazione della decisione originaria con cui Dio sceglie di essere
a favore dell'uomo peccatore37. L'inevitabile conclusione è che non si può dire nulla sull'uomo
se non a partire dall'eterno atto d'elezione nella storia originaria, all'interno del quale Dio
sceglie Cristo e pone in lui l'elezione dell'uomo. Sembrano così giustificati gli interrogativi
sull'identità del Gesù cui Barth si riferisce, se cioè è il Gesù di Nazareth della storia o “il nome
dell'eterna disponibilità di Dio verso l'uomo”; sul rapporto tra Gesù e l'uomo, se cioè Gesù sia
a un tempo principio per comprendere l'uomo (ratio cognoscendi) e realtà dell'uomo (ratio essendi)
o semplicemente verità, ma non realtà dell'uomo, per cui questa mantiene con la realtà di Gesù
un rapporto non di semplice identità, ma di complessa articolazione38.
La riduzione dell'evento cristologico alla sua rilevanza antropologica emerge dall'interpretazione esistenziale del NT proposta dalla scuola di Bultmann, sintetizzabile
35
Per W. KASPER in questa “riduzione” si ripropone il problema, «forse il più fondamentale della
teologia contemporanea: il rapporto fra le proposizioni ontologiche sull'essere di Dio e di Gesù Cristo
“in sé” e le proposizioni funzionali che esse assumono “per noi”», ID, Teologia e Chiesa, op cit, 206. A
suo giudizio, dal modo con cui si è delineato il rapporto cristologia-antropologia emerge «la crisi stessa
che la metafisica attraversa all'interno ed all'esterno della teologia, e la conseguente erosione del
concetto teologico di 'verità' », ID, 206. Sulla fine della metafisica nella teologia contemporanea cfr il
numero monografico di “Teologia” 4 (1979).
36
Cfr H.U. VON BALTHASAR, La teologia di K. Barth, Jaca Book, Milano 1985, 259-260.
37
«Gesù Cristo era in principio con Dio. Non lo era al modo in cui si può dire tutte le cose si trovavano inizialmente presso Dio, nel suo piano e nel suo decreto. Non c'era nessuna comune misura tra la
situazione del Figlio di Dio unito al Figlio dell'uomo da tutta l'eternità; e quella del mondo creato e
della storia che, in virtù di questa unione presupposta, esistono da tutta l'eternità nel disegno di Dio
Tutto ciò che l'elezione gratuita contiene e significa in quanto movimento di Dio verso l'uomo, tutto
ciò che ne deriva si trova completamente definito e condizionato dall'esistenza della decisione divina
intrinseca di cui parliamo, dal fatto assolutamente determinante che Gesù Cristo è l'elezione gratuita di
Dio» K. BARTH, Dogmatique II/2, 107s.
38
Cfr G. MOIOLI, Cristologia, op cit, 69s.
Antropologia Teologica 2009-2010
14.
nell'interrogativo costruito sull'alternativa, riguardo a Gesù: «Mi è di aiuto perché è Figlio di
Dio o è il Figlio di Dio perché mi è di aiuto?»39. L'alternativa è risolta dallo stesso Bultmann,
per il quale «le affermazioni sulla divinità di Gesù e sulla sua appartenenza alla sfera divina
intendono mettere in luce non la sua natura, ma il suo significato; esse esprimono la fede che
ciò che egli dice e ciò che egli è non ha origine intramondana, non è idea di un evento umano,
ma parola di Dio rivolta a noi, azione di Dio su di noi e per noi»40. Questa concentrazione
antropologica di Gesù risolve di fatto il Cristo della rivelazione nell'esperienza della fede in lui,
provocando la domanda radicale se nel Cristo della teologia bultmanniana l'uomo sta
veramente di fronte a Dio o non piuttosto di fronte a se stesso41.
La tendenza a interpretare l'evento cristologico con un orizzonte antropologico si riscontra
pure in un autore cattolico, H. Küng, per il quale il fine da perseguire non è la divinizzazione
dell'uomo, ma la sua umanizzazione: «ll nostro problema, oggi, non è tanto quello della
divinizzazione bensì della umanizzazione dell'uomo»42. Conseguentemente l'essere cristiani
viene interpretato come essere-uomini in modo radicale.
La lettura riduttiva della singolarità cristologica sembra dimenticare che la plausibilità di
un'interpretazione dell'esistenza di Gesù in termini di “pro-esistenza” è corretta a condizione
che «non si sacrifichi la fondamentalità del rapporto filiale di Gesù con il Padre e non si
rifugga dall'analisi della struttura di tale rapporto»43, in quanto proprio in questo rapporto sta
la ragione del “pro-nobis” di Gesù.
Le aporie evidenziate nell'antropologia contemporanea sembrano presenti anche nella Gaudium
et spes (GS)44, il documento del Vaticano II° che intende proporre «i lineamenti di
un'antropologia cristiana» (H. De Lubac).
La Costituzione conciliare è composto di due parti: la prima espone la dottrina cristiana
sull'uomo (“La Chiesa e la vocazione dell'uomo”), la seconda descrive vari aspetti della vita
odierna e della società umana (“Alcuni problemi più urgenti”). Il testo indica un collegamento
tra le due parti: «Dopo aver esposto di quale dignità è insignita la persona dell'uomo e quale
compito, individuale e sociale, egli è chiamato ad adempiere sulla terra, il concilio, alla luce del
vangelo e dell'esperienza umana, attira ora l'attenzione di tutti su alcuni problemi del nostro
tempo particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il genere umano» (n 46).
L'indicazione del collegamento dice che la prospettiva ermeneutica del Concilio è quella della
rivelazione (“alla luce del vangelo”) e quella dell'esperienza umana.
In relazione all'antropologia, va osservato come i quattro capitoli della Ia parte adottano la
stessa metodologia: la presentazione dei riferimenti biblici veterotestamentari,
l'approfondimento teologico, il riferimento alla persona di Gesù. L'indicazione delle soluzioni
39
R. BULTMANN, La professione di fede cristologica del Consiglio ecumenico, in ID, Credere e comprendere,
Queriniana, Brescia 1977, 605.
40
ID, 605.
41
Cfr M. BORDONI, Cristologia e antropologia, in C. GRECO (a cura di) Cristologia e antropologia, op cit 27.
42
H. KÜNG, Christ sein, Munchen 1974, 433; Cfr K.H. MENKE, L’unicità di Gesù Cristo nell’orizzonte della
domanda sul senso, Cinisello B. 1999, 47-85.
43
G. MOIOLI, Per l'introduzione del tema della singolarità di Gesù nella trattazione cristologica, ScCatt 103 (1975)
775. «Bisogna parimenti ritenere che “l'esistenza per gli altri” di Gesù Cristo non può separarsi dalla sua
relazione al Padre, né dalla sua comunione intima con Lui e che, di conseguenza, deve fondarsi sulla
sua funzione eterna La pro-esistenza di Gesù mediante la quale Dio stesso si comunica agli uomini,
presuppone la sua pre-esistenza», COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, TeologiaCristologia-Antropologia, “Gregorianum” 62 (1981) 12.
44
Cfr G. COLOMBO, La teologia della Gaudium et spes e l'esercizio del magistero ecclesiastico, ID, La ragione
teologica, 265-303 (= La teologia della GS); H. DE LUBAC, La rivelazione divina e il senso dell'uomo, Milano
1985, 199-290; C. PORRO, Chiesa e mondo nella Gaudium et spes, ScCatt 119 (1991) 359-385; G. COLZANI,
Antropologia teologica., 205-208.
Antropologia Teologica 2009-2010
15.
ricavate dal NT (I'insegnamento di Gesù) dopo l'AT e l'approfondimento teologico - cioè
quando la dimostrazione teologica deve ritenersi conclusa - induce a interrogarsi sul reale
valore del riferimento cristologico.
La preterizione del riferimento a Gesù Cristo, quasi fosse irrilevante per il problema
antropologico, trova la propria spiegazione nel fatto che «la dimostrazione teologica
riguardante la natura dell'uomo svolta dalla GS ricalca fedelmente l'impostazione fissata nella
teologia manualistica, e precisamente nel trattato “De Deo Creante”»45.
La Costituzione conciliare, pur muovendosi nella direzione indicata dagli studi biblici (nel
senso che non ricava la dottrina del composto anima-corpo dal racconto genesiaco della
creazione), non si stacca dall'impostazione manualistica espressa dal trattato De Deo creante et
elevante, perché «assume il racconto genesiaco come il testo base e fondamentalmente
esauriente dell'antropologia cristiana»46.
Abbiamo rilevato come nell'impostazione della teologia manualistica, che prima
concepisce l'uomo quale realtà dell'ordine naturale e successivamente dell'ordine
soprannaturale, il riferimento a Cristo non sia posto fin dall'inizio, non risulti essenziale a
definire cristianamente l'uomo, ma sopraggiunga in un secondo momento, in funzione
prevalentemente redentrice, in relazione all'uomo peccatore.
L'impostazione della Costituzione, intenzionata a mostrare come la vocazione naturale
dell'uomo trova in quella soprannaturale il proprio compimento (cfr n 2), presenta prima le
verità naturali, accolte da tutti gli uomini, indipendentemente dalla propria fede, e
successivamente quelle soprannaturali - proprie della fede cristiana - che si riassumono in
Gesù Cristo. Tale impostazione, di fatto, non supera, ma resta bloccata sull'antropologia manualistica, come si esprime nel trattato De Deo creante et elevante, dove convergono le tesi
teologiche sull'attività creatrice di Dio (esposte nel De Deo creante) e le tesi sul soprannaturale
(raccolte nel De Deo elevante).
Va riconosciuto però che l'intenzione dei redattori della Costituzione era proprio quella
di superare l'antropologia manualistica, ritenuta troppo filosofica, per proporne una ricavata
dalla rivelazione. Per questo hanno sostituito la terminologia caratteristica dell'antropologia
manualistica, che presenta due vocazioni dell'uomo, in relazione alla distinzione tra ordine
naturale e soprannaturale, con la nozione biblica di “immagine di Dio”. L'assunzione coerente
di questa nozione doveva consigliare di partire, nell'elaborare l'antropologia, direttamente da
Gesù Cristo, in quanto immagine perfetta dell'uomo. I redattori, pur impegnati a mantenere al
testo l'impostazione cristologica, di fatto non fanno partire l'antropologia da Cristo.
Pare che la ragione principale sia la scelta di presentare un discorso antropologico
accessibile non solo ai cristiani, ma a tutti. A giustificare la scelta sta l'intenzione pastorale fatta
dal Concilio fin dall'inizio; col risultato che «l'ispirazione cristocentrica finisce per stemprarsi e
risolversi in una semplice intenzione, che non riesce a tradursi in espressione concreta»47. Per
le ragioni che «da un lato il riferimento a Gesù Cristo è esplicito solo al termine del discorso
antropologico e, dall'altro e per conseguenza, il riferimento all'immagine di Dio, che
nell'intenzione dei redattori doveva introdurre il discorso antropologico per aprirlo
progressivamente sulla prospettiva cristocentrica, risulta troppo esile nella sua allusività, per
cui diventa praticamente inoperante»48.
45
G. COLOMBO, La teologia della GS, 274.
ID, 275.
47
ID, 283.
48
ID, 283. C. PORRO non condivide il giudizio di G. Colombo: «Riteniamo che la proposta antropolo46
gica della Gaudium et spes sia di grande valore. Da un lato, infatti, aderendo al dato biblico, essa accoglie
con senso critico la concezione dei due ordini - l’ordine naturale e quello soprannaturale -, perché parla
di un unico destino umano che trova la sua realizzazione esemplare in Gesù Cristo, immagine di Dio.
Dall’altro lato, proponendosi nella sua fase iniziale come un discorso agganciato all’esperienza umana
concreta, essa si rende in una certa misura attendibile anche per i non credenti, senza peraltro
Antropologia Teologica 2009-2010
16.
Approfondendo la ragione dell'insufficiente maturazione dell'Ath della GS, F. G.
Brambilla denuncia quello che chiama “il silenzio totale” sulla Dei Verbum, Costituzione che
«non poteva non gettare una luce benefica sulla GS, precisamente sulla sua visione
antropologica»49. A suo parere è proprio raccogliendo l'insegnamento della Dei Verbum sul
carattere salvifico della rivelazione, la sua forma cristologica e la sua espressione storica, che si
può individuare la strada per un rinnovamento dell'Ath, non solo dichiarato, ma
effettivamente svolto.
Gli insufficienti risultati del tentativo operato dalla teologia contemporanea di colmare la
lacuna del precario riferimento a Gesù Cristo, denunciato dall'antropologia classica,
suggeriscono la conclusione che il superamento delle difficoltà a dire in che senso Gesù è la
verità della storia nella storia esige una corretta articolazione del rapporto cristologiaantropologia.
3. Le condizioni per una corretta articolazione della relazione cristologiaantropologia
In sede di analisi storica è emerso che il problema dell'Ath riguarda le condizioni che
assicurano una corretta articolazione del rapporto cristologia-antropologia. Per evitare che il
riferimento a Gesù Cristo come “principio” e “forma” dell'antropologia cristiana si risolva in
un rinvio formale alla cristologia o in una risoluzione di questa nell'antropologia, bisogna
ripensare l'interpretazione teologica della storia singolare di Gesù, dato che questa rappresenta
il criterio ermeneutico - il “principio” e la “forma” - della realtà antropologica.
Parlare di storia singolare di Gesù significa riconoscere all’individualità umana storica di
Gesù valore universale, definitivo per ogni uomo che vive nella storia. Tale riconoscimento
trova la propria giustificazione nell’essere Figlio dell’uomo Gesù.
Nella proposta della singolarità della storia di Gesù va mantenuto il collegamento tra il
carattere di evento parziale di questa storia, l'assolutezza divina che, rendendosi presente in
tale evento, lo rende normativo e la totalità della storia nei cui confronti si svolge questa
normatività50. Si eviterà in tal modo che il riconoscimento della cristologia quale “principio
regolatore” dell'antropologia si risolva in un'attrazione della seconda nella prima, non
garantendo così all'antropologia tutto il suo spazio. Questo perché la riconduzione dell'uomo a
Cristo, imposta dalla rivelazione, non deve significare “riduzione” dell'uomo a Gesù, dato che
l'uomo, pur fondato cristologicamente, non è però identico a Gesù. Ci si immunizzerà inoltre
contro il rischio di una risoluzione della cristologia nell'antropologia, in quanto, parlando della
pro-esistenza di Gesù, non ci si dimenticherà che Gesù Cristo trascende l'uomo nel senso che
nulla di ciò che appartiene agli uomini adegua Gesù Cristo.
La storicità singolare di Gesù non va quindi pensata, da un lato come sostitutiva,
risolutrice della storicità irriducibile degli uomini (si cadrebbe nel cristomonismo barthiano che
«priva di significato e di consistenza ciò che non è Cristo o non riconducibile a lui»51), ma va
intesa come differenza specifica, attuazione consistente, definitiva, dell'apertura dell'uomo alla
denaturare i contenuti dell’antropologia cristiana. A nostro avviso si tratta quindi di un discorso che
risponde bene all’intento che si prefigge», Chiesa e mondo nella Gaudium et spes, art cit, 372-373.
49
F.G. BRAMBILLA, Il Concilio Vaticano II e l'antropologia teologica, art cit, 673. In sintonia con Brambilla si
trova G. Alberigo, il quale segnala i deboli legami della GS con il magistero conciliare e con la stessa
testimonianza biblica, tanto da concludere che «il desiderio e il proposito di dare al documento una
struttura cristocentrica sembra sia rimasto prevalentemente affettivo»., G. ALBERIGO, La Costituzione in
rapporto a magistero globale del Concilio, in G. BARAUNA (ed), La Chiesa nel mondo di oggi . Studi e commenti
intorno alla Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», tr. it., Firenze 1966, 172-195.
50
Cfr L. SERENTHA', Problemi di metodo, 180.
51
G. MOIOLI, Cristocentrismo, in G. BARBAGLIO – S. DIANICH (Ed), Nuovo Dizionario Teologico, op cit,
219.
Antropologia Teologica 2009-2010
17.
verità; né dall'altro come risolvibile nel suo “essere-per-noi” (secondo la lettura della scuola
bultmanniana), ma va intesa come il darsi nella storia degli uomini della trascendenza e
irriducibilità assoluta di Dio.
In definitiva, la relazione cristologia-antropologia è svolta correttamente se la si
mantiene nella propria asimmetricità, dato che l'umano singolare di Gesù «si dà nella
differenza specifica con cui appare eccedente e tuttavia capace di dare attuazione al senso
dell'umano, poiché lo attua precisamente oltrepassandolo»52. L'umano antropologico, d'altra
parte, perché originato dalla libertà creatrice di Dio, che lo costituisce come tale, «si attua e si
determina per rapporto all'evento di Gesù, mediante il libero affidamento al senso della sua
libertà, donata gratuitamente in Gesù»53.
La correttezza o meno del rapporto dipende dal modo con cui si risolve la relazione
uomo-fede cristiana. Se dall'ambito dell'esperienza umana si tende a escludere la fede, in
quanto riconosciuta esclusivamente pertinente all'ambito cristiano, ne deriva che la prospettiva
della fede risulta aggiunta posteriore ed estrinseca a un'antropologia autonomamente costruita.
L'estraneità può essere superata evidenziando come la decisione della libertà nei confronti del
senso ultimo dell'esistenza, che assume la figura dell'affidamento a esso (fede), appartiene
strutturalmente all'esperienza atropologica.
La decisione di affidarsi è il solo modo per entrare in relazione con la verità dell'evento.
Sottrarsi ad essa non sarebbe solo l'atteggiamento di chi si limita ad accertare la verità evidente,
ma vorrebbe dire evitare la verità di quanto si presenta; non è solo fermarsi a ciò che appare,
ma è arretrare di fronte a esso, cercando di delimitarlo, di ricostruirlo a lato rispetto a ciò che
l'evento in qualche modo produce o rispetto a ciò che si produce come evento. A legittimare
questo modo di venire a sapere la verità è il carattere storico dell'uomo, che «spiega perché il
suo rapporto alla verità è indissociabilmente teoretico-pratico: egli non può sapere la verità se
non insieme volendola, cioè perseguendo il proprio compimento in rapporto alla verità»54.
Questo “volere” ha l'aspetto di un'obbedienza, di una risposta alla verità stessa, conosciuta
non attraverso un’evidenza apodittica, ma attraverso la decisione della libertà, che si configura
come affidamento (fede) ad essa.
Da quanto è stato detto emerge una figura della fede che non va intesa né come un
oltrepassare l'evidenza e che quindi mai interrompe il suo collegamento con la figura critica del
sapere (che è sempre in relazione con l'evidenza, in quanto un sapere in contraddizione con
l'evidenza non è un sapere) né come un troncare la relazione con la figura dell'affidamento a
una verità, che sta oltre l'immediatezza, pur essendo la verità dell'immediatezza.
La coerente conclusione è che la fede, proprio perché rappresenta una modalità della
manifestazione della verità, non solo partecipa della stessa verità, ma si accredita anche come
ciò cui è ragionevole affidarsi nell'attingimento del vero.
Il credere in Gesù Cristo, che costituisce l'elemento specifico cristiano, risulta peculiare
determinazione dell'apertura (la fede) al senso ultimo dell'esistenza cui è interessato l'uomo (la
verità) e che è offerta nell'evento di Gesù di Nazareth.
In sintesi il rapporto tra la coscienza storica e la verità - tale da esigere intrinsecamente
l'aprirsi della libertà - appartiene alla struttura originaria dell'esperienza, che trova eccedente attuazione nella fede cristianamente determinata. Per questo si può parlare di corrispondenza tra
la più generale esperienza credente e la visione cristiana dell'uomo, senza però che sia eliminata
la sua specifica gratuità. Tale coordinazione di nozioni di gratuità e corrispondenza - spesso
contrapposte dalla tradizione - garantisce il superamento sia dell'estrinsecismo che
dell'immanentismo.
52
F.G. BRAMBILLA, Il Concilio Vaticano II e l’antropologia teologica, art cit, 674.
ID, 674.
54
A. BERTULETTI, Solo chi lo vuole conosce la verità. Il corretto rapporto tra uomo e finalità del trascendente,
“Avvenire” 27.2.1983; cfr ID, Sapere e libertà, AA.VV, L'evidenza e la fede, op cit, 444-465; ID, La fede
cristiana e la questione della verità, AA.VV., La fede in discussione, Bergamo 1988, 99-110.
53
Antropologia Teologica 2009-2010
18.
Questa articolazione del rapporto uomo-fede cristiana evita ogni forma di attrazione/
riduzione dell'uomo a Cristo, indicando che il modo pertinente d'impostare la relazione è
quello di una dialettica fondazione cristologica dell'umano: un uomo che in Gesù trova il
fondamento per essere in sé. In tale prospettiva l'antropologia cristiana si presenta come
«l'attuazione indeducibile e il compimento corrispondente di un'antropologia fondamentale
della fede»55, attuazione e compimento mostrati dalla vicenda di Gesù, nella quale il mistero di
Dio si rivela.
Mantenere il rapporto consente da un lato di evitare la risoluzione dell'Ath in un'antropologia
fondamentale o la soluzione del confronto in un dualismo alternativo, dall'altro di mostrare
come l'antropologia fondamentale della fede è parte della struttura del sapere critico come
sapere la verità.
Chiarito il senso del rapporto cristologia-antropologia, ci limitiamo ad alcune indicazioni che
tentano di tradurre coerentemente le riflessioni svolte56.
+ L'antropologia chiede alla cristologia di verificare la propria interpretazione
dell'evento singolare di Cristo. Se la cristologia vuole essere veramente il principio istitutivo
dell'antropologia cristiana deve ripensare nuovamente il rapporto tra storicità “cronologica” e
storicità “escatologica” di Gesù di Nazareth, il Cristo.
+ Proprio perché Gesù Cristo, in quanto evento storico fa riferimento alla storia
umana, che è "altra" da Dio e che è ricondotta da lui stesso - senza eliminarne l'alterità - alla
comunione con Dio, l'Ath è impegnata a descrivere l'alterità della storia compatibilmente con
la sua riconducibilità al Dio cristiano.
Il compito è svolto nella misura in cui, come abbiamo già sottolineato, ci si raccorda con
un'antropologia fondamentale, secondo la quale l'apertura originaria dell'uomo al mistero
trascendente «comporta l'aprirsi della libertà alla possibilità che quel mistero, rivelandosi
storicamente, attui in un evento quella medesima apertura, compiendola e oltrepassandola
intrinsecamente»57. Emergerà, in tal modo, che, se l'essere credente appartiene alla struttura
antropologica originaria, la figura cristiana del credere è attuazione storica, libera e gratuita, di
questo credere.
Conseguentemente i temi caratteristici dell'Ath, grazia, creazione, peccato originale,
giustificazione, compimento escatologico della libertà, andranno svolti in relazione con la
cristologia. Questo eviterà che i contenuti dei temi siano in qualche modo presupposti, con
l'inevitabile conseguenza che le categorie proposte ricevano un'indebita sovradeterminazione a
partire dall'analisi storico-culturale.
+ Il compito affidato dalla cristologia all'antropologia esige di essere svolto mediante il
confronto con le varie antropologie presenti nella storia dell'uomo, per poter rendere ragione
dei pronunciamenti proposti dalla fede riguardo all'uomo58.
Duplice il livello del confronto: critico-negativo, di contestazione/presa di distanza di/ dalle
figure antropologiche in sé concluse, indisponibili a cogliersi nel proprio limite e ad aprirsi al
riferimento a Dio; positivo, di reinterpretazione dei dati culturali, che forniscono al credente
un collaudato e corretto strumento di mediazione tra le esigenze della fede e la situazione culturale59.
55
F. G. BRAMBILLA, Antropologia, art cit, 605.
Cfr W. KASPER, Cristologia e antropologia, ID, Teologia e Chiesa, op cit, 214-216.
57
F.G. BRAMBILLA, Antropologia, art cit, 607.
58
Un esempio del confronto è offerto da I. SANNA, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità (=
BTC 116) Queriniana, Brescia 2001; cfr anche I. SIVIGLIA, Antropologia teologica in dialogo, EDB, Bologna
56
2007, soprattutto 317-329.
59
Cfr V. MELCHIORRE, Riflessioni per un'antropologia cristiana, “Vita e Pensiero” 54 (1971) 596-603; W.
PANNENBERG, L'antropologia in prospettiva teologica, Brescia 1987. Sul tema della libertà cfr G. FERRET-
Antropologia Teologica 2009-2010
19.
Nel confronto andrà superato il pregiudizio che considera lo specifico cristiano in
termini aggiuntivi rispetto a una realtà già in sé consistente e intelligibile o in termini alternativi
ed esclusivamente critici nei confronti della medesima comprensione, giudicata negativamente
o, infine, in termini di semplice compimento di un umano predefinito nella sua realtà di senso.
E’ la “questione antropologica” (“Che cosa è l’uomo, il mortale?”) a interpellare oggi la
riflessione teologica, perché renda ragione della risposta che la rivelazione dà alla domanda
sull’uomo e che la fede fa propria. Se la questione antropologica è antica come l’uomo (per R.
Guardini, sulla scia di S. Agostino e di Pascal, l’uomo «è il problema er eccellenza»60) in quanto
l’uomo, da quando esiste, s’interroga continuamente su se stesso, anche se in modi diversi,
nella cultura moderna, soprattutto negli ultimi decenni, si parla di una “nuova” questione
antropologica61, dato che l’uomo sembra esser diventato la questione radicale.
Correndo il rischio di una semplificazione, due sembrano essere gli ambiti che documentano la
novità della questione antropologica: la questione dell’identità dell’uomo e la riproposizione di
alcune istanze valoriali.
La questione dell’identità dell’uomo62
La questione dell’identità torna prepotentemente alla ribalta nell’epoca postmoderna, spinta
dai processi di sfuocamento e di minaccia dell’identità dell’uomo, sia riguardo alle identità
culturali, messe alla prova da una globalizzazione63 sempre più pervasiva, mentre si
radicalizzano fenomeni identitari di marca fondamentalista, sia riguardo all’identità umana che
sembra deteriorata nelle sue strutture elementari da una visione dell’uomo dominata dalle
biotecnologie64, con il loro potere di intervenire sull’uomo e manipolarlo, sia infine riguardo
alla coscienza dell’identità personale che sembra liquefarsi, sciogliersi in una realtà che assomiglia
sempre più a un caleidoscopio di proposte.
In questo quadro l’identità umana sembra costituire più un ostacolo che un’opportunità, dato
insignificante, senza alcun fondamento e irriconoscibile, frammentata in più direzioni e in
infinite possibilità, esposta a un “riciclaggio continuo”65, nei confronti della quale viene messa
in atto una significativa “cura di dimagrimento”66, il cui esito è la “morte del soggetto”.
A provocare tale morte sono le scienze e le tecniche che «guardano all’uomo scomponendone
l’originaria unità, sradicandone ontologicamente l’essere e l’agire e che impongono, in modo
sempre più pervasivo, il loro previo e molteplice punto di vista come una sorta di “suprema
TI, Redenzione cristiana e dialettica della libertà, “Silenzio e parola”. Miscellanea in onore del card M.
Pellegrino p del 80° compleanno, ELLE DI CI, Torino 1983, 113-129.
60
R. GUARDINI, L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana, Opera omnia III/2, Morcelliana, Brescia
2009, 83.
Cfr Z. BAUMAN, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza 20077; P. A. SEQUERI, L’identità incerta. La conoscenza di sé nell’epoca della “morte di Dio”, in AA. VV. Conoscersi in Dio. La fede come orizzonte della
conoscenza di sé, Glossa, Milano 2007, 57-100; I. SANNA, L’identità aperta. Il cristianesimo e la questione
antropologica (= BTC 132), Queriniana, Brescia 2006; ID., L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità,
op cit, Queriniana, Brescia 2001.
62
Cfr I. SANNA, L’identità aperta. Il cristianesimo e la questione antropologica, op cit, 17-198; A. PESSINA,
Tecnologia e questione antropologica, in SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA
CEI, Cattolicesimo italiano e futuro del Paese, EDB, Bologna 2006.
63
Cfr I. SANNA, L’identità aperta. Il cristianesimo e la questione antropologica, op cit, 80-130.
64
Cfr ID, 162-193. Cfr U. GALIMBERTI, Psiche e techne L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano
1999.
65
Cfr G. ANCONA, Le ragioni di un percorso¸ in ATI, L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi
dell’umano, Glossa, Milano 2008, 6.
66
G. VATTIMO, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Milano 1985, 55.
61
Antropologia Teologica 2009-2010
20.
morale del nostro tempo” (E. Severino) e come orizzonte “soteriologico” per l’intera
umanità»67.
Nella visione riduzionista dell’uomo proposta dalle scienze viene messa in questione l’essenza
stessa della natura, l’unità dell’uomo, che «non ha in sé alcun senso se non quello che assume
all’interno del progetto umano che tende a farne un fondo a disposizione dell’uomo»68. Il
nuovo orizzonte di comprensione dell’uomo non è più rappresentato né dalla natura né dalla
storia, ma dalla tecnica, che, da sola, istituisce “la grammatica della vita”, suggerendo le leggi
del vivere umano e sociale e promuovendo un’etica per la quale non solo è possibile, ma
doveroso, fare tutto ciò che è tecnicamente fattibile.
La riproposizione di alcune istanze valoriali
Le “istanze valoriali”, attorno alle quali sembra emergere un consenso:
- Il ricupero della positività del corpo, inteso come luogo di esplorazione” di senso e
come “luogo di mediazione” per l’incontro con il mondo e con le altre libertà.
- La riscoperta della trascendenza o del religioso, come desiderio di un incontro con il
divino, libero da “mediazioni” che sembrano mortificarlo.
- La diffusione di un sentimento di condivisione con le tante diversità e della logica del
dono che sembra segnare buona parte del vivere sociale.
Tali istanze se, «rivelano delle vere e proprie emergenze umanistiche e quindi il desiderio di
non subire passivamente l’odierno sistema di frammentarismo socio-culturale»69, sembrano
però incapaci di offrire una chiarificazione dell’identità umana, perché restano percorsi
soggettivi, privi di un fondamento “forte”, di uno sguardo sul futuro.
67
G. ANCONA, Le ragioni di un percorso¸ in ATI, L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi del-
l’umano, op cit, 7.
68
69
U. GALIMEBRTI, Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 2006, 148.
G. ANCONA, Le ragioni di un percorso¸ in ATI, L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi del-
l’umano, op cit, 12.
Antropologia Teologica 2009-2010
21.
II - La figura normativa dell'uomo secondo la predestinazione70
1. Il mistero della predestinazione
2. La libertà come “creazione in Cristo”
3. La grazia come “incorporazione a Cristo”
L'uomo nella prospettiva della fede è destinato da Dio a partecipare alla vita e al
destino di Cristo, il Figlio (la predestinazione in Cristo). In ragione di tale destinazione è
creato da Dio come libertà capace di comunione con Lui, perché disponibile ad
assumere i tratti di Cristo (la creazione in Cristo) e trova il senso del proprio essere
lasciandosi incorporare a Cristo, mediante il dono dello Spirito (l'incorporazione a Cristo).
1. Il mistero della predestinazione
Il termine predestinazione indica la volontà (disegno) di Dio riguardo agli uomini:
Dio ha predestinato, con volontà gratuita e infallibilmente efficace, tutti gli uomini a diventare suoi figli nel Figlio suo Gesù Cristo. L'affermazione presuppone la tesi della
predestinazione di Gesù Cristo, in quanto Figlio Unigenito del Padre. Su questo
presupposto attesta la volontà di Dio che tutti gli uomini siano “figli nel Figlio”,
partecipino cioè alla condizione di Figlio del suo Unigenito. Sul versante di Cristo la
predestinazione comporta che l'Unigenito sia anche il Primogenito.
La riflessione biblica71
Nell'AT il tema più vicino alla realtà teologica della predestinazione è quello
dell’elezione72. La radice ebraica del termine è bahar, (“scegliere”, “preferire”); è usato
in un contesto profano e religioso. Nel contesto religioso ha quasi sempre Dio come
soggetto. La traduzione dei LXX rende bahar con eklégesthai73.
L'elezione d'Israele da parte di Dio avviene con l'alleanza74, grazie alla quale
Israele da semplice nazione (éthnos) diventa un popolo (laos): «Il Signore ti ha scelto per
essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 14,2); «Voi
70
Cfr L. SERENTHÁ, Predestinazione, DTI II, 759-774; G. COLOMBO, Il Soprannaturale, art cit, 335-361;
G. COLZANI, Antropologia teologica, 285-309; M. LÖHER, Azione della grazia di Dio come elezione dell'uomo,
“Mysterium Salutis” (MS) IX, Queriniana, Brescia 1967ss, 225-295; F.G. BRAMBILLA, Uomo e donna, in G.
BARBAGLIO - G. BOF - S. DIANICH (a cura di), Teologia, op cit, 1837-1845.
71
Cfr Elire, in “Vocabulaire biblique” (cur VON ALLMEN), Neuchatel 1954, 85-89 (F. MICAELI - P.
BONNARD); J. BONSIRVEN, Predestination, in “Dictionnaire de Théologie catholique” (DThC); G. DE
FRAINE, Vocazione, elezione nella Bibbia, Paoline, Bari, 1967; S. LORENZI, Elezione, in “Nuovo
Dizionario di Teologia biblica” (NDTB), Paoline, 1988, Roma 444-458; “Elezione-vocazionepredestinazione”, in “Dizionario di Spiritualità Biblico-Patristica” (DSBP) 15, Borla, Roma 1997, 16173.
72
Cfr A. GANOCZY, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto (= BTC 67), Brescia 1991,11-30 (= Dalla
sua pienezza); M. CIMOSA, L'elezione divina nell'AT, DSBP 15, 37-50.
73
Cfr G. QUELL- G. SCHRENK, Eklégomai, in “Grande Lessico del Nuovo Testamento” (GLNT) VI,
Paideia, Brescia, coll. 403-487.
74
Cfr G. QUELL, Diathéke, GLNT II, coll. 1017-1065; H. CAZELLES, Alleanza, in “Sacramentum
mundi” (SM) I, Morcelliana, Brescia,coll. 44-55; D.J. McCARTHY-G. E. MENDENHALL-R. SMEND, Per
una teologia del patto nell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1972; A. BONORA, Alleanza, in NDTB, 21-35.
Antropologia Teologica 2009-2010
22.
sarete per me una proprietà particolare fra tutti i popoli» (Es 19,5; cfr Es 23,22). Un
testo del Deuteronomio indica i termini e il motivo dell’elezione: «Tu infatti sei un
popolo consacrato al Signore, tuo Dio: il Signore, tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo
popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi
ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più
piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il
giuramento fatto ai vostri padri: il Signore vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha
riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano di faraone, re d'Egitto» (7,68).
L'elezione comprende tre elementi: Israele è un popolo consacrato a Dio, scelto
da Dio, sua proprietà particolare. La scelta non dipende dai meriti del popolo, ma
dall'amore di Dio ed è destinata a rivelare la salvezza di Dio ai popoli della terra («Tutti
i popoli della terra vedranno che il nome del Signore è stato invocato su di te e ti
temeranno», Dt 28,10).
La condizione di popolo eletto pone Israele in una situazione dialettica, di popolo
separato, ma anche scelto a favore degli altri popoli. Con la vocazione di Abramo Dio
separa Israele dai popoli corrotti (cfr Gn 1-11), perché sia una benedizione per i popoli
della terra («Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra», Gn 12,3; cfr Gn 28,13ss; Nm
24, 9; Ger 4,2; Sal 72; Sir 44,21; Is 2,2ss; 19,24). L' idea di separazione è evidenziata
dalla tradizione elhoista: «Ecco un popolo che dimora in disparte e tra le nazioni non si
annovera» (Nm 23,9); ripresa ed elaborata dal Deuteronomio, sarà sviluppata nelle
correnti nazionalistiche del postesilio. La circoncisione è il segno della separazione
d'Israele dagli altri popoli e della sua appartenenza a Dio.
La tradizione P in Gn 17,11 la presenta nel contesto dell'alleanza tra Dio e
Abramo («Vi lascerete circoncidere la carne del vostro prepuzio e ciò sarà il segno
dell'alleanza tra me e voi»). La separazione religiosa porta Israele a praticare l'anatema
(herem), la distruzione della popolazione delle città sconfitte per evitare di contaminarsi
con i pagani, perché Israele «è un popolo consacrato al Signore» (Dt 7,1-6).
La coscienza di essere tramite della benedizione (salvezza) di Jahvè a favore degli altri
popoli, di tutti gli uomini («Anche ad Isacco fu fatta la stessa promessa grazie ad
Abramo, suo padre. La benedizione di tutti gli uomini e la sua alleanza Dio fece posare
sul capo di Giacobbe; lo confermò nelle sue benedizioni e gli diede il paese in eredità:
lo divise in varie parti, assegnandole alle dodici tribù», Sir 44,22-23) e di essere stato
scelto per ricondurre i popoli della terra a riconoscere l'unico Dio («...Riconoscano tutti
quelli che abitano sulla terra che tu sei il Signore, il Dio dei secoli», Sir 36,19) segna la
storia d'Israele. Questa consapevolezza non è sempre pacifica, come documenta il libro
del profeta Giona, il quale, dopo aver fatto di tutto per sottrarsi alla missione affidatagli
da Dio di condurre alla conversione gli abitanti di Ninive, quando, costretto a cedere,
constata l'effetto positivo della sua predicazione, si irrita con Dio, che risponde al
profeta dichiarando la sua “pietà” per gli abitanti della grande città di Ninive (cfr Gl
4,9-11).
Nella profezia di Isaia «la radice di Iesse sarà vessillo per i popoli. Le nazioni la
cercheranno con ansia» (11,10); saliranno sul monte del Signore, al tempio del Signore,
per ricevere da lui l’insegnamento e imparare come comportarsi (cfr 2,2-5),
cammineranno verso al luce di Gerusalemme, dove si recheranno per glorificare il
Signore (cfr 60).
Antropologia Teologica 2009-2010
23.
Per il NT75 evidenziamo tre filoni: la predicazione di Gesù nei Sinottici, la
meditazione di S. Giovanni e quella di S. Paolo.
* Nella predicazione di Gesù, testimoniata dai Sinottici76, il tema dell'elezione
passa nel tema del Regno77, della signoria regale di Dio che si china sull'uomo per
liberarlo da ciò che minaccia - le infermità fisiche, il peccato, la morte - la sua vita.
Il tema della signoria regale di Dio esprime il tema della paternità di Dio che Gesù
rivela e rende presente nella storia degli uomini con gesti e parole: il festoso convito
con i peccatori, le guarigioni miracolose, l'invito alla conversione e alla fede, il racconto
delle parabole. La paternità di Dio si esprime nei confronti dell'uomo come amore
incondizionato - non legato a criteri di tipo razziale, psicologico e sociale - universale,
che va inteso non solo nel senso dell'estensione quantitativa (offerto a tutti gli uomini),
ma anche e soprattutto nel senso della gratuità, in quanto non dipende dai diritti
dell'uomo, ma dalla benevolenza di Dio che opera con maggior evidenza ed è accolta
con gratitudine proprio là dove si verificano situazioni umanamente povere (cfr le
parabole dei chiamati al Regno, la predilezione di Gesù per i bambini, i poveri, i
peccatori). Gesù fa sapere che il Dio che si china sugli uomini per liberarli, si dedica
incondizionatamente al loro bene, è il Padre di tutti gli uomini, è anzitutto suo Padre,
in modo unico e sorprendente.
* Nel IV vangelo la predestinazione degli uomini è posta in un orizzonte
teologico e cristologico che evidenzia la libera, gratuita ed efficace iniziativa di Dio
Padre, manifestata e attuata da Gesù Cristo, il Figlio. Questa prospettiva emerge da
alcuni testi:
- Nel contesto del dibattito sul “pane di vita” (cap 6) l'evangelista, quando segnala
la crisi di fede di molti discepoli di Gesù, annota che Gesù «sapeva fin da principio chi
erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito» (6,64b). Nello
stesso contesto Gesù afferma che nessuno può aderire a lui per essere salvato «se non
gli è concesso dal Padre» (6,65; cfr 6,43b).
- Nel dialogo con Nicodemo Gesù chiarisce la condizione per accedere alla vita
eterna: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall'alto, non può vedere il regno
di Dio» (3,3). La metafora spaziale “dall'alto” nel IV vangelo rimanda «alla realtà
trascendente di Dio e alla sua radicale iniziativa nel processo della rivelazione
salvifica»78.
Questa è ricordata da Giovanni Battista nel dialogo con i suoi discepoli, dove
parla del suo ruolo di testimone di Gesù: «Nessuno può prendersi qualche cosa se non
gli è stata data dal cielo» (3,27); «Chi viene dall'alto è al di sopra di tutti... chi viene dal
cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito...» (3,31.32). I destinatari
dell'iniziativa salvifica di Dio sono tutti gli uomini, indicati dal termine “mondo” nella
sua accezione antropologica positiva: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»
(3,16).
75
Cfr R. FABRIS, L'elezione-vocazione-predestinazione dell'umanità nell'epistolario del Nuovo Testamento, DSBP 15,
127-156; A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 34-80.
76
Cfr R. FABRIS, L'elezione-vocazione-predestinazione dell'umanità nei quattro vangeli, DSBP 15, 67-97.
77
Cfr J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, I. La predicazione di Gesù, Padeia, Brescia 1972, 43-47; R.
SCHNACKENBURG, Signoria e regno di Dio, EDB, Bologna 1971.
78 R. FABRIS, L'elezione-vocazione-predestinazione dell'umanità nei quattro vangeli, DSBP 15, 91.
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24.
* Per il contributo di Paolo79 ci riferiamo a Rm 8,28-3080: «Del resto noi
sappiamo che tutto concorre al bene per quelli che amano Dio, per coloro che sono
stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li
ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il
primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli
che ha chiamato li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato li ha anche glorificati»
(cfr Ef 1,4-14; Col 1,9-2,4). Il testo paolino, più che presentare una successione
cronologica di operazioni, esprime il senso dell'azione di Dio a favore degli uomini, la
sua intenzione: Dio volgerà al bene ogni cosa, ogni situazione, a profitto della salvezza
di coloro che «sono stati chiamati secondo il suo disegno» (v 28b), perché «Dio ha già
loro concesso tutta la sua salvezza»81. Si dice anzitutto che “quelli che amano Dio”
sono stati “preconosciuti” da Dio. Questo pre-riconoscimento di Dio - che nel
linguaggio biblico indica un’elezione nell'amore - si manifesta come “predestinazione”,
specificata con «ad essere conformi all'immagine del Figlio suo».
Analogo pensiero è espresso in Ef 1,4-682: «In lui (Cristo) ci ha scelti prima della
creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno
d’amore della sua volontà». Riportiamo il commento di H. Schlier:
«Essa (la nostra elezione) viene dunque posta nella medesima pre-temporalità e
premondanità nella quale, secondo Io 17,5.24, già regnava l'eterno amore del Padre per il
Figlio, o in cui, secondo IPetr 1,20 egli eternamente lo pre-conosceva; in cui, secondo
1Cor 2,7, Dio destinava la sua sapienza a nostra glorificazione, e in cui noi, secondo 1Petr
1,2, eravamo pre-conosciuti e conseguentemente pre-scelti ad ogni cosa... L'elezione,
precedente il tempo e il mondo, è avvenuta “in Cristo”... Con essa s'intende dire
piuttosto che già nella nostra elezione noi eravamo in Cristo. In quanto siamo eletti e
come eletti preesistiamo, preesistavamo già in Cristo...La nostra esistenza in lui è prima,
eternamente prima d'ogni cosa, è la prima forma della nostra esistenza...Essa ha a priori
uno scopo.
La nostra condizione di eletti significa essere eletti ad un fine. L'essere dell'eletto in
quanto eletto è un essere in sé orientato, aperto, un essere intenzionale... Dio ha eletti i
cristiani ad essere santi secondo la sua santità...Essere benedetti significa dunque
anzitutto essere accolti da Dio nella nostra essenza eternamente eletta in Cristo,
caratterizzata da una santa integrità davanti a Dio...Noi siamo...destinati alla “condizione
di figli mediante Gesù Cristo per lui”...L'essere figli e, conseguentemente, l'essere
oggetto d'un amore paterno s'identifica con lo stato di immacolata santità davanti a Dio,
agli occhi del quale è santo e immacolato chi gode di questa condizione di figlio ed è
oggetto del suo amore paterno»83.
Quindi, sin da principio - “prima della creazione del mondo” - Dio ha predestinato gli
uomini a diventare partecipi - “avere la stessa forma di” (symmorphos) - dell'immagine
Cfr F. PRAT, La teologia di S. Paolo, S.E.I.,Torino 1939-1941 (dalla VII ed fr); R. FABRIS, L'elezionevocazione-predestinazione dell'umanità nel vocabolario del Nuovo Testamento, DSBP 15, 127-151; G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, EDB, Bologna1999, 57-207, 209-312.
80 Cfr H. SCHLIER, La lettera ai Romani, Paideia, Brescia 1982, 444-452; J.A. FITZMYER, Lettera ai
Romani. Commentario critico teologico, Piemme, Casale Monferrato 1999, 601-628; A. PITTA, Lettera ai
Romani, Paoline, Milano 2001, 308-310.
81 H. SCHLIER, La lettera ai Romani, op cit, 447.
82 Cfr CH. REYNIER, La benédiction en Éphésien. Élection, filiation, redemption, NRTh 118 (1996) 182-196.
83 H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Paideia, Brescia 1973, 64-71.
79
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25.
(tès eikonos) di Gesù Cristo, il Figlio. L' “icona” di Gesù è quella di stare “di fronte”,
“rivolto”, al Padre, “nel seno del Padre” (Gv 1,1-18). La partecipazione degli uomini
alla condizione filiale di Gesù Cristo consente a Cristo di essere “il primogenito di
molti fratelli”. Nella storia la predestinazione si esprime nella “chiamata”, che è
avvenuta e continua ad avvenire col vangelo (cfr 1Ts 2,12; 5,24; 2Ts 2,14), nel quale
Dio invita l'uomo alla “comunione col Figlio suo, Gesù Cristo, nostro Signore” (1Cor
1,19), alla “grazia” (Gal 1,6), alla “pace” (1Cor 7,15; Col 3,15), alla “santificazione”
(1Ts 4,7), alla “libertà” (Gal 5,13; 1Cor 7,17), alla “signoria e alla gloria di Dio” (1Ts
2,12; 2Ts 2,14). Dio non solo “chiama”, ma anche “giustifica”.
L'esistenza dell'uomo, afferrata dalla potenza della giustizia di Dio, diventa così
esistenza “giustificata” (cfr Rm 5,1.9; 1Cor 6,11). La giustificazione dell'esistenza si
esprime fin da ora come ingresso nella gloria (“li ha anche glorificati”). La
glorificazione non è presentata come un avvenimento futuro, oggetto della speranza
dell'uomo, ma come fatto compiuto, realtà già operante nella storia: «L'esistenza
cristiana di essere chiamati e giustificati è già nel gorgo della gloria traboccante»84.
In sintesi, dal testo paolino emerge l'intenzione (la volontà) di Dio di rendere
partecipi gli uomini della condizione di figli, rispetto a Dio, propria di Gesù Cristo, di
riprodurre in essi l'immagine del Figlio. Tale volontà rappresenta il piano (il “mistero”)
di Dio sulla storia, sugli uomini, piano avviato esclusivamente dall'inizitiva di Dio
(quindi gratuito), la cui esecuzione non può essere impedita da alcuno (quindi efficace) e si
riferisce a tutti gli uomini (quindi universale). Da questo piano si deduce che l'uomo
originariamente non si trova in uno stato di “neutralità” rispetto a Dio, dal quale
eventualmente uscire in seguito, ma “situato” rispetto a Dio, precisamente come figlio,
a immagine del Figlio, cioè come si trova “situato”, rispetto a Dio, Gesù Cristo, il
Figlio.
La Tradizione85
Padri orientali86
Il pensiero dei Padri greci ricorda quello della S. Scrittura. Nella loro riflessione
non è presente la problematica teologica di Agostino e della patristica latina, suscitata
da una possibile difficoltà riguardo all'infallibile efficacia della volontà salvifica di Dio,
in quanto non dubitano della attuazione del piano salvifico divino, perché nel suo
complesso tale conclusione rappresenta l'essenza della fede cristiana stessa; inoltre non
applicano questa efficacia che si riferisce all'intera umanità al caso particolare dei
singoli.
Nei Padri Apostolici (cfr Clemente Romano, S. Ignazio, Policarpo)87 (II sec)
la predestinazione coincide con la chiamata alla salvezza mediante la fede; cioè,
predestinati, secondo il senso paolino, sono i cristiani.
I Padri greci, anche per il loro impegno costante contro le correnti gnostiche,
preferiscono parlare di “prescienza” anziché di “predestinazione”. Così Ireneo88 (II
ID, La lettera ai Romani, op cit, 450.
Segnaliamo soltanto gli autori e gli episodi più significativi.
86 Cfr H. D. SIMONIN- J. SAINT-MARTIN, La predestination apres les Pères grecs, DThC XII, coll. 28152896 ; A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 87-98.
87 Cfr G. TORTI, L'elezione-vocazione-predestinazione dell'uomo e della Chiesa nei Padri Apostolici, DSBP 15, 176183.
84
85
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26.
sec), che confuta la posizione dualista di Marcione, il quale, per affermare l'esistenza
del Dio buono del Nuovo Testamento e del Dio giusto dell'Antico Testamento, si
avvale dei testi di Es 10,1 («Allora il Signore disse a Mosè: “Va' dal faraone, perché io
ho reso irremovibile il suo cuore e il cuore dei suoi ministri, per operare questi miei
prodigi in mezzo a loro”») da confrontare con Rm 9,17-18 («Dice infatti la Scrittura al
faraone: “Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome
sia proclamato in tutta la terra”»).
L'esegesi di Ireneo del passo che si riferisce all'indurimento del cuore del faraone,
esclude una predestinazione arbitraria di Dio e interpreta questi testi sempre in
funzione di una colpa precedente; in ogni caso respinge l'idea di predeterminazione.
Il rifiuto di ogni predeterminazione da parte di Dio è in sintonia con la
sottolineatura della libertà dell'uomo: Dio dona la libertà all'uomo, perché esercitandola
possa crescere fino a meritare di entrare nel regno del Padre. Concedendogli la libertà
Dio rende l'uomo degno della sua elezione e responsabile del proprio destino ultimo:
«... l'uomo che è stato dotato di ragione e per questo simile a Dio, è stato creato libero
nel decidere e padrone di sé, per cui, se diventa ora frumento ora paglia, ne è causa egli
stesso» (Adv. Haer. IV, 4,3).
Origene89 (II-III sec) è il commentatore di Paolo che con Giovanni Crisostomo
influisce maggiormente sull'esegesi orientale. Egli fa coincidere la prescienza e la
predestinazione, che nel testo paolino sono distinte (Rm 8,28), in quanto fa notare che
da un lato l'uso biblico di prescienza va oltre il significato intellettualistico per
esprimere il significato affettivo; e dall'altro lato il termine predestinare è inteso in
modo da escludere qualsiasi termine necessitante. Conseguentemente i termini
prescienza e predestinazione hanno lo stesso significato e lo stesso oggetto.
E’ noto che il sistema origeniano è costruito sull'energica affermazione della
libertà come elemento proprio dell'essere spirituale. L'affermazione è mantenuta sia di
fronte ai passi biblici indicati da gnostici e marcioniti per mostrare l'esistenza di una
predestinazione al male (cfr Es 10,1); sia di fronte ai passi biblici che sembrano
attribuire a Dio tutto il bene (Rm 9,13; Fil 2,13). Il principio cui Origene si appella per
rispondere a queste obiezioni è che la nostra perfezione non si realizza né senza di noi,
né senza Dio (esempio della nave sorpresa dalla tempesta che riesce a sfuggire: è lecito
attribuirne il merito a Dio anche se i marinai hanno dovuto fare tanto sforzo).
Conseguentemente il problema di come conciliare la previsione di Dio e la libertà
umana, Origene lo risolve senza mai sacrificare la libertà. In particolare, contro Celso,
discutendo della profezia, afferma che la cosa avviene non perché è prevista, ma è
prevista perché avverrà. Questo rapporto si verifica anche nell'opera di salvezza, dove
la prescienza di Dio non porta la responsabilità totale, esclusiva della nostra salvezza o
della nostra dannazione, in quanto la salvezza non dipende solo dalla chiamata di Dio,
né la glorificazione può essere considerata totalmente al di fuori del nostro potere.
Tra gli Antiocheni90, Giovanni Crisostomo (349-407) segue soprattutto per
l'esegesi di Paolo. Nella sua decisa affermazione della libertà dell'uomo, usa espressioni
che gli procurano l'accusa di filopelagianesimo. Anche le affermazioni sulla volontà
Cfr. M. DIDONE, Libertà umana ed elezione in Ireneo, DSBP 15, 217-239.
Cfr A. MONACI CASTAGNO, Elezione, giustizia e libero arbitrio in Origene, DSBP 15, 240-249.
90 Cfr P. CARRARA, L'elezione-vocazione-predestinazione dell'uomo e della Chiesa negli scritti dei Padri antiocheni,
DSBP 15, 266-287.
88
89
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27.
salvifica universale sono energiche: Gesù Cristo è morto per tutti, anche per i pagani
(1Tm 2,5-7). Sulla prescienza si esprime con gli stessi termini e con lo stesso esempio
già usato da Origene. Crisostomo distingue in Dio una duplice volontà: volontà di
benevolenza, che è la prima, la fondamentale, e volontà di castigo. Si tratta di una distinzione formulata in base agli effetti, non una distinzione che divide gli uomini in
partenza.
Gli Alessandrini, in particolare Cirillo (370-444), seguono sostanzialmente l'esegesi di Crisostomo. Cirillo insiste soprattutto sull'universalità della vocazione alla
salvezza. Riferendosi a Mt 11,28 sottolinea che nessuno è escluso dalla grazia della
vocazione. Per quanto riguarda il giudizio, quindi le scelte divine, Cirillo fa appello alla
prescienza, spiegando così anche la predestinazione di Giacobbe e la riprovazione di
Esaù.
La conclusione del pensiero dei Padri greci si trova in Giovanni Damasceno91
(VII-VIII sec) che espone con terminologia precisa la dottrina comune. Propone di
riservare il termine “predestinazione” all'influsso di Dio sulle creature non libere e il
termine “prescienza” all'influsso di Dio sulle creature libere: Dio non predetermina
tutte le cose, preconosce ma non predetermina le cose che dipendono da noi. Egli,
infatti, non vuole il male e non necessita la virtù. Invece egli predetermina secondo la
sua prescienza le cose che non dipendono da noi (De fide ortodoxa, 1.2, c. 30).
Resta però chiaro che Dio è l'autore di ogni bene e che senza la sua
collaborazione e il suo soccorso non possiamo volere né fare alcun bene. Come tutti i
suoi predecessori, Giovanni Damasceno insegna che Dio vuole la salvezza di tutti gli
uomini; è questa la volontà di Dio precedente, che è volontà di benevolenza. Quanto al
male Dio non lo vuole, ma semplicemente lo permette e, conseguentemente, poiché
Dio è giusto, vuole castigarlo: è questa la volontà seguente o conseguente al male
compiuto, ossia la volontà di castigo.
Padri occidentali92
La patristica latina, insistendo sui meriti dell'uomo come aspetto preponderante
sulla volontà di Dio, altera l'equilibrio del pensiero dei padri greci, inclinando la
dottrina della predestinazione verso una direzione pericolosa. Lo spostamento è
causato dalla diversa interpretazione del rapporto tra la prescienza di Dio e la libertà
dell'uomo: mentre nella lettura offerta dai padri greci la prescienza operativa di Dio
utilizza la libertà dell'uomo (priorità della prescienza di Dio sulla libertà dell'uomo), in
quella dei padri latini la libertà dell'uomo predetermina la prescienza di Dio.
L'interpretazione latina introduca il seme di una teologia che tende ad affermare
il primato dell'uomo su Dio e che si dispiegherà nel pelagianesimo. Tuttavia, dato che
si tratta di un principio inaccettabile per la coscienza cristiana, la tendenza è a collocare
in Dio la ragione dei meriti/demeriti dell'uomo, prima di ogni loro determinazione. La
soluzione introduce però una discriminazione inspiegabile nell'azione di Dio.
91
92
Cfr M. FRANCESCHINI, La dottrina del Damasceno sulla predestinazione, Roma 1945.
A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 99-126.
Antropologia Teologica 2009-2010
28.
Agostino (354-430)93
Per ammissione dello stesso Agostino c' è un'evoluzione nel suo pensiero sul
problema della predestinazione, per la quale sarebbe passato da una dottrina vicina a
quella dei monaci della Gallia, secondo cui la distinzione degli uomini nelle due
categorie dei salvati e dei riprovati si opera non per una predeterminazione divina, ma
per una scelta umana, a una dottrina diversa, secondo cui l'esistenza delle due categorie
dipende invece da una decisione di Dio.
Il distacco avviene per la prima volta nel De diversibus quaestionibus ad Simplicianum
(397) dove, partendo dalla convinzione che la grazia divina precede e fonda la stessa
capacità di fare il bene propria dell'uomo, Agostino si pone il problema di chiarire in
quale modo e con quali criteri Dio distribuisce una grazia che è indipendente dal
merito; procede nel 415, Spiegazione Sermoni IV Vangelo; Trattati della vecchiaia. Ma
Agostino non sarebbe mai arrivato ad una formulazione definitiva.
La dottrina agostiniana parte dalla condizione dell'uomo conseguente al peccato
originale che riduce l’umanità a massa perditionis (“massa proveniente da Adamo
condannata alla dannazione”). La predestinazione consiste nell'atto divino di liberare
alcuni uomini da questa massa dannata: «Questa è appunto la predestinazione dei
santi», cioè «la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, con i quali
indubbiamente sono liberati tutti quelli che sono liberati»94.
L'atto della predestinazione ha come unico movente la sola misericordia di Dio a
esclusione di qualsiasi previsione di eventuali meriti (che sono in ogni caso conseguenti
all'azione dell'alleanza); per questo è assolutamente gratuito. D'altra parte nulla può opporsi
all'attuarsi dell'atto liberatore di Dio: ciò che egli vuole, inevitabilmente accade. Per questo la
predestinazione è infallibilmente efficace. Sono le due proprietà della predestinazione:
antecedente (gratuita) e infallibile.
Questo piano di Dio che libera alcuni dalla massa perditionis ha una sua logica, perché
evidenzia da un lato la giustizia di Dio che punisce il peccatore (lasciandolo nelle conseguenze
del suo peccato) e dall'altro la sua misericordia gratuita (perché, nonostante il peccato, alcuni
sono infallibilmente e gratuitamente salvati).
«Ma perché - si domanderà - la grazia di Dio non è data secondo i meriti degli uomini?.
Rispondo: perché Dio è misericordioso. E perché allora non è data a tutti? E qui
rispondo: perché Dio è giudice. Per questo la grazia è data da lui gratuitamente, mentre
il suo giudizio sugli altri dimostra quale bene la grazia conferisca a coloro ai quali è data.
(...) Dunque chi ne viene liberato, abbia cara la grazia; chi non ne viene liberato,
riconosca il suo debito. Se la nostra intelligenza riconosce nella remissione del debito la
bontà, nell'esigerlo la giustizia, mai in Dio si troverà l'ingiustizia»95.
Dio non potrebbe ovviamente volere la salvezza di tutti, perché, come Agostino
interpreta l’infallibile efficacia della grazia, di fatto tutti si salverebbero. Ma in tal caso
avremmo un piano divino che non mette in luce una delle proprietà essenziali di Dio,
la giustizia. Da qui la necessità che non tutti siano predestinati. Questi sono solo un
Per questa parte, oltre all'art. cit. del DThC, cfr V. BOUBLIK, La predestinazione. S. Paolo e S. Agostino,
Corona Lateranensis, Roma 1961; H. RONDET, La predestination augustinienne, “Sc Eccl” 18 (1966) 229251; V. GROSSI, La predestinazione in S. Agostino, DSBP 15, 341-367; A. GANOCZY, Dalla sua pienezza,
106-126; F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 173-188:
94 AGOSTINO, De dono perseverantiae 14,35.
95
ID, 8,16.
93
Antropologia Teologica 2009-2010
29.
numero “chiuso e scarso”, perché tanto più raro è il dono, tanto più appare la sua
gratuità. Tale impostazione pone un problema: perché questi determinati e non altri,
entrano a costituire il numero degli eletti? Per quale ragione Dio opera tale
discriminazione? I principi agostiniani non offrono elementi per una risposta.
La dottrina agostiniana è una reazione alla teologia latina, tendente ad assumere la
previsione del comportamento umano come criterio determinante della volontà di Dio,
e quindi a compromettere la gratuità della salvezza (cfr. pelagianesimo), e ancorata al
primato dell'azione dell'uomo sull'azione di Dio. Agostino però fonda la gratuità della
salvezza non sulla rivelazione biblica della volontà salvifica universale (come i Padri
greci), ma sulla condizione di universale peccato in cui l'uomo si trova, per cui esso,
pur non meritando nulla, viene salvato.
Il rilievo, che mette in contrasto la dottrina agostiniana con la dottrina biblica
dell'universalità della salvezza, è formulato da Prospero di Aquitania, discepolo di
Agostino. Nella sua lettera ad Agostino, informandolo dell'opposizione al suo pensiero
da parte dei monaci della Gallia, Prospero riconosce che il loro rifiuto della dottrina
agostiniana si fonda proprio sul principio della volontà salvifica universale (Epist.
125,4).
Effettivamente Agostino si allontana dalla dottrina biblica dell'universalità della
salvezza: cfr. il suo commento a 1Tm 2,4 («Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvati»), nel quale ritiene possibili tutte le esegesi, purché non in contrasto con la sua
dottrina della predestinazione, dove sembra emergere però la tendenza a far dipendere
la gratuità dalla non universalità: il dono è tanto più gratuito quanto più è scarso. Per
cui nell’esegesi agostiniana “tutti gli uomini” che Dio vuole salvi diventano i “molti
uomini”.
In un certo senso, alla dottrina biblica della grazia, Agostino sostituisce come
fondamento dell'antropologia cristiana la dottrina biblica del peccato originale. Se i
Padri greci, seguendo Paolo, parlano della predestinazione per spiegare la situazione
dell'uomo ricapitolato in Cristo, Agostino, invece, ne parla per spiegare la situazione
dell'uomo che vive in Adamo peccatore. Al concetto di Cristo-grazia si sostituisce,
come fondamento della visione dell'uomo, il concetto di Adamo-peccatore.
La controversia “De auxiliis” (1582-1607)96
Il contesto
E' rappresentato dalla riflessione teologica posttridentina impegnata a offrire una
più adeguata comprensione della natura della grazia, acquisita, dopo il concilio di
Trento, come «principio dello stato di giustizia dell'uomo» (G. Colombo) e una più
accurata determinazione del rapporto fra dono di Dio e condizione umana (la gratuità
della grazia). La controversia appartiene all'eredità agostiniana (anche se svolta secondo
un punto di vista nuovo), perché fa riferimento al modo d'intendere il rapporto fra la
grazia di Dio e la libertà dell'uomo: come conciliare la grazia di Dio e la libertà
dell'uomo? Più precisamente: come conciliare la prescienza di Dio che conosce
infallibilmente l'avvenire e la libertà dell'uomo? Come spiegare che l'uomo possa
96
A. BENI- G. BIFFI, La grazia di Cristo, Marietti, Torino 1974, 91-94 (= La grazia di Cristo); H.
RONDET, La grazia di Cristo, Città Nuova, Roma 1996, 312-336.
Antropologia Teologica 2009-2010
30.
rendere vana la grazia? Qual'è la ragione per cui avviene la discriminazione tra gli
uomini che effettivamente si salvano e quelli che effettivamente si dannano?
La storia97
L'esistenza nella teologia cattolica di due correnti sul modo di pensare il rapporto
grazia-libertà, si rivela per la prima volta a Valladolid nel 1582, in una disputa sulla
libertà di Cristo. Un gruppo di teologi chiarisce, in funzione antiprotestante, che la
natura profonda della libertà umana è l'effettiva libertà di scelta, con l'aiuto della grazia
e che questa non è andata persa nello stato di decadenza. La grazia quindi è simul con la
libertà. I teologi tomisti di Salamanca reagiscono all'impostazione in nome della tradizione agostiniana e dell'insegnamento di Tommaso (l’uomo è determinato dalla grazia).
Il momento cruciale del confronto si ha con la pubblicazione del libro del teologo
spagnolo Luigi Molina (1536-1600), intitolato “Accordo del libero arbitrio con i doni della
grazia, la divina prescienza, la provvidenza, la predestinazione e la riprovazione” (1588). Molina
ritiene di poter spiegare l'assoluta efficacia della grazia, senza vanificare il libero
consenso umano: Dio, infatti, concederebbe la grazia afficace solo a quegli uomini che
prevede di fatto corrisponderanno. Si chiama “media” questa scienza perché la
situazione futura, condizionatamente libera, si colloca a metà strada tra gli atti liberi
soltanto possibili e quelli concretamente esistenti in un dato momento storico.
Oppositore di Molina è il domenicano Domenico Bañez (1528-1604), il quale già nel
suo commento alla “Summa” aveva esposto l'idea dei decreti predeterminati.
La dottrina molinista è accolta con favore da Lessio e dai gesuiti impegnati, nei
paesi Bassi a contrastare il predestinazionismo calvinista. Con Lessio il molinismo è
applicato organicamente alla dottrina della predestinazione, con la teoria della
predestinazione post praevisa merita. Si contrappone a Lessio la facoltà di Lovanio,
d'impostazione agostiniana, che lo censura nel 1587. Nella stessa compagnia la sua tesi
non è accolta da Bellarmino e da Suarez.
La questione è affidata al papa Clemente VIII, il quale l'avoca a sé, imponendo il
silenzio ai contendenti. In tal modo iniziano nel 1597 le “Congregationes de auxiliis”.
Il 5 settembre 1607 il papa Paolo V sospende le “Congregationes”, vietando alle parti
di censurarsi a vicenda e raccomandando di non usare parole aspre, in attesa della
decisione, che in realtà non venne mai, mentre i protagonisti della controversia nel
frattempo erano morti. La polemica continua all'interno della Compagnia di Gesù tra
Lessio con le sue tesi della predestinazione post praevisa merita e dell'identità in “actu
primo” tra grazia efficace e grazia sufficiente e Bellarmino, Suarez, con la tesi della
grazia congrua. Nel 1613 il generale dei gesuiti, Claudio Acquaviva, chiude la polemica
con un decreto che proibisce ai gesuiti di sostenere le opinioni di Lessio. Questi accetta
le decisioni del generale. Pochi anni dopo il suo molinismo diventa l'opinione
prevalente tra i gesuiti e verso la metà del secolo è dottrina ufficiale della Compagnia.
Le posizioni
Nella soluzione molinista la grazia di Dio e la libertà dell’uomo “concorrono
simultaneamente” al conseguimento della piena salvezza dell’uomo (la vita eterna), la
97
Cfr H. JEDIN, Storia della Chiesa VI. Riforma e Controriforma, Jaca Book, Milano 1975, 656-660; M.
FLICK, Z. ALZEGHY, Il vangelo della grazia, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1964, 308-319.
Antropologia Teologica 2009-2010
31.
quale risulta essere, quindi, insieme donata da Dio e conseguita dall’uomo. Con la teoria
del “concorso simultaneo” Molina pensa di interpretare la “cooperazione” di cui parla
il Concilio di Trento, che aveva riconosciuto alla libertà umana la capacità sia di
cooperare con Dio all’opera della grazia sia di rifiutare l’aiuto divino.
La principale preoccupazione di Molina è di conservare alla libertà umana la
propria autonomia, senza, per questo, mettere in discussione il primato assoluto
dell’iniziativa divina. L’autonomia della libertà umana è salvaguardata da questa tesi: la
grazia di Dio, che di per se stessa è sufficiente ed efficace, cioè capace di conseguire il
proprio risultato, di fattio diventa tale per il libero (autonomo) consenso offerto a essa
dall’uomo.
Il primato assoluto dell’azione salvifica di Dio a favore dell’uomo è garantito dalla
cosidetta “scienza media”: Dio conosce anche le scelte future che dipendono dalla
libertà dell’uomo. Egli sa già dall’eternità quale sarà la risposta libera che, in
determinate circostanze, quest’uomo darà alla sua offerta di grazia. La prescienza divina
non predetermina la risposta dell’uomo che resta libera, in quanto Dio decide di dare la
grazia a coloro che, come Egli sa, risponderanno liberamente in modo positivo alla sua
offerta di grazia. Per questo, nel caso di Molina, si parla di predestinazione post praevisa
merita.
Nella soluzione bañeziana invece la grazia di Dio e la libertà dell’uomo non
concorrono simultaneamente nell’azione salvifica, perché questa resta sotto il segno
dell’assoluto primato della grazia divina sulla libertà dell’uomo. Per Bañez Dio, nella
sua universale volontà salvifica, vuole che ogni creatura, dotata di libertà, giunga alla
salvezza e perciò offre a tutti una grazia sufficiente. Quelli che sono da lui amati
vengono predestinati con sicurezza alla beatitudine eterna, gli altri non vengono
predestinati a essa. Chi è predestinato riceve la grazia efficace, con la quale acquista
quei meriti, che sono in stretta relazione con la salvezza eterna. L'esclusione dalla
salvezza di chi non è predestinato è legata alla previsione di un fallimento umano (ante
praevisa merita), il quale risulta necessariamente dalla mancanza della grazia efficace.
Valutazione
La lettura della predestinazione operata da Bañez tende a dissolvere la libertà
dell'uomo rendendola uno strumento passivo nelle mani di Dio. Ci troviamo ancora di
fronte alla grazia irresistibile, anche se con il concorso dell'uomo.
La prospettiva molinista, invece, con l’affermazione della libertà dell'uomo anche
in presenza dell'azione della grazia, della volontà salvifica universale, intende
rivendicare la consistenza dell'uomo come essere in sé e non come strumento passivo
nelle mani di Dio. Tuttavia il molinismo più che risolvere pone il problema, in quanto
tende a porre l'azione umana in concorrenza con l'azione divina (parallela ad essa), cioè
a collocare le due azioni sullo stesso piano, con la conseguenza che per concedere
all'uno bisogna togliere all'altro. In tal modo assume implicitamente il presupposto
bañeziano, capovolgendolo, secondo cui Dio fa tutto e l'uomo non fa nulla. Sta qui la
ragione dell'impossibilità a intendersi da parte delle due prospettive, in quanto
ripetono, capovolta, la stessa cosa. Quindi del molinsimo va accolta l'affermazione
anche dell'azione dell'uomo oltre e insieme all'azione di Dio, mentre va respinta la
contrapposizione fra l'azione dell'uomo e quella di Dio, in quanto l'azione dell'uomo,
essendo l'azione di una creatura, resta relativa all'azione del Creatore. Porre l'esigenza
Antropologia Teologica 2009-2010
32.
anche dell'azione dell'uomo oltre e insieme a quella di Dio significa porre il problema
del “come” l'azione umana, che non si contrappone a quella divina, si distingue da essa.
Ambedue i sistemi teologici, al di là delle diversificazioni, pensano la libertà come
qualcosa di inizialmente irrelato alla grazia e da porre in relazione successivamente alla
grazia stessa. Questo modo di relazionare grazia e libertà pone un problema falso e ne
tralascia uno vero. È posto un problema falso, in quanto si ritiene problematico ciò che
in realtà dovrebbe risultare pacifico: la grazia non si pone in concorrenza con la libertà,
ma come suscitatrice della stessa. Il problema vero non riguarda la relazione grazialibertà, ma il modo d’intendere tale relazione, che va precisato. Le grandezze in gioco
nella relazione, la libertà di Dio e quella dell'uomo, data la loro infinità - pur di diverso
genere - non sopportano una soluzione preordinata del rapporto. Con questa
indefinibilità la teologia è impegnata a confrontare e a pensare la misteriosità rivelata
della grazia e della libertà, cioè le modalità con cui grazia e libertà si attuano in Cristo. Il
confronto non è attuato dai due sistemi teologici che si contrappongono, tanto che la
trattazione del tema della predestinazione è collocato nel trattato “De Deo uno”.
La teologia recente
E' impegnata a ricuperare la dimensione cristologica della predestinazione. Il
ricupero è in qualche modo preparato dalla riflessione di M. J. Scheeben (1835-1887) e
di L. Billot (1846-1903), i quali, pur non evidenziando ancora una chiara prospettiva
cristologica, superano l'individualismo dell'impostazione agostiniana per valorizzare
l'aspetto comunitario della predestinazione.
Scheeben98 concepisce la predestinazione dei singoli a partire dalla
predestinazione universale (volontà salvifica di Dio). Mentre la tradizione agostiniana,
partendo dalla predestinazione particolare, finisce per limitare la volontà salvifica
universale, Scheeben, partendo dalla volontà salvifica universale, è in grado di operare
una connessione tra la predestinazione universale e quella particolare, tramite la libertà,
che è già contenuta nella predestinazione universale con la quale Dio vuole gli uomini
liberi, chiamati alla comunione con lui. La libertà non risulta quindi estranea alla grazia,
da concordare con la grazia stessa, ma legata ad essa, in quanto ne esprime le
inesauribili ricchezze.
Il limite di Scheeben è costituito dalla mancata considerazione cristocentrica della
volontà salvifica universale di Dio, che avrebbe permesso di meglio articolare, alla luce
della libertà di Cristo, il posto, il senso e le leggi della libertà umana.
Billot cerca di raccordare il sistema molinista (che dà rilievo alla libertà
dell’uomo), con quello bañeziano (che evidenzia la priorità assoluta di Dio). Descrive la
predestinazione come atto della scienza divina, inclusiva della scienza media, nella quale
Dio considera tutti i possibili ordini di provvidenza, dove si ottiene la salvezza per
grazia di un certo numero di persone, mentre gli altri si perdono, data la loro libera
risposta. Dio, con la scienza media, conosce cosa farà una determinata persona con
l’aiuto della grazia, ma non ne predetermina le azioni La scelta di un ordine in cui
l'uomo risponde affermativamente alla grazia, a preferenza di un altro ordine in cui il
medesimo uomo si sottrae alla stessa grazia, dipende da Dio (è ante praevisa merita).
Tuttavia all'interno dell'ordine scelto la predestinazione è post praevisa merita.
Cfr M. J. SCHEEBEN, I misteri del cristianesimo, X. Il mistero della predestinazione, Morcelliana, Brescia
1960, 697-735.
98
Antropologia Teologica 2009-2010
33.
L'impostazione di Billot lega la volontà divina di predestinazione all’ordine
salvifico e non alla previsione dei meriti degli uomini. Il nostro autore intuisce che la
volontà di predestinazione è quella di un ordo, nel quale Dio sceglie il fine e i mezzi che
lo realizzano infallibilmente, predisponendo le condizioni per cui alcuni si salvino e
altri no. Nella proposta di Billot «la gratuità dell’ordo salvifico e la priorità della
predestinazione divina è garantita simultaneamente allo spazio per la libertà
contingente»99. L’articolazione dell'ante o post praevisa merita risente però ancora di un
modo concorrenziale d'intendere grazia e libertà; per cui non supera le difficoltà dei
due precedenti sistemi.
K. Barth (1886-1968)100 completa in un certo senso il ricupero della dimensione
cristologica della predestinazione, elaborando una riflessione dove la predestinazione è
identificata con Gesù Cristo: Gesù è il gratuito destino di salvezza, che Dio assegna
all'uomo, è il sì di Dio che comprende e supera il no dell'uomo peccatore.
Da questa affermazione Barth ricava le sue tesi. La prima presenta Gesù come
soggetto e oggetto della elezione di Dio101. In quanto Figlio Gesù è il soggetto della
predestinazione, perché svela e proclama il volto di Dio che elegge; è oggetto della
predestinazione, in quanto rappresenta l'uomo eletto da Dio: mostra la piena adesione
di fede che Dio si aspetta dall'uomo e prende le distanze dal peccato operando un
giudizio su di esso.
In questa lettura cristocentrica i due aspetti della predestinazione - salvezza e condanna
- non segnalano due esiti dell'azione di Dio né due categorie degli uomini - i salvati e i
dannati - ma, piuttosto, due modalità dell'unica volontà con cui Dio ci vuole salvi. In
Gesù Cristo, Dio dona la vita (salva), tenendo per sé la condanna e il giudizio.
«L’elezione della grazia è l’eterno inizio di tutte le strade e le opere di Dio in Gesù Cristo
nel quale Dio in libertà di grazia determina se stesso per l’uomo peccatore e l’uomo
peccatore per sé; prende quindi su di sé il rifiuto dell’uomo con tutte le sue conseguenze;
ed elegge l’uomo a compartecipe della sua gloria personale»102.
La seconda tesi afferma che l'elezione di Gesù Cristo è inseparabile da quella della
comunità103. L'elezione di Gesù, il Messia, si completa nell'elezione della sua comunità
messianica, di quel popolo di Dio - Israele prima, la Chiesa poi - che serve Gesù,
proclamando al mondo la misericordia divina e il giudizio di Dio sul peccato.
«L’elezione della grazia in quanto elezione di Gesù Cristo e, nello stesso tempo,
l’elezione eterna della comunità di Dio; grazie all’esistenza di essa Gesù Cristo dà
testimonianza a tutto il mondo, tutto il mondo deve venir chiamato alla fede in Gesù
Cristo»104.
La terza tesi tratta la predestinazione individuale105. La decisione di Dio, che è di
misericordia e di giudizio, rinnova la singola persona, in quanto in Gesù Cristo l'uomo
peccatore è accolto dalla grazia divina senza meriti propri e nonostante la sua
99
F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 202.
Cfr K. BARTH, La dottrina dell'elezione divina. Dalla dogmatica ecclesiastica, a cura di A. MODA, UTET,
100
Torino 1983.
ID, 305-468.
102 ID, 306.
103 Cfr ID, 469-634.
104
ID, 469.
105
Cfr ID, 635-966.
101
Antropologia Teologica 2009-2010
34.
malvagità. La predestinazione del singolo individuo è l'esito della predestinazione di
Gesù Cristo.
Barth ha il merito di indicare il criterio della predestinazione nel mistero rivelato
che è Gesù Cristo. Per questo supera il limite metodologico dell'impostazione
agostiniana troppo condizionata dal problema della libertà dell'uomo. Dissolve però la
realtà di Gesù nel gesto di Dio verso l'uomo (l'elezione): Gesù resta funzione della
decisione di Dio a favore dell'uomo, che si spinge fino ad assorbire dialetticamente il
rifiuto del suo peccato. Poiché l'uomo è funzione di Cristo, il rischio è che la storia
umana sia assorbita nella realtà di Dio: «forse è l’insufficiente attenzione al profilo
antropologico della predestinazione che motiva questa sorta di assorbimento della
predestinazione degli uomini nella predestinazione cristologica. Su questo punto
bisogna andare oltre Barth, senza perdere il suo fondamentale guadagno»106.
Gli interventi del Magistero
Il Magistero non ha mai presentato la predestinazione come oggetto
dell'insegnamento esplicito e solenne. Conosciamo dalla storia solo le dichiarazioni dei
concili di Quiercy (853; cfr DS 621) e di Valenza (855; cfr DS 628), confuse e sotto
certi aspetti contraddittorie. Comunque il Magistero non ha fatto propria la dottrina
agostiniana della predestinazione. Significativa è la posizione prudente del cosidetto
Indiculus107, che si rifiuta di seguire Agostino nei problemi della predestinazione (DS
249). Inoltre, come risoluzione della controversia semipelagiana, il Magistero ha
affermato il primato della iniziativa divina senza nulla dire della predestinazione (cfr
Concilio Arausicano).
Il Magistero ha poi esplicitamente e ripetutamente condannato la dottrina della
predestinazione alla dannazione “ante praevisa demerita”: Concilio Arausicano II (DS
397); Papa Adriano I (785-791) (DS 596); Concilio Carisiaco e Valentino (DS 621-628);
Concilio di Trento (DS 1556-1567). Infine si devono ricordare gli interventi specifici
sulla estensione universale della volontà salvifica di Dio e dell'azione redentrice di Gesù
Cristo. In particolare:
- il Libellus subiectionis (473) sottoscritto da Lucido per iniziativa di Fausto di Riez:
contiene l'affermazione che il Cristo è morto per tutti, anche per coloro che si
perdono; coloro che si perdono non si perdono per la volontà di Dio (DS 330-341).
- il Concilio di Valenza (DS 630-632).
- Condanna della proposizione Va di Giansenio: è eretico affermare che Cristo sia
morto solo per i predestinati (in senso agostiniano) (DS 2005-2006).
- Condanna dell'errore giansenista che Cristo è morto solo per fedeli, non per tutti gli
uomini; per cui i non fedeli sarebbero esclusi dall'azione di Cristo (DS 2304. 2305 ).
- Contro Quesnel si afferma l'esistenza di grazie anche fuori della chiesa e antecedenti
alla fede ( DS 2426. 2429). Cosi insegna anche Pio IX (DS 2866).
106
107
F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 205.
Una compilazione che nasce nell'ambiente romano tra il 435 e il 442, dovuta a Prospero di Aquitania
o a san Leone Magno, quand'era diacono. Il testo, che raccoglie diverse citazioni dei papi Innocenzo,
Cosimo e dei concili africani, rappresenta il pensiero della Chiesa di Roma e, come tale, è stato accolto
nella Chiesa.
Antropologia Teologica 2009-2010
35.
- Infine, la Costituzione Lumen Gentium (I,2): «L'Eterno Padre, con liberissimo e
arcano disegno di sapienza e di bontà, creò l'universo, decise di elevare gli uomini alla
partecipazione della sua vita divina e, caduti in Adamo, non li abbandonò, ma sempre
prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo, Redentore...».
In conclusione, in base a queste prese di posizione, si deve ritenere che la tesi
della volontà salvifica universale è “de fide ex ordinario ecclesiae Magisterio”. Poiché, d'altra
parte, la tesi della predestinazione, nel senso precisato, coincide con essa, si deve
logicamente concludere che essa gode della stessa nota teologica.
Riflessione teologica
La S. Scrittura presenta la predestinazione come espressione della volontà
salvifica di Dio nei confronti dell’intera umanità. Essa è essenzialmente riferita a Gesù
Cristo. La predestinazione è, infatti, la predestinazione di Gesù Cristo a essere “il
primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29; cfr Col 1,15.18) e, conseguentemente è la
predestinazione degli uomini in Cristo («In lui ci ha scelti prima della creazione del
mondo… predestinandoci a essere per lui figli adottivi», Ef 1,4; cfr Rm 8,28).
La predestinazione dice la verità dell’ “altissima vocazione” (GS 22) a cui è
chiamato ogni uomo, anzi l’umanità intera con la storia del mndo, perché Dio «ci ha
fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era
proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte
le cose, quelle nei cieli e quelle sulal terra» (Ef 1,9-10). In modo sintetico: la
predestinazione «è la predestinazione di Gesù Cristo e che è Gesù Cristo… è la
predonazione di Cristo all’uomo e a tutti gli uomini come il senso e l’attuazione»108.
A partire da questa figura della predestinazione vanno ricompresse le
caratteristiche che la tradizione ha indicato. La predestinazione è
• gratuita, perché è il dono di Gesù Cristo, che supera ogni esigenza da parte
dell’uomo. Cristo infatti è che il dono della pura liberalità del Padre.
•
Soprannaturale, supera ogni diritto da parte dell’uomo, anche dell’uomo
cosiddetto moralmente buono, lo introduce (eleva) a essere “figlio di Dio”.
•
Efficace, in quanto si attua in Gesù Cristo e Cristo non può venir meno.
•
Universale, in quanto, ordine istituito su Cristo, esclude l'esistenza di un ordine
non istituito su Lui, quindi afferma l'estensione della volontà salvifica di Dio a
tutti gli uomini (universalità quantitativa) e che tutti gli uomini trovano in
Cristo la loro verità (universalità qualitativa).
In conclusione, la predestinazione comporta che l'ordine storico e voluto da Dio
sia quello che si realizza in Gesù Cristo. Conseguentemente, si comprende come la
realtà della predestinazione non sia incompatibile con la possibilità della dannazione
dell'uomo. La realtà della predestinazione, infatti, comporta che l'umanità non sia
semplicemente salva, ma che sia salva in Cristo. Ora, in rifrimento al rapporto tra
l'umanità e Cristo, la rivelazione, insegna che tale rapporto s’instaura sulla base della
108
F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 206.
Antropologia Teologica 2009-2010
36.
libertà personale di ciascuno. Conseguentemente, l'infallibile efficacia della
predestinazione non va intesa nel senso che essa salverà di fatto tutti gli uomini, e
neppure nel senso (agostiniano) che salverà i predestinati anche contro la loro volontà,
ma nel senso che essa salverà infallibilmente e senza discriminazioni tutti quelli che
non rifiutano di essere salvati. Per costoro, nulla assolutamente, né fuori di loro, né
dentro di loro (inclinazioni, tendenze, peccati) potrà impedire l'attuazione della volontà
salvifica di Dio (Rm 8,38).
Questa posizione differisce radicalmente da quella pelagiana, in quanto non
concepisce la salvezza come ricompensa alla bontà morale dell'uomo; al contrario,
parte dal presupposto che non vi è nessuna bontà morale dell'uomo (tesi dell'uomo
peccatore) e che, in ogni caso, qualsiasi bontà morale resterebbe insufficiente e
inadeguata alla salvezza (tesi della soprannaturalità della predestinazione).
La tesi pensa la salvezza esclusivamente come effetto della volontà di Dio: è
infatti solo dalla volontà di Dio che proviene la salvezza dell'uomo. Di fronte a tale
volontà di Dio, l'uomo, da parte sua, ha solo la possibilità di resistere; se si oppone,
rende sterile per sé la volontà salvifica che in Dio è universale, ma se non si oppone, si
attua infallibilmente in lui la volontà salvifica: l’incorporazione a Cristo che conduce
alla beatitudine. Opporre resistenza significa chiudersi al dono di Dio offerto da Gesù,
quindi, “perdersi”, perché si perde la propria “destinazione” (essere figli a immagine
del Figlio).
Naturalmente, Dio conosce da sempre il comportamento di opposizione o di non
opposizione dei singoli uomini, ma non è in funzione di esso che egli stabilisce la
predestinazione, in quanto trascende la volontà dell'uomo e, al limite, si attuerebbe
anche se nessun uomo effettivamente si salvasse. In questo modo l'identico atto
d'amore di Dio che ha predestinato tutta l'umanità in Cristo, fissa infallibilmente la
sorte di ciascuno. Tutti quelli che non oppongono resistenza, che non si chiudono a
questo atto di amore, lo vedono dispiegarsi in se stessi in tutta la sua forza salvifica.
Quelli invece che si chiudono a questo atto di amore, ovviamente non potranno mai
sperimentare la sua forza salvifica e beatificante .
Resta qui irrisolto il problema del come si concili la causalità divina con la libertà
umana, ma questo è il mistero naturale dei rapporti tra Creatore e creatura, non invece
il mistero soprannaturale della predestinazione, che consiste nella libera decisione di
Dio di associare tutta l'umanità al Cristo.
Antropologia Teologica 2009-2010
37.
2. La libertà come “creazione in Cristo”
Dio da' seguito alla sua volontà, che gli uomini diventino figli nel Figlio (la predestinazione),
suscitando una realtà che è “altra” da Lui, capace di comunione libera con Lui, perché
disponibile ad assumere i tratti di Gesù Cristo, il Figlio.
Oggetto del capitolo è la ricerca delle dimensione strutturali della libertà creata (l'uomo). Il
punto di partenza resta il discorso biblico dell'Alleanza, della predestinazione. Se l'esistenza
della predestinazione è del tutto incondizionata, perché fondata sulla libera volontà di Dio, la
sua attuazione risulta condizionata dal determinarsi di alcune condizioni, quali:
-
L'esistenza di esseri “diversi” da Dio, i quali possono partecipare alla natura divina,
dato che non vi partecipano in modo nativo.
L'esistenza in questi esseri di una disponibilità ad accogliere la volontà divina della
predestinazione, così che questa risulti gratuita e non predeterminante.
Le due condizioni costituiscono le dimensioni fondamentali dell'uomo: la creaturalità (l'uomo
non è Dio, perché è creatura) e la libertà (l'uomo è disponibile a Dio, perché è creatura libera).
La teologia contemporanea ricupera l'esigenza di trattare unitariamente le due condizioni,
riprendendo l'impostazione del discorso biblico, dove la creazione ha valenza antropologica e
superando l'impostazione della tradizione cristiana, che tratta la creazione e l'uomo in modo
separato.
Il momento portante della trattazione è il tema della libertà, dove, da un lato gli elementi
che la costituiscono (la corporeità e la spiritualità) indicano le concrete modalità di attuazione
(infrastrutture) di fronte al mondo e ai rapporti interpersonali; dall'altro, la creazione dice
l'originaria apertura, la dipendenza-obbedienza della libertà nei confronti di Cristo, con il
mondo e i rapporti interpersonali (struttura)
La creazione109
La riflessione biblica
Antico Testamento110
Il libro della Genesi111
I testi sono di vario genere, unificati dal comune riferimento al tema della creazione.
Gn 1-2
I racconti della creazione di Gn 1-2, espressione dell'interpretazione della fede d'Israele,
non vanno letti isolatamente, ma all'interno della tradizione biblica con le sue voci
(Deuteroisaia, Geremia, i salmi, il filone sapienziale). La tradizione è legata alle culture
mediorientali, che da almeno due millenni riflettono sulle origini del mondo. Con tali culture
109
Cfr F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 214-306.
Cfr W.H. SCHMIDT, Creare, “Dizionario teologico dell'Antico Testamento” (DTAT) I, Marietti,
Torino 1978, 292-295; A. GANOCZY, Dottrina sulla creazione, Queriniana, Brescia 1985, 9-60; G.
BARBA-GLIO, Creazione, NDT, 184-194; G.L. PRATO, Il tema della creazione e la sua connessione con l’alleanza
e la sapienza nell’Antico Testamento: interferenze e integrazioni, in A.T.I., La creazione. Oltre l’antropocentrismo?,
Messaggero, Padova 1993, 143-186.
111
Cfr A. SOGGIN, Testi chiave per l'antropologia dell'Antico Testamento. I testi della Genesi, in (a cura di) G.
DE GENNARO, L'antropologia biblica, EDB, Napoli 1981, 45-71.
110
Antropologia Teologica 2009-2010
38.
Israele condivide la convinzione che l'uomo è creatura di un Dio e il mondo è creazione
divina. La connessione pone due problemi: come interpretare il confronto con i miti delle
culture orientali? Come e perché sono sorti i racconti delle origini, quale il loro genere
letterario e con quale criterio ermeneutico vanno accostati?
In relazione al primo problema si registra un cambiamento di prospettiva: abbandonata
l’ottica apologetica (impegnata a mostrare la superiorità teologica del testo biblico) si sviluppa
un confronto dove emerge che nelle narrazioni della creazione sumeriche, babilonesi, assire è
presente qualcosa che appartiene alla comune riflessione dell'umanità sui propri inizi, una
comprensione dell'uomo, del mondo che nei tratti principali espone motivi comuni, che si
differenziano nei successivi sviluppi della cultura dei singoli popoli, in riferimento alle loro
particolari esperienze.
La comune struttura mitica dei racconti mediorientali112 pone la questione della modalità
con cui la riflessione biblica usa il mito. Dal confronto con l'ambiente culturale circostante
emerge una duplice variante operata dalla fede d'Israele: la forma demitizzata che, sulla base
della rigorosa affermazione di Jahwè unico Dio, toglie dal testo ogni elemento politeista; la
maggior attenzione alla storia, documentata dall'inserimento della settimana della creazione
nella catena di genealogie (tôladôt), che le unisce alla storia di Abramo. La prima settimana
risulta così come primo anello della sequenza del tempo, anche se la categoria “storia” emerge
solo con la riflessione sapienziale.
Il mito non va inteso come spiegazione dell'origine del mondo secondo una determinata
rappresentazione (lettura demitizzatrice) né come narrazione fantastica in opposizione alla
storia (lettura mitologica), ma in relazione all'ambito del linguaggio simbolico. Per Eliade «il
mito esprime plasticamente e drammaticamente ciò che la metafisica e la teologia definiscono
dialetticamente»113. Il mito è una forma intuitiva della conoscenza della realtà, una
«interpretazione narrativa dell'enigma dell'esistenza»114; ha per oggetto la storia dell'uomo, alla
quale il linguaggio umano si avvicina nella forma dell'intuizione simbolica. Sta inoltre in stretta
connessione col rito, mostrando un legame tra racconto e azione capace di esprimere il divino,
politeisticamente o monoteisticamente.
In sintesi, il mito è un modo sapienziale di leggere la storia, nel senso che la proietta
nell'archetipo simbolico e consente la sua rappresentazione nel segno rituale.
Chiarito il concetto di mito utilizzato nei racconti della creazione, è possibile comprenderne il genere letterario, capire a quale nozione di storia i racconti si riferiscono. Gli studiosi
parlano di lettura sapienziale o di teologia della storia, svolta in un linguaggio simbolico. I
racconti genesiaci illustrano una “risalita eziologica” verso l'origine del tempo, rappresentano
un “eziologia metastorica”, un'interpretazione teologica della storia che, partendo dalla presente condizione dell'uomo si spinge fino all'origine (all'«umanamente primordiale»115) per
poter spiegare l'attuale situazione. La qualifica di “metastorica” indica che l'analisi dei racconti
dell'inizio non si pone oltre la storia, ma coglie ciò che riguarda ogni momento della storia, che
sta a fondamento di essa.
Tali testi quindi non intendono rispondere a questioni scientifiche sull'origine del
mondo, dell'uomo, ma a domande sull'esistenza minacciata dell'uomo: perché l'uomo è debole
e pensante? Perché la sua esistenza è minacciata? Che senso ha la vita? Da dove viene, dove va
l'uomo? Questi racconti hanno «lo scopo, in mezzo alle minacce e pericoli incombenti sul
112
Cfr P. GRELOT, Le origini dell'uomo, Paideia, Brescia 1981; M. CIMOSA, Gen 1-11, Queriniana, Brescia
1984,15ss; K. RAHNER, Il peccato di Adamo, “Nuovi Saggi” IV, Paoline, Roma 1973, 335-356; P. GILBERT, Bibbia, miti e racconti dell'inizio, Queriniana, Brescia 1993; G. BETORI, Mito, in NDTB, 993-1012.
113
M. ELIADE, Mito e realtà, Borla, Torino 1966, 23-42. 123-144.
114
P. RICOEUR, La symbolique du mal. Philosopie de la volonté: II: Finitude et culpabilité, Aubier, Paris 1988,
311.
115
G. MARTELET, Libera risposta ad uno scandalo, Queriniana, Brescia 1987, 17.
Antropologia Teologica 2009-2010
39.
mondo e sull'uomo, di rendere presente (cioè narrando rendere presente) l'inizio in cui ciò che
esiste era giunto all'esistenza»116.
Precedentemente si è detto che i testi di Gn 1-2 non vanno isolati dall'insieme della
tradizione biblica; in particolare vanno letti nel contesto di Gn 1-11117: la struttura delle
genealogie, la connessione di creazione e diluvio consentono di mantenere il racconto della
creazione all'interno del più ampio contesto, di evitare la lettura della creazione unilateralmente
come spiegazione dell'origine del mondo.
* La struttura delle genealogie consente di unire i testi narrativi di Gn 1-11, di collegare
la storia delle origini con quella dei patriarchi, che prelude alla storia dell'esodo. Le genealogie,
soprattutto quelle della sintesi P (5,1ss; 6,9s; 10,1ss; 11,27ss), dicono che la benedizione divina,
avviata nella creazione («Siate fecondi e moltiplicatevi», Gn 1,28), resta nell'ambito del tempo
(Gn 5), dello spazio (Gn 10). Non ha senso quindi l'affermazione che da Gn 3 si propaga la
maledizione (la benedizione inizierebbe invece solo con Abramo). Benedizione e maledizione
sono intrecciate dall'inizio alla fine.
* Nella connessione operata dalle genealogie stanno passi narrativi, dove si distinguono i
racconti riferiti a creazione e diluvio (1-2; 6-9 [J e P]) e i racconti di “delitto e castigo” (3; 4, 216; 6,1-4; 9,20-27; 11,1-9, [J])118. Westermann propone questa lettura:
- Creazione e diluvio sono tra loro connessi. Il tema della benedizione assicura la permanenza
dell'opera del Creatore, nonostante la minaccia di catastrofi.
- Nella creazione dell'uomo è incluso il compito di civilizzazione («Assogettate la terra», 1,28),
di trasformazione (“Coltivare e custodire”, 2,15). Il lavoro umano si fonda sulla potenza fecondatrice della benedizione divina.
- I racconti di colpa e castigo (J) dicono che l'uomo è peccatore. Due gruppi di racconti
documentano la situazione: nel primo è il singolo uomo che pecca contro Dio (3), contro il
prossimo (4,2-16); nel secondo è l'intero genere umano a peccare, nel campo genealogico (6,14) e tecnologico (11,1-9).
La conclusione: si può parlare della creazione solo nell'ambito dell'agire salvifico di Dio
nella storia dei popoli e nella creazione, conservazione, benedizione, del cosmo. La dilatazione
universale della storia di Dio conserva ai racconti della creazione e agli eventi primordiali una
valore permanente.
Gn 1,1-2,4a119
Il testo proviene dalla tradizione P120, che considera la creazione nella prospettiva della
storia salvifica. L'inno in prosa di Gn 1,1-2,4a, che tratta del mondo nell'ambito della storia
dell'umanità, intreccia la dimensione spaziale e temporale del discorso sulla creazione come
totalità: la dimensione temporale emerge dalla successione dei 6 giorni culminante nel vertice
del 7° giorno; quella spaziale delinea la totalità del creato (cielo e terra) nella successione dei
giorni. La particolarità di Gn 1 sta nell'assumere la figura espressiva della creazione con un
116
C. WESTERMANN, Creazione, op cit, 32.
Cfr N. M. LOSS, Storia delle origini. Gen 1-11, AA.VV, Problemi e prospettive di scienze bibliche, Queriniana,
Brescia 1967, 161-182; ID, La dottrina antropologica di Gen 1-11, in (a cura di) G. DE GENNARO,
L'antropologia biblica, op cit, 141-162; F. FESTORAZZI, La Bibbia e il problema delle origini, Queriniana,
Brescia 1967; AA.VV, Dio nella Bibbia e nelle culture ad essa contemporanee, Torino 1980; AA.VV., Il cosmo nella
Bibbia, EDB, Napoli 1982.
118
Cfr C. WESTERMANN, Creazione, op cit, 49-59; ID, Teologia dell'AT, Paideia, Brescia 1983.
119
Cfr N. LOHFINK, Creazione e salvezza secondo il codice sacerdotale, “Bibbia e Oriente” (Bib Or) 20 (1978)
73-77; H. BLOCHER, La creazione. L'inizio della Genesi, Roma 1984; A. WENIN, Da Adamo ad Abramo o
l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I Gen 1,1-2-4, EDB, Bologna 2008, 13-34 (=
117
Da Adamo ad Abramo).
120
Cfr E. CORTESE, Sacerdotale (P), DTI III, Torino 1977, 170-184.
Antropologia Teologica 2009-2010
40.
comando/parola (non è l'unico schema figurativo usato nei racconti della creazione dai popoli
mediorientali: cfr la creazione con un fare/ operare [plasmazione], una nascita/generazione,
una lotta cosmogonica) e di disporre le opere create all'interno della successione temporale del
settenario creazionale.
Comando e opere della creazione
Le modalità espressive: la ripetizione e la variazione. La ripetizione di formule fisse
(“efficace monotonia” per Westermann) dice lo svolgersi continuo del racconto della
proclamazione ed esecuzione di un comando; produce anche l'effetto di una liturgia solenne,
facendo emergere la misteriosità, la diversità, della creazione nei confronti di ogni altro evento.
La struttura (1. introduzione; 2. comando; 3. esecuzione; 4. giudizio; 5. azione di Dio; 6. nome
o benedizione; 7. ordinamento temporale) riproduce quella della realtà secondo P: l'azione di
Dio si fonda sulla parola di Dio, che chiama all'esistenza, conferma, benedice e riconosce. La
ripetizione rivela elementi interessanti:
- La formula “Dio disse...”, senza destinatario, indica che la creazione resta un mistero
nella sua realtà profonda. Anche l'esecuzione del comando presenta solo l'esito dell'atto
creatore, in sintonia con la confessione di fede che Dio ha creato il mondo:
- L'adempimento del comando non chiude il racconto della creazione, che appare come
un bene da proclamare. L'eco favorevole della creazione è ricondotta a Dio, l'unico in grado di
riconoscere la creazione come bellezza estetica e bontà etica. Il fatto che la lode a Dio giunga
dalla contemplazione di Dio stesso («Dio vide che era cosa buona») sta a indicare che questa
appartiene all'azione stessa di Dio.
- L'azione creatrice divina è collocata nel tempo, il campo dell'azione di Dio. Lo schema
settenario scelto da P dice la totalità fondata su parti di tempo uguali e evidenzia uno scopo,
che emergerà nel seguito del racconto, della/nella creazione.
La variazione è data dallo schema ottonario delle opere, intrecciato con quello settenario dei
giorni. É posta attenzione alla varietà delle opere del creato. Il criterio con cui queste sono
distribuite non regolarmente nei giorni è oggetto di discussione. La ragione potrebbe
dipendere dalla confluenza nel testo finale del dato tradizionale e del rifacimento sacerdotale.
Il settenario creazionale
Lo schema è tipico della sintesi P. Tralasciando la creazione dell'uomo (tratteremo in
seguito) si può cogliere il senso del settenario osservando il I, IV, VII giorno della creazione,
cui facciamo precedere un rilievo sui primi due versetti del testo.
- v 1: «In principio Dio creò il cielo e la terra»: confessione di fede nel Dio creatore.
Viene indicato che con la creazione del cielo e della terra (polarismo che dice la totalità) inizia
la storia. Il verbo usato è barà, che ricorre 48 nell'AT, senza un complemento indiretto indicante il materiale con cui Dio crea: 11 volte nel Deutero-Isaia e in P, due autori che usano il
verbo per sottolineare l'unità dell'azione divina nella storia e nella creazione.
- v 2: «La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque»: il “non ancora” della creazione. L'intenzione non è di segnalare una
materia preesistente all'azione creatrice divina, ma una situazione preesistente (il caos) alla
condizione attuale (l'ordine) esperimentata dal narratore.
- vv 3-5: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu: Dio vide che la luce era cosa buona e
separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina:
primo giorno». Il fatto che la creazione inizi con la separazione di luce e tenebre e non di terra
e cielo, dice che per l'autore sta in primo piano la categoria temporale (la successione
giorno/notte, fondamento della settimana) più che quella spaziale.
Antropologia Teologica 2009-2010
41.
La conferma è alla fine del v 5, con la successione sera/mattina. La luce, a differenza di quanto
avviene nelle cosmogonie mesopotamiche e egiziane, è presentata nella sua creaturalità e
qualificata dal Creatore come “cosa buona” (bellezza estetica e bontà etica). Dio che dà il
nome indica la sua signoria sulla creazione. Il nome da parte sua dice la destinazione dell'opera
nella creazione.
- vv 14-19: «Dio disse: “Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il
giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni e siano fonti di luce nel
firmamento del cielo per illuminare la terra”. E così avvenne: Dio fece le due fonti di luce
grandi, la luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per regolare la notte e
le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per governare il giorno e
la notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu
mattina: quarto giorno». La creazione delle “fonti di luce” (è significativo che sole e luna non
siano nominati, venendo declassati a ruolo di lampade e perdendo il carattere divino attribuito
dalle cosmogonie degli altri racconti di creazione) è in relazione all'illustrazione della triplice
funzione: separare il giorno dalla notte (vv 14.17), illuminare la terra (vv 15.17), segnalare
stagioni, giorni, anni (v 14).
Nella definizione del triplice compito, in particolare dell'ultimo, pare emergere la
preoccupazione di fondare il calendario cultuale, che indicava le grandi feste annuali ebraiche
nel quarto giorno della settimana. Il sole e la luna «diventano così punti di riferimento per il
tempo nella sua dimensione umana, sociale, e soprattutto religiosa, con la determinazione del
tempo liturgico e delle sue feste»121.
- 2,2-3: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò
nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo
consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando». Il numero
7, tipico della letteratura vicina, dice pienezza, è alla base della struttura ebdomadaria, legata
forse alle fasi lunari e a un concetto mitico-ciclico del tempo. L'inserimento della settimana
della creazione come prima settimana del tempo costituisce una demitologizzazione/decosmologizzazione della settimana.
In tale prospettiva si chiarisce il senso del “settimo giorno” nella relazione tra settimana della
creazione e setti mana dell'uomo: il parallelo tra comandamento del sabato e settimo giorno
(documentato in Es 20,8-11) mostra che in P nel settimo giorno della creazione c'è
un'allusione al comandamento del sabato.
C'è però anche un influsso inverso: se in Es 20 il riferimento alla creazione serve a
spiegare e fondare la settimana umana, il sabato, in Gn 2,2s la settimana e il sabato offrono il
linguaggio per capire la creazione, diventano simbolo universale. Il senso del sabato, illustrato
con un settenario antitetico (6+1), dice connessione/superamento con/dei giorni precedenti.
Il verbo qiddes usato nel testo, indicando che «il settimo giorno è il giorno separato dagli
altri, messo a parte, diverso»122, dice la separazione della ferialità impegnata nel lavoro
dall'appartenenza a Dio e presenta il settimo giorno quale meta verso cui conferiscono gli altri
sei giorni.
Il “settimo giorno” (il sabato), giorno di Dio, è il fine dell'uomo, non solo interruzione
del lavoro; dice che lo scopo della vita umana non è dominare il mondo col lavoro, perché
l'uomo è destinato a qualcosa di più grande: l’incontro con Dio, dove scopre il senso del suo
stare e operare nel mondo. Il settimo giorno appare così come «il segno di una eterna alleanza
fra Dio e l'uomo, il tempo di un vicendevole ricordo e di una dedizione reciproca», inoltre
121
122
B. COSTACURTA, Benedizione e creazione in Gn 1,1-2,4a, “Parola, Spirito e Vita” (PSV) n 21,26 nota 5.
F. CASTEL, “Dio disse...”. I primi undici capitoli della Genesi, Paoline, Milano 1986, 60.
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42.
«proclama che il mondo e l'uomo non hanno altra finalità che quella comunione di alleanza
voluta e significata da Dio con l'elezione d'Israele»123.
Gn 2,4b-24124
Il testo, della tradizione J125, presenta l'azione di Dio creatore in un'ottica meno cosmica
di Gn 1, più primitiva, con impostazione agricola, contadina. Ha carattere eziologico, perché
mostra come l'attuale situazione dell'alleanza (specialmente con l'avvento della monarchia)
non è in sintonia col disegno originario di Dio. L'impostazione è marcatamente antropocentrica: l'habitat dell'uomo (il giardino) è visto nel suo aspetto agricolo-contadino.
Si spiega in quest'ottica la sottolineatura della creazione di terra e cielo, della
vegetazione, della pioggia, del lavoro dell'uomo. Il giardino dove l'uomo, dopo essere stato
“plasmato”, è “collocato”, rimanda a Israele, “formato” nel deserto, che “trova riposo” nella
terra di Canaan. È il luogo del lavoro dell'uomo: i verbi “lavorare” (abad: indica il lavoro
umano e il “servizio celtico” dell'alleanza [Gn 24,14-24]), “custodire” (s'amar: indica,
soprattutto nel Deuteronomio, l'osservanza, la custodia dei comandamenti), richiamano
l'esperienza dell'alleanza. Il lavoro umano perciò non è una pena/condanna comminata da
Dio, ma fa parte del progetto ideale di Dio; nemmeno si presenta come sostitutivo o
concorrenziale dell'opera creatrice, ma indica il compito, la responsabilità dell'uomo
nell'ambito della creazione, in stretto collegamento con la relazione a Dio.
La riflessione profetica126
Geremia127 tenta per primo un collegamento esplicito tra fede nella creazione e
messaggio profetico, impegnato a leggere/illuminare il presente e il futuro d'Israele. Più che
offrire racconti di creazione, collega il potere creatore di Dio con la sua azione salvifica nella
storia. Sono soprattutto i verbi a qualificare l'azione creatrice divina: “fare”, che ha come
complementi la pioggia (14,22), la terra, gli uomini, gli animali (27,5), cielo e terra (32,17), il favore, il diritto e la giustizia (9,23); “creare” del nuovo sulla terra (3, 22); “plasmare”,
nell'immagine del vasaio che modella l'argilla (18,6); “riempire” (23, 24). Il profeta inoltre,
parlando della restaurazione d'Israele, supera il quadro tradizionale (la restaurazione descritta
con la simbolica della fedeltà della terra), presentandola come creazione-trasformazione del
cuore dell'uomo all'interno della nuova alleanza (31, 31-34). Motiva infine la signoria di Jahwè
sulle nazioni con l'autorità di creatore del mondo, di ogni uomo, introducendo una prospettiva
nuova per il popolo deportato in terra straniera: Jahwè, che agisce con Nabucodonosor quale
esecutore del suo giudizio, a suo tempo ricondurrà i deportati di Gerusalemme. Sono poste
così le premesse per la teologia di Is 40ss.
Anche il Deuteroisaia (Is 40-55) collega la creazione alla storia della salvezza.
L'anonimo profeta vive in un momento drammatico per Israele: esilio e potenza degli invasori
tolgono speranza al popolo («Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha di menticato»,
49,14). Il collegamento tra creazione e storia salvifica vuole essere la risposta che motivi
saldamente la fiducia in Dio: la metafora genesiaca ed esodiaca è assunta per indicare la nuova
123
G. COLZANI, Antropologia, 80; cfr Es 20,10s; 31,16s; A. HESCHEL, Il sabato, Rusconi, Milano 1972,
dove è proposta una riflessione attualizzata sul tema; N. NEGRETTI, Il settimo giorno, Biblical Institute
Press, Roma 1973; E. BIANCHI, Giorno del Signore, giorno dell'uomo, Piemme, Casale M. 1995.
124
Cfr A. WENIN, Da Adamo ad Abramo, 35-61.
125
Cfr N. NEGRETTI, Jahvista ed Elohista, DTI II, 300-332.
126
Cfr A. PENNA, Il cosmo nella letteratura profetica, AA.VV, Il cosmo nella Bibbia, op cit, 201-299.
127
L. WISSER, La création dans le livre de Jérémie, AA.VV, La création dans l'Orient Ancien, Le Cerf, Paris
1987, 241-260.
Antropologia Teologica 2009-2010
43.
azione salvifica del ritorno dall'esilio. In tale contesto l'affermazione: «Jahwè ha creato Israele»
diventa l'equivalente di: «Jahwè ha eletto Israele» (44,1s).
L'apporto originale del Deuteroisaia sta nell'inserire l'evento della creazione nella
dimensione storico-salvifica, tanto che «non è possibile una più perfetta fusione della fede
nella creazione e nella salvezza» (R. Rendtorff). Il verbo barà infatti è utilizzato per indicare la
formazione del popolo (43,1-15), è applicato alle azioni salvifiche di Jahwè, dice la sua potenza
liberatrice (41,20; 43,7; 45,8; 48,7). Si assiste così a uno scambio semantico del verbo, che indica anzitutto la novità creata da Dio nella storia e in un secondo momento fa riferimento alla
creazione originaria.
La lode dei salmi128
Segnaliamo solo i salmi che cantano il dominio di Dio sulla natura (8,29; 104; 148), che
intrecciano le lodi a Dio per la creazione e la salvezza donata a Israele (33; 74; 89; 95).
Esempio significativo dell'intreccio sono i salmi 19; 135; 136, dove la creazione è presentata
come il fondamento e il primo gesto della storia salvifica.
La riflessione sapienziale
Tratta il rapporto creazione-salvezza in una luce nuova. La riflessione, influenzata dalla
letteratura didattica dell'antico Oriente e dell'Egitto, affronta il tema della vita dell'uomo nel
mondo, la questione del male, della sofferenza del giusto. La soluzione è trovata nella
sapienza, che con la sua ricerca, a volte pessimistica, altre volte più serena, rimanda al senso
della creazione e del governo del mondo.
Gli autori della nuova sapienza (Proverbi, Siracide, Giobbe, Sapienza) collegano la
riflessione sulla sapienza col tema della creazione per rispondere a questioni fondamentali: da
dove veniamo? Perché la sofferenza, la morte? La sapienza ha fiducia nel Dio dell'alleanza e
nel Dio creatore, il quale ha operato a favore d'Israele e dona, con la sua legge, una
conoscenza che supera ogni conoscenza umana129.
Proverbi. I primi 9 capitoli richiamano il tema della creazione; in particolare 3,19-20 (il ruolo
della sapienza nella creazione), 8,22-36 (la sapienza personificata invita il popolo a seguirla,
perché dona la vita). Nei due testi la creazione è intesa come garanzia della credibilità della
sapienza: poiché la sapienza svolge un ruolo particolare nella creazione, questa fa da
fondamento alla sua pretesa di essere maestra di vita degli uomini.
Siracide. Esprime una visione ottimistica, fondata sulla bontà del disegno di Dio («Quanto
sono magnifiche tutte le opere del Signore! Ogni sua disposizione avrà luogo a suo tempo!»,
39,16). Il male è imputato all'abuso della libertà da parte dell'uomo (15, 14ss); la sofferenza del
giusto è compresa nella sovranità di Dio, nella misteriosità dei suoi progetti (33,7-15). La
visione è inserita nella riflessione sulla bontà della creazione (42,15-43,33) e soprattutto nel
piano salvifico (44,1-50). Siracide ritiene la morte conseguenza del peccato, escludendo che
appartenga alla struttura originaria dell'universo.
128
Cfr C. WESTERMANN, La création dans les psaumes, AA.VV, La création dans l'Orient Ancien, op cit, 301321; P. GILBERT, Israele e la creazione, “Communio” 5 (1976) 5-17.
129
Cfr AA.VV, Sapienza e Torah, EDB, Bologna 1987.
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44.
Giobbe130. Il tema della creazione è introdotto come soluzione al problema, posto dalla realtà
del male, della retta comprensione di Dio. La creazione è intesa come primo atto della
provvidenza divina che accompagna i fenomeni naturali, gli eventi dell'esistenza.
L'argomento-creazione è usato in modo diverso dai personaggi in scena: Elifaz pensa
che la potenza creatrice di Dio rivela soprattutto la fragilità, l'indegnità dell'uomo (4-5; 15,22);
per Bildad l'autorità di Dio sul creato invita l'uomo all'umiltà (25,1-6; 26,5-14); Zofar vede nella
vastità del mondo il segno della presenza di Dio (11,7-9; 20,4s); Giobbe, rispondendo agli amici,
usa l'argomento in senso inverso: la sapienza di Dio, dispiegata nella creazione, diventa
irriconoscibile quando Dio si accanisce contro l'uomo, opera delle sue mani (9,4-10; 12,7-10;
23,3.8-10a). Anche Jahwè interviene nel dibattito (38,1-42,6), argomentando a partire dalla
realtà della creazione, perché Giobbe riconosca l'amore del creatore all'opera anche nella sua
situazione di uomo sofferente.
Sapienza131. Anche qui la manifestazione di Dio nella creazione (7,21; 8,5; 9,12) è collegata
con la manifestazione di Dio nella storia della salvezza (10-19). Il tema da cui prende le mosse
la riflessione è ancora il problema della morte incombente sull'uomo, in particolare sul giusto.
L'autore sostiene che l'uomo non ha avuto la morte come destino, ma l'incorruttibilità e che la
morte è presente nel mondo per «invidia del diavolo» (2,23). L'elemento di novità è una
visione più cosmologica che antropologica della creazione e una visione apologetica del
cosmo, nel senso che la sua contemplazione consente la contemplazione del Creatore. Le cose
create sono descritte come espressione di un atto benevolo dell'amore di Dio (11,25),
impronta della sapienza e bontà di Dio, tanto che l'uomo può scoprire il Creatore
contemplando il mondo (13,1-5).
Nel NT i Sinottici132 svolgono sul tema, almeno germinalmente, due riflessioni, che rilevano
l'aspetto antropologico e cristologico della creazione.
* In relazione all'aspetto antropologico si sottolinea che per Gesù le cose sono buone
(Mc 7,14-23); il creato è il luogo della manifestazione della bontà di Dio (Lc 12, 24-27; Mt
10,29ss); la creazione può diventare però sorgente di pericolo (Mc 10, 23-27; Mt 22,2-10; Lc
17,26-30). L'ambiguità tra bontà originaria del mondo e sua potenziale pericolosità è spiegata
dal fatto che il mondo non va pensato come luogo a sé stante, ma come luogo in cui si esercita
la libertà dell'uomo. È la libertà peccaminosa dell'uomo che causa il decadimento della
creazione (Mc 10,5ss). I Sinottici scorgono dietro la libertà dell'uomo l'azione malvagia di
Satana (Lc 10,13-17).
* Per l'aspetto cristologico s'intravede un rapporto tra creazione e Gesù: Gesù, lottando
contro Satana (cfr i miracoli, segno di questa lotta vittoriosa, Lc 11,20), dà esecuzione
all'intenzione salvifica di Dio creatore. In Lc 13,10-17 la guarigione della donna curva accade
significativamente di sabato, giorno del compimento della creazione e più adatto per l'azione
salvifica di Gesù, il quale appare, così, come il “sabato vero”, compimento autentico
dell'intenzione creatrice di Dio. L'idea del rapporto tra creazione e salvezza definitiva offerta
da Gesù è ancor più evidenziata in Mt 25,34: il regno è preparato da Dio per gli eletti “fin dalla
fondazione del mondo”.
130
Cfr J. LÉVEQUE, L'argument de la création dans le livre de Job, AA.VV, La création dans l'Orient Ancien, op
cit, 261-299.
131
Cfr M. GILBERT, La relecture de Gen 1-3 dans le livre de la Saggesse, AA.VV, La création dans le Orient
Ancien, op cit, 323-344; ID, Il cosmo secondo il libro della Sapienza, AA.VV, Il cosmo nella Bibbia, op cit, 179203.
132
Cfr G. COLZANI, Antropologia teologica, 43-51; A. GANOCZY, Dottrina della creazione, op cit, 61-69.
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45.
S. Paolo133 colloca il richiamo al Dio Creatore in un contesto salvifico. Le dimensioni che
caratterizzano la riflessione: soteriologica, cristologica, antropologica.
* Dimensione soteriologica. Per l'Apostolo il “mistero” (il piano salvifico) è opera di Dio
“creatore dell'universo” (Ef 3,9). Più che sull'azione creatrice iniziale di Dio (creazione
protologica) Paolo riflette sulla “nuova creazione”, determinata dalla morte di Gesù, rilevando,
quali segni di questa “novità”, la liberazione dell'uomo dall'influsso negativo di un mondo
segnato dalla frattura tra circoncisi e incirconcisi (Gal 6,15) e la sua riconciliazione con Dio
(2Cor 5,18). In Rm 8,19-22 la creazione, corrotta per il peccato dell'uomo, vive nel gemito
doloroso, attendendo e sperando nella liberazione “dalla schiavitù del peccato”.
* Dimensione cristologica. Paolo riferisce la creazione a Cristo, perché centro e senso del
piano salvifico. In 2Cor 4,6 la creazione della luce è posta in connessione con la luce che è
Cristo; in Ef 1,4 la predestinazione dell'uomo è intesa come l'intenzione originaria di Dio,
«prima della creazione», di sceglierci «in lui» (in Cristo); in 1Cor 8,6 e Col 1,15-20 è ribadita la
priorità cronologica e ontologica di Cristo e la sua attività coordinatrice dell'universo; in 1Cor
15,20-28 la sovranità universale e cosmologica di Cristo, propiziata dalla sua risurrezione e
legata alla solidarietà con i credenti, si esprime come garanzia della risurrezione dai morti e
sconfitta di tutti i nemici, compresa la morte.
* Dimensione antropologica. La creazione risulta buona (1Cor 8,4-13; Rm 14,14). L'apostolo
tuttavia denuncia un aspetto negativo della creazione (cfr il tema degli elementi di questo
mondo [stoikeia tou cosmou toutou] che rendono l'uomo schiavo, lo escludono dalla salvezza: Gal
4,3.9; Col 2,8.20). La visione pessimistica paolina si comprende tenendo conto che per
l'apostolo la creazione è il luogo dove l'uomo esercita la propria libertà coinvolgendo anche le
realtà create (Rm 8,19-22).
Giovanni134 collega strettamente antropologia e cristologia. Nel Prologo il tema della
creazione è riferito al tema dell’azione salvifica di Cristo: creazione e redenzione risultano un
unico atto compiuto da Dio in Gesù Cristo. Dal punto di vista letterario l'unità dei due temi
risulta dal parallelismo tra v 3 («tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato
fatto di tutto ciò che esiste») e v 17 («Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la
verità vennero per mezzo di Gesù Cristo»).
Il collegamento risulta dall'intenzione di Giovanni d’identificare il Logos-Parola creatrice
di Gen 1 e Sapienza creatrice di Prov 8, 22-30 con la figura storica di Gesù di Nazareth.
Nell'episodio del battesimo (1,29-34) il tema di Cristo come colui mediante /nel quale Dio ha
progettato il mondo, riceve un'espressione visiva: Gesù immerso nelle acque e investito dallo
Spirito è la piena realizzazione del progetto sul mondo emerso dalle acque per opera dello
Spirito. Evidente l'allusione allo Spirito che si libra sulle acque della creazione nel libro della
Genesi.
Il mondo come opposizione a Cristo. Giovanni col termine “mondo” non indica un
complesso di realtà inanimate, ma un dato antropologico: la situazione spirituale degli uomini
che rifiutano la luce, la vita - doni che provengono da Dio - e cercano in se stessi, nella ricerca
133
Cfr H. SCHLIER, Linee fondamentali di una teologia paolina, (= BTC 48), Queriniana, Brescia 1985; G.
COLZANI, Antropologia teologica, 89-110; S. LYONNET, L'antropologia di Paolo, in (a cura di) G. DE GENNARO, L'antropologia biblica, op cit, 753-787; A. GANOCZY, Dottrina della creazione, op cit, 70-82; G. BARBAGLIO, Creazione e nuova creazione nella teologia paolina, A.T.I., La creazione. Oltre l'antropocentrismo? op cit,
187-238; U. VANNI, Creazione e creatura nell'epistolario paolino, “Rassegna di Teologia” 36 (1995) 285-325.
134
Cfr B. PRETE, Dati e caratteristiche dell'antropologia giovannea, in (a cura di) G. DE GENNARO,
L'antropologia biblica, op cit, 817-870; G. COLZANI, Antropologia teologica, 111-127; A. GANOCZY,
Dottrina della creazione, op cit, 82-88.
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46.
della propria “gloria”, la realizzazione della propria felicità, diventando negatori della verità
(cfr il tema delle tenebre) e distruttori della vita (cfr il tema dell'odio contro il fratello). Dietro
tale situazione sta l'influsso di una realtà malvagia che domina nel mondo (cfr il tema del
“principe di questo mondo”), inganna l'uomo sulla felicità (cfr il tema della menzogna),
rendendolo schiavo del mondo proprio nel momento in cui pensa di esserne il padrone (cfr il
tema della schiavitù). I testi di riferimento: Gv 8, 15-17; 1Gv 3.
La Tradizione135
L'epoca patristica136
La riflessione dei padri non presenta uno sviluppo unitario, ma formulazioni diverse,
legate al dialogo con la cultura epocale, di fronte alla quale si assume il compito di giustificare
il dato rivelato. In relazione al tema della creazione la cultura epocale offre due letture
contrapposte, quella del monismo e quella del dualismo.
La lettura monista, sul presupposto dell'esistenza di un Essere assoluto, nega l'esistenza
di altri esseri distinti dall'Essere supremo. Nella prospettiva di questa lettura non esiste che
Dio e quindi resta esclusa la realtà creata come tale. Una variante di questa concezione
interpreta la realtà visibile come un'emanazione necessaria di Dio e non come l'esito della sua
libera azione.
La lettura dualista, sul presupposto di una pluralità di princìpi a quanto esiste, non
considera l'intera realtà frutto dell'azione divina. Nella prospettiva di questa lettura la materia è
considerata eterna e preesistente, nei confronti della quale la divinità si limiterebbe a una
azione demiurgica di trasformazione; oppure come “caduta” da un mondo superiore, causata
da un disordine morale, con la conseguente considerazione di realtà cattiva, da cui liberarsi.
Di fronte a queste due letture che, pur contrapposte, sono entrambe distanti dalla
concezione giudeo-cristiana della creazione, la fede cristiana conferma la verità (contro il
monismo) e la bontà (contro il dualismo) della realtà creata.
Nella riflessione sulla creazione e nella sua formulazione dottrinale è presente una duplice
preoccupazione: la libertà divina di creare, tenendo fermo il principio che questa creazione
avviene ex nihilo (con la conseguente esclusione di ogni forma di monismo emanazionista, di
ogni realtà preesistente); la bontà originaria della realtà creata, proprio perché dipendente
radicalmente, proveniente da Dio.
La patristica orientale
E' impegnata a confrontare il messaggio della fede con la gnosi (dottrina fondata sulla
teoria o sull'esperienza del conseguimento della salvezza tramite la conoscenza)137, la quale,
data la sua concezione filosofica che non riconosce dignità salvifica alla realtà materiale, tende
a separare creazione e redenzione.
Duplice l'atteggiamento adottato nei confronti della gnosi, di opposizione (in
riferimento alla visione soteriologica generale, dove non sono possibili accordi tra
cristianesimo e gnosi) e accoglimento (in riferimento a un certo impianto logico-linguistico
dove confluiscono elementi platonici, stoici, neopitagorici che possono essere in certa parte
utilizzati come strumenti espressivi di una visione cristiana).
135
Cfr G. COLZANI, Creazione, DTI I 1975, 606-611.
Cfr L.F. LADARIA, La creazione del cielo e della terra, AA.VV. Storia dei dogmi II, Piemme, Casale M.
1997, 30-55.
137
Cfr. A. LEONARD, La gnosi eterna, Paoline, Catania 1961; J.M.D. KELLY, Il pensiero cristiano delle origini,
EDB, Bologna 1972, 33ss; R.M. GRANT, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, il Mulino, Bologna 1976; G.
SFAMENI GASPARRO, Creazione e antropologia nello gnosticismo, DSBP 11, 61-81.
136
Antropologia Teologica 2009-2010
47.
A opporsi alla prospettiva gnostica è soprattutto Ireneo138, la cui sintesi, ispirata all'unità
della storia della salvezza, interpreta la creazione nell'ambito dei gesti salvifici di Dio. I grandi
temi della sintesi teologica di Ireneo:
- Dio esercita una sovranità assoluta su ogni cosa. Per mezzo del Figlio e dello Spirito «ha
creato tutte le cose liberamente e spontaneamente».Viene così esclusa la dottrina della materia
increata.
- La sovranità di Dio è principio della comunione (alleanza) realizzata in Cristo, mediatore e
fine della creazione
«Infatti il Verbo di Dio è veramente creatore del mondo e questo è il nostro Signore che si è
fatto uomo negli ultimi tempi, è nel mondo e in quanto è invisibile sostiene tutte le cose create,
ed è impresso in forma di croce in tutto il creato, perché come Verbo di Dio governa e dispone
tutte le cose. Per questo “venne” visibilmente “nel suo regno”, “si fece carne” e fu appeso al
legno per ricapitolare in sé tutte le cose»139.
Il mondo quindi non risulta da una caduta che pregiudica negativamente la storia, ma è buono,
perché espressione della volontà di comunione di Dio, opera di Cristo. Il parallelismo AdamoCristo è sviluppato da Ireneo non nella linea paolina (opposizione/ antitesi), ma in una
prospettiva di continuità, che mostra la finalizzazione del primo al secondo Adamo, della creazione alla redenzione (cfr. Ad. H, 3,21,10; Epid, I, 2, 22).
- L'idea di “ricapitolazione”, come ritorno all'origine - lo stato dell'infanzia innocente aperta
alla crescita in Cristo e non bloccata dal peccato - che non vanifica la storia nella sua tensione
verso il compimento finale.
- La lettura della creazione in chiave salvifica spiega il legame tra questa e i temi della Chiesa e
dell'Eucaristia. La Chiesa è intesa come luogo della signoria di Dio, l'ambito della nuova
creazione (cfr. Ad. H, 3,16,6). L'Eucaristia, oltre che con la pasqua e l'incarnazione, è collegata
con la creazione: il pane e vino, creati da Cristo, sono trasformati dalla sua parola in cibo per
l'anima. Ciò non sarebbe possibile se questi elementi, come sostengono gli gnostici, non
fossero opera di Cristo, ma di un demiurgo (Ad. H,4,18,4).
La sintesi di Ireneo non conosce grande successo, perché ben presto si afferma,
specialmente con gli alessandrini, la volontà di abbandonare la polemica opposizione per una
riformulazione della gnosi.
L'atteggiamento più dialogico è assunto da Origene140, esponente di rilievo della
scuola di Alessandria, il quale, pur rifiutando la concezione gnostica della creazione del mondo
da parte di un principio divino del male e, eliminando ogni componente mitologica, accoglie
diversi elementi gnostici.
La sintesi origeniana distingue, nella direzione platonica, due mondi: il mondo delle
essenze intellettuali, creato per primo e quello delle realtà materiali, creato successivamente.
Tra i due sta la caduta delle essenze intellettuali, che porta a una considerazione pessimisticaa
del mondo materiale. Origene, pur ritenendo il mondo materiale creato da Dio come luogo di
purificazione dell'anima decaduta, fatica, data l'intonazione platonica del suo pensiero, a
integrare senza riserve la materia in una sintesi cristiana. Questo fatto determina due limiti
nella teologia origeniana della creazione: uno riguarda il principio della creazione, l'altro la fine.
Riguardo l’inizio della creazione esistono affermazioni chiare sulla creazione dal nulla (De
138
Cfr. O. ORBE, Teologìa de San Ireneo, I.II.III, Madrid-Toledo 1985.1987.1988; IRENEO DI LIONE,
Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini, Jaca Book, Milano 1981; F. CORCIONE, La creazione e
l'uomo in Ireneo, DSBP 11, 82-104.
139
IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e gli altri scritti, op cit, IV,7,4, 317.
140
ORIGENE, I Principi, a cura di M. Simonetti, UTET, Torino 1968; ID, Omelie sulla Genesi, a cura di
M.I. DANIELI (CTP 14) Città Nuova, Roma 1978; cfr L. PERRONE, Il cosmo e l'uomo nel sistema teologico di
Origene, DSBP 11, 130-142.
Antropologia Teologica 2009-2010
48.
Princ. 2,1,4), sul mondo delle idee esistente solo in Dio (id 2,3,6), sulla temporalità di ogni
processione extratrinitaria (id 4,4, 1). Si rilevano però anche affermazioni che sembrano
introdurre una specie di eternità e necessità del mondo intellettuale. Una concezione platonica
dell'immutabilità di Dio e dei suoi attributi di bontà, sovranità, provvidenza, porta a pensare
che Dio non possa essere senza la creazione (id 1,45). Per il mondo materiale si parla di una
fine per conflagrazione, con la ricostruzione dello stato iniziale, precedente la caduta e il
ritorno a una totale spiritualità (la risurrezione dei corpi è uno stadio provvisorio da superare
nella apocatastasi).
Dietro tale destoricizzazione emerge un'insufficienza cristologica: il Logos, al quale è
ricondotta la creazione intellettuale, è pensato in continuità con le riflessioni platoniche della
“Mente”, dove l'Uno Assoluto riflette se stesso e progetta le idee delle cose. Da qui il
tendenziale subordinazionismo e la difficoltà a stabilire un collegamento tra questo Logos e la
storia concreta di Gesù di Nazareth.
La patristica occidentale
Insiste sull'ordine e la razionalità intrinseca della creazione. L'autore fondamentale resta
Agostino141, il quale, contro il manicheismo che ammette un doppio principio, uno per il
mondo materiale e l'altro per il mondo spirituale, afferma la creazione di tutto da parte di Dio
e, conseguentemente, la partecipazione di tutte le creature alla bontà di Dio da cui
provengono. Questa partecipazione è compatibile con la distinzione radicale tra Dio e le
creature.
In quanto creato il mondo non è eterno (vi è stato un inizio) ed è buono (per cui il male
non può essere inteso come una sostanza negativa, ma come una privazione di essere né come
proveniente dal mondo materiale, ma dalla libera volontà della creatura razionale). Dio trae dal
nulla (ex nihilo), per mezzo della sua volontà, le creature - visibili e invisibili, dotate di
intelligenza e materiali - diverse da lui, senza che l'atto creativo implichi una qualche mutabilità
in Lui. Tale dissomiglianza informe inoltre si tramuta, mediante l'azione di Dio stesso, in
somiglianza.
Aspetto rilevante della riflessione agostiniana è la creazione nel tempo142. Per Agostino il
tempo non è il contesto in cui Dio compie il gesto salvifico, si fa vicino all'uomo, ma è il dato
che diversifica l'uomo da Dio. Tenendo distinti tempo ed eternità e presentando il tempo
come mutazione, quindi, platonicamente, come limite, Agostino considera la creazione come
creazione «con il tempo e non nel tempo» (De Civitate Dei XI, 6; PL 41, 322). La creazione
risulta quindi come partecipazione nel tempo alle idee eterne di Dio.
Gli interventi del magistero
I Simboli di fede, dove si notano due fenomeni. Il primo riguarda un regresso del
carattere cristologico: le formule semplici (Cristo) o doppie (Padre-Cristo), dove emerge la
riconduzione della creazione a Cristo, sono sostituite da formule ternarie più evolute (PadreFiglio-Spirito), dove le affermazioni sulla creazione sono riferite al Padre. Il secondo
fenomeno riguarda il progressivo affermarsi, nelle riflessioni filosofiche e polemiche, della
creazione come dipendente dall'attività creatrice di un unico Dio.
Va segnalato, però, per cogliere il messaggio salvifico dei Simboli sulla creazione, che
questi si articolano secondo una struttura generale dove sono presentate le tappe della storia
della salvezza. In tal modo la creazione mantiene un significato salvifico, anche se non sempre
evidenziato per lo sganciamento da Gesù Cristo.
141
142
Cfr. G. PELLAND, Cinq études d'Augustin sur le début de la Genèse, Tournai-Montréal 1972.
Cfr. AGOSTINO, Confessioni XI, 9-31.
Antropologia Teologica 2009-2010
49.
Interventi del Magistero contro le eresie dualiste nella Spagna del V secolo: i concili di Toledo
(400 e 447), il concilio di Braga (561)143.
Il Medioevo144
Apre all'esigenza metafisica della creazione (concetto di causa): la creazione è la questione
metafisica dell'origine del mondo. Dio, Essere assoluto e non contingente, è la causa di ogni
esistente. L'interpretazione ontologica della creazione ne riduce la portata salvifica, relegandola
a verità filosofica, chiusa in se stessa.
La prima scolastica
Si evidenziano comunemente due tendenze, con relative ripercussioni sulla teologia della
creazione. La prima linea, rappresentata da Ugo da S. Vittore (1096/97-1141) considera
l'economia cristiana soprattutto nella sua dimensione storica e la creazione come l'inizio della
storia salvifica; una seconda linea (scuola di Chartres) rivela un orientamento più
platonizzante, con una marcata attenzione alla natura.
La grande Scolastica
La dottrina sulla creazione di Bonaventura145 (1218-1274) è raccolta in un testo del
Breviloquium":
«L'insieme della struttura mondana è stata condotta all'esistenza, nel tempo e dal nulla, da parte
di un Principio primo, unico e sommo, la cui potenza, sebbene immensa, ha nondimeno
disposto "tutto secondo peso, numero e misura determinata" (Sap 11,21)».
La creazione è prodotta “nel tempo” ed ex nihilo (contro chi sostiene l'eternità della materia),
proveniente da un solo principio (contro i manichei). L'affermazione che ogni cosa è creata
“secondo peso, numero e misura”, nell'intenzione dell'autore significa che la creazione è opera
della Trinità, secondo la causa efficiente, esemplare e finale.
Nella creazione è in azione la Trinità: il Padre come origine e fondamento di tutto (causa
efficiente), il Figlio come immagine secondo la quale tutto è creato (causa esemplare), lo Spirito
santo come legame di unione (causa finale). Bonaventura guarda alla creazione soprattutto come
espressione delle vestigia (immagini) di Dio: le cose procedono da Dio come vestigia, che
costituiscono l'immanenza stessa di Dio. Questi è più intimo a ciascuna cosa di quanto non lo
sia essa a stessa.
Per Tommaso146 (1225-1274) la creazione non è solo una verità di fede, perché può
essere conosciuta anche attraverso la ragione. Trattando delle cause del mondo, privilegia Dio
come la “causalità efficiente” (Dio è assolutamente il principio di tutto) rispetto alla causalità
esemplare e finale. Tommaso utilizza anche la categoria della partecipazione, partendo dalla
distinzione tra l'essere in se stesso (Dio) e le creature che partecipano di questo essere. Il fatto
143
Cfr. DS 455-464.
Cfr A. GANOCZY, Dottrina della creazione, op cit, 111-128; F. LADARIA, La creazione del cielo e della
terra, AA.VV, Storia dei dogmi II, op cit, 56-71.
145
Cfr G. GILSON, La philosophie de saint Bonaventure, J. Vrin, Paris 1929, cap VI: La création, 179-195;
H.U. VON BALTHASAR, Bonaventura, in Gloria II. Stili ecclesiastici, Jaca Book, Milano 1978, 237-325; L.
MATHIEU, La Trinité créatrice d'apres saint Bonaventure, Editions franciscaines, Paris 1992.
146
Cfr S. MURATORE, Dalla ricerca delle origini alla questione del principio: Tommaso d’Aquino, A.T.I., La
creazione. Oltre l’antropocentrismo?, op cit, 239-270.
144
Antropologia Teologica 2009-2010
50.
che la creatura partecipi dell'essere di Dio, la pone in relazione di dipendenza e di riferimento a
Lui.
Uno dei grandi temi della teologia tomista della creazione è il riconoscimento della
relativa autonomia dell'essere creato, inteso come dono sovrabbondante di Dio, che sgorga
dalla sua libertà. Per cui sottrarre qualcosa alla perfezione della creatura significa sottrarre
qualcosa alla perfezione della potenza creatrice. Rispetto alla linea platonico-agostiniana che
sottolinea l'idea della partecipazione, del riflesso di Dio nella creatura, Tommaso dà maggiore
rilievo alla consistenza della realtà creata, comunque sempre considerata come proveniente da
Dio. Nell'azione creatrice è impegnata la Trinità: Dio crea il mondo mediante il suo Verbo
(Figlio) e il suo Amore (Spirito santo). Al Padre è attribuita la creazione e la potenza, al Figlio
la sapienza e l'esemplarità, allo Spirito la bontà che si rivela nel governo delle cose.
In sede di valutazione va rilevato che Tommaso non sviluppa il nesso tra creazione e salvezza
nel disegno divino. Pur non mancando nella riflessione tomista sulla creazione il senso storico,
tuttavia questo non costituisce il punto centrale.
La fine del Medioevo147
Verso la fine del Medioevo la libertà divina, che, con l'affermazione della contingenza
della creazione e del suo radicamento nella Trinità faceva parte della sintesi elaborata dalla
grande Scolastica, tende a essere interpretata in modo volontaristico. Duns Scoto (1266-1308)
conserva l'equilibrio fondamentale: sottolineando il primato dell'amore nell'azione di Dio ad
extra, situa la creazione nella storia salvifica. La volontà divina opera in conformità alla ragione,
così che ciò che vuole non è contrario all'essenza divina. Guglielmo d'Ockham (1280-1349)
accentua la tendenza volontaristica: l'onnipotente volontà divina nel dirigere l'ordine del
mondo è limitata solo dal principio di non contraddizione. Dio è considerato semplicemente
come causa del mondo, la cui comprensione non ha più relazione con la Trinità.
Interventi del magistero
Il concilio Lateranense IV (1215) contro i Catari148 che ripropongono le antiche
tendenze dualiste e manichee (il mondo materiale è prodotto dal principio del male, Satana,
dio dell'AT. Da qui il disprezzo del mondo, con la conseguente prescrizione di evitarne al
massimo i contatti) afferma che Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, è l'unico principio del
mondo:
«Unico principio dell'universo creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali che
con la sua forza onnipotente fin dal principio del tempo (simul ab initio temporis) creò dal nulla (de
nihilo) l'uno e l'altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il
mondo terrestre, e poi l'uomo, quasi partecipe dell'uno e dell'altro, composto di anima e di
corpo. Il diavolo, infatti, e gli altri demoni sono stati creati da Dio naturalmente buoni, ma da se
stessi si sono trrasformati in malvagi. L'uomo poi ha peccato per suggestione del demonio»149.
Il concilio di Firenze (1442) nel suo decreto per i Giacobiti150 afferma che:
Cfr G. GILSON, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, J. Vrin, Paris 1952; C. BLIC,
Duns Scot, Dsp III (1957) coll 1801-1818; P. GISEL, La creazione, SEI, Torino 1987.
148
Cfr J. DUVERNOY, Le Catharisme: l'histoire des cathares e le Catharisme: la religion des cathares, 2 voll, Ed.
E. Privât, Toulouse 1979.
149
DS 800.
150
Appartenenti alla chiesa monofisita di Siria, costituita nel sec. VI da Jacob Baradeo, vescovo di
Edessa. Si diffusero in diverse regioni dell'Oriente: nel 1442 si unirono alla Chiesa romana i Giacobiti
di Egitto e di Etiopia e nel 1444 quelli di Mesopotamia.
147
Antropologia Teologica 2009-2010
51.
«un solo vero Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, è il creatore di tutte le cose visibili e invisibili, il
quale volle, creò per sua bontà tutte le creature spirituali e corporali, buone naturalmente, perché
hanno origine dal sommo bene, ma mutevoli, perché fatte dal nulla»151.
Nella dichiarazione è accordata grande importanza alla bontà di Dio, da cui dipende e di cui è
riflesso la bontà della creatura; viene inoltre evidenziata la libertà della creazione unita alla sua
temporalità (“quando egli l'ha voluto”).
Epoca moderna152
Registra un mutamento dell'immagine del mondo e del modo di concepire il rapporto
uomo-mondo, provocato dalla nascita delle scienze naturali, dal problema scientifico indotto
dalle scoperte geografiche e astronomiche e dallo sviluppo delle scienze storiche.
La teologia reagisce al mutamento in chiave apologetica, proponendo soluzioni
concordistiche: si sforza di mostrare che le affermazioni bibliche sulla creazione non
contraddicono i dati della scienza e della storia. Opera inoltre una lettura razionale della
creazione utilizzando dati aristotelici ed elementi scientifico-matematici per evidenziare
l'ordine, la perfezione del mondo e la sapienza di Dio.
Dalla lettura razionale della creazione, che abbandona quella salvifica, si discosta la
scuola di Tubinga153 (cfr Staudenmaier), che ricupera la concezione storico-salvifica della
creazione, considerandola in connessione alla nuova creazione, rappresentata dalla redenzione
di Cristo, centro di ogni esistenza. Il tentativo di Tubinga non ha seguito, perché superato
dalla rinascita della neoscolastica154, impegnata a riproporre le prospettive della scolastica
medioevale. Esemplare al riguardo è il Concilio Vaticano I (1870) (DS 3000-3003; 30213025) che tratta la dottrina della creazione in modo intellettualistico (la creazione dal nulla e la
creazione nel tempo; la libertà assoluta del gesto creatore e il suo scopo di manifestare la
perfezione divina). La dottrina della creazione è esposta nella costituzione Dei Filius, il cui
impianto tradisce la tonalità intellettualistica.
Il primo capitolo, infatti, (“Dio creatore di tutto”), funziona da presupposto della Rivelazione,
trattata nel secondo capitolo. L'unico Dio è il creatore del cielo e della terra, distinto dal
mondo e «ineffabilmente elevato al di sopra di tutto ciò che è e che può essere concepito al di
fuori di lui»155.
«Nella sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per aumentare la sua beatitudine né per
acquistare perfezione, ma per manifestare attraverso i beni che concede alle sue creature, questo
solo vero Dio ha, con la più libera delle decisioni, insieme all'inizio dei tempi, creato dal nulla
l'una e l'altra creature, la spirituale e la corporale, e cioè gli angeli e il mondo, e poi la creatura
umana, come partecipe di entrambe, costituita di anima e di corpo»156.
Dal testo emerge che la finalità della creazione è la manifestazione della perfezione divina
attraverso i beni donati alle creature. Parlando del Dio creatore il Vaticano I, a differenza del
Lateranense IV (1215), che attribuiva la creazione al Dio Trinitario, Padre, Figlio e Spirito, non
151
DS 1333.
Cfr F. LADARIA, La creazione del cielo e della terra, AA.VV, Storia dei dogmi II, 71-78.
153
Cfr P. COLOMBO, La scuola di Tübingen, in FACOLTA’ TEOLOGICA DELL’ITALIA SETTENTRIONALE, Storia della teologia. IV (Età moderna) op cit, 301-338.
154 Cfr F. GIULIO BRAMBILLA, Il neotomismo tra restaurazione e rinnovamento, in FACOLTA’ TEOLOGICA
DELL’ITALIA SETTENTRIONALE, Storia della teologia. IV (Età moderna) op cit, 399-490.
155
DS 3001.
156
DS 3002.
152
Antropologia Teologica 2009-2010
52.
menziona la Trinità, nemmeno per segnalare che la creazione è opera delle tre persone. Resta
solo il riferimento al Dio unico.
L'affermazione della creazione «esce, in un certo modo, dal quadro tradizionale del
Credo, per essere trattata in quello dei “preamboli della fede” (praeambula fidei), preliminari alla
rivelazione e accessibili, di diritto, alla ragione»157. La conferma del nuovo quadro di
riferimento è data, oltre che dall'impianto della Costituzione, che, come abbiamo notato,
prevede prima la creazione e poi la rivelazione di Dio, anche da un vocabolario molto
filosofico riguardante gli attributi di Dio unico e la sua attività creatrice e dall'assenza di
qualsiasi legame della creazione alla storia della salvezza. Inoltre il secondo capitolo sostiene
che Dio, in quanto principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza
mediante la ragione umana a partire dalle cose create.
L'impostazione del discorso fa ritenere che le verità “credute e professate” dal concilio
«possono essere raggiunte mediante la ragione naturale, illuminata dalla rivelazione, così che
“nella presente condizione del genere umano” possono essere conosciute “facilmente con
assoluta certezza e senza alcun errore”. La tesi che soggiace è che «il dogma della creazione
non è soltanto un articolo di fede, ma nello stesso tempo “una verità di ordine naturale”»158.
Epoca contemporanea159
La riflessione teologica è caratterizzata dal superamento dell’impostazione filosofica dei
contenuti della creazione (1) e dal confronto con la scienza e con le contestazioni del
movimento ecologista (2).
1. All'inizio del XX° secolo la teologia della creazione si presenta consolidata. Due gli
aspetti salienti: l'uno di carattere sostanziale (i contenuti), l'altro formale (la collocazione nella
sistemazione teologica). I contenuti della teologia della creazione sono in gran parte ricavati
dalla filosofia, con l'attenzione a offrire una conferma da parte della Rivelazione. L'ispirazione
inoltre resta più cosmologica che antropologica, nel senso che si tende a trattare la creazione
del mondo fine a se stessa, considerando il riferimento all'uomo estrinseco e non
determinante.
In relazione alla collocazione il trattato sulla creazione, in continuità con la tradizione, è
posto subito dopo il trattato su Dio, da cui si fa partire fin dalle origini la sistemazione
teologica.
Le due caratteristiche, combinandosi tra loro, accentuano il carattere filosofico della
trattazione sulla creazione. La conseguenza è che la creazione, posta all'inizio della cosiddetta
storia della salvezza, tende ad essere considerata più come la premessa necessaria che come il
primo momento o la prima attuazione di essa.
La caratterizzazione filosofica della teologia della creazione ha una giustificazione storica, in
quanto si costituisce nel momento culturale del razionalismo sulla base di due ragioni: la prima
di carattere apologetico, secondo la quale collocare la creazione sul piano della “natura”,
prescindendo dalla Rivelazione, consente al pensiero cristiano di non perdere il contatto col
pensiero della filosofia separata dalla fede, prodotta dal razionalismo; la seconda di carattere
critico, dovuta allo stato di arretratezza degli studi biblici.
E' il superamento di tale arretratezza a segnare positivamente la teologia in generale e la
teologia della creazione, in particolare. L'apertura al problema biblico fa evolvere la teologia da
157
L. F. LADARIA, La creazione del cielo e della terra, AA.VV, Storia dei dogmi II, op cit, 76.
C. THEOBALD, La théologie de la création en question, RSR 81/4 (1993) 618.
159 Cfr. G. COLOMBO, La teologia della creazione nel XX secolo, AA.VV, Bilancio della teologia del XX secolo III,
Città Nuova, Roma 1972, 44-66 (= Teologia della creazione); C. THEOBALD, La théologie de la création en
question, art cit, 613-641; F. BRAMBILLA, La creazione tra istanze culturali e riflessione teologica, AA.VV, La
158
creazione. Oltre l'antropocentrismo?, op cit, 43-142.
Antropologia Teologica 2009-2010
53.
teologia del magistero a teologia della Rivelazione, nel senso che all'origine della riflessione
teologica va posto non tanto il magistero quanto la Rivelazione. Il “ritorno” alla Rivelazione,
quindi alla testimonianza biblica della Rivelazione, come punto di partenza della teologia,
consente di ricuperare la dimensione cristologica della creazione, come dimensione essenziale.
Il ricupero emerge da due constatazioni, desunte una dall'AT, l'altra dal NT.
L'AT considera la creazione nella prospettiva dell'alleanza, secondo la direzione che va
dall'alleanza alla creazione, non viceversa. Questo perché l'idea che dà unità all'AT è quella di
Dio salvatore d'Israele, quindi promotore dell'alleanza. Nella prospettiva indicata la creazione
non va intesa come presupposto dell'alleanza, della salvezza, ma come la sua prima (in senso
cronologico) espressione. Il NT attribuisce a Gesù Cristo la mediazione creatrice (cfr. 1Cor
8,6; Col 1,16; Eb 3,4; Gv 1, 3).
Le due constatazioni stanno in continuità tra loro, in quanto, se dalla rivelazione
veterostestamentaria la creazione è presentata nella prospettiva dell'alleanza, quindi della
salvezza, l'affermazione neotestamentaria della salvezza “per/in Gesù Cristo” non può non
integrare la creazione nell'azione di Gesù. Cioè se Gesù Cristo è l'unico salvatore e se la
creazione è un atto salvifico, risulta inevitabile considerare la creazione in relazione a Gesù
Cristo160.
Il ricupero del significato salvifico-cristologico della creazione garantisce un duplice
guadagno. Anzitutto consente di far emergere la dimensione antropologica della creazione
come dimensione primaria rispetto a quella cosmologica. La Bibbia non parla della creazione
in sé e per sé, di una creazione che ha senso in se stessa, ma di una creazione che avviene,
quindi, ha il suo senso “in Gesù Cristo” e che, per questo, si esprime come comunicazione ad
extra del Dio trinitario, vale a dire come comunicazione che rende possibile la creazione dei
figli di Dio. Per cui se si vuol restare fedeli alla nozione biblica della creazione occorre partire
dalla creazione “in Cristo”, cioè accogliere la creazione come “mistero”, nel senso di una realtà
essenzialmente relazionata a Gesù Cristo, figlio di Dio.
In secondo luogo denuncia l'incongruenza della collocazione del trattato sulla creazione
nei trattati teologici, così come è stata decisa all'inizio del secolo. L'inserimento di questo
trattato subito dopo il trattato su Dio e prima del trattato su Cristo e sulla sua azione, che solo
può rivelare il senso dell'azione creatrice di Dio, mostra il suo contenuto astratto e aprioristico
nei confronti del dato rivelato e quindi l'impossibilità di avere una giustificazione teologica.
Una corretta collocazione del trattato sulla creazione prevede il suo inserimento dopo i
trattati che svolgono la storia di Gesù, nella sua predestinazione divina, nella sua incarnazione
e azione storica, nella sua permanente attualità garantita dall'azione sacramentale. In questo
modo infatti Gesù Cristo compie la mediazione creatrice. Da qui, di conseguenza, si dovrà
partire per offrire la nozione di creazione nel suo significato più comprensivo e,
successivamente, nelle sue implicazioni particolari, quali l'uomo nella sua dimensione
essenziale di libertà di fronte a Cristo, alla sua grazia, nella sua dimensione storica di peccato e
quindi di quanto costituisce l'infrastruttura della libertà.
2. La teologia contemporanea della creazione si costruisce anche nel confronto con la
scienza da un lato (2.1) e con quella che è comunemente definita la “questione ecologica”
dall'altro (2.2).
2.1 - Con il termine “evoluzionismo” si fa riferimento alle teorie sull’origine della vita
sulla terra e sul suo sviluppo e all’attuale interpretazione dinamica del cosmo per cui tutta la
realtà materiale è in divenire e attraversata da forze che ne alimentano i processi evolutivi. Il
termine registra inoltre il passaggio da una lettura statica del mondo a una dinamica, per cui
160
M. BORDONI, L’orizzonte cristocentrico della creazione in relazione alla questione della sua visione
antropocentrica, in A.T.I. La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, op cit, 367-398.
Antropologia Teologica 2009-2010
54.
«appare sempre più evidente che il mondo non è costituito da un insieme di cose, ma da un
sistema di fenomeni interagenti. Esso appare dunque come un processo in cui la materia ed
energia si trasformano continuamente, in cui la vita pulsa in tutte le sue manifestazioni e in cui
l’uomo, con la sua intelligenza creatrice, realizza nuovi orizzonti e possibilità per la sua
esistenza»161.
L’ispiratore della teoria dell’evoluzionismo è Charles Darwin (1809-1882), il quale
interpreta lo sviluppo delle forme viventi a partire dal presupposto di un flusso ininterrotto di
variazioni naturali, in grado di modificare, in modo impercettibile, ogni individuo rispetto ai
suoi progenitori. Alcune di queste variazioni casuali accresceranno il successo riproduttivo
degli individui interessati, favorendone la diffusione alle generazioni successive, fino a renderle
dominanti.
«Qualsiasi vivente, che sia variato sia pur di poco, ma in un senso a lui favorevole nell’ambito
delle condizioni di vita […], avrà maggiori probabilità di sopravvivere e, quindi, sarà
selezionato naturalmente. In virtù del possente principio dell’ereditarietà, ciascuna varietà,
selezionata in via naturale, tenderà a perpetuare la sua nuova forma modificata»162.
Darwin, quindi, legge le dinamiche evolutive in senso gradualistico. All’interpretazione
darwiniana sono attribuiti tre grandi mutamenti concettuali: “l’introduzione della dimensione
storica della concezione della natura vivente”, “la fine delle concezioni finalistiche e
provvidenzialistiche” nella descrizione scientifica del mondo, “il mutamento del posto
dell’uomo nella natura”163. Questi mutamenti documentano il passaggio da un’immagine
scientifica della natura quale sistema gerarchicamente strutturato (con gli esseri umani in
posizione privilegiata) a una realtà processuale e aperta, regolata in modo contingente e priva
di punti d’arrivo predefiniti.
In riferimento alla portata della teoria dell’evoluzionista J. Ratzinger scrive che l’idea
della evoluzione sviluppata da Darwin «iniziò una rivoluzione della visione del mondo, che
non è inferiore, per profondità, a quella legata per noi al nome di Copernico… Per molti
aspetti l’esito di un tale processo è addirittura drammatico, come lo dovette essere quello della
rivoluzione copernicana… L’uomo assume l’aspetto dell’essere formatosi attraverso infiniti
mutamenti, le grandi costanti della visione biblica del mondo, vale a dire una fase iniziale ed
una finale, spariscono nell’imprevedibile, la comprensione di base del reale cambia: il divenire
prende il posto dell’essere, l’evoluzione si sostituisce alla creazione, l’ascesa alla caduta»164.
L’evoluzionismo darwiniano lancia alcune sfide. La prima è l’abbandono di
un’interpretazione teologica della realtà. La spiegazione di tutta la realtà vivente, dal comune
progenitore fino all’ “homo sapiens” mediante meccanismi “soltanto” naturali, mette in
questione sia la risposta religiosa alla domanda sull’origine del cosmo e dell’uomo, sia la stessa
plausibilità di un Dio che entra in relazione con l’umanità. La seconda sfida è costituita dal
problema della sofferenza, degli sprechi che l’evoluzione lascia lungo il suo cammino, un
problema che interpella la stessa azione di Dio: «quale onnipotenza, bontà e giustizia possono
essere ascritte a un Dio che crea e dona la vita mediante i travagli cosmico-planetari dei
processi evolutivi?»165.
161
C. BORASI, Scienza e teologia. Ragioni di un dialogo, EDB, Bologna 1993, 166.
C. DARWIN, L’origine della specie o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita, Newton
Compton, Milano 2006 (ed or 1859). Per un’introduzione all’opera cfr J. BROWNE, Darwin, l’origine della
162
specie. Una biografia, Newton Compton, Roma 2007.
163
Cfr A. LA VARGATA, Darwinismo e naturalismo , in P. COSTA - F. MICHELINI (a cura di), Natura senza
fine. Il naturalismo moderno e le sue forme, EDB, Bologna 2006, 13-52.
164
J. RATZINGER, Dogma e predicazione, (= BTC 19) Queriniana, Brescia 1971, 127.
165
O. FRANCESCHELLI, Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli, Roma 2005,5.
Antropologia Teologica 2009-2010
55.
Nel dibattito più recente provocato dalla teoria evoluzionista si confrontano quattro
modelli166.
Il primo modello, che ha contrassegnato lo sviluppo della scienza moderna, è quello
del conflitto. Ad esso appartengono la posizione scientista e quella dei neocreazionisti. La
posizione scientista167, sul presupposto che la conoscenza scientifica fornisce l’unica verità
accettabile, abbandona ogni metafisica delle cause finali ed è alternativa ad ogni creazionismo.
Dato che i fenomeni biologici risulterebbero spiegabili esclusivamente in base alla selezione
naturale, a variazioni casuali degli organismi viventi e al complesso processo dell’evoluzione, le
conclusioni sono che la natura può essere considerata un artigiano cieco che gradualmente e
autonomamente produce forme sempre più complesse e specializzate e che ogni affermazione
religiosa riguardante un Dio creatore deve essere considerata priva di senso e inutile.
Speculare alla posizione scientista è la posizione dei neocrezionisti, ampiamente
presente in alcune aree del protestantesimo americano, che oppone un deciso rifiuto alla tesi di
Darwin, in nome della “teoria del disegno intelligente”, secondo la quale la storia naturale
sarebbe stata diretta fin dall’inizio da un “disegno superiore (intelligente)”168. I creazionisti
contestano l’adeguatezza della spiegazione offerta dalla teoria evoluzionista, perché la
ritengono incapace di rendere conto di una “complessità irriducibile”. Sarebbe quindi, a loro
giudizio, la stessa scienza a esigere il riconoscimento dell’esistenza di un disegno intelligente
operante nell’evoluzione del cosmo e, conseguentemente, di un’intelligenza progettante.
A ispirare la posizione, che pretende un riconoscimento scientifico dell’affermazione di
un “disegno superiore”, è un’ermeneutica biblica letteralista, che, in nome dell’inerranza
materiale della S. Scrittura, colloca la fede nella creazione sullo stesso piano dell’ipotesi
scientifica, per dimostrare l’inadeguatezza della spiegazione offerta da Darwin e per denunciare
una sorta di cospirazione alimentata dall’evoluzionismo che esclude Dio dallo spazio pubblico.
Il secondo modello (di indipendenza) insiste sulla differenza di prospettiva tra scienza
e fede, fino a dichiarare la loro reciproca estraneità. Si ritrovano in questo modello quei
biologi, come K Miller e Chr. De Duve, nei quali la formazione scientifica e quella religiosa
coesistono senza tensioni e senza relazionarsi reciprocamente.
Un terzo modello si orienta alla convergenza tra scienza e fede, per cui il procedimento
scientifico è sottoposto a un’interpretazione teologica o teista che considera l’evoluzione una
via per dimostrare l’esistenza di Dio e non un argomento contro di essa. Il capostipite
dell’interpretazione teologica è Teilhard de Chardin (1881-1955)169, per il quale l’evoluzione è
un’antropogenesi che tende a una cristogenesi: l’uomo ha in Cristo il suo “punto omega”, la
sua futura pienezza (pleroma). Un recente tentativo di convergenza è la lettura teologica e
teleologica del principio antropico170: l’esistenza degli esseri umani ha richiesto per le costanti
fisiche e per le leggi della natura dei valori particolari. L’universo, cioè, si è andato costituendo
nel modo in cui attualmente lo conosciamo proprio perché ciò ha permesso il sorgere della
coscienza.
Cfr C. THEOBALD, La rivelazione, EDB, Bologna 2006, 181-186.
Cfr D. C. DENNET, L’idea pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati di vita, Bolladi Boringhieri,
Tori- no 1997; R. DAWKINS, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007; ID,
Perché quasi certamente Dio non esiste, Micro Mega (2007/4-12); T. PIEVANI, Creazione senza Dio, Einaudi,
Torino 2006.
168
Cfr R. T. PENNOCK (ed.), Intelligent Design Creatonism and its Critics. Philosophical Theological and
scientific perspectives, Mit Press, Cambridge 2001; W.A. DEMBSKI, Intelligent Design. Il ponte tra scienza e
teologia, Alfa& Omega, Caltanisetta 2007; M.A. BEHE, La scatola nera di Darwin. La sfida biologica
all’evoluzione, Alfa&Omega, Caltanisetta 2007.
169
Cfr P.T.CHARDIN, Credo in questo modo, in ID, La mia fede Scritti teologici, Queriniana, Brescia 1993;
cfr R. GIBELLINI, Teilhard de Chardin. L’opera e l’interpretazione, Queriniana, Brescia 1981
170
Cfr J. D. BARROW - F. TIPLER, Il principio antropico, Adelphi, Milano 2002. Riguardo all’interpretazione del principio antropico cfr S. MURATORE, In principio antropico tra scienza e metafisica, in RdT 33 (1992)
21-48; 154-197; 261-300; ID, L’evoluzione cosmologica e il problema di Dio, AVE, Roma 1993.
166
167
Antropologia Teologica 2009-2010
56.
Il quarto modello si ispira alla complementarietà e all’interazione critico-costruttiva tra
scienze naturali e fede, nel quale sono conservate le reciproche sfere, evitati i passaggi
illegittimi e rifiutate le assolutizzazione171. A ispirare questo modello è la consapevolezza che la
fede non alimenta una competizione con la scienza perché propone una “alterità” e una
“ulteriorità” di conoscenza e di capacità ermeneutica e si fa carico della domanda di senso che
non si oppone alla scienza, dato che la presuppone, ma nemmeno si esaurisce in essa, in
quanto si spinge oltre il suo interessamento per i fenomeni naturali.
In riferimento all’evoluzione questa posizione rifiuta l’ateismo dei neodarwinisti come
conseguenza necessaria del dato scientifico e la negazione del dato scientifico in nome della
fede; intende la causalità divina non «semplicemente accostata all’agire delle cause
intramondane, magari per colmarne le lacune»172, ma all’opera dentro e attraverso le leggi
scientifiche dell’evoluzione, senza lacerarle: “Dio nell’evoluzione”, non “o Dio o l’evoluzione”
(come si dibatte tra neocreazionisti e neodarwinisti), né “un’evoluzione verso Dio” (come
parla Teilhard de Chardin), né “una evoluzione pilotata da Dio” (come argomentano i
sostenitori del Disegno Intelligente).
Nel confronto con la teoria di Darwin il magistero ha operato significativi
riconoscimenti. Il concilio Vaticano II riconosce che l’umanità sta passando «da una
concezione statica della realtà a una concezione più dinamica ed evolutiva» (GS, 5).
Per Giovanni Paolo II le nuove conoscenze emerse negli ultimi decenni impongono di
«riconoscere nella teoria dell’evoluzione più che una semplice ipotesi», dato che essa è stata
«progressivamente accettata da ricercatori che perseguono una serie di scoperte in vari campi
della conoscenza»173.
Benedetto XVI ritiene che «la teoria dell’evoluzione non sopprime la fede né la
conferma. Essa però la sfida a comprendere più profondamente se stessa e ad aiutare così
l’uomo a capirsi e a diventare sempre più quello che è: l’essere che in eterno deve dare del Tu a
Do»174. A giudizio di papa Benedetto la fede, raccogliendo la sfida dell’evoluzione che
propone una comprensione evolutiva del mondo, «esprime la convinzione che il mondo nella
sua totalità, come dice la Bibbia, provenga dal Logos, cioè dal suo senso creativo, e rappresenti
la forma temporale del suo autocompimento»175. Per cui la creazione «non è un lontano inizio
e, neppure, un inizio suddiviso in vari stadi, ma essa concerne l’essere in quanto temporale e in
divenire: l’essere temporale è abbracciato come un tutto dall’unico atto creativo di Dio che,
nella sua divisione, gli dona l’unità, in cui nel contempo c’è anche il suo senso»176. Credere
nella creazione, quindi, significa «comprendere nella fede il mondo in divenire scoperto dalla
scienza come un mondo significativo o proveniente da un senso creativo»177.
Anche in riferimento alla creazione dell’uomo Benedetto XVI ritiene possibile
«rispondere alla domanda su come l’affermazione teologica sulla creazione particolare
dell’uomo possa coesistere con una concezione evolutiva del mondo e, rispettivamente, quale
171
Cfr H. KÜNG, L’inizio di tutte le cose. Creazione o evoluzione? Scienza e religione a confronto, Rizzoli,
Milano 2006, 57; A. GANOCZY, Teologia della natura, (GdT 250) Queriniana, Brescia 1997; J ARNOULD,
La teologia dopo Darwin. Elementi per una teologia della creazione in una prospettiva evoluzionistica, Queriniana,
Brescia 2000.
172
A. AUTIERO - P. COSTA - S. MORANDINI, Creati dagli animali? Evoluzionismo, disegno intelligente e
natura umana, in “Il Regno” (2006/10) 294.
173
GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Pontifica Accademia delle Scienze, 23.10.1996.
174
BENEDETTO XVI, Allocuzione in una serie di trasmissioni radiofoniche della Süddeutsche Rundfunk sul tema
“Credere nella creazione e teoria dell’evoluzione” (1968).
175
ID, Allocuzione…
176
ID, Allocuzione…
177
ID, Allocuzione…
Antropologia Teologica 2009-2010
57.
forma essa debba assumere in tale concezione evolutiva»178. A giudizio del Papa va ricordato
in primo luogo che anche la creazione dell’uomo «non designa un inizio lontano, ma con
Adamo intende ciascuno di noi: ogni uomo è direttamente da Dio…
Ogni uomo è più del prodotto della sua predisposizione genetica e dell’ambiente,
nessuno risulta solo da fattori intramondani calcolabili, il mistero della creazione sta in
ciascuno di noi»179. In secondo luogo va ammesso che «lo spirito non sopraggiunge alla
materia come qualcosa di estraneo, come un’altra seconda sostanza; la comparsa dello spirito
significa piuttosto, secondo quanto si è detto, che un movimento che avanza perviene al fine
assegnatogli»180.
In conclusione, l’affermazione che l’uomo è creato in una maniera più specifica e più
diretta da Dio rispetto alle cose naturali, significa che «l’uomo è stato voluto da Dio in un
modo specifico: non solo come un essere che “c’è”, ma come un essere che lo conosce; non
solo come un’entità che lui ha pensato, ma come un’esistenza che lo può pensare a sua
volta»181.
Ambedue i pontefici concordano nel ribadire che nel confronto fra teoria
dell’evoluzione e fede cristiana va mantenuta la distinzione tra i fatti dell’evoluzione, le teoria
scientifiche ricavate da essi e le ideologie che ad essi pretendono di appoggiarsi.
La distinzione dei livelli consente di salvaguardare la dignità della persona umana,
perché le domande sul senso della persona eccedono il campo della teoria dell’evoluzione, la
quale, quindi, non può proporsi come filosofia universale (cioè come il fondamento vero e
proprio della comprensione razionale del mondo), dato che lascia aperte domande che
rinviano ad un argomentare filosofico e teologico.
La teologia182 si confronta con la teoria dell’evoluzione, dando atto anzitutto che
questa teoria sembra non essere più un’ipotesi tra le altre, ma «la prospettiva entro la quale si
colloca il discorso biologico corrente, segnato sì da vivaci dibattiti e da aree di ricerca ancora
aperte, ma anche dalla condivisione di un orizzonte»183. Le numerose innovazioni introdotte
nei confronti della teoria darwiniana, più che alternative alla sua prospettiva, risultano
esplorazioni di uno spazio da essa stessa aperto.
178
ID, Allocuzione…In sintonia con Benedetto XVI è la recente lettera pastorale dei vescovi della
Svizzera, “All’inizio Dio creò i cieli e la terra” (Friburgo 21 settembre 2008). I vescovi ritengono da
tempo sorpassata l’alternativa “O la creazione o l’evoluzione” e parlano di ”mutua complementarietà,
quindi di creazione e di evoluzione”, perché «la scienza e la fede, quando parlano della creazione,
parlano del me-desimo mondo, ma guardandolo da angolature diverse. Questi due punti di vista sono
importanti per noi perché, insieme, danno un’immagine del mondo molto più completa che non prese
separatamente. Esse affrontano dimensioni diverse del nostro mondo e rispondono a bisogni e
domande diverse del-l’animo umano».
179
ID, Allocuzione…
180
ID, Allocuzione…
181
ID, Allocuzione…
182
Cfr J. RATZINGER, Dogma e predicazione, op cit, 123-136; S. OTTO HORN - S. WIENDENHFER (a
cura di), Creazione ed evoluzionismo. Un convegno con Papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo, EDB,
Bologna 2007; S. MORANDINI, Darwin e la creazione, in RdT 49 (2008) 383-420; AA.VV., Evoluzionismo e
teologia, in “Humanitas” 63 n 3 (2008). Cfr. F. RUSSO, Cento anni di dialogo difficile tra la scienza e la fede, in
“Scienza e fede”, Brescia 1965; C. MOLARI, Darwinismo e teologia cattolica. Un secolo di conflitti, Borla,
Roma 1984; G. COLOMBO, Il darwinismo e "La Scuola Cattolica", ScCatt 111 (1983) 403-425; Cfr J.
ARNOULD, La Chiesa e la storia della natura, Milano 2001;; P. GIANNONI, La dottrina cristiana sulla
creazione nel confronto con la cultura del ‘900, in “Il futuro dell’uomo” 9 (1982/3-4); Evoluzione e fede cristiana,
numero monografico di “Credere oggi” 29 (2009/1); C. ALBINI, Dio nell’evoluzione. Una prospettiva
processuale, in RdT 50 (2009) 357-375; S. MORANDINI – J. POLKINGHORNE – P. STEFANI, Teologia ed
evoluzione, in “il Regno” 54 (2009) n 14, 489-505.
183
S. MORANDINI, Interpretare Darwin, art cit, 404.
Antropologia Teologica 2009-2010
58.
La riflessione teologica riconosce inoltre che l’evoluzionismo darwiniano interpreta la
caratteristica dell’intera ricerca scientifica post-galileiana, che «programmaticamente mira ad
interpretare ogni fenomeno fisicamente esperibile in termini di relazioni causali con altri
fenomeni ad essi omogenei, prescindendo da prospettive teologiche globali»184. Per cui il suo
riferimento a spiegazioni scientifiche non legate a fattori trascendentali non dischiude un
orizzonte necessariamente ateo, in quanto mette in discussione solo «la percorribilità di una
linea d’accesso al discorso su Dio: quella del riferimento ad un disegno operante nel mondo
come fattore necessariamente riconoscibile da parte della ragione scientifica»185.
Nel confronto con l’evoluzionismo la teologia è impegnata a sostenere la plausibilità di una
visione religiosa che accetta il dato dell’evoluzione e riconosce il mondo che evolve come
creazione di Dio.
Alla luce di quanto detto la categoria interpretativa del confronto fra teologia e teoria
darwiniana non può essere quella dell’incompatibilità tra quanto la fede cristiana crede (il
mondo è stato creato da Dio) e quanto la teoria dell’evoluzione sostiene (il mondo si è
sviluppato in miliardi di anni, fino all’apparire della vita e, alla fine, degli uomini), ma quella
della reciproca “sfida”, che riconosce, più in generale, che libertà della scienza e dignità del
credere e, in particolare, che la teoria darwiniana e la considerazione del mondo in quanto
creazione, non sono tra loro inconciliabili.
La non inconciliabilità tra creazione ed evoluzione è motivata dal fatto che alla base dei due
concetti sta un modo diverso di porre il problema, “due distinte forme di pensiero” (J.
Ratzinger). Lo rileva con lucidità J. Ratzinger in un testo dedicato alla questione:
«La fede nella creazione ricerca l’esistere dell’essere in quanto tale, il suo problema è il perché
esiste qualcosa e non il niente. L’idea di evoluzione invece si preoccupa del perché esistono
queste cose e non altre, da dove esse hanno ottenuto la loro determinazione e in quale
relazione stanno con le altre configurazioni. In termini filosofici si direbbe dunque che l’idea di
evoluzione sta sul terreno fenomenologico, riflette a fondo sulle singole fattispecie del mondo
realmente esistenti, mentre l’idea di creazione si muove sul terreno ontologico, va a ricercare
dietro le singole cose, guarda stupita la meraviglia dell’essere stesso e cerca di rendersi conto
del misterioso è, che noi affermiamo comunemente per tutte le realtà esistenti. Si potrebbe dire
anche che la fede nella creazione tratta della differenza tra nulla e qualcosa, mentre l’idea di
evoluzione si occupa di quella tra qualcosa e qualcosa d’altro. Creazione caratterizza l’essere,
preso come globalità, come essere che deriva da qualche origine; evoluzione invece descrive
l’interiore costruzione dell’essere e ricerca la specifica provenienza delle singole realtà
esistenti»186.
Duplice la sfida lanciata dalla teoria evoluzionista alla fede cristiana, quella, come segnala
Ratzinger, di invitarla «a capire più profondamente se stessa e ad aiutare così l’uomo a
comprendersi e a diventare sempre più ciò che lui è: l’essere che per l’eternità può dire tu a
Dio»187.
In riferimento a una più profonda comprensione di se stessa da parte della fede, va
verificato se l’idea di creazione come inizio temporale dell’esistenza delle varie specie è in
sintonia con l’idea di creazione sviluppata dalla grande tradizione cristiana, la quale più che
indicare le forme della sequenza temporale con la quale sarebbe sorto il mondo, intende
esprimere la sua originaria dipendenza da Dio. La tradizione cristiana, più che descrivere gli
inizi del cosmo, legge l’intera storia del mondo alla luce della relazione che lo lega a Dio. Ora
la categoria della relazione consente di comprendere l’uomo non semplicemente come un
“evento naturale” (un essere che c’è), ma come un essere “voluto”, da Colui, il Dio Creatore,
184
ID, 410.
ID, 411.
186
J. RATZINGER, Dogma e predicazione, op cit, 127.
187
ID, 136.
185
Antropologia Teologica 2009-2010
59.
che lo ha chiamato all’esistenza come suo privilegiato interlocutore (un essere, quindi, che è
più del prodotto della sua predisposizione genetica e dell’ambiente).
Nella sfida lanciata alla teoria dell’evoluzionismo la ragione teologica rivendica la
competenza della fede cristiana a svelare la destinazione di quanto la descrizione scientifica
indica a proposito del mondo e del suo dispiegarsi nel tempo e sollecita a mantenere la
differenza tra teoria scientifica dell’evoluzione e le sue interpretazioni ideologiche o filosofiche
per evitare una possibile deriva ideologica della teoria evoluzionista, che, a partire dalla
descrizione scientifica del mondo conclude a una comprensione naturalistica del mondo
stesso.
Il punto d’incontro fra teoria dell’evoluzione e fede nella creazione individuato dalla
teologia che si confronta con l’evoluzionismo, potrebbe essere l’idea teologica della “creatio
continua” (la conservazione del mondo)188.
Giovanni Paolo II, nel discorso rivolto ai partecipanti al Simposio internazionale su “Fede
cristiana e teoria dell’evoluzione” (26 Aprile 1985), afferma che «l’evoluzione presuppone la
creazione; la creazione alla luce dell’evoluzione si presenta come un avvenimento protratto nel
tempo - come creatio continua - nel quale agli occhi della fede diviene visibile Dio in quanto
“Creatore del cielo e della terra”».
L’azione creatrice di Dio, quindi, non riguarda semplicemente l’origine delle cose, ma tutto il
loro divenire. Non esistono “interventi” divini successivi perché è una sola e medesima azione
divina che sostiene nell’essere le creature che esistono in forza del loro rapporto costante con
Dio189. Grazie a questa azione «i molti frammenti che esplodono quando il nulla è investito
dell’energia divina, provengono a unità e la realtà materiale è condotta attraverso tappe
successive dallo stato uniforme e disperso dalle origini a forme elevate e distinte di perfezione
fino a un compimento spirituale, che non ci è dato conoscere, se non in parziali
anticipazioni»190.
2.2 - La “questione ecologica”191 si pone, dopo gli anni '70, come contestazione
dell'antropocentrismo che sarebbe alla base della tradizione culturale e civile dell'Occidente. La
contestazione si esprime secondo due modalità, spesso connesse tra loro: la critica
all'antropocentrismo cartesiano e illuminista, ritenuto responsabile di una visione
meccanicistica della natura; la critica all'orientamento spiritualista della tradizione ebraicocristiana, responsabile di aver favorito un atteggiamento di dominio sulla natura da parte
dell’uomo.
All'antropocentrismo cartesiano e illuminista che ispira la scienza è rimproverato di
concepire la natura come un “mondo di cose”, riserva di materiali da utilizzare e da
trasformare, più che come “cosmo di significati” da elaborare responsabilmente e
consapevolmente (eticamente) nel rapporto con gli altri e con Dio.
188
Cfr C. ALBINI, Dio nell’evoluzione. Una prospettiva processuale, art cit, 370-375.
Per S. Tommaso d’Aquino la creatura è costituita dalla relazione al primo principio e «non è altro
che tale relazione», Summa Theologiae, q. 45 a 3. Per Teilhard de Chardin «Non c’è un momento in cui
Dio crea e un momento nel quale le cause seconde si sviluppano. C’è sempre un’unica azione creatrice
[…] che solleva continuamente le creature verso un “più/essere” in favore della loro attività seconda e
dei loro perfezionamenti anteriori. La creazione così non è un’intrusione periodica della Causa prima: è
un atto coestensivo a tutta la durata dell’universo», Comment je crois, Seuil, Paris 1969, 30s).
190
C. MOLARI, Reazioni teologiche all’evoluzionismo e sua recezione, in “Credere oggi” 29 (2009), 69.
191
Cfr. A. CAPRIOLI – L. VACCARO (a cura di), Questione ecologica e coscienza cristiana, Morcelliana,
Brescia 1988. H. FAES, Écologie et sens de la création, RSR 81/4 (1993) 581-611; S. DIANICH,
Antropocentrismo e fede cristiana: una questione da riaprire, in A.T.I., La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, op cit,
21-42.
189
Antropologia Teologica 2009-2010
60.
Alla tradizione ebraico-cristiana viene addebitata la responsabilità della opposizione tra
uomo e natura, costruita su una dichiarazione di precedenza/predominanza da parte dell'uomo
sulla natura.
La risposta della teologia ai problemi posti dalla questione ecologica va nella linea di un
ripensamento del tema della creazione192 e non può essere quella di un ingenuo naturalismo,
che, nel tentativo di sottrarre la natura al predominio devastante dell'uomo, le assegna un
valore e un significato a sé stanti e l’accosta in modo dualistico all'uomo.
Una corretta teologia della creazione postula l’attenzione ad alcune istanze. La prima
istanza chiede di parlare del mondo non tanto come scenario per un intervento arbitrario
dell’uomo, ma come “luogo simbolico”, nel quale e mediante il quale «la coscienza dell’uomo è
istruita circa l’affidabilità della realtà tutta»193, consegnata a lui da Dio perché l’accolga e la
scelga. Ad ispirare questa considerazione del mondo sta il riconoscimento che l’uomo non
viene all’esistenza per primo o da solo, ma posto nel mondo e che nel mondo coglie e si
decide per il bene promesso alla sua vita. Il mondo costituisce il segno indicatore del carattere
buono della vita. Va tematizzata quindi la relazione tra bontà del mondo e appello all’uomo
perché l’uomo si consegni a Dio che lo ha creato e posto nel mondo.
Questa prima istanza ricupera la originaria coappartenenza dei uomo e mondo che
impone di abbandonare la separazione decretata dal pensiero moderno.
La seconda istanza dice che l’unità tra uomo e mondo è garantita dalla tesi della
“creazione in Cristo”. La tesi consente di elaborare una comprensione cristiana della
creazione. Una corretta teologia della creazione non può non partire dalla rivelazione e
strutturarsi, quindi, cristocentricamente. Per questo la creazione non può essere pensata nella
sua determinazione cristiana “prima” del suo compiersi in Cristo. L’indicazione dei suoi
contentui, quindi, non andrà ricavata solo dal contesto veterostestamentario (il libro della
Genesi), ma dovrà aprirsi alla pasqua di Cristo. Nella pasqua il Padre dona a Cristo la vita
nuova e la creazione rappresenta la condizione posta in Cristo e nell’umanità predestinata a
essere in Lui perché si compia il dono pasquale194. Per questo motivo la nozione cristiana di
creazione è deretminata dal suo essenziale riferimento antropologico, nel senso che la sua
relazione a Cristo, il suo compiersi in lui, ha come termine la libertà creaturale.
La terza istanza è impegnata a elaborare una strumentazione teorica che consenta di
articolare una riflessione riguardo alla creazione, dove la triade Dio-uomo-mondo sia svolta
senza ritornare all’impostazione della metafisica essenzialista (che risolve la creazione
semplicemente come origine delle cose da Dio) né rimanere imprigionata in un soggettivismo
antropologico (che comprende, in modo unilaterale, la triade alla luce dell’uomo).
Per questo va svolta una riflessione sulla nozione di mondo che non contrappone né
semplicemente accosta la natura dell’uomo, ma la presenta nel suo significato simbolico per
l’uomo , il quale, proprio perché non viene all'esistenza né da solo né per primo, ma si trova
posto nel mondo, dovrà lasciarsi istruire sul senso del suo esistere dall'anticipazione
promettente del mondo in cui si trova e a decidersi al riguardo. Si coglie qui il significato
intrinseco del mondo in rapporto all'uomo e a Dio: il mondo non è un terzo incomodo tra
l’uomo e Dio, perché dal mondo l'uomo viene a sapere del carattere buono, promettente
(quindi di dono) della vita, per sé e per gli altri; mediante il mondo può decidersi per quella
figura di vita promessa, anticipata, da Dio. Quella vita che costituisce il senso e il dono stesso
della Rivelazione nell'evento di Gesù Cristo.
Questa corretta ermeneutica della relazione uomo-mondo, che dà rilievo al carattere
simbolico del mondo in riferimento all'istruzione del desiderio dell'uomo di una vita buona e
felice, consente di pensare al mondo come “dimora” in cui è anticipato il carattere buono del
venire al mondo dell'uomo e che dall'uomo andrà scelto.
192
Cfr F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit, 278-290.
ID, 290.
194
Cfr ID, 283.
193
Antropologia Teologica 2009-2010
61.
Dalla Rivelazione sappiamo che la figura di bene anticipata dalla creazione ha in Gesù di
Nazareth pieno esaudimento. Per questo l'offerta di Gesù rappresenta il compimento, la verità
ultima, della libertà creata ed è in grado di liberarla dalla sudditanza di una figura dispotica del
desiderio che rifiuta di affidarsi all'immagine rivelata in Gesù, per decidere da sé i modi del suo
esaudimento, finendo per assogettare a sé il mondo e per negargli quella qualità di “dimora” in
cui è anticipato il carattere buono della vita.
In questa prospettiva la salvaguardia dell'ambiente andrà intesa non tanto come rispetto
non ulteriormente determinabile, ma come garanzia al mondo della qualità di “dimora” della
libertà dell'uomo, anticipo, segno della “terra promessa” che è la comunione col Padre nello
Spirito, mediante Gesù Cristo risorto.
Riflessione teologica195
Dalla storia della teologia della creazione emerge l'esigenza del ricupero dell'idea biblica
della “creazione in Cristo”, in quanto è in Gesù Cristo che la creazione si esprime nel modo
più completo. In Cristo la creazione si rivela come l'azione di Dio intenzionata a comunicare
ad extra l'essere trinitario - se stesso - quindi per rendere possibile la creazione dei figli di Dio
(cfr Gv 1,22-23). Se la creazione esiste e ha il proprio senso nel rendere possibile la nascita dei
figli di Dio in Cristo, risulta primaria l'intenzionalità antropologica rispetto a quella
cosmologica e, all'interno dell'intenzionalità antropologica, risulta primaria l'intenzionalità
“elevante” rispetto a quella “creante”.
E' noto l'errore di prospettiva che ha segnato la teologia della creazione, la quale,
proprio perché non ha accolto l'idea biblica della “creazione in Cristo”, ha assunto, quale
punto di partenza, la prospettiva filosofica che coincide con il dato empirico. Ne deriva una
teologia della creazione costruita a partire dal basso (ex parte rei), dal mondo reale, con la
difficoltà a far emergere l'intenzionalità atropologica (indicativo l'interrogativo che attraversa la
manualistica, se cioè Dio poteva creare il mondo senza creare l'uomo), la destinazione
soprannaturale (è “dottrina certa” che Dio poteva creare l'uomo senza elevarlo all'ordine
soprannaturale) e il riferimento a Gesù Cristo (diversi sono i sostenitori della non necessità
dell'incarnazione rispetto alla creazione).
Questo modo di procedere rivela una distorsione, dovuta non tanto agli interrogativi sulla possibilità della creazione del mondo senza la creazione dell'uomo, la possibilità della
creazione dell'uomo senza l'elevazione soprannaturale o la possibilità della creazione senza
l'incarnazione - quanto piuttosto alla loro formulazione sul presupposto di una creazione
pensata come consistente in se stessa, già avvenuta196. Con la conseguenza che «ciò che è
attuale (l'intenzionalità antropologica, l'elevazione soprannaturale, l'incarnazione) viene
considerato come possibile e problematico; mentre ciò che è possibile e problematico (la
creazione senza l'uomo, la natura pura, la non incarnazione del Verbo) viene considerato come
attuale»197.
Sta qui l'inadeguatezza del punto di partenza della teologia della creazione presentata dai
Trattati, in quanto non fondata sulla Rivelazione dell'azione creatrice di Dio, ma sulla
constatazione dell'esistenza del mondo creato. Il superamento dell'inadeguatezza è garantito
dal ricupero del senso dell'azione creatrice di Dio come emerge dalla Rivelazione, la quale fa
coincidere l'azione creatrice di Dio con l'azione costitutiva della storia salvifica (la storia che
deve costituire i figli di Dio in Gesù Cristo).
195
Cfr G. COLOMBO, Teologia della creazione, 60-63; ID, Creazione, NDT, Paoline, Alba 1977, 198-209; G.
COLZANI, Creazione, art. cit, 611-614; F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit, 290-306; M.
KEHL, “E Dio vide che era cosa buona”. Una teologia della creazione (= BTC 146) Queriniana, Brescia 2009.
196
Cfr G. COLOMBO, Teologia della creazione, 61.
197
ID, 61.
Antropologia Teologica 2009-2010
62.
La Rivelazione presenta la creazione come fatto, precisando che il mondo attualmente
esistente
a - esiste per l'alleanza con Dio in Cristo, cioè per attuare la possibilità di una comunione ad
extra della condizione di Figlio, propria del Verbo nella Trinità;
b - è una manifestazione della potenza e bontà di Dio;
c - ha origine da Dio.
I tre aspetti non vanno intesi come reciprocamente alternativi né giustapposti, ma come modi,
dal più comprensivo a quello più particolare, di presentare la creazione quale comunicazione
del Dio Trinitario.
Nella storia del pensiero cristiano è stato dato maggior rilievo al terzo aspetto - il mondo ha
origine da Dio - e solo successivamente è stato esplicitato l'aspetto più comprensivo della
creazione-alleanza. La distinzione si è sedimentata in due linee caratterizzanti la teologia della
creazione:
1. La creazione come origine delle cose da Dio. L'affermazione fondamentale: quanto esiste è
stato creato da Dio. Il senso dell'affermazione è quello di escludere l'esistenza di realtà specialmente la materia, secondo quanto è affermato dal concilio Lateranense IV - che
abbiano origine indipendentemente da Dio. Correlativamente all'affermazione che tutto trae la
propria origine da Dio, viene dichiarato che quanto esiste proviene dal nulla, come insiste il
Vaticano I (“creazione ex nihilo”).
Con questa affermazione la teologia classica vuole spiegare anche la “contingenza” delle cose
create (realtà che esistono, ma non sono Dio) e quindi la “trascendenza” di Dio rispetto alla
creazione. La contingenza delle cose create e la trascendenza di Dio consentono di sostenere la
tesi della “bontà” della creazione: le cose esistenti potrebbero non essere (cfr Leibniz: «perché
c’è qualcosa piuttosto che il nulla?»), se esistono, lo sono per dono di Dio; per questo sono
buone, perché frutto dell’atto d’amore divino). Questa teologia evidenzia l’ “alterità” di Dio
rispetto alla creazione (“causalità”), un’alterità che è anche “relazione” libera e gratuita di Dio
nei confronti della realtà creata (“partecipazione”).
E' soprattutto la teologia scolastica a elaborare il concetto di “creazione”, applicando a
Dio, “principio” di tutte le cose, il concetto di “causalità efficiente”. La nozione di “creazione”
indica quindi la relazione di dipendenza - radicale e totale - di quanto è creato, rispetto a Dio.
Va però rilevato che la risoluzione della creazione nella causalità efficiente, operata dalla
teologia scolastica, risulta idonea più a definire il rapporto Dio-mondo che il rapporto Diouomo, perché considera la creazione a partire dalla realtà materiale (cosmo), non da quella
spirituale (uomo), per il quale la causalità efficiente è inadeguata. Da qui la necessità, in vista di
un ricupero del senso antropologico della creazione, di un'integrazione della nozione di
causalità efficiente in una causalità più comprensiva, rispettosa della realtà della “persona”.
Inoltre questo schema interpretativo, se è utile per evitare errate interpretazioni del
rapporto Creatore-creazione, non è però in grado di dire come questa relazione si svolge nella
storia. E’ proprio la Scrittura a raccomandare l’apertura della relazione Creatore-creatura al
divenire storico: la creazione fa parte degli eventi primordiali che inaugurano e fondano la
storia singolare di Dio con Israele. Per questo la relazione in parola è aperta al riferimento
della creazione a Gesù Cristo.
La conclusione che s’impone è che l’esistenza del mondo va mantenuta nell’ambito della
storia della salvezza e del riferimento a Gesù Cristo. Infatti la chiamata all’esistenza delle cose
appare finalizzata alla realizzazione dell’alleanza con Dio e alla predestinazione in Cristo (la
figura neotestamentaria dell’alleanza).
Antropologia Teologica 2009-2010
63.
2. La creazione come alleanza con Dio in Gesù Cristo (“creazione in Cristo”). L'affermazione
fondamentale: Dio ha creato l'uomo non solo buono, ma come suo “alleato” in Gesù Cristo,
cioè “conforme” a Gesù Cristo. L'affermazione evidenzia il senso della creazione che risulta
definita come l'azione di Dio, che comunica se stesso, il proprio essere trinitario, mediante
l'incarnazione del Verbo e la missione dello Spirito Santo. La tesi della “creazione in Cristo”
dice l’unità del disegno di Dio e consente di determinare correttamente il senso della
mediazione di Cristo nella creazione, una mediazione svolta fin dall’inizio (cfr Col 1,15-20) e
non solo in seguito al peccato dell’uomo.
La teologia moderna traduce concettualmente la nozione di creazione come
comunicazione dell'essere trinitario applicando a essa la categoria di “causalità formale”, con la
quale interpreta la causalità divina sulla realtà creata, nel senso che l'essere della realtà creata,
oltre che dall'effetto dell'azione creatrice di Dio, è costituito anche dalla presenza dell'essere
stesso di Dio, pur nella limitazione propria della realtà creata.
Anche la categoria di “causalità formale”, come la categoria di “causalità efficiente”, va
sottoposta a critica perché, elaborata da Aristotele in relazione all'essere della natura e non
all'essere personale, non è idonea a esprimere il rapporto interpersonale, così come emerge
dalla creazione-elevazione.
Per una visione meno inadeguata dell'azione divina, che si esprime nella creazione-elevazione,
potrebbe essere ricuperata la categoria di “generazione” degli esseri, la quale, interpretata alla
luce della Rivelazione di Gesù Cristo, si determina come “generazione dei figli adottivi”.
Le due linee di sviluppo della teologia della creazione vanno composte in una sintesi
ottenuta non sovrapponendo la seconda sulla prima, come se la prima indicasse la struttura
essenziale della creazione, mentre la seconda la sua modificazione accidentale, a essa
sovrapposta (è il limite questo della teologia manualistica) né considerando la prima linea come
punto di partenza della creazione e la seconda punto d'arrivo (è la tentazione della teologia
contemporanea che intende accogliere l'istanza evoluzionista).
Il rapporto tra le due linee va interpretato come relazione tra il tutto della realtà costituito dalla seconda linea - e un aspetto particolare - rappresentato dalla prima linea - nel
senso che la considerazione del tutto permette di recepire l'aspetto particolare. Per questo, in
una teologia della creazione, va evidenziato anzitutto la creazione-alleanza con Dio in Gesù
Cristo e poi la creazione di tutte le cose da Dio. Questa impostazione consente una migliore
comprensione delle tesi riguardanti le “proprietà” della creazione (creazione ex nihilo, creazione
in tempore o simul tempore), delle tesi della libertà e gratuità e del problema del fine della
creazione198.
L'affermazione della “creazione dal nulla” (ex nihilo), negativamente si oppone all’idea di
preesistenza della materia (cfr i dualismi del pensiero greco), in quanto, se la creazione è
l'autocomunicazione di Dio, da nient'altro, se non da se stesso, Dio può essere condizionato;
positivamente dice la radicale signoria e incondizionatezza di Dio sulla creazione e la totale
dipendenza ed apertura di questa da e a Dio.
L'affermazione della creazione “nel tempo” (in tempore) si oppone a ogni concezione
della creazione intesa come necessaria. Questo non significa pensare al sorgere della creazione
in un dato momento (prima della creazione non esiste alcun momento, perché il tempo è
creato con le cose), ma ribadire il radicale dipendere, l'avere inizio della realtà creata, da Dio.
In tale direzione sembrano doversi interpretare i pronunciamenti del Magistero: il concilio
Lateranense IV contro il manicheismo medioevale (DS 800); il concilio Vaticano I contro i
diversi sistemi panteisti dell'epoca (DS 3002); l'enciclica di Pio XII, Humani generis, contro
coloro che «negano un inizio del mondo e sostengono la creazione come necessaria» (DS
3890).
198
Cfr G. COLZANI, Antropologia teologica, 415-419.
Antropologia Teologica 2009-2010
64.
Le tesi della libertà e gratuità della creazione sono svolte nella tradizione in modo
autonomo. La tesi della libertà della creazione evidenzia, contro lo gnosticismo, la contingenza
della creazione, quale frutto di una libera azione di Dio (Dio, qualora decida di creare, è libero
sia in relazione all'atto che alla modalità del creare). La tesi della gratuità della creazione è
riferita alla sua nozione più comprensiva di momento dell'alleanza-elevazione, nel senso che
conclude alla comunicazione dell'essere stesso di Dio. In questa linea condivide la caratteristica
di gratuità e soprannaturalità della Predestinazione.
La tesi della libertà-gratuità della creazione, quindi, non vuole salvaguardare una filosofica
indipendenza di Dio, ma evidenziare che, nell'Alleanza, Dio comunica se stesso, la propria
vita, indisponibile per gli esseri creati. Per cui se questa vita si trova in qualche essere, vi si
trova per libero dono di Dio.
L'affermazione del fine della creazione (ad Dei gloriam), in sintonia con l'immagine biblica della
gloria199 (la gloria è l'essere stesso di Dio in quanto si rivela nel suo santuario, nella storia, in
Gesù Cristo, nei cristiani), identifica la creazione nella gloria, in quanto rappresenta la
manifestazione di Dio. Per cui, da un lato, la creazione è la comunicazione ad extra del Dio
Trinitario, dall'altro non si può distinguere tra gloria di Dio ed essere degli uomini. In questa
prospettiva l'espressione “gloria di Dio” assume una più precisa dimensione cristologica ed
escatologica, nell'ambito di una considerazione più comprensiva della creazione-evoluzione.
La gloria di Dio, considerata nella sua azione creatrice, coincide con l'attuazione - compimento
escatologico - della libertà umana.
L'uomo come libertà200
Il tema dell'uomo come libertà costituisce il risvolto antropologico di una corretta
riflessione sulla creazione, intesa come luogo concreto dell'esercizio delle libere possibilità
dell'uomo. La nozione di “libertà” non è ricavata dalla cultura, ma è nozione teologica, in
quanto ricavata dalla Rivelazione, che presentando l'azione creatrice di Dio la spiega come
intenzionata a suscitare l'uomo quale altro-da-sé, col quale fare alleanza - entrare in comunione
- in Gesù Cristo. Il tema dell'uomo come libertà sta a indicare quindi «ciò che nell'uomo
corrisponde alla grazia come condizione del suo attuarsi»201.
La riflessione biblica 202
Nel tracciare un'antropologia biblica non basta far riferimento solo all'analisi delle
componenti antropologiche, come emergono dal testo biblico203, ma bisogna porre in
evidenza lo sfondo su cui s'innesta la stessa riflessione biblica sull'uomo.
Nell'indagine dell'antropologia proposta dall'AT204 non va dimenticato quanto è già
stato rilevato parlando della creazione, che cioè Israele condivide molti elementi antropologici
con la cultura ambiente205 e che tali elementi sono sottoposti dalla fede d'Israele a un lento
processo di rielaborazione critica.
199
Cfr M. FLICK- Z. ALSZEGHY, “Gloria Dei”, “Gregorianum” 36 (1951) 361-390; la voce Gloria nei
Dizionari biblici, in particolare Doxa (G. Kittel), GLNT II, 1348-1398.
200
Cfr F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit, 307-360.
201
G. COLZANI, Antropologia teologica, 291.
202
Cfr C. WESTERMANN, Adam, DTAT I, 36-49; J. KÜHLEWEIN, 'Is, DTAT I, 113-121; G. BARBAGLIO, Uomo, NDTB, 1590-1609.
203
Come fa W. WOLFF nella sua opera, pur pregevole, Antropologia dell'AT, Queriniana, Brescia 1975.
204
M. PRIOTTO, Il cosmo e l'uomo nell'Antico Testamento, DSBP 10, 17-70.
205
Cfr J.W. ROGERSON, Antropologia e AT, Piemme, Casale M. 1984; G. GARBINI, Concezione
antropologica nelle culture extra-bibliche, in G. DE GENNARO (a cura di), L'antropologia biblica, op cit, 389416.
Antropologia Teologica 2009-2010
65.
Sembra di poter affermare che il momento genetico (lo sfondo) della riflessione antropologica è costituito dal racconto delle varie vocazioni: le teofanie patriarcali con
l'imposizione del nome e la presentazione della missione; la teofania del roveto e la chiamata di
Mosè; l'elezione dei Giudici; l'azione della parola di Jahwè sui profeti... L'antropologia biblica
quindi «nasce come antropologia della vocazione e della missione, nel senso che l'esperienza
particolare dell'incontro con Jahwè diventa il paradigma di una riflessione antropologica più
universale» (F. Brambilla).
Alcuni esegeti evidenziano due schemi di vocazione (vocazione dove predomina la parola e l'obiezione dell'interpellato; vocazione come risposta a una visione del consiglio divino);
altri riportano i racconti di vocazione a un medesimo genere letterario. Il racconto di
vocazione evidenzia la scelta divina, non originata dalle qualità dell'uomo e che inizia una
storia di missione e, di fronte all'iniziativa di Dio, la libertà dell'interpellato, che conserva i
propri tratti, segnalati da dubbio, paura, obiezione, richiesta di chiarimenti. Il riferimento
culturale è rappresentato dalle cancellerie del mondo orientale, dai rapporti tra il capo di stato
e i suoi ministri, dove emergono rapporti fatti di discussioni, tattiche non riconducibili a un
semplice ordine. Analogo il discorso per quanto riguarda il rapporto maestro-discepolo.
Da questa storia singolare la prospettiva si amplia fino a considerare il senso di ogni vita
umana. L'esperienza dei grandi personaggi aiuta a capire il significato religioso della esistenza
umana, aperta a Dio, oggetto di una sua azione particolare. Sta qui l'intuizione fondamentale,
che rappresenta il risvolto antropologico dell'esperienza profetica: l'uomo è oggetto della
benevolenza divina, chiamato a entrare nel popolo dell'alleanza, in un singolare rapporto con
Jahwè, il quale lo costituisce suo partner, per il servizio cultuale e legale. L'intuizione è
sviluppata in Gn 2,7ss (J), databile nel periodo profetico pre-esilico e in Gn 1,26-27 (P),
elaborato dalle correnti sacerdotali postesiliche.
Gn 2,4b-25206
Il testo, proprio della tradizione J, precede quello sulla creazione del mondo di Gn 1. Lo
scrittore jahvista reinterpreta all'interno della fede d'Israele i motivi preesistenti delle culture
antiche (la plasmazione dell'uomo con la creta, l'insufflazione vitale, il motivo del lavoro, la
creazione della donna). Gn 2 non va separato da Gn 3 con il quale compone un'unità
narrativa, che consente di cogliere il messaggio biblico complessivo: «l'uomo è stato creato
“perfetto”, buono da Dio; ma dall'essere dell'uomo fa parte indissociabilmente la caduta; egli è
tale che può ribellarsi al creatore e disobbedirgli»207. La prospettiva del testo è antropocentrica
e presenta tutto dal punto di vista della creazione dell'uomo. Alcuni aspetti fondamentali:
* vv 4-9: la creazione dell'uomo dalla terra. Costituisce la prospettiva di tutto il
racconto, tanto che la creazione pare iniziare con l'insufflazione dell'alito vitale nel pupazzo di
terra da parte di Dio. L'assenza di vegetazione è spiegata con la mancanza della pioggia, dono
di Dio (contro i culti cananaici della fertilità), e col fatto che l'uomo non ha ancora iniziato il
lavoro (identificato soprattutto nei canali d'irrigazione). In tale sfondo è introdotto l'uomo, in
stretta relazione con la terra ('adam/ 'adamá), termine che dice l'intera umanità). Il lavoro, a
differenza dei racconti accadici, non è ritenuto realtà secondaria o sostitutiva del lavoro degli
dei stanchi, ma originario, insostituibile, compito dell'uomo (la presenza della fatica sarà
spiegata successivamente).
Il modo di presentare la creazione dell'uomo fa riferimento al motivo della creazione
mediante la plasmazione («plasmò l'uomo con polvere del suolo») e la successiva insufflazione
da parte di Dio («soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente»).
206
207
Cfr A. WENIN, Da Adamo ad Abramo, 35-61.
C. WESTERMAN, Creazione, 122.
Antropologia Teologica 2009-2010
66.
L'uomo è costituito da “polvere” e “soffio”. “Polvere” ('apar) è termine diverso da “terra”
('adamá). Anche se il nome della creatura di Dio - Adamo - allude alla terra, si precisa che essa
è fatta di polvere, per sottolineare la sua inconsistenza. La possibilità per l'uomo di avere
consistenza, di essere vivo viene da “altrove”, non da un'altra “parte” (l'anima), da una realtà
che resta stabilmente “altra” dall'uomo, il soffio di Jahvè. Solo questo soffio conferisce
all'uomo un “alito di vita” e solo in seguito a questo soffio l'uomo diventa “essere vivente”.
Le due azioni non vanno intese come momenti successivi dell'atto complessivo della
creazione dell'uomo, ma come modi per indicare la stessa azione e presentare la radicale
dipendenza dell'uomo da Dio. Siamo di fronte a un riferimento demitologiz zante dei miti
egiziani e mesopotamici (Enuma Elis, Atrahasis), dove la creazione è presentata come impasto
di argilla e sangue del dio ucciso e si ritiene che l'uomo possiede il “respiro” di Dio, mentre nel
testo genesiaco l'uomo riceve un “alito di vita” da Dio.
Il tema della plasmazione dell'uomo, illustrata con il verbo (del vasaio) jasar ricorre spesso
nell'AT (Gb 4,19; 10,9; Sal 119,73; Is 29,16), con riferimenti anche alla storia d'Israele, in
quanto indica l'azione con cui Jahwè plasma il suo popolo (Is 43,1.7.21; 44, 2.24...).
Nella Scrittura l'uomo è presentato come basar (corpo)208, nefes (anima)209, ruah
(spirito)210. Lasciando al Corso di esegesi il compito d'illustrarne il significato, segnaliamo che i
termini non indicano le parti costitutive dell'uomo, ma l'uomo nella sua totalità, come esistente
perché creato da Dio. Il testo quindi non può essere citato a sostegno di una concezione
dicotomica o tricotomica dell'uomo. La dialettica tra polvere e alito di vita immesso nell'uomo
dice che questi si autocomprende grande e misero, aperto a Dio e segnato da radicale fragilità.
Brevemente il senso dei termini:
Nefés designa l'uomo come «il singolo essere vivente, il quale non ha ricevuto né può
mantenere da sé la vita stessa, ma che anzi del suo desiderio profondo di vita non ha risorse da
se stesso, come indica chiaramente il termine gola in quanto organo della recezione del
nutrimento e del respiro e il collo come parte del corpo particolarmente esposta al pericolo»211.
Basár «non significa soltanto la mancanza di forza della creatura mortale, bensì anche la
sua debolezza nella fedeltà e nell'obbedienza al volere di Dio»212.
Ruah «non si può capire l'uomo come ruah se non a partire dalla comunicazione di Dio con lui.
Resta da stabilire che ruah sta per vento e per forza di vita di Dio il doppio delle volte che per
respiro, stato d'animo e volontà dell'uomo. La maggior parte dei testi che trattano della ruah di
Dio e dell'uomo, mostrano Dio e uomo in relazione dinamica. Che un uomo, in quanto ruah,
sia vivo, voglia il bene ed operi con pieni poteri, ciò non viene da lui stesso»213.
* vv 8.15-24: l'uomo nelle sue relazioni. L'uomo è visto originariamente nelle sue
relazioni naturali e sociali. Oltre alla relazione fondamentale con Dio presentata nell'atto stesso
della creazione, il testo indica come appartenenti alla creazione dell'uomo la ricerca del suo
sostentamento (v 8), il compito di lavorare (v 15), il rapporto con l'altro (vv 18-24), il
linguaggio (vv 19.23), relazioni che articolano storicamente il rapporto fondamentale con il
Creatore.
* vv 8.15-17: il giardino e il compito di lavorare. Il giardino è il luogo dei due alberi e
del lavoro dell'uomo. L'albero richiama la tradizione sapienziale (Sir 24; Ez 17. 31; 47,12),
analogamente alla conoscenza del bene e del male (Sir 39,4; Lev 27; Dt 30, 15). Bene e male
sono un polarismo indicante la percezione etica della realtà, la cui determinazione definitiva
208
Cfr G. GERLEMAN, Basar, DTAT I, 26-329.
Cfr C. WESTERMANN, Næfæs, DTAT II, 66-89.
210
Cfr R. ALBERTZ-C. WESTERMANN, Ruah, DTAT II, 654-678.
211
H.W. WOLFF, Antropologia dell'AT, op cit, 38.
212
ID, 47.
213
ID, 57.
209
Antropologia Teologica 2009-2010
67.
spetta a Dio (1Re 3,9.12). Non pare quindi condivisibile l'interpretazione della conoscenza
come onniscienza o onnipotenza, vietata all'uomo perché esorbita dalla sua realtà creaturale,
che sarebbe accreditata di prerogative proprie solo della divinità214.
La seconda funzione del giardino: rappresentare l'ambito del lavoro dell'uomo. I verbi
“lavorare”, “custodire” (che richiamano il culto, l'alleanza), rimandano all'esperienza storica
d'Israele che è in rapporto con Dio. Il lavoro umano non è ritenuto quindi, come nei racconti
mesopotamici, una pena o una sostituzione degli dei affaticati né una prometeica concorrenza
all'opera di Dio, ma come custodia e servizio, che diventeranno pena e fatica solo in seguito al
rifiuto da parte dell'uomo del comandamento di Dio. La prima relazione con cui è pensato
l'uomo nel giardino è il rapporto con la natura e il mondo (cultura).
* vv 16-17: la risposta al comandamento. Nel giardino l'uomo è posto di fronte al
comandamento di Dio. Viene così istituita originariamente la dialettica dono di Dioimperativo etico: al dono del giardino e dei frutti (v 16) deve corrispondere l'impegno del
comandamento (v 17). Se non vogliamo leggere superficialmente il testo (interpretando magari
il comando di Dio in concorrenza con la libertà umana) dobbiamo tener presente la
prospettiva eziologica, che legge la situazione storica dell'uomo come connotata dal comandamento nella sua relazione a Dio.
La tradizione biblica presenta la relazione come un rapporto di comando/ risposta. Il
comando del v 17 («dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare...»)
aggiunge qualcosa al comando del v 15 (la coltivazione e la custodia del giardino),
approfondendo il rapporto tra Dio e l'uomo. In quanto è una nuova relazione, il
comandamento comporta un legarsi più profondamente a Dio, limita l'azione dell'uomo, in
quanto istituisce un legame che fa sporgere il desiderio, realizzandolo come libertà che si affida
al comandamento stesso di Dio.
In questa prospettiva la pena collegata al comandamento non autorizza la conclusione
che prima della trasgressione l'uomo sia immortale (siamo di fronte a un'eziologia che fa
riferimento ai testi legali, che prevedevano una pena di morte in presenza di una trasgressione).
La pena appare come una minaccia collegata al comandamento, senza però che sia attuata, in
quanto interviene un provvedimento di misericordia (3,21).
* vv 18-20: gli animali e l'aiuto dato all'uomo. L'affermazione «non è bene/ bello che
l'uomo sia solo» evidenzia che l'uomo si realizza solo in comunità. Il tentativo, non riuscito, di
trovare all'uomo «un aiuto a lui corrispondente» («un alleato alla sua altezza», J. Ska) permette
d'introdurre la creazione degli animali. Siamo di fronte ancora a una lettura eziologica, che
considera gli animali un aiuto, insufficiente però, all'uomo.
Il brano mostra una prospettiva antropocentrica. Gli animali sono considerati per quello
che rappresentano in rapporto all'uomo; collegati con la creazione dell'uomo, a differenza di
Gen 1, dove sono inseriti nel contesto della creazione del mondo. Per il testo biblico la specie
che entra in rapporto con l'uomo non è solo fissata da Dio, ma domanda il riconoscimento
esplicito dell'uomo, la sua libera decisione, espressi con l'imposizione del nome. Dare il nome
agli animali significa che l'uomo li associa al suo mondo, conferisce ordine. L'uomo, con il
linguaggio, rende il mondo umano, lo ordina. Emerge in tal modo la funzione del linguaggio,
che non è solo quella di dominare, ma anche di comprendere, organizzare, ordinare ed
interpretare mediante la parola.
* vv 21-24: la comunione di uomo e donna215. Al tentativo fallito di trovare un aiuto
adeguato all'uomo, che consente di spiegare eziologicamente il senso del mondo animale e di
214
Cfr A. SOGGIN, La creazione nel secondo capitolo della Genesi, AA.VV, Il cosmo nella Bibbia, op cit, 74s; ID,
Testi chiave per l'antropologia dell'AT: i testi della Genesi, in (a cura di) G. DE GENNARO, L'antropologia
biblica, op cit, 45-62.
Antropologia Teologica 2009-2010
68.
rimandare a un'altra e più profonda relazione, segue la creazione della donna. Il racconto
presenta forti tratti mitici, che illustrano simbolicamente il mistero della relazione uomodonna, la loro uguaglianza.
Il testo genesiaco presenta il culmine dell’azione creatrice di Dio, il quale, per
provvedere alla solitudine dell’uomo («ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile», v
20), crea la donna, dichiarando la propria intenzione: «Gli voglio fare un aiuto (‘ēzer) che gli sia
simile» (2,18). Il termine ebraico ‘ēzer indica un “aiuto” che permette di sfuggire ai pericoli
mortali, che minacciano l’esistenza dell’uomo (malattie, guerre, nemici…) e dai quali solo Dio
può liberare. Per l’uomo il pericolo mortale è costituito dalla “solitudine”, immagine del
deserto senza vita, perché fa vivere «come un relitto, lontano dal fiume della vita. Questa è, al
contrario, comunione e condivisione, fecondità e benedizione»216. La solitudine evoca morte,
perché la vita è tale solo quando è condivisa, trasmessa. Dio desidera offrire all’uomo la
pienezza della vita, per questo gli fa dono di un alleato alla sua altezza, una persona del suo
genere. Gli animali e le cose non possono essere un alleato di Adamo, perché in essi «non
trovò un aiuto che gli fosse simile» (v 20). Solo la donna riesce ad esserlo. Commenta un testo
biblico: «Chi si procura una donna fa il più bell’acquisto. Ella è un alleato (‘ēzer), una fortezza e
una colonna d’appoggio» (Sir 36,29). La donna, quindi, è della stessa “stoffa” dell’uomo, tanto
che Adamo riconosce con stupore, con un «esultante saluto di benvenuto» (Herder): «Essa è
carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (2,24).
Le altre creature sono tratte dalla terra, solo la donna è tratta dall’uomo. Per cui tra i due
si stabilisce un legame profondo, che li rende “una sola carne” 217, un essere solo, una realtà
unica. Per dar vita a questa relazione unica con la propria donna, l’uomo lascia suo padre e sua
madre, cioè passa dalla relazione filiale, che lo ha introdotto nella vita, a quella coniugale, nella
quale “aderisce” alla sua donna, relazione che lo accompagna durante la vita.
Il riferimento al “sonno” profondo - che ricorda il sonno di Abramo (Gn 15, 12), di
Elifaz (Gb 4,13), di Saul (1Sam 26,12) - indica simbolicamente l'ambito dell'azione divina che
l'uomo non è in grado di verificare mentre si compie. Adamo non può “vedere”, partecipare a
quanto Dio sta facendo, può solo ammirarlo come avvenimento compiuto. Proprio perché
non partecipa a “creare” la donna, ma la riceve da Dio e la ammira con stupore, Adamo non è
padrone della donna, non ne può disporre come sua proprietà.
Il motivo della creazione mediante l'estrazione della costola rimanda al pensiero mitico,
che evidenzia la relazione tra vita e costola.
Il brano si chiude con un rilievo eziologico («Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» v 24), che intende spiegare la
profonda attrazione dell'uomo verso la donna, la potenza dell'eros, del desiderio, considerati
come una meraviglia e un mistero connesso con la stessa benevolenza con cui Jahwè provvede
all'uomo. L'attrazione è di tale intensità e profondità che realizza l'unione globale delle due
persone («i due diverranno una carne sola»). Questo sta a significare che «l’uomo stabilisce un
rapporto più solido con la donna che ha scelto, di quello che egli per natura, per generazione,
intrattiene con il proprio padre e la propria madre. La nuova realtà costituita dalla coppia
genera un’appartenenza reciproca che trascende, in valore ed impegno, la stessa appartenenza
genetica e affettiva alla famiglia d’origine»218. L’uomo si lega in modo indissolubile con la sua
215
Cfr M. ADINOLFI, L'uomo e la donna in Gen 1-3, in (a cura di) G. DE GENNARO, L'antropologia biblica,
101-139; J. SKA, “Gli voglio fare un alleato che sia suo omologo” (Gn 2,18). A proposito del termine
‘Ezer – “Aiuto”, in ID., La Strada di casa, EDB, Bologna 2001, 131-140.
216
J. SKA, “Gli voglio fare un alleato che sia suo omologo” (Gn 2,18). A proposito del termine ‘Ezer - “Aiuto”, in
ID., La Strada di casa, op cit, 138.
217
Cfr M. GILBERT, Une seule chair, “Nouvelle Revue Théologique” (NRTh), 100 (1978) 66-89.
218
P.R. SCALABRINI, Da principio fu così… Antropologia e teologia della coppia in Genesi, in AA,VV., Maschio e
femmina li creò, Glossa, Milano 208, 138.
Antropologia Teologica 2009-2010
69.
donna, tanto da formare con lei una sola carne o, come direbbe Malachia, fino a costituire con
lei, per volontà divina, «un essere solo dotato di carne e soffio vitale» (Ml 2,15).
La sottolineatura della nudità e della non vergogna conferma questo messaggio. Il
simbolo ha riferimento sia con i popoli primitivi, che con l'esperienza dell'infanzia, cui si
aggiunge la valenza simbolica della nudità come piena intimità e comunione. Il tema quindi
non va considerato solo in termini sessuali, ma come possibilità di totale comunione tra
l'uomo e la donna.
Gn 1,26-27 (cfr Gn 5,1-3;9,6): l'uomo immagine di Dio
Il testo, proprio della tradizione P, ha un orientamento diverso da Gen 2; mentre in Gen
2 la sottolineatura è sul modo con cui avviene la creazione, qui si mette in rilievo piuttosto la
ragione della creazione dell'uomo, l'identità dell'uomo quale creatura di Dio, come il suo essere
creato rivela il senso della sua esistenza. L'uomo si trova in una posizione particolare: da una
parte è il vertice della creazione, in quanto creatura più alta; dall'altra però non è il vertice
dell'opera creatrice (è creato nel sesto giorno), ma rimanda alla pienezza del settimo giorno. La
creazione dell'uomo è narrata diversamente rispetto alle altre opere: non mediante lo schema
comando/esecuzione, ma con una decisione da parte di Dio («Facciamo l'uomo»). Alcuni
aspetti:
* v 26a: la decisione. Dice la singolarità dell'esistenza umana nel creato. Il discorso
inizia con un plurale, che ha registrato molteplici interpretazioni, tra le quali una pare
maggiormente accreditata: si tratta di un “plurale deliberativo” che esprime la decisione di
creare l'uomo (sull'esempio di espressioni quali: “andiamo, muoviti”). Esempi li troviamo in Is
6,8; 2Sam 24, 14; Gn 11,7-8, anche se non è da escludere un certo riferimento alla corte
celeste, soprattutto se il testo riporta una tradizione precedente a P.
Interessante l’interpretazione che propone A. Wenin219. La parola di Dio annuncia un duplice
progetto: fare l’uomo “a immagine” di Dio e “secondo la somiglianza” di Dio.
In ebraico i due termini: “immagine” (sèlèm) e “somiglianza” (demût) non sono sinonimi. Il
primo è un termine concreto che indica un’immagine plastica, in particolare una scultura. Fa
riferimento quindi a una rappresentazione, a un ritratto. Il secondo termine è astratto e indica
una “somiglianza” tra due realtà paragonabili per il loro aspetto oppure tra una copia e
l’originale .Nella esecuzione del progetto (v 27: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine
di Dio lo creò: maschio e femmina li creò») troviamo però il riferimento all’immagine e non
più alla somiglianza. Come spiegare questa assenza?
Dio crea l’uomo e lo associa al proprio operare (“Facciamo…”: facciamo insieme, io e te,
l’uomo, non uno senza l’altro). Sembra che Dio lasci l’uomo “incompleto”, per dargli la
possibilità di “farsi”, di compiersi nella libertà. Dio pone negli uomini la propria immagine, ma
saranno gli uomini a realizzare, raggiungere la somiglianza all’immagine deposta in loro,
addomesticando il loro essere maschio e femmina (che li accomuna agli animali). Il compito
quindi di maschi e di femmine è di diventare uomini e donne, di rendersi simili all’immagine
che portano in se stessi.
All’uomo - maschio e femmina - appena creato Dio rivolge la parola di benedizione con
la quale indica « una via per elaborare la propria incompiutezza, in modo da compiersi a
immagine del Creatore»220. Una parola che indica un compito, traccia un percorso. È
ascoltando questa parola, che l’uomo si realizzerà come immagine e somiglianza del Dio che lo
ha creato.
219
220
A. WENIN, Da Adamo ad Abramo, op cit, 27-34
ID, 29.
Antropologia Teologica 2009-2010
70.
* vv 26a-27a: essere immagine di Dio. Non si tratta di un'affermazione sull'uomo, ma
sulla creazione dell'uomo, per dire che si può comprendere l'uomo in relazione al suo essere
creatura. Il primo termine (selem) indica la statua, la rappresentazione plastica, comprese le
statue degli idoli (1Sam 6,5; 2Re 11,18; 2Cr 23,17, per gli idoli Ez 7, 20; Am 5,26; Nm 33,52);
il secondo (demût) significa essere simile. I due termini sinonimi intendono indicare una certa
"similitudine" tra Dio e l'uomo.
La storia delle interpretazioni rivela lo sforzo, quasi generale, d'identificare il contenuto
dell'immagine nell'uomo o in una componente dell'uomo. C. Westermann non condivide
questa interpretazione:
«Che cosa s'intenda dire va ricavato dall'evento della creazione: ciò che Dio decide di creare deve
avere una relazione con Lui. La creazione dell'uomo a immagine di Dio ha di mira un evento tra
Dio e l'uomo. Il Creatore crea una creatura che gli è conforme, alla quale possa parlare e che lo
possa ascoltare. Si noti quindi che l' “uomo” in questo racconto della creazione è un termine
collettivo; nella creazione a immagine di Dio pensa innanzitutto non a un individuo esistente per
sé, bensì alla umanità, al genere umano. Di esso viene detto che è creato affinché accada
qualcosa tra Dio e l'uomo: l'umanità è creata come partner (...) di Dio»221.
Gen 1,26ss non illustra quindi una qualche dimensione dell'essere umano, ma la sua
dimensione costitutiva, che può essere articolata in vari elementi: Dio crea un 'tu' che possa
rispondergli, una creatura libera che sia il suo interlocutore. Tale lettura fonda la possibilità
della storia della salvezza e consente l'apertura cristologica del concetto antropologico: il senso
della creazione sta nelle possibilità date alla libertà umana, disponibili a ulteriori determinazioni
nel dialogo storico-salvifico.
«Dio ha creato l'uomo capace di stare in rapporto con lui, cosicché l'uomo può parlare a Dio,
può udire la sua voce. Qui dunque sta lo scopo della creazione: Dio ha creato l'uomo a sua
immagine affinché la corrente della vita scorresse ora nell'incontro di Dio-uomo, negli
avvenimenti che si verificano tra Dio e l'uomo, attraverso i quali, senza che noi per il momento
lo possiamo riconoscere, Dio conduce alla meta l'intera creazione... Questa affermazione
sull'uomo significa: l'uomo può conservare la sua umanità solo al cospetto di Dio; l'uomo
staccato da Dio ha perduto non solo Dio, ma anche il senso del suo essere-uomo»222.
Il fatto che la qualifica si riferisca all'essere dell'uomo in quanto tale consente anche
un'affermazione antropologicamente universale: ogni uomo è creatura di Dio, partner del
dialogo con lui. La relazione con Dio è costitutiva del suo essere storico. In definitiva
l'immagine appare come «la cifra antropologica di una tensione incolmabile che, modellando
l'uomo su Dio, fa di Dio non una potenza rassicurante e stabilizzatrice ma la forza che orienta
ad un rischioso cammino di libertà verso la comunione con lui»223.
* v 27: “uomo e donna li creò”. L'affermazione evidenzia che la vera umanità sta nella
relazione bipolare di uomo-donna, facendo emergere, con essenzialità e profondità, il
significato della relazione sessuale. Abbiamo qui un'allusione al senso della dialettica sessuale,
che appartiene alla realizzazione dell'umanità ed esclude ogni discriminazione, pena
l'impoverimento dell'umanità dell'uomo e della donna.
221
222
C. WESTERMANN, Creazione, 99.
ID, Il racconto della creazione all'inizio della Bibbia, in N. NEGRETTI, Gli inizi della storia della salvezza,
Marietti, Torino 1974, 79.
G. COLZANI, Antropologia, 45.
223
Antropologia Teologica 2009-2010
71.
* vv 26b.28-29: la benedizione e il comando224. Il rapporto tra Dio e l'uomo si svolge
con la consegna di compiti storici, svolgendo i quali l'uomo realizza se stesso. La decisione di
Dio di affidare all'uomo dei compiti indica come «paradossalmente l'azione creatrice di Dio
prende la forma di un rischio dove la sua divina libertà promuove l'esistenza di un altro,
umano, a cui confida qualcosa di sé. La libertà di Dio è lo spazio della concreta libertà umana e
della sua direzione»225.
La benedizione di Dio, espressa con un imperativo («Siate fecondi, moltiplicatevi...», v 28a), è
intesa come forza procreatrice che si esprime non solo nella capacità di generare, ma nel
processo che va dalla nascita alla crescita. La benedizione vincola in tal modo l'uomo al
contesto naturale con cui appare solidale. In questa prospettiva la forza della fecondità risulta
sdivinizzata, non appare più come conquista magica dell'uomo, ma è inserita nella benedizione
genesiaca. Solo Jahwè è il Signore della vita, della fecondità.
Il comando circa il dominio da esercitare sulla terra («soggiogatela e dominate...», v
28b=26b) è una novità assoluta e definisce la qualità dell'intervento dell'uomo sulla natura. Se
confrontiamo il testo della Genesi con i racconti mesopotamici emerge una diversa finalità
della creazione: se in questi l'uomo è creato per il servizio agli dei o per sostituirli nella fatica
del lavoro, nel nostro testo l'uomo è creato per l'attività civilizzatrice, è visto nell'orizzonte
della storia umana. Due i contesti di riferimento che consentono di comprendere la modalità
con cui l'uomo esercita il proprio dominio.
Il primo proviene dall'ambito del dominio regale (1Re 5,4; Sal 110,2; Is 14,6; Nm 24,19;
Ez 34,4): il re, oltre che rappresentare il popolo, la terra come personalità corporativa, è pure
mediatore della benedizione per il suo regno e il suo popolo. Il testo, presentando l'uomo
come re del creato, fa riferimento al compito regale di assicurare pace, benessere, di mediare la
benedizione divina, di conservare la salute del mondo affidatogli. Il testo genesiaco fornisce
così il criterio del progresso della scienza e della tecnica.
Il secondo contesto rimanda a un motivo presente nei racconti della creazione: l'uomo
acquista il suo posto nel mondo esercitando il dominio sugli animali, dominio che sfocia nella
possibilità di una pacifica convivenza, collaborazione. In tal modo è forse detto implicitamente
che l'uomo non è creato per dominare sull'uomo.
Concludendo, il dominio sulla terra appare un aspetto della benedizione di Dio alle creature,
anzi il modo con cui l'uomo diventa mediatore e mandatario della benedizione nello spazio
mondano.
L'uomo nella riflessione sapienziale
I salmi 8 e 104 sono testi per alcuni aspetti paralleli rispettivamente a Gn 1 e Gn 2. Il
salmo 8226, sullo sfondo della lode del creato a Dio Creatore, espone in versione poetica
quanto è detto in Gn 1,2bss. Il movimento del salmo: dal cosmo all'uomo (vv 2-5) e dall'uomo
al cosmo (vv 6-9). L'uomo, pur nella sua fragilità, sta al centro, domina sul creato, quale
destinatario della particolare azione di Dio, espressa nel salmo con due verbi significativi nella
rivelazione biblica: zakar (ricordare) e paqad (visitare, provvedere). «Il primo indica qualcosa di
più reale del nostro semplice 'ricordare', indica l'azione efficace di Dio che dona la vita,
l'esistenza, che dà all'uomo la capacità di essere la sua immagine, signore e padrone dell'intera
224
B. COSTACURTA, Benedizione e creazione in Gen 1,1-2,4a, in PSV 21, 23-34.
ID, 46.
226
Cfr A. SOGGIN, Alcuni testi-chiave per l'antropologia dell'AT, in G. DE GENNARO (a cura di),
L'antropologia biblica, 223-243; G. RAVASI, I Salmi I, EDB, Bologna 1981, 177-203; L. A. SCHÖKEL,
Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, 61-78; F. FESTORAZZI, Che cos'è l'uomo perché te ne
ricordi?... (Sal 8, 5). Riflessioni di antropologia biblica, AA.VV, Studi in onore di S. Cipriani, Paideia, Brescia
1982, 130-143; R. VIGNOLO, Sillabe preziose, Vita e Pensiero, Milano 1997, 21-75.
225
Antropologia Teologica 2009-2010
72.
creazione. Il secondo termine mostra l'interesse, la cura che Dio ha per l'uomo, la sua
partecipazione al destino dell'uomo»227.
Gli altri 4 verbi sono come i momenti del cerimoniale di un rito d'investitura: prima il posto
assegnato nell'ordine degli esseri (6a), quindi “l'incoronazione” (6b), con la quale è costituito
“capo” (7a) e per questo uno sgabello è «posto sotto i suoi piedi» (7b). L'uomo nel cosmo
esercita un potere ricevuto, occupa un posto che gli è stato assegnato.
Le parole del salmo 104, 29-30 («Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il
respiro, muoiono e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati e rinnovi la faccia
della terra») illustrano la qualità del rapporto tra Jahvè e la sua creatura a procedere dal
momento stesso della creazione. Dio ha messo il suo alito di vita nelle narici dell'uomo, che
resta vivo per un soffio, a condizione che cerchi quel soffio, che aspiri il respiro di Dio. Perché
l'uomo possa vivere, perché tutta la terra possa vivere, è necessario che sempre da capo Dio
mandi il suo spirito.
Nella letteratura sapienziale scegliamo il libro della Sapienza228. Osserviamo
l'antropologia del libro nei tre momenti della sua articolazione. La Ia parte tratta dell'uomo di
fede, che deve risolvere le obiezioni sulla sorte del giusto, data l'apparente contraddizione della
sua vita. L'autore presenta tre paradossi: il giusto sofferente, la sterilità, la morte prematura;
sostiene che Dio crea l'uomo per la vita, non vuole la sua morte, perché, creandolo a propria
immagine, l'ha fatto incorruttibile (2,23). Nella IIa e IIIa parte è svolta la riflessione
antropologica con l'elogio della sapienza e delle sue opere nella storia salvifica. L'uomo è
presentato come creato dalla sapienza di Dio (9,1-2), chiamato a una vocazione, che rinvia alla
Genesi: Dio vuole che l'uomo governi il mondo “con santità e giustizia”. L'ideale dell'uomo
secondo il libro della Sapienza presenta la vocazione dell'uomo, che si deve modellare sulla sapienza, l'immagine perfetta di Dio.
La riflessione biblica approda così al NT, dove i testi della sapienza e dell'immagine sono
riferiti a Gesù, realizzazione perfetta dell'uomo aperto a Dio, obbediente a lui.
Nel NT229 l'immagine dell'uomo offerta dai Sinottici è quella di colui che sta di fronte a
Dio, aperto, nella sua libertà, alla relazione con Lui. Più che descrivere le componenti
essenziali dell'uomo i Sinottici evidenziano la tensione cui queste componenti sono sottoposte,
per il fatto che sono in relazione con l'inesauribile creatività con la quale Dio compie la storia
salvifica:
- Dio è il Creatore, l'uomo creatura (Mt 6,25-32; 22,23-32).
- Dio è il Signore, l'uomo suo servitore (Mc 12,29-32; Mt 13,27ss; 18,24-45ss; 25, 14; Lc 12,
37).
- Dio è Padre, l'uomo suo figlio (Mt 18,3; 19,13-15: l'esemplarità del fanciullo, indicata da
Gesù, va interpretata non tanto come innocenza, ma come disponibilità filiale verso Dio; Mt
5,45-48: l'imitazione del Padre celeste).
I Sinottici sembrano indicare anche alcune componenti essenziali dell'uomo: corpo,
anima, cuore, non considerate come “parti” dell'uomo, ma come la totalità dell'uomo nel suo
rapportarsi a Dio.
- Il termine anima non indica la parte spirituale dell'uomo, in opposizione a quella materiale, il
corpo, ma l'uomo come essere vivente, di una vita che ha il proprio fondamento in Dio (Mc
8,35-37; Mt 10,39). Anche in Mt 10,28 («E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo,
227
228
M. CIMOSA, Temi di sapienza biblica, Devoniane, Roma 1989, 46.
Cfr M. GILBERT, L'antropologia del libro della Sapienza, in G. DE GENNARO (a cura di), L'antropologia
biblica, 245-275.
229
L. DI PINTO, L'uomo visto da Gesù di Nazareth, in G. DE GENNARO (a cura di), L'antropologia biblica,
593-644; G. SEGALLA, Quattro modelli dell' "uomo nuovo” nella letteratura neo-testamentaria, “Teologia” 18
(1993) 116-132; R. FABRIS, L'uomo nuovo nel Nuovo Testamento, AA.VV, Il credente nelle religioni ebraica,
mussulmana e cristiana, Jaca Book, Milano 1993, 148-158.
Antropologia Teologica 2009-2010
73.
ma non hanno potere di uccidere l'anima»), dove risulta più difficile interpretare “anima” in
senso di “vita”, il confronto non è tra corpo e anima, ma tra esistenza terrena e esistenza
presso Dio, in quanto qui “anima” pare debba essere inteso come vita dell'aldilà.
- Cuore significa la realtà personale dove l'uomo decide liberamente la propria posizione di
fronte a Dio (Mt 5,8.28; 6,21; 11,29; 13,15.19; 22,37; Mc 3, 5; 6,52; 7,21-23; 8, 17; 11,23; Lc
8,12; 21,34; 24,25).
La riflessione antropologica dell'apostolo Paolo230 può essere colta sinteticamente nel
tema dell'uomo immagine di Dio in Gesù Cristo.
+ Il senso del concetto biblico di “immagine”. Tre gli elementi costitutivi:
- Somiglianza nel senso di esatta riproduzione della realtà. In tal senso Paolo afferma che Cristo
è immagine di Dio (come nel linguaggio religioso del tempo la statua dell'imperatore o del dio
godeva degli stessi onori riservati all'imperatore, al dio).
- Dipendenza e origine. In questa direzione sembra muoversi l'apostolo quando parla della donna
immagine dell'uomo, nel tentativo di disciplinare il comportamento di entrambi nelle
assemblee liturgiche (1Cor 11,8), anche se il contesto non autorizza a concludere a una
umiliante dipendenza della donna nei confronti dell'uomo. Anche nell'uso dell'immagine di
Dio come vasaio dell'uomo (Rm 9,20) il senso è quello della dipendenza dell'uomo da Dio,
dalla sua volontà misericordiosa.
- Manifestazione. L'immagine riproduce il modello e lo manifesta, nel senso che l'immagine è la
realtà in quanto si manifesta. Secondo questo significato Paolo parla di Cristo immagine del
Dio invisibile (2Cor 4,4; Col 1,15). Anche i cristiani sono chiamati immagine di Cristo, nel
senso che manifestano la sua gloria (2Cor 3, 18).
+ Sviluppo del tema dell'immagine di Dio. I testi: 1Cor 15,47-49; 11,7; Rm 8,29; 2Cor 3,18-4,
4; Col 3,10 (i testi sono citati secondo il loro probabile ordine cronologico).
Le fasi della riflessione paolina:
* Paolo collega la risurrezione di Cristo con la nostra risurrezione, utilizzando il tema
dell'immagine: «E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo della terra, così porteremo
l'immagine dell'uomo celeste» (1Cor 15,49).
* Successivamente fa coincidere l'essere immagine di Cristo con la vita secondo lo Spirito sorta
dal battesimo (Rm 8,29 con Rm 6). Emerge una novità: portare l'immagine dell'ultimo Adamo
significa essere costituiti figli di Dio dallo Spirito.
* La terza fase registra l'approdo alla contemplazione del mistero di Dio - il piano salvifico - di
cui Gesù è il centro, con la sua opera e il suo essere. In questo contesto, marca- tamente
cristologico, il tema dell'immagine di Dio assume un'accentuazione più cristologica (2 Cor
3,18; Col 3,10).
+ Paolo descrive l'uomo come immagine di Dio con un ricco vocabolario antropologico:
corpo, carne, psyche, pneuma, cuore... Il significato dei vocaboli è mobile e va identificato
caso per caso. Per la loro comprensione bisogna tener presente che l'apostolo non si muove
nella direzione di una metafisica antropologica, dove tali termini dicono i costitutivi della
natura umana, ma presenta la situazione religiosa dell'uomo. Per cui “carne” dice l'uomo
chiuso in se stesso; mentre “spirito” dice l'uomo, che, docile all'azione dello Spirito di Gesù,
aderisce al piano salvifico di Dio.
In Giovanni231 l'immagine dell'uomo è ricavata da quella di Cristo. Gesù, Figlio
dipendente dal Padre (cfr il tema dei rapporti Gesù-Padre) è l'Adamo vero, che rappresenta
230
G. SEGALLA, Quattro modelli di "uomo nuovo" nella letteratura neotestamentaria, art cit, 132-150; R. FABRIS, L'uomo nuovo nel Nuovo Testamento, op cit, 159-183; S. LYONNET, L'antropologia di S. Paolo, in G.
DE GENNARO (a cura di), L'antropologia biblica, 753-787.
Antropologia Teologica 2009-2010
74.
Dio: Gv 19,5 (Pilato, presentando Gesù alla folla, dichiara: «Ecco l'uomo»); Gv 19, 34 (dal fianco
aperto di Gesù sgorgano i segni che generano l'umanità nuova [l'acqua e il sangue significano i
sacramenti] con allusione a Gen 2 [il fianco di Adamo da cui nasce Eva]); Gv 20,22 (Cristo
alita lo Spirito sui discepoli con allusione a Gen 2, dove la creazione del primo uomo è
descritta come un'insufflazione). Gesù è il nuovo Adamo, non solo perché realizza in modo
singolare la caratteristica fondamentale dell'uomo (essere immagine di Dio), ma anche perché è
il capostipite dell'umanità nuova che nasce dalla sua Pasqua (Gv 12,32: Gesù, elevato sulla
croce, attira a sé gli uomini).
Il rapporto cristologia-antropologia è, secondo alcuni esegeti, al centro del Prologo: la
sua struttura letteraria ha il proprio centro nel tema della libertà dell'uomo che rifiuta il Logos
(vv 10-11) o l'accoglie (vv 12-13). Chi lo accoglie diventa libero, cioè figlio di Dio, come il
Logos.
In sintesi, l'antropologia giovannea risulta storico-esistenziale, perché presenta l'uomo
libero costruttore di un destino religioso (essere immagine di Dio), che ha in Cristo la
rappresentazione secondo verità. Nella direzione di questa libertà, che può aprirsi o sottrarsi a
Dio, vanno lette le nozioni di “spirito” e “carne” (Gv 3,6; 6,63).
La Tradizione
L'epoca Patristica232
L'antropologia patristica si costituisce progressivamente in riferimento alle critiche della
fede cristiana nei confronti del platonismo e del manicheismo. La critica al platonismo fa
acquisire il carattere creaturale dell'anima (l'anima è creata da Dio, per cui non è divina, ma
diversa e dipendente da Dio); la critica al manicheismo mette in risalto il valore positivo del
corpo (il corpo, creato da Dio, non deriva da un principio malvagio, ma è buono in se stesso).
La dignità del corpo umano: Ireneo e Tertulliano233
Ireneo considera l'uomo a partire dal disegno salvifico di Dio: l'uomo è modellato da
Dio secondo il modello di Gesù, il Figlio, immagine perfetta del Padre e parte, per la sua
incarnazione, della storia umana. In Ireneo è presente la distinzione tra immagine di Dio e
somiglianza: la prima, conferita nel momento della creazione, appartiene alla costituzione
dell'uomo; la seconda indica il progressivo assimilarsi a Dio. L'uomo perde questa somiglianza
con il peccato. Il Figlio di Dio gliela restituisce incarnandosi. Anche in Tertulliano
l'antropologia è inseparabile dalla cristologia: essere uomo è essere immagine di Gesù, l'uomo
vero. L'uomo è prima di tutto corpo nel quale Dio infonde l'anima col proprio soffio. Questo
corpo, che diventa “corpo animale” ricevendo l'anima, si convertirà, col dono dello Spirito, in
“corpo spirituale”.
La linea di pensiero che sottolinea l'unità dell'uomo e il valore del corpo cederà il passo a
un'antropologia più vicina alla concezione greca dell'uomo come composto di anima e corpo e
che identifica nell'anima l'immagine di Dio.
231
G. SEGALLA, Quattro modelli di "uomo nuovo" nella letteratura neotestamentaria, art cit, 150-160; R. FABRIS, L'uomo nuovo nel Nuovo Testamento, op cit, 183-191; B. PRETE, Dati e caratteristiche dell'antropologia
giovannea, in G. DE GENNARO (a cura di), L'antropologia biblica, 817-870.
232
Cfr V. GROSSI, Lineamenti di antropologia patristica, Roma 1983, 11-78; J. DANIELOU, Messaggio
evangelico e cultura ellenistica, il Mulino-Dehoniane, Bologna 1975, 453-497; A. HAMMAN, L'homme image de
Dieu. Essai d'une antropologie chrétienne dans l'Église des cinq premiers siècles, Desclée, Paris 1987; L. LADARIA,
L'uomo creato a immagine di Dio, AA.VV, Storia dei dogmi II, 81-103.
233
Cfr Y. DE ANDA, Homo vivens. Incorruptibilité et divinisation de l'homme selon Irénée de Lyon, Etudes
Augustiniennes, Paris 1986, A. SOLIGNAC, Image et ressemblence, DSp VII/2, coll 1406-1425; E.
PERETTO, Elementi di antropologia del II secolo: conflitto tra ortodossia eosticismo sull'origine e la libertà dell'uomo,
in G. DE GENNARO (a cura di), L'antropologia biblica, 309-364.
Antropologia Teologica 2009-2010
75.
Il primato dell'anima: Origene234
Il pensiero origeniano sulla natura e la storia dell'uomo, espresso in forma sistematica
nel De Principiis, può essere sintetizzato in questa affermazione: gli uomini costituiscono una
parte del mondo spirituale decaduto nel mondo dei corpi e chiamato a essere reintegrato nel
suo stato originale.
Origene sostiene l’uguaglianza anteriore degli spiriti rispetto all'esistenza del mondo.
L'affermazione gli consente di mantenere la giustizia di Dio e la libertà dell'uomo, nel senso
che ogni differenza nel mondo è da addebitare ai meriti e ai demeriti anteriori.
«Dio, quando all'inizio ha creato quello che lui voleva creare, cioè le nature dotate di ragione,
non ha avuto altra ragione di crearle lui stesso, cioè la sua stessa bontà. Siccome è Lui stesso la
causa di ciò che doveva essere creato e siccome in Lui non c'è alcuna differenza o varietà, né
cambiamento, né impossibilità, egli ha creato tutti quelli che ha creato tutti uguali e simili» (Princ.,
II,9,6)235.
Quindi, gli spiriti creati originariamente sono uguali e, nello stesso tempo, liberi, dotati cioè
della facoltà del libero arbitrio. E' Dio che concede loro un movimento libero col quale
possono conseguire il bene o distogliersi da esso. Il progresso nella libertà verso l'acquisizione
del bene è a tal punto costitutivo dell'anima che prosegue nella vita eterna (I,3,8). La diversità
delle nature libere è data dalla diversità delle opzioni, dal grado più o meno intenso di
negligenza verso il bene che provoca la caduta nel male. Negligenza che riguarda la totalità
delle creature spirituali a eccezione dell'anima preesistente di Cristo. Si costituiscono così tre
categorie principali corrispondenti alla divisione paolina:
- I celestia, angeli e astri, associati da Dio nella sua opera di governo e di aiuto alle creature
inferiori.
- I terrestria, gli uomini, che,aiutati, possono ritornare alla beatitudine;
- Gli angeli cattivi, che almeno in questo mondo non possono essere guariti e che tentano gli
uomini.
Le tre categorie non sono fisse: è possibile elevarsi nella categoria superiore o cadere in
quella inferiore, sempre per il principio essenziale del libero arbitrio. Che rapporto esiste tra la
caduta dei “logica” e il mondo dei corpi? Premesso che tutti gli spiriti originariamente sono
completamente incorporali, Origene afferma che essi si rivestono tutti di corpi in seguito alla
loro caduta, precisando però che la corporeità non è cattiva. Il nostro autore non ha mai
condannato il corpo. Questo è un punto capitale che si impone nel difendere l'Incarnazione
contro le obiezioni dei platonici. Per Origene il male è solo nella volontà, non nei corpi,
perché questi non sono legati al male, bensì alla diversità. Diversi sono dunque i corpi in
proporzione della caduta, e se sono da ritenere allora come un castigo, bisogna tenere presente
che il castigo è un mezzo per rialzarsi.
Il fatto che la corporeità è considerata una conseguenza della caduta impedisce a
Origene di riconoscere in essa l'immagine di Dio, che viene circoscritta nell'anima superiore.
Inoltre essa un giorno dovrà cessare, e l'apocatastasi rappresenterà un ritorno alla pura
spiritualità. In questa prospettiva la resurrezione non è affatto negata, ma costituisce solo una
tappa nella via del ritorno alla spiritualità: il corpo glorioso è un grado intermedio tra il corpo
terrestre e il puro spirito (I,4,1).
Chiarita l'origine del cosmo e della diversità, superato il problema posto dalla gnosi circa
la corporeità, appare come il mondo con la sua varietà di esseri, con la materia, non è un
ordine cattivo, opera di un demiurgo, ma un ordine organizzato da Dio a partire dalla realtà
del peccato in vista della restaurazione delle creature spirituali nella loro integrità, grazie alla
234
Cfr H. CROUZEL, Théologie de l'image de Dieu chez Origène, Paris 1956; J. DANIELOU, Messaggio
evangelico e cultura ellenistica, op cit, 486-497.
235
Cfr J. DANIELOU, Origène, Beauchesne, Paris 1950, 207-217.
Antropologia Teologica 2009-2010
76.
potenza e al Logos di Dio (II,1,2). Il cosmo risulta così un grande vivente organizzato da Dio
in vista della restaurazione delle libertà per l'accordo delle diverse creature. Il principio che
comanda la disposizione del cosmo è la volontà di Dio di riportare le creature spirituali libere a
lui. Per questo Egli disporrà ogni cosa in vista di questo risultato, secondo una saggia
pedagogia, usando i mezzi più adatti e le vie più profonde. La storia della salvezza si presenta
come la progressiva restaurazione della creazione originale nel suo stato primitivo.
La consumazione delle cose avrà luogo quando tutto sarà sottomesso al Figlio
(attraverso la sottomissione al Cristo e l'unità nello Spirito) (I,6,2). La restaurazione
(apocatastasi) si estende alla totalità delle creature spirituali. Tutte infatti sono decadute dalla
condizione originaria e devono essere ristabilite in questa condizione. La Redenzione riguarda
dunque non solo gli uomini, ma gli angeli, i corpi celesti e anche i demoni.
Il sistema di Origene ha un termine o è strutturato come un perenne ritorno ciclico?
Alcuni testi infatti sembrano affermare che le creature spirituali restano sempre libere e,
comportando la libertà una mutevolezza, delle ricadute sarebbero sempre possibili. Questo è il
punto criticato da Gregorio di Nissa, che lo ricollega alla metempsicosi236 platonica. D'altra
parte, secondo Origene, il peccato è apparso nel tempo e questo sembra un aspetto essenziale:
solo il bene infatti è eterno. In ogni caso non sembra che Origene sia riuscito a superare la
contraddizione tra il ritorno eterno e l'apocatastasi universale, punti questi che gli sono
entrambi rimproverati.
Agostino237
- L'uomo composto di anima e di corpo
Per Agostino l'uomo è un composto di due elementi: l'anima e il corpo, entrambi
necessari, anche se all'anima va riconosciuto un primato:
«Perché l'uomo non è soltanto corpo o soltanto anima, ma è composto di anima e di corpo. Ma
certo che l'anima non è tutto l'uomo, ma la sua parte migliore; e neanche il corpo è tutto l'uomo
intero, ma la sua parte inferiore. L'una e l'altra uniti hanno l'appellativo di uomo»238.
Agostino accentua sia l'unità dei componenti che la grande differenza esistente tra essi,
escludendo però ogni forma di dualismo. Il corpo è buono perché creato da Dio e per questo
può gustare pienamente la gioia eterna di Dio. L'anima è creata, quindi non è divina e non
preesiste al corpo.
In Agostino fa problema il modo di pensare l'unione dei due elementi. I testi agostiniani infatti
sembrano suggerire due concezioni diverse: quella platonica dell'unione accidentale e quella
orientata verso l'aristotelismo, dell'unione sostanziale.
Per la prima ci sono i testi che definiscono il corpo non la “prigione” (il superamento
critico del manicheismo allontana Agostino sia da Mani che da Platone) ma la “dimora”
dell'anima; i testi che riconoscono al corpo una funzione strumentale: è qualificato come
“servitore”; infine la definizione dell'uomo come “un'anima razionale che si serve di un corpo
mortale e terrestre” (De moribus Eccl. I,52 (PL 32,1332); De quanti. animae 22 (PL 32,1047).
Per la seconda, i testi, che si distendono in tutta la sua opera, dove Agostino afferma
l'appartenenza del corpo alla natura umana e fa propria la definizione di Plotino, secondo cui
236
La dottrina che indica la trasmigrazione dell'anima in vari corpi, quindi la sua “rinascita” in differenti
forme di viventi.
237
Cfr C. COUTURIER, La structure mètaphisique de l'homme d'après saint Augustin, AA.VV, Augustinus
Magister, Ètudes Augustiniennes, Paris 1954, vol I, 543-550; cfr 127-137 (J. Dalmau); 451-462 (H.
Somers); 551-527 (R. Flórez); 596-602 (M. Nédocelle); vol III, 329-334 (G. Verbeke); 371-380 (E.
Fortin); E. FORTIN, Christianisme et culture philosphique au V siècle. La querelle del l'âme humaine en Occident,
Ètudes Augustiniennes, Paris 1959; Cfr P. AGAËSSE, L'antropologie chrétienne selon saint Augustin: Image,
Liberté, Péché et Grâce, Centre Sèvres, Paris 1986; V. GROSSI, L'antropologia agostiniana, DSBP 10, 190-216.
238
AGOSTINO, La città di Dio, XIII,24,2.
Antropologia Teologica 2009-2010
77.
“l'uomo è un animale ragionevole mortale” (De ordine, II,31 (PL 32,1009); De quanti. animae, 4749 (PL 32,1062.1063); De Trinitate VII, 7 (PL 42,939); ib., XV, II (PL 42,1065); De civitate Dei,
(PL 41,267), sullo sfondo della nozione agostiniana di essere creato.L'uomo, situato tra
l'angelo e l'animale, partecipa insieme al mondo degli spiriti e a quello dei corpi. È ciò che vuol
esprimere Agostino e, prima di lui, Plotino con la definizione dell'uomo come “animale
ragionevole mortale”. Dove: animale conviene a tutti (angeli, uomini, bestie), perché tutti
hanno un corpo (“sottile” quello degli angeli; “carnale”, pesante quello degli uomini e delle
bestie); mortale conviene all'uomo e alla bestia: ciò che caratterizza il loro corpo è la mortalità;
ragionevole distingue l'uomo dalle bestie. Tuttavia l'uomo, partecipe insieme del mondo degli
spiriti e del mondo dei corpi, non va pensato come uno “spirito” e un “corpo” che si
uniscono. L'unità è più profonda, perché l'uomo è un'unità. In questa unità costituita dal corpo
e dall'anima, il corpo e l'anima sono però di natura diversa. Come l'anima, anche il corpo è una
sostanza. La loro distinzione appare nel modo con cui Agostino concepisce l'origine
dell'anima. La questione è risolta in una prospettiva d’incarnazione: l'anima è concepita come
una sostanza che discende in un corpo, esso pure inteso come sostanza, benché l'una e l'altra si
trovino, nel momento dell'incarnazione, in uno stato semplicemente incoativo.
Da qui il problema: come esprimere l'unità dell'uomo senza nascondere la disparità dei
due elementi che lo costituiscono? È il problema che ha suggerito i vari testi, che sembra
autorizzare le due diverse concezioni dell'unità, quella orientata in senso platonico (unità
accidentale) e quella orientata in senso aristotelico (unità sostanziale).
In realtà né l'una né l'altra sembrano esprimere fedelmente il pensiero di Agostino. A questo
scopo sembra servire meglio un terzo schema, quello dell'unione ipostatica. Agostino, infatti,
concepisce l'unione dell'anima al corpo a costituire l'uomo, sul tipo dell'unione ipostatica delle
due nature nella persona del Verbo.
Diversi testi sembrano espliciti in proposito: Ep. 169,8 (PL 33,745); cfr In Johannem XIX,15
(PL 35,1553); Ib. 47,12 (PL 35,1379); Ib. 78,3 (PL 35,1836); De Trinitate XIII, 22 (PL 42,1031);
e soprattutto Ep. 137,11 (PL 33,520).
L'affermazione va intesa esattamente. Non sarebbe esatto pensare che Agostino ha
mutuato dal dogma cristologico dell'unione ipostatica lo schema logico per pensare l'unione
dell'anima e del corpo, e quindi il concetto di uomo.
Risulta dall'analisi dell'Ep. 137,11. In essa Agostino, rispondendo all'obiezione dei pagani
contro il dogma dell'incarnazione, derivata dall'impossibilità per Dio di unirsi a una natura
umana, richiama all'esperienza quotidiana, che mostra l'unione nell'uomo dell'anima e del
corpo. Ora, osserva Agostino, è più facile concepire l'unione di due sostanze incorporee, come
nel caso del Verbo e dell'anima del Cristo, che non l'unione di una sostanza incorporea
(l'anima) e di una sostanza corporea (il corpo).
Agostino, quindi, non costruisce una nuova teoria dell'uomo ricavandola dal dogma
dell'incarnazione, ma semplicemente cerca di difendere il dogma dell'incarnazione sulla base di
una dottrina dell'unione dell'anima e del corpo che suppone ammessa dal suo avversario.
Dall'analisi dei testi emerge che l'unione di anima e corpo cui fa riferimento Agostino, per
difendere il dogma dell'incarnazione contro le obiezioni dei pagani, è l' “unione senza
confusione” (l'unio inconfusa) proposta da Plotino, il quale afferma che, per comprendere questo
tipo di unione, occorre astrarre da ogni esperienza sensibile, anche se lo stesso mondo dei
corpi suggerisce un'analogia, quella della luce e dell'aria, che si uniscono senza corrompersi.
- L'anima umana immagine della Trinità
Dio ha fatto l'uomo a sua immagine perché gli ha dato uno spirito intellettuale che lo
colloca al di sopra degli animali. Nell'uomo è l'anima sola immagine di Dio. Nel corpo si
possono trovare tracce (vestigia) di Dio, ma non l'immagine nel senso proprio del termine, che
può esistere solo là dove vi è contemplazione dell'eterno.
In ultima analisi, l'uomo è immagine di Dio perché è in grado di conoscerlo. Per questo la
perfetta immagine e somiglianza di Dio si realizzerà solo in corrispondenza della definitiva
Antropologia Teologica 2009-2010
78.
visione di Dio. Il fatto di essere immagine di Dio assicura all'anima l'immortalità: proprio la
capacità di vedere e comprendere Dio garantisce all'anima di non cessare mai di esistere, sia
quando rimane fedele a Dio, sia quando viene sfigurata dal peccato.
Gli interventi del magistero
Oltre a quelli contro l'origenismo e il manicheismo non si registrano altri interventi sul
problema antropologico in epoca patristica. La stessa definizione del concilio
Costantinopolitano IV (869-870) riguardante, secondo alcuni teologi, l'unicità dell'anima
razionale e intellettuale dell'uomo (DS 657), si trova in un contesto di pensiero riferito alla
cristologia, non all'antropologia. Il concilio infatti, contestando alcune dottrine che sembrano
ispirarsi all'apollinarismo, intende salvaguardare l'integrità della natura umana di Cristo.
Il Medioevo239
La riflessione medioevale va verso la fondazione filosofica della persona, che
approfondisce la lettura agostiniana dell'uomo come capacità di bene, immagine di Dio per la
sua anima, libertà restaurata. Punto di partenza è l'immagine biblica dell'uomo aperto a Dio.
L'apertura della creatura è realizzata dalla grazia donata dal Creatore. Su tale sfondo s'innesta la
problematica dell'anima. La tradizione precedente, ispirata da Agostino, identifica anima e
potenze dell'anima (intelligenza, libertà), nel senso che queste rappresentano la forma
operativa immediata di un'attività spirituale di cui l'anima è principio mediato. Lo schema di
pensiero entra in crisi, perché, presentando l'uomo come immagine di Dio per la sua razionalità e spiritualità, non è in grado di spiegare il senso del corpo e, quindi, l'unità della persona
umana. L'ispirazione platonica di questa tradizione conduce a una lettura dell'unità della
persona in termini di accostamento, più che di reale integrazione tra anima spirituale e corpo
corruttibile. L'introduzione dell'aristotelismo imposta il problema diversamente: più che di
“unione” dell'anima e del corpo, si parla di “unità” dell'uomo, perché l'anima è vista come
“forma corporis”. Il cambiamento pone il problema di come conciliarere l'unità di anima e
corpo con l'indipendenza dell'anima dalla materia, con la sua immortalità.
S. Tommaso240 sottolinea il composto umano: l'uomo è costituito dall'anima e dal
corpo. In questo composto l'anima rappresenta l' “unica forma corporis” (S.Th I, 76,Ie 3),
perché comunica all'essere materiale (corpo) in un certo modo il suo essere. Il composto
umano esiste quindi grazie alla forma (anima). La definizione dell'anima come “forma
corporis” indica:
- l'unità dell'uomo, che non riduce, nella linea della concentrazione monistica, la pluralità
delle sue dimensioni. L'uomo non è «composto da un'anima e da un corpo, ma da un'anima e
dalla “materia prima”, che è da intendere come il substrato, in sé totalmente potenziale,
dell'autocompimento sostanziale dell' “anima” (del suo dar forma in senso metafisico), che dà
la sua realtà alla potenzialità passiva della “materia prima” (partecipando così se stessa),
cosicché ciò che in questa potenzialità c'è di attuale (e reale) è appunto l'anima; senza dubbio
così si afferma che ciò che noi chiamiamo corpo non è altro che l'alterità autooperata
dell'anima stessa, come sua espressione e simbolo»241; non risulta dall'accostamento, a livelli
diversi, di due grandezze differenti, anima e corpo, come due realtà nell'uomo o parti
dell'uomo, ma «è sempre e soltanto l'uomo uno e intero, tutto anima e tutto corpo, in modo
239
Cfr G. COLZANI, Antropologia, 159-167; L. LADARIA, L'uomo creato a immagine di Dio, AA.VV, Storia
dei dogmi II, 104-119.
240 Per l'antropologia tomista cfr J. B. METZ, Antropocentrismo cristiano. Studio sulla mentalità di S. Tommaso
d'Acquino, Borla, Torino 1968; F. P. FIORENZA-J. B. METZ, L'uomo come unità di corpo ed anima, MS IV,
275-279; AA.VV., L'antropologie de saint Thomas, Freiburg 1974; G. MARENGO, Trinità e creazione. Indagine
sulla teologia di Tommaso d'Acquino, Città Nuova, Roma 1990.
241
K. RAHNER, Zur Theologie des Symbols, “Schriften IV”, 305; cfr ID., Geist im Welt, 325-331. 336.
Antropologia Teologica 2009-2010
79.
che le affermazioni circa l'anima come quelle circa il corpo possono stare per tutto l'uomo»242.
Anima e corpo esistono come due comprincipi uniti.
- L'apprezzamento del corpo, non ritenuto carcere, ostacolo o semplice strumento
dell'anima243, ma ciò di cui l'anima ha bisogno per essere anima umana. Senza il corpo infatti
l'anima sarebbe come una mano recisa244; non sarebbe persona245 né potrebbe venire
all'essere246.
- L'unione corpo e anima è esigita per la salvezza dell'anima; la corporeità è fonte di
bene e non conseguenza di una colpa247.
Va però rilevata una tensione nella riflessione di Tommaso, come si sviluppa nella pars I, q 93
della Summa. La q 93 chiude il blocco delle qq 75-93, dedicate allo studio della natura umana e
riflette sul fine dell'uomo, riprendendo il tema del uomo-immagine di Dio. La tensione è tra
due elementi: da un lato l'essere immagine di Dio è messo in relazione a una libera e diretta
azione di Dio («Ora, è chiaro che nell'uomo vi è una somiglianza con Dio, dipendente da lui
come da suo esemplare...»); dall'altro è posto in relazione a un complesso di qualità possedute
dall'uomo. L'andamento piuttosto ambiguo del discorso risulta da una non pienamente riuscita
armonizzazione dei due elementi.
Per risolvere le carenze e le ambiguità della riflessione tomista va ripensata la tensione
tra i due elementi, per mostrare come la radicale dipendenza dell'uomo da Dio e il possedere
certe caratteristiche naturali possono essere armonizzati.
Resta fondamentale ribadire che tutto l'uomo viene da Dio, è aperto a lui e da lui
continuamente influenzabile. E' questo il senso della riflessione patristica: abbassare l'anima da
realtà divina a realtà creata e innalzare il corpo da realtà cattiva a realtà buona, perché prodotto
da Dio e da lui dipendente. Questo comporta riconoscere che la libera, gratuita, storica, azione
di Dio sull'uomo - da precisare cristologicamente - costitutiva dell'immagine di Dio nell'uomo,
presenta come suo primo momento un insieme di dimensioni metafisiche naturali dell'uomo:
per natura l'uomo va concepito come disponibile per Dio, aperto a Dio, influenzabile da Lui
(la dimensione spirituale), il perennemente presente a Dio (l'immortalità naturale dell'uomo),
come termine di una misericordiosa azione salvifica di Dio (la risurrezione soprannaturale).
Questa è l'intuizione non ulteriormente sviluppata da Tommaso nell'a 4. C'è però il
rischio che la naturale disponibilità dell'uomo per Dio, invece di restare momento della
concreta modalità con cui Dio incontra e accoglie, nella storia di Gesù, l'uomo, tende a
costituirsi come fatto a sé stante, senza riferimento al suo storico configurarsi.
Conseguentemente non è la concreta modalità storico-salvifica operata da Dio a fondare
l'immagine di Dio nell'uomo, ma i suoi presupposti metafisici. Il discorso diventa incompleto e
ambiguo. E' quanto accade all'interno della q 93.
L'antropologia tomista accentua l'unità dell'essere umano. In questa unità il primato è
riconosciuto, in continuità con la tradizione platonico-agostiniana, all'elemento spirituale
(intelletto). Questo tipo di unità garantisce all'uomo un radicamento nel mondo senza che vi si
perda come un essere mondano.
La visione di Tommaso si avvicina a quella della Bibbia e dei primi scrittori cristiani.
Tuttavia va rilevato che, a differenza dei primi Padri, nella definizione dell'uomo il senso
cristologico praticamente scompare, per lasciar posto all'interesse per la “natura” dell'uomo
242
243
244
J.B. METZ, Seele, “Lexikon für Theologie und Kirche” (LThK) 9 (1964) 570s.
Cfr S Th I q 89 a Ic; I 76, 5c; C Gent II, 68; De Verit 19, Ic; III Quodlib 9 (21).
Cfr S Th I,I. 75,2.
Cfr III Sent 5,3,2.
246
Cfr C Gent II, 68; In Boet, De Trinitate.
247
Cfr S Th I, 89, Ic. Tommaso contesta la lettura origenista della corpo (cfr S Th I, 47, 2c; I q 62, a 2; C
Gent II, 44b; De Pot 3,16; De anima 7): come la materia è data per la forma (propter formam) così il corpo è
dato per il bene dell'anima (propter melius animae).
245
Antropologia Teologica 2009-2010
80.
considerata in se stessa, anche se in Tommaso questa visione resta ancora inscritta
nell'orizzonte del mistero di Cristo.
Gli interventi del Magistero
Alla fine del sec XIII la teoria tomista dell'unicità della forma umana viene sconfessata,
non nella condanna dell'aristotelismo da parte di Stefano Tempier, arcivescovo di Parigi (1270
e 1277), ma in quella di Giovanni Pecham, arcivescovo di Canterbury e della scuola di Oxford
(1277), condanna ribadita solo dall'arcivescovo di Canterbury nel 1284 e 1286. Agli inizi del
sec XIV si assiste invece a un radicale mutamento di posizioni in occasione della condanna di
Pietro Olivi al Concilio di Vienne (1312, DS 900), dove più che la dottrina tomista
dell'unicità della forma umana, viene definita la piena e integra umanità di Gesù Cristo. Il
Concilio dibatte il problema cristologico (affermare la completezza dell'umanità di Cristo,
utilizzando le categorie antropologiche del tempo) non antropologico; non intende
canonizzare la dottrina dell'unicità della forma umana (contro la dottrina della pluralità delle
forme). Quello che sembra definito è l'unità immediata ed essenziale dei due elementi
costitutivi dell'uomo. Il Lateranense IV (1215), respingendo il manicheismo cataro, afferma
che anche il corpo proviene da Dio (DS 800) e che, per questo, anch'esso prenderà parte alla
vita eterna (DS 809).
Riflessione teologica248
1. Dalla rivelazione emerge che l'affermazione della libertà si giustifica in funzione
dell'autocomunicazione di Dio: l'uomo è libero per l'alleanza. Da qui il riconoscimento di due
aspetti nella libertà:
- La libertà è esigenza, richiesta di valore. In tale prospettiva l'uomo non risulta già
(pre)costituito, ma in via di costituzione, aperto al riconoscimento che il Dio Trinitario
rappresenta l'unico valore costitutivo per la creatura.
- La libertà è possibilità di autonomia. L'uomo sta di fronte a Dio da “autonomo”, non in
quanto già (pre)costituito come valore indipendentemente da Dio, ma in quanto distinto da
Dio.
Se il primo aspetto dice la relatività dell'uomo nei confronti di Dio, il secondo esprime la
distinzione. Relatività e distinzione dicono che Dio non risulta oggetto estrinseco di scelta, ma
interiore fondamento della libertà, che resta tale anche quando si determina negando Dio.
In sintesi, la libertà umana «si motiva e si giustifica in forza di un fondamento che va
oltre se stessa, che è il rapporto con Dio»249, rapporto che la investe costituendola. Ne deriva
che la libertà non è prima, originaria e indipendente, ma costituita nella sua verità dal rapporto
con Dio; per cui se vuole ritrovare se stessa, deve andare oltre se stessa, fino a quel rapporto
con Dio, che in quanto originario, la fonda e le dà senso.
L’affermazione che la libertà umana è costituita dal rapporto con Dio traduce sul piano
teologico quanto evidenzia l’antropologia della libertà250, che, a partire da una fenomenologia
dell’esperienza umana, elabora una figura della libertà come sapere della coscienza, che sa e
decide di sé nella relazione all’altro, che riconosce il debito originario verso l’esperienza pratica
(mediante il corpo, l’altro, la cultura e la società) per aprirsi al senso di cui essa vive e di fronte
al quale deve decidersi. La libertà assume quindi la figura di una “relazione”, prima donata
(quindi da riconoscere, da accogliere) e poi voluta (quindi da decidere). La libertà, come qualità
dell’essere dell’uomo, è, in definitiva, il dono da cui viene costituita, offerto come una
promessa, così che l’uomo possa riconoscerla e ad essa si dedichi nel suo agire.
248
Cfr G. COLZANI, Antropologia teologica, 289-320.
ID, 292.
250
Cfr F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit, 382-400.
249
Antropologia Teologica 2009-2010
81.
Sono le forme immediate (originarie) della vita (la generazione, la relazione uomodonna, l’esperienza della prossimità) a istruire il senso della libertà251. Tra queste forme
soprattutto la generazione svela la libertà come quel dono che è l’esistenza stessa. La persona
non è costituita a prescindere dal riconoscimento di questo dono: la relazione con la propria
origine appare donata. E la libertà come relazione donata nella generazione dischiude il
cammino per l’esperienza della vita, indica il compito per il proprio futuro, un compito da
scegliere e per il quale spendersi. Il “dovere” (l’impegno) della libertà non è anzitutto indicato
dalla legge (o dalla norma), ma dall’appello che risuona nel dono (debito) che è la sorgente
stessa della libertà.
2. Alla concezione dell'uomo come libertà vanno riferite le infrastrutture antropologiche
- anima e corpo - considerate non tanto come completa descrizione dell'essenza umana,
quanto piuttosto come interpretazione di ciò che la rivelazione dice dell'uomo quale creatura,
libera ed alleata, di Dio.
- La duplicità degli elementi costitutivi dell'uomo. La corporeità252 sottolinea la bontà, la
dipendenza da Dio, di tutto l'uomo, anche nelle sue manifestazioni visibili, la possibilità
dell'uomo d'intervenire sulla materia, mediante una comunione corporea con essa, per darle
significato.
L'uomo può realizzare tale possibilità in quanto è spirito - anima253 - cioè aperto a Dio.
Si dà un'inscindibile relazione tra il dare significato al mondo da parte dell'uomo e il riconoscersi aperto a Dio.
- L'unità degli elementi. L'anima è forma sostanziale del corpo per se stessa ed
essenzialmente. L'affermazione dell'unità è in sintonia con il dato biblico tradizionale e mette
al riparo da ogni forma di dualismo che compromette la bontà di qualche elemento dell'uomo
o la sua dipendenza da Dio.
Affermare l'unità degli elementi - anima e corpo - significa riconoscere che questi non
vanno intesi come aspetti estranei tra loro, da integrare successivamente, ma come
esplicitazione di una realtà strutturalmente bipolare (non in senso antitetico, ma integrativo).
In ragione di questo la libertà possiede una struttura simbolica ed esprime l'essere immagine di
Dio proprio dell'uomo: la corporeità dice la mediazione della libertà verso il mondo e gli altri;
la spiritualità indica la trascendenza della libertà rispetto alla sua mediazione corporea. Ciò
consente il funzionamento della libertà come istituitiva di senso, nei confronti della sua
mediazione corporea, verso il mondo e verso gli altri; e come apertura a quel senso/realtà che
essa riceve dal rivelarsi di Dio nella storia254.
All'interno di questa prospettiva possono essere ripensati i temi della morte e della
risurrezione-immortalità. La morte non va intesa come “separazione” dell'anima dal corpo, ma
come fine di un modo di essere uomo in rapporto al mondo non più mediato dalla forma
limitativa della corporeità. L'immortalità, conseguentemente, può essere considerata come la
251
Cfr la proposta di G. Angelini, di riscrivere l’antropologia teologica a partire da queste evidenze
originarie, soprattutto da quella della “generazione”, in “La virtù e la figura della coscienza credente”, in
AA.VV, L’intelletto cristiano. Studi in onore di mons. Giuseppe Colombo per l’LXXX compleanno, Glossa, Milano
2004, 165-192: 165-169. Angelini abbozza un percorso in “Ripensare l’uomo a procedere dalla
relazione genitori e figli”, in AA.VV., Genitori e figli nella famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002, 259-294.
252
Cfr (a cura del Seminario di Bergamo), L'io e il corpo. Quaderni di studi e memorie 12, Glossa, Milano
1997; S. PAGANI, Il linguaggio del corpo: come interpretarlo?, “Famiglia Oggi”, Sett-Ott 1983, 14-19; ID
Amore e mistero. Aspetti simbolici della corporeità umana, A. CENCINI- S. PAGANI, Bene-dire l’amore, Ancora,
Milano 1997, 31-57; G. MAZZOCCATO, Il tema del corpo nel rinnovamento personalista della morale sessuale,
“Teologia” 25 (2000), 54-70; ID, Organo e affetto. Il tema del corpo nella morale sessuale, “Teologia” 25 (2000)
152-186; A.T.I., Il corpo alla prova dell’antropologia cristiana, Glossa, Milano 2007.
253
G. CANOBIO, Il destino dell’anima. Elementi per una teologia, Morcelliana, Brescia 2009.
254
Rimandiamo all'antropologia filosofica l'approfondimento della riflessione sulla struttura simbolica
della libertà.
Antropologia Teologica 2009-2010
82.
nativa possibilità di ricevere da Dio nuove forme di vita. In tal modo non risulta alternativa
alla risurrezione, ma un suo momento, un suo presupposto, in quanto dice la radicazione
naturale del soprannaturale intervento di Dio, col quale l'uomo è reso partecipe della vita di
Cristo.
3. L'uomo, in quanto immagine di un Dio che è comunione, si presenta come un essere
personale e interpersonale e, quindi, capace di trasformare la realtà materiale come luogo
concreto in cui si esprime la comunione. Emergono qui i temi dell'uomo dotato di personalità,
interpersonalità, sessualità, socialità, linguaggio.
Rimandando ad alcune indicazioni bibliografiche255, ci limitiamo a semplici accenni sulla
sessualità e socialità.
- La sessualità appare come il modo con cui una realtà biologica è assunta quale luogo effettivo
della comunione tra uomo e donna256. Il modo con cui il costume attuale interpreta la
relazione uomo-donna interpella a fondo la coscienza credente257.
La figura del rapporto offerta dal costume. Due sembrano i tratti più rilevanti.
Un primo tratto: un’esaltazione dell’amore che appare equivoca, contraddittoria. Nella nostra
società l’amore è oggetto di una vera e propria esaltazione e il matrimonio viene investito di
finalità essenzialmente affettive. L’unione tra un uomo e una donna appare sempre più una
scelta personale, operata in nome dell’amore, sulla quale le condizioni economiche, la famiglia,
lo Stato e la Chiesa, non esercitano più una significativa influenza, sia in riferimento al
matrimonio, sia in riferimento alla separazione e al divorzio. Al legame d’amore gli uomini e le
donne del nostro tempo sembrano chiedere di farli sta bene, di realizzare il desiderio di una
vita bella e felice. Un legame che, quando per le più svariate ragioni non è in grado di far star
bene, viene sciolto. A fondare la relazione di coppia sembra risultare più decisivo il sentimento
(“Ti voglio bene perché sento, provo qualcosa per te”), che un decisione, la quale, a partire da
quello che si sente per la persona amata, è impegnata a creare un legame, a costruire uno
spazio di vita comune, a determinare un movimento che conduce i due ad uscire dalla
esclusiva cura di sé per orientarsi verso l’altro ed entrare nella logica del scambio dei doni
(della parola, del tempo, del corpo). A rendere equivoco l’apprezzamento dell’unione tra un
uomo e una donna contribuisce una società che esalta l’amore e incoraggia la relazione delle
persone, ma non ne favorisce il legame e la durata.
Il secondo tratto registra una crescente incertezza nei confronti dell’ “identità di genere” e, più
generalmente, della sessualità. Quanto riguarda l’identità di genere e la sessualità appare vago e
255
Sull'uomo come persona: MS IV, 308-331 (bib 331-332); E. CORETH, Antropologia filosofica, 155-160;
J. AUER- J. RATZINGER, Il mondo come creazione, Cittadella, Assisi 1977, 374-402 (bib 607); sull'uomo e il
linguaggio: MS IV, 332-407 (bib 407-408); sull'uomo e la sessualità: MS IV, 409-462 (bib 462-464); J.
AUER-J. RATZINGER, Il mondo come creazione, op cit, 313-326 (bib 475); L. SERENTHÀ, Sacramenti e vita
cristiana, 141-166; sull'uomo e la socialità: MS IV, 465-509, (bib 509-511); J. AUER- J. RATZINGER, Il
mondo come creazione, op cit, 421-450 (bib 678-680); M. FLICHK-Z. ALSZEGHY, Fondamenti di
un'antropologia teologica, Firenze 1970, 102-115; P.A. SEQUERI, Il sapere orientato al senso, AA.VV, L'evidenza
e la fede, Glossa, Milano 1988, 339-386; sull'uomo e il mondo (lavoro, tecnica, ecologia): MS IV 513.532
(bib 532-535); J. AUER- J. RATZINGER, Il mondo come creazione, op cit, 451-484 (bib 680-681); AA.VV,
Questione ecologica e coscienza cristiana, Morcelliana, Brescia 1988 (gli interventi di G. ANGELINI e la parte
III).
Cfr L. SERENTHÀ, Esperienza e fede in una visione cristiana della sessualità e del rapporto uomo-donna, ID, La
storia degli uomini e il Dio della storia, O.R.- In Dialogo, Milano 1987, 195-228; S. PAGANI, Amore e mistero,
aspetti simbolici della corporeità umana, in A. CENCINI-S. PAGANI, Bene-dire l'amore, op cit, 33-57; S.
COLOMBO, Sessualità, amore, matrimonio. Compiti del discernimento cristiano, in AA.VV., L’esperienza morale,
Seminario Vescovile di Bergamo, Bergamo 2000, 41-67; A. SCOLA, Uomo-donna. Il “caso serio” dell’amore,
Marietti 1820, Genova 2002 F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit, 401-412; AA.VV, Maschio e
femmina li creò, Glossa, Milano 2008;.
256
257
Per la riflessione faccio riferimento a M. CHIODI, La relazione uomo/donna come forma fondamentale
della differenza, “Teologia” 32 (2007), 11-35.
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83.
indefinito e sembra diventare plausibile sulla base del valore autonomo e insindacabile del
soggetto. I livelli indicatori della crisi.
Il primo aspetto è rappresentato dai nominalismi linguistici. Il linguaggio rivela il cambiamento
del costume. X. Lacroix delinea un quadro esaustivo: «quando “genitori” al plurale non
significa più “padre” e “madre”, quando “marito” non è più associabile a “moglie”, quando ci
si chiede se il “padre” debba essere necessariamente di sesso maschile, quando l’opinione
comune si abitua alla nozione contraddittoria di “omoparentalità” o non si avverte la
discrepanza nell’espressione “genitore biologico”, si coglie il risultato di un paziente lavoro di
trasformazione del significato delle parole»258.
Il rischio che ne deriva è che le parole vangano svuotate del loro significato, dimenticando la
loro funzione di significare e ripresentare il reale.
Emblematico risulta il dibattito relativo al “matrimonio” e alla coppia omosessuale, dove in
nome di un’uguaglianza astrattamente intesa si cerca di abolire ogni forma di differenza, come
se la differenza coincidesse con la discriminazione. Il dibattito in corso rivela come la
differenza tra maschio e femmina sembra progressivamente dissolversi sotto i colpi di una
cultura che smette di apparire “documento” di verità dell’uomo e, quindi, legge dell’uomo, per
apparire “creazione” dell’uomo e, quindi, soltanto accessoria nei confronti della natura
dell’uomo.
La differenza tra maschio e femmina, soprattutto la loro alleanza, che rappresenta l’aspetto più
antico e radicale del loro rapporto, risulta oggi la meno considerata. I profondi mutamenti che
segnano oggi il rapporto maschio e femmina segnalano un passaggio, come annota M.
Foucault, dal “dispositivo di alleanza”, che configura il rapporto maschio-femmina mediante le
forme pratiche della loro alleanza nella vita quotidiana (cfr il matrimonio), al “dispositivo di
sessualità”, che determina una specie di inflazione nei discorsi a proposito della sessualità,
dove ci si interroga espressamente «circa la pertinenza di quella “costrizione” all’eterosessualità
che caratterizza indubitabilmente la tradizione civile, che invece oggi in un numero crescente
di casi appare assai poco naturale»259. La risposta che va imponendosi chiede la legittimazione
di nuovi diritti personali e il riconoscimento istituzionale di modelli nuovi di unione e di
famiglia che sancisca la parità di statuto tra l’unione eterosessuale e l’unione omosessuale.
Un altro aspetto della crisi è indicato dal modo con cui le “scienze umane” operano: in esse
sembra prevalere una preoccupazione di tipo terapeutico, il cui obbiettivo è reperire gli
strumenti per far “funzionare” meglio le relazioni. Tale preoccupazione è ispirata dalla ragione
“analitica” che osserva e descrive, “slegando” e separando, senza interessarsi all’elaborazione
di una comprensione dell’uomo (un’antropologia). Da qui la necessità di una forma di sapere,
antropologico ed etico, che, oltre il positivismo e il funzionalismo delle scienze, proponga una
sapienza che consente di riconoscere la verità dell’uomo.
Il compito della teologia
Dalla cultura e dal costume proviene l’istanza di ripensare globalmente il rapporto uomodonna. Un ripensamento che impegna la fede cristiana e con essa la teologia a ridire il senso e
le potenzialità della relazione uomo-donna.
Il racconto biblico di Gn 2,18-25 resta ispiratore autorevole di tale ripensamento. Il racconto
di Gn 2 intende mostrare il senso della relazione uomo-donna, dove il legame che viene
stabilito è un’alleanza (berît) che sfocia nel diventare un’unica carne. Il grido dell’ ’adam dà
parola al desiderio dell’incontro e al “voto” del suo compimento: alla presenza della donna
’adam si rinomina ’iš a partire dall’altra (’iššah): Gen 2, 23: «Questa volta è osso dalle mie ossa e
carne dalla mia carne. Costei sarà chiamata ’iššah perché da ’iš è stata tratta». Questo grido
258
X. LACROIX, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione, Vita ePensiero, Milano
2000, 11-12.
259
G. ANGELINI, Introduzione, in AA.VV., Maschio e femmina li creò, Glossa, Milano 2008, 13.
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84.
(“questa qui”, “questa volta sì”) significa “questa qui adesso” e quindi “non un’altra” e
“nessun altra”, e questa qui “per sempre”, e cioè “né dopo” e “né prima”.
La lettura del rapporto uomo-donna come una relazione di alleanza costituisce il tratto
specifico del messaggio biblico. L’esperienza che Israele ha dell’alleanza con Jahvè, che chiede
un’adesione esclusiva a Lui, consente di guardare la progetto del Creatore sulla relazione
uomo-donna, riconoscendovi un tratto di esclusività, di impegno della libertà, di scambio
comunionale.
La relazione di alleanza tra l’uomo e la donna presenta come dimensione fondamentale il
riconoscimento della differenza sessuale.
La differenza sessuale non è solo una delle tante forme di differenza, ma costituisce la forma
fondamentale della differenza, nella quale si determina la struttura dell’identità personale. La
verità della tesi oggi non appare così evidente, nel senso che è evidente che la sessualità è “una
forma” della differenza, non è però evidente che essa sia “la” forma fondamentale della
differenza. Per cui questa non apparirebbe così universale e insuperabile (come qualcuno,
soprattutto la Chiesa, sosterrebbe), tanto che potrebbe essere annullata.
A sostegno della tesi riguardo alla differenza sessuale come la forma fondamentale della
differenza stanno alcuni motivi antropologici, tra loro strettamente collegati: la relazione tra la
coscienza e il corpo; la relazione di donazione sponsale e quella di generazione; la forma
istituita delle relazioni familiari.
La relazione tra la coscienza e il corpo
La sessualità è esperienza di sé nel corpo e il corpo (carne) è la prima forma di esperienza di
sé. La sessualità è una differenza “data” nel corpo. Esistono alcune differenza (un corpo può
essere sano o malato, giovane o vecchio, bianco o nero, bello o brutto…) che appartengono a
un aspetto parziale di noi stessi, quella sessuale invece definisce un’identità: il corpo umano è
maschile o femminile.
Il corpo tuttavia non è riducibile alla materialità fisica; e, quindi, anche la differenza sessuale
non è solo questione fisica. Se è vero che “ho” un corpo e che agisco grazie ad esso, è ancor
più vero che io “sono” il mio corpo, nel senso che esso mi identifica, anche se io non mi
identifico con questa “forma” del mio corpo.
Al mio corpo è legato il desiderio sessuale come “pulsione”, con la sua forza enigmatica e, in
qualche modo, incontenibile. Da qui nasce il carattere oscuro e pericoloso del desiderio. Al
desiderio indiscriminato si oppone la legge “universale” che vieta l’incesto, che segnala, nel
corpo, la realtà della differenza. Tale legge dichiara che non esiste in astratto il corpo di una
donna o di un uomo: altro è la sposa, altro la sorella, la madre e la figlia. Anche la legge che
tutela il matrimonio (“non commettere adulterio”) proibisce di confondere il corpo della sposa
o dello sposo e dell’amante. Entrambi i divieti impongono di riconoscere la differenza, cioè di
distinguere il corpo dell’altro differenziandolo, in relazione alla sua identità e quindi senza
separare il corpo da sé.
La relazione di donazione sponsale e quella di generazione
La relazione sponsale comporta un’alleanza che è forma esemplare (paradigma) della reciproca
cura. La relazione sponsale come reciprocità interpreta la relazione abbandonando l’immagine
di complementarietà, nella quale la relazione tra le persone risulta essere la semplice
integrazione di due parti corrispondenti, dove l’altro sarebbe semplicemente quello che manca
a me e risulterebbe “deducibile” da me, cessando di essere veramente altro, in quanto sarebbe
soltanto il mio (reciproco) simmetrico. Il risultato di questo modo di intendere la relazione è la
distruzione dell’alterità.
La relazione esige inoltre un reciproco interesse, non di tipo mercantile (legato alla logica dello
scambio), ma caratterizzato dal dono libero, da un’alleanza dove l’uno è implicato dall’altro.
Nella relazione sponsale accade un dono gratuito, che, per questo, va oltre il calcolo
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85.
utilitaristico, perché ispirato dalla logica dell’alleanza, per la quale i due decidono di diventare
indissociabili (“una sola carne”) in una reciproca co-appartenenza. In questa cura e reciproca
gratuità l’uno e l’atra «“nascono” a se stessi, l’una grazie all’altro, trasformandosi a vicenda in
un dare e ricevere che non conosce sosta»260.
La relazione sponsale parla attraverso il corpo, parla il linguaggio del corpo (l’unione dei
corpi). La reciprocità attinge la propria pienezza nel compimento dell’unione corporea, come
reciproco accoglimento, fino alla gioia intensa della reciproca appartenenza261, aperta al
desiderio del figlio, il “terzo” che nasce nell’incontro, la “parola” che i due si dicono.
La relazione che un uomo e una donna sono in grado di stringere tra loro e che fa di loro due
“una carne sola”, parla il linguaggio di un amore che coinvolge pienamente la loro corporeità,
proprio nella sua determinazione specifica di mascolinità e di femminilità. Un uomo e una
donna non possono esprimersi diversamente, non possono vivere nella storia
indipendentemente dal proprio corpo sessuato. Il rapporto sessuale «è la forma plastica di una
comunione stabile e definitiva»262 che esprime la massima prossimità e dove la distanza resta
insuperabile, perché l’unità si dà solo nella differenza.
La parola che un uomo e una donna si scambiano col proprio corpo è una parola “feconda”,
capace di dare origine a un’altra libertà, a un’altra storia (il figlio). La parola feconda che i due si
dicono rivela che l’uomo e la donna parlano un linguaggio che non si esaurisce tra loro due,
ma che genera un altro - il figlio appunto - come interlocutore e beneficiario del loro volersi
bene. L’uomo e la donna sono chiamati a dirsi una parola che assume un volto - quello del
figlio - e che per questo non può più essere ritirata, smentita. La parola che un uomo e una
donna che si amano, dicono insieme è il figlio.
La forma istituita delle relazioni familiari
L’apertura della relazione sponsale a un terzo che ne è il frutto (il figlio) dice come in questa
relazione “duale” sono incritte altre relazioni comunitarie e sociali, delle quali l’uomo ha
bisogno per vivere. Le relazioni familiari appartengono originariamente a un contesto civile,
caratterizzato dall’oggettività del sistema sociale che lo sottrae all’ipoteca dell’individualismo
dell’io e del collettivismo del noi. Questo conferma che il livello dell’istituzione sociale
appartiene originariamente al piano etico e, in quanto tale, concorre a definire l’identità
personale. In relazione al nostro tema: «Eros e Polis hanno una relazione circolare, poiché
rappresentano ambedue un momento fondamentale del sé. La sponsalità è coniugazione sempre difficile - tra il desiderio (dei due) e la legge (di tutti), intesa qui non solo e tanto come
quella legge che è relativa all’esperienza etica nel suo complesso, ma come la legge della
Polis»263.
La legge giuridica, anche se non si identifica con esso, contribuisce a plasmare in modo
decisivo il costume sociale. Per questo la legge ha un irrinunciabile significato etico e consente
a un cultura di non essere de-strutturata e ri-strutturata a piacimento e in modo arbitrario. La
cultura istruisce la coscienza personale (la forma) incarnando e rende possibile il
riconoscimento di elementi strutturali universali, che, in quanto tali, vanno oltre, trascendendo
la stessa cultura. Nella istruzione della coscienza personale ogni cultura propone una ritualità
fondamentale, nella quale i tempi, i passaggi e le relazioni fondamentali della vita umana
ricevono una forma.
Il matrimonio come forma istituita della relazione d’amore tra un uomo e una donna
(“contratto”) appartiene ai fondamentali riti che hanno una qualità sociale, pubblica e visibile.
260
M. CHIODI, La relazione uomo/donna come forma fondamentale della differenza, “Teologia” 32 (2007),
24.
261
Per una fenomenologia dell’incontro sessuale cfr X. LACROIX, Il corpo di carne. La dimensione estetica
e spirituale dell’amore, EDB, Bologna 1998, 83-104.
262
M. CHIODI, La relazione uomo/donna come forma fondamentale della differenza, art cit, 25.
263
ID., 28.
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86.
Le forme di questa ritualità possono mutare, ma non possono mancare. Oggi la difficoltà nei
confronti del matrimonio sta nel fatto che in un contesto fortemente individualista,
frammentato e affettivo, l’evidenza di tale forma non solo è soggetto a forte cambiamento, a
viene anche contestata e perfino rifiutata. Diverse le modalità della contestazione.
La prima assume una forma pubblica eclatante: il “contratto” matrimoniale di fronte a un
pubblico ufficiale è, di fatto, considerato alla stregua della convivenza o dell’unione di fatto,
adducendo come motivi che “ciò che conta è il legame personale” (è quanto accade nella
rivendicazione del matrimonio omosessuale che suppone un matrimonio non basato sulla
differenza sessuale).
Una seconda forma, più nascosta, ma più diffusa, all’origine della precedente, collocata più a
livello giuridico, si manifesta nella perdita di qualsiasi ritualità simbolica e nel conseguente
aumento di fluidità dei legami tipici della reazione di coppia. I segni: l’evanescenza, fino alla
perdita, delle tappe e della gradualità della relazione (innamoramento, fidanzamento,
definitività del matrimonio, relazione sessuale); l’insignificanza della relazione matrimoniale
come relazione tra un uomo e una donna, a vantaggio di un rapporto sessuale “neutro”;
l’estrema “dissolubilità” del legame matrimoniale.
La situazione che si fa delineando appare segnata dal paradosso che la stessa società avverte la
necessità, sotto il profilo giuridico, di riconoscere e normare gli aspetti pubblici, giuridici,
economici, sanitari, di un legame che si vuole mantenere a livello strettamente privato.
Il nodo del problema: ricuperare in modo più consapevole i riconoscimento pubblico
dell’irrinunciabile valenza sociale del matrimonio.
La famiglia con le relazioni che la costituiscono (quella sponsale e genitoriale, filiale e fraterna)
appartiene all’esperienza umana universale. Per questo costituisce un’istituzione fondamentale
che va tutelata, soprattutto in riferimento al fatto che la “cultura” rappresenta un elemento
indispensabile dell’esperienza umana come esperienza morale di vita buona. La famiglia, come
istituzione sociale e culturale, non stabilisce delle convenzioni facoltative, modificabili a
piacimento, ma stabilisce una condizione e una norma da riconoscere come “universali”, nella
misura in cui le sue forma (determinabili storicamente) risultano imprescindibili nella
costituzione dell’identità personale e tutelano il senso universale presente nelle relazioni
familiari.
Il rimettere in luce il senso universale della relazione matrimoniale, come destinazione
compiuta della differenza tra l’uomo e la donna, fa parte del servizio della fede, la quale sa che
l’evento di Gesù Cristo, nel quale Dio si rende presente nella storia degli uomini e opera a loro
favore, determina la verità della storia stessa, di quanto vi accade, relazione d’amore tra un
uomo e una donna compresa. Una verità che compie l’attesa umana, quindi, anche l’attesa
inscritta nella promessa di reciproca cura che avvia la relazione d’amore tra un uomo e una
donna.
La cura del sacramento del matrimonio, come forma compiuta della relazione d’amore tra un
uomo e una donna, promossa dalla fede, è giustificata e sostenuta dalla consapevolezza che la
relazione sponsale svolge un ruolo paradigmatico per comprendere il senso di ogni altra
relazione umana, perché annuncia l’alleanza offerta da ogni relazione.
La relazione sponsale, come reciproca donazione, rappresenta un’alleanza tra persone, che pur
con tutta la propria fragilità, è “traccia” della relazione con Dio. La rivelazione cristiana
annuncia che in Gesù Dio “si fa carne”, viene ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14) e ci ama
fino a dare la vita per noi.
Questa alleanza tra Dio e gli uomini appare in tutta la sua evidenza nel sacramento del
matrimonio, dove l’alleanza coniugale, nella sua forma ed espressione del dono di sé fino a
“dare la vita”, diventa nel Signore “frutto” e “segno” del dono di grazia. L’uomo e la donna
“celebrano” nel loro matrimonio (che non è solo rito liturgico, ma l’intero tempo della vita
coniugale) l’amore sponsale con cui in Gesù Cristo, lo Sposo, Dio ama la Chiesa (cfr Ef 5,2532) e l’umanità intera (cfr Gv 3,16). Gli sposi credenti nella loro relazione si affidano all’opera
Antropologia Teologica 2009-2010
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del Signore, di cui accettano di essere testimoni l’uno per l’altro. E questo Amore
incondizionato (agape), nel nome del quale gli sposi decidono il reciproco affidamento (“con la
grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre… e di amarti e onorarti tutti i giorni della
mia vita), li salva da una relazione scadente, incapace di quella reciproca gratuità che esprime
l’amore e li abilita a dar vita a una relazione che rinvia all’alleanza tra Dio e l’uomo, compiuta
in Gesù che è lo Sposo.
- La socialità dice l'esigenza umana di trasformare il mondo, che diventa strumento di dialogo
con le altre persone impegnate in un compito analogo.
4. La libertà non è un dato acquisito una volte per sempre, ma esprime un elemento
dialettico di attesa, di futuro, che dice di un compito, di una chiamata alla progressiva
emancipazione da quanto è ostacolo, limite, alla propria promozione. Sta qui il senso
dell'impegno dell'uomo sulle strutture, perché queste non limitino la sua libertà, ma ne
favoriscano la crescita.
Il carattere di “finitezza” della libertà umana ricorda l'impossibilità per l'uomo di
promuovere efficacemente con le proprie forze la crescita, l'emancipazione di sé come libertà.
L'uomo, che non può rinunciare a promuovere la propria libertà, esperimenta tuttavia che non
è in grado di attuarla da solo, registrando una sorta di “scarto” tra l'insopprimibile desiderio di
un compimento della libertà e la pratica impossibilità di un suo autocompimento.
La Rivelazione identifica nella figura cristologica la possibilità per l'uomo di sciogliere lo
scarto che segna la sua esistenza. La vita di Gesù Cristo perviene al proprio compimento nel
rapporto libero con il Padre. Gesù promuove la propria libertà affidandosi concretamente al
Padre, come a colui che lo costituisce radicalmente (cfr Eb 10, 5-10). L'esistenza di Gesù si
caratterizza quindi come un vivere in libertà, il cui fondamento sta nel suo essere-in-rapporto
con il Padre.
Il carattere singolarmente universale della vicenda storica di Gesù Cristo non solo
afferma la possibilità per l'uomo di un compimento, ma lo rende concretamente possibile,
assumendo proprio la forma dell'esistenza di Gesù. E' lo Spirito, donato da Gesù Cristo
stesso, a dare all'esistenza dell'uomo credente la forma dell’esistenza di Gesù.
Quindi, per cogliere ulteriormente il senso dell' emancipazione della libertà, si deve parlare della coincidenza tra libertà e accoglienza dello Spirito Santo. L'autentica libertà, capace
cioè di un'effettiva liberazione, è quella che accoglie un'energia creativa, che è altra da sé e che
costituisce una sua nuova, più ampia, capacità: la fede e la carità di Cristo. Il compito della
promozione della libertà, non si alimenta più di un'attesa, di una speranza, che non offrono
garanzie sicure, ma riposa sulla “memoria” della libertà donata da Cristo, della sua fede e della
sua carità, la cui esperienza è resa possibile nella storia concreta della sua Chiesa.
Poiché l'essenza profonda (natura) dell'uomo sta nella libertà, non identificata come dato
acquisito nel confronto con ciò che non è umano, ma come compito (futuro), legato
all'accoglienza della carità, dello Spirito, la natura dell'uomo non è solo un dato, ma anche il
termine dell'azione della grazia, del gesto fedele di Dio che sostiene e spinge l'uomo verso la
piena realizzazione di sé. La natura quindi non è solo un presupposto della soprannatura
(secondo l'impostazione della teologia classica), ma anche il fine escatologico della carità
(grazia soprannaturale) che rappresenta il suo orizzonte genetico-critico.
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88.
3. La grazia come “incorporazione” a Cristo264
La libertà creaturale (l'uomo) esiste in vista della comunione-incorporazione a Gesù
Cristo. L'incorporazione a Cristo dice il realizzarsi nell'uomo della predestinazione, cioè della
volontà di Dio di associare l'umanità a Gesù Cristo. L'uomo incorporato a Cristo è
concretamente l'uomo peccatore, in quanto appartiene all'umanità che sta sotto il segno del
peccato di Adamo. Pertanto la grazia “incorpora” l'uomo a Cristo, togliendo il peccato, cioè
“giustificando” l'uomo.
La riflessione biblica
Nell' AT la “giustizia divina”265 esprime la volontà salvifica di Dio nei confronti del suo
popolo, volontà che, nell'ambito dell'alleanza si manifesta come fedeltà alla comunità costituita
dalla stessa alleanza, senza fermarsi al suo peccato. La giustizia divina non si fonda su uno
scambio fra Dio e popolo, non presenta una dimensione contrattuale, misurata dalla risposta
umana, ma un aspetto salvifico, che non viene meno in presenza del rifiuto, della chiusura del
popolo né quando contiene la dimensione di castigo, di punizione. Sono soprattutto il
Deutero e il Trito-Isaia a tenere insieme giustizia e salvezza: la giustizia, caratteristica dell'opera
divina (cfr Is 45,8-19), è frutto della salvezza dispensata da Dio (cfr Is 46,12-13; 51,1; 56,1).
La prospettiva veterotestamentaria è ripresa e mostrata nel suo compimento dal NT266.
Nei Sinottici la concezione della grazia, della giustizia divina e il senso della sua azione sono
ricavabili dalla categoria del “regno di Dio”, nucleo della predicazione e dell’azione di Gesù267:
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15;
cfr Lc 11,20: «Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno
di Dio»). Gesù chiarisce che cosa intende per “regno di Dio” con il suo insegnamento, dove
hanno un posto di rilievo il “Discorso della Montagna”268 e le “parabole del Regno”269. La
“giustizia superiore” di cui parla Matteo nel discorso della montagna è un'attitudine umana
264
Cfr H. KÜNG, La giustificazione (= BTC 2), Queriniana, Brescia 1969; G. OGGIONI, Il mistero della
redenzione, AA.VV., Problemi e orientamenti di teologia dommatica II, Marzorati, Milano 1957, 237-243;
A. BENI - G. BIFFI, La grazia di Cristo, Marietti, Torino 1974, 126-183; O.H. PESCH, Azione della grazia
di Dio come giustificazione e santificazione dell'uomo, MS IX, op cit, 296-399; ID, Liberi per grazia (= BTC
54), Queriniana, Brescia 1988, 229-266; R. LACHENSCHMID, Cristologia e soteriologia, AA.VV,
Bilancio della teologia del XX secolo III, op cit, 89-128; G. COLZANI, Antropologia teologica, 239-263;
A.T.I, La giustificazione, Messaggero, Padova 1997; F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit,
413-475.
265
Cfr K. KOCH, Sdq, essere fedele alla comunità/essere salutare, in “Dizionario Teologico dell'AT”
(DTAT) II, a cura di E. JENNI-C. WESTERMANN, Marietti, Casale M. 1992, 456-477; A. SICARI,
Giustizia di Dio nel Vecchio Testamento, “Communio” 7 (1978) 38, 5-20; W. EICHRODT, La giustizia di
Dio, ID, Teologia dell'Antico Testamento I: Dio e popolo, Paideia, Brescia 1979, 241-251; A. GANOCZY,
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia, (= BTC
67), Queriniana, Brescia 1991, 11-30 (= Dalla sua pienezza).
266
Cfr G. QUELL- G. SCHRENK, Dikη, dikaioj, dikaiosunη, in “Grande Lessico del Nuovo Testamento”
(GLNT) II, Paideia, Brescia 1966, coll 1191-1328; F. MUSSNER, Lineamenti fondamentali della teologia
della grazia nel Nuovo Testamento, MS IX, op cit, 29-52; A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 34-80.
267
Cfr J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento I. La predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1972,
116-129; K. L. SCHMIDT, Basileia, in GLNT II, op cit, coll 175-203; R. SCHNACKENBURG, Signoria e
regno di Dio, EDB, Bologna 1971; J. SCLOSSER, Le règne de Dieu dans les dites de Jésus, 2 voll, Paris
1980.
268
Cfr J. DUPONT, La giustizia cristiana, ID, Le Beatitudini II, Paoline, Alba 1977; 322-475.
269
Cfr H. DODD, Le parabole del regno, Paideia, Brescia 1970; V. FUSCO, Parola e regno. La sezione
delle parabole (Mc 4,1-34) nella prospettiva marciana, Morcelliana, Brescia 1980; O. BATTAGLIA, Le
parabole del regno, Cittadella, Assisi 1985; H. WEDER, Metafore del regno. Le parabole di Gesù:
ricostruzione e interpretazione, Paideia, Brescia 1991.
Antropologia Teologica 2009-2010
89.
suscitata e sostenuta dalla grazia di Dio270, l'atteggiamento umano che nasce dall'accogliere il
regno nel cuore e nella vita, la fedeltà nuova e radicale alla volontà di Dio esigita e resa
possibile dalla presenza di Gesù Cristo.
Le parabole del Regno indicano che “regno di Dio” significa vicinanza di Dio stesso, una
vicinanza che accoglie gli uomini, li perdona, li solleva, li guarisce da tutto ciò che li tormenta e
impedisce loro di vivere un’esistenza “felice”, realizzata (malattie, potenze disumanizzanti,
impossibilità a comunicare, la morte).
Gesù proclama il Regno non solo con la parola, ma anche con la vita; vive in modo esemplare
la grazia di Dio. Fin dall’inizio la sua vita è caratterizzata dalla grazia: «E Gesù cresceva in
sapienza, in età e grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2, 52); «la grazia di Dio era
sopra di lui» (Lc 2,40). La grazia di Dio che è “sopra Gesù” si manifesta in modo particolare
nei confronti delle persone che hanno più bisogno della salvezza, di una riabilitazione, come le
donne, i bambini, i peccatori. Gesù cerca i peccatori, gioisce quando li trova, dimostrando che
la salvezza di Dio è donata non solo ai giusti, ma anche ai peccatori, che la grazia è per tutti.
In Paolo271 “grazia” (καρίς), “giustizia/giustificazione” (dikaiosune/dikaiwj) diventano
concetti centrali per illustrare l’evento di Cristo, la sua salvezza, l'azione salvifica di Dio. Un
primo aspetto della concezione paolina della grazia è la sua concentrazione cristologica272: la
grazia non è qualcosa, ma qualcuno, Cristo stesso, il dono del Padre (cfr Rm 8,32). La salvezza
per grazia consiste nell’essere uniti e risorti con Cristo (Ef 2,4-6; «Il dono di grazia di Dio è la
vita eterna in unione con Cristo», Rm 6, 23). La grazia di Dio quindi è la grazia di Cristo (1Cor
1,3; 16,23; 2Cor 1,2; 13,13) e la grazia di Cristo è Cristo stesso. “Essere nella grazia” equivale a
“essere in Cristo” (1Cor 1,2; Gal 2,17).
La grazia di Cristo è offerta a tutti senza distinzione tra giudei e pagani, uomo e donna,
schiavo e padrone (Gal 3,28; 5,6; Rm 10,12). Un secondo aspetto della concezione paolina
della grazia è il suo effetto giustificante273: per essa (Rm 4,4) e in essa (Rm 11,6) tutti possono
essere giustificati gratuitamente, in virtù della redenzione realizzata da Cristo (Rm 3,24). Il
battezzato sta “sotto la grazia” (Rm 6,14), si pone “al servizio della giustizia” (Rm 6,19), è
redento nella misura in cui vive effettivamente nello Spirito di Cristo (Rm 8,9), cammina
secondo lo Spirito (Rm 8,4), si lascia guidare da lui (Rm 8, 14).
In sintesi il concetto paolino di grazia è concentrato su Dio e su Cristo, è di tipo storicosalvifico. In Paolo, infatti, la grazia è riferita interamente a Dio, alla sua benevolenza gratuita e
salvatrice verso l’uomo, all’evento di Gesù Cristo, che giustifica, salva, libera l'uomo. Essa
inaugura un’esistenza nuova, quella di “essere in Cristo”.
La ricerca contemporanea ritiene che questo è il nucleo dell'annuncio paolino di Cristo
(«la dottrina paolina della giustificazione, con la relativa dottrina della legge, è in ultima analisi
la sua interpretazione della cristologia»274) e che non è semplicemente frutto della polemica
270
Cfr A. FEUILLET, I due aspetti della giustizia nel sermone della Montagna, “Communio” 7 (1978) 38,
21-29.
271
Cfr J. JEREMIAS, Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Morcelliana, Brescia 1973. H.
SCHLIER, Linee fondamentali di una teologia paolina (= BTC 48), Queriniana, Brescia 1985; A.
GANOCZY, Dalla sua pienezza, 47-70; Cfr I. DE LA POTTERIE, Karis paolina e karis giovannea, in ID.
Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova 1986, 239-260.
272
Cfr L. CERFAUX, Cristo nella teologia di san Paolo, AVE, Roma 1969.
273
Cfr E. KÄSEMANN, La giustizia di Dio in Paolo, ID, Saggi esegetici, Marietti, Casale M. 1985, 133145; H. SCHLIER, Linee fondamentali di una teologia paolina, op cit, 104-150; K. KERTELGE,
Giustificazione in S. Paolo. Studi sulla struttura e sul significato del concetto paolino di giustificazione,
Paideia, Brescia 1991; G. GNILKA, La dottrina paolina della giustificazione: legge, giustificazione, fede, in
PONTIFICIO ATENEO DELLA S. CROCE, La giustificazione in Cristo, LEV, Roma 1997, 11-25; R.
PENNA, Il tema della giustificazione in Paolo. Uno status queastionis, in A.T.I., La giustificazione, op cit,
19-64; A. MAFFEIS, Giustificazione, S. Paolo, Cinisello B. 1998, 76-95; E. BORGHI, Giustizia e amore
nelle lettere di Paolo, EDB, Bologna 2004.
274
E. KÄSEMANN, Prospettiva paoline, Paideia, Brescia 1972, 111.
Antropologia Teologica 2009-2010
90.
con i giudaizzanti. Per questo appartiene al primo annuncio cristiano, anche se la polemica
può aver indotto l'Apostolo a sviluppare elementi presenti nell'annuncio giudeo-cristiano.
La terminologia “giustizia/giustificazione” compare soprattutto nelle lettere ai Galati e ai
Romani. Nella lettera ai Galati la terminologia “giustizia/giustificazione” appare
frequentemente soprattutto nei capp 2-3, dove Paolo difende il suo vangelo e il suo apostolato
dagli oppositori presenti nelle comunità della Galazia. Gal 2,15-21 offre la sintesi del “vangelo
paolino”, al centro del quale emerge l'affermazione che «l'uomo non è giustificato dalle opere
della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (2,16). L'Apostolo si confronta
qui con la dottrina farisaica della salvezza, secondo la quale una persona deve essere dichiarata
giusta nel giudizio finale di Dio e che questa giustificazione può essere ottenuta adempiendo la
legge. Paolo oppone che la giustificazione è ottenuta solo mediante la fede in Gesù e la sua
morte espiatrice.
La lettera ai Romani riprende e sviluppa i temi del testo ai Galati. Il «vertice
architettonico della lettera» (O. Kuss) è costituito da 3,21-31: l'apparizione della giustizia di
Dio è l'esposizione di Cristo nella sua morte, che espia i peccati e fonda la nuova alleanza.
Paolo estende a tutto il mondo - Giudei e pagani - la portata espiatrice della morte di Gesù
(«L'azione salvifica di Dio, per la fede e in vista di essa, non è un abbandono dell'alleanza con
Israele, ma è in continuità e in accordo con essa; la giustizia di Dio non è un'arbitraria scelta e
poi abbandono di Israele, ma la scelta di Israele ha sempre in vista il tutto, l'estensione del suo
progetto salvifico a tutti in accordo con il suo impegno di alleanza verso Israele»275). Per lui
solo l'evento della croce può rappresentare la base del discorso sulla giustificazione, come
evento che si compie nella persona che accoglie la giustificazione di Dio nella fede.
Paolo assume il significato giuridico-forense proprio del giudaismo trasformandolo però
profondamente, nel senso che l'agire incondizionato di Dio non resta estrinseco all'uomo, ma
produce una nuova realtà costituita da un nuovo rapporto con Dio, stabilito da Dio stesso e
che implica l'obbedienza dell'uomo.
S. Giovanni276 utilizza il termine karis277 solo in tre testi. Il primo è Gv 1,14 («E il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria
come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità»): il Logos, che è Dio e si fa carne, è
«pieno di grazia e di verità». La duplice espressione “grazia (karis) e verità (aletheia)”,
allude verosimilmente alla formula ebraica hesed we emet, bontà e fedeltà, usata in Es 34,6 («Il
Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà») e in
diversi salmi (25,10; 40,11; 57,4; 61,8; 86,15; 115,1; 138,2) per presentare l’amicizia fedele di
Dio, creatore e redentore, per le sue creature. Applicata al Logos indica l’abbondanza della
grazia e il dono stesso della grazia, che gli uomini ricevono dal Logos stesso. Il secondo è Gv
1,16 («Dalla sua pienezza noi tutti riceviamo e grazia su grazia»), parla dell’effusione della
pienezza di grazia del Logos sui credenti.
Il terzo è 2Gv 1,3 («Grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e da parte di Gesù
Cristo, il figlio del Padre, in verità e amore»), una formula di saluto che collega la pace e la
grazia alla comunione intradivina del Padre e del Figlio.
La teologia giovannea della grazia è espressa da una serie di sinonimi, tra i quali
troviamo vita (zoe) e amore (agape), usati spesso come correlativi, «perché indicano ambedue
la realtà più profonda dell’essenza di Dio quale essenza comunionale, desiderosa di
comunicarsi»278. Il principio ermeneutico di questa teologia può essere identificato nella lettura
275
J.D.G. DUNN, Romans 1-8, Dallas 1988, 182.
Cfr R. SCHNACKENBURG, L’idea di vita nel vangelo di Giovanni, in Il vangelo di Giovanni II,
Paideia, Brescia 1977, 574-588; R.E. BROWM, Giovanni, Cittadella, Assisi 1979 (soprattutto vol II); J.
MATEOS- J. BARRETO, Il vangelo di Giovanni, Cittadella, Assisi 1982; R. FABRIS, Giovanni , Borla,
Roma 1992.
277
Cfr I. DE LA POTTERIE, Karis paolina e karis giovannea, op cit, 239-260.
278
A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 76.
276
Antropologia Teologica 2009-2010
91.
cristocentrico-soteriologica dell’agape, come emerge da Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna»: Gesù Cristo è il dono di Dio, la grazia di Dio in persona nella storia (cfr Gv 5,26; 1Gv
1,2; 5,11). Gesù Cristo, però, non è solo il portatore della vita, egli dice di sé «Io sono la via, la
verità e la vita. Nessuno va al Padre se non attraverso di me» (Gv 14,6); «Io sono il pane della
vita ...se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in
voi la vita» (Gv 6, 48.53); «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore,
vivrà» (Gv 11,25). L’uomo riceve questa vita aprendosi, nella fede, a Gesù, accogliendo la sua
parola: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va
incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24).
La Tradizione
L'epoca patristica279
Il dato scritturistico resta a lungo determinante nello sviluppo storico della riflessione
sulla grazia, in quanto i Padri non si scostano sostanzialmente, per uso linguistico ed
elaborazione concettuale, dal NT. Va però rilevato la diversa tematizzazione di questa dottrina
da parte delle due grandi tradizioni, orientale e occidentale, del cristianesimo. Se la riflessione
orientale si sviluppa senza la preoccupazione di difendere l'ortodossia della dottrina da interpretazioni eterodosse, non così è per la tradizione occidentale, segnata dalla polemica
pelagiana.
La tradizione orientale280
L'approfondimento della grazia inizia nella teologia orientale dal tema biblico dell'uomoimmagine di Dio. Diversi Padri (gli alessandrini, i cappadoci, gli antiocheni, S. Ireneo)
presentano la storia umana come un crescente processo pedagogico, nel quale Dio, mediante
gli eventi storici che culminano nell'evento di Gesù, ripristina la propria immagine nell'uomo,
deturpata dal peccato. La categoria teologica maggiormente utilizzata dai Padri orientali è
quella della divinizzazione281: l'uomo, in quanto partecipa alla vita di Cristo e del Dio uno e
trino, è divinizzato (S. Giovanni Damasceno), viene deificato (S. Basilio). Le caratteristiche:
- La gratuità: è una libera comunicazione della stessa vita divina all'uomo, il quale può diventare
figlio secondo la grazia di Dio.
«Pur essendo uomini terreni, siamo chiamati dèi, non come il vero Dio o il suo Logos, ma come
l'ha voluto Dio, che ci ha conferito questa grazia»282.
- La gradualità: dal punto di partenza del dato genesiaco dell'uomo immagine e somiglianza di
Dio alla realtà escatologica della piena somiglianza con Dio (cfr 1Gv 3, 2).
«L'uomo ha ricevuto la dignità dell'immagine nella sua prima creazione, ma la perfezione della
somiglianza gli sarà concessa solo con la consumazione»283.
279
Cfr P. FRANSEN, Presentazione storico-dogmatica della grazia, MS IX, Brescia 1975, 57-94; V.
GROSSI-B. SESBOÜÉ, Grazia e giustificazione: dalla testimonianza della Scrittura alla fine del Medioevo,
AA.VV, Storia dei dogmi II: l'uomo e la sua salvezza (V-XVII secolo), Piemme, Casale M. 1997, 237-284 (=
Storia dei dogmi II).
280
Cfr A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 87-98.
281
Cfr M. LOT-BORODINE, Perché l’uomo diventi Dio, Qiaqajon, Magnano 1999.
282
S. ATANASIO, Oratio III adversus Arianos, III, 19; PG 26,362-363.
283
ORIGENE, De Principiis, III 6, 1; PG 11,333.
Antropologia Teologica 2009-2010
92.
L'animatore di tale dinamismo è lo Spirito Santo, il quale forma nell'uomo l'immagine del
Verbo, fa crescere fino alla piena maturazione il principio iniziale della somiglianza.
- La dimensione salvifica: la divinizzazione dell'uomo è possibile perché Dio si fa uomo per noi,
così che noi possiamo essere divinizzati in lui.
«Il Verbo, unendosi all'uomo, prese in sé tutta la natura umana, affinché tutta l'umanità,
attraverso questa unione con la divinità, fosse divinizzata in lui e tutta la massa della nostra
natura fosse santificata, con le primizie»284.
Nella riflessione sulla grazia proposta dalla teologia orientale in primo piano non sta la
situazione dell'uomo peccatore, ma la bontà di Dio uno e trino, l'incarnazione del Verbo,
l'azione divinizzatrice dello Spirito.
La tradizione occidentale285
Il mutamento culturale che si nota passando dal cristianesimo orientale a quello occidentale è spiegato anche dal diverso contesto civile e culturale. Mentre la cultura greca è
interessata all'idea, al cosmo, come insieme armonioso e unitario, all'immagine ideale
dell'uomo, il pensiero latino concentra la propria attenzione sull'individuo concreto, sulle
disposizioni della sua volontà, la responsabilità, la colpa e la ricompensa. Questo influirà anche
sugli orientamenti teologici dei due ambiti.
La teologia occidentale è segnata da categorie giuridiche: il cristianesimo si presenta
come religione del diritto divino, attuazione di un rapporto giuridico con Dio: «Se presso i
greci la redenzione era vista essenzialmente come il problema del modo in cui la natura umana
può essere liberata dalla sua indifferenza, oscurità e confusione, per essere ristabilita nel
dinamismo originario della mimesis e raggiungere così il suo vero fine, la divinizzazione, la
concezione soteriologica latina si riallaccia al problema della sanatio del rapporto giuridico tra
Dio e l'uomo. Si tratta del ristabilimento dell'ordo giuridico, che è stato distrutto per colpa
dell'uomo»286.
La redenzione non è intesa, al pari dell'Oriente, come processo pedagogico universale
condotto da Dio con la sua educazione (paideia), ma a partire dal singolo, dalla sua autonomia.
La libertà del singolo non è più posta nell'ambito di un processo cosmico che la plasma, ma
resta il punto di partenza nello svolgimento del discorso salvifico. Emerge la nuova
impostazione: il singolo è salvato con l'aiuto della grazia, intesa come speciale forza
comunicatagli da Cristo, che libera dal peccato e realizza il fine dell'uomo.
In sintesi, mentre in Oriente la grazia è pensata teologicamente e comprende tutti gli
avvenimenti salvifici, in Occidente è pensata antropologicamente, come realtà per/nell'uomo,
donata perché possa essere realmente libero.
La controversia pelagiana (sec V)287
Rappresenta un momento basilare per la comprensione della grazia e del rapporto tra
Dio e libertà dell'uomo. La storia della controversia è complessa perché il dibattito si svolge in
diverse aree geografiche (Africa, Palestina, Roma) e perché la discussione riguarda temi diversi,
anche se tra loro collegati, quali il battesimo dei bambini, il peccato originale, il rapporto
284
S. GREGORIO DI NISSA, Adversus Apollinarem, XV; PG 45, 1151.
Cfr A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 99-133.
286
G. GRESHAKE, Le trasformazioni delle concezioni soteriologiche nella storia della teologia.
Redenzione ed emancipazione, Queriniana, Brescia 1975, 109.
287
Cfr; V. GROSSI, La polemica pelagiana: amici ed avversari di Agostino, in Patrologia III: dal concilio
di Nicea (325) al concilio di Calcedonia (451). I Padri latini, a cura di A. Di Bernardino, Marietti, Casale M.
1978, 437-475; G. COLZANI, Antropologia, 132-137; A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 100-125.
285
Antropologia Teologica 2009-2010
93.
grazia-libertà, la natura della concupiscenza (libido), la possibilità per l'uomo di evitare il
peccato (impeccantia), l'universalità della grazia di Cristo e la predestinazione.
I protagonisti
Per una corretta ermeneutica del pensiero pelagiano e di chi è coinvolto nella polemica,
bisogna tener presente i diversi livelli in cui si articola il loro pensiero: l'intenzione profonda
che li anima; il linguaggio teologico utilizzato; l'ambito della controversia col tipico gioco
linguistico; il sistema teologico, per quanto possa essere ricostruito.
Pelagio288
Pelagio è preoccupato di garantire, a fronte del dualismo manicheo, la bontà della
creazione e quindi la libertà naturale dell'uomo. Di fronte inoltre al diffuso lassismo
dell'ambiente raccomanda la mortificazione e insegna il combattimento spirituale, facendo
appello alla libertà dell'uomo per vivere secondo Cristo, sia nella vita pubblica che in quella
privata. In Pelagio fa problema non la sua ortodossia riguardo agli articoli del Credo, ma il
modo d'intendere la vita morale e spirituale, dove la realtà della redenzione e il ruolo della
grazia risultano minimizzati.
La nozione pelagiana della grazia/giustificazione può essere riassunta in questi punti:
• La grazia è anzitutto la creazione dell'uomo dotato di libero arbitrio e di una “santità” che
gli consente di discernere il bene e il male. La natura stessa dell'uomo, creata libera, è
quindi una grazia, perché donata gratuitamente.
• La grazia è la Legge antica (AT) e la Legge nuova (NT). La rivelazione divina aiuta l'uomo
a conoscere la volontà di Dio, a osservare i precetti (“grazia di salvezza”).
• La grazia si trova nell'esempio di uomini santi, anche pagani, i quali non hanno peccato o
non sono rimasti nel peccato.
• C'è una grazia dei sacramenti (soprattutto del battesimo) che libera l'uomo dagli “atti” dei
suoi peccati anteriori e dalla concupiscenza.
Nel precisare il rapporto grazia-libertà Pelagio distingue nell'agire dell'uomo tre aspetti: la
possibilità, il volere, l'azione. La possibilità di compiere il bene è dono di Dio, appartiene alla
natura umana, precede e fonda la libertà; il volere e l'azione - l'uso di tale possibilità - sono
propri dell'uomo:
«Noi così distinguiamo queste tre cose e le disponiamo con ordine preciso. Assegnamo il primo
posto alla possibilità, il secondo alla volontà, il terzo all'azione. Collochiamo la possibilità nella
natura, la volontà nella libera disposizione, l'azione nella messa in atto. La prima, cioè la possibilità,
appartiene strettamente a Dio, che l'ha conferita alla sua creatura; le rimanenti due, cioè la volontà e
l'azione, sono proprie dell'uomo, giacché procedono dal libero arbitrio. Perciò il volere e il retto
agire suonano lode all'uomo; anzi all'uomo e a Dio, che offrì la possibilità di volere e agire e che
aiuta sempre questa possibilità con il soccorso della sua grazia. Invece la pura possibilità di volere il
bene e di compierlo, è dono esclusivo di Dio» (R 1413).
La grazia fa riferimento al primo aspetto; gli altri due, pur derivati dalla grazia, appartengono
anche all'operare dell'uomo. In questa prospettiva la grazia non va pensata come
determinazione interiore della volontà, del libero arbitrio, ma come aiuto esterno. Il carattere
288
Cfr S. PRETE, Pelagio e il pelagianesimo, Morcelliana, Brescia 1961; H. RONDET, La grazia di Cristo,
Città Nuova, Roma 1966, 120-139; F.G. NUVOLONE- A. SOLIGNAC, Pélage et pélagianisme, Dsp XII/2
(1986) coll 2889-2942.
Antropologia Teologica 2009-2010
94.
“esterno” ed “esemplare” della grazia è affermato anche riflettendo sul peccato dell'uomo.
Proprio perché, a causa del peccato, le facoltà naturali dell'uomo sono compromesse, Dio
soccorre l'uomo - con gli eventi salvifici, la legge, i profeti, soprattutto con Cristo - per
vivificare la sua libertà compromessa e condurlo pedagogicamente alla salvezza.
Per Pelagio quindi l'uomo mantiene la libertà e la capacità di comportarsi rettamente, di
vivere da autentico cristiano, di evitare il peccato. È la tesi dell'impeccantia con cui è riconosciuta
la dignità etica e la responsabilità dell'atto umano, tanto che si può puntare su di esso per
esigere un impegno morale. Sulla base di tale tesi sono rifiutate le teorie che negano il libero
arbitrio, specialmente la dottrina di un peccato ereditario e quella dell'invincibilità della
concupiscenza. Il presupposto da cui muovono i pelagiani è che Dio conserva alla natura
umana, nonostante il peccato, la dimensione di imago Dei, gli viene in aiuto con gli eventi salvifici, tanto che l'uomo ha sempre la possibilità di agire a immagine di Dio.
Il problema teologico posto da Pelagio è se nel credente si può individuare un'altra
sorgente di vita morale, oltre la libertà, che è dono di Dio, responsabilità della persona, tesa a
rendere l'uomo soggetto del premio, della condanna. Praticamente nel pelagianesimo «viene a
galla una maniera astratta e semplificatrice di leggere i rapporti fra Dio e l'uomo che vede Dio
dare la legge e il premio-condanna lasciando all'uomo tutto il resto; soprattutto, però, viene a
galla un'incomprensione profonda del significato di Cristo letto in termini pedagogici e non
salvifici: l'esperienza cristiana appare costretta entro lo schema di una paideia senza il respiro
di una storia salvifica»289.
Agostino290
Agostino sta all'origine della riflessione cristiana sulla grazia, nel senso che in lui la grazia
è problematizzata, diventa oggetto di riflessione critica. Prima di lui la riflessione cristiana
viveva di convinzioni pacifiche e, quindi, sostanzialmente inesplorate.
Nel nostro teologo il problema della grazia emerge per la controversia con Pelagio, come
questione della capacità dell'uomo ad agire bene. La soluzione pelagiana dichiara
l'autosufficienza dell'uomo, Agostino sostiene l'insufficienza dell'uomo, data - direttamente
anche se non esclusivamente - dalla condizione di peccato in cui l'uomo versa e dove risulta
compromessa la sua originaria capacità di compiere il bene. Ne consegue che l'uomo è
impossibilitato a fare il bene se non riceve un aiuto (auxilium) da parte di Dio, che, stante la
situazione dell'uomo, non può essere che gratuito (gratia).
Per evitare di deformare il pensiero agostiniano va considerata la sua riflessione sulla
grazia non esaurita dal confronto con Pelagio. La dottrina sulla grazia presuppone i grandi
temi della patristica greca, particolarmente quelli dell'inabitazione di Dio nel giusto, la
partecipazione alla natura divina, la comunione con Cristo.
289
G. COLZANI, Antropologia, 134.
Cfr. A. TRAPÉ, S. Agostino. Introduzione alla dottrina della grazia, I: Natura e grazia; II: Grazia e
libertà, Città Nuova, Roma 1987 e 1990; V. GROSSI- B. SESBOÜÉ, Grazia e giustificazione: dalla
testimonianza della Scrittura alla fine del Medioevo, AA.VV, Storia dei dogmi II, 252-273; G. MANCA, La
grazia, S. Paolo, Cinisello B. 1997, 187-199. I testi di Agostino sulla grazia: Le diverse questioni a
Sempliciano (De diversis quaestionibus ad Semplicianum), a cura di G. Ceriotti - L. Alici - A. Pieretti (NBA
VI/2), Città Nuova, Roma 1995; Lo spirito e la lettera (De spiritu et littera), a cura di I. Volpi (NBA
XVII/1), Città Nuova, Roma 1981; La natura e la grazia (De natura et gratia), a cura di I. Volpi (NBA
XVII/1), Città Nuova, Roma 1981; La grazia di Cristo e il peccato originale (De gratia Christi et de
peccato originali), a cura di I. Volpi (NBA XVII/2), Città Nuova, Roma 1981; La grazia e il libero arbitrio
(De gratia et libero arbitrio), a cura di M. Palmieri (NBA XX), Città Nuova, Roma 1987; La correzione e la
grazia (De correptione et gratia), a cura di M. Palmieri (NBA XX), Città Nuova, Roma 1987; La
predestinazione dei santi (De pradestinatione sanctorum), a cura di M. Palmieri (NBA XX), Città Nuova,
Roma 1987; Il dono della perseveranza (De dono perseverantiae), a cura di M. Palmieri (NBA XX), Città
Nuova, Roma 1987.
290
Antropologia Teologica 2009-2010
95.
L'inabitazione di Dio nel giusto:
«Dio, che è onnipresente... non inabita in tutti, ma solo in coloro che ha costituito suo tempio
beatissimo» (Ep 187).
Tale presenza è un fatto ontologico, non psicologico, tanto che opera nei bambini, anche se
non sono in grado di riconoscerla:
«Affermiamo che lo Spirito Santo abita nei bambini battezzati, quantunque costoro non lo
sappiano» (Id).
La partecipazione alla natura divina:
«Egli [Gesù Cristo] è disceso affinché noi salissimo e pur restando nella sua natura, si è fatto
partecipe della nostra, affinché noi, pur rimanendo nella nostra, fossimo fatti partecipi della sua»
(Ep 140).
La trattazione dei temi è svolta da Agostino con un'impronta personale, data
dall'accentuazione della funzione della carità. Per la divinizzazione:
«Ami la terra? Terra sarai! Ami Dio? Che ti dirò? Sarai Dio? Non oso dirlo di mia iniziativa.
Ascoltiamo la Scrittura: Io ho detto: divini voi siete e figli dell'Altissimo» (In Ep Ioann).
Per l'inabitazione:
«Hai cominciato ad amare Dio? Dio ha cominciato ad abitare in te» (Id).
La comunione con Cristo
Agostino rappresenta su questo punto un netto progresso rispetto ai padri greci. Per
evidenziare l'unità dei cristiani con Cristo conia espressioni audaci: «nos ipse sumus», «erit
unus Christus amans seipsum», «Christus totus», formula che esprime l'unione reale di Cristo
con la Chiesa.
In relazione agli influssi, che conducono Agostino a formulare tale dottrina, vanno
evidenziati alcuni fattori:
Sul piano della dipendenza concettuale annotiamo
•
•
•
la personale meditazione della Bibbia, soprattutto degli scritti paolini e giovannei, con la
sottolineatura del primato di Dio e la tendenza a interpretare in chiave personalistica
quanto nella Scrittura è esposto in chiave cosmica e in riferimento al popolo di Dio;
la formulazione neoplatonica con l'idea fondamentale di partecipazione alla bontà divina;
la tradizione latina antecedente, con la sua forte sottolineatura dell'umana debolezza, del
peccato e della necessità dell'aiuto divino.
Sul piano della particolare situazione storica va rilevato
•
•
•
l'esperienza di convertito, che ha esperimentato il male e la debolezza della natura umana;
l'esperienza sacerdotale ed episcopale, che pone Agostino a contatto con uomini peccatori,
bisognosi della grazia di Cristo;
la controversia pelagiana, che lo induce a una prolungata e polemica attenzione al
problema della rapporto grazia-libertà.
Antropologia Teologica 2009-2010
96.
Ci limitiamo a esporre la teologia agostiniana della grazia nei suoi due aspetti fondamentali:
l'assoluta necessità della grazia (natura della grazia); la gratuità ed efficacia della grazia (la
predestinazione).
* L'affermazione dell'assoluta necessità della grazia si fonda su due presupposti: il primo
è quello del peccato originale, inteso come perdita della capacità di compiere il bene da parte
dell'uomo, schiavitù del peccato, pur conservando l'uomo il libero arbitrio; il secondo fa
riferimento alla lettura neoplatonica di Dio come sommo Bene, a cui partecipano i beni
particolari.
La grazia produce nell'uomo non solo quanto vi è di bene, ma l'aiuta anche a evitare il male. La
necessità della grazia non è giustificata solo dall'attuale stato dell'umanità decaduta, ma anche
dalla situazione originaria di Adamo. La grazia è necessaria ancor prima del peccato, in quanto
fa riferimento alla finitezza della creatura e si presenta come aiuto dato ad Adamo perché
possa perseverare nel bene nel quale era stato creato (auxilium sine quo non). E' soprattutto dopo
il peccato che la grazia risulta necessaria, in quanto la volontà dell'uomo risulta ferita dal male e
si presenta come aiuto che non offre solo la possibilità di compiere il bene, ma conduce pure
alla vita eterna (auxilium quo).
Agostino considera la grazia principalmente in funzione dell'agire morale, come amore al
bene (delectatio). La grazia è la delectatio victrix donata da Cristo, la quale vince la concupiscenza,
la delectatio verso il male prodotta nell'uomo dal peccato di Adamo.
In Agostino la grazia si esprime come una relazione, non solo nel senso che rappresenta un
“intermediario” tra Dio e l'uomo, ma anche nel senso che esprime la benevolenza di Dio che
si dona. La grazia costituisce quindi il rapporto dell'uomo con Dio (grazia di Dio) e, in
particolare, con Cristo, il suo Redentore (grazia di Cristo), mediante la carità diffusa nel cuore
dallo Spirito.
Funzionale al chiarimento di questa relazione è la distinzione tra libero arbitrio e libertà: il
primo rappresenta la facoltà di scegliere propria dell'uomo, che non è mai persa, nemmeno
quando la volontà si trova in situazione di peccato, la seconda è l'amore al bene, la volontà
orientata verso il sommo Bene (Dio). La libertà esiste solo nella grazia, in assenza della quale
l'uomo non è in grado di orientarsi verso Dio. La grazia quindi è l'aiuto (auxilium/adiutorium)
offerto da Dio al libero arbitrio dell'uomo peccatore perché si esprima come libertà, si diriga
verso Dio. In seguito al peccato di Adamo il libero arbitrio dell'uomo è incapace di scegliere il
bene, perde la libertà; la grazia gli conferisce nuovamente la capacità della libertà.
Tale concezione essenzialmente psicologica della grazia impone il chiarimento del
rapporto grazia-libertà, dove l'affermazione dell'assoluta necessità della grazia dovrà
salvaguardare lo spazio della libertà umana, che nell'impostazione agostiniana, impegnata ad
attribuire la salvezza esclusivamente alla grazia, per conservarle il carattere di gratuità, e,
correlativamente, a interpretare l'affermazione del peccato originale come radicale corruzione
della capacità dell'agire morale dell'uomo, sembra subire una svalutazione.
Agostino avverte l'esigenza di salvaguardare la libertà. Tuttavia in lui premono due motivi che
finiscono per comprometterla: la necessità - indotta dall'esigenza di mantenere alla grazia il
carattere di gratuità - di assegnare alla grazia l'opera salvifica in tutti i suoi aspetti; la necessità
di mantenere l'esistenza del peccato originale nelle sue più immediate conseguenze, cioè la
rovina della capacità dell'agire morale.
* L'affermazione della assoluta gratuità ed efficacia della grazia consegue da questo
modo di pensare la libertà nel contesto della grazia. Il tema, indagato nelle opere solitamente
connesse alla controversia pelagiana, fa riferimento alla predestinazione, definita da Agostino
come «prescienza e preparazione dei benefici divini per mezzo dei quali sono sicuramente
liberati coloro che sono liberati».
Antropologia Teologica 2009-2010
97.
La predestinazione quindi è un atto divino che include l'infallibile efficacia; poiché è un atto
eterno, precede le determinazioni temporali, gli atti dell'uomo.
La soluzione del problema della predestinazione risulta condizionata dal modo con cui
Agostino risolve la questione del rapporto grazia-libertà. Dato che la libertà dipende “in toto”
dalla grazia, si dà l'alternativa che o Dio offre la grazia a ogni uomo, con la conseguenza che
tutti si salvano, perché la grazia è onnipotente (delectatio victrix), o non tutti si salvano, con la
conclusione che Dio offre la grazia solo a quelli che si salvano. Agostino opta per la seconda
alternativa, che gli è imposta dal suo stesso principio dell'invincibilità della grazia. Non ha altra
possibilità che limitare la distribuzione della grazia, per non concludere, in base al principio
che Dio dà a tutti la grazia, che tutti gli uomini si salvano effettivamente e non solo hanno la
possibilità della salvezza (conclusione nuova nella riflessione cristiana). Il criterio che guida la
decisione di Dio nella distribuzione della grazia appartiene alla misteriosa libertà divina, sfugge,
quindi, all'uomo che può solo adorare il “mistero” della predestinazione.
Il pensiero di Agostino offre un contributo determinante alla successiva riflessione e allo
sviluppo dogmatico. Con esso vengono chiarite alcune verità fondamentali: il senso profondo
del peccato e la conseguente situazione di miseria dell'uomo; la salvezza come dono gratuito di
Dio; la costante necessità, anche per il battezzato, dell'aiuto soprannaturale; il primato di Dio
nel rapporto uomo-Dio in riferimento alla vita eterna.
La riflessione agostiniana mostra però limiti che influiranno pesantemente sulla
successiva teologia: la volontà salvifica universale, che, pur affermata, non è sufficientemente
evidenziata; lo scarso rilievo dato alla libertà dell'uomo nel consentire o meno alla grazia; la
grazia considerata piuttosto come mezzo per giungere alla salvezza, mentre nella Scrittura
equivale alla stessa salvezza, il dono di Dio in Gesù e nello Spirito.
I fatti
Pelagio, monaco, probabilmente di origine irlandese, giunge a Roma nel 380/ 400, come
pastore d'anime, maestro di ascesi e di vita spirituale. È il momento della fine del paganesimo,
dell'adesione in massa alla Chiesa e della diffusione del lassismo nelle comunità. Per questo egli
lotta contro la tiepidezza e i compromessi delle conversioni per opportunismo. Nel 410, di
fronte alla truppe di Alarico che saccheggiano Roma, fugge in Africa; da qui passa
successivamente a Gerusalemme dove è accolto dai vescovi palestinesi. Tra i discepoli di
Pelagio va ricordato Celestio, un controversista dialettico, che tira rigorosamente le conseguenze della sua dottrina.
Inizialmente Agostino non interviene, perché impegnato contro i donatisti. La denuncia
di Celestio al concilio di Cartagine (411) è fatta da Paolino di Milano in relazione alla sua
affermazione che i bambini sono in stato di innocenza alla nascita.
La questione pelagiana s'inasprisce col concilio di Diaspoli (415), che assolve Pelagio, il quale
sottoscrive le tesi del concilio di Cartagine, distanziandosi così da Celestio. L'assoluzione
provoca una reazione, che si esprime nei concili di Cartagine e Milevi (416), che rinnovano la
condanna e fanno appello a Roma. Alla fine di gennaio del 417 papa Innocenzo scomunica
Pelagio e Celestio, senza però entrare nel merito dei problemi.
Con la morte del papa cambia la situazione: il successore Zosimo (417) appare più
esitante sulla questione. Per questo i vescovi africani esercitano pressioni su Roma e sulla corte
imperiale, mettendo in guardia dalle conseguenze sociali delle attività di Celestio e di Giuliano
di Eclano. Il 1 maggio 418 più di duecento vescovi dell'Africa e della Numidia si radunano a
Cartagine in concilio; promulgano 3 canoni sul peccato originale e 6 canoni sulla grazia (DS
222-230). Papa Zosimo, anche dietro pressione degli africani e della corte imperiale, forse
anche per gli eccessi attribuiti a Celestio, manda una lettera circolare con la quale approva il
Antropologia Teologica 2009-2010
98.
concilo di Cartagine (DS 231), tranne il 3° canone sulla sorte dei bambini morti senza
battesimo.
I decreti cartaginesi sono ritenuti un'autorevole conclusione della controversia pelagiana.
Mentre Giuliano d'Elcano e 17 vescovi italiani vanno in esilio, a Mopsuestia e a Bisanzio,
Pelagio dichiara la sua ortodossia. Nuovamente condannato, esiliato a Gerusalemme, si rifugia
in Egitto; scompare dalla scena nel 422. Alla morte di papa Zosimo, Celestio ritorna per breve
tempo a Roma, esiliato si reca da Giuliano di Eclano a Bisanzio, dove Nestorio lo difende. Ma
nel 431 a Efeso Nestorio viene condannato, con lui anche Celestio e la dottrina pelagiana.
Il motivo del contrasto291
E' il diverso modo d'intendere l’azione della grazia in rapporto alla libertà dell'uomo a
dividere Pelagio da Agostino292.
Pelagio, in sintonia con la dottrina orientale, presenta l'azione divina nella storia in
relazione a una libertà, che conserva sempre la capacità del bene, di accogliere o rifiutare il
processo pedagogico di Dio. L'accento sulla libertà umana induce conseguentemente a pensare
la funzione della grazia come aiuto esterno dato all'uomo, che è capace di conseguire da solo la
salvezza. L'aiuto, fornito dagli eventi storico-salvifici alla libertà, per consentirle di tendere
progressivamente al prototipo divino, è per Pelagio il medium dell'esperienza di grazia. Pelagio
ritiene che «la “grazia” è l'annuncio della legge e dell'evangelo e che per accoglierla basta la
libertà, che, appunto in questo modo, viene rimessa in movimento verso Dio»293.
Agostino vede nella posizione pelagiana «una dinamica tesa ad appaiare grazia e libertà
concludendo così a un travisamento di tutta l'economia cristiana»294. La libertà, più che rimessa
in movimento nella direzione che ha da sempre in forza della creazione, va “girata” proprio
nella sua direzione: dal male al bene, dalle cose a Dio, dall'egoismo all'amore295. Al centro sta la
grazia - l'opera gratuita di Dio in Gesù che libera l'uomo dal peccato, lo riconcilia con Dio all'interno della quale va posta la libertà umana. La libertà di scelta non può essere pensata
previamente e esternamente all'azione della grazia, perché questa s'identifica con la stessa decisione libera, che si lascia attuare dall'azione di Dio.
Agostino in tal modo «ritiene di salvaguardare anche le esigenze legittime del pensiero
pelagiano là dove è preoccupato di mantenere una qualche consistenza alla libertà: non si
tratta, però, di dichiarare la libertà struttura basilare della vita umana e cristiana, di cui la grazia
sarebbe una specificazione, ma si tratta di chiarire come la grazia è fondamento insuperabile di
tutta la vita salvifica e perciò anche della libertà cristiana»296.
Il bilancio del dibattito297
Il dato più rilevante che emerge dalla polemica pelagiana è la riaffermazione del primato
di Dio nella salvezza contro ogni riduzione antropocentrica: la salvezza si fonda sull'azione di
Dio e non sulla libertà dell'uomo. Agostino insiste sulla salvezza come dono di Dio, del quale
sottolinea l'agire gratuito e necessario. Questo dono, la grazia, è offerto da Dio all'uomo
peccatore per la sua salvezza.
Nel quadro del dibattito con Pelagio Agostino sembra operare uno spostamento
d'accento, consolidato in seguito dai suoi discepoli: la grazia è colta più nel suo aspetto morale,
291
Cfr A. GUZZO, Agostino contro Pelagio, Ed. di Filosofia, Torino 1958.
Cfr. A. MENGARELLI, La libertà cristiana in Agostino e Pelagio, “Augustinianum”15 (1975) 347-366.
293
O.H. PESCH, Grazia, AA.VV, Enciclopedia teologica, Queriniana, Brescia 1989, 445.
294
G. COLZANI, Antropologia, 135.
295
Cfr O.H. PESCH, Grazia, op cit, 445.
296
G. COLZANI, Antropologia, 137.
297
Cfr ID, 144-145.
292
Antropologia Teologica 2009-2010
99.
sanante e liberante, che in quello santificante, indotto dalla presenza del Dio trinitario. Lo
spostamento d'accento determina un ondeggiamento nel rapporto fra la grazia e la struttura
della persona: se la riflessione sulla predestinazione sottolinea inequivocabilmente la
trascendenza di Dio che salva, al punto da coglierla in sé, indipendendente e quasi travolgente
la libertà umana, la dottrina della grazia, quale auxilium che libera l'uomo dal peccato, sembra
invece riportare la grazia non al disegno di Dio, ma all'uomo peccatore.
L'insufficiente tematizzazione del rapporto favorirà l'appello ad Agostino da parte di
pensieri diversi, come documenta la crisi protestante. Tale insufficienza pone poi il problema
della struttura antropologica della grazia: la grazia, quale azione libera e gratuita di Dio che
salva, va pensata come “esterna” all'uomo (extra nos) o come rifondante la sua libertà? Anche
qui sarà la crisi protestante a riproporre la questione con il tema della corruzione della persona.
L'intervento del magistero
La disputa tra Agostino da un lato e Pelagio e Celestio dall'altro, conosce diversi
interventi del magistero: la condanna di Celestio nel sinodo di Cartagine (411), la posizione
interlocutoria del sinodo di Gerusalemme e quella assolutoria del sinodo di Diospoli (415), la
rinnovata condanna di Pelagio nei sinodi africani di Cartagine e Milevi (416), il concilio di
Cartagine (418) e la Tractoria con cui papa Zosimo la convaliderà, di cui sono pervenuti solo
alcuni frammenti (DS 231) e un frammento citato in DS 244).
Fermiamo l'attenzione sul Concilio regionale di Cartagine, ritenuto la conclusione
della disputa pelagiana. Il Concilio promulga 3 canoni sul peccato originale (DS 222-224,
quest'ultimo, non approvato, riguarda la sorte dei bambini morti senza battesimo) e 6 canoni
sulla grazia. I primi 3 canoni illustrano la natura della grazia secondo la fede cattolica: la grazia
è un adiutorium necessario, non è la semplice remissione dei peccati (DS 225); non è solo
comunicazione del bene da fare (DS 226); non è l'aiuto a quanto l'uomo è in grado di fare da
sé (DS 227). Gli ultimi 3 canoni (DS 228-230) rifiutano la tesi della impeccantia sostenuta dai pelagiani.
In relazione al valore dogmatico del testo solitamente si parla di valore definitivo, data
l'approvazione papale. Di fatto, conoscendo solo frammenti dell'epistola Tractoria, si può solo
dire che il papa afferma la necessità della redenzione di Cristo, della grazia per raggiungere la
salvezza. Il testo però fu recepito, sia nella tradizione della chiesa orientale che in quella
occidentale, come documento conclusivo della controversia. Il riconoscimento assegna al testo
grande autorità, anche se forse non gli si può applicare il concetto di definizione dogmatica
formalmente intesa.
Segnaliamo infine il De gratia Dei indiculus, una compilazione dell'ambiente romano
tra il 345 e il 442, dovuta a Prospero d'Aquitania o forse allo stesso Leone Magno, ancora
diacono. Il documento presenta il pensiero della chiesa romana sul tema; raccoglie le citazioni
dei papi Innocenzo, Zosimo, dei concili africani, riconferma le tesi dell'assoluta necessità della
grazia (DS 239-242), mantiene il libero arbitrio, che non è soffocato dal peccato, ma solo
indebolito (DS 248), manifesta diffidenza verso un'indagine troppo critica su tali temi,
confermando la posizione prudente di Roma (DS 249).
La controversia semipelagiana298
Si tratta di una polemica innescata, verso la fine del sec. V, da un gruppo di monaci e di
laici del sud della Francia, radunati soprattutto attorno ai monasteri di S. Vittore di Marsiglia e
dell'isola di Lérins, contro due testi di Agostino per i monaci di Adrumeto, De gratia et libero
298
Cfr V. GROSSI, La crisi antropologica nel monastero di Adrumeto, “Augustinianum” 19 (1979), 103133; É. AMMAN, Semipélagiens, “Dictionnaire de théologique catholique” (DthC) XIV/2 coll 1796-1880;
C. TIBILET- TI, Rassegna di studi sui "semi-pelagiani", in “Augustinianum” 25 (1985) 507-522.
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100.
arbitrio (426), De correptione et gratia (427). Anche se la storiografia parla di semipelagianesimo, di
fatto c'è solo qualche analogia con Pelagio e la sua dottrina. Anticamente questi oppositori di
Agostino erano chiamati “Massilienses” o “Galli”; a partire dal 1660 è introdotto il termine
“semipelagiano”. L'opposizione alla dottrina agostiniana sulla predestinazione si segnala per
tre aspetti:
- il rifiuto di una concezione della predestinazione limitante la volontà salvifica universale
(Agostino interpreta il testo paolino di 1Tim 2,4: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi»
con: «Dio vuole che molti uomini siano salvi»299);
- il rifiuto della teoria della grazia invincibile;
- una certa attenuazione della necessità della grazia per l'inizio della salvezza.
La soluzione del problema di una concezione della predestinazione troppo restrittiva è riportata a una linea di sinergismo tra grazia e libertà anche nell'uomo peccatore; all'uomo è
attribuito l'initium fidei e il pius credulitatis affectus, primo atto di fede inclusivo dello stesso atto di
fede nella giustificazione.
Nella posizione si coglie un certo semplicismo teologico, che intende la grazia come un
tesoro che l'uomo deve amministrare sapientemente e fedelmente. Questo tipo di sinergismo,
da un lato si mostra «incapace di cogliere il disegno di Dio e la sua grazia come il tutto entro
cui bisogna cogliere e porre anche la libertà umana: la libertà appare una dinamica
indipendente, autonoma, a fianco della grazia»300, dall'altro assegna la salvezza all'ambito delle
possibilità umane, non solo opponendosi ad Agostino, ma abbandonando anche il dato
biblico, per il quale Dio rimane l'unico autore della salvezza.
La condanna del semipelagianesimo sarà espressa in occasione delle polemiche provocate dal
presbitero Lucido, che, ampliando le tesi agostiniane, parla di una doppia predestinazione, alla
salvezza e alla dannazione e da Fausto di Riez, che gli si contrappone con l'opera De Gratia et
libero arbitrio.
È il sinodo di Orange (529) a sancire la condanna con un decreto, comprendente 8 canoni e 17 sentenze, dove sono riproposti i punti fondamentali della concezione agostiniana: la
necessità della grazia, sia nello stato di decadenza (DS 377-378: Can 8-9), sia per lo stato di
natura integra (DS 389: can 19), per riparare il libero arbitrio (DS 383: can 13), per trasformare
l'uomo (DS 385: can 15), per conferire la giustizia cristiana (DS 391: can 21). La grazia è
ritenuta necessaria nel processo preparatorio (DS 376-378), in particolare per la volontà di
salvarsi (DS 374: can 4), per la preghiera che domanda la salvezza (DS 373: can 3), per l'initium
fidei e il pius credulitatis affectus (DS 375: can 5). La necessità della grazia è inoltre ribadita in riferimento alla perseveranza: per pensare e agire rettamente (DS 379: can 9), per perseverare
(DS 380: can 10), per mantenere le promesse del bene (DS 381: can 11), per ogni opera buona
(DS 390). Il Sinodo, d'altra parte, ribadisce la volontà salvifica universale e rifiuta la predestinazione al male (DS 397).
Medioevo301
La Scolastica eredita da Agostino la concezione della grazia come auxilium (aiuto) offerto
da Dio, il quale pone la sua dimora nell'uomo, così che questi è in grado di abbandonare il
falso bene che lo indirizza verso le cose terrene, allontanandolo dal Sommo Bene (Dio), per
entrare nello spazio della sua azione, nella comunione con Lui. La Scolastica prosegue
risolvendo tale concezione dinamica della grazia in una concezione più stabile, ontologica,
della vita di grazia. La grazia, interiorizzata dall'uomo, evidenzia, oltre che l'efficacia “sanante”
esercitata sull'agire dell'uomo (Agostino), anche un'efficacia “elevante”, perché abilita l'uomo
299
AGOSTINO, Contra Julianum, IV, 44; PL 44, 760.
G. COLZANI, Antropologia, 141.
301
Cfr G. COLZANI, Antropologia, 147-170; A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 134-163.
300
Antropologia Teologica 2009-2010
101.
ad agire, sul piano della conoscenza e dell'amore di Dio, in modo superiore alle proprie
capacità naturali (in modo soprannaturale).
In sintesi per la Scolastica la grazia è il dono di Dio che trasforma l'uomo (non solo la
sua azione), rendendolo capace di atti soprannaturali (non solo di atti buoni); dono che
rappresenta una qualità permanente (habitus). La Scolastica interpreta Agostino «secondo un
duplice approfondimento. In quanto porta il centro d'interesse della problematica che si
riferisce alla grazia dagli atti dell'uomo allo stato o situazione dell'uomo, elaborando la dottrina
dello “stato di grazia” come supporto logico a quella agostiniana della “necessità della grazia”;
e conseguentemente, in quanto giustifica la necessità della grazia, non solo in riferimento allo
stato di caduta dell'uomo, quanto piuttosto a quello di elevazione»302.
S. Tommaso (1221-1274)303
Tommaso sviluppa la sua dottrina della grazia nella Summa, nella parte dedicata alla
morale (I/IIae, qq 109-114). Nel piano generale dell'opera la Ia Pars è dedicata allo studio di
Dio, sotto tutti i suoi aspetti: unità dell'essenza, trinità delle persone, come principio e fine di
tutte le creature (angeli, uomo, mondo). La IIa Pars è uno studio della moralità umana in particolare: “De motu rationalis creaturae in Deum”, suddiviso in una morale generale (I-IIae) e in
una morale speciale (II-IIae). L'attenzione all'uomo trova la sua ragion d'essere nel fatto che
l'uomo, creatura caratterizzata dalla spazialità e dalla temporalità, si determina nei confronti di
Dio, suo fine ultimo, mediante molteplici atti liberi successivi. Oggetto della I-IIae è dunque
l'attività libera dell'uomo, creato a immagine di Dio, per il raggiungimento del fine ultimo, la
beatitudine. E' quindi in funzione di questa libertà e meritoria attività dell'uomo che viene vista
la grazia.
Questo “De gratia”, che è collocato al termine della I-IIae, è diviso in due parti: la necessità
della grazia (q 109), la natura della grazia (qq 110-114).
* La necessità della grazia. Si tratta di duplice necessità: assoluta (in ordine al
raggiungimento del fine soprannaturale, per il quale l'uomo è stato creato e che trascende la
sua natura) e morale (in ordine agli atti fondamentali della vita cristiana: amare Dio, osservare i
comandamenti, meritare la vita eterna). La grazia quindi è necessaria in primo luogo per
“amare Dio al di sopra di tutto”, in secondo luogo per vivere senza peccato e compiere opere
buone che meritano la vita eterna.
* La natura della grazia. Raccogliamo qui i vari aspetti della grazia e della sua azione
(essenza, modi, causa, effetti).
Per Tommaso la grazia è una qualità inerente all'essenza dell'anima (qualitas in anima = “una
particolare pre-connotazione qualitativa dell'operare dell'anima” O.H. Pesch), che rigenera e
ricrea l'uomo come figlio di Dio, consentendogli di percepire come 'connaturali' gli influssi
divini (q 110). Opera nell'uomo come una relazione, in modo dialogico, capace di dar vita a
una risposta. Il rilievo è ricavato dalla triplice definizione data da Tommaso al concetto di
“grazia”:
- “Amore” (dilectio) di una persona che manifesta il proprio favore o indulgenza a un'altra;
- il “dono” che ne consegue in “modo indebito” (gratis data);
302
G. COLOMBO, Grazia, AA.VV., Enciclopedia delle religioni I, Vallecchi Firenze 1960 col 1614 (=
Grazia).
303
Cfr A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 138-152; O.H. PESCH, Liberi per grazia, op cit, 312-327; B.
LONERGAN, Grazia e libertà. La grazia operante nel pensiero di S. Tommaso, Editrice Università
Gregoriana, Roma 1970; A. GALLI, La teologia della grazia secondo san Tommaso e nella storia, Edizioni
Studio Domenicano, Bologna 1987; G. MANCA, La grazia, dialogo di comunione, S. Paolo, Cinisello B.
1997, 74-93; 199-215.
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102.
- la “risposta” (recompensatio) piena di gratitudine del beneficiato al benfattore. Alla gratia
risponde la gratiarum actio che ne è come l'eco (cfr S.Th I/II, q 110, a 1, resp.)
L'uomo giustificato riceve una nuova forma, un nuovo modo di essere, un habitus («un dono
assimilativo che dispone l'anima a perseguire quel fine che solo la presenza e il dono che Dio
fa di sé permettono di raggiungere come nostro»)304, una “forma” permanente dell'anima. Tale
qualità però non è “sostanziale” (perché si aggiunge al soggetto già costituito), ma
“accidentale” (perché dà al soggetto una nuova perfezione).
Parlando dei modi della grazia (q 111) Tommaso non intende dividere la grazia in molte
grazie, ma evidenziare le modalità diverse con cui agisce l'unica e medesima grazia donata da
Dio. La grazia “creata” rende l'uomo gradito a Dio (gratia gratum faciens). Se è donata
gratuitamente al credente perché affronti una situazione particolare (per es. i carismi concessi
secondo 1Cor 12,7 dallo Spirito a beneficio della comunità) viene considerata come grazia
gratis data. La grazia che opera l'inizio del ritorno a Dio (conversione) è chiamata “operante”,
mentre “cooperante” è la grazia che sostiene il cammino di perfezionamento. Si parla inoltre
di grazia “preveniente” in riferimento al primo effetto provocato nell'uomo (quello sanante) e
“susseguente”, quando provoca il secondo (quello elevante) rispetto al primo.
Per Tommaso il conferimento della grazia è un processo che inizia con la guarigione
dell'anima, prosegue con la perseveranza della buona volontà nella carità e sfocia nella gloria
eterna.
La fonte (“causa”) della grazia è l'amore di Dio (q 112), che determina nell'uomo una
“modificazione” del suo essere, lo divinizza, in modo che possa possedere e esercitare le virtù
teologali della fede, speranza, carità.
La grazia produce effetti: risana l'anima, fa sì che essa voglia il bene, possa compiere
efficacemente il bene voluto, perseveri nel bene e raggiunga la gloria. Tommaso identifica il
risanamento dell'anima (la remissione dei peccati) con la giustificazione (q 113), che si esprime,
positivamente, anche come pace interiore, che consiste nell' “amore con cui Dio ci ama”. Parla
infine del merito (q 114), quale effetto della grazia cooperante.
Se ci si limita a leggere le qq 109-114 si può obiettare che la Summa parla di una grazia
che non ha riferimenti a Cristo. Va segnalato che nelle qq 109-114 non è la prima volta che si
parla della grazia nella Summa. Esse, in realtà, sono solo la ripresa di un tema già toccato
precedentemente in più parti, riaccostato in seguito e ora analizzato secondo un oggetto
formale particolare, quello del ruolo della grazia nella progressione dell'uomo verso la salvezza.
Già in precedenza Tommaso aveva parlato della grazia:
Nella Ia pars
q 43: dove la missione divina è concepita come modo di presenza di Dio del tutto
speciale, che conviene alla sola creatura razionale; questo modo di presenza è quello della
grazia (a 5).
q 62: anche gli angeli, creati immediatamente nella grazia santificante (a 3), ne hanno
bisogno per l'acquisizione della beatitudine (a 2), che per loro si realizza in una sola opzione
istantanea (aa 4-5).
q 95: sulla grazia nel primo uomo.
Nella I-IIae
304
G. COLZANI, Antropologia, 157.
Antropologia Teologica 2009-2010
103.
q 5: l'uomo non giunge da solo alla beatitudine, ma ha bisogno dell'aiuto divino, che
deve essere esteriore all'uomo, cioè non deducibile dalla sua natura e, insieme, intimamente
unito a lui, per suscitare in lui un atto personale e libero.
qq 55-70: « De virtutibus ». Fra le virtù Tommaso fa rientrare, oltre a quelle intellettuali
e a quelle morali, anche le virtù teologali (q 62), alle quali spetta il primato nell'organismo delle
virtù. Inoltre, secondo Tommaso, esiste un insieme di virtù morali la cui origine non è l'acquisizione da parte dell'uomo, ma l'infusione da parte di Dio e questo si giustifica in
considerazione del fine soprannaturale cui tali virtù infuse sono orientate (q 63, a 3). Hanno
poi un'evidente connessione col tema della grazia le qq 68-70, dedicate ai doni dello Spirito
Santo. Particolarmente suggestiva è la collocazione delle beatitudini a coronamento dello
studio delle virtù e dei doni: significa sottolineare che queste virtù e questi doni sono
completamente orientati a determinare il comportamento evangelico.
qq 106-108: La legge nuova, evangelica, consiste sostanzialmente nella grazia dello
Spirito Santo, dono che viene all'uomo da Gesù Cristo, Verbo incarnato, attraverso i sacramenti (q 108,1).
Sono specialmente queste questioni sulla legge nuova, insieme a quelle sulla legge dell'AT (qq
98-105), che situano la grazia nell'economia cristiana della salvezza; le legge antica e la legge
nuova non sono altro che l'economia cristiana, nel suo svolgimento storico: questa economia
culmina nel dono della grazia dello Spirito Santo.
Di conseguenza, la grazia di cui si parla nelle questioni 109-114, anche se non esplicitamente riferita a Cristo, è però grazia cristiana, così come è cristiana la morale tratteggiata
nella I-IIae, perché segnata concretamente da eventi che appartengono all'economia cristiana:
virtù teologali infuse, doni dello Spirito Santo, beatitudini, specialmente il susseguirsi storico
della caduta originale (qq 81-83), legge e grazia.
Tuttavia nella I-IIae non è ancora data una piena valutazione e comprensione di questi
eventi: essi sono presi in considerazione solo in riferimento alla vita morale dell'uomo. Solo la
considerazione di Cristo, cioè la IIIa pars potrà dare la chiave di comprensione definitiva della
vita morale e della condizione umana vista nella I-IIae.
Di fatto il tema della grazia è ripreso anche nella IIIa pars, in rapporto a Cristo e ai
sacramenti, sviluppando gli accenni contenuti già in I-IIae.
q 2: l'unione ipostatica di Cristo è illuminata con il mistero del Corpo mistico.
qq 7-8: la pienezza di grazia appartiene all'umanità di Cristo in forza dell'unione
ipostatica; questa pienezza di grazia, a partire dal mistero dell'unione di Cristo con gli uomini
in ordine alla salvezza, è la fonte e l'origine della partecipazione degli uomini alla grazia.
Questa visione è completata dal “De sacramentis” (qq 60ss).
La conclusione della panoramica sui luoghi della Summa teologica in cui si parla della
grazia: l'economia della grazia, che spinge e sostiene l'uomo nel suo agire in vista della salvezza, è concretamente l'economia sacramentale, originata dai misteri di Cristo, quale si svolge
nella vita della Chiesa e orientata, attraverso l'Eucaristia, sacramentum ecclesiasticae unitatis e centro
dell'organismo sacramentale, a fare la Chiesa. Il comportamento cui la grazia spinge l'uomo è
un comportamento secondo il vangelo, nella Chiesa.
L'ultima scolastica (sec XIV)
Il secolo XIV registra la progressiva affermazione della cosiddetta “via moderna”, che
ha in Duns Scoto (1266-1308) l'iniziatore e nel nominalismo305 di Guglielmo di Occam (1280305
Il termine nominalismo, che risale probabilmente al sec XI, deriva da una tesi gnostica, che nega ogni
contenuto ontologico a concetti fondamentali (nomina) come “genere”, “specie” e li considera semplici
costruzioni mentali. La conseguenza è la rinuncia alla metafisica nel senso classico del termine e
l'affidamento del discorso su Dio all'indiscutibile autorità della Scrittura.
Antropologia Teologica 2009-2010
104.
1349) una decisa espressione. Scoto306, nell'intenzione di salvaguardare il primato di Dio,
accentua la trascendenza divina fino a considerarla come realtà incommensurabile per la
ragione umana. Distingue nell'agire di Dio una potentia absoluta e una potentia ordinata. Con la
prima intende sottolineare l'assoluta libertà di Dio, con la seconda evidenzia la coerenza
dell'azione di Dio con le decisioni da lui prese.
La prima espressione indica il movimento autonomo della volontà divina, la condizione
non condizionata di ogni possibilità, in quanto la libertà di Dio è sempre infinita: de potentia
absoluta Dio non è obbligato a concedere la charitas, affinché l'anima [...] sia ordinata alla vita
eterna. Ugualmente Dio non ha «legato la sua potenza ai sacramenti e corrispondentemente
neppure ad altre forme create»307.
La seconda formula esprime l'idea di un “autovincolamento per grazia” della stessa volontà
divina, la quale si obbliga a coinvolgere anche l'uomo nel processo della salvezza: «De potentia
ordinata Dio ha stabilito secondo la legge della sua sapienza che nessuno sia accettato, se la sua
anima non possiede quell'habitus dell'amore, mediante cui essa merita la vita eterna»308.
Nella stessa direzione si muove la tesi della acceptatio divina, secondo la quale non sono la
carità e la grazia a garantire l'ingresso dell'uomo nella beatitudine, ma solo l'accettazione divina,
cioè una concessione libera e misericordiosa da parte di Dio. Per Scoto l'acceptatio è l'atto
positivo con cui Dio, senza mutare la valenza ontologica di un atto o di una persona, le
riconosce nuova perfezione, quella cioè di meritare la salvezza soprannaturale.
Questo acuto senso della trascendenza, della libertà, di Dio, che in Scoto conserva un
significato religioso, verrà meno nel nominalismo di Occam, che radicalizza la distinzione tra
la potentia absoluta e la potentia ordinata di Dio, dove la prima dichiara la contingenza di tutto ciò
che non è Dio (ponendo al centro una concezione trascendente della libertà di Dio lontana
dall'orizzonte biblico e cristologico); la seconda intende salvaguardare la coerenza interna della
rivelazione, legando al volere di Dio quanto è indicato come dovere per l'uomo in riferimento
alla salvezza (Ea quae necessaria sunt ad salutem). Emerge conseguentemente la considerazione
della creazione come pura contingenza, priva di ogni analogia col modo di essere di Dio; si
afferma un volontarismo, che si risolve in un'arbitraria giustapposizione fra libertà di Dio (che
sfocierà in un positivismo dove Dio vuole ciò che vuole solo perché lo vuole) e agire umano
(considerato nella sua sostanziale autonomia).
Semplificando si potrebbe dire che la «libertà del Dio nominalistico presenta tratti
arbitrari. Egli concede la sua grazia senza vincolarsi in alcun modo, la concede a chi vuole,
senza tener conto se il soggetto compie o meno atti di fede e di amore. A somiglianza dei
nomina, che sono solo sigle esteriori, il giudizio gratificante di Dio non giunge in profondità. La
giustificazione determina il destino dell'uomo dall'esterno e rimane esteriore, senza alcuna
trasformazione entitativa»309.
Si registra così la fine di una metafisica dell'essere a favore di una metafisica del volere, che
compie l'inadeguata saldatura tra ordine della creazione e ordine della grazia. La riflessione
teologica epocale resta segnata dalla distinzione appena indicata, dirigendosi verso
l'affermazione estrinseca del soprannaturale a scapito dell'unità del processo di grazia. Il
rapporto fra grazia e beatitudine risulta solo giuridico, mentre l'habitus «non esprime la
profondità della comunione salvifica fra Dio e l'uomo ma è un puro dato, arbitrario, del volere
di Dio il cui significato è irrilevante»310.
L'occamismo apre le porte a un ottimismo di marca pelagiana, che parla di amore naturale di
Dio, di capacità dell'uomo di realizzare la salvezza, di osservare i comandamenti di Dio. Siamo
di fronte alla tesi del soprannaturale quoad modum, dove l'ordine cristiano non fa riferimento
306
Cfr A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 152-159.
Rep. par. , I, q. 1, Wien 1453, fol. 52 va..
308
Ivi.
309
A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 163.
310
G. COLZANI, Antropologia, 169.
307
Antropologia Teologica 2009-2010
105.
all'assolutamente gratuito, ma solo a un modo storicamente soprannaturale di realizzare
quanto l'uomo è in grado di compiere anche da solo. La grazia non indica più una realtà
comunionale, ma rimanda a una realtà indipendente, in sé conclusa. La crescente coscienza del
posto e dell'autonomia dell'uomo (contro cui si schiererà Lutero) introduce i temi
dell'umanesimo, innestandoli però in un pensiero ormai distante dall'affermazione centrale
dell'antropologia cristiana, dell'uomo aperto e ordinato a Dio.
La teologia moderna
Raccogliamo la riflessione attorno a tre episodi significativi: la Riforma protestante, il
concilio di Trento, la teologia post-tridentina della grazia.
La Riforma protestante311
Accostiamo la Riforma presentando la struttura fondamentale del pensiero di Lutero e
prendendo visione della riflessione sulla giustificazione.
La struttura del pensiero di Lutero312
La crisi della Riforma ha come sfondo un periodo storico dove si registrano la fine
dell'universalismo medioevale, il ritorno all'antichità classica promosso dal rinascimento, una
nuova coscienza dell'autonomia dell'uomo, dovuta ai mutamenti sociali, allo sviluppo della
scienza moderna. La concentrazione antropologica riguarda pure la teologia, con la
sottolineatura dell'importanza della critica scientifica e la necessità di un'assunzione etica della
religione. Sul versante ecclesiastico si evidenziano le negative conseguenze dell'ingerenza dello
stato nella vita della Chiesa, della simonia, del nepotismo, all'interno di un generale scadimento
dei costumi. Fatti questi che pongono urgentemente il problema della riforma della Chiesa.
In riferimento alla genesi storica del pensiero di Lutero si indicano normalmente alcuni
fattori: il rapporto di dipendenza/opposizione con la scolastica nominalistica, il temperamento
personale, la sua esperienza religiosa. Va inoltre ricordato l'influsso della mistica fiamminga e
della “devotio moderna”313; infine il problema dell'agostinismo di Lutero.
Lutero e il nominalismo. Alcuni studiosi (H. Denifle, H. Grisar) parlano di dipendenza della
Riforma dal nominalismo, per la struttura del nominalismo stesso: sul piano gnoseologico la
dissociazione tra ragione e fede tende a ridimensionare le capacità della ragione; sul piano
ontologico si afferma un dualismo tra natura e sopranatura, che porta a pensare in modo
estrinseco il rapporto con la grazia e ad enfatizzare le possibilità della natura. Altri studiosi
invece (K. Holl, E. Seeberg) rifiutano la dipendenza ricordando l'esito pelagiano del
311
Cfr J. LORTZ-E. ISERLOH, Storia della Riforma, Il Mulino, Bologna 1974; E. ISEROLH-J. GLAZIKH. JEDIN, Riforma e Controriforma, in (H. JEDIN ed), Storia della Chiesa VI, Milano 1975, 3-515; G.
COLZANI, Antroplogia, 176-183; J. LORTZ, La Riforma in Germania, 2 voll, Jaca Book, Milano 19791981; L. DUCH, Riforme e ortodossie protestanti: secoli XVI e XVII, in E. VILANOVA, Storia della
teologia cristiana II, Borla, Roma 1994, 144-229 (= Storia della teologia cristiana).
312
Cfr H. STROHL, Il pensiero della Riforma, Il Mulino, Bologna 1971; P. FRANSEN, Presentazione
storico-dogmatica della dottrina della grazia, MS IX, 118-153; V. SUBILIA, La giustificazione per la fede,
Paideia, Brescia 1976, 117-244; D. BELLUCCI, Fede e giustificazione in Lutero. Un esame teologico dei
"Dictata super Psalterium" e del Commentario sull'epistola ai Romani (1513-1516), Università Gregoriana,
Roma 1963.
313
La “devotio moderna” è un movimento spirituale che sorge nei Paesi Bassi dalla seconda metà del sec
XIV, per opera di Gerard Groote e del suo discepolo Florens Radewijns. Si definisce “moderna” perché,
abbandonando le strade poco accessibili di M. Eckart e J. Tauler, si accosta all'umanità di Gesù sforzandosi
di imitarlo nella fedeltà al Padre e alla missione ricevuta da Lui. Cfr E. ISERLOH, La “devotio moderna”, in
A. JEDIN, Storia della Chiesa, V/2, Jaca Book, Milano 1975, 164-187.
Antropologia Teologica 2009-2010
106.
nominalismo, contro cui Lutero reagisce decisamente. La contrapposizione tra le due tesi deriva da un errore di prospettiva, pur cogliendo un aspetto reale della complessità del pensiero
luterano.
Lutero stesso riconosce la propria dipendenza dalla “scuola nominalista”, specialmente
da Occam e da Gabriele Biel. Dalla scuola nominalista Lutero ricava la diffidenza verso la
ragione, la valorizzazione dell'esperienza religiosa soggettiva; riceve il principio dell'assoluta
libertà di Dio, che non può essere racchiusa in alcun effetto creato. L'agostinismo di Lutero
corregge l'esito ottimistico del pensiero nominalista: l'identificazione del peccato originale con
la concupiscenza determina il convincimento di una realtà irremovibile dalla storia umana, con
la conseguente sottolineatura della radicale corruzione della natura umana, dovuta al peccato
originale.
Oggi la dipendenza di Lutero dal nominalismo è posta in modo più differenziato, perché
gli studi hanno mostrato che non si dà un solo nominalismo, ma posizioni diverse tra loro. Fra
i tratti comuni del nominalismo troviamo la sovranità e l'immediatezza di Dio, l'autonomia
etica dell'uomo, una particolare forma di scetticismo che sfocia in un processo di
secolarizzazione.
Il nominalismo del secolo XV (quello dei “moderni”) influisce su Lutero con una visione della realtà religiosa basata sull'aut-aut (l'uomo o Dio). Da un lato Lutero si pone
direttamente dinanzi alla santità di Dio, che con la parola del vangelo lo giustifica per i meriti
di Cristo di fronte alla condanna della legge; dall'altro parla di un'azione orizzontale di Dio,
nell'azione dello Spirito, di una santificazione interiore, della Chiesa e dei sacramenti. Tutto
questo però non ha valore intrinseco di fronte all'iniziativa salvifica di Dio in Gesù.
La mistica, la "devotio moderna". Anche se Lutero accosta altri mistici, gli studiosi
riconoscono alla mistica renano-fiamminga (Jan van Ruysbroek, Meister Eckhart, Tauler e
l'autore anonimo della "Theologia Deutsch" pubblicata da Lutero) di aver esercitato su di lui
un influsso particolare. L'unione dell'anima con Dio è posta da questa mistica all'interno di una
dinamica di “uscita” e “ritorno” nell'essenza divina. Il movimento dell'unione - espresso con la
teologia dell'immagine, che consiste in una dinamica unità con le profondità dell'essenza divina
- attrae a sé gli eletti. L'immagine segnata dal peccato allontana l'uomo dalla sua immagine
eterna, che è riconquistata con la somiglianza data dal movimento di ritorno a Dio. L'ideale
spirituale dell'uomo comune, identificato in Cristo, si esprime anche nella denominazione dei
“Fratelli comuni”, sostenitori della “devotio moderna”. Ne deriva una teologia della grazia
fortemente “esistenziale”, che dà particolare rilievo al valore unificante e salvifico del mistero
trinitario. Lutero, pur accostando i mistici per la descrizione concreta della loro esperienza
salvifica, identifica l'azione umana nella fede, considerata come pura recettività dinanzi a Dio, a
differenza dei mistici più aperti al linguaggio tradizionale. In Lutero la fede si esprime come
unione mistica, come rapporto diretto, immediato, esperienziale con Dio.
L'agostinismo di Lutero314. Appartenente all'Ordine degli eremiti agostiniani, Lutero legge
Agostino con entusiasmo («Io Agostino non l'ho letto ma divorato»). Anche se difficile da
determinare l'influsso di Agostino appare incontestabile. Lutero non abbandona la linea della
tradizione occidentale, segnata dall'eredità agostiniana che considera la salvezza cristiana a
partire dalla realtà del peccato, anzi sottolinea ancor più la drammaticità di una condizione
umana sottomessa al peccato.
«Con Agostino e la sua teologia alle spalle, Lutero crede di poter chiarire che 'la grazia' non
rappresenta una nuova, eccessiva pretesa, ma è quel dono inaspettato ed immeritato che libera
l'uomo dall'irretimento del peccato e lo giustifica»315.
314
Cfr A. MARRANZINI, Dibattito Lutero-Seriprando su giustizia e libertà del cristiano, Morcelliana,
Brescia 1981.
315
O.E. PESCH, Liberi per grazia, op cit, 245.
Antropologia Teologica 2009-2010
107.
La personalità e l'esperienza religiosa di Lutero. Sono importanti per la comprensione della
genesi del suo pensiero. Lutero è un temperamento sensitivo, intuitivo, emotivo,
autenticamente religioso, alla ricerca della pace interiore. «Per tutta la sua vita è mosso da
un'autentica e irresistibile passione religiosa. Egli prova nel più profondo del suo essere il senso
della completa alterità, della “maestà” di Dio. [...] Quello che una volta per tutte siamo riusciti
a constatare con certezza è che per Lutero la grande idea centrale della sua vita è Dio, la
grandezza incomparabile di Dio dinanzi alla quale l'uomo non può essere che niente, nel senso
ultimo del termine. Dio solo e il nulla dell'uomo, ecco tutto il programma di Lutero»316. Lutero
sente molto il peccato, identificato tendenzialmente con l'esperienza della concupiscenza;
s'impegna a raggiungere la santità con la preghiera, i digiuni, la regola. Al centro della sua
riflessione stanno la convinzione dell'incompatibilità tra vita cristiana e pecato, la
considerazione della concupiscenza in termini peccaminosi, come interiore inclinazione al
male presente in ogni azione, quindi inguaribile. Oggi si sostiene che la posizione è già
presente nelle prime opere di Lutero, precedentemente allo strappo con Roma.
La giustificazione317
Per Lutero la dottrina della giustificazione rappresenta il centro della teologia, l'articolo
di fede da cui dipende la fedeltà della Chiesa alla propria identità (articulus stantis et cadentis
ecclesiae). Al riguardo, in una disputa del 1537, afferma:
«L'articolo della giustificazione è maestro e principe, signore, rettore e giudice su ogni genere di
dottrina, che conserva e governa ogni dottrina ecclesiastica e sostiene la nostra coscienza dinanzi
a Dio» 318.
Per il Riformatore nella dottrina della giustificazione è in gioco la corretta comprensione
dell'opera salvifica di Gesù Cristo.
Teniamo come riferimento la dottrina formulata da Lutero nelle “Lezioni sulla Lettera ai
Romani”. I passaggi fondamentali:
1. Secondo la Scrittura l'uomo non può guadagnare la giustizia mediante il compimento
delle opere giuste, perché è radicalmente corrotto, in quanto il peccato resta inguaribile e
l'uomo non è libero nella tendenza interiore, che lo inclina al male. La radicale corruzione
dell'uomo è determinata dal peccato originale - definito da Lutero “male radicale”, “peccato
interno”, “peccato profondo” - inteso, da un lato come “radice” e “causa” diretta delle
singole azioni cattive, dall'altro come “contaminazione” anche delle buone azioni, quando in
esse si manifesta la pretesa dell'autogiustificazione. Sotto questa forma il peccato si presenta
come iniustitia, la falsa giustizia che pretende di sostituirsi a quella che proviene dalla fede.
Il peccato originale entra nel mondo per la trasgressione di Adamo (per hominem unum).
Di fronte a questo peccato gli uomini non sono semplicemente passivi, ma "se lo
appropriano" con le loro cattive azioni responsabili, così che questo diventa proprio di ogni
singolo peccatore.
316
J. LORTZ, La Riforma in Germania , vol I, op cit, 185.
Cfr A. BELLINI, La giustificazione per la sola fede, “Communio” 6 (1978) 30-73; F. BUZZI, La teologia
di Lutero nelle “Lezioni sulla lettera ai Romani” (1515-1516). Saggio introduttivo a M. LUTERO, La
lettera ai Romani (1515-1516), Paoline, Cinisello B. 1991, 5-125 (= La teologia di Lutero); A. MAFFEIS,
Giustificazione, op cit, 45-71.
318
WA 39/I, 205, 2-5.
317
Antropologia Teologica 2009-2010
108.
«Egli (il Salmista) asserisce che il peccato di tutti è diventato anche il suo peccato. Perciò ha
premesso: "Lavami ancora dalla mia iniquità" (v 4)... E così adesso il peccato è anche mio, cioè
approvato dalla mia volontà, è accolto con consenso, poiché senza la grazia non sono riuscito a
vincerlo in me. Esso pertanto mi vince ed io, in forza del fomite stesso e della concupiscenza, a
causa dell'opera peccaminosa ora sono peccatore anche in senso attuale e non soltanto
originale»319.
Nell'uomo il peccato originale non determina la semplice assenza di una particolare qualità in
una facoltà dell'anima, ma determina un modo di essere uomo.
«Il peccato originale non è soltanto la privazione di una qualità nella volontà, anzi non consiste
neppure semplicemente nella privazione di luce nell'intelletto, di forza nella memoria; no, esso,
in senso vero e proprio, è la privazione totale del corretto funzionamento e della capacità
d'esercizio di tutte le facoltà, tanto del corpo, quanto dell'anima, insomma dell'uomo intero,
interiore ed esteriore. Inoltre esso è la stessa inclinazione al male, la nausea nei confronti del
bene, la ripugnanza della luce e della sapienza; e viceversa: è amore dell'errore e delle tenebre,
fuga e orrore di fronte alle opere buone e corsa verso il male. [...] Dio, invero, ha in odio e
imputa non soltanto questa privazione [della giustizia originaria] [...], ma anche la stessa concupiscenza in tutte le sue forme, quella concupiscenza per cui accade che siamo disobbedienti a
questo comando: “Non desiderare!”»320.
Il peccato, anche se per grazia di Dio non viene imputato, rimane come
“concupiscenza” inestirpabile, che assume nell'uomo la forma dell'amor sui, della ricerca di se
stesso, del proprio esclusivo vantaggio, in tutte/al di sopra di tutte le cose. L'uomo finisce per
cercare se stesso anche compiendo le opere buone, gli stessi doveri religiosi («Homo non
potest, nisi quae sua sunt quaerere et se super omnia diligere», scrive Lutero). Lutero definisce
col nome di curvitas la smodata volontà dell'uomo di appropriarsi di tutto, tenendo se stesso
come unico punto di riferimento.
«[...] la nostra natura per il vizio del primo peccato, è ricurva (incurva) in modo così profondo su
di sé, che non solo piega verso di sé gli ottimi doni di Dio e ne gode (come si vede chiaramente
nel caso di quelli che si giustificano da sé, nel caso degli ipocriti) - anzi si serve anche di Dio per
ottenere questi beni - ma non si rende neanche conto di cercare ogni cosa, Dio compreso, per se
stessa, in modo così iniquo, storto e perverso» 321.
L'amor sui è attivato dall'arbitrium umano, il quale, pur essendo servum, perché non esprime
alcuna possibilità soteriologica, resta sempre arbitrium, in quanto, anche per Lutero, l'uomo
continua a compiere il male responsabilmente («sua sponte e libenti voluntate», De servo
arbitrio).
«Quella concupiscenza ci è congenita e non è involontaria, ma nel peccato originale c'è il piacere
e la volontà di peccare. Né possono peccare senza volerlo [...] Adamo ha peccato
volontariamente e liberamente e con il suo peccato da lui abbiamo ricevuto una volontà così che
pecchiamo non senza volerlo ma volendolo»322.
2. L'uomo è giusto solo perché giustificato da Dio, il quale, per misericordia, non gli
imputa il suo peccato, ma gli “imputa” la giustizia di Cristo. Con la dottrina della “giustizia imputata” Lutero non vuol dire che l'uomo è considerato giusto, mentre in realtà non lo è, ma
319
D. Martin Luters Werke. Weimarer Ausgabe, 56, 286, 26-287, 14 (= WA).
WA, 56, 312, 6-8. Le sottolineature sono nostre.
321
WA 56, 304, 25-29.
322
WA 39/I, 378, 16-27.
320
Antropologia Teologica 2009-2010
109.
che l'uomo è ritenuto giusto coram Deo (agli occhi di Dio, nel suo giudizio) per la fede in Cristo,
mentre resta peccatore coram se, coram hominibus (di fronte a se stesso, agli uomini).
«Cristo, il nostro Samaritano, prendendosi cura del suo malato, cioè dell'uomo mezzo morto, l'ha
portato alla locanda per curarlo; e, dopo avergli promesso una guarigione totale e perfetta, ha
cominciato a guarirlo per la vita eterna. Non gli imputa il peccato, cioè le sue concupiscenze, per
la morte; ma nella speranza della guarigione promessa, gli vieta frattanto di fare e di omettere ciò
che potrebbe ostacolare la guarigione e fomentare il peccato, cioè la concupiscenza. E' forse
perfettamente giusto [quest'uomo]? No: è insieme peccatore e giusto; peccatore in realtà, ma
giusto grazie alla considerazione di Dio e alla sicura promessa che Dio intende liberarlo dal
peccato, fino a guarirlo perfettamente. Perciò egli è perfettamente sano nella speranza, mentre in
realtà è peccatore. Tuttavia possiede l'inizio della giustizia, per chiedere [d'essere giustificato]
sempre più, sapendo di essere sempre ingiusto»323.
La dialettica coram Deo, coram se, traduce la dialettica dell'uomo simul iustus et peccator, semper
peccator, semper poenitens, semper iustus.
«[... l'uomo credente] è sempre penitente, sempre giusto! Infatti, proprio perché si pente, diventa
giusto da non-giusto. Dunque il pentimento è il termine medio tra l'ingiustizia e la giustizia. Così
egli è nel peccato, relativamente al punto di partenza; e nella giustizia, relativamente al punto di
arrivo. Dunque se ci pentiamo sempre, siamo sempre peccatori, tuttavia siamo per ciò stesso
giusti e veniamo giustificati; in parte siamo peccatori, in parte siamo giusti, cioè non siamo
nient'altro che penitenti»324.
La maggioranza degli studiosi riconosce che la giustizia “imputata” (Dio considera l'uomo
giusto) non è alternativa alla giustizia “effettiva” (l'uomo è giustificato realmente da Dio).
Affermando la giustizia “imputata” Lutero non vuole ridimensionare l'efficace azione salvifica
di Dio a favore dell'uomo, ma escludere che la giustizia di Dio possa diventare giustizia
dell'uomo, che la grazia possa essere una qualitas inerente all'uomo; intende sottolineare la
gratuità dell'azione salvante di Dio e la dipendenza totale dell'uomo da questa azione divina325.
La giustizia di Dio non è giustizia dell'uomo, ma di Cristo in noi; resta esterna a noi
(extra nos). La giustizia divina è externa sia per la sua provenienza («Perciò bisogna essere istruiti
in una giustizia che proviene totalmente dal di fuori»326), che per la sua “natura” e per il suo
modo di essere presente nell'uomo (per fidem). Di proprio l'uomo ha solo il peccato. Anche se
si parla di “nuovo essere”, di “iustizia reale” questo non va inteso nel senso di una nuova
qualitas presente nell'uomo, ma nel senso che tutto l'essere dell'uomo, in virtù dell'imputazione della giustizia di Cristo, non sta più sotto la “signoria” del peccato, ma di Cristo, operante mediante la fede, che consente al credente di lottare contro se stesso e orientarsi verso
Dio.
Viene così escluso il concetto di uno “stato” di grazia; questa è ridotta all'evento istantaneo
della fede con la quale Dio giustifica l'uomo nonostante i suoi peccati.
323
WA 56, 272, 11-21.
WA 56,442,17-22.
325
Sull’efficacia della giustizia imputata «resta...da chiedersi se un puro modo di pensare di tipo relazionaleesistenziale, a cui la teologia di Lutero è particolarmente predisposta e che è stato effettivamente elaborato e
adottato dai suoi interpreti, sia capace di garantire fino in fondo la “consistenza” della reale efficacia della
giustizia imputata» (F. BUZZI, La teologia di Lutero, 114). Perché «una forma di pensiero puramente
relazionale-esistenziale, che escluda in assoluto un'ontologia più articolata dell'essere personale, non rende
comprensibile come il dono della grazia trasformi così profondamente il credente da farne un essere nuovo
(S. Paolo dice: «una nuova creazione» kaine ktisis! ), rinnovato fin nelle più intime fibre del suo essere intero
(...), capace per grazia di produrre frutti, provenienti - possiamo dire - dalla sua più intima radice propria»
(ID, 114).
326
WA 56, 158,14.
324
Antropologia Teologica 2009-2010
110.
3. L'uomo ottiene la giustizia mediante la (sola) fede, prestata alle parole di Dio («Si ha
vera giustizia credendo con tutto il cuore alle parole di Dio»327). La giustificazione dell'uomo
avviene mediante la fede che agisce in lui, applicandogli la giustizia di Cristo, che diventa così
la giustizia dell'uomo. La fede, in quanto coscienza del peccato, riconosciuto da parte
dell'uomo di non avere in sé nulla che lo ponga in rapporto con Dio, diventa fiducia assoluta
nella grazia, di modo che la fede resta «un'opera di Dio in noi, che ci trasforma e ci fa nascere
di nuovo da Dio (Jo 1)»328, dono della sua grazia del tutto gratuito.
«La fede [...] è un'opera divina in noi, che ci trasforma e ci fa nascere di nuovo in Dio (Io 1).
Essa uccide il vecchio Adamo, trasforma noi uomini completamente nel cuore, nell'animo, nel
sentire e in tutte le energie, e reca con sé lo Spirito Santo. La fede è così viva, attiva, operante,
potente, per cui è impossibile che non operi continuamente il bene [...] Fede è una fiducia viva e
audace nella grazia di Dio [...]. E una tale fiducia e conoscenza della grazia divina rende lieti,
baldanzosi e giocondi davanti a Dio e a tutte le creature per l'opera dello Spirito Santo nella
fede» 329.
La sola fide con cui l'uomo è giustificato esclude quindi che la giustificazione deriva da una
possibilità che l'uomo ha in se stesso, per attribuirla unicamente all'azione di Dio, alla quale
l'uomo si affida, si apre. La giustificazione non è data da una qualifica dell'uomo, ma solo dal
«Cristo accolto dalla fede e abitante nel cuore»330. In virtù della fede si realizza un'unione con
Cristo e un effettivo rinnovamento del credente. Grazie a questa unione col credente, Cristo
non è solo causa di salvezza (sacramentum), ma anche modello ispiratore dell'agire del credente
(exemplum).
La fede quindi è il principio che ricrea la persona di fronte a Dio e la persona rinnovata
è in grado di compiere le opere dell'amore. Queste opere sono un esercizio della fede,
rappresentano la forma concreta in cui la fede porta frutto e si realizza la progressiva sconfitta
del peccato che resta presente nell'uomo. L'azione di Dio pone l'uomo in condizione di
compiere le “opere della fede, della giustizia”. Sono opere “della fede”, non “della legge”,
perché l'uomo non le esibisce come merito proprio, non conta su di esse per rivendicare la salvezza, ma le compie «grazie allo spirito di libertà e soltanto per amore di Dio»331.
«[L'Apostolo] chiama opere della legge quelle compiute senza la fede e la grazia: esse sono fatte
in virtù della legge, la quale costringe mediante il timore, oppure alletta mediante la promessa di
vantaggi temporali. Chiama, invece, opere della fede, quelle che si compiono grazie allo spirito di
libertà e soltanto per amore di Dio. Queste non possono essere effettuate se non dai giustificati
per mezzo della fede»332.
La fede nasce dall'ascolto (ex auditu) della Parola, del vangelo, che annuncia non ciò che l'uomo
deve fare (in tal caso metterebbe l'uomo in condizione d'incorrere nell'ira di Dio, perché non è
in grado di compiere ciò che deve fare), ma l'opera di Dio per l'uomo compiuta in Cristo, il
quale è lo stesso vangelo, perché è la Parola che annuncia ed è annunciata.
327
WA 56, 419,2.
WA 56, 268,1.
329
WA DB 7,10,6,23.
330
WA 40, 1,229.
331
WA 56, 248,15.
332
WA, 56,248,11-15.
328
Antropologia Teologica 2009-2010
111.
Il concilio di Trento (1546-1563)333
La bolla di convocazione di Paolo III (“Laetare Jerusale”), indica i compiti del Concilio:
la soluzione delle controversie dogmatiche provocate dalla Riforma; la promozione di una
riforma della Chiesa; il ricupero alla fede cristiana dei luoghi invasi dagli infedeli. La trattazione
del Concilio, anche se non affronta in modo sistematico ed esaustivo la dottrina cristiana, non
manca di una certa organicità. Infatti, dopo la questione delle fonti della rivelazione, i padri
conciliari affrontano la tematica del peccato originale, che è la condizione storica dell'uomo;
successivamente e coerentemente è trattata la riabilitazione (giustificazione) dell'uomo, infine
la questione del dono della grazia che si realizza nella storia umana mediante i sacramenti.
Il decreto “De Iustificatione”334
Il Decreto, promulgato nella VI sessione (13 gennaio 1547), frutto di un intenso lavoro
(è approvato dopo tre stesure e molti emendamenti)335, risulta ampio e descrittivo. Il testo
rivela la preoccupazione di una duplice presa di distanza: dal pelagianesimo (per il quale
l'uomo è artefice assoluto della propria salvezza), con la sottolineatura della gratuità della
giustificazione e dal protestantesimo (per il quale l'uomo è passivo, resta “estraneo” all'opera
della salvezza), con l'evidenziazione degli effetti reali della giustificazione e della reale
partecipazione all'opera salvifica da parte dell’uomo.
L'istanza antipelagiana
La giustificazione consiste nel «passaggio da quello stato in cui l'uomo nasce figlio di
Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio, per mezzo del secondo Adamo, Gesù
Cristo, nostro Salvatore» (DS 1524). Per il Concilio la salvezza non sta nelle mani dell'uomo,
ma di Dio, il quale, a prescindere da ogni merito dell'uomo, lo “chiama”, lo “sollecita”, lo
“aiuta”, «toccando il suo cuore con l'illuminazione dello Spirito S.» (DS 1526). Pertanto l'uomo
è “giustificato gratuitamente”, in quanto «nulla di ciò che precede la giustificazione, sia la fede
che le opere, merita la grazia della giustificazione» (DS 1532).
Il primato dell'iniziativa di Dio non riguarda solo l'inizio, ma anche la continuità della vita
cristiana (cfr DS 1536), il suo progresso (cfr DS 1535), la possibilità di riprendersi dopo una
caduta nel peccato mortale (cfr DS 1542), il dono della perseveranza finale (cfr DS 1541) e il
conseguimento della vita eterna (cfr DS 1545).
Anche nella descrizione del processo della giustificazione - esposto in modo piuttosto
metafisico alla fine del cap VII (“La natura e le cause della giustificazione”, DS 1528-1531) emerge il primato della grazia: la causa della giustificazione dell'uomo è la gloria di Dio e di
Cristo, che raggiunge la sua perfezione nel dono della vita eterna (causa finale); Gesù Cristo, che
«ci ha meritato la giustificazione con la sua santissima passione sul legno della croce e ha
soddisfatto per noi Dio Padre» [DS 1528] (causa meritoria); il sacramento del battesimo, che
333
Cfr H. JEDIN, Riforma cattolica o controriforma, “Storia della Chiesa” VI, Jaca Book, Milano 1975,
511-598; ID, Storia del Concilio di Trento, Morcelliana, Brescia 5 voll, 1973-1979 (= Storia); F. BUZZI, Il
Concilio di Trento (1545-1563). Breve introduzione ad alcuni temi teologici principali, Glossa, Milano 1995
(= Concilio di Trento); ID, Il Concilio di Trento (1545-1563). Ermeneutica di un modello teologico, in
FACOLTA’ TEOLOGICA DELL’ITALIA SET-TENTRIONALE, Storia della teologia IV. Età moderna,
Piemme, Casale M. 2001, 17-65; E. VILANOVA, Storia della teologia cristiana II, 395-419.
334
A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 179-197; O. H. PESCH, Liberi per grazia, 112-114. 251-255.277280; L. LADARIA, Antropologia teologica, Roma 1986, 258-268; G. COLZANI, Antropologia, 183-189; F.
BUZZI, Il Concilio di Trento, 71-119; V. GROSSI - B. SESBOÜÉ, Grazia e giustificazione: dal concilio di
Trento all'epoca contemporanea, AA.VV, Storia dei dogmi II, 291-313.
335
Sulla storia della elaborazione del decreto cfr H. JEDIN, Il Concilio di Trento II, Morcelliana, Brescia
1962, 327-365; P. FRANSEN, Presentazione storico-dogmatica della dottrina della grazia, MS IX,153-172.
Antropologia Teologica 2009-2010
112.
implica il merito di Cristo e l'azione dello Spirito Santo (causa strumentale); la giustizia di Dio identica a quella di Cristo - con la quale egli ci rende giusti (causa formale).
Lo sfondo teologica delle affermazioni conciliari è agostiniano, con qualche sviluppo di
tipo scolastico (il discorso sulle cause della giustificazione).
L'istanza antiprotestante
Trento sottolinea la partecipazione reale dell'uomo alla giustizia comunicata da Cristo,
cioè la sua trasformazione ontologica, per cui, pur restando identico a se stesso, partecipa
all'opera della propria salvezza, cooperando realmente al processo di trasformazione che lo
riguarda336.
Il contenuto del Decreto
Dopo il proemio possono essere individuati cinque blocchi (capp 1-4.5-6.8-15.16) oltre
a 33 canoni con l'anatema.
Proemio (DS 1520)
«In questi anni è stata divulgata con grave danno per molte anime e per l'unità della chiesa, una
dottrina erronea sulla giustificazione. Perciò questo sacrosanto concilio Tridentino ecumenico e
generale, legittimamente convocato nello Spirito santo, a lode e gloria di Dio onnipotente, per la
tranquillità della chiesa e per la salvezza delle anime, sotto la presidenza, in nome del santissimo
padre in Cristo e Signore nostro Paolo III, per divina provvidenza papa, dei reverendissimi signori
Giovanni Maria del Monte, cardinale vescovo di Palestrina, Marcello Cervini, cardinale prete del
titolo di S. Croce in Gerusalemme, cardinali della santa chiesa romana, e legati apostolici de latere,
intende esporre a tutti i fedeli cristiani la vera e sana dottrina sulla giustificazione che Gesù Cristo,
sole di giustizia (Cf Ml 4,2), autore e perfezionatore della nostra fede (Cf Eb 12,2), ha insegnato, che
gli apostoli hanno trasmesso e che la chiesa cattolica sotto l'ispirazione dello Spirito santo, ha
sempre ritenuto. Nello stesso tempo proibisce assolutamente che d'ora innanzi qualcuno osi
credere, predicare e insegnare diversamente da quanto è stabilito e proclamato nel presente
decreto».
Dal testo emergono l'intenzione positiva di esporre con valore definitorio la dottrina cattolica
sulla giustificazione e l'intento polemico di contrastare alcuni errori.
Tale fatto rende parziale e relativo l'ambito all'interno del quale sono posti gli interventi
definitori, che, perciò, non comprendono solo i canoni, ma anche i capitoli.
1. Necessità ed esistenza della giustificazione cristiana (capp 1-4: DS 1521-1524)
Il tema della giustificazione è inserito in un ampio sfondo storico (amartiologico, cristologico, ecclesiale, sacramentale), con la possibilità di uscire dalla strettoia intimistica della
dottrina protestante. La prospettiva amartiocentrica limita però l'ampiezza della storia salvifica.
Il cap I tratta della “impotenza della natura e della legge a giustificare gli uomini”. Due le
affermazioni: una condivide la posizione della Riforma, l'altra prende le distanze.
«Prima di tutto il santo sinodo dichiara che, per una conoscenza esatta e integra della dottrina
della giustificazione, è necessario che ciascuno riconosca e professi che tutti gli uomini, avendo
perduta l'innocenza per la colpa di Adamo, divenuti immondi (Cf Is 64, 6) e (come afferma
336
Cfr 91.
Antropologia Teologica 2009-2010
113.
l'Apostolo) per natura meritevoli di ira (Ef 2,3), come dice il decreto sul peccato originale, erano
fino a tal punto servi del peccato (Cf Rom 6,20) e in potere del demonio e della morte, che non
solo i gentili con le forze della natura, ma neppure i Giudei con l'osservanza letterale della legge
di Mosè potevano esserne liberati e risollevati da tale condizione; tuttavia in essi il libero arbitrio
non era affatto estinto, ma solo attenuato e inclinato al male».
I capp II e III espongono l'opera redentrice di Cristo, il quale, inviato dal Padre nella
pienezza dei tempi, è propiziazione per i peccati di tutti.
Cap II L'economia della salvezza e il mistero della venuta di Cristo
«Perciò il Padre celeste, padre misericordioso e Dio di ogni consolazione (2Cor 1, 3), quando giunse la
beata pienezza dei tempi (Cf Gal 4,4), mandò agli uomini Gesù Cristo, suo figlio, annunciato e
promesso, sia prima della legge, sia durante il tempo della legge, da molti santi padri, affinché
riscattasse i Giudei, che erano sotto la legge, (Gal 4,5) e i pagani che non ricercavano la giustizia, raggiunsero
la giustizia; (Rom 9,30) e tutti ricevessero l'adozione di figli (Cf Gal 4,5). Questo Dio ha prestabilito
a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede nel suo sangue (Rom 3,25), per i nostri peccati; non
soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo (1Gv 2,2)».
Cap III I giustificati in Gesù Cristo
«Ma benché egli sia morto per tutti (2Cor 5,15), tuttavia non tutti ricevono il beneficio della sua
morte, ma solo quelli cui viene comunicato il merito della sua passione. Come infatti gli uomini,
in realtà, se non nascessero dalla discendenza del seme di Adamo, non nascerebbero ingiusti,
proprio perché a causa di questa discendenza, al momento di essere concepiti, contraggono da
lui la propria ingiustizia: così se essi non rinascessero nel Cristo, non potrebbero mai essere
giustificati, proprio perché con quella rinascita viene accordata, per il merito della sua passione,
la grazia che li rende giusti. Per questo beneficio l'Apostolo ci esorta a rendere sempre grazie al
Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei saniti nella luce. E' lui infatti che ci ha liberati dal
potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del su o Figlio diletto, per opere del quale abbiamo la redenzione, la
remissione dei peccati (Col 1,12-14)».
Il cap IV descrive la giustificazione del peccatore e il modo con cui questi entra nello stato di
grazia.
«Queste parole spiegano che la giustificazione del peccatore è il passaggio dallo stato in cui
l'uomo nasce figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio (Cf Rom
8, 23), per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo, nostro Salvatore; questo passaggio, dopo
l'annuncio del Vangelo, non può avvenire senza il lavacro della rigenerazione o senza il desiderio
di ciò, come sta scritto: Se uno non nasce da acqua e da Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio (Gv
3,5)».
2. Necessità e modi della preparazione alla giustificazione (capp 5-6: DS 1525-1527)
In Lutero, preoccupato di salvaguardare il principio “ipse solus salvat” (cfr A 56, 91,26),
sembrano dissolversi i confini tra la “preparazione” e la “giustificazione”, in quanto «la
giustificazione ingloba in sé la preparazione»337. Se di preparazione è lecito parlare bisogna far
riferimento a quella della fede - l'unica consentita all'uomo peccatore - che è l'atteggiamento
dell'uomo costantemente pentito e disposto a dar ragione a Dio.
Trento prevede invece un referente reale e preesistente per l'iniziativa divina, al quale si
rivolge per stimolarne la volontà e la libertà («... si dispongono per la sua grazia, che sollecita e
aiuta, a volgersi alla propria giustificazione, liberamente consentendo e cooperando alla stessa
337
F. BUZZI, La teologia di Lutero, 43.
Antropologia Teologica 2009-2010
114.
grazia», DS 1525). Questo perché il “libero arbitrio”, pur impossibilitato a raggiungere la
salvezza da solo, non viene estinto nell'uomo peccatore. Conseguentemente è compito
dell'uomo dare il proprio libero assenso alla grazia e collaborare con essa, tanto che è in
qualche modo attivo nell'accogliere l'ispirazione divina, data la libertà di rifiutarla (cfr DS
1525).
Nella prospettiva conciliare la grazia preveniente di Dio, da cui prende le mosse la
giustificazione, pur mantenendo una gratuità totale - in quanto data “senza alcun merito” non entra in concorrenza con la libertà dell'uomo, perché si dispone nei suoi confronti come
appello ed aiuto: attira ed incita. Quindi proprio perché la grazia ha la sua iniziativa, la
cooperazione della libertà è possibile e richiesta.
Il cap V riflette sulla “necessità per gli adulti di prepararsi alla giustificazione e donde essa
scaturisce”.
«Inoltre il concilio dichiara che negli adulti l'inizio della stessa giustificazione deve prendere le
mosse dalla grazia preveniente di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, cioè della sua chiamata, che
essi ricevono senza alcun merito da parte loro, di modo che quelli che si erano allontanati da Dio
a causa dei peccati, si dispongano per la sua grazia, che sollecita e aiuta, a volgersi alla propria
giustificazione, liberamente consentendo e cooperando alla stessa grazia. Così Dio tocca il cuore
dell'uomo con l'illuminazione dello Spirito santo, in modo tale che né l'uomo stesso resterà
assolutamente inerte subendo quella ispirazione, che certo può anche respingere, né senza la
grazia divina, con la sua libera volontà, potrà prepararsi alla giustizia dinanzi a Dio. Perciò
quando nelle sacre scritture si dice: Convertitevi a me, e io mi volgerò a voi (Zac 1,3), siamo ammoniti
circa la nostra libertà; e quando rispondiamo: Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo (Lam
5,21), confessiamo che la grazia divina ci deve prevenire».
Il cap VI tratta delle disposizioni concrete per la giustificazione, del modo con cui la grazia di
Dio e la cooperazione umana conducono l'uomo a ricevere il dono dello Spirito nel Battesimo.
«Gli uomini si dispongono alla giustificazione stessa, quando stimolati e aiutati dalla grazia
divina, ricevendo la fede mediante l'ascolto (Cfr Rom 10,17), si volgono liberamente verso Dio,
credendo vero che è stato divinamente rivelato e promesso, e specialmente che il peccatore è
giusitificato da Dio col dono della sua grazia, in virtù della redenzione realizzata in Cristo Gesù (Rom
3,24). Lo stesso fanno quando, riconoscendosi peccatori, per il timore della divina giustizia che
sautarmente li scuote, si volgono a considerare la misericordia di Dio, si rinfrancano nella
speranza, confidando che Dio sarà loro propizio a causa del Cristo, e cominciano ad amarlo
come fonte di ogni giustizia; si volgono perciò contro i loro peccati, odiandoli e detestandoli,
cioè con quella penitenza, che bisogna fare prima del battesimo; infine si preparano quando si
propongono di ricevere il battesimo, di cominciare una vita nuova e di osservare i
comandamenti divini. Di questo atteggiamento sta scritto: chi infatti si accosta a Dio, deve credere che
egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano (Eb 11, 6); e: Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati
(Mt 9,2); come pure: il timore del Signore cancella i peccati (Eccl 1,27); e Pentitevi e ciascuno di voi si faccia
battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito santo
(At 2,38); e Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato (Mt 28,19-20). Infine: Fate in
modo che il vostro cuore sia indirizzato al Signore (1 Re 7,3)».
3. La natura e le cause della giustificazione (cap 7: DS 1528-1531)
Il capitolo è considerato il fulcro del decreto. Il concilio, impegnato a escludere una
semplice “non imputazione” dei peccati, che non comporti la radicale trasformazione
dell'uomo, afferma la presenza e la reale efficacia della grazia nei giustificati, i quali pertanto, in
virtù di essa, sono realmente giusti
Antropologia Teologica 2009-2010
115.
« [...] Unica causa formale è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli stesso è giusto, ma
quella per cui ci rende giusti; infatti, ricolmi del suo dono, veniamo rinnovati nello spirito della
nostra mente [...] e non solo veniamo considerati giusti, ma siamo chiamati tali e lo siamo realmente
[...], ricevendo in noi ciascuno la propria giustizia...», DS 1529).
Conseguentemente la “giustizia di Dio” (o “di Cristo”) può essere detta “nostra giustizia”; per
cui «né si esalta la nostra giustizia come se provenisse da noi [preoccupazione antipelagiana], né si
ignora o si rifiuta la giustizia di Dio [preoccupazione protestante]. Infatti quella giustizia che si dice
nostra, perché, inerendo a noi, ci giustifica, è quella stessa di Dio, perché ci viene infusa da
Dio per i meriti di Cristo [sintesi cattolica]» (DS 1547).
Trento, parlando di “intima adesione” (inhaerere) della grazia, si oppone alla “giustizia”
semplicemente “imputata” e all'affermazione luterana che «in questa vita resta presente il
peccato nell'uomo» (WA, 40). La formula «unica causa formale (della giustificazione) è la
giustizia di Dio» raccoglie la discussione, svolta in assemblea conciliare, sulla questione della
"duplice giustizia" (la giustizia inerente, data la sua insufficienza, richiederebbe un'ulteriore
applicazione dei meriti di Cristo). L'affermazione lascia intendere la non-identità della giustizia
di Cristo, a noi donata e sulla quale soltanto si può contare, con la giustizia a noi inerente. Il
Concilio si preoccupa di stabilire in che senso la tesi presentata da Seriprando338, generale degli
agostiniani, va esclusa: nella misura in cui compromette la realtà e l'efficacia salvifica della
giustizia inerente, considerata identica alla giustizia di Cristo.
Va comunque rilevato che, almeno a giudizio dei cultori del pensiero di Seriprando, il
suo modo d'intendere la giustificazione è stato travisato durante la discussione conciliare. In
effetti egli, ispirato dal suo intenso agostinismo, avrebbe sottolineato la permanente
imperfezione dell'uomo giustificato, per il permanere in lui della concupiscenza. Per cui, più
che sostenere la “duplice giustizia”, Seriprando evidenzierebbe l'insopprimibile differenza tra
la giustizia di Cristo - prototipo della giustizia infusa nel cuore dell'uomo - e la nostra
partecipazione - sempre imperfetta - ad essa; ribadirebbe inoltre l'irriducibilità della giustizia di
Cristo alla nostra partecipazione ad essa.
Il testo conciliare definisce la giustificazione a partire dai suoi effetti: la remissione dei
peccati (dimensione negativa) e la santificazione dell'uomo (dimensione positiva).
I due aspetti della giustificazione sono inseparabili, in quanto la non imputabilità del peccato è
al tempo stesso reale santificazione dell'uomo. La giustificazione è descritta, secondo la
tradizione ontologica scolastica, come una “realtà” che è nell'uomo, di cui si ricercano,
aristotelicamente, le “cause”.
La tendenza “cosificante” viene attenuata nella seconda parte del capitolo, quando si fa
riferimento all'inserzione del giustificato nel corpo di Cristo e si presenta la fede che opera
mediante la carità, aderendo ai comandamenti di Dio, impegnandosi quindi in una storia
concreta dove la libertà del credente è chiamata in causa.
«A questa disposizione o preparazione segue la stessa giustificazione, che non è una semplice
remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell'uomo interiore, mediante la
libera accettazione della grazia e dei doni che l'accompagnano, per cui da ingiusto diviene giusto
e da nemico amico, così da essere erede secondo la speranza della vita eterna (Tit 3,7). Cause di questa
giustificazione sono: causa finale, la gloria i Dio e del Cristo e la vita eterna; causa efficiente la
misericordia di Dio, che gratuitamente ci purifica (Cf 1Cor 6,11) e ci santifica, segnando ed
unguendo (cf 2Cor 1,21-22) con lo Spirito santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra
eredità (Ef 1,13-14); causa meritoria è il suo dilettissimo unigenito e signore nostro Gesù Cristo, il
quale, pur essendo noi suoi nemici (cf Rom 5,10), per il grande amore con il quale ci ha amati (Ef 2,4),
338
Cfr. V. GROSSI, La giustificazione secondo Gerolamo Seriprando nel contesto dei dibattiti tridentini, in
“Analecta Augustiniana” 41 (1978) 5-24.
Antropologia Teologica 2009-2010
116.
ci ha meritato la giustificazione con la sua santissima passione sul legno della croce e ha soddisfatto per noi Dio Padre; causa strumentale è il sacramento del battesimo, che è il sacramento
della fede (Cf Agostino, Ep 98 ad Bonifacium 9), senza la quale nessuno ha mai ottenuto la
giustificazione. Infine, unica causa formale è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli
stesso è giusto, ma quella per cui ci rende giusti; infatti, ricolmi del suo dono, veniamo rinnovati
nello spirito della nostra mente (cf Ef 4,23), e non solo veniamo considerati giusti, ma siamo
chiamati tali e lo siamo realmente (Cf Gv 3,1), ricevendo in noi ciascuno la propria giustizia,
nella misura in cui lo Spirito santo la distribuisce ai singoli come vuole (cf 1Cor 12,11) e secondo
la disposizione e la cooperazione propria di ciascuno. Quantunque nessuno possa essere giusto,
se non per la comunicazione dei meriti della passione del signore nostro Gesù Cristo, tuttavia la
giustificazione del peccatore si produce quando, per merito della stessa santissima passione,
l'amore di Dio viene diffuso mediante lo Spirito santo nei cuori (cf Rom 5,5) di coloro che sono
giustificati e inerisce loro. Ne consegue che nella stessa giustificazione l'uomo, insieme alla
remissione dei peccati, riceve per mezzo di Gesù Cristo nel quale è innestato, tutti questi doni
infusi: fede, speranza, carità. Infatti la fede, senza la speranza e la carità, né unisce perfettamente
a Cristo né genera membra vive del suo corpo. Per questo motivo è assolutamente vero
affermare che la fede senza le opere è morta e inutile (cf Gc 2,17-20) e che in Cristo Gesù non
valgono né la circoncisione, né la incirconcisione, ma la fede che opera per mezzo della carità (Gal
5,6). Questa, secondo la tradizione apostolica, è la fede che i catecumeni chiedono alla chiesa
prima del sacramento del battesimo quando domandano la fede che dà la vita eterna, quella vita
eterna che la fede non può garantire senza la speranza e la carità. Per questo risponde loro
immediatamente la parola di Cristo: Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti (Mt 19,17).
Perciò a coloro che ricevono la vera giustizia cristiana, non appena rinati viene comandato di
conservare candida e senza macchia quella prima veste (Cf Lc 15,22; Agostino, De genesi ad litt.
VI 27), donata loro da Gesù Cristo in luogo di quella che Adamo ha perso con la sua
disobbedienza per sé e per noi, e di portarla dinanzi al tribunale del Signore nostro Gesù Cristo
per avere la vita eterna (Cf Rituale Rom. L'amministrazione del Battesimo)».
4. Proprietà della giustificazione (capp 8-15: DS 1532-1544)
Viene descritto il concreto dinamismo della vita di grazia, non limitata al momento della
fede fiduciale (che non comporta crescita, perdita, recupero), ma comprendente un complesso
di atteggiamenti della libertà umana, che, con la sua concreta storicità, inserisce nella
giustificazione un aspetto di drammaticità, di dinamicità: peccabilità del credente, necessità di
osservare i comandamenti, ammissibilità della grazia, ricuperabilità, incertezza dello stato di
grazia, crescita, perseveranza nella grazia ecc.
Cap VIII, Cosa significa che il peccatore è giustificato per la fede e gratuitamente
«Quando l'Apostolo dice che l'uomo viene giustificato per la fede (Cf Rom 3,28ss) e
gratuitamente (Cf Rom 3,24) queste parole si devono intendere secondo il significato accettato e
manifestato dal concorde e permanente giudizio della chiesa cattolica, e cioè che siamo
giustificati mediante la fede, perché la fede è il principio dell'umana salvezza, il fondamento e la
radice di ogni giustificazione, senza la quale è impossibile essere graditi a Dio (Eb 11,6) e giungere alla
comunione (Cf 2Pt 1,4) che con lui hanno i suoi figli; si dice poi che noi siamo giustificati
gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione, sia la fede che le opere, merita la
grazia della giustificazione: infatti se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti (come dice lo stesso
Apostolo) (Rom 11,6) la grazia non sarebbe più grazia».
Cap IX, Contro la vana fiducia degli eretici
«Quantunque sia necessario credere che i peccati non sono rimessi, né lo sono mai stati, se non
gratuitamente dalla divina misericordia a causa del Cristo: tuttavia si deve dire che nessuno, che
ostenti fiducia e certezza della remissione dei propri peccati e in essa sola si acquieti, sono o
sono stati rimessi i peccati. Questo può accadere fra gli eretici e gli scismatici, anzi accade in
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questo nostro tempo, e questa fiducia vana e lontana da ogni vero sentimento religioso viene
predicata con grande accanimento contro la chiesa cattolica. Ma non si deve nemmeno affermare
che quelli realmente giusitifcati, debbano, in modo assoluto e senza alcuna esitazione essere
interiormente convinti della propria giustificazione; né ritenere che sia assolto dai peccati e
giustificato, solo colui che crede fermamente di essere stato assolto dai peccati e giustificato, e
che l'assoluzione e la giustificazione sia opera soltanto della fede, come se il non credere ciò,
significasse dubitare delle promesse di Dio e dell'efficacia della morte e della resurrezione del
Cristo. Infatti come nessun uomo religioso deve dubitare della misericordia di Dio, dei meriti di
Cristo, del valore e dell'efficacia dei sacramenti, così ciascuno, riflettendo su se stesso, sulla
propria debolezza e disordine, ha motivo di temere e paventare del suo stato di grazia; infatti
nessuno può sapere con certezza di fede, libera da ogni possibilità di errore, di avere ottenuto la
grazia di Dio».
Cap X, L'aumento della grazia ricevuta
«Gli uomini, dunque, così giustificati e divenuti amici e familiari di Dio (Cf Ef 2, 19), mentre
cresce lungo il cammino il loro vigore (Sal 83,8), si rinnovano (come dice l'Apostolo) (Cf 2Cor 4,16) di
giorno in giorno, cioè mortificando le membra del proprio corpo (Cf Col 3,5) e offrendole come
strumento di giustizia per la santificazione (Cf Rom 6,13.19), mediante l'osservanza dei
comandamenti di Dio e della chiesa, crescono nella stessa giustizia ricevuta per la grazia di
Cristo, poiché la fede coopera alle buone opere, così divengono sempre più giusti, come è
scritto: Il giusto continui a praticare la giustizia (Ap 22,11), ed ancora: Non aspettare fino alla morte per
sdebitarti (Eccl 18,22) e di nuovo: Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in
base alla fede (Gc 2, 24). Questo aumento della giustizia chiede la santa chiesa quando prega:
Aumenta in noi, Signore, la fede, la speranza e la carità (Orazione della domenica XIII dopo
Pentecoste)».
Cap XI L'osservanza dei comandamenti, la sua necessità e possibilità
«D'altra parte nessuno, quantunque giustificato, deve ritenersi libero dall'osservanza dei
comandamenti, nessuno deve fare propria quella temeraria espressione, colpita dai padri con
l'anatema (Cf tra gli altri concili Aruas II [529] post c. 25), secondo la quale i comandamenti di
Dio sono impossibili da osservarsi per l'uomo giustificato. Dio, infatti, non comanda
l'impossibile; ma quando comanda ti ammonisce di fare quello che puoi, di chiedere quello che
non puoi e ti aiuta perché tu possa (cf Agostino, De nat. et gr 43 [50]), i suoi comandamenti non
sono gravosi (Cf 1Gv 5,3), il suo giogo è dolce e il suo carico leggero (Cf Mt 11,30). Quelli
infatti che sono figli di Dio, amano il Cristo; quelli che lo amano (come lui stesso testimonia) (Cf
Gv 14,23) osservano la sua parola, cosa senz'altro possibile con l'aiuto di Dio. Infatti in questa
vita mortale, anche se santi e giusti, qualche volta [i cristiani] cadono almeno in peccati leggeri e
quotidiani, che si dicono anche veniali, senza per questo cessare di essere giusti. Ed è propria dei
giusti l'invocazione umile e sincera: Rimetti a noi i nostri debiti (Mt 6,12). Da ciò deriva che proprio
i giusti debbano sentirsi maggiormente obbligati a camminare nella via della giustizia, in quanto
ormai, liberati dal peccato e fatt servi di Dio (Rom 6,22), vivendo con sobrietà, giustizia e pietà (Tt 2,12),
possono progredire per mezzo di Gesù Cristo, mediante il quale hanno ottenuto l'accesso a
questa grazia (cf Rom 5,2). Dio infatti non abbandona con la sua grazia quelli che una volta sono
stati giustificati, a meno che prima non siano loro ad abbandonarlo (Cf Agostino, De nat,. et gr.
26 [29] e spesso nei libn di Agostino). Nessuno quindi deve cullarsi nella sola fede, credendo di
essere costituito erede e di conseguire poi l'eredità per la sola fede, anche senza partecipare alle
sofferenze di Cristo per partecipare anche alla sua gloria (Cf Rom 8,17). Cristo stesso, infatti
(come dice l'Apostolo), pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto,
divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,8.9). Per questo lo stesso
Apostolo ammonisce quelli che sono stati giustificati, dicendo: Non sapete che nelle corse allo stadio
tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Io dunque corro, ma
non come chi è senza meta; faccia il pugilato, ma non come chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo
trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avre predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1Cor 9,
24.26-27). Allo stesso modo Pietro principe degli apostoli, dice: Cercate di rendere sempre più sicura la
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118.
vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai (2Pt 1,10). Per cui appaiono
chiaramente in contrasto con la dottrina ortodossa quelli che dicono che il giusto pecca, almeno
venialmente, in ogni opera buona (Cf Bolla Exurge Domine, art 31 sq), o (cosa ancora più
insostenibile) che merita le pene eterne, altrettanto è di quelli che sostengono che in tutte le
opere buone i giusti peccano, se, superando in quelle la loro pigrizia e esortando se stessi a
correre allo stadio, in primo luogo oltre alla gloria di Dio, guardano anche al premio eterno,
poiché sta scritto: Ho piegato il mio cuore ai tuoi precetti, in essi è la mia ricompensa per sempre (Sl
118,112). E di Mosè l'Apostolo dice che guardava alla ricompensa (Cf Eb 11, 26)».
Cap XII: Bisogna evitare la presunzione temeraria della predestinazione
«Nessuno, inoltre, fino a che vivrà in questa condizione mortale, deve presumere dell'arcano
mistero della divina predestinazione fino al punto di ritenersi sicuramente nel numero dei
predestinati (Cf Eb 11,26), quasi fosse vero che chi è stato giustificato non può più peccare, e se
pecca deve essere certo di un sicuro ravvedimento. Infatti non si possono conoscere quelli che
Dio si è scelti se non per una speciale rivelazione».
Cap XIII: Del dono della perseveranza
«Similmente si deve dire per il dono della perseveranza, di cui sta scritto: Chi persevererà sino alla
fine, sarà salvato (Mt 10,22; 24,13) (dono che non si può ricevere se non da chi ha il potere di far
stare in piedi colui che lo è già [Cf Rom 14,4], perché perseveri, e di risollevare colui che cede).
Nessuno, quanto a questo dono, si ripromette qualche cosa con assoluta certezza, quantunque
tutti debbano nutrire e riporre fermissima speranza nell'aiuto di Dio: Dio infatti, se essi non
vengono meno alla sua grazia, come ha cominciato quest'opera buona, così la porterà a
compimento (Cf Fil 1,6), suscitando il volere e l'operare (cf Fil 2,13). Tuttavia quelli che credono
di stare in piedi, guardino di non cadere (Cf 1Cor 10,12), e attendano alla propria salvezza con
timore e tremore (Cf Fil 2,12), nelle fatiche, nelle veglie, nelle elemosine, nelle preghiere e nelle
offerte, nei digiuni e nella castità (Cf 2Cor 6,5-6). Proprio perché sanno di essere stati rigenerati
alla speranza della gloria (Cf 1Pt 1,3) e contro il diavolo, nella quale non possono riuscire
vincitori, se non obbediranno con la grazia di Dio alle parole dell'Apostolo: Noi siamo debitori, ma
non verso la carne, per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo non ancora alla gloria, devono
temere per la battaglia che ancora rimane contro la carne, contro il mondo, la carne, voi morirete; se
invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere de corpo, vivrete (Rom 8,12-13)».
Cap XIV: Il ricupero dei peccatori
«Quelli poi che a causa del peccato sono venuti meno alla grazia della giustificazione ricevuta
anteriormente, potranno nuovamente essere giustificati, se procureranno, sotto l'ispirazione di
Dio, di recuperare la grazia perduta attraverso il sacramento della penitenza, per merito del
Cristo. Questa forma di giustificazione è la riparazione di colui che è caduto; quella riparazione
che i santi padri chiamarono, con felice espressione, la seconda tavola dopo il naufragio della
grazia perduta (Gerolamo Ep 84,6; Ep 130; Tertulliano, De poen. c 7 sq). Infatti, per quelli che
cadono in peccato dopo il battesimo, Gesù Cristo ha istituito il sacramento della penitenza,
quando disse: Riceverete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete,
resteranno non rimessi (Gv 22,22-23; Cf Mt 16,19). Bisogna, quindi, insegnare che la penitenza del
cristiano dopo la caduta è di natura molto diversa da quella battesimale e consiste non solo nel
rifuggire dai peccati e nel detestarli, cioè in un cuore contrito e umiliato (Sal 50,19), ma anche nella
confessione sacramentale dei medesimi, almeno nel desiderio e da farsi a suo tempo, e
nell'assoluzione del sacerdote; e così pure nella soddisfazione col digiuno, le elemosine, le
orazioni e altre pie pratiche spirituali, non certo della pena eterna, che è rimessa in sieme con la
colpa mediante il sacramento o il desiderio del sacramento, ma della pena temporale: essa infatti
(come insegna la sacra scrittura) non sempre viene totalmente rimessa, come nel battesimo, a
coloro che, immemori della grazia ricevuta da Dio, contristarono lo Spirito santo (Cf Ef 4,30), e
osarono violare il tempio del Signore (Cf 1Cor 3,17). Di questa penitenza sta scritto: Ricordati
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119.
dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima (Ap 2,5); e di nuovo: Perché la tristezza
secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza (2Cor 7, 10); ancora: Convertitevi (Mt
3,2; 4,17); e: Fate frutti degni di conversione (Lc 3, 8; Mt 3,8)».
Cap XV: Con il peccato mortale si perde la grazia, ma non la fede
«Contro le maligne invenzioni di taluni, i quali con un parlare solenne e lusinghiero ingannano i cuori dei
semplici (Rom 16,18), bisogna affermare che non solo con l'infedeltà, per cui si perde la stessa
fede, ma anche con qualsiasi altro peccato mortale, si perde la grazia già ricevuta della
giustificazione, anche se non si perde la fede. Con ciò difendiamo l'insegnamento della legge
divina, che esclude dal regno di Dio non soltanto gli infedeli, ma anche i fedeli immorali,
adulteri, effeminati, sodomiti, concubini, ladri, avari, ubriaconi, malédici, rapaci, e tutti gli altri
che comettono peccati mortali, da cui con l'aiuto della grazia potrebbero astenersi (Cf 2Cor 2,19;
Fil 4,13) e a causa dei quali vengono separati dalla grazia del Cristo (Cf 1Cor 6,9-10; 1Tim 1,910)».
5. Il frutto della giustificazione, il merito delle buone opere e le ragioni di questo
merito (cap 16: DS 1545-1550)
La tesi del merito esprime la verità che “la giustizia di Cristo è la nostra giustizia”, nel
senso che l'uomo, giustificato in forza della grazia che gli è donata, diventa membro vivo del
corpo di Cristo, s'impegna attivamente a osservare i comandamenti e a compiere le opere
buone. In tal modo l'uomo “merita” realmente la vita che gli è donata («Perciò a quelli che
perseverano fino alla fine [...] e sperano in Dio deve essere proposta la vita eterna, sia come
grazia promessa misericordiosamente ai figli di Dio per i meriti di Gesù Cristo, sia come
ricompensa che, secondo la promessa di Dio stesso, deve essere fedelmente accordata alle loro
opere buone e ai loro meriti», DS 1545).
«Ora agli uomini giustificati in questo modo, sia che abbiano sempre conservato la grazia
ricevuta, sia che, dopo averla perduta, l'abbiano recuperata si devono proporre le parole
dell'Apostolo: Prodigatevi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore
(1Cor 15,58). Dio infatti non è ingiusto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il
suo nome (Eb 6,10). E: Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande
ricompensa (Eb 10,35). Perciò a quelli che perseverano fino alla fine (Mt 10,22) e sperano in Dio
deve essere proposta la vita eterna, sia come grazia promessa misericordiosamente ai figli di Dio
per i meriti di Cristo Gesù, sia come ricompensa che, secondo la promessa di Dio stesso, deve
essere fedelmente accordata alle loro opere buone e ai loro meriti. Questa è infatti quella corona
di giustizia che l'Apostolo diceva essere a lui riservata dopo il suo combattimento e la sua corsa,
per essergli consegnata dal giusto giudice, e non a lui solo, ma anche a tutti coloro che attendono
con amore la sua venuta (Cf 2Tim 4,7-8). Lo stesso Gesù Cristo, come il capo nelle membra e la
vite nei tralci (Cfr Gv 15,1ss), trasfonde continuamente la sua virtù in quelli che sono giustificati,
virtù che sempre precede, accompagna e segue le loro opere buone, e senza la quale non
potrebbero per nessuna ragione piacere a Dio e essere meritorie. Per questo si deve credere che
non manchi più niente agli stessi giustificati, perché si possa ritenere che, con le opere compiute
in Dio (Cf Gv 3,21), essi abbiano pienamente soddisfatto alla legge divina, per quanto possibile
in questa vita, meritando veramente di ottenere a suo tempo la vita eterna (purché muoiano in
grazia) (Cf Ap 14,13). Dice, infatti, il Cristo, nostro salvatore: Chi beve dell'acqua che io gli darò, non
avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà per lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna
(Gv 4, 13-14). In tal modo né si esalta la nostra giustizia come se provenisse proprio da noi (Cf
Cor 3,5), né si ignora o si rifiuta la giustizia di Dio (Cf Rom 10,3). Infatti quella giustizia che si
dice nostra, perché, inerendo a noi, ci giustifica, è quella stessa di Dio, perché ci viene infusa da
Dio per i meriti di Cristo. Non si deve nemmeno dimenticare che, anche se la sacra Scrittura
attribuisce tanta importanza alle opere buone, al punto che a chi ha dato un bicchiere d'acqua
fresca a uno dei suoi piccoli Cristo promette una ricompensa (Cf Mt 10,42; Mc 9,40), e se
l'Apostolo testimonia che il momentaneo leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità
smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17), mai un cristiano deve confidare o gloriarsi in se stesso e
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120.
non nel Signore (Cf 1Cor 1,31;2Cor 10,17 [Ir 9,23-24], il quale è talmente buono verso tutti gli
uomini, da volere che diventino loro meriti quelli che sono suoi doni (Cf Celestino I, Ep ad
episcopos Galliae, c 12). E poiché tutti quanti manchiamo in molte cose (Giac 3,2), ciascuno deve avere
dinanzi agli occhi sia la misericordia e la bontà, che la severità e il giudizio, e non giudicarsi da se
stesso, anche se non è consapevole di alcuna colpa (Cf 1Cor 4,3-4). Tutta la vita degli uomini
infatti deve essere esaminata e giudicata non secondo il giudizio umano, ma secondo quello di
Dio: egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua
lode da Dio (1Cor 4,5); che, come sta scritto, renderà a ciascuno secondo le sue azioni (Mt 16,27; Rom
2,6; Ap 22,12)».
Dopo questa esposizione della dottrina cattolica della giustificazione, che ciascuno dovrà
accettare fedelmente e fermamente per poter essere giustificato (Cf inizio del simbolo
Atanasiano), è sembrato opportuno al santo sinodo aggiungere i seguenti canoni, perché
tutti sappiano non solo ciò che devono credere e seguire, ma anche quello da evitare e
fuggire».
Rilievi339
- La preoccupazione principale del Concilio non è quella di ripensare in toto la questione
della grazia, ma di trattare gli aspetti compromessi dalla Riforma. Trento ribadisce il
“realismo” della grazia, in contrapposizione all'interpretazione protestante della giustificazione
come “giustizia imputata”: la grazia costituisce per/nell'uomo un principio di reale
trasformazione, per la quale la relazione tra Dio e l'uomo è più reale e profonda di ogni
relazione di tipo giuridico o morale (come lascerebbe pensare la “giustizia imputata”).
Conseguentemente l'uomo partecipa realmente alla vita di Dio e, come Gesù Cristo e con/in
lui, è in grado di compiere atti meritori (“buoni”).
Il Concilio, affermando la presenza della giustizia nell'uomo, è preoccupato di escludere ogni
tesi della giustizia dell'uomo, nel senso che venga da lui, che sia opera sua. Questo perché la
giustizia è la giustizia che viene da Dio, che è donata da Lui («iustitia Dei... qua nos iustos facit»).
La preoccupazione di chiarire gli aspetti controversi determina l'abbandono di quelle
tematiche che, pur cariche di profonda spiritualità, potevano insinuare il sospetto di una
qualche prossimità con le posizioni protestanti (cfr la discussione sulla “duplice giustizia”, sulla
“certezza della grazia”; il tema della speranza che, nell'interpretazione di Seriprando, garantisce
al singolo credente la possibilità di appropriarsi del contenuto universale della fede).
- L'affermazione della libertà umana (libero arbitrio) non totalmente distrutta dal peccato,
anzi presupposta e abilitata dalla grazia a cooperare per la salvezza dell'uomo, evidenzia l'unità
profonda dell'azione di Dio, dell'unico ordine soprannaturale effettivamente esistente.
Tuttavia, per quella debolezza cristologica determinata da un'interpretazione in senso
amartiocentrico del ruolo di Gesù nella storia dell'uomo, il libero arbitrio «non appare qualificato "cristologicamente" come quel legame creaturale - assolutamente originario perché
organicamente iscritto nell'unico ordine soprannaturale - che nessun peccato potè mai
cancellare e che testimonia al tempo stesso l'incontrovertibile amore di Dio per le sue creature
e l'insopprimibile “vocazione”/”aspirazione” dell'uomo peccatore - l'unico tipo di uomo che
storicamente conosciamo! - a "essere" e a riconoscersi “in Cristo”»340.
La mancata esplicitazione del riferimento cristologico farà sentire i suoi effetti nella teologia
post-tridentina, la quale, incalzata dalla cultura epocale che rivendica per l'uomo moderno
339
Cfr G. COLOMBO, Grazia, 1614; G. COLZANI, La nozione di "giustificazione". Il senso del suo
impiego nei dibatiti tridentini. Verifica di un modello di comprensione, A.T.I, La giustificazione,
Messaggero, Padova 1997, 65-111.
340
F. BUZZI, Il concilio di Trento, 118.
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121.
un'autonomia radicale, finirà per impostare il rapporto libertà/grazia (natura/ sopranatura) in
termini contrappositivi, concorrenziali.
L'insufficiente centratura cristologica del discorso sulla grazia «rende obiettivamente
debole la presenza, per altro ben attestata, di riferimenti trinitari», non solo perché «è assente
qualsiasi tentativo di articolare il discorso economico con la vita trinitaria», ma soprattutto
perchè, parlando della grazia, «i rimandi alle persone divine appaiono fluttuare in un discorso
che non sa decidersi tra la forma narrativa degli eventi della salvezza e la loro interpretazione
mediante gli schemi concettuali della teologia scolastica»341. D'altra parte i limiti imposti dal
Concilio alla riflessione sulla grazia (la sua reale presenza nell'uomo giustificato) determinano
un'attenzione quasi esclusiva al tema del “dono creato” e una certa disattenzione al tema del
“dono increato” (la presenza nell'uomo giustificato dello Spirito Santo), cioè al tema
dell'inabitazione della Trinità.
La teologia postridentina della grazia342
La riflessione teologica postridentina conduce l'analisi del Concilio in una duplice direzione: una più adeguata definizione della natura della grazia, acquisita ormai come «principio
dello stato di giustizia dell'uomo» (G. Colombo); la determinazione più accurata del rapporto
fra dono di Dio e condizione umana (la gratuità della grazia). Questa seconda linea si riallaccia
alla tradizione agostiniana riproposta dalla Riforma e successivamente dalle teologie ad essa
vicine, come quella di Baio e Giansenio.
La teologia, sviluppando alcune premesse poste dalla Scolastica, esprime sempre più
chiaramente che la grazia è tale non solo perché concessa all'uomo peccatore, ma anche
perché, a prescindere da ogni situazione particolare, lo sarebbe in ogni caso. La precisazione
favorisce una comprensione più profonda della grazia, in quanto fa cogliere che questa, non
appartenendo in alcun modo all'uomo, esprime la realtà propria di Dio. Per cui la
concessione all'uomo della grazia significa non che Dio intende donare “qualcosa” all'uomo,
ma che vuole, in qualche modo, donare se stesso, instaurare cioè una comunione di vita fra
sé e l'uomo.
La teologia, per illustrare questa idea, qualifica la grazia non solo come “gratuita”, ma anche
come “soprannaturale”.
La controversia baiana343
M. Baio (1513-1599), con un gruppo di teologi di Lovanio, di fronte a una visione ottimistica dell'uomo, presente soprattutto nella teologia dei gesuiti, dà rilievo al contrasto fra
natura e grazia, fra stato di peccato e stato di grazia, ispirandosi agli scritti antipelagiani di
Agostino. Baio traccia dello stato originale dell'uomo (prima della caduta) un quadro ideale:
l'uomo elevato a partecipare alla natura divina (cfr 2Pt 1,4) sarebbe stato per natura sua
integro, capace di conoscere e di osservare i comandamenti. L'osservanza dei comandamenti
però è possibile solo con la carità e lo Spirito Santo. Di conseguenza la carità, lo Spirito Santo
e i doni della giustizia originale, sono dovuti (naturali) all'uomo innocente, come gli è dovuto
lo stesso premio. L'ordine soprannaturale, nella prospettiva baiana, finisce per essere non un
dono, ma un diritto per l'uomo.
341
ID, 119.
A. GANOCZY, Dalla sua pienezza, 198-214; G. COLZANI, Antropologia, 189-197; P. FRANSEN,
Presentazione storico-dogmatica della dottrina della grazia. 5. L'era post-tridentina: pro e contro Agostino,
MS IX, 172-183.
343
Cfr H. DE LUBAC, Agostinismo e teologia moderna, jaca Book, Milano 1978, 39-70; G. COLOMBO,
Baio e il soprannaturale; Bellarmino contro Baio sulla questione del soprannaturale, in ID. Del
soprannaturale, Glossa, Milano 1996, 3-40; 41-78; A. BENI - G. BIFFI, La grazia di Cristo, 95-98.
342
Antropologia Teologica 2009-2010
122.
Dopo la caduta del peccato la situazione dell'uomo cambia radicalmente: la sua natura è
completamente assoggettata al peccato, che la domina mediante la concupiscenza. In questa
condizione l'uomo non può che peccare; per cui ogni sua azione, compiuta al di fuori della
grazia, è una colpa. Sia l'inabitazione dello Spirito Santo, che l'incorporazione a Cristo e la
grazia, intesa come realtà ontologica, non svolgono una determinante funzione. La giustizia è
data solo dall'attuale conformità alla legge di Dio, conformità possibile per il dono della carità,
la quale però è intesa da Baio solo in funzione sanante e non anche elevante.
Le condanne
Le idee di Baio vengono censurate dall'università di Parigi nel 1560. L'anno seguente Pio
IV, per il permanere della polemica, impone al professore di Lovanio il silenzio,
successivamente interviene con la Bolla Ex omnibus afflictionibus (1567), dove sono condannante
79 proposizioni (DS 1901-1980).
Baio si difende inviando al papa una sua difesa, che però gli ottiene la conferma della
condanna (1569). I discepoli, con a capo Giacomo Janson, riferendosi alla mancanza delle
virgole nel testo ufficiale della Bolla, riescono ad attenuare il senso della condanna. Baio
muore nel 1599 in pace con la Chiesa.
Rilievi
Il pensiero di Baio risulta carente a livello metafisico (il concetto di “natura” più che dai
suoi elementi costitutivi sembra ricavato dalla sua relazione all'azione di Dio), con la tendenza
a una concezione attualistica della grazia e a livello teologico, dove la grazia pare identificata
con la capacità di osservare la legge divina, anche se questo punto, in relazione alla dottrina
baiana sulla giustificazione, va sfumato.
In conclusione l'errore fondamentale di Baio «sta nell'incomprensione dell'ordine soprannaturale: incomprensione della sua “ontologia”, perché non viene concepito come una
realtà nuova; incomprensione della sua gratuità, perché verso di esso l'uomo innocente
avanzerebbe dei “diritti”»344. Per questo la sua dottrina può essere considerata “pelagianesimo
giuridico” (G. Biffi): per Pelagio i doni di cui Adamo è ricco appartengono alla natura, per
Baio sono un diritto dell'uomo innocente.
La controversia giansenista345
C. Giansenio (1585-1638), teologo fiammingo dell'Università di Lovanio, è impegnato
a riportare l'attenzione sulla questione del rapporto grazia-libertà, per correggere le posizioni,
da lui ritenute neopelagiane, dei molinisti e dei congruisti (che parlano di un merito derivante
da un’opera buona compiuta dalla semplice libertà umana). Con l'opera, pubblicata postuma
(1640), Augustinus, interviene nella disputa della controversia "De auxiliis". L'opera si divide in
tre volumi: nel primo si fa la storia del pelagianesimo e semipelagianesimo, con l'intenzione
d'identificarli nel molinismo; nel secondo si tratta dello stato di giustizia originale (assimilata a
quella degli Angeli), dello stato di natura decaduta e di natura pura, per mostrarne
l'insostenibilità; nel terzo, il più importante, è esposta la sua concezione della grazia, nel
tentativo di ritornare ad Agostino.
Il metodo di Giansenio (esposto nel II° volume) intende superare il procedimento
razionale (la ragione è ritenuta «madre di tutte le eresie»), richiamandosi alla tradizione da lui
identificata, come da Baio, in Agostino. Viene rifiutata la teologia speculativa, per una teologia
intesa come operazione storica di rivisitazione della tradizione.
344
A. BENI-G. BIFFI, La grazia di Cristo, 98.
Cfr H. DE LUBAC, Agostinismo, op cit 71-126; A. BENI- G. BIFFI, La grazia di Cristo, 98-102; G.
COLOMBO, Giansenio e il soprannaturale, in ID., Del soprannaturale, op cit, 79-110.
345
Antropologia Teologica 2009-2010
123.
Al centro del pensiero di Giansenio sta la concezione della grazia come delectatio victrix,
che si aggiunge alla volontà, che è passiva, in riferimento all'agire morale. Parlando del
rapporto grazia-libertà Giansenio fa coincidere la libertà con la volontà, nel senso che quanto è
voluto è per ciò stesso libero. Per cui alla libertà non si oppone una necessità immanente alla
stessa volontà, ma solo una costrizione esterna che impedisce alla libertà di volere (libertas a
coactione). In tal modo la necessità interiore non si oppone alla libertà del volere umano. In
questa prospettiva la grazia si presenta come delectatio che previene la volontà, la conduce a
compiere la volontà di Dio, è un piacere vittorioso - delectatio victrix - che porta al bene.
In relazione alla questione sulla distinzione tra grazia sufficiente e grazia efficace,
Giansenio rifiuta la prima, perché la grazia è un'azione irresistibile di Dio nella vita del
credente. Da qui una distinzione essenziale tra l'auxilium sine quo non e l'auxilium quo: il primo
presenta la grazia come possibilità di fare il bene, cui si può resistere, necessaria e sufficiente
data ad Adamo prima del peccato. Questi aveva una perfetta libertà interiore, senza dover affrontare nessuna inclinazione contraria. Il secondo invece (auxilium quo), definisce lo stato di
natura decaduta, dove è necessaria una grazia irresistibile che conduca al bene.
L'uomo è libero, ma di una libertà interiore che è in sintonia con la necessità di aderire al
bene. Perciò l'uomo decaduto è dominato da un'inclinazione irresistibile, che, se non è quella
della delectatio victrix, l'orienta inesorabilmente al male. Per questo non è possibile parlare, a
giudizio di Giansenio, di una grazia puramente sufficiente: nello stato di uomo decaduto la
grazia, per contrastare l'inclinazione al male, non può che essere efficace. Quindi la
conclusione, in sintonia con Agostino, di un'ineguale distribuzione della grazia efficace, in
quanto, diversamente, si dovrebbe ammettere l'effettiva salvezza di tutti. Questo però non
contrasta con la giustizia di Dio, perché l'uomo è visto nella condizione di libertà decaduta, di
massa dannata.
Le condanne
L'Augustinus viene attaccato dai gesuiti di Lovanio, con l'accusa di calvinismo. Nel 1641 è
posto all'indice e, dopo una proibizione da parte di Urbano VIII (1642), nel 1653 Innocenzo
X condanna come eretiche 5 proposizioni (DS 2001-2005):
- ai giusti di buona volontà può mancare la grazia di osservare i comandamenti;
- nello stato di natura decaduta non si può resistere alla grazia interiore;
- per meritare e demeritare, nello stato di natura decaduta, non si richiede all’uomo la libertà
dalla necessità, ma è sufficiente la libertà dalla costrizione;
- l'eresia semipelagiana consiste nel ritenere la grazia un dono che lascia libero l'uomo;
- fa parte dell'eresia semipelagiana l'affermazione che Cristo è morto per tutti gli uomini.
Rilievi
La controversia giansenista ripropone i problemi dell'agostinismo: la corruzione della
natura, l'esistenza del libero arbitrio, la predestinazione. Pone esplicitamente il problema della
distribuzione della grazia: la grazia è data a tutti? Anche ai non cristiani? Gli infedeli si possono
salvare? Questioni suscitate dalle scoperte geografiche che presentano altri popoli, che non
hanno mai sentito parlare di Gesù.
La teologia guadagna sempre più l'idea che Dio concede la grazia anche agli infedeli, i quali,
per vie misteriose, possono giungere alla fede; che è possibile una salvezza soprannaturale per
chi deliberatamente non si oppone all'azione salvifica di Dio.
Antropologia Teologica 2009-2010
124.
Osservazioni conclusive
Le contoversie esaminate convergono, sotto il profilo del contenuto, a formalizzare il
problema della grazia nella prospettiva agostiniana, come problema della determinazione
dell'azione di Dio e dell'uomo nell'opera della salvezza. E' il problema posto dalla Riforma, che
il concilio di Trento tratta solo per qualche aspetto.
Rifiutata la soluzione della Riforma il problema è posto alla teologia cattolica soprattutto
dal giansenismo, come scelta fra la posizione agostiniana e la posizione scolastica. La scelta fra
le due posizioni fa riferimento alla concezione dell'uomo e della natura, in quanto, mentre
l'agostinismo tendenzialmente risolve l'uomo e la natura nella relazione con Dio, la Scolastica
tende invece a riconoscere all'uomo e alla natura una propria consistenza, indipendentemente
dalla loro relazione con Dio.
La reazione all'agostinismo, assumendo il concetto di natura e di uomo come realtà in sé
e per sé (natura pura), tende a solidificare l'uomo in se stesso anche di fronte a Dio. E' questo
il significato profondo del rifiuto dell'intrepretazione gianseniana del rapporto grazia-libertà,
dove è negata una reale consistenza all'uomo di fronte a Dio.
Scartati la Riforma e il giansenismo il problema sembra restare aperto nei termini
indicati dalla controversia De auxiliis (cfr pp 38-41). La lettura della predestinazione operata da
Bañez tende a dissolvere la natura dell'uomo rendendola uno strumento passivo nelle mani di
Dio. Ci troviamo ancora di fronte alla grazia irresistibile, anche se con il concorso dell'uomo.
In questo senso alla lettura bañeziana è riservato lo stesso rifiuto del giansenismo. La
prospettiva molinista, invece, con la sua affermazione della libertà dell'uomo anche in presenza
dell'azione della grazia, della volontà salvifica universale, intende rivendicare la consistenza
dell'uomo come essere in sé e non come strumento passivo nelle mani di Dio.
Il molinismo, però, più che risolvere pone il problema, in quanto tende a porre l'azione
umana in concorrenza con l'azione divina, cioè a collocare le due azioni sullo stesso piano, con
la conseguenza che per concedere all'uno bisogna togliere all'altro. In tal modo assume
implicitamente il presupposto bañeziano, capovolgendolo, secondo cui Dio fa tutto e l'uomo
non fa nulla. Sta qui la ragione dell'impossibilità a intendersi da parte delle due prospettive, in
quanto ripetono, capovolta, la stessa cosa. Quindi del molinsimo va accolta l'affermazione
anche dell'azione dell'uomo oltre e insieme all'azione di Dio, mentre va respinta la
contrapposizione fra l'azione dell'uomo e quella di Dio, in quanto l'azione dell'uomo, essendo
l'azione di una creatura, resta relativa all'azione del Creatore. Porre l'esigenza anche dell'azione
dell'uomo oltre e insieme a quella di Dio significa porre il problema del "come" l'azione
umana, che non si contrappone a quella divina, si distingue da essa.
La teologia contemporanea
Per due secoli la teologia della grazia resta segnata, da un lato dalle discussioni
agostiniane sui rapporti grazia-libertà, la natura umana peccatrice, la predestinazione, la
distribuzione della grazia e dell’altro dalla concentrazione della grazia nel dono creato. Diversi i
tentativi di uscire da questa schematizzazione, da parte di esegeti come L. Lessio346 (15541623), di patrologi come D. Petavio347 (1583-1652) e da ecclesiologi come B. Franzelin348
(1816-1886), con esiti però poco significativi.
346
L. LESSIUS, De gratia efficaci, decretis divinis, libertate arbitrii et presciaentia Dei conditionata,
Anversa 1610; cfr P. BERNARD, Lessius, DTCh IX/1, coll 453-454.
347
D. PETAVIUS, Dogmata theologica, 4 vol, Venezia 1715-1724; cfr P. GALTIER, Petau, DTCh XII/1,
coll 1313-1337.
348
J. B. FRANZELIN, These de Ecclesia Christi. Opus postumum, Roma 1887; cfr G. CANOBBIO,
Autorità e verità, Morcelliana, Brescia 1979 (studio sul pensiero ecclesiologico di Franzelin).
Antropologia Teologica 2009-2010
125.
Un reale rinnovamento della teologia della grazia si verifica verso la metà del secolo XX
con le discussioni sul problema del soprannaturale349, ispirate da De Lubac350, con la
“Théologie nouvelle”351. Nel dibattito finisce sotto accusa l’estrinsecità della grazia proposta
dalla teologia manualistica: una grazia intesa come pura gratuità è ritenuta insufficiente, perché,
evidenziando soltanto l’eterogeneità della grazia rispetto alla natura, finisce per rendere il dono
aggiuntivo e superfluo. La critica si ispira a un modo di pensare la grazia a partire dal disegno
di Dio e non dalla condizione storica dell’uomo peccatore. Dal disegno di Dio emerge il
decisivo ruolo di Gesù Cristo (cfr il tema della predestinazione) nel definire la stessa natura
dell’uomo, la quale pertanto va ripensata a partire dall’azione creatrice e salvifica di Cristo. Da
qui la conclusione che non può essere la natura a richiamare il soprannaturale, ma il
soprannaturale a produrre la natura, rendendola possibile e offrendole la capacità di accogliere
la grazia.
Nel dibattito interviene l’enciclica Humani Generis di Pio XII (1950) per ribadire che la
gratuità dell’ordine soprannaturale esige che Dio possa creare esseri dotati di ragione senza
destinarli alla visione beatifica («Altri snaturano il concetto di “gratuità” dell’ordine
soprannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e
chiamarli alla visione beatifica», DS 3891). L’enciclica ha il valore di puntualizzare il dibattito
sulla gratuità della grazia e sulla duplicità dei fini (naturale e soprannaturale), senza intaccare la
convinzione che l’ordine storico nel quale viviamo è soprannaturale. Su questa convinzione
convergono i teologi, concordi nel rilevare il carattere estrinseco e astorico della prospettiva
manualistica, anche se divergono nelle indicazioni positive.
De Lubac352 sottolinea la dimensione di risposta a Dio, propria della natura umana, che è
anzitutto capacità di accoglierlo come dono. Per lui l’uomo è paradosso e mistero. K.
Rahner353, pur riconoscendo la legittimità della nozione di natura pura, costruisce il suo
pensiero sulla predisposizione incondizionata dell’uomo al Dio di grazia insieme al carattere
gratuito della benevolenza divina. Da qui ricava la tesi dell’esistenziale soprannaturale, quale a
priori trascendentale dell’attuale ordine storico, per questo fondamento imprescindibile di
un’antropologia teologica. In tal modo l’uomo è positivamente aperto al soprannaturale senza
per questo poterlo esigere e il dono di Dio è così gratuito senza per questo diventare
349
Per una ricostruzione della vicenda storica del soprannaturale cfr G. COLOMBO, Del soprannaturale, op
cit; L. F. LADARIA, Natura e sopranatura, in AA.VV, Storia dei dogmi II: L’uomo e la sua salvezza,
Piemme, Casale M. 1997, 327-360; R. GIBELLINI, Il cammino della teologia cattolica dalla controversia
modernista alla svolta antropologica, in ID, La teologia del XX secolo (= BTC 69), Queriniana, Brescia
1992, 161-270.
350
H. DE LUBAC, Surnaturel. Études historiques, Paris 1946; ID, Il mistero del soprannaturale, Jaca Book,
Mi-lano 1978; ID, Agostinismo e teologia moderna, Jaca Book, Milano 1978. Sulla concezione del
soprannaturale in De Lubac cfr G. BENEDETTI, La teologia del soprannaturale in Henri De Lubac, in H.
DE LUBAC, Agostinismo e teologia moderna, Jaca Book, Milano 1978, 1-30; N. CIOLA, Paradosso e
mistero in Henri de Lubac, Libreria Pont. Univ. Lateranense, Roma 1980.
351
Nella storiografia teologica Théologie nouvelle fa riferimento a un movimento teologico sviluppatosi in
Francia fra il 1940 e il 1950, impegnato a superare il distacco tra teologia e cultura contemporanea, come si
mostra nella neoscolastica. Ispirandosi ai Padri della Chiesa sostiene come la verità cristiana può essere
espressa con una ricchezza di simboli e di linguaggi maggiore di quanto ha lasciato intendere la scolastica
successiva. I teologi più rappresentativi di questo movimento sono H. Bouillard, J. Danielou, H. De Lubac,
G. Fessard.
Sulla Théologie nouvelle cfr L. MALEVEZ, La gratuité du surnaturel, NRTh 75 (1953) 561-586; 673-689;
J. M. CONNOLY, Le rénouveau théologique dans la France contemporaine, Paris 1966.
352
H. DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale, Milano 1978.
353
K. RAHNER, Rapporto tra natura e grazia, in ID, Saggi di antropologia soprannaturale, Paoline, Roma
1965, 43-77; ID, Natura e grazia, 79-122; ID, Esistenziale e soprannatrurale, SM III, Brescia 591-592.
Antropologia Teologica 2009-2010
126.
accidentale. H. Urs von Balthasar354 supera la manualistica ricuperando alla fede cattolica il
cristocentrismo di Barth. Ritiene la nozione teologica di “natura” un concetto formale, che
non esprime la realtà, ma che però è necessario per pensare la creaturalità. Un concetto quindi
che va continuamente oltrepassato a favore del senso vero e finale deciso da Dio per l’uomo.
Dal dibattito sul soprannaturale emerge che nell'uomo si danno, in profonda unità, le
dimensioni naturale e soprannaturale. L'uomo, in quanto creatura di Dio, è da lui distinta, ma
nello stesso tempo chiamata alla comunione con le persone divine.
Proprio perché gli uomini sono stati scelti in Gesù prima della creazione del mondo, non
esiste che un fine, una vocazione divina dell'essere umano, la piena comunione con Dio, che la
tradizione della Chiesa chiama “visione beatifica”. E questa vocazione determina
profondamente l'essere dell'uomo, a tal punto che si deve dichiarare che esiste nella nostra
natura il desiderio di Dio.
Ripresa teologica
Nel linguaggio teologico la particolare situazione di rapporto con Cristo realizzata
dall'incorporazione è illustrata con una duplice espressione: lo “stato di grazia” e lo “stato di
giustizia”.
- L'espressione “stato di grazia” identifica l'origine di tale stato nell'uomo nel dono gratuito di
Dio. L'espressione emerge nel contesto della riflessione agostiniana contro Pelagio e sottolinea
l'antecedenza dell'azione di Dio rispetto all'azione e alle condizioni dell'uomo.
- L'espressione “stato di giustizia” rileva il risultato di questo stato nell'uomo, che, in tale
condizione, può ritenersi giusto. L'espressione appare per la prima volta nell'ambito della
riflessione scolastica e viene recepita dal concilio di Trento nel decreto sulla giustificazione
(Sess VI- cap 7).
La prospettiva da cui nascono i due insegnamenti - quello antipelagiano e quello
scolastico-tridentino - non può essere ritenuta conclusiva riguardo al problema della situazione
dell'umanità in Cristo, in quanto riduce indebitamente la relazione Cristo-umanità alla
giustificazione dell'uomo peccatore, allontanandosi dalla Rivelazione, la quale, pur
riconoscendo come aspetto necessario della relazione anche la giustificazione dell'uomo
peccatore, tuttavia non risolve la relazione in parola alla sola liberazione dalla condizione di
peccatori. Quindi se la teologia vuole rispettare il dato rivelato deve determinare lo “stato di
grazia” e/o “lo stato di giustizia”, quali esiti della volontà di Dio, secondo una prospettiva
diversa.
+ Dalla tesi sulla predestinazione emerge che lo stato voluto da Dio per l'uomo (lo stato di
giustizia) è quello dell'unione a Cristo. La natura della giustificazione consiste quindi in un
particolare rapporto con Cristo, precisato nell'immagine della “incorporazione”. Il tema
dell'incorporazione risulta quindi essere punto di partenza e orizzonte globale all'interno del
quale emergono gli altri aspetti della giustificazione, come tematizzazione, esplicitazione, della
stessa incorporazione.
+ Gli elementi costitutivi dell'incorporazione: da un lato il “dono increato” (la presenza
[inabitazione] della Trinità nell'uomo giustificato), dall'altro il “dono creato” (la grazia
santificante).
354
H.U. VON BALTHASAR, Il concetto di natura nella teologia cattolica, in ID, La teologia di K. Barth;
Jaca Book, Milano 1985, 283-348.
Antropologia Teologica 2009-2010
127.
+ Gli effetti prodotti nell'uomo dall'incorporazione: positivamente la filiazione divina,
negativamente la remissione del peccato.
La nostra riflessione intende seguire questo schema; si articola quindi trattando
innanzitutto la natura della giustificazione (incorporazione a Cristo) e successivamente la
struttura della giustificazione: gli elementi costitutivi (dono increato, dono creato), gli effetti (la
filiazione divina e la remissione dei peccati). I diversi elementi raccolti nello schema
costituiscono l'unica realtà, definita come “la struttura dell'uomo secondo la volontà di Dio”.
Due precisazioni per cogliere il significato della struttura dell'uomo predestinato:
La prima riguarda gli effetti dell'incorporazione: essi sono effetti “formali”
dell'incorporazione, nel senso che si attuano con la comunicazione di una forma,
l'incorporazione. Per questo, la filiazione e la remissione dei peccati, non si distinguono
realmente dall'incorporazione, in quanto sono l'incorporazione nel suo attuarsi. Gli effetti non
sono altro dalla forma che li crea: l'essere in Cristo vuol dire essere figli e avere il peccato
rimesso.
La seconda riguarda il posto della remissione del peccato nella struttura dell'uomo
secondo la predestinazione. In questa struttura tutti gli elementi, salvo la remissione del
peccato, posseggono un carattere assoluto, nel senso che esprimono la volontà di Dio. La
remissione del peccato non può avere carattere assoluto, perché non può appartenere alla
volontà antecedente di Dio. Può appartenere alla volontà di Dio solo per l'aspetto che si
riferisce alla “remissione”, non per l'aspetto che si riferisce al “peccato”. Quest'ultimo può
essere determinato unicamente dalla scelta e dal comportamento dell'uomo e non dalla scelta e
dal comportamento di Dio, in quanto Dio non può volere il peccato. Conseguentemente il
peccato e correlativamente la sua remissione, possiede solo il carattere di “eventualità” e non
assoluto nella struttura dell' “uomo secondo la predestinazione”.
La precisazione non impedisce però il legittimo inserimento della remissione del peccato
tra gli elementi propri della struttura dell' “uomo secondo la predestinazione”, motivandolo
con la radicale incompatibilità esistente tra lo stato di uomo predestinato e quello di uomo
peccatore. L'incompatibilità non sta nel fatto che la predestinazione esclude nell'uomo la
“possibilità” del peccato, ma nel fatto che comporta la “remissione” quando l'uomo diventa
uomo peccatore. Cioè, l'uomo peccatore per diventare uomo secondo la predestinazione esige
la remissione del peccato.
La natura della giustificazione-incorporazione
Secondo la Scrittura l'unica giustizia è quella derivata dall'alleanza. In questa prospettiva
giusto è unicamente l'alleato di Dio. Giusto è il Servo “che giustifica molti” (Is 53,11); giusta è
la Legge che da’ i comandamenti della giustizia; giusta è la Sapienza che insegna la via della
giustizia.
Nel NT il “giusto” è Gesù Cristo (At 3,14; Mt 3,15), il quale realizza in sé la figura del Servo,
della Legge, della Sapienza, con le particolari esplicitazioni operate da S. Paolo (cfr Rm 5; Ef 4,
22-24; Col 3,9-10). Ne consegue che, essendo Gesù Cristo, il principio della giustizia, giusti
sono unicamente gli uomini che comunicano con Cristo, o, secondo l'espressione paolina, che
sono “in Cristo Gesù”355. In Giovanni il riferimento è ai temi dell'unità e della vicendevole
immanenza (“dimorare”) fra Cristo e noi e a quelli di Cristo nostra vita356.
355
Cfr L. CERFAUX, Il cristiano nella teologia paolina, Paoline, Roma 1969, 337-402.
Cfr A. FEUEILLET, La partecipation actuelle à la vie divine d'apres le quatrième Èvangile, in ID,
Études johanniques, Tournai 1962, 175-189; I. DE LA POTTERIE, L'emploi du verbe "demeurer" dans la
mystique johannique, NRTh 117 (1995) 843-859.
356
Antropologia Teologica 2009-2010
128.
Il pensiero dei Padri greci (cfr pp 110-111) opera un'esplicitazione logica del dato
biblico. La teoria dell'incarnazione redentrice rappresenta una priorità, esplicitazione
dell'unione con Cristo, nel senso di partecipazione alla sua condizione filiale, dando così al
concetto di “giustizia” derivata dal Cristo un contenuto che supera il semplice significato
morale.
La convinzione che non esista per l'uomo alcuna possibilità di giustizia se non quella
data dall'unione con Cristo accompagna il pensiero cristiano senza ricevere - eccettuato
l'episodio pelagiano, il quale, per altro, più che esprimere un dissenso sul piano teorico sembra
sostenere un particolare atteggiamento pratico - alcuna contestazione.
Da qui la constatazione che nell'ambito del pensiero cristiano la giustizia è data solo
come partecipazione/derivazione alla/dalla giustizia di Cristo (cfr Pio XII, Mystici corporis
[1949], Lumen gentium, I, 79).
La struttura della giustificazione-incorporazione
L'analisi dell'unione con Cristo (incorporazione) evidenzia gli elementi costitutivi e gli
effetti prodotti da essa nell'uomo.
Gli elementi costitutivi: il dono increato e il dono creato
Il dono increato fa riferimento alla Trinità, allo Spirito Santo in particolare. Già nell'AT
l'idea di una particolare prossimità e intimità di Dio con l'uomo giusto è largamente sviluppata:
a partire dalla storia di Abramo (Gen 18) fino all'idea postesilica della Sapienza divina che abita
tra gli uomini (Eccli 24,8-12) e dello Spirito effuso negli uomini rinnovati (Ez 36,26-28).
Nel NT Paolo (cfr Rm 8,9-16.23; 1Cor 3,16-17; 6,19; 2Cor 6,15-16) e Giovanni (3,5;
7,39; 14,16-17; 16,7-15) parlano insistentemente dello Spirito Santo quale dono particolare
dell'uomo “rinnovato”, “rinato”.
I Padri, con la teologia di ogni epoca, sostenuta dal magistero ecclesiale (cfr Leone XIII
Divinum illud munus, 1897; Pio XII, Mystici corporis, 1943), evidenziano l'esistenza di un rapporto
speciale fra Dio e l'uomo giusto, rapporto inteso come presenza della Trinità nell'uomo giusto
(“in abitazione”).
Da questa acquisizione partono due linee di ricerca: una impegnata a precisare il soggetto
dell'inabitazione, l'altra intesa a spiegare il modo con cui si realizza questa presenza.
La prima ricerca vuole chiarire se la giustificazione, attribuita dal dato biblico e patristico
allo Spirito Santo, va riferita allo Spirito Santo, in senso proprio (cioè come persona distinta
dalle altre persone della Trinità) o in senso generico (cioè senza l'intenzione di distinguerlo
dalle altre persone divine).
L'orientamento prevalente tra i teologi è a favore della presenza in senso proprio dello Spirito
Santo, sulla base della ragione che, se accogliamo dalla Rivelazione il rapporto personale che
verifica l'incarnazione del Figlio (unione ipostatica), non si vede perché non è possibile
un'intima unione con lo Spirito Santo, che le sia propria, senza arrivare al grado di unione
ipostatica.
Nel NT la missione dello Spirito Santo nell'uomo giusto appare parallela alla missione del
Figlio; quindi, come la missione del Figlio è propria e personale, altrettanto va intesa la
missione dello Spirito e non semplicemente come “appropriata” o “rappresentativa”.
La seconda ricerca sembra fissata intorno a un'alternativa: Dio, presente nell'uomo
giusto, può essere considerato come principio (soggetto) o come termine (oggetto) della vita
soprannaturale? L'alternativa è risolta affermando la presenza di Dio per causalità (quasi)
formale (cfr de la Taille, Rahner): Dio è presente nell'uomo giusto come principio (causa,
soggetto) della divinizzazione, della grazia, che è partecipazione finita alla vita di Dio. Essa
esige, quindi, una causalità che non sia semplicemente efficiente, ma quasi-formale, una unione
cioè immediata con Dio che informi le facoltà del giusto al suo modo di conoscere e di amare.
Antropologia Teologica 2009-2010
129.
«Con tale unione Dio attua le facoltà del beato senza però inerire, come se le assorbisse e pur
restando distinto... Questa unione ontologica, per cui Dio diventa la quasi-forma dell'anima, è già
attuata nella vita di grazia, anche se per ora non raggiunge il pieno sviluppo della vita
“intenzionale”, dato dalla visione beatifica, che ne rappresenta la conseguenza naturale»357.
Il dono creato esprime nell'uomo la nuova situazione determinata dall'azione
giustificante di Dio. Dio, resosi presente nell'uomo, non lo lascia nella situazione precedente,
ma vi opera un profonda trasformazione, che non è puramente giuridica e morale (esterna),
ma inerente (interna), creando in tal modo il giusto atteggiamento corrispondente all'azione
della Trinità. L'affermazione, elaborata dalla teologia scolastica, interpreta il pensiero della S.
Scrittura, per la quale la trasformazione operata nel Battesimo è vera rigenerazione (Tit 3,5; Gc
1,18; 1Pt 1,3-23), “nuova nascita” (Gv 1,13; 1Gv 2,29; 3,9; 4,7; 5,1.4.18), “nuova creazione”
(2Cor 5,17; Gal 6,15; Ef 2,10; 4,24; Col 3,9-11).
L'esistenza del dono creato non è sempre stata pacifica: ha ricevuto la contestazione
della Riforma, cui ha risposta il concilio di Trento.
La contestazione nasce dell'esigenza di salvaguardare la trascendenza della giustificazione
come dono di Dio; la definizione di Trento esprime l'esigenza di salvaguardare la realtà,
l'effettiva efficacia della giustificazione. Dato che entrambe le esigenze risultano legittime, oggi,
superato il clima polemico, si tende ad avvicinare le due parti, ritenendo che «il senso diretto e
immediato della definizione tridentina è quello di affermare la realtà della giustificazione
operata da Dio nell'uomo; mentre l'esistenza del dono creato è solo l'implicazione logica
necessaria di questa affermazione»358.
Gli effetti della grazia: la filiazione divina e la remissione dei peccati
Il dono dello Spirito Santo rende l'uomo partecipe della condizione propria di Cristo,
della sua condizione di Figlio di Dio, quindi della sua natura divina. Così si esprime la
Rivelazione quando espone il tema della nostra filiazione divina in Gesù Cristo (cfr S. Paolo, il
quale parla di “filiazione adottiva”: Rm 8,15-23; 9,4; Gal 4, 5; Ef 1, 5-14), della nostra
partecipazione alla natura divina (cfr Gv 1,13; 3,5-8; 1Gv 3,1-9; 2Pt 1,3-4).
La realtà cui l'uomo è predestinato da Dio - l'essere figlio a immagine del Figlio - risulta
incompatibile con lo stato di peccato. Ne consegue che la comunicazione della giustizia
cristiana all'uomo peccatore comporta, come suo intrinseco effetto, la remissione del peccato.
La teologia cristiana ha insistito su questo effetto fino al punto di favorire la tendenza a
condizionare la grazia al peccato, nel senso di ritenere il peccato dell'uomo ragione della grazia;
per cui un'assenza del peccato avrebbe comportato l'assenza della grazia.
Questa posizione, avviata da S. Agostino e dalla quale S. Tommaso non è riuscito a prendere
le distanze, ma criticata da Scoto, deriva dall'errore di considerare il dato storico, contingente,
del peccato dell'uomo come dato assoluto e quindi dall'assumere, come principio
d'intelligibilità della storia l'azione dell'uomo e non la volontà di Dio, invertendo radicalmente
il rapporto obiettivo.
Per superare l'errore occorre «svincolare la grazia dal peccato e dare la priorità alla grazia sul
peccato»359, perché è la grazia che esprime la volontà di Dio, mentre il peccato dice solo una
contingenza storica, reale, ma non necessaria. In questa prospettiva l'attuazione del piano di
Dio - volere l'uomo in Cristo - comporta la remissione del peccato, come afferma la
Rivelazione, caratterizzando la grazia secondo una nuova formalità rispetto a quelle che già le
appartengono (la filiazione adottiva e la partecipazione alla natura divina), senza tuttavia
condizionare l'esistenza e la natura della grazia al peccato.
357
G. BIFFI, De gratia Christi, pro manuscripto, Varese 1968, 147-148.
G. COLOMBO, Grazia, in “Enciclopedia delle religioni” I, op cit, col 1363.
359
ID. col 1368.
358
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130.
III. La storia della libertà in riferimento alla predestinazione
- Lo “stato originario”
- La solidarietà nel peccato di Adamo
- La solidarietà nella redenzione di Cristo
La libertà suscitata dall'azione creatrice di Dio in Cristo si attua nella forma di una
vicenda storica. Per cui, dopo aver presentato la struttura della libertà umana (l'uomo secondo
la predestinazione), osserviamo come la libertà dell'uomo si è effettivamente espressa nella
storia.
La predestinazione crea esseri liberi, il cui destino è di dar vita a una storia conforme a
quella di Gesù (tema dello stato originario). La storia dice che l'uomo ha tentato di orientare la
propria vicenda in una direzione diversa da quella prospettata da Dio (tema della solidarietà
nel peccato di Adamo). La storia dice anche che Dio ha continuato a concedere all'uomo la
sua presenza in Cristo, come presenza che assume la forma della remissione/conversione
realizzata dalla pasqua di Gesù (tema della solidarietà nella redenzione di Cristo). La grazia
dell'incorporazione conduce la libertà dell'uomo al compimento finale (tema del compimento
escatologico della libertà).
Illustriamo brevemente il percorso dei capitoli.
* Lo “stato originario”. La tesi postulata dalla teologia dello stato originario - l'uomo è
stato creato col dono della grazia - resta irrinunciabile. Un suo abbandono condurrebbe la
teologia a un’insostenibile aporia, cioè «all'affermazione di una condizione umana nella quale
l'uomo esiste, ma senza trovarsi “situato” rispetto a Dio...in uno stato di “neutralità” rispetto a
Dio, dal quale esce grazie alla propria opzione personale»360. Anche se la teologia dello “stato
originario” è messa in questione dalle concezioni scientifiche contemporanee sull’origine
dell’umanità e da una lettura più affinata del testo biblico, non può essere abbandonata,
perché, al di là delle esecuzioni parziali, la sua intenzione è d’indicare il rapporto obiettivo della
libertà creaturale con l’alleanza in Cristo, riconoscendo in questo rapporto il senso stesso della
creazione.
* La solidarietà nel peccato di Adamo (il peccato originale). Va superata una visione del
peccato intesa prevalentemente come infrazione compiuta dall'uomo nei confronti della legge
divina, per presentare il peccato in una prospettiva cristologica.
La connessione del dogma del peccato originale col mistero di Cristo, capo, modello,
redentore dell'umanità, porta a considerare la solidarietà degli uomini in Adamo non
precostituita alla solidarietà in Cristo. La solidarietà con Adamo resta subordinata al rapporto
dell'umanità con Cristo, nel senso che il secondo spiega il primo: la solidarietà con Cristo non
elimina, ma illumina la questione di una previa solidarietà degli uomini - positiva o negativa in Adamo. La prospettiva cristologica nel concepire il “peccato originale” consente di
considerare l'atto peccaminoso come realtà complessa, che raccoglie atteggiamenti personali (i
peccati personali) e anche partecipazione a una storia che ha detto di no a Gesù Cristo e della
quale, in qualche modo, siamo partecipi e portiamo le conseguenze. Il peccato si presenta
come realtà che si esprime nella forma completa, lucida, di un atto dell'uomo adulto, che
liberamente si sottrae alla grazia di Cristo, ma che rimanda anche al passato storico
dell'umanità nel quale siamo inseriti.
* La solidarietà nella redenzione di Cristo. Al no della libertà dell'uomo Dio risponde con
il sì del suo amore, che non chiude gli occhi di fronte al peccato, ma si compromette nella
storia del peccato. Il sì dell'amore di Dio che si compromette con la storia di peccato
360
G. COLOMBO, Creazione, art cit, 206.
Antropologia Teologica 2009-2010
131.
dell'uomo è la croce di Gesù Cristo, la sua Pasqua, grazie alla quale la libertà dell'uomo è
redenta, in quanto può superare il peccato e decidersi per Dio, restare disponibile a lui. La
partecipazione della libertà dell'uomo alla vittoria di Cristo diventa partecipazione, propiziata
dallo Spirito, alla Pasqua di Gesù, nella celebrazione dell'Eucaristia e dei sacramenti.
* L'esito escatologico della storia della libertà. La libertà creaturale esprime l'esigenza
della definitività, garantita solo nella parusia di Cristo. La riflessione antropologica è impegnata
a offrire una visione della fine dell'uomo, quale conseguimento della definitività in Cristo: la
morte, considerata come il finire dell'uomo di fronte a Dio, può diventare effettiva possibilità
di vita se vissuta in/come Cristo (in tale prospettiva l'immortalità dell'anima può essere vista
come l'infrastruttura filosofico-antropologica della partecipazione alla risurrezione di Cristo);
la beatitudine è stare con Cristo risorto definitivamente nella comunione con Dio (da qui l'esigenza della purificazione, secondo il modo con cui la libertà si affida al Dio santo, definitivamente e nell'amore sofferente, in una misteriosa solidarietà con le libertà ancora in cammino);
la dannazione dice la grandezza dell'amore di Dio, il quale, avendo dato all'uomo tutto in
Cristo, chiede all'uomo di accogliere liberamente il suo dono; è quindi misteriosamente
compatibile con la possibilità che l'uomo si autoescluda dalla pienezza della salvezza; il
giudizio, particolare e universale, indica la duplicità con cui la libertà personale si colloca
definitivamente in Dio e resta aperta al destino universale della storia umana con cui è solidale.
Infine, poiché l'escatologico concreto è l'uomo nella parusia di Cristo, si può
comprendere teologicamente il mistero di una persona, che è già nella definitiva comunione
della risurrezione: Maria, nella quale l'esito escatologico della libertà creaturale è sancito nella
singolarità di una figura personale, anticipo e segno reale del destino della Chiesa e dell'intera
umanità361.
1. Lo stato originario362
La tematizzazione dello “stato originario” dell'uomo (protologia) non è motivata
dall'interesse di scoprire ciò che è accaduto agli inizi, ma dall'esigenza dogmatica di
evidenziare, ed eventualmente salvaguardare, il senso della rivelazione cristiana e, con essa, il
senso dell'uomo363. La rivelazione cristiana presenta una condizione nella quale l'uomo esiste
“situato” rispetto a Dio ed esclude, correlativamente, ogni stato di “neutralità” dell'uomo di
fronte a Dio - quello «di un'esistenza umana antecedente alla determinazione del rapporto
etico-spirituale con Dio»364 - dal quale esce per scelta personale.
La teologia dello stato originale illustra quindi la vocazione soprannaturale - la “situazione
esistenziale soprannaturale”, per K. Rahner365 - che rappresenta la dimensione costitutiva
dell'uomo, determinante, quindi, per ogni comprensione dell'uomo stesso.
361
Per lo svolgimento di questa parte rimandiamo ai Corsi di Escatologia e Mariologia.
Cfr W. SEIBEL, Lo stato originale, MS IV, 555-588; G. COLZANI, Antropologia teologica, 265-287; L.
LADARIA, Antropologia teologica1, op cit, 135-151; F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, 479-484.
363
Cfr G. COLOMBO, Creazione, art cit, 206.
364
ID, 206.
365
«Antecedentemente alla giustificazione per opera della grazia (...) già da sempre l'uomo sta di fronte
all'universale volontà salvifica di Dio, già da sempre è redento ed è assolutamente obbligato al fine
soprannaturale. Questa “situazione” è una determinazione ontologico reale dell'uomo, che sopravviene
gratuitamente alla sua natura e perciò è detta soprannaturale, benché di fatto non manchi mai all'ordine
del reale concreto. Per questo l'uomo, anche nel rifiuto della grazia e nella perdizione, non può mai
essere né ontologicamente né soggettivamente indifferente alla sua determinazione soprannaturale», K.
RAHNER - H. VORGRIMLER, sub voce in KThW (tr it = DT 650).
362
Antropologia Teologica 2009-2010
132.
La riflessione biblica
Gn 1-3 (J) è considerato una sintesi del discorso biblico sulla protologia. Il racconto
genesiaco non è mosso da un interesse storico-informativo, ma da una prospettiva storicoteologica, in quanto più che la descrizione del mondo e la narrazione dei fatti, presenta, in
prospettiva eziologica, il disegno di Dio sul mondo e sull'uomo, all'interno del quale si colloca
l'intera storia umana.
È a partire da questo interesse teologico che vanno considerati i diversi aspetti del
racconto, tra i quali la descrizione del giardino dove è posto l'uomo: il giardino, con la sua
ricchezza e serenità, è «il simbolo di un'elevazione soprannaturale, la cifra di un'offerta di
grazia»366; dice la possibilità per l'uomo, assicurata da Dio (gratuita), di vivere con Dio, di
essere suo alleato, dialogare con lui. In tal modo l'orizzonte della vita umana è sostenuto e
garantito dall'amore potente e fedele di Dio.
L'uomo beneficia dell'amore di Dio nella misura in cui accoglie il suo comando («Tu
potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del
male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti», Gn 2,16-17).
L'uomo «deve accogliere la grazia di Dio nella sua libera decisione e deve ricevere la vera vita,
che sta completamente in mano a Dio, quale frutto della sua obbedienza»367.
Nel resto dell'AT del “giardino” si parla occasionalmente (cfr Ez 28,11-19; 31; 36, 35;
Gn 13,10; Is 51,3). I motivi espressi nel racconto del “giardino” sono utilizzati per descrivere il
tempo futuro della benedizione, atteso da Israele come frutto della sua fedeltà alla legge. In
Sap 2,23 («Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura»)
viene evidenziata la destinazione dell'uomo alla “immortalità”. In Sir 17,1-14 la descrizione
della creazione e della vocazione dell'uomo diventa descrizione dell'alleanza del Sinai. Dio crea
l'uomo dalla terra e secondo la sua immagine come signore degli esseri viventi (vv 1-5); gli fa
dono della dottrina, dell'intelligenza e gli indica il bene e il male (v 7; cfr Dt 30,15); gli pone
davanti “la scienza” e gli da' in eredità “la legge della vita” (v 9); stabilisce con lui “un'alleanza
eterna” e gli fa conoscere “i suoi decreti” (vv 10-11).
Il NT svela la vera portata del racconto genesiaco dello stato originario, mostrando
come questo inizio gratuito della stato di salvezza trova in Gesù Cristo il suo compimento.
Alla luce del NT le immagini veterotestamentarie del “giardino” indicano la gratuita attuazione
della comunione con Dio, donata all'uomo peccatore mediante l'atto redentore di Gesù
Cristo.
Nel NT la linea che collega lo stato originario a Cristo mostra «una direzione
inequivocabilmente ascendente»368: Gesù Cristo compie quanto è iniziato con Adamo, la sua
grazia “compie” la grazia del “giardino”.
Nel racconto marciano della tentazione nel deserto (1,12-13) Gesù appare come il
secondo Adamo che supera il primo perché, superando la tentazione, restaura lo stato
originario del “giardino”. Nella riflessione paolina la presentazione di Gesù Cristo come
“immagine” di Dio (cfr Col 1,15; 2Cor 4,4) contiene un implicito paragone con la grazia del
primo uomo, che viene subordinata alla grazia di Cristo.
Adamo è il “primo uomo”, solo “anima vivente” e deriva “dalla terra”; Cristo invece è il
“secondo uomo”, “spirito vivificante” e “viene dal cielo” (cfr 1Cor 15,45.47. 22); a lui Adamo
rinvia quale «figura di colui che deve venire» (Rm 5,14).
366
G. COLZANI, Antropologia teologica, 271.
W. SEIBEL, Lo stato originario, op cit, 557.
368
ID, 560.
367
Antropologia Teologica 2009-2010
133.
La Tradizione
Il quadro della riflessione patristica è segnato dalla duplice istanza della fedeltà alla
Scrittura e dell'attenzione al dato culturale.
La fedeltà alla Scrittura si avvale dell'interpretazione del tardo giudaismo che colloca il
paradiso al terzo cielo (interpretazione spaziale) e dell'apporto di Filone che legge il racconto
del paradiso come allegoria e simbolo dello spirito umano.
L'attenzione al dato culturale si esprime in una lettura platonica della storia, intesa come esito
di un decadimento legato a una colpa primitiva. In questo quadro emerge la sottolineatura di
una pedagogia e di una tensione che colloca la perfezione umana alla fine della storia, quale
frutto dell'esercizio della libertà.
La difficoltà a comporre le due istanze impedisce letture univoche dello stato originario:
per Teofilo Adamo è un bambino ingenuo e debole, che solo nell'obbedienza a Dio raggiunge
la perfezione e l'immortalità; per Taziano l'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio,
possiede fin dall'inizio il “pneuma” che lo rende partecipe dell'immortalità. Ireneo ritiene
insufficiente il possesso dello Spirito da parte di Adamo, per questo destinato a crescere fino
alla sua pienezza in Gesù Cristo. L'uomo, quindi, uscito dalle mani di Dio è in tensione verso il
modello ideale rappresentato dalla persona di Cristo glorioso, ripieno dello Spirito.
La storia umana è così letta alla luce di Cristo, il quale “ricapitola” ogni cosa, sia Adamo
creato da Dio, come l'uomo peccatore nel quale l'immagine di Dio deve essere restaurata. Per
precisare lo stato originario sono utilizzati la distinzione e il rapporto fra le nozioni di
“immagine” e “somiglianza” proposte da Gn 1,26. Poiché la nozione di “somiglianza” dice
progressione, assimilazione, nella storia dell'umanità viene distinto uno stadio iniziale da un
compimento della perfetta somiglianza con Dio, raggiunta solo con la partecipazione alla vita e
allo Spirito di Cristo. Solo in/per Gesù Cristo l'uomo - Adamo - diventa simile a Dio.
Nell'intenzione d’illustrare la singolare dignità in cui è creato l'uomo, i Padri evidenziano
i doni che appartengono a questa condizione, parlando di doni “preternaturali” (immortalità,
scienza, impassibilità), doni cioè che sono nella linea della natura umana, attribuibili però solo
con una grazia speciale di Dio.
- Immortalità. In riferimento a testi biblici (cfr Gn 2,17; Sap 2,23-24; Rm 5,12) che
mantengono in stretto legame morte e peccato, fino a identificare la vera morte nella
separazione da Dio, i Padri presentano l'assenza di peccato, l'innocenza di Adamo, come una
libertà dalla minaccia della morte. Si tratta di un'immortalità non per natura, ma per dono.
- Integrità. Ispirata da Gn 2,25 («Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non
ne provavano vergogna») l'integrità dice la condizione umana di chi vive libero dalla carne,
secondo lo Spirito ricevuto da Dio. Nel linguaggio biblico l'integrità è il contrario della
concupiscenza, dell'inclinazione al male, alla morte.
Ispirati dalla filosofia greca, molti Padri identificano l'integrità nello stato angelico, in una
condizione di totale assenza di passioni.
- Scienza (conoscenza profonda e alta dell'esistenza umana). L'ispirazione è offerta da
testi biblici (Gn 2,20.23; Sir 17,5-10), il cui sviluppo dice la convinzione che dare il nome alle
creatura da parte di Adamo è espressione dell'intelligenza e della sapienza.
- Impassibilità (assenza di dolore). S'ispira all'interpretazione di Gn 2,8 («Poi il Signore
Dio piantò un giardino in Eden, a oriente e vi collocò l'uomo che aveva plasmato»), che legge
“giardino dell'Eden” come “giardino o paradiso di delizie”. In questa linea lo stato originale è
progressivamente descritto come stato d'innocenza, di perfezione eccezionale rispetto alla
condizione dell'uomo decaduto per il peccato.
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134.
Agostino
Il contributo principale offerto da Agostino riguarda il rapporto fra stato originario e
grazia cristiana. Ispirandosi alla sua teologia della grazia, che riconduce a Dio ogni azione
umana, Agostino considera segnato dall'intervento di Dio anche lo stato originario, dono della
sua grazia, fino al punto d'interpretare Gn 2,15 («Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel
giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse») come il gesto con cui Dio si prende
cura di Adamo (cfr De Genesi ad litteram VIII, 11,24). Il senso della lettura: l'uomo è capace di
bene solo se Dio lo custodisce, si prende cura di lui.
Agostino distingue la condizione originaria di Adamo dalla nostra e dal compiersi
dell'economia cristiana alla fine dei tempi, ponendo le basi per la distinzione tra grazia della
creazione e grazia della redenzione. La grazia della creazione colloca Adamo nella condizione
di rectitudo, cioè nella condizione di gioia e di pace che nasce da un cuore ben ordinato. Si tratta
di un aiuto divino - adiutorium sine quo non - che Adamo può accogliere o rifiutare. La grazia
della redenzione è l'amore vittorioso - delectatio victrix - donato all'uomo peccatore per superare
il volere della carne (la concupiscenza).
Il pensiero agostiniano porta a un approfondimento etico dello stato originario: lo stare
di Adamo di fronte a Dio è totalmente illuminato dalla presenza stessa di Dio.
L'approfondimento, pur costituendo un legittimo sviluppo della concezione storico-salvifica
propria dei Padri greci, presenta delle difficoltà, legate alla distinzione fra grazia della creazione
e grazia della redenzione, che sembra affiancare a una grazia cristocentrica, quella della redenzione e a una grazia teocentrica, quella della creazione. Condurre la distinzione fino a una
separazione determinerebbe una certa autonomia della protologia nei confronti della
cristologia, provocando una lettura di Adamo quasi antitetica a Cristo e una considerazione
della realtà creata indipendente dall'azione del Logos Creatore, il quale attrae a sé l'anima
mediante la realtà visibile.
Medioevo
L'epoca medioevale resta influenzata dalla riflessione agostiniana, segnata dal pericolo di
un ridimensionamento del cristocentrismo con il conseguente rischio di una considerazione
autonoma dello stato originale. S. Anselmo indica nella “giustizia originale” la condizione
dell'uomo creato da Dio: Adamo è giusto perché possiede una retta volontà, capace di
compiere il bene. La prospettiva anselmiana segna il dibattito della Scolastica riguardo alla
questione se Adamo sia stato creato nello stato dei gratuita o solo dei naturalia.
Nel dibattito, che registra conclusioni non univoche, emergono tre orientamenti. Il primo,
ispirato da Gilberto della Porretta, sostiene che Adamo nella condizione anteriore al peccato
viveva solo secondo le forze della natura. Qui l'autonomia della protologia dalla cristologia
risulta radicale. Il secondo orientamento si rifà a Pier Lombardo, per il quale la giustizia
originale di Adamo comprende l'armonia delle facoltà e degli impulsi dell'anima, i doni
preternaturali e una grazia attuale che consente di non peccare, ma non comprende la grazia
santificante e la capacità di meritare che è dono esclusivo di Cristo. La posizione è condivisa
dal domenicano Alberto Magno e dalla scuola francescana, che, in riferimento alla giustizia
originale comprensiva di un dono soprannaturale diverso dalla grazia santificante, dà rilievo
alla distinzione fra grazia originale e grazia cristiana, ridimensionando così il cristocentrismo
dei Padri.
Il terzo orientamento s'impone con S. Tommaso nella scuola domenicana e nella
teologia postridentina e riconosce uno stretto rapporto tra giustizia originale e grazia
santificante, in quanto la sottomissione della ragione a Dio - che rappresenta ultimamente
l'innocenza originaria - è possibile solo per il dono soprannaturale della grazia, la quale,
guidando l'intelligenza a Dio, costituisce l'armonia primitiva.
Antropologia Teologica 2009-2010
135.
Il contributo del dibattito medioevale, al di là delle diverse prospettive delle scuole, è costituito
dalla convinzione della gratuità e della radice soprannaturale della giustizia originaria.
Trento e la teologia postridentina
Il Concilio, evita di prendere posizione nel dibattito fra le scuole, descrive la condizione
originaria di Adamo come condizione di “santità e giustizia”.
Neppure le condanne della posizione baiana e giansenista introducono delle novità. Baio, sul
presupposto che naturale è ciò che è stato creato da Dio, ritiene la condizione di Adamo
“naturale” in quanto voluta da Dio. Per noi, invece, segnati dal peccato, ciò che era naturale
per Adamo diventa soprannaturale.
Il magistero affermerà contro Baio la piena gratuità dello stato originale (cfr DS 1926.
1955). A conclusioni analoghe giunge il dibattito provocato dal giansenismo: contro la nozione
scolastica di libertà e di natura, si sostiene che l'Adamo innocente è libero perché mostra
un'effettiva capacità di bene che gli è dovuta. Il magistero ribadirà la soprannaturalità dello
stato originario (cfr DS 2434-2437. 2616).
Le controversie baiana e giansenista operano un significativo spostamento di
prospettiva, in quanto al centro della teologia dello stato originario tende a collocarsi la
nozione di “natura” che consente di distinguere ciò che è “naturale” da ciò che invece è
“soprannaturale”. Quando però la comprensione della persona va verso la teologia della natura
pura, «l'intera problematica della teologia dello stato originario sembra ridotta al tema della
gratuità e non della sua cristicità»369.
Ripresa teologica
1. La storia della riflessione teologica sullo “stato originale” mostra un progressivo
svuotamento della prospettiva biblica, caratterizzata dall'orizzonte storico-salvifico e
cristocentrico, interessata a evidenziare il carattere eziologico del discorso sulle origini. Se
questo è il dato che si ricava dalla storia ne deriva la necessità di ricuperare l'orizzonte storicosalvifico e cristocentrico del discorso biblico sullo stato originale. Nella prospettiva
dell'orizzonte biblico lo stato originale appare come stato di grazia, precisamente come stato
definito dal dono della comunione con Dio in Gesù Cristo, dono che precede e fonda ogni
risposta della libertà umana. Questo perché la storia umana, fin dal suo inizio, è segnata suscitata e abitata - dalla volontà predestinante di Dio, che ha in Gesù Cristo, il Figlio, non
solo il mediatore della volontà divina, ma anche il contenuto stesso di questa volontà
(predestinare gli uomini ad essere conformi all'immagine del Figlio, cfr Rm 8,29; Ef 1,4-6; Col
1,18).
Proprio perché esprime un particolare rapporto - l'alleanza con Dio in Cristo - la grazia delle
origini è un momento del mistero di Cristo. Da qui la conclusione che non si può parlare di
uno stato di natura pura, di un uomo “naturale” né di una grazia che, donata al primo uomo
antecedentemente al peccato, sia senza rapporto col mistero di Cristo, di una grazia cioè “teocentrica”, ma non “cristiana”, perché la comunione con Dio cui l'uomo è chiamato è da
sempre comunione in Gesù Cristo.
E' alla luce della cristicità dello stato originale che vanno comprese la soprannaturalità e
la gratuità di questo stato, sottolineate dalla tradizione. La soprannaturalità e la gratuità dello
stato originale indicano il rapporto fra la grazia originale e la grazia singolare di Cristo; dicono
inoltre che questa grazia, anche se donata alla creatura umana, non s'identifica con essa né si
connette ad essa in modo necessario.
369
G. COLZANI, Antropologia teologica, 279.
Antropologia Teologica 2009-2010
136.
D'altra parte, la libera e gratuita autocomunicazione di Dio, per essere accolta
liberamente dall'uomo, esige che la struttura della creatura umana, libera e spirituale, sia
pensata in ordine al dono di Dio, come possibilità e ambito di tale dono (è quanto viene
espresso dal tema medioevale della creatio in naturalibus e in quello della Scolastica della
“natura”, concetto che prima di essere espressione filosofica dell'autonomia umana, indica il
dono divino della grazia, suo possibile destinatario, che resta tale, aldilà delle sue scelte
concrete). Per questo la grazia di Dio, pur non deducibile né esigita necessariamente dalla
natura umana, risulta decisiva per l'uomo, nel senso che un suo rifiuto pone l'uomo in una
situazione di contraddizione, di autonegazione.
2. La tradizione collega allo stato originale i cosiddetti doni “preternaturali”
(immortalità, integrità, scienza e impassibilità), così definiti in quanto dipendenti dalla grazia
per la loro attuazione, ma collocati nell'ambito della natura per quanto riguarda il contenuto. Il
senso dei doni preternaturali non è quello d'indicare i privilegi di cui gode l'uomo nello stato
originale, ma di evidenziare la capacità dell'uomo di realizzare se stesso a partire dalla grazia di
Dio.
Dei quattro doni identificati dalla tradizione illustriamo quelli dell'immortalità e dell'integrità,
in quanto rispetto agli altri sembrano esibire sufficienti basi bibliche e inoltre sono gli unici su
cui si è pronunciato il magistero.
- L'immortalità più che affermare un privilegio biologico (non morire) indica l'esperienza
dell'esistenza all'interno della quale la morte sarebbe stata diversa da quella attualmente
sperimentata. Il quadro della comprensione credente dell'immortalità è quello indicato
dall'alleanza, precisamente dal rapporto fra alleanza e vita, peccato e morte, dove vita e morte
più che concetti biologici sono categorie religiose, nel senso che indicano la presenza o
l'assenza del rapporto con Dio. In questa prospettiva l'immortalità dice «il culmine di una
familiarità con Dio» (G. Colzani), messa al riparo da ogni minaccia; situazione realizzata non
da uno sforzo umano né risultato di una pretesa naturale, ma determinata dal dono di Dio
accolto nell'obbedienza dell'uomo.
- L'integrità più che l'impossibilità di peccare, dice la possibilità di scegliere in libertà. Il
quadro di riferimento è quello biblico del rapporto fra concupiscenza e peccato, fra grazia e
libertà. L'integrità, frutto della comunione originaria con Dio, dice che la libertà dell'uomo è
capace di determinarsi, contro ogni inclinazione al male (concupiscenza), verso la comunione
con Dio.
I doni dell'immortalità e dell'integrità, in quanto connessi alla grazia, sono propri dell'economia
della grazia. Dato che nell'uomo la grazia è in attesa di compimento definitivo, anche i doni
preternaturali attendono il loro pieno dispiegarsi, quando apparirà veramente ciò a cui la grazia
di Dio chiama l'uomo, la comunione con Dio.
3. La storicità dello stato originario dice che tale stato, più che simbolo della generale
condizione umana, indica un evento svoltosi all'inizio della storia umana, il cui nucleo è
costituito dall'offerta della grazia da parte di Dio all'uomo, grazia andata persa per il rifiuto
opposto dall'uomo al dono di Dio. Proprio perché il contenuto di questo stato è la grazia
antecedente - la decisione di Dio di predestinare gli uomini in Cristo - l’offerta della grazia
resta nonostante il peccato e si esprime nella situazione storica dell'uomo peccatore come
vittoria sul peccato, sulla concupiscenza e sulla morte.
Lo stato originale, quindi, più che presentare una retrospettiva di un passato felice (il
giardino terrestre) o descrivere la forma corporea del primo uomo, dice la grandezza
dell'uomo, di persona suscitata da Dio, beneficiaria della sua comunione, alla quale si apre nella
Antropologia Teologica 2009-2010
137.
libertà; dice il senso della sua esistenza - la comunione con Dio - che si compirà nell'eskaton
della vita eterna.
2. La solidarietà nel peccato di Adamo (il peccato originale)370
La libertà dell'uomo di fatto si rivela come libertà peccatrice, solidale col peccato di tutti
gli uomini, fin dagli inizi della sua storia. Questa duplice dimensione della storia della libertà
peccatrice fa riferimento al tema biblico della solidarietà nel peccato, in particolare, nel peccato
di Adamo.
La riflessione biblica371
Si può indicare un fondamento biblico per il peccato originale? Riferendosi all'AT M.
Flick sostiene che «il dogma del peccato originale non è (...) formalmente contenuto in qualche
testo biblico»372. Gli stessi esegeti, sulla scia di K. Westermann, per il quale «l'AT non parla di
una creazione decaduta e di una umanità decaduta dalla grazia»373, tendono a negare che, sia a
proposito di Gn 3 che dell'intero AT, si possa parlare di peccato originale, non solo nel senso
di “peccato originale originante”, ma anche nel senso di “peccato originale originato”.
L'impossibilità di ricorrere a Gn 3 e ad altri testi biblici per fondare una teologia del peccato
originale pone la questione ermeneutica, nel senso che impegna a cogliere gli effettivi
significati che nella Bibbia assume la riflessione teologica e antropologica, successivamente
classificata col termine dogmatico di “peccato originale”.
Per l'AT analizzeremo Gn 3, il “peccato dei padri” e la riflessione sapienziale374.
Gn 3375
L'esegesi contemporanea suggerisce di legare Gn 3 a Gn 2 e di leggere Gn 2-3 all'interno
di Gn 1-11. Gn 2-3 costituiscono un'unica unità narrativa, il cui campo semantico è lo stesso
370
Cfr M. FLICK-Z. ALSZEGHY, Il peccato originale (= BTC 12) Queriniana, Brescia 1972 (= Peccato
originale); L. SERENTHA', Peccato originale, DTI II, 674-690; S. UBBIALI, Peccato personale e peccato originale,
ScCatt 107 (1979) 450-488; G. GOZZELINO, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo1, op cit, 421-522; L.
LADARIA, Antropologia teologica, op cit, 152-202; A.M. DUBARLE, Il peccato originale. Prospettive teologiche,
EDB, Bologna 1984; G. MARTELET, Libera risposta a uno scandalo. La colpa originale, la sofferenza e la morte,
Queriniana, Brescia 1987; G. COLZANI, Antropologia teologica, 355-390; G. COLOMBO, Tesi sul peccato
originale, “Teologia” 15 (1990) 264-276; I. BIFFI, La solidarietà predestinata di tutti gli uomini in Cristo e la loro
solidarietà in Adamo, “Teologia” 15 (1990) 277-282; A.T.I., Questioni sul peccato originale, Messaggero,
Padova 1996; Numero monografico di ScCatt 126 (1998) su “Redenzione in Cristo e universalità del
peccato. La questione del peccato originale”: G.A. BORGONOVO, La mediazione di Adamo. Un conflitto
interpretativo originario, 337-370; F. MANZI, Il peccato, la sua universalità e le sue origini negli scritti qumranici,
371-405; D. CORNATI, La filosofia del peccato originale da Kant a Kieerkegaard, 407-432; S. UBBIALI, Il male e
la libertà. La sovrabbondanza del bene e la contrarietà della perversione, 433-464; F.G. BRAMBILLA, La questione
teologica del peccato originale, 465-548; ID, Antropologia teologica, 486-549; CONCILIUM, Il peccato originale: un
codice di fallibilità 1/2004, Queriniana, Brescia 2004; A. FABRIS, Filosofia del peccato originale¸ Albo
Versorio, Milano 2008; A. FABRIS, Filosofia del peccato originale, Albo Versorio, Milano 2008; AA.VV, Il
peccato originale nel pensiero moderno, Moecelliana, Brescia 2009..
371
Cfr. A.M. DUBARLE, Il peccato originale nella Scrittura, AVE, Roma 1968.
372
M. FLICK, Peccato originale, in NDT, 1136.
373
K. WESTERMANN, Genesis 1-11, Neukirchen-Vluyn 1974, 67.
374
Cfr L. MAZZINGHI, Quale fondamento biblico per il “peccato originale”? Un bilancio ermeneutico: l'Antico
Testamento, A.T.I., Questioni sul peccato originale, op cit, 61-140.
375
Cfr G. VELLA, Il capitolo III della Genesi e il peccato originale, “Rassegna di Teologia” (RdT) 10 (1969)
73-96; G.R. CASTELLINO, Il peccato di Adamo. Note a Gn 3 e Rm 5,12-14, BibOr 16 (1974) 145-162.
Antropologia Teologica 2009-2010
138.
della teologia deuteronomica dell'alleanza376: Dio ha “creato” Israele come suo popolo, ha
stretto con lui un patto, lo ha collocato nella terra promessa; Israele, venendo meno al patto,
ha sperimentato la lontananza dalla terra (l'esilio). In questo modo «l'esperienza del “primo
uomo” di Gn 2-3 fonda e spiega l'esperienza storica di Israele»377. Le conseguenze a livello
ermeneutico:
- Il “peccato” raccontato da Gn 3 va interpretato come “mancata risposta” all'allenza di
Dio con l'uomo, come infedeltà al Signore. I testi relativi all'alleanza leggono il peccato
d'Israele soprattutto come “seguire altri dei”. L'idolatria è quindi il “peccato originale”
d'Israele (cfr Es 32), collocato da Gn 2-3 agli inizi dell'umanità.
- Nella prospettiva dell'alleanza il peccato dell'uomo appare ancora meglio come
questione di libertà: «metto davanti a te il bene e il male, la vita e la morte» (Dt 30,15). Già in
Gn 2,16-17 emerge che prima della proibizione (“non mangiare”) c'è la permissione (“potrai
mangiare”). Per cui la colpa consisterebbe nel cattivo uso della libertà; questo è confermato dal
dialogo fra Dio, la donna e l'uomo, nel quale la donna e l'uomo non vogliono assumere la
responsabilità delle proprie azioni.
«La parola chiave in Gn 3 non è tanto la colpa, quanto responsabilità, che è una parola che si apre
a tutte due le dimensioni: responsabilità per il bene e per la vita, responsabilità del male e della
morte»378.
- Il tema dell'alleanza rinvia all'idea della fedeltà di Dio al patto: l'alleanza conclusa da
Dio con l'uomo è più forte di ogni peccato. Gn 2-3 è inserito in Gn 1-11, che sottolinea
ancora di più il tema dell'alleanza (cfr Gn 9,1-17). La sezione sviluppa una riflessione sulla
nascita/crescita del peccato dell'uomo cui risponde la fedeltà di Dio, che garantisce il
permanere della misericordia di Dio. La storia che emerge più che “storia di peccato e di
misericordia” è “storia della misericordia nonostante il peccato”.
Il quadro globale di Gn 1-11
La riflessione procede secondo momenti progressivi:
- Dio ha fatto bene ogni cosa (Gn 1).
- Dio ha posto l'uomo nel giardino (Gn 2).
- Nel mondo, a causa dell'uomo, entrano il male e la morte (Gn 3).
- Il male s'incrementa in estensione e profondità: contro il fratello (4,1-16: Caino e
Abele); l'uomo fonda il rapporto con l'altro sulla vendetta (4,23s: Lamech); dilaga la corruzione
morale (4,23: le due mogli di Lamech; 6,1ss: i figli di Dio e le figlie dell'uomo); al progresso
della civiltà si oppone un regresso morale (6,5-7: il peccato, la malvagità si diffondono
ovunque; solo pochissimi, Enoch e Noè, non ne restano contagiati).
- Col peccato la morte miete vittime tra gli uomini (il diluvio). Non è solo una morte
fisica, ma una morte connessa col peccato, quindi, la morte totale, definitiva.
- Noè è il nuovo capo dell'umanità, essa pure peccatrice (Gn 9,20ss: Cam), anche se
Jahwè rimane fedele all'alleanza.
- Il peccato assume dimensioni sociali: i raggruppamenti umani, che rappresentano una
progressione nella civilizzazione, si ribellano a Dio (Babele).
376
Cfr L. A. SCHÖKEL, Motivos sapienciales y de alianza en Gn 2-3, “Biblica” 43 (1962) 295-315.
L. MAZZINGHI, Quale fondamento biblico per il "peccato originale"? Un bilancio ermeneutico: l'Antico
Testamento, op cit, 97.
378
A. RIZZI, Ruolo del racconto biblico nello sviluppo del concetto di male, Atti del Seminario invernale: «In
principio...», Prato 23-26 Gennaio 1986, Firenze 1986, 296s.
377
Antropologia Teologica 2009-2010
139.
- I popoli si dividono tra loro sulla terra, evidenziando un altro aspetto del peccato: la
separazione dell'uomo dal suo prossimo.
Tutto questo non dice solo la conseguenza del peccato, ma il peccato stesso nei suoi diversi
aspetti. Non è però questa l'ultima parola di Dio sulla storia umana, sulla quale permane la
benedizione divina.
Gli elementi teologici più rilevanti in Gn 1-11
- L'universalità della situazione di peccato: l'umanità è peccatrice fin dalle origini.
- L'attenzione, più che sui singoli atti peccaminosi, è posta sulla natura del peccato:
l'autosufficienza dell'uomo, nelle sue diverse espressioni, rivendicata contro Dio.
- La causa del peccato non sta nella necessità delle cose né nel volere divino, ma
nell'orgoglio dell'uomo. L'influsso del serpente è inteso come causa estrinseca, propria della
potenza del male. Viene evidenziata pure una certa solidarietà degli uomini nel male (cfr la
stirpe dei Cainiti, stirpe di peccatori). L'universalità del peccato è spiegata con un processo
d'imitazione, di diffusione del peccato: gli uomini sono eredi della generazione precedente
anche nel male. Non si deve però dimenticare che Gn 1-11 presenta un procedimento
eziologico, che legge la diffusione del peccato, con la morte che gli è connessa, nella linea delle
dimensioni e connessioni che il peccato assume (sofferenza, lavoro faticoso, espulsione dal
giardino).
- Il discorso sul peccato di Adamo e sull'umanità peccatrice ha come sfondo il quadro
storico-salvifico, non solo perché la riflessione è riferita all'azione di ricupero svolta da Jahwè
con Abramo e alla vicenda del Dio liberatore, ma anche perché fin dall'inizio la storia del
peccato è intrecciata con la storia della creazione e della benedizione divina. In tale prospettiva
la salvezza non si presenta solo come intervento che ripara la vicenda negativa degli uomini,
ma come appartenente al disegno originario di Dio, che resta fedele all'uomo nonostante il suo
rifiuto:
- nel racconto su Caino e Abele il testo si chiude non con una condanna, ma con un
gesto di Dio a protezione di Caino («Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo
colpisse chiunque l'avesse incontrato», Gn 4,15);
- La narrazione del diluvio si chiude col solenne impegno da parte di Dio di non
distruggere più il mondo («Non maledirò più il suolo a causa dell'uomo, perché l'istinto del
cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho
fatto», Gn 8,21);
- Il racconto della torre di Babele (Gn 11,1-9) si chiude con la vocazione di Abramo (Gn
12, 1-3), mediante il quale Dio benedirà “tutte le famiglie della terra”, offrendo a lui un
“nome” diverso da quello che l'uomo aveva cercato di darsi da solo («Venite, costruiamoci una
città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta
la terra», Gn 11,4).
Il racconto della caduta (Gn 3)379
Il racconto è svolto secondo lo schema “delitto” (vv 1-8) e “castigo” (vv 9-19).
- La trasgressione del comandamento (vv 1-8). La parte si articola in tre scene: la
seduzione (v 1-5), la violazione del comandamento (v 6), il risultato (vv 7-8).
Nella scena della seduzione domina la figura del serpente, dai diversi risvolti simbolici. Il
serpente è simbolo di perenne giovinezza, di sapienza; è anche usato come simbolo del caos e
379
Cfr G. VELLA, Il capitolo III della Genesi e il peccato originale, RdT 10 (1969) 73-96; G.R. CASTELLINO,
Il peccato di Adamo. Note a Gn 3 e Rm 5,12-14, art. cit., 145-162.
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140.
di fecondità nei culti cananaici. Nel testo biblico è messa in risalto la funzione del serpente:
esso è l'obiettivazione della seduzione, dell'inclinazione al male verso cui l'uomo è portato. Il
testo nella sua essenzialità fa emergere due aspetti: il male non deriva solo da una gestione
negativa della libertà umana, ma anche da un condizionamento che la libertà accoglie e al quale
vi si sottopone.
La riflessione credente esclude che la signoria del male provenga da Dio o che stia sul
suo stesso piano. È il serpente, infatti, il protagonista della seduzione, che viene condotta
secondo un intelligente crescendo psicologico: la domanda iniziale stravolge il senso del
comandamento (v 1); la donna, nonostante il tentativo di difesa, cade nella trappola
dell'interpretazione legalistica del comando (vv 2b-3); il serpente interpreta l'intenzione di Dio
(v 4) e la sua disposizione come concorrenziale alla libertà dell'uomo (v 5). Il comandamento è
così sperimentato non come possibilità di vita e di relazione con Dio, ma come divieto, da
parte della libertà che interpreta Dio a propria immagine e non riconosce in lui il fondamento
del bene morale (v 5b).
La stessa finezza psicologica è presente nella narrazione della trasgressione (v 6), dove è
mostrata una progressione: il frutto prima appetibile per essere mangiato (lo stimolo dei sensi),
poi seducente agli occhi (l'attenzione meno grossolana, quella estetica), infine desiderabile per
acquistare sapienza (il fascino di capire). La donna380, a sua volta, diventa protagonista della
seduzione. Più che l'aspetto misogino (che forse non manca) si sottolinea l'esperienza d'Israele
trascinato alla seduzione dai culti cananaici (dove le sacerdotesse svolgevano un ruolo
importante) e l'ambivalenza del rapporto d'amore, che può capovolgersi trascinando l'uomo e
la donna nello stesso errore.
Il risultato (vv 7-8) presenta la nuova situazione: la conoscenza acquisita dall'uomo non
è quella prospettata dal serpente, anzi introduce una lacerazione nei rapporti personali («Si
scoprirono nudi»)381, che porta a un nascondersi reciproco («le vesti di foglie») e a un
allontanarsi pauroso da Dio («si nascosero dalla presenza di Jahwè»)382.
- L'interrogatorio e il castigo (vv 9-19). La scena, illustrata come un processo, prevede
l'istruttoria, l'interrogatorio (vv 9-13) e la triplice sentenza (vv 14-19). L'istruttoria è posta sullo
sfondo di una situazione mutata rispetto a Gn 2, caratterizzata dalla paura e vergogna
dell'uomo nei confronti di Dio. L'interrogatorio sulle responsabilità riguarda l'uomo e la
donna, non il serpente, perché solo l'uomo e la donna hanno la responsabilità del male. Il testo
presenta il procedimento di rimozione della colpa: l'uomo la scarica sulla donna e,
indirettamente, su Dio; la donna l'addossa al serpente, che è creatura di Dio. Non si dice nulla
del serpente, perché non spiega il motivo della seduzione: il male, chiaro nella sua
manifestazione, resta un enigma nella sua radice.
La sentenza383 è rivolta ai protagonisti: il serpente (vv 14-15), la donna (v 16), l'uomo (vv
17-19). Il procedimento eziologico illustra la relazione tra l'esercizio negativo della libertà e le
conseguenze nefaste che ne derivano. L'autore parte dalla conflittualità che segna i rapporti
uomo-natura, uomo-donna e dall'esperienza della fatica nel lavoro; si chiede perché tali
rapporti non sono secondo la descrizione ideale di Gn 2.
La prima maledizione rivolta al serpente dice anzitutto perché l'animale striscia sul suolo;
spiega poi l'inimicizia tra l'uomo e il serpente, che con il morso minaccia la vita dell'uomo. Il v
15 («Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe. Questa ti schiaccerà la
testa e tu le insidierai il calcagno»), conosciuto come “protovangelo”, sottolinea che
l'avversione tra l'uomo e il serpente segnerà ogni generazione.
La seconda sentenza riguarda la donna; non contiene maledizioni, ma punizioni, che
380
Cfr G. A. BORGONOVO, La “donna” di Gn 3 e le “donne” di Gn 6,1-4. Il ruolo del femminino nell'eziologia
metastorica, “Ricerche storico-bibliche” (RSB) 1-2 (1994) 71-95.
381
Cfr G. F. RAVASI, La vergogna di Adamo ed Eva (Gn 2-3), PSV 20, 9-19.
382
Cfr A. MELLO, "Adamo dove sei?" (Gn 3), PSV 30, 11-27.
383
Cfr A. BONORA, Maledetta la terra!. Il dilagare della maledizione in Gn 1-11, PSV 21, 9-22.
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141.
sono eziologie della singolare esperienza femminile: i dolori del parto e il desiderio dell'uomo.
Il dolore (che si fa paura), che accompagna il parto, dice le relazioni sconvolte dalla cattiva
decisione dell'uomo. Analogamente la profonda attrazione che lega la donna all'uomo diventa
luogo del dominio. Il testo non intende proporre una concezione d'inferiorità della donna
rispetto all'uomo, ma spiegare perché la donna, creata da Dio come “alleata all'altezza”
dell'uomo, esperimenta il dominio dell'uomo nel cuore stesso del desiderio che conduce alla
comunione.
Una simile situazione è la conseguenza della trasgressione dell'uomo.
La terza sentenza è rivolta all'uomo e contiene una maledizione indiretta alla terra, che
spiega eziologicamente come l'originaria solidarietà tra l'uomo e la terra è sconvolta dal
peccato. Sono spiegati in questo modo la frattura fra l'uomo e la terra, il lavoro faticoso
dell'uomo. La sentenza finale del v 19, che presenta la morte come conseguenza del peccato,
va letta come eziologia del limite invalicabile dell'uomo, esperimentato dopo il peccato come
morte tragica, paura di fronte al vuoto del proprio finire, proprio il contrario dell'immortalità
cui l'uomo aspirava.
- L'esecuzione della sentenza (vv 20-24) mostra Dio che continua a prendersi cura
dell'uomo, anche dopo la trasgressione. La cura si esprime nel dare il nome alla donna e in
alcuni provvedimenti (tuniche di pelli, la motivazione ed espulsione dal giardino)384.
Il “peccato dei padri” 385
Il tema riveste particolare importanza nel Deuteronomio, dove i “padri” sono ricordati
una cinquantina di volte, per lo più in importanti contesti teologici. I “padri”
rappresenterebbero la generazione dell'Esodo, che, destinataria delle promesse divine, rifiuta
l'alleanza con Jahvè, alleanza che sarà riproposta alla generazione dell'esilio (cfr Dt 5,1-5). I
“padri” di cui parla il Deuteronomio mostrano la continuità, nella storia d'Israele, tra la
generazione dell'Esodo e quella dell'esilio, alla quale si rivolge il redattore deuteronomista,
invitandola a rinnegare un passato di errori e a ritrovare nella prospettiva dell'alleanza le loro
radici profonde.
Il tema del “peccato dei padri” avrà grande rilievo nella lettura deutronomista della
storia, dove, pur prendendo le distanze dal concetto di responsabilità collettiva, è offerto un
quadro in cui “padri” e “figli” partecipano a una comune responsabilità, nel bene e nel male.
La storia dei re d'Israele presenta le colpe commesse imitando il padre (cfr 1Re 15,3; 2Re
21,19ss; 24,19) o i “padri” in genere (cfr 1Re 14,22; 2Re 17,14.41); la distruzione di
Gerusalemme è ritardata «per amore di David» (cfr 1Re 11,36; 15,4; 2Re 8,19) e per opera di
quei re che agiscono come il padre David (Asa: 1Re 15,11; Amasia: 2Re 15,3; Ezechia: 2Re
18,3; Giosia: 2Re 22,2).
Il profeta Geremia, pur affermando la responsabilità di ciascuno per il proprio peccato
(Ger 31,29-30) confessa più volte le colpe dei padri (Ger 2,5; 3,25; 7,26; 9,13; 11,10; 14,20;
16,11.12; 23, 27; 31,32; 34,14; 44, 9.17.21; 50,7).
Nel post-esilio assumono particolare rilievo i testi definiti “confessioni dei peccati”
(Lam 5,7; Sal 79; 106; Is 63,7-64,11; Esd 9,6-15; Ne 9,5-37; Dn 3,36-45; 9,4-19; Bar 1,15-3,8),
dove l'orante confessa i propri peccati e li concepisce come inclusi in una storia di “peccati
accumulati”, i peccati e le colpe dei padri.
Il Sal 106,6 («noi abbiamo peccato come [nel testo ebraico con] i nostri padri») esprime
una vera e propria solidarietà nella colpa, in una contesto, tuttavia, positivo, rappresentato
dalla fedeltà di Dio alle sue promesse (cfr vv 44-48).
384
385
Cfr L. MAZZINGHI, “... e fece loro tuniche di pelli”. La misericordia di Dio in Gn 3, PSV 29, 11-23.
Cfr A. M. DUBARLE, Il peccato originale. Prospettive teologiche, op cit.
Antropologia Teologica 2009-2010
142.
Significativo il testo di Bar 1,15-3,8, che presenta una liturgia penitenziale, dove, partendo dalla
confessione dell'eredità di peccato lasciata dai padri (cfr 1,19-20. 21-22; 3,4), si riconosce che
noi abbiamo peccato (1,17; 3,2). Va registrata un'affermazione singolare in 2,5: «ed essi
divennero sottomessi e non padroni perché noi abbiamo peccato», dove la solidarietà nel male
va addirittura all'indietro nella storia: dai figli ai padri.
Da questi testi emerge con chiarezza l'idea di una profonda solidarietà nel male per cui i
peccati dei figli continuano quelli dei padri, formando con essi un tutt'uno.
La riflessione sapienziale386
La letteratura sapienziale in Israele, al pari dei popoli vicini in Mesopotamia e in Egitto,
è segnata da una forte domanda sul problema del male. Due sembrano essere le soluzioni: la
prima e più antica (cfr Pro 10-22) adotta il modello retribuizionista, fondato sulla
responsabilità personale: il giusto ha sempre successo, mentre l'empio perisce. Questa
concezione è criticata nel libro del profeta Geremia: «Perché le cose degli empi prosperano?»
(Ger 12,1; cfr Ab 1,3.13-14). La seconda fa riferimento alla sofferenza educatrice: il dolore,
anche quello innocente, è inteso come pedagogia divina (cfr Pro 3, 12; i discorsi di Elihû in
Gb 32-37; 2Mac 6,12-17).
Scegliamo i libri di Giobbe, di Qohelet e della Sapienza.
- Nel libro di Giobbe387 a far problema non è tanto il male, quanto l'esistenza di Dio in
un mondo dove esiste il male: «non è la sofferenza, come così sovente si è detto, ma è Dio che
è diventato estremamente problematico»388. Nell'interpretazione degli “amici” di Giobbe il
male è considerato punizione per il peccato commesso; l'argomento della fragilità dell'uomo,
spesso evocato dai tre amici, diventa un mezzo per accusare Giobbe e difendere la giustizia di
Dio (cfr 4,17-21; 15,14-16; 25,4-6)389.
La risposta al problema del male è offerta nei due discorsi finali di Dio (38,1-41, 26): in
38,1 il Signore afferma di avere un “piano” nei confronti del mondo. Il male quindi rientra in
un disegno di Dio, che l'uomo non riesce a cogliere pienamente. Infatti Giobbe ammette:
«Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto è irrealizzabile per te. Chi è costui che,
senza avere intelligenza, può oscurare i tuoi piani? E' certo, ho parlato senza capire, cose
meravigliose, che superano la mia comprensione» (42,2-3). Se l'uomo non è in grado di
comprendere pienamente il progetto di Dio sul mondo, sa però che tale progetto è
“meraviglioso” e che non può essere rovinato. Per Giobbe la risposta al problema del male
può essere trovata solo nell'incontro personale con Dio (42,5) e non in un sistema teologico
che lo fa dipendere da una colpa precedente.
I tre amici teologi di Giobbe - Elifaz (il profeta), Bildad (l'uomo di legge) e Zofar (il saggio) che invece tentano di risolvere il problema a partire da un sistema teologico, sono “stolti” e
non dicono “cose rette” come il “servo” Giobbe (cfr 42,7ss).
La conclusione è che «il senso della sofferenza è il mistero stesso di Dio, non si trova in
una soluzione dottrinale astratta, né in una risposta emotiva e consolatoria. Esso si svela
soltanto nell'esperienza personale, viva di Dio [...] Giobbe ci insegna a non liberarci dal dolore
ma come essere liberi e credenti nel dolore...»390 e che «così Dio vuole che venga trattato
386
Cfr A. VANEL, Sagesse, in DBS XI/60 (1986) 23ss.
Cfr A. BONORA, Il contestatore di Dio: Giobbe, Marietti, Torino 1988, 46; L. A. SCHÖKEL- J. L. SICRE
DIAZ, Giobbe, Borla, Roma 1985; R. VIGNOLO, Giobbe: il male alla luce della rivelazione, AA.VV., Giobbe: il
problema del male nel pensiero contemporaneo, Cittadella, Assisi 1996, 27-73.
388
G. VON RAD, La sapienza in Israele, Marietti, Torino 1975, 201.
389
Lo stesso argomento è utilizzato da Giobbe per mettere in dubbio la bontà di Dio: proprio perché
l'uomo è fragile Dio dovrebbe perdonarlo (cfr 7,1-13. 13-16. 17-20; 10,12-22; 14,1-6).
390
A. BONORA; op cit, 61.
387
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143.
dall'uomo che soffre: onestamente, in cerca affannosa, con prodezza per non arrendersi, fino
all'incontro che è dono suo. Questo è parlare da servo autentico; il resto, le pie banalità, il
sistema rigidamente costruito, le ipotetiche verità senza carità, lo offendono e lo irritano»391.
- Nel libro di Qohelet392 il problema del male non è risolto sul presupposto della
teoria retribuizionista di un Dio che premia il giusto e castiga l'empio sulla terra («tutto ho
visto nei giorni della mia vanità: perire il giusto, nonostante la sua giustizia, vivere a lungo
l'empio, nonostante la sua empietà», 7,15). Qohelet nega che sulla terra vi sia una diretta
connessione tra il male della vita dell'uomo e il suo peccato; la morte è soltanto la
condizione che accomuna giusti ed empi e che è la stessa sorte delle bestie (cfr 8,11-14;
9,2-3). Riconduce il problema del male al mistero dell'agire di Dio («nel giorno lieto sta
allegro, nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l'uno quanto l'altro perché l'uomo non
trovi nulla da incolparlo», 7,14), a un Dio che “fa tutto” (11,5). Qohelet però è convinto
che esiste un “meglio” per l'uomo e che il mistero di Dio si rivela in quella gioia che per 7
volte l'autore indica come l'unica sorte dell'uomo su questa terra e che resta, in ogni caso,
dono di Dio (cfr 2,24-25; 3,12-13; 3,22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,9-12,1).
- Nel libro della Sapienza393 i primi 6 capitoli sono considerati dagli studiosi la ripresa di
Gn 1-3394, dove l'autore rilegge il testo genesiaco in maniera sincronica, cioè come un tutto
unitario. In particolare Sap 2,23-24, che allude a Gn 3395 («Dio ha creato l'uomo per
l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per
invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono»), include nel disegno
originario di Dio la creazione dell'uomo a propria immagine e somiglianza (Gn 1) e la nozione
di incorruttibilità (άfqarsίa), termine che rimanda all'immortalità anche sul piano fisico. La
“morte” che è entrata nel mondo è quindi la negazione di questa incorruttibilità, ossia è, a un
tempo, la morte fisica e la morte spirituale. La “morte” è nel libro della Sapienza una nozione
volutamente ambigua.
L’ambiguità risulta già in Gen 3: l'uomo, condannato a morte (cfr Gn 2,17; 3,19), in
realtà non muore, nel senso che, formato dalla terra, l'uomo resta mortale. Cambia però il suo
rapporto con la morte. Il libro della Sapienza coglie la prospettiva di Gen 3, distinguendo tra
mortalità “biologica” dell'uomo e morte quale punizione per il peccato, riservata all'empio (cfr
Sap 1,16; 2,24). L'autore del libro rifiuta la visione tragica della morte fisica propria degli empi
(cfr Sap 2,2-5). La mortalità dell'uomo ha una funzione positiva, in quanto rappresenta il
contesto nel quale l'uomo può esercitare la propria libertà e cercare la sapienza (cfr Sap 9,5.10).
La morte diventa una disgrazia quando non è accettata come componente naturale della vita
umana (cfr Sap 7,1.6) e come passaggio alla vera vita (cfr Sap 3,1ss); può essere considerata
una punizione solo per gli empi (cfr Sap 18,5-25, la morte dei primogeniti egiziani), quale
aspetto tragico e anticipatore della morte definitiva (cfr Sap 5; i tre dittici di Sap 3-4; Sap
17,14.21).
Per il NT396 il riferimento è a due testi paolini: 1Cor 15,21-22. 45-48 e Rm 5,12-21397.
391
L. A. SCHÖKEL, op cit, 679.
Cfr P. SACCHI, Qohelet, Paoline, Roma 1971; A. BONORA, La gioia e la fatica di vivere; Queriniana,
Brescia 1987; G. RAVASI, Qohelet, San Paolo, Milano 1988.
393
Cfr P. BIZZETI, Il libro della Sapienza. Struttura e genere letterario, Paideia, Brescia 1984; J. VILCHEZ
LINDEZ, Sapienza, Borla, Roma 1990.
394
Cfr M. GILBERT, Gn 1-3 dans le livre de la Sagesse. La création dans l'Orient Ancien, Cerf, Paris 1986, 323392
344.
Cfr A.M. DUBARLE, La tentation diabolique dans le livre de la Sagesse (2,24), Mél. A. Tisserant I, Rome
1964, 187-195; G. SCARPAT, Il libro della Sapienza, I, Paideia, Brescia 1989, 164-167.
396
Cfr A. PITTA, Quale fondamento biblico per il “peccato originale”? Un bilancio ermeneutico: il Nuovo Testamento,
A.T.I., Questioni sul peccato originale, op cit, 141-168.
395
Antropologia Teologica 2009-2010
144.
- In 1Cor 15,21-22 («Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà
anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita
in Cristo») è evidenziato anzitutto un “parallelismo antitetico” tra i due uomini (v 21),
identificati in Adamo e in Cristo (v 22). Ad Adamo è attribuito l'ingresso della morte, mentre a
Cristo quello della vita (v 21). Il v 22 sposta l'accento su una relazione corporativa tra Adamo
e tutti, tra Cristo e tutti: Adamo diventa causa di morte per tutti, in quanto tutti sono in lui e
Cristo causa di vita per tutti, per il fatto che tutti sono in lui. L'antitesi è ripresa nei vv 45-48
(«il primo uomo Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.
Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto
dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l'uomo fatto di terra, così sono
quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l'immagine
dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste»), dove si può cogliere non più
la relazione paritaria, anche se antitetica, fra Adamo e Cristo, dei vv 21-22, ma una relazione a
fortiori, dominante in Rm 5,12-21: «Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi
lo spirituale» (v 46). La sottolineatura dell'argomentazione paolina non riguarda Adamo,
considerato come uomo “psichico” (“anima vivente”), ma Cristo, colui che dona “lo Spirito”.
Questo significa che Paolo si riferisce ad Adamo perché intende trattare di Cristo.
- Rm 5,12-21 («il vertice della teologia paolina sul peccato di Adamo e su quello
universale»398) dal punto di vista letterario presenta due formule dossologiche (vv 11.21) che
chiudono le pericopi dei vv 1-11 e 12-21. La formula “perciò”, che apre al v 12 la prima
pericope, indica un collegamento argomentativo tra le due pericopi.
L'argomentazione è svolta in tre tappe: vv 12-14 (il regno del peccato, della Legge e della
morte), vv 15-16 (il superamento della grazia rispetto alla trasgressione), vv 17-21 (il contrasto
tra la trasgressione e la giustizia per la vita). L'argomentazione è costruita sul contrasto tra
Adamo e Cristo, dove la sottolineatura riguarda il “maggiore” (Cristo) e non il “minore”
(Adamo). Anche gli altri parallelismi antitetici (vv 15a.16a.16b.18.19. 21), come quello del v 20,
vanno letti in questa prospettiva. Il parallelismo istituito dall'Apostolo «è sbilanciato a favore di
Cristo, poiché la comparazione (ώj...oύtwj: v 18; ώsper...oύtwj: vv 19.21) in realtà è infranta
da espressioni d’incomparabilità (oύc ώj... oύtwj: v 15; cfr v 16; pollώ mαllon: vv 15. 17;
upereperίsseusen: v 20), che distanziano assai Cristo da Adamo e finiscono per lasciarlo
solo in campo, riducendo inevitabilmente Adamo alla funzione paradossale, insieme
drammatica ma in dissolvenza, di un precursore alternativo»399. Il testo di Rm 5,12-21 non va
considerato quindi un testo antropologico, ma cristologico, in quanto è per evidenziare ciò che
si realizza mediante Cristo che Paolo riferisce del peccato di Adamo. Il riferimento al Cristo
redentore finisce per conferire una più precisa identità all'Adamo peccatore. Per Paolo «non si
arriva a Cristo partendo da Adamo, cioè da un antropologico ripiegamento su se stessi, ma si
perviene ad Adamo, e quindi alla conoscenza di sé, partendo da Cristo»400.
Riguardo alla sottolineatura dell'universale efficacia e sovrabbondanza della redenzione
di Cristo, nel testo paolino assume rilievo la relazione tra uno-tutti, con la variazione di uno-molti.
Il numerale uno vi si trova 12 volte (cfr v 12.15.16.16.17.17.18.18. 19.19). All'ef’ώ401 sono
397
Cfr R. PENNA, Il discorso paolino sulle origini umane alla luce di Gn 1-3 e le sue funzioni simboliche, RSB 1-2
(1994) 223-239.
398
Cfr A. PITTA, Quale fondamento biblico per il “peccato originale”? Un bilancio ermeneutico: il Nuovo Testamento,
A.T.I., Questioni sul peccato originale, op cit, 150.
399
R. PENNA, Il discorso paolino sulle origini umane alla luce di Gen 1-3 e le sue funzioni simboliche, art cit, 237.
400
ID, 239.
401
Per la storia dell'interpretazione dell’espressione cfr A. PITTA, Quale fondamento biblico per il “peccato
originale”?, A.T.I., Questioni sul peccato originale, op cit, 156-159. L'autore concorda con la traduzione “per il
fatto che tutti hanno peccato”, sia per Rm 5,12-21 che per la relazione con Rm 1,18-4,25, confermata
dal rapporto tra il peccato di Adamo, esposto in Rm 5,12-21 e il peccato universale di cui parla Rm 1,
Antropologia Teologica 2009-2010
145.
rapportati pantej (vv 12.12.18.18) e polloi (vv 15.15.19.19). Questo codice numerario serve
per evidenziare, da un lato la connessione tra il peccato di Adamo e quello universale e
dall'altro la grazia donata a tutti mediante Cristo.
Nell'evidenziare le due realtà Paolo insiste più sul far derivare la grazia universale solo da
Cristo che attribuire ad Adamo il peccato di molti. La conferma della differenziazione è data
dall'abbondante terminologia attribuita all'uno di Gesù Cristo rispetto a quella dell'uno di
Adamo. Questo sembra il motivo per cui Paolo introduce il peccato di Adamo in Rm 5,12-21,
cioè dopo aver parlato del peccato universale nei primi tre capitoli della lettera. Non certo per
scusare gli uomini, che per Paolo sono “inescusabili” (cfr Rm 1,20; 2,1). In tal caso il
riferimento al peccato di Adamo sarebbe stato introdotto prima di quello universale. Paolo,
quindi, per presentare l'unicità della salvezza realizzata in Gesù Cristo, introduce il riferimento
al peccato di Adamo e al peccato universale, i quali, pertanto, risultano funzionali alla
redenzione cristologica che in Rm 1,8-4,25 è presentata in successione argomentativa - dalla
manifestazione dell'ira divina (Rm 1,18-3,20) a quella della salvezza in Cristo (Rm 3,21-4,25) mentre in Rm 5, 12-21 è presentata secondo il codice spaziale della sincronia. Paolo può
affermare l'universalità salvifica di Cristo perché ha una concezione della giustificazione che
inserisce tutti in Cristo, come “figli nel Figlio” («Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in
Gesù Cristo», Gal 3,36) o, come dirà riguardo al “mistero nascosto nei secoli”, «in lui ci ha
scelti prima della creazione del mondo [...] predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera
di Gesù Cristo» (Ef 1,4-5) e, allargando il disegno di Dio a “tutte le cose” del creato,
concluderà: «Il disegno cioè di ricapitolare tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra»
(Ef 1,10; cfr Col 1,16-17).
Conclusione
Dalla riflessione biblica, più che dei loci che giustificano formalmente il peccato
originale così come è stato classificato successivamente, ricaviamo che il quadro di riferimento
del peccato originale è quello soteriologico. Nell'AT è l'alleanza tra Jahvè e Israele lo “sfondo”
che consente non solo di comprendere il senso e la portata del peccato di Adamo, ma anche di
prospettare il suo eventuale superamento. Nel NT è l'orizzonte cristologico a conferire
un'identità precisa all'Adamo peccatore e a rappresentare la possibilità, sempre più grande
dello stesso peccato, della salvezza.
La tradizione
La riflessione patristica402
Ci limitiamo ad Agostino, il cui contributo è accolto alla Chiesa. L'itinerario: la
tradizione preagostiniana, Agostino, gli interventi del magistero.
18-3,21. Inoltre il “tutti hanno peccato” rappresenta la definitiva situazione degli uomini sui quali
incombe l'ira divina («Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio», Rm 3,23; cfr Rm 3,9).
402
Cfr M. FLICK-Z. ALSZEGHY, Fondamenti di un'antropologia teologica, Liberia Editrice Fiorentina,
Firenze 1970: ID, Peccato originale, 71-110 ; L. SERENTHÁ, Peccato originale, DTI III, Marietti, Torino
1977, 680-683; G GOZZELLINO, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo, ELLE DI CI, Torino 1985, 442452; E. TESTA, Il peccato di Adamo nella patristica, Franciscan Printing Press, Gerusalemme 1970.
Antropologia Teologica 2009-2010
146.
La tradizione pre-agostiniana403
Gli studiosi evidenziano tre piste, corrispondenti alle prove presentate da Agostino per
rintracciare la dottrina sul peccato nella fede della Chiesa: l'esperienza della concupiscenza,
l'esegesi dei testi paolini, la pratica del battesimo dei bambini.
L'esperienza della concupiscenza
Sono numerosissimi i testi che parlano della situazione di disagio che colpisce l'umanità
dopo il peccato di Adamo404. Ci limitiamo a due riflessioni:
* I Padri considerano la concupiscenza un disturbo del dinamismo morale dell'uomo,
senza ritenerla situazione in se stessa peccaminosa: «si tratta di un orientamento istintivo verso
il mondo terreno, temporale, e sperimentale, che ritarda o impedisce l'apertura verso i beni
superiori, e specialmente verso Dio»405. La posizione si chiarisce nella polemica contro gli
Euchiti (chiamati anche Messaliani), condannati a Sido (390) e a Efeso (431), per i quali la
concupiscenza, che resta nel battezzato, è causata dalla dimora del demonio, da cui l'uomo può
liberarsi solo con una continua preghiera.
La risposta ortodossa, affermando che nel battezzato, nel quale sono presenti le sollecitazioni
della concupiscenza, abita lo Spirito Santo, mantiene la distinzione tra peccato e
concupiscenza.
* Diversi testi patristici si muovono in un contesto di pensiero lontano dalla mentalità
cristiana (che considera l'inclinazione al male nella prospettiva della storia salvifica) e più
vicino a concezioni filosofiche greche, dove la concupiscenza consiste nel fatto che l'uomo,
ordinato alle realtà spirituali, si lascia attrarre dalle realtà materiali. Tali riflessioni, segnate da
un dualismo intellettualistico, non riescono a descrivere adeguatamente la situazione
dell'uomo, che trova nel rifiuto o nell'accettazione di Cristo il senso della propria disperata
situazione o della speranza di salvezza.
L'esegesi dei testi paolini
Nel descrivere la situazione dell'umanità corrotta i Padri fanno riferimento al legame
degli uomini con Adamo. Fino all'Ambrosiastro il riferimento è illustrato non in base a Rm
5,12, ma ad altri testi paolini, quali 1Cor 15,22; Rm 7, 9-10.
Accostiamo Ireneo e l'esegesi di Rm 5,12, svolta dai Padri greci dei secoli IV e V.
* Ireneo insiste sulla solidarietà degli uomini col peccato di Adamo: per/in Adamo tutti
gli uomini sono costituiti peccatori406. Il modo con cui spiega il collegamento con Adamo è
vario. Flick e Alszeghy presentano tre schemi cui Ireneo ricorre frequentemente: lo schema
platonico (gli uomini e Adamo partecipano all'unica essenza di uomo); lo schema biologico (gli
uomini erano precontenuti nei lombi di Adamo); lo schema cristologico (l'unità degli uomini
in Adamo è da collegare con la misteriosa unità che li lega a Cristo). La riflessione di Ireneo si
sviluppa nell'ambito della polemica antignostica: mentre gli gnostici insistono sul carattere
403
Cfr V. GROSSI- B. SESBOÜÉ, Peccato originale e peccato delle origini: da S. Agostino alla fine del Medioevo,
AA.VV, Storia dei dogmi II, 164-183.
404
Cfr la presentazione dell'omelia pasquale di Melitone di Sardi in M. FLICK-Z. ALSZEGHY, Peccato
originale, 79-82; V. GROSSI, Dogma e teologia del peccato originale. Il Concilio di Cartagine del 418: Agostino
d'Ippona, A.T.I., Questioni sul peccato originale, op cit. 184-190.
405
406
M. FLICK-Z. ALSZEGHY,
Peccato originale, 83.
Per l'elenco dei numerosi passi cfr ID, 86.
Antropologia Teologica 2009-2010
147.
metafisico del male presente negli uomini “psichici” e “ilici”, Ireneo insiste sul carattere storico del peccato (da qui la necessità di far riferimento all'origine storica del peccato).
In sede critica, però, di fronte ad affermazioni di Ireneo secondo le quali l'uomo ha
bisogno di una santificazione (“rinascita”) fin dal grembo materno, prima dei peccati personali,
ci si chiede se «non si potrebbe pensare, in questo contesto, a un influsso inconscio di un
aspetto della visione gnostica, per cui viene tacitamente accettata la tesi della peccaminosità
costituzionale di ogni uomo, nello stesso momento, in cui viene confutata la sua spiegazione
dualistico-metafisica, per mezzo della spiegazione storica»407.
* L'esegesi di Rm 5,12 proposta dai Padri greci presenta due temi costanti: il senso, non
relativo, di ef’ώ e il riferimento di ήmarton (“peccarono”) ai peccati personali408.
- L'esegesi della scuola alessandrina: Cirillo parla di peccati personali, compiuti sotto
l'influenza dello stato peccaminoso, determinato dal peccato di Adamo. Siamo di fronte a un
cor malignum, a una mors animae, che sta tra il peccato di Adamo e i peccati personali, quale
elemento mediatore che prende consistenza solo in riferimento ai peccati personali.
- La scuola antiochena: Giovanni Crisostomo sostiene che l'influsso di Adamo riguarda
la morte fisica e non la situazione peccaminosa in cui versa l'umanità. Conseguentemente nel
«tutti sono stati costituiti peccatori» di Rm 5,19, il termine peccatori va inteso come “sottoposti
alla pena e alla morte”. Inoltre il battesimo dei bambini ha senso per Crisostomo solo come
conferimento dei doni divini e non come remissione dei peccati che non hanno.
I pelagiani faranno riferimento a questi testi, impegnando Agostino in una esegesi che
li ricondurrà a un significato più sfumato, evidenziando il contesto pastorale in cui si pone
Crisostomo e confrontandoli con altri passi dove Crisostomo fa affermazioni più in sintonia
col comune pensiero della Chiesa.
Anche i Cappadoci espongono un pensiero che crea difficoltà: per esempio la piccola
opera, scritta da Gregorio di Nissa sui bambini morti prematuramente: sono senza peccato e
perciò non hanno bisogno della salvezza, che deriva dalla purificazione. La soluzione non nega
l'azione causale di Adamo sui peccati degli uomini; rivela piuttosto l'esistenza del presupposto
di questa azione causale di Adamo in riferimento al peccato dell'umanità.
Teodoro di Mopsuestia, in polemica con posizioni esagerate, attribuite a Gerolamo,
sembra ricondurre tutto il male ai peccati personali dei quali la libertà umana è pienamente
responsabile. Non sembra però misconoscere completamente l'esistenza del peccato originale;
riconosce infatti un’influenza negativa del peccato di Adamo sui discendenti, opponendola a
quella di Cristo, che si distende anche agli uomini venuti prima di lui; afferma che gli uomini
da Adamo oltre alla morte ereditano l'inclinazione al peccato. Nestorio elabora un pensiero
più equilibrato: la colpa di Adamo coinvolge tutti gli uomini; perciò la natura umana, radicata
in Adamo come sul proprio fondamento, è coinvolta nel crollo del fondamento e diviene
soggetta al diavolo.
Il battesimo dei bambini409
Ci interessiamo a questa pratica antica per la prova che la pratica può rappresentare per
la dottrina del peccato originale; una prova, che pur avendo un suo rilievo, va sfumata con due
osservazioni:
407
408
ID, 89.
Cfr gli studi di S. LYONNET in “Biblica” 36 (1955) 436-456; 41 (1960) 325-355; in RSR 44 (1956)
63-84; in La storia della salvezza nella lettera ai Romani, op cit, 65-95.
409
Cfr M. FLICK-Z. ALSZEGHY, Peccato, 89-97; AA.VV, Battesimo, questione aperta, Roma 1974.
Antropologia Teologica 2009-2010
148.
- quando si sottolinea l'aspetto remissivo del battesimo rispetto a quello positivo di
conferimento della grazia, è problematizzato l'uso di dare il battesimo ai bambini.
- Anche quando è ritenuto legittimo l'uso di dare il battesimo ai bambini con un
significato remissivo (la posizione soprattutto di Cipriano e Tertulliano)410, l'argomentazione
non va dal peccato originale al battesimo dei bambini, ma dal secondo al primo: cioè non si fa
riferimento a una chiara dottrina del peccato originale per giustificare il battesimo ai bambini,
ma si deduce dalla pratica antica e diffusa del battesimo ai bambini l'esistenza di una situazione
peccaminosa anche nei bambini.
Bilancio
Nella tradizione greco-latina che precede Agostino il tema del peccato originale è
affrontato raramente come tema specifico; è presente come presupposto nel discorso sulla
salvezza operata da Cristo. Parlando del peccato si sottolinea semplicemente la situazione
oggettiva in cui si trova l'umanità, indicata come situazione di morte, di condanna o di
punizione, di una macchia o di corruzione, di schiavitù e di una certa forma di peccato. Il
termine “peccato” è utilizzato ancora in modo globale, collegato generalmente alla
proliferazione dei peccati personali nel mondo.
La situazione universale di peccato che riguarda l'umanità è spiegata dalla solidarietà con
Adamo. Gli schemi di rappresentazione di questa solidarietà risultano ancora confusi, in
quanto si parla di contagio, di Adamo come totalità dell'umanità.
Agostino411
1. Fra gli studiosi di Agostino si registra negli ultimi anni un'inversione di rotta: mentre
precedentemente tentavano di elaborare una sintesi sistematica tra le diverse definizioni
agostiniane del peccato originale (morte dell'anima, concupiscenza, solidarietà morale con
Adamo), identificando nell'una o nell'altra l'essenza del peccato secondo Agostino, ora
preferiscono analizzare come si è progressivamente costruita la dottrina agostiniana, senza cercare di sistematizzare ad ogni costo il pensiero del nostro teologo.
Dall'analisi storica emerge un'evoluzione del pensiero che può essere fissata in tre
momenti: nelle opere tra il 387 ed il 397 non si registra la presenza di una precisa dottrina sul
peccato originale; nelle opere invece scritte tra il 397 e il 411 la posizione agostiniana appare
complessa; dal 411 in poi la dottrina agostiniana del peccato originale (ogni uomo, a
prescindere dai peccati personali, è in situazione di peccato in dipendenza dal peccato di
Adamo) è espressa chiaramente.
L'evoluzione del pensiero è spiegata da qualcuno con i diversi influssi subìti da
Agostino: le concezioni manichee mai pienamente superate; il contatto con la teologia africana,
che con Tertulliano e Cipriano descrive molto rigidamente la generale peccaminosità
dell'umanità. Altri invece ritengono che tali influssi non sono decisivi.
410
Cfr ID, 96-97.
Cfr ID, 97-110; V. GROSSI, Dogma e teologia del peccato originale. Il Concilio di Cartagine del 418/Agostino di
Ippona, A.T.I., Questioni sul peccato originale, op cit, 169-199.
I testi di Agostino: Il castigo e il perdono dei peccati e il battesimo dei bambini, a cura di I. Volpi (NBA XVII/1),
Roma 1981; Lo spirito e la lettera, a cura di I. Volpi (NBA XVII/1), Roma 1981; La natura e la grazia, a
cura di I. Volpi (NBA XVII/1), Roma 1981; La grazia di Cristo e il peccato originale, a cura di I. Volpi (NBA
XVII/2), Roma 1981; Le nozze e la concupiscenza, a cura di M. Palmieri, V. Tarulli, N. Cipriani (NBA VII/
1), Roma 1978; Contro Giuliano, a cura di E. Cristini (NBA XVIII), Roma 1985; Opera incompiuta contro
Giuliano, a cura di I. Volpi (NBA XIX/1-XIX/2), Roma 1993-1994.
411
Antropologia Teologica 2009-2010
149.
Neppure la polemica antipelagiana può essere considerata fattore determinante, in quanto
Agostino non elabora la sua dottrina sul peccato originale in funzione anti-pelagiana, ma
piuttosto può contrastare la posizione pelagiana proprio perché possiede una certa concezione
del peccato originale.
Un'attenta lettura delle opere del nostro teologo mostra che il motivo più profondo
dell'evoluzione del suo pensiero sta in un complesso di temi teologici, coi quali il tema del peccato originale è collegato: Cristo Redentore, la grazia, i sacramenti, segni indispensabili di
salvezza. La progressiva maturazione di Agostino nella comprensione di questi temi determina
una sempre più precisa messa a fuoco della situazione di disagio in cui versa l'uomo prima
della salvezza.
2. L'argomento fondamentale elaborato da Agostino riguarda l'universalità della
redenzione: il NT confessa che Gesù Cristo è venuto per salvare tutti gli uomini. Questo
suppone che tutti gli uomini si trovano in una situazione di peccato.
«Il Signore Gesù Cristo non per altro fine è venuto nella carne e, presa la natura di servo, si è
fatto obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,8) se non per vivificare, salvare, liberare,
redimere, illuminare con questa somministrazione di grazia misericordiosissima tutti coloro dei
quali, ammessi a vivere come membra nel suo corpo, egli è Capo per la conquista del regno dei
cieli. Costoro prima vivevano nella morte, nella malattia, nella schiavitù, nella prigionia, nelle
tenebre dei peccati, sotto il dominio del diavolo principe dei peccatori. Per loro Cristo diventò il
Mediatore tra Dio e gli uomini, e per opera sua, distrutta l'inimicizia della nostra empietà dalla
pace di quella grazia (Fil 2,16), siamo stati riconciliati con Dio per la vita eterna e strappati alla
morte eterna che sovrastava ai peccatori»412.
Connessa con l'affermazione della destinazione universale della salvezza sta la pratica ecclesiale
del battesimo di tutti gli uomini, compresi i bambini.
La visione agostiniana s'inscrive nella tematica dei due Adamo, che rappresenta, per il Vescovo
di Ippona, il centro della fede cristiana.
«Quando sono in causa i due uomini per l'uno dei quali siamo stati venduti come schiavi per il
peccato e per l'altro siamo redenti da tutti i peccati, per l'uno siamo stati precipitati nella morte
e per l'altro siamo stati liberati per la vita; infatti il primo ci ha portati in se stesso alla rovina
facendo la propria volontà e non la volontà di colui che l'aveva fatto, il secondo ci ha fatti salvi
in se stesso non facendo la propria volontà, ma la volontà di colui che l'aveva mandato:
quando dunque sono in causa questi due uomini è propriamente in causa la sostanza della fede
cristiana»413.
Per Agostino il peccato delle origini rappresenta un atto di orgoglio e di avarizia, aspetti
considerati non solo in una dimensione morale, ma come contraddizione dell'essere e della
vocazione dell'uomo. L'orgoglio costituisce l'inizio di ogni peccato e determina nel'uomo la
perversione dell'immagine di Dio (l'anima «rifiutando di essere simile a Dio per opera di Dio,
ma volendo per se stessa essere ciò che è Dio, si allontana da lui»414). L'avarizia è l'altra faccia
dell'orgoglio che riconduce tutto a se stesso. Per il peccato l'uomo perde la relazione con Dio
(grazia). Al venir meno della relazione con Dio si accompagna un disordine della natura e, in
particolare, un disorientamento del desiderio (concupiscenza). L'uomo, che nello stato di
bontà originaria è teso alla scelta di Dio, l'unico vero Bene, immutabile, totale, è dirottato dal
peccato verso un bene parziale, mutabile. Il peccato di Adamo inserisce nel mondo uno stato
di disordine cui partecipano tutti gli uomini.
412
AGOSTINO, Il castigo e il perdono dei peccati e il battesimo dei bambini, I,26,39.
ID, La grazia di Cristo e peccato originale, II,24,28.
414
ID, La Trinità, X,5,7.
413
Antropologia Teologica 2009-2010
150.
«Da Adamo [noi siamo nati altrettanti] Adamo e su un tale Adamo ha proliferato una
moltitudine di peccati. Ogni uomo che nasce, nasce [nella condizione di] Adamo: da lui dannato
[nasce] dannato. E per giunta, vivendo male, aggiunge colpe alla colpa di Adamo»415.
Adamo trasmette agli uomini una “natura viziata... mutata in peggio”. In ragione di questa
situazione l'uomo è vittima e complice del male che lo raggiunge.
Agostino sottolinea talmente il legame tra peccato e conseguenze che ne derivano da
considerare peccato il disordine da esso provocato, la concupiscenza416, la quale si trova a
essere ad un tempo “figlia” (in quanto originata dal peccato di Adamo) e “madre” (in quanto
causa dei peccati personali) del peccato.
3. Il collegamento della tematica del peccato con quella soteriologica e cristologica, se da
un lato consente di leggere correttamente il pensiero di Agostino sul peccato originale,
dall'altro offre il punto di partenza per una critica dei limiti e delle ambiguità della riflessione
agostiniana. Le insufficienze della posizione agostiniana sono una ripercussione delle
insufficienti concezioni di Cristo e della salvezza. In Agostino il tema cristologico è successivo
al tema di Dio come sommo Bene e al tema del peccato come distrazione dell'uomo dal
sommo Bene verso i beni parziali.
La riflessione su Gesù Cristo e sulla grazia, invece di riplasmare dall'interno il tema di Dio e
del peccato viene da questi influenzata e limitata.
Le insufficienze determinano ambiguità nella dottrina della predestinazione e nel
discorso sul peccato originale: un legame degli uomini con Adamo precedente al loro legame
originario con Cristo e un rifiuto peccaminoso di Dio sommo Bene, che prescinde
dall'originario piano cristocentrico della salvezza, dove Dio mostra in che senso Egli è,
storicamente, sommo Bene, tendono a presentarsi come affermazioni a sé stanti, prive di un
autentico contenuto cristiano, esposte al rischio di accogliere contenuti eterogenei. Una loro
cristianizzazione, a partire solo dalla successiva opera redentrice di Cristo, non riesce a
permearle pienamente della luce cristologica.
Gli interventi del magistero
Segnaliamo i Sinodi di Cartagine (418) e di Orange (529).
* Il Sinodo generale africano, svoltosi a Cartagine alla presenza di duecento vescovi,
promulga 9 canoni che concludono praticamente la controversia pelagiana. Tre le affermazioni
fondamentali: la necessità del battesimo dei bambini a motivo del peccato originale, la
necessità della grazia per osservare i comandamenti, la peccaminosità universale. Riferiamo
sulla prima e terza affermazione, rimandando, per la seconda, a quanto è stato esposto nel
capitolo sulla grazia.
In merito alla prima affermazione (can 2, DS 223): i neonati vanno battezzati «per la
remissione dei peccati», «anche se essi sono nati da genitori battezzati». E’ un errore quindi
ritenere che essi «non contraggono dal peccato originale di Adamo alcuna cosa che vada
cancellata nel lavoro della rigenerazione» per ottenere la vita eterna. Il Sinodo, tuttavia,
limitandosi ad affermare che nei neonati bisogna «purificare con la rigenerazione quel che essi
hanno contratto con la generazione», «non adotta la dottrina agostiniana del peccato in tutta la
sua estensione»417.
Trattando della peccaminosità universale il Sinodo sostiene che il peccato resta
nell'uomo giustificato un dato esperienziale.
415
ID, Esposizione sui Salmi, 132,10.
Cfr G. SFAMENI GASPARRO, Il tema della concupiscenza in S. Agostino e il tema della enkrateia, in
“Augustinianum” 25 (1985) 155-183.
417
A. GANOCZY, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, 128.
416
Antropologia Teologica 2009-2010
151.
* Orange definisce il peccato originale come passaggio dall'amicizia all'inimicizia con
Dio e come violazione della legge del Dio Creatore (DS 371). Le conseguenze:
- «Tutto l'uomo, cioè nel corpo e nell'anima, fu trasformato in peggio»;
- Il peccato originale «non danneggia solo Adamo (come individuo) bensì anche la sua
discendenza» (DS 372).
Le decisioni sinodali evidenziano tre aspetti che resteranno acquisiti nella storia del
dogma del peccato originale: la sua natura, il modo di acquisizione (mediante la trasmissione
da Adamo) e le sue conseguenze.
L'espressione “peccato originale” diventa espressione tecnica per indicare il peccato che
riguarda l'intera umanità (“peccato originato”). Il suo rapporto con il peccato delle origini
(“peccato originante”) è espresso con le parole “ricevere da Adamo”.
L'acquisizione più importante guadagnata con l'espressione “peccato originale” è che ogni
uomo che nasce contrae questo peccato.
Medioevo418
Nella teologia medioevale c'è un formale consenso sull'ammissione di un vero e proprio
peccato, presente in ogni uomo, prima dei peccati personali. Il consenso viene meno
nell'interpretare la peccaminosità di tale peccato. Due gli orientamenti fondamentali:
* Il primo orientamento si muove nella linea dell'agostinismo (scuola di Laon, scuola
francescana), fa consistere la peccaminosità del peccato originale nella situazione di miseria in
cui ogni uomo nasce, come situazione di concupiscenza, di avversione a Dio. Tale corrente
tende a identificare la peccaminosità del peccato originale con quella dei peccati personali
(univocità). Qui il rapporto con Adamo è solo genetico, interessa cioè solo per spiegare come
si trasmette il peccato.
* Il secondo orientamento, preparato nelle scuole abelardiana, e porretana, diventa
indirizzo ufficiale della scuola nominalista: la peccaminosità del peccato originale non sta nella
situazione di miseria in cui ogni uomo si trova (questa semmai è penosa non peccaminosa), ma
nel peccato di Adamo, di cui tutti diventano partecipi, perché per positivo decreto divino,
Adamo è costituito rappresentante giuridico dell'umanità. La situazione, intesa come
l'attribuzione giuridica agli uomini di una situazione di colpa che si trova solo in Adamo
(mentre negli uomini è realmente presente solo come situazione di pena), non s’identifica con
la condizione causata dalle colpe personali (equivocità). Qui il rapporto con Adamo oltre che
genetico è anche costitutivo, perché spiega non solo la trasmissione, ma anche l'essenza del
peccato.
Ambedue le interpretazioni, che si mostrano «più solide nella confutazione dell'opinione
contraria, che nella dimostrazione della propria»419, presentano delle difficoltà: l'ammissione di
un vero peccato, precedente i peccati personali, in bambini non ancora capaci di compiere un
atto personale (I orientamento); l'ammissione di un peccato fatto per procura (II
orientamento). La mediazione più equilibrata tra gli orientamenti è costituita dalla riflessione di
Tommaso, preparata in un certo senso da Anselmo d'Aosta.
Per Anselmo il peccato originale non consiste nel cadere sotto il dominio della
concupiscenza, ma nel perdere la rettitudine naturale (iustitia naturalis), tanto da riguardare la
natura umana come tale. Per questo l'uomo attuale si differenzia dall'uomo del paradiso
terrestre perchè impegnato unicamente a cercare il proprio interesse (voluntas commodi), invece
418
419
Cfr FLICK-ALSZEGHY, Peccato, 110-115.
M. FLICK-Z. ALSZEGHY, Peccato, 120.
Antropologia Teologica 2009-2010
152.
di tendere ai valori oggettivi (voluntas iustitiae). Per spiegare la trasmissione del peccato originale
«si ricorre all'idea che Adamo sia una sorta di universale ontologico (anziché solo
gnoseologico), che include l'intera umanità»420.
«Così, in Adamo, abbiamo tutti peccato quando egli ha peccato, non perché avremmo peccato
allora, noi che ancora non c'eravamo, ma perché avremmo avuto origine a partire da lui. Da
questo venne a noi la necessità di peccare quando ci saremmo stati, perché “per la disobbedienza
di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori”»421.
S. Tommaso distingue nell'essenza del peccato originale un elemento materiale (la concupiscenza) e un elemento formale (la mancanza di giustizia originale che caratterizza i
discendenti di Adamo). La natura della giustizia originale è intesa come perfetto ordine e
armonia delle componenti e delle forze dell'uomo, per la presenza della grazia santificante. Le
qualità dell'uomo perse col peccato (immortalità, integrità...) sono intese come autentici doni
preternaturali, cioè quali frutti ed effetti della grazia posseduta da Adamo, il quale, in quanto,
creato adulto, acconsentì liberamente al dono di Dio fin dal primo momento della sua
comparsa (S Th I,q 95, a 1).
Tommaso lega la trasmissione del peccato alla realtà dell'unità della famiglia umana, per cui
ogni uomo appartiene alla discendenza di Adamo.
«Tutti gli uomini che nascono da Adamo possiamo considerarli come un solo uomo [...] Infatti la
moltitudine umana derivata da Adamo è come le membra di un solo corpo. E' dunque così che il
disordine che si trova in questo individuo generato da Adamo è volontario, non per sua volontà
in quanto figlio di Adamo, ma per quella del suo primo padre, che imprime un movimento,
nell'ordine della generazione, a tutti quelli della sua specie, come fa la volontà dell'anima a tutte
le sue membra nell'ordine dell'azione [...] Ugualmente, il peccato originale non è il peccato di tale
persona in particolare che nella misura in cui essa riceve la sua natura dal primo padre ed è
chiamato, a causa di ciò, peccato della natura, nel senso in cui l'Apostolo dice: “Eravamo per
natura meritevoli d'ira” (Ef, 2,3)»422.
In tal modo il peccato volontario della persona di Adamo diventa un peccato di natura per
l'umanità. A sua volta la natura, segnata dal peccato, che ogni uomo riceve, diventa fonte dei
suoi peccati personali. Tommaso tratta questa dialettica esplicitamente opponendola al
movimento contrario della salvezza in Gesù Cristo.
«Il peccato originale si è diffuso in tal modo che è anzitutto la persona che ha ferito la natura,
poi però la natura ha infettato la persona. Il Cristo, inversamente, risana dapprima ciò che
appartiene alla persona e quindi, più tardi, e in tutti nel medesimo tempo, risanerà ciò che
appartiene alla natura»423.
La difficoltà della teologia medioevale a dire concordemente l'essenza del peccato originale
impone di «rivedere il presupposto pacifico di questa teologia, e cioè la significanza univoca
della peccaminosità della situazione disagevole in cui si trovano gli eredi di Adamo. Occorre
elaborare una concezione analogica, in cui la trasposizione analogica sia operata non a partire
da aprioristiche definizioni di peccato, ma dall’interpretazione di quei dati storici, che la
rivelazione offre circa il piano di Dio e il rifiuto di questo piano da parte dell'umanità. La
scolastica medievale ha faticato a elaborare questa concezione analogica perché è partita più
dal dogma che dalla Scrittura, senza una sufficiente strumentazione ermeneutica che
420
421
G. GOZZELLINO, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo, Torino 1985, 454.
ANSELMO, La concezione verginale e il peccato originale, 7, in L'opera di Anselmo di Canterbury, IV, ed. Fr. A
cura di M. Corbin, Paris 1990, 153.
422
STh, Ia-IIae, q 82, a 1.
423
ID, IIIa, q 69, a 4.
Antropologia Teologica 2009-2010
153.
permettesse di cogliere, in tutte le sue sfumature, il dogma nella sua funzione di lettura,
parziale e orientativa, del dato rivelato»424.
La teologia moderna
Per la Riforma rimandiamo alle pp 130-135 (nn 1-2)
Concilio di Trento
Il decreto “De peccato originali” (sessione V)425
Per la gran parte degli studiosi il Concilio non intende affrontare la questione del
peccato originale in tutta la sua vastità e implicazioni, ma come premessa al tema della
giustificazione: per parlare della riabilitazione dell'uomo si deve partire dalla sua condizione
storica di peccato. I padri conciliari infatti non trattano la questione della natura del peccato
originale né dello stato originario di Adamo; non entrano nel problema, dibattuto da una certa
letteratura controversistica, della misura della partecipazione degli uomini al peccato di
Adamo; non si preoccupano di chiarire il rapporto tra peccato personale e peccato originale né
di precisare, in relazione alla tematica della libertas/liberum arbitrium, la corruzione dell'uomo
segnato dal peccato; non prendono posizioni su questioni di scuola (riguardo per esempio
all'identificazione del peccato originale, dove emergono due posizioni, quella che, a partire da
Agostino, attraverso Pier Lombardo, identifica tendenzialmente il peccato originale con la
“concupiscenza” e quella, che, a partire da Anselmo, lo risolve nella privazione della “giustizia
originaria”).
Oltre che trattare gli aspetti dottrinali rilevati dai protestanti, riguardo agli effetti del
peccato originale e l'efficacia del rimedio portato da Cristo, il Concilio sottolinea la rilevanza
del peccato originale, ribadendone l'esistenza, evidenziando le conseguenze sulla vita umana,
per smentire l'accusa di pelagianesimo mossa dai protestanti. Dei 5 canoni dedicati alla
questione i primi 4 ripropongono l'insegnamento tradizionale della Chiesa, aggiornato alle
presenti necessità; il 5° affronta il tema della giustificazione, mai affrontato prima dal
magistero.
Canoni 1-4
Il 1° (DS 1511) parla di Adamo che, trasgredendo il comando di Dio, perde lo stato
originario di santità e giustizia, causa l'ira di Dio, la sottomissione a Satana, il deterioramento
dell'uomo.
«Se qualcuno non ammette che il primo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di
Dio, ha perso all'istante la santità e la giustizia nelle quali era stato stabilito e che, per questo
peccato di prevaricazione, è incorso nell'ira e nell'indignazione di Dio, e perciò nella morte, che
Dio gli aveva minacciato in precedenza, e, con la morte nella schiavitù di colui che poi della morte
424
L. SERENTHÀ, Peccato, 684.
Cfr Z. ALSZEGHY- M. FLICK, Il decreto tridentino sul peccato originale, “Gregorianum” 52 (1971) 595635; ID, Il peccato originale, 129-173; F. BUZZI, Concilio di Trento, 47-70. In una linea storica; R.
GIBELLINI, La generazione come mezzo di trasmissione del peccato originale del decreto tridentino “De peccato
originali”, “Studia Patavina” (StPat) 3 (1953) 389-420. In una linea ermeneutica: K. RAHNER, Riflessioni
teologiche sul monogenismo, “Saggi di antropologia sopranaturale”, Paoline, Roma 1965, 187-198; A.
VANNESTE, Le décret du Concile de Trente sur le péché originel, NRTh 87 (1965) 688-726; 88 (1966) 581-602;
ID, Le péché originel est-il un péché historique?, in Message et Mission, Louvain 1968, 129-154; P.
SCOONENBERG, Dal peccato alla redenzione, Roma 1970, 39-56; ID, L'uomo nel peccato, MS IV, 589-715.
425
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154.
ha il potere, cioè il diavolo [Eb 2,14]; e che tutto l'Adamo per quel peccato di prevaricazione fu
mutato in peggio sia nell'anima che nel corpo; sia anatema».
Il 2° (DS 1512), contestando la dottrina di Zwingli, per il quale il peccato originale presente
nei discendenti di Adamo non è vero e proprio peccato, ma piuttosto una “malattia” (morbus),
dichiara che «Adamo trasmise a tutto il genere umano (non) solo la morte e le pene del corpo,
(ma) anche il peccato, che è la morte dell'anima».
«Se qualcuno afferma che la prevaricazione di Adamo nocque a lui solo, e non anche alla sua
discendenza; che perse soltanto per sé, e non anche per noi, la santità e la giustizia ricevute da
Dio; o che egli, corrotto dal peccato di disobbedienza, trasmise a tutto il genere umano solo la
morte e le pene del corpo, e non anche il peccato, che è la morte dell'anima; sia anatema.
Contraddice infatti l'Apostolo, che afferma: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con
il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché in lui tutti hanno peccato. [Rom
5,12]».
Il 3° (DS 1513) tratta del rimedio al peccato originale: il merito di Gesù Cristo, unico
mediatore, conferito mediante il battesimo.
«Se qualcuno afferma che questo peccato di Adamo, che è uno solo per la sua origine e,
trasmesso mediante la generazione, e non per imitazione, a tutti, inerisce a ciascuno come
proprio, può essere tolto con le forze della natura umana, o con altro rimedio, al di fuori dei
meriti dell'unico mediatore, il signore nostro Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio nel suo
sangue (cfr Rom 5,9-10), diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione (1Cor 1,30); o nega che
lo stesso merito di Gesù Cristo sia applicato tanto agli adulti che ai bambini mediante il
sacramento del battesimo amministrato secondo la forma e l'uso della chiesa: sia anatema.
Perché non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati (At
4,12). Da qui deriva l'espressione: Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29) e
l'altra: Tutti voi che siete battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo (Gal 3,27)».
Il 4° si oppone a chi nega il battesimo dei bambini o lo ammette solo per i figli dei non
battezzati o non lo riferisce al peccato contratto da Adamo.
«Se qualcuno nega che i bambini appena nati debbano essere battezzati, anche se figli di genitori
battezzati, oppure sostiene che vengono battezzati per la remissione dei peccati, ma che non
ereditano da Adamo niente del peccato originale che sia necessario purificare col lavacro della
rigenerazione per conseguire la vita eterna, per cui nei loro confronti la forma del battesimo per
la remissione dei peccati non deve essere ritenuta vera, ma falsa: sia anatema. Infatti quello che
dice l'Apostolo: a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte, così anche la
morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (Rom 5,12), deve essere inteso nel senso in
cui la chiesa cattolica universale l'ha sempre interpretato. Per questa norma di fede secondo la
tradizione apostolica anche i bambini, che non hanno ancora potuto commettere da sé alcun
peccato, vengono veramente battezzati per la remissione dei peccati, affinché in essi sia
purificato con la rigenerazione quello che contrassero con la generazione. Se, infatti, uno non nasce
da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)».
Il quadro teologico che emerge dai 4 canoni è fondamentalmente agostiniano e ispirato
dalla volontà di cautelarsi dalle accuse di pelagianesimo.
Gli elementi dottrinali del quadro:
- Il peccato di Adamo, capostipite dell'umanità, coinvolge i suoi discendenti, i quali,
quindi, nascono contaminati dal peccato del progenitore.
- Il coinvolgimento avviene per “propagazione”, nel senso che i discendenti di Adamo
contraggono il suo peccato per “generazione”, non per “imitazione”.
La tesi va colta «non tanto in riferimento alla determinazione di una particolare "modalità di
trasmissione" (intenzione che certamente non fu al centro delle preoccupazioni del concilio),
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155.
quanto piuttosto in rapporto alla volontà dei padri di garantire, come insuperabile, il rapporto
che ogni uomo intrattiene con Adamo, capo stipite dell'umanità, quale condizione necessaria
per mantenere il rigoroso parallelismo paolino Adamo-Cristo, dunque ultimamente in funzione della tesi dell'unica mediazione salvifica universale di Cristo»426.
- L'in quo di Rom 5,12 («[...] in quo omnes peccaverunt»), su cui si basa l'argomentazione
conciliare è inteso, in sintonia con la tradizione agostiniana, come un pronome relativo.
Il senso antropologico complessivo cui sembrano orientati i tre elementi dottrinali «è
appunto quello di affermare la reale esistenza, l'universale diffusione e il dominio del peccato,
nel quale resta coinvolto ogni essere vivente che venga al mondo come figlio di Adamo, cioè
come uomo»427.
Canone 5° (DS 1515)
Il Concilio si oppone alla tesi luterana del peccatum remanens (la concupiscenza), che resta
nel battezzato dopo la giustificazione, come vero peccato; afferma la radicale estirpazione di
tutto ciò che è peccato, rifiutando una cancellazione superficiale o una semplice non
imputazione. Le conseguenze che ne derivano:
- Il battezzato è profondamente trasformato nel proprio essere, tanto che “Dio non
trova in esso nulla da odiare”;
- La concupiscenza che resta nel battezzato non è vero e proprio peccato; diventa
peccato solo per chi vi acconsente. La si può considerare peccato solo impropriamente, in
quanto «ha origine dal peccato e ad esso inclina».
«Se qualcuno nega che per la grazia del signore nostro Gesù Cristo, conferita nel battesimo, sia
tolta la macchia del peccato originale, o se sostiene che tutto quello che è vero e proprio peccato
non viene tolto, ma solo cancellato o non imputato: sia anatema. In quelli infatti che sono rinati
Dio non trova nulla da odiare, perché non vi è nessuna condanna per coloro che mediante il
battesimo sono stati veramente sepolti con Cristo nella morte (cfr Rom 6,4), i quali non camminano
secondo la carne (Rom 8,1), ma spogliandosi dell'uomo vecchio e rivestendosi del nuovo (cfr Col
3,9-10; Ef 4,24), creato secondo Dio, sono diventati innocenti, immacolati, puri, senza macchia,
figli diletti di Dio, eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rom 8,17); di modo che assolutamente nulla li
trattiene dall'entrare in cielo. Questo santo sinodo professa e ritiene tuttavia che nei battezzati
rimane la concupiscenza o passione; ma, essendo questa lasciata per la prova, non può nuocere a
quelli che non vi acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo.
Anzi, non riceve la sua corona se non chi ha lottato secondo le regole (2Tim 2, 5). Il santo
sinodo dichiara che la chiesa cattolica non ha mai inteso che questa concupiscenza, che talora
l'apostolo chiama peccato (cfr Rom 7, 14.17.20) fosse definita peccato, in quanto è veramente e
propriamente tale nei battezzati, ma perché ha origine dal peccato e ad esso inclina. Se qualcuno
crede il contrario: sia anatema».
Rilievi
Il concilio di Trento riguardo al peccato originale definisce:
1. L'esistenza di un vero e proprio peccato non solo in Adamo, ma anche nei suoi discendenti.
2. Questo peccato comporta non solo la perdita dell'immortalità e la degradazione di tutto
l'uomo, ma anche la perdita della “santità e giustizia” originarie e conseguentemente “l'ira e
l'indignazione di Dio”.
426
427
F. BUZZI, Il Concilio di Trento, 51.
ID, 52.
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156.
3. Il peccato originale viene realmente rimesso nel battesimo. Per cui la concupiscenza che
resta nei battezzati, non può ritenersi un vero e proprio peccato.
4. E' discusso se sia definita la trasmissione “per generazione”, oltre che non “per imitazione”.
Da questo inventario sembra emergere che il concilio di Trento chiude solo il problema
dell'esistenza del peccato originale, lasciando aperti gli altri connessi con questo. In particolare:
- Resta aperto il problema della natura del peccato originale, in quanto il Concilio, da un lato
non ha voluto entrare nelle questioni di scuola, tra le quali c'era proprio quella della natura del
peccato originale, dall'altro, ha offerto solo indicazioni che, in ultima analisi, si riferiscono
all'affermazione dell'esistenza del peccato originale.
- Conseguentemente resta aperto il problema della condizione originaria dell'uomo, perché si
parla di uno stato “privilegiato”, senza indicarne gli elementi costitutivi.
- Rimane inoltre aperto il problema della condizione attuale dell'uomo, dato che il Concilio si
limita a respingere la tesi protestante della corruzione radicale del libero arbitrio,
contrapponendole l'affermazione di una “attenuazione”, non meglio definita, del libero
arbitrio nell'attuale condizione dell'uomo.
La prospettiva dominante dell'esposizione del decreto sul peccato originale è
amartiologica, dà rilievo cioè alla condizione storica dell'uomo peccatore. Il peccato dell'uomo
è considerato però solo in funzione dell'azione mediatrice di Gesù Cristo (cfr can 3°), il quale
mantiene una posizione di preminenza. Il primato cristologico sembra però condizionato dal
radicale amartiocentrismo del discorso tridentino, nel senso che «il primato di valore e di senso
di Gesù Cristo viene riconosciuto solo a partire dal peccato dell'uomo, tanto è vero che manca
qualsiasi sviluppo, anzi è del tutto assente anche qualsiasi semplice accenno alla sua ordinaria
azione mediatrice, dunque ai temi principali della sua preesistenza, del suo essere inizio e fine
di ogni progetto di Dio; coerentemente manca anche qualsiasi attenzione alla prospettiva paolina e poi patristica della “ricapitolazione” in lui di tutte le cose»428.
Trento ripropone quindi un modello cristologico plurisecolare, ereditato da Agostino,
Anselmo di Canterbury e da gran parte della scolastica medioevale, dove «quanto più la
redenzione è vista in relazione al peccato, tanto più il ruolo di Cristo si restringe a liberare
l'uomo dalla sua natura corrotta»429.
Orientamenti della teologia recente430
428
429
ID, 66-67.
C. LEONARDI (a cura di), Il Cristo, vol III: testi teologici e spirituali in lingua latina da Agostino ad Anselmo
di Canterbury, Fondazione Valla, Milano 1989, XVIII.
Cfr B. MONDIN, Il peccato originale nella teologia contemporanea, “Euntes docete” 30 (1977) 50-84; A
VANNESTE, Le péché originel. Vingt-cinq ans de controverses, EThL 56 (1980) 139-146; G. GOZZELLINO,
Vocazione e destino dell'uomo in Cristo. Saggio di antropologia teologica fondamentale (Protologia), op cit, 467-482; S.
WIEDENHOFER, Forme principali dell'attuale teologia del peccato originale, “Communio” 118 (1991) 8-24; G.
COLZANI, Il peccato originale oggi: prospettive teologiche e indicazioni didattiche, in A.T.I., Questioni sul peccato
originale, Messaggero, Padova 1996, 219-231; F.G. BRAMBILLA, La questione teologica del peccato originale,
ScCatt 126 (1998) 468-523. La Ia parte del saggio presenta e valuta la proposta di tre autori - A.
Vanneste (pp 473-485); A. Villalmonte (pp 486-505); W. Pannenberg (pp 505-523) - che, a giudizio di
Brambilla, sono significativi «per disegnare il senso del rapporto tra cristologia e antropologia
(teologica) sul nostro tema... Tutti in qualche modo sembrano assumere come criterio metodologico il
primato della solidarietà in Cristo: ma è ancora differente l'esecuzione del principio della antecedenza
della chiamata in Cristo di tutti gli uomini rispetto alla considerazione del peccato», 525; F.
SCANZIANI, Solidarietà in Cristo e complicità in Adamo. Il peccato originale nel recente dibattito in area francese,
Glossa, Milano 2001; F.G. BRAMBILLA, Antropologia teologica, op cit 530-537.
430
Antropologia Teologica 2009-2010
157.
Il quadro della teologia attuale è costituito dalle contestazioni provenienti dalla stessa
riflessione credente e dal confronto con le istanze della cultura; entrambe le provocazioni
convergono sulla questione dell'identità del peccato originale.
La riflessione credente, riscoperta la centralità della S. Scrittura, si chiede «qual'è il contenuto
proprio e specifico della dottrina ecclesiale del peccato originale quando le affermazioni al
riguardo, in apparenza non vincolanti, al tempo della teologia neoscolastica non vengono
semplicemente confermate né dalla tradizione riscoperta, né dalla Scrittura interpretata con
metodo storico-critico?»431.
Le nuove visioni dell'origine dell'umanità e della responsabilità personale contestano la
concezione tradizionale del peccato originale. Le teorie scientifiche sull'origine dell'umanità
contestano il modo tradizionale di pensare l'atto peccaminoso primitivo e il suo collegamento
con la situazione peccaminosa degli uomini; le concezioni filosofiche sulla persona contestano
la peccaminosità di un peccato ereditario, dipendente dalla trasmissione della natura e non da
un atto personale.
La teologia cerca, in dialogo con tali sollecitazioni, di ricomprendere il significato della
verità cristiana espressa dal dogma del peccato originale. Un decisivo contributo alla
riflessione è stato dato dagli studi biblici.
L'esegesi di Westermann432 e gli apporti di Alonso-Schökel433 hanno spostato l'interesse dal
dato sulla protologia all'universalità e solidarietà del peccato.
Gli studi di teologia paolina su Cristo, secondo (vero) Adamo434 hanno portato ad
abbandonare la trattazione a sé stante dell'opera di Adamo per individuare nella conformità a
Cristo e alla sua grazia la relazione originaria (ontologica) a partire dalla quale pensare l'uomo.
Il risultato è la comprensione della peccaminosità umana come un responsabile contrapporsi a
Cristo.
La lettura di questa peccaminosità universale è svolta sulla base delle sollecitazioni
culturali del nostro tempo, che possono essere ricondotte a tre: la sottolineatura della
dimensione sociale del peccato (1), il ricupero del personalismo e delle sue strutture di
responsabilità (2), il dialogo con la psicanalisi sulla base della nozione di colpevolezza (3).
1. La sottolineatura della dimensione sociale del peccato originale si ritrova nella tesi
del “peccato del mondo”435, con la quale è evidenziato non tanto la somma dei peccati
personali, quanto piuttosto una situazione comunitaria, intesa come solidarietà di male, capace
di condizionare profondamente l'esistenza di una persona.
Espressioni di questa sottolineatura sono la lettura del peccato originale proposta dalla teologia
latino-americana della liberazione e dalla teologia femminista.
Per la teologia della liberazione436 l'ingiustizia e la violenza socialmente istituzionalizzate, che
da una parte sono conseguenza di comportamenti peccaminosi individuali e dall'altra
influiscono negativamente sul comportamento del singolo, sono una forma di manifestazione
del peccato, un peccato strutturale e sociale.
431
S. WIEDENHOFER, Forme principali dell'attuale teologia del peccato originale, art cit, 9.
Cfr C. WESTERMANN, Genesis 1-11, Neukirchen-Vluyn 1976.
433
Cfr A. SCHÖKEL, Motivos sapienciales y de alianza en Gen 2-3, art cit, 295-316.
434
Cfr K. BARTH, Christus und Adam nach Röm 5, Zürich 1952; P. LEGENSFELD, Adam und Christus,
432
Essen 1965.
Cfr K. H. SCHELKLE, Ereditarietà della colpa, Queriniana, Brescia 1969; P. SCHOONENBERG, La
potenza del peccato, Queriniana, Brescia 1970; ID, Dal peccato alla redenzione, Roma-Brescia 1970; L.
RENWART, Péché d'Adam et péché du monde, NRTh 113 (1991) 535-542.
436
Cfr G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, (= BTC 11), Queriniana, Brescia 19722; P. WATTE' e
ALTRI, Péché collectif et responsabilité, Bruxelles 1986; M. SCHOOYANS, Dérives totalitaires et “structures de
péché”. A propos de l'encyclique “Sollicitudo rei socialis”, NRTh 110 (1988) 481-502.
435
Antropologia Teologica 2009-2010
158.
Il discorso del peccato sociale o delle strutture di peccato è svolto anche in alcuni recenti
interventi del magistero437.
La teologia femminista438 considera il “patriarcato” (il sistema socialmente,
economicamente e culturalmente istituzionalizzato della gerarchia dei sessi con le negative
conseguenze su uomini e donne) e, analogamente, il sessismo, come peccato originale,
risultato del peccaminoso comportamento umano, che produce strutture deformate di
rapporti tra uomini e donne, basate appunto su una gerarchia sessista.
2. Il ricupero del personalismo e delle sue dinamiche di responsabilità439 indica nel
rapporto con Dio la relazione fondamentale e strutturale della persona. Il peccato originale
interferisce su quell'orizzonte spirituale in cui si forma la libertà personale e lo configura come
orgoglioso rifiuto di Dio e come pretesa di autosoteria.
3. Il dialogo con la psicoanalisi440 porta a identificare il peccato originale come
disperazione, angoscia (Angst), legata all'assenza di Dio nella vita dell'uomo, che, per questo,
risulta esistenza fallita.
Questa disperazione è “colpa” per l'uomo, perché risulta dalla decisione della sua libertà di
sottrarsi a Dio. E' la tesi di E. Drewermann, per il quale l'angoscia è ciò che rende cattivi:
«l'uomo come essere autoconsapevole non può sopportare la sua propria esistenza senza Dio e
che da questa insopportabilità insorgono di necessità tutte le forme del male come processo di
un disperato autostordimento e di una disperata autodistruzione»441. La colpa dell'uomo quindi
«è quella di crollare e perdersi per Angst in una vita senza Dio in questa Angst e nella “miseria”
della sua esistenza»442.
Nella prospettiva di un'iniziale valutazione indichiamo i punti critici evidenziati dalle
sollecitazioni culturali. La dinamica culturale e quella personalista «tendono ad assorbire il
carattere storico del peccato originale, considerato come esteriore alla persona, fino a
connetterlo meglio ai dinamismi di quest'ultima»443. Impegnata a correlare peccato originale e
libertà questa linea tende a risolvere il peccato in cui nasce ogni uomo in una determinazione
della libertà personale, che appare come libertà ferita.
Il dialogo con la psicoanalisi mette in discussione la “peccaminosità” del peccato, in quanto,
presentandolo come un esistenziale, lo considera come una dimensione profonda della
persona. Tale lettura «ne rifiuta la storicità non solo protologica, ma anche personale: il
peccato originale coincide con le modalità oscure della libertà umana»444.
Il problema che emerge è se il confronto culturale così come è andato svolgendosi favorisce o
stravolge una fedele ricomprensione del dogma. La risposta alla questione rimanda alla
corretta inquadratura teologica del peccato originale.
437
Cfr GIOVANNI PAOLO II, Reconciliatio et poenitentia, n 16; Sollicitudo rei socialis, nn 36ss.
Cfr M. DUMAIS, La conception du péché chez les théologiennes féministes, in A. METTA-YER-J. DOYON (ed),
Culpabilité et péché. Etudes antropologiques, théologiques et pastorales, Montreal 1986, 139-159.
439
Cfr A. VANNESTE, Le dogme du péché originel, Louvain-Paris 1971; M. FLICK- Z. ALSZEGHY, Il peccato
originale.
440
Cfr P. GUILLUY (a cura di), La culpabilité fundamentale, Gembloux, Lille 1975; P. GRELOT, Péché
originel et Rédemption examinés à partir de l'epître aux Romains, Desclée, Paris 1973.
441
E. DREWERMANN, Strukturen des Bösen, parte 3, LXI.
442
ID, LXI.
443
G. COLZANI, Il peccato originale oggi: prospettive teologiche e indicazioni didattiche, in A.T.I, Questioni sul peccato
originale, op cit, 224.
444
ID., 225.
438
Antropologia Teologica 2009-2010
159.
La dottrina cattolica
I punti che la fede riconosce come normativi riguardano lo stato di miseria, la sua
peccaminosità, la sua connessione con il peccato di Adamo.
- Lo stato di miseria
Fermiamo l'attenzione sull'elemento essenziale della condizione di miseria, sul quale la
dottrina cattolica fa affermazioni di tipo negativo e positivo.
* Affermazioni negative
- Non è la concupiscenza presente nei battezzati (de fide definita; cfr Trento);
- non è solo la concupiscenza che c'è nei non battezzati (teologicamente certa);
- non è una morbida qualitas proposta da alcuni teologi, che dal corpo passa all'anima e si
manifesta come concupiscenza (dottrina certa: oltre la sua insostenibilità filosofica, la morbida
qualitas è condannata nella misura in cui coincide con la concupiscenza).
* Positive
- È morte dell'anima e inimicizia con Dio, poiché privazione della santità e giustizia originale
(de fide definita);
- è privazione della grazia santificante (teologicamente certa in relazione al nesso stabilito tra
morte dell'anima e privazione della grazia santificante e tra giustizia originale e grazia
santificante).
- La vera peccaminosità
Il Magistero afferma la vera peccaminosità, senza indicarne la natura. Nella dottrina
cattolica si trova un accenno che spiega la natura peccaminosa del peccato originale riferendola
alla cattiva volontà di Adamo. Infatti è stata condannata la posizione di Baio (DS
1946.1947.1948): la peccaminosità del peccato originale consiste nel fatto che i bambini non
emettono una volontà contraria alla concupiscenza presente in loro e non invece nel fatto che
il peccato originale presente in loro deve essere riferito alla volontà di Adamo da cui ha inizio.
Da questa condanna quindi deriva che il peccato originale nei figli di Adamo è un vero stato di
peccato solo in quanto dice relazione alla volontà negativa di Adamo.
- Connessione con il peccato di Adamo
Oltre alla connessione segnalata per comprendere la peccaminosità del peccato originale,
bisogna ammetterne un'altra riguardo alla trasmissione.
* Non si tratta di una semplice imputazione estrinseca del peccato di Adamo a ciascuno
di noi («omnibus inest unicuique proprium»: di fede definita, Trid. V, can 3, contro Pelagio, il quale
ritiene che il peccato originale non è qualcosa che è in noi, ma soltanto la prevaricazione di
Adamo, che non è in noi, ma solo in lui).
* Non c'è rapporto di semplice imitazione («non imitatione», di fede definita, Trid. V, can
3, contro Pelagio, ripreso da Erasmo almeno per l'esegesi di Rom 5,12).
* Il peccato è trasmesso per generazione: si è concepiti in stato di peccato, perché figli di
Adamo («sed per propagatione trasfusum», cfr Trid. V, can 3-4).
Per interpretare correttamente l'affermazione bisogna fare due rilievi:
Antropologia Teologica 2009-2010
160.
- per essere in sintonia col Magistero non è necessario affermare che la generazione è
causa del peccato originale (come tendevano a pensare alcuni padri e teologi scolastici), ma
basta riconoscere che ne rappresenta la condizione, nel senso che è il modo normale con cui
una persona riceve la natura umana, entrando così a far parte del genere umano.
- Si può pensare a altri modi, oltre la generazione, con cui un uomo entra in rapporto
con Adamo? Si tratta della questione del poligenismo (= derivazione del genere umano da
un'unica o più coppie).
La questione445 è provocata da un insieme di mutamenti: da un lato il superamento di
una visione fissista e l'imporsi di una concezione evoluzionista spinge la teologia ad
abbandonare una visione antropomorfica dell'azione creatrice, per considerarla come ampio
processo cui concorrono anche le cause seconde; dall'altro lato la riflessione sulle dinamiche
dell'ominizzazione che indica nel risveglio della libertà lo spartiacque tra l'istintualità animale e
la coscienza umana.
La conclusione a cui conducono queste prospettive è che gli inizi dell'umanità andrebbero
considerati come un lungo processo dove la presa di coscienza di sé come essere libero da
parte dell'uomo avviene grazie a una relazione interpersonale.
Da qui alcuni interrogativi: se il peccato originale sta in connessione con il risveglio della
libertà e con l'accesso alla coscienza di sé da parte dell'uomo, la sua universalità e la sua
trasmissione possono stare con l'affermazione di un'unica coppia originaria (monogensimo)?
L'unità biologica dell'umanità è da ritenere indispensabile presupposto per spiegare
l'universalità del peccato originale e della redenzione?
Il problema risulta nuovo e non può essere risolto ricorrendo semplicemente alle affermazioni
degli antichi Concili, Cartagine (418), Orange (529), Trento (1546), il quale, parlando del
peccato originale come «uno in quanto all'origine», si riferisce alle scuole del tempo, che non
erano certamente alle prese con il nostro problema.
Anche gli interventi recenti del Magistero - di Pio XII con l'enciclica Humani generis
(1950) e di Paolo VI con il discorso ai partecipanti a un Convegno internazionale sul peccato
originale (11.7.1966) e con la sua “Professione di fede” (1968) - non intendono chiudere la
questione. Pio XII ritiene che il monogenismo sia il presupposto logico del dogma del peccato
originale, per cui non ritiene che si possa affermare che
«dopo Adamo sono esistiti sulla terra dei veri uomini che non hanno avuto origine per
generazione naturale dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo
rappresenta l'insieme di molti progenitori» (DS 3897).
Il documento pontificio non esclude la possibilità del poligenismo, ma si limita a segnalare che
«non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le
fonti della rivelazione e gli atti del magistero della Chiesa insegnano circa il peccato originale,
che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente
e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio (Rm
5,12-19; Conc. Trid. sess. V, can. 1-9)» (DS 3897).
L'enciclica non afferma l'incompatibilità di questa opinione con la dottrina del peccato
originale, ma che non si vede come possa darsi una sua compatibilità, non escludendo che
successivi approfondimenti possano mostrarla.
Paolo VI invita i partecipanti al Convegno sul peccato originale a lavorare per «una
definizione e una presentazione del peccato originale che fossero più moderne, cioè più
445
Cfr K. RAHNER, Riflessioni teologiche sul monogenismo, ID., Saggi di antropologia soprannaturale, op cit., 169279; ID., Peccato originale ed evoluzione, “Concilium” 3 (1967), 6, 73-83; M. FLICK, Il poligenismo e il dogma del
peccato originale, ID., Problemi teologici sulla ominizzazione, “Gregorianum” 44 (1963) 62-70.
Antropologia Teologica 2009-2010
161.
soddisfacenti le esigenze della fede e della ragione, quali sono sentite e manifestate dagli
uomini della nostra epoca», riprendendo l'affermazione di Giovanni XXIII all'inizio del
concilio Vaticano II: «Altra cosa è il deposito della fede, vale a dire le verità contenute nella
nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse
tuttavia lo stesso senso e la stessa portata»446. Invita poi i teologi a usufruire di una vera libertà,
nella fedeltà alla Scrittura e al magistero ecclesiale.
Riferendosi a Trento espone i dati sicuri della dottrina: l'esistenza, l'universalità, l'origine del
peccato originale (la dipendenza dalla disobbedienza di Adamo); il peccato originale nell'uomo
è vero peccato, trasmesso non per imitazione ma per propagazione; è vera privazione, non
semplice carenza di santità, di giustizia. Viene ribadita l'inaccettabilità di un poligenismo o di
una teoria evoluzionista che esclude questi dati o non si accorda con essi.
Il papa include nella sua Professione di fede un paragrafo sul peccato originale, dove
ricapitola i dati della tradizione e dei concili con un linguaggio sobrio a livello di
rappresentazioni:
«Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui
commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa
porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all'inizio nei nostri
progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l'uomo non conosceva né il male né la
morte. E' la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue
proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini;
ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col concilio di
Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, “non per imitazione, ma
per propagazione”, e che esso “è proprio a ciascuno”».
Rispetto alla Humani generis Paolo VI rappresenta un passo avanti, perché mette sullo stesso
piano il poligenismo e la teoria della evoluzione, mentre l'enciclica li distingue; non parla di
generazione, ma di propagazione, lasciando ai teologi la libertà di spiegare la trasmissione del
peccato originale anche in senso diverso da quello della generazione; non insiste sull'unicità di
Adamo. Infine non sostiene (anche se non l'esclude) la derivazione monogenistica, lasciando
spazio a eventuali teorie in grado di accordarsi con la dottrina certa sul peccato originale.
In conclusione va ricordato che il poligenismo sotto il profilo teologico non può
costituire problema, in quanto la solidarietà col peccato di Adamo e la sua universalità si
fondano non sul fatto della generazione (solidarietà biologica), perché l'unità dell'umanità è
assicurata non tanto dall'unità biogenetica, quanto piuttosto dall'unità della vocazione in
Cristo, dall'unicità del piano divino.
Pertanto il poligenismo - che resta problema scientifico - se correttamente inteso non
contraddice la verità cristiana sul peccato originale.
Ripresa teologica447
1. La prospettiva critica fondamentale per la comprensione del peccato originale resta la
predestinazione di Cristo e la predestinazione degli uomini in Cristo: l'intenzione originaria di
Dio-Trinità di comunicare se stesso, dando origine alla realtà creata, è determinata in radice e
446
447
L' “Osservatore romano” del 16 luglio 1966, anno 106, n. 162.
Cfr G. COLOMBO, Tesi sul peccato originale, art cit, 264-276; I. BIFFI, La solidarietà predestinata di tutti gli
uomini in Cristo e la loro solidarietà in Adamo, art cit, 277-282; F.G. BRAMBILLA, La questione teologica del
peccato originale, art cit, 524-548; ID., L’antropologia teologica, op cit, 537-549.
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162.
“una volta per sempre” dal riferimento a Gesù Cristo (“predestinazione/creazione in Cristo”).
Conseguentemente Cristo non va introdotto dopo il peccato o “in occasione” del peccato (in tal
caso il peccato condizionerebbe Cristo; la prospettiva amartiologica condizionerebbe la
cristologia), ma prima, in quanto è Cristo che “condiziona” il peccato - non viceversa - non nel
senso di originarlo, ma nel senso di spiegarne la possibilità, le caratteristiche e la superabilità
(“incorporazione/ redenzione in Cristo”).
L'antecedenza della solidarietà con Cristo libera il tema del peccato originale da
un'eccessiva dipendenza nei confronti dell'impostazione agostiniana con la sua marcata
sottolineatura del peccato di Adamo come radice di una storia di male e con la “riduzione”
della predestinazione alla predestinazione dei soli eletti. Consente poi di non considerare la
grazia come aggiuntiva a una realtà antropologica già strutturata. Di fatto l'uomo - Adamo “creato in Cristo” (“in grazia”), ha commesso il peccato. La lettura sapienziale offerta dal
racconto della Genesi e la confessione pasquale di Paolo rivelano non solo che l'uomo è
immagine di Dio e conformato a Gesù, ma anche che fuori dall'immagine di Dio in Cristo,
l'uomo è fin dall'inizio peccatore e situato in una storia di peccato. Alla luce di quanto abbiamo
detto il peccato originale appare come l'atto (storia) della libertà creaturale che si sottrae a
compiersi in Cristo, a realizzarsi nella forma della libertà filiale di Gesù.
Questa decisione della libertà di sottrarsi a Cristo, pensando di compiere se stessa (autosoteria)
secondo il proprio disegno («nessun uomo può gloriarsi davanti a Dio», 1Cor 1, 29-30), non è
un gesto superficiale, ma coinvolge tutto l'uomo, fin nel suo cuore, e tutti gli uomini, fin dalla
loro origine (è la “potenza del peccato”, “la signoria della morte”). L'esito di questa decisione è
una libertà creaturale non più aperta a Dio, non più disponibile a realizzarsi secondo la forma
filiale di Gesù Cristo, ma incurvata su di sé, distorta, nelle sue scelte e nella sua possibilità
storica di volere; una libertà fallimentare, perché non realizza la ragione per cui esiste.
Il gesto peccaminoso dell'uomo non corrisponde al disegno creatore di Dio, né alla
condizione creaturale dell'uomo, immagine di Dio, né al suo destino di comunione filiale con
Dio in Cristo. Per questo non può modificare né stravolgere il piano di Dio-Trinità, quindi
sconvolgere il riferimento degli uomini a Cristo; può solo evidenziare il realizzarsi di una
possibilità - quella che l'uomo pecchi - dipendente dalla libertà creaturale. Il determinarsi di
questa possibilità fa di Cristo, il Figlio nel quale gli uomini sono creati come “figli di Dio”, non
solo il “creatore”, ma anche il “redentore/salvatore” degli uomini. In questa prospettiva la
dottrina del peccato originale «ha quindi rigorosamente un carattere “secondo” (perché viene
dopo la buona notizia della creazione in Cristo) e “penultimo” (perché viene prima e in vista della
redenzione in Cristo)»448.
2. La solidarietà di tutti gli uomini nel “peccato di Adamo”, che rappresenta la tesi
cattolica del peccato originale, comporta il riconoscimento in ogni uomo di uno stato di colpa
antecedente all'esercizio della propria libertà personale, quindi “ereditato” da Adamo. La tesi
va precisata.
- La solidarietà degli uomini “in Adamo” s'iscrive nell'originaria - antecedente solidarietà degli uomini “in Cristo” (tesi della predestinazione). Se la solidarietà degli uomini
“in Adamo” dipende dalla predestinazione degli uomini in Cristo, per essere compresa esige di
partire dalla solidarietà “in Cristo”, in quanto è la solidarietà “in Adamo” a «ricevere il suo
senso (ultimo) dalla solidarietà “in Cristo”»449 e non viceversa. La solidarietà degli uomini “nel
448
449
F.G. BRAMBILLA, La questione teologica del peccato originale, art cit, 547.
G. COLOMBO, Tesi sul peccato originale, art cit, 266.
«Adamo non è oggetto di predestinazione, al cui insuccesso succeda poi Gesù Cristo; Cristo è prima di
Adamo, che gli è in ogni caso “subordinato”... L'uomo non è compredestinato e imprendestinato in
Adamo ma in Gesù Cristo; allo stesso modo rispetto ad Adamo l'uomo è più desolidarizzato che
solidarizzato. In ogni caso Adamo non è mai stato costituito modello dell'uomo. Per cui tra “solidarietà
Antropologia Teologica 2009-2010
163.
peccato di Adamo” quindi non ha valore in sé, ma solo in riferimento alla solidarietà “in
Cristo”, precisamente nella contrapposizione a questa solidarietà, nel senso che si configura
come autosoteria, rifiuto dell'unica solidarietà salvifica per l'uomo, quella "in Cristo".
- La solidarietà nel “peccato di Adamo” (peccabilità) non può essere intesa in termini
“soggettivi”, nel senso cioè di partecipazione/inclusione di tutti gli uomini all'atto personale
con cui Adamo ha rifiutato la solidarietà “in Cristo”. Tale solidarietà andrà intesa
diversamente, non tanto come partecipazione degli uomini all'identica “natura umana”, quanto
piuttosto come partecipazione alla condizione umana (storia) “istituita” da Adamo, in
contrapposizione alla “creazione in Cristo”, in quanto ha rifiutato con atto personale la
solidarietà “in Cristo” (salvezza).
La “storia” istituita da Adamo non sta oltre o prima della decisione della libertà, ma consente di
coglierne le radici, ferisce la libertà, il suo esercizio. Significativamente la Scrittura segnala
queste radici in una direzione “spaziale” (fin dal seno materno, secondo il Sal 51,7, nel cuore
di pietra per Ez 11,19; nel cuore malvagio) e in una dimensione “spazio-temporale” (l'influsso
dei padri, fino al padre Adamo.
Osea trova la causa del peccato del popolo nelle “origini”, nei giorni di Gabaa (9,9), nel
peccato del vitello (10,5), nell'espropriazione di Giacobbe nei confronti di Esaù fin dal seno
materno (12,3s). Geremia ed Ezechiele ricercano l'origine del peccato nell'influsso dei padri
e/o delle nazioni).
- La solidarietà nel “peccato di Adamo” inoltre non può essere ritenuta risolutiva per la
vicenda umana che resta affidata alla personale libertà di ogni uomo. Sembra essere questo
l'insegnamento del concilio di Trento, il quale, opponendosi alla tesi del “servo arbitrio”
sostenuta dalla Riforma e prospettando (solo) una “attenuazione della libertà soggettiva in
conseguenza del peccato di Adamo”, intende ribadire la responsabilità della libertà personale
di ogni uomo nel corrispondere alla grazia, nel decidere cioè personalmente il proprio destino
ultimo.
In coerenza con questa prospettiva la solidarietà nel “peccato di Adamo”, intesa come
peccato trasmesso da Adamo (DS 1512) e inerente nei singoli uomini (DS 1513), andrà
considerata come peccato “incompiuto”, in quanto destinato a “compiersi” nei peccati
personali (attuali)450, in quelle scelte dell'uomo che «esprimono e si radicano su una libertà
spezzata, ferita, incurvata su di sé, su una distorsione non solo della relazione della libertà, ma
della libertà come relazione, che rifiuta di assumere la sua verità nella forma filiale di Gesù»451.
Si pone qui la questione del rapporto tra il peccato originale “originato” e i peccati personali.
Va anzitutto affermato che non si tratta di due peccati univocamente intesi e che, quindi, la
nozione di peccato va applicata nei due casi in modo analogico. Se il solo peccato originale
“originato” sembra insufficiente a determinare il destino ultimo dell'uomo, si ricava che la
“causalità maggiore” nel determinare tale destino va attribuita al peccato personale. Precisando
ulteriormente il rapporto fra le due realtà: «il peccato personale “compie” il peccato originale
(originato) nell'appropriazione del peccato di “Adamo”»452.
- La solidarietà "in Adamo", in quanto opposta alla solidarietà “in Cristo”, ha rilevanza
quindi unicamente nella prospettiva cristologico/teologica, solo se intesa come coerente e
predestinata di tutti gli uomini in Cristo” e “loro solidarietà in Adamo” c'è assoluta sproporzione ed
“equivocità”: gli uomini non sono predestinati a essere solidali con Adamo nello stesso senso in cui lo
sono in relazione a Gesù Cristo» (I. BIFFI, La solidarietà predestinata di tutti gli uomini in Cristo e la loro
solidarietà in Adamo, art cit, 280-282).
450
Cfr G. COLOMBO, Tesi sul peccato originale, art cit, 273;
451
F.G. BRAMBILLA, La questione teologica del peccato originale, art cit, 546.
452
G. COLOMBO, Tesi sul peccato originale, art cit, 274.
Antropologia Teologica 2009-2010
164.
funzionale al principio della “creazione in Cristo”. Per cui, se la “creazione in Cristo” - quindi
la “solidarietà in Cristo” - si concretizza nella concessione ad “Adamo” del dono della grazia,
la solidarietà “in Adamo”, in quanto opposta alla solidarietà “in Cristo” e quindi, in quanto si
esprime “nello stato di peccato”, va intesa correlativamente come perdita della grazia.
Questo dato, nel suo riferimento intrinseco alla personale libertà di ogni uomo, basta a
determinare la condizione umana, in quanto caratterizzata rispettivamente dalla solidarietà “in
Cristo” e dalla solidarietà “in Adamo” e quindi dalla salvezza “mediante” Gesù Cristo e dalla
pretesa alla autosoteria.
3. Anche il superamento del peccato si comprende nel riferimento alla solidarietà "in
Cristo". La capacità genetico-critica di Cristo sulla storia umana, assegnatagli dalla
predestinazione, dà ragione del fatto che egli è in grado di vincere il peccato, rigenerando la
libertà dell'uomo, rifacendo l'uomo secondo la predestinazione. La vittoria di Cristo raggiunge
l'uomo nella sua dimensione personale, eliminando in lui ogni elemento peccaminoso (cfr can
V. del decreto tridentino).
- L'azione di Cristo, intenzionata a “rifare” l'uomo come figlio di Dio, si attua
storicamente nella Chiesa con la sua struttura sacramentale. Da qui il rapporto tra peccato
originale e Battesimo: la vita dell'uomo peccatore non si esaurisce in lui né nei suoi atti, in
quanto segnata da un costitutivo rimando a Gesù Cristo, il quale, proprio nel Battesimo,
realizza la sua vittoria sul peccato come Salvatore dell'uomo e del mondo (cfr i canoni III e V
del Decreto tridentino, DS 1513.1515).
Il battesimo dei bambini in questo contesto viene ulteriormente precisato: il modo con cui il
bambino, che già partecipa dell'umanità peccatrice, entra in relazione con l'azione salvifica di
Cristo, è segnato da una storicità che non si esaurisce nei suoi atti personali, ma esprime una
dimensione più articolata, al cui interno ha rilievo anche la struttura sacramentale della
comunità cristiana.
Questa storicità più articolata rifiuta di isolare il momento cosciente e responsabile
dell'esercizio della libertà, di considerarlo in modo individalistico e attimistico, separato da
quelle condizioni storiche che stanno “oltre” o “prima” di esso, che lo condizionano e che
aiutano a comprenderlo fin nella sua radice453 .
- Se la storicità di Cristo è genetica in rapporto alla libertà dell'uomo, la redenzione di
Cristo non toglie il peccato in modo automatico, ma associando la libertà umana all'azione di
Cristo. Ne consegue che la permanenza della concupiscenza, della morte, della sofferenza nei
battezzati non va considerata atto peccaminoso, ma possibilità di crescita della libertà ormai
liberata mediante la sua partecipazione alla libertà pasquale di Cristo.
Può essere avviato su questo aspetto un dialogo con la dottrina protestante, che considera
l'uomo salvato da Cristo ancora sotto il segno del peccato. Anche per la dottrina cattolica
l'uomo, salvato da Cristo, vive in un mondo che tende a lasciare Dio. Bisognerà intendersi
sulla natura e sul superamento di questa separazione da Dio.
Significativo al riguardo quanto è riconosciuto nella Dichiarazione congiunta sulla giustificazione454,
sottoscritta dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione luterana mondiale ad Ausburg il 31
453
454
Cfr F.G. BRAMBILLA, La questione teologica del peccato originale, art cit, 54.
PONT. CONSIGLIO PER L’UNITA’ DEI CRISTIANI-FEDERAZIONE LUTERANA MONDIALE,
Dichiarazione sulla giustificazione, “Il Regno documenti” 43 (1998), 250-256. Cfr A. MAFFEIS, (ed) Dossier
sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolico-luterana, commento e dibattito teologico, Queriniana, Brescia
2000; C. PORRO, Dichiarazione congiunta sulla giustificazione. Orientamenti per la lettura, RdT 4 (2000) 889899; F. FERRARIO-P. RICCA (a cura di), Il consenso cattolico-luterano sulla dottrina della giustificazione,
ClaUdiana, Torino 1999; M. FÉDOU, L’accord luthéro-catholique sur la justification, NRTh 122 (2000) 37-50.
Antropologia Teologica 2009-2010
165.
Ottobre 1999. La Dichiarazione conclude un lungo cammino iniziato nel 1967 con l’avvio di
un dialogo ufficiale tra luterani e cattolici455.
L’obiettivo del Documento è di conferire autorevolezza al consenso sulla giustificazione
raggiunto col dialogo ecumenico.
La Dichiarazione congiunta s’ispira a un modello di consenso ecumenico che adotta il
principio secondo cui l’unità della fede, fondamentale per la comunione ecclesiale, non
richiede necessariamente che sia espressa con gli stessi concetti, ma accetta espressioni
dottrinali differenti.
Viene qui introdotta la distinzione tra il messaggio e la dottrina della giustificazione. Il primo
costituisce il nucleo essenziale, irrinunciabile, del messaggio cristiano della salvezza in Gesù
Cristo, la seconda rappresenta la forma linguistica che tale annuncio assume in un determinato
contesto. Nella Dichiarazione congiunta il principio è attuato esprimendo il consenso di base sul
significato della giustificazione e riportando le affermazioni fondamentali cattoliche e luterane
sulla giustificazione.
Il consenso sul significato della giustificazione è formulato in questi termini:
«Insieme crediamo che la giustificazione è opera del Dio uno e trino. Il Padre ha mandato nel
mondo il suo Figlio per la salvezza dei peccatori. L’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo
sono il fondamento e il presupposto della giustificazione. Perciò la giustificazione significa che
Cristo stesso è la nostra giustizia, alla quale partecipiamo, secondo la volontà del Padre,
attraverso lo Spirito Santo. Insieme confessiamo che solo per grazia, e nella fede nell’azione
salvifica di Cristo, e non in base ai nostri meriti, noi veniamo accettati da Dio e riceviamo lo
Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori e ci abilita e ci chiama a compiere le opere buone»
456.
Il riconoscimento di una base comune consente una valutazione diversa rispetto al passato
delle differenze presenti nelle formulazioni dottrinali del dato di fede.
Le affermazioni cattoliche e luterane, nonostante la tensione esistente tra loro, non si
escludono, ma possono essere considerate complementari. I luterani, infatti, interpretano il
dato biblico sulla giustificazione insistendo sulla priorità assoluta della parola di Dio che salva
in Gesù Cristo e sottolineano il carattere incondizionato di questa parola; i cattolici, da parte
loro, pur non negando questo, sono più attenti all’efficacia della parola di Dio nel
rinnovamento dell’uomo.
Le diverse sottolineature hanno dato origine a modalità espressive differenti. La
tradizione cattolica ha utilizzato il linguaggio della trasformazione: l’uomo peccatore è
progressivamente rinnovato dalla grazia. La tradizione luterana ha, invece, utilizzato il
linguaggio della simultaneità: il peccatore sta contemporaneamente sotto il giudizio della legge
che accusa e la promessa di salvezza del vangelo.
La Dichiarazione congiunta registra questa struttura del consenso raggiunto adottando lo
schema seguente nel presentare i temi controversi: a un’affermazione di fede comune
(«insieme confessiamo…) segue la presentazione delle formulazioni elaborate dalla due
Sul tema della giustificazione nel dialogo ecumenico e nella teologia contemporanea cfr A. MAFFEIS,
Giustificazione. Percorsi teologici nel dialogo tra le chiese, San paolo, Cinisello B. 1998; ID., La dottrina della
giustificazione da K. Barth a oggi¸ in G. ANCONA (Ed), La giustificazione, Massaggero, Padova 1997, 113194; ID., Quali prospettive per il dialogo ecumenico? Il caso della giustificazione, “Teologia” 24 (1999) 145-153; E.
JÜNGEL, Il vangelo della giustificazione come centro della fede cristiana (= BTC 112), Brescia 2000; S. CANNISTRÀ, Chiarire per unire. E. Jüngel sulla giustificazione, ScCatt 129 (2001) 417-453.
455
Sui temi e sul percorso del dialogo riguardo alla dottrina della giustificazione cfr A. MAFFEIS,
Giustificazione. Percorsi teologici nel dialogo tra le chiese, op cit, 13-44 (“Dalla controversia al dialogo”).
456
Dichiarazione sulla giustificazione, op cit., n 15, 252.
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166.
tradizioni, riconosciute entrambi come spiegazione legittima della stessa fede («quando i
cattolici/luterani dicono…intendono …».
Quello che è proposto dal Documento è un consenso differenziato, fondato su una comune
professione di fede che accoglie spiegazioni teologiche diverse.
La recezione della dichiarazione registra due reazioni contrastanti. La prima è segnata
da un’aspra discussione su questioni dottrinali, che pone l’interrogativo sulla possibilità di
un’effettiva conciliazione tra fedeltà alla propria identità confessionale e accettazione del
consenso ecumenico.
In campo protestante emblematico resta il documento critico sottoscritto nel 1998 da
più di 200 docenti di teologia evangelica457, dove, dopo aver affermato che «un consenso nella
dottrina della giustificazione deve far valere senza riduzioni la verità della giustificazione per la
sola fede e trovare conferma nella relazione reciproca delle chiese che esprimono il consenso,
nel loro reciproco riconoscimento come chiesa di Gesù Cristo e nel riconoscimento del loro
ministero che annuncia pubblicamente la giustificazione»458, si nega che tale consenso sia stato
raggiunto dalla Dichiarazione congiunta. Il documento conclude con l’invito a respingere la
Dichiarazione congiunta nella forma attuale.
Le riserve avanzate da parte cattolica sono espresse in un documento redatto dal
Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, in collaborazione con la Congregazione per la
dottrina della fede (25. VI. 1998)459. In esso, accanto al riconoscimento che «si è raggiunto un
alto grado di accordo, sia per quanto riguarda l’approccio alla questione sia per quanto
riguarda il giudizio che essa merita»460 e che è possibile condividere l’affermazione della
Dichiarazione comune secondo la quale esiste «un consenso su verità fondamentali della
dottrina della giustificazione», si dichiara che non è ancora possibile «parlare di un consenso
tale che elimini ogni differenza fra i cattolici e i luterani nella comprensione della
giustificazione»461. All’affermazione fa seguito l’elenco di quei punti dove le due posizioni
sono, a giudizio della chiesa cattolica, ancora divergenti462.
La seconda esprime invece una profonda soddisfazione perché considera la dichiarazione un
atto di grande valore simbolico.
La struttura del Documento:
Il preambolo (nn 1-7);
I parte: messaggio biblico sulla giustificazione (nn 8-12);
II parte: la giustificazione come problema ecumenico (n 13);
III parte: la comune comprensione della giustificazione (nn 14-18);
IV parte: la spiegazione della comune comprensione della giustificazione (nn 19-39);
V parte: l’importanza e l’ampiezza del consenso raggiunto (nn 40-44).
Fermiamo l’attenzione sulla III e IV parte, il cui contenuto interessa più direttamente la
riflessione antropologica. In queste sezioni sono riportate le “Fonti per la Dichiarazione
457
Per il testo del documento cfr A. MAFFEIS, (ed) Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta
cattolico-luterana, commento e dibattito teologico, op cit, 147-150.
458
ID, 147-148.
459
Per il testo del documento cfr A. MAFFEIS, (ed) Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta
cattolico-luterana, commento e dibattito teologico, op cit, 67-74.
460
ID, 67.
461
ID, 68.
462
Cfr ID, 68-73.
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congiunta sulla dottrina della giustificazione”, dove si riprendono le “formulazioni di diversi
dialoghi luterani-cattolici”.
La III parte (nn 14-18) espone, senza entrare nei dettagli, la comune comprensione della
giustificazione da parte delle chiese luterane e della chiesa cattolica.
«Insieme crediamo che la giustificazione è opera del Dio uno e trino. Il Padre ha mandato nel
mondo il suo Figlio per la salvezza dei peccatori. L’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo
sono il fondamento e il presupposto della giustificazione. Perciò la giustificazione significa che
Cristo stesso è la nostra giustizia, alla quale partecipiamo, secondo la volontà del Padre,
attraverso lo Spirito Santo. Insieme confessiamo che solo per grazia, e nella fede nell’azione
salvifica di Cristo, e non in base ai nostri meriti, noi veniamo accettati da Dio e riceviamo lo
Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori e ci abilita e ci chiama a compiere le opere buone».
(n 15)
Presenta la giustificazione da due prospettive: la prima dal punto di vista dell’azione del Dio
trinitario, la seconda dal punto di vista dell’uomo giustificato.
- La giustificazione come “opera del Dio uno e trino”: il Padre ha mandato nel mondo
il suo Figlio per la salvezza degli uomini peccatori. Per essi il Figlio è stato reso da Dio
giustizia. Lo Spirito Santo li rende partecipi della giustizia di Cristo. La conclusione è che la
giustificazione avviene «solo per grazia e nella fede nell’azione salvifica di Cristo, e non in base
ai nostri meriti…».
- L’azione dell’uomo. Dato che la giustificazione è opera del Dio trinitario, essa
avviene per la sola grazia; poiché avviene per la sola grazia, dalla parte dell’uomo ha il suo
corrispettivo nella fede e non nei suoi meriti.
«Tutti gli uomini sono chiamati da Dio alla salvezza in Cristo. Solo mediante Cristo noi
veniamo giustificati, ricevendo questa salvezza nella fede. Anche la fede è dono di Dio
attraverso lo Spirito Santo, il quale nella Parola e nei sacramenti opera nella comunità dei fedeli
e li guida al tempo stesso a quel rinnovamento della loro vita che Dio porta a compimento
nella vita eterna». (n 16)
Concentra l’attenzione sulla fede, come accoglienza della salvezza. La fede, non solo
riceve la salvezza come dono, essa stessa è dono di Dio, opera dello Spirito santo. L’azione
dello Spirito nei confronti dei credenti si esprime nella Parola e nei sacramenti e ha come
scopo il rinnovamento della loro vita, che Dio porterà a compimento nella vita eterna.
«Insieme siamo convinti che il messaggio della giustificazione ci rinvia in modo particolare al
centro della testimonianza neotestamentaria dell’azione salvifica di Dio in Cristo. Esso ci dice
che noi peccatori dobbiamo la nostra vita unicamente alla misericordia di Dio che ci perdona e
ci ricrea, misericordia che noi possiamo solo lasciarci regalare e accogliere nella fede, ma mai
possiamo, in alcun modo meritare». (n 17)
Parla del “messaggio della giustificazione”, che consente di cogliere in modo chiaro e preciso il
centro della testimonianza neotestamentaria, rappresentato dall’azione salvifica di Dio tramite
Gesù Cristo.
«Perciò la giustificazione, che accetta e spiega questo messaggio, non solo è parte integrante
della fede cristiana, ma si trova in un rapporto essenziale con tutte le verità della fede, che
devono essere viste in intima correlazione fra di loro. Essa è un criterio irrinunciabile che
orienta continuamente a Cristo tutta la dottrina e la prassi della chiesa. Sottolineando
l’incomparabile importanza di questo criterio, i luterani non negano l’insieme e l’importanza di
tutte le verità di fede. Sentendo il dovere di tener conto di diversi criteri, i cattolici non negano
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la particolare funzione del messaggio della giustificazione. Luterani e cattolici perseguono
insieme un unico obiettivo: quello di confessare in tutto Cristo, in cui si deve confidare al di
sopra di ogni altra cosa, essendo l’unico mediatore (1Tim 2,5s) attraverso il quale Dio nello
Spirito Santo dona se stesso e i suoi doni che rinnovano». (n 18)
Presenta elementi condivisi e di non pieno accordo tra cattolici e luterani. Un elemento
condiviso è la convinzione che esiste un nesso organico tra la dottrina della giustificazione e le
altre parti della dottrina della fede cristiana. Altro elemento comune - il più importante - è la
comprensione della giustificazione come “un criterio irrinunciabile”. Questo significa che nella
chiesa nessuna dottrina o prassi può trovarsi in contraddizione con la dottrina della
giustificazione nella forma in cui è presentata dalla Dichiarazione congiunta. Se questo è un
criterio irrinunciabile non può essere praticato saltuariamente né perdere la propria validità a
motivo di altri criteri. Un terzo elemento condiviso è che la dottrina della giustificazione, quale
criterio irrinunciabile, ha il compito di concretizzare «quello che testimonia in tutto Cristo».
Nella IV parte (nn 19-39) la comprensione comune della giustificazione è espressa
presentando sette questioni tradizionalmente controverse. Le singole questioni sono esposte
con lo stesso schema: in primo luogo è presentata la convinzione comune, successivamente
cattolici e protestanti indicano la propria prospettiva particolare, in modo tale da sottolineare
che quanto è importante per una parte non nega quanto l’altra parte ritiene essenziale. Questo
modo di procedere consente ad entrambe le parti di riconoscersi in ciò che è loro proprio e di
considerare questi elementi all’interno di ciò che è comune.
1. Impotenza e peccato dell’uomo di fronte alla giustificazione (nn 19-21)
La convinzione comune (n 19)
«Insieme confessiamo che, riguardo alla sua salvezza, l’uomo dipende interamente dalla grazia
salvifica di Dio. La libertà che egli possiede nei confronti dei suoi simili e delle cose del mondo
non è una libertà che possa procurargli la salvezza. Ciò significa che, in quanto peccatore, egli è
sotto il giudizio di Dio e incapace da se stesso di rivolgersi a Dio per ottenere la salvezza o di
meritare la propria giustificazione davanti a Dio o di conseguire la salvezza con le sue proprie
forze. La giustificazione avviene unicamente per grazia…».
L’affermazione fondamentale: «la giustificazione avviene unicamente per grazia». Da qui
consegue che l’uomo è «incapace da se stesso di rivolgersi a Dio per ottenere la salvezza o di
meritare la propria giustificazione davanti a Dio o di conseguire la salvezza con le sue proprie
forze».
Le differenze nell’ambito di questa affermazione comune riguardano il modo d’intendere la
partecipazione dell’uomo all’evento della giustificazione per grazia.
I cattolici (n 20) parlano di “cooperazione”, precisata in triplice modo: si tratta di «consenso
personale»; questo consenso personale è «un’azione della grazia»; non va inteso come
«un’azione compiuta dall’uomo con le sue proprie forze».
«Quando i cattolici dicono che l’uomo nella preparazione della giustificazione e alla sua
accoglienza “coopera” dando il proprio consenso all’azione giustificatrice di Dio, essi vedono
in questo stesso consenso personale un’azione della grazia e non un’azione compiuta dall’uomo
con le sue proprie forze».
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La concezione luterana (n 21) sottolinea il motivo per cui l’uomo non può cooperare alla
propria salvezza: «in quanto peccatore, si oppone attivamente a Dio e alla sua azione salvifica».
L’impossibilità va intesa come incapacità dell’uomo di offrire «un contributo proprio alla sua
giustificazione», non esclude «la sua piena partecipazione personale nella fede, partecipazione
che viene operata dalla parola stessa di Dio».
«Secondo la concezione luterana, l’uomo è incapace di cooperare alla propria salvezza, perché,
in quanto peccatore, si oppone attivamente a Dio e alla sua azione salvifica.
I luterani non negano che l’uomo possa rifiutare l’azione della grazia. Quando sottolineano con
forza che l’uomo può solo ricevere (mere passive) la giustificazione, negano con ciò ogni
possibilità di un contributo proprio da parte dell’uomo alla sua giustificazione, ma non la sua
piena partecipazione personale nella fede, partecipazione che viene operata dalla parola stessa
di Dio».
2. Giustificazione come perdono dei peccati e azione che rende giusti (nn 22-24)
Il paragrafo osserva la giustificazione dal punto di vista di Dio (perdono dei peccati e azione
che giustifica)
La convinzione comune (n 22)
«Insieme confessiamo che per grazia Dio perdona il peccato dell’uomo, liberandolo al tempo
stesso nella sua vita dal potere del peccato che rende schiavi e donandogli la vita nuova in
Cristo. Quando l’uomo comunica con Cristo nella fede, Dio non gli imputa il suo peccato e
suscita in lui un amore operoso mediante lo Spirito Santo. Questi due aspetti dell’azione della
grazia di Dio non devono essere separati. Formano un tutt’uno nel senso che nella fede l’uomo
viene unito a Cristo, che è nella sua persona la nostra giustizia (cf 1Cor 1,30): sia il perdono dei
peccati sia la presenza salvifica di Dio…».
La formulazione comune unisce le due comprensioni della giustificazione proprie dei luterani
e dei cattolici. La comprensione luterana considera la giustificazione come “perdono dei
peccati”, mentre quella cattolica “come azione che rende giusti”. I due aspetti - il perdono dei
peccati e il rendere giusto - sono visti legati (“formano un tutt’uno”) in Cristo, col quale il
cristiano è unito mediante la fede: Cristo nella sua persona è per noi «sia il perdono dei peccati
sia la presenza salvifica di Dio».
La comprensione luterana (v 23), quando sostiene che la giustizia di Cristo è la nostra giustizia
intende sottolineare che la giustizia di fronte a Dio ci è donata in Cristo mediante la
dichiarazione di perdono e che la vita del credente «viene rinnovata solo nella relazione con
Cristo. Quando sostiene la grazia di Dio come amore che perdona o come “favore di Dio”,
non intende affermare che la grazia di Dio resta esterna all’uomo e negare «il rinnovamento
della vita del cristiano», ma sottolineare che la giustificazione dell’uomo non è vincolata alla
cooperazione umana, né dipende nemmeno dagli effetti del rinnovamento della vita provocati
dalla grazia nell’uomo.
«Quando i luterani sottolineano con forza che la giustizia di Cristo è la nostra giustizia,
vogliono affermare soprattutto che al peccatore, mediante la concessione del perdono, viene
donata la giustizia davanti a Dio in Cristo e che la sua vita viene rinnovata solo nella relazione
con Cristo. Quando dicono che la grazia di Dio è amore che perdona (“favore di Dio”), o non
negano con ciò il rinnovamento della vita del cristiano, ma vogliono semplicemente affermare
che la giustificazione è indipendente dalla collaborazione umana e non dipende neppure
dall’azione della grazia che rinnova la vita dell’uomo».
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La comprensione cattolica (n 24) evidenzia un aspetto diverso da quella luterana: alla grazia di
Dio che perdona è legato il dono della vita nuova. Senza però negare l’indipendenza, nella
giustificazione, del dono della grazia dalla cooperazione dell’uomo.
«Quando i cattolici sottolineano con forza che al fedele viene donato il rinnovamento
dell’uomo interiore attraverso l’accoglienza della grazia, vogliono affermare che la grazia di Dio
che perdona è sempre collegata con il dono di una vita nuova, che si esprime nello Spirito
santo in amore operoso; ma con questo non negano che, nella giustificazione, il dono della
grazia di Dio rimanga indipendente dalla collaborazione umana».
3. Giustificazione mediante la fede e per grazia (nn 25-27)
In questo paragrafo la giustificazione è vista dal punto di vista dell’uomo (mediante la fede e
per grazia). La comprensione comune (n 25)
«Insieme confessiamo che il peccatore viene giustificato mediante la fede nell’azione salvifica di
Dio in Cristo: questa salvezza gli viene donata dallo Spirito Santo nel battesimo quale
fondamento di tutta la vita cristiana. Nella fede giustificante l’uomo confida nella promessa
della grazia di Dio, che comprende anche la speranza in Dio e l’amore verso di lui. Questa fede
è operosa nell’amore: perciò il cristiano non può e non deve restare senza opere. Ma tutto ciò
che nell’uomo precede e segue il libero dono della fede non è causa della giustificazione e non
la merita».
La fede nell’azione salvifica di Dio che rende possibile la giustificazione è compresa come
fiducia «nella promessa della grazia di Dio». in quanto fiducia comprende la speranza in Dio e
l’amore verso di lui. L’interpretazione corretta dell’operosità della fede («non può e non deve
restare senza opere») è data dall’affermazione conclusiva secondo la quale nell’uomo non si
trova nulla - né in precedenza né dopo il dono della fede - che possa meritare la
giustificazione.
La comprensione luterana (n 26) è caratterizzata dalla sola fide («Dio giustifica il peccatore solo
nella fede»). Questa fede è opera di Dio stesso, che interessa «tutte le dimensioni della
persona» e conduce ad un’esistenza «nella speranza e nell’amore». La “giustificazione per sola
fede” va distinta, ma non separata dal rinnovamento della vita, in quanto ne rappresenta il
fondamento.
«Secondo la concezione luterana, Dio giustifica il peccatore solo nella fede (sola fide). Nella fede,
l’uomo confida unicamente nel suo Creatore e Salvatore ed è così in comunione con lui. Dio
stesso opera la fede, producendo mediante la sua Parola creatrice una tale fiducia.. Essendo
una nuova creazione, questa azione di Dio riguarda tutte le dimensioni della persona e conduce
a una vita vissuta nella speranza e nell’amore. Così nella dottrina della “giustificazione per sola
fede” il rinnovamento della condotta della vita, che segue necessariamente la giustificazione e
senza il quale non può esservi fede, viene distinto dalla giustificazione, ma non separato da
essa. Essa costituisce il fondamento sul quale si basa un tale rinnovamento. Dall’amore di Dio,
che viene donato all’uomo nella giustificazione scaturisce il rinnovamento della vita.
Giustificazione e rinnovamento sono tenuti strettamente collegati dal Cristo presente nella
fede».
Nella comprensione cattolica (n 27) della giustificazione il concetto di “grazia di
giustificazione” assume un rilievo centrale. La grazia di giustificazione è la realtà mediante la
quale l’uomo peccatore diventa figlio di Dio. Essa non rappresenta una “cosa”, ma una «nuova
relazione personale con Dio». La nuova relazione con Dio non è una realtà autosufficiente, in
quanto «si basa interamente sulla grazia di Dio e dipende continuamente dall’azione salvifica di
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Dio». Per questa ragione la grazia non può mai diventare «una proprietà dell’uomo», da fra
valere di fronte a Dio.
«Anche secondo la concezione cattolica la fede è fondamentale per la giustificazione; infatti,
senza di essa non può essere giustificazione. L’uomo viene giustificato mediante il battesimo in
quanto uditore della parola e credente. la giustificazione del peccatore è perdono dei peccati e
azione che rende giusti mediante la grazia della giustificazione, che ci rende figli di Dio. nella
giustificazione i giustificati ricevono da Cristo fede, speranza e carità e vengono così accolti
nella comunione con lui. Questa nuova relazione personale con Dio si basa interamente sulla
grazia di Dio e dipende continuamente dall’azione salvifica del Dio clemente e misericordioso
che resta fedele a se stesso e nel quale l’uomo può quindi riporre la propria fiducia. Perciò, la
grazia della giustificazione non diventa mai una proprietà dell’uomo, di cui egli potrebbe valersi
davanti a Dio. Anche se nella concezione cattolica si sotto linea il rinnovamento della vita
mediante la grazia della giustificazione, questo rinnovamento nella fede, nella speranza e nella
carità dipende sempre dall’incondizionata grazia di Dio e non arreca alla giustificazione alcun
contributo di cui potersi gloriare davanti a Dio (Rom 3,27)».
4. L’essere peccatore del giustificato (nn 28-30)
La questione dell’essere peccatore dell’uomo giustificato ha rappresentato una difficoltà
particolare nei dialoghi ecumenici tra luterani e cattolici. Il concilio di Trento, a differenza
degli scritti confessionali luterani, sostiene che la concupiscenza nel giustificato non è più
peccato. Le due parti inoltre non intendono nello stesso modo il significato di “peccato”. Da
qui il compito di mostrare come, in presenza di differenti comprensioni del peccato, si possa
convergere su un’affermazione comune.
La comprensione comune (n 28)
«Insieme confessiamo che nel battesimo lo Spirito Santo unisce l’uomo con Cristo, lo giustifica
e lo rinnova veramente. E tuttavia il giustificato dipende per tutta la vita e continuamente dalla
grazia di Dio che giustifica incondizionatamente. Egli non è sottratto al potere del male, che
continua ad assediarlo, e alla presa del peccato (cf Rm 6, 12-14), e non è esentato dalla lotta di
tutta la vita contro l’avversione dell’egoistica concupiscenza dell’uomo vecchio nei riguardi di
Dio (cf Gal 5,16; Rm 7,7.10). Anche il giustificato deve chiedere ogni giorno perdono a Dio,
così come si fa nel Padre nostro (Mt 6,12; 1Gv 1,9); egli è continuamente chiamato alla
conversione e alla penitenza e continuamente gli viene concesso il perdono».
Luterani e cattolici concordano nel parlare di una giustificazione che rinnova realmente l’uomo
e nel descrivere la situazione d’incompiutezza del rinnovamento della vita cristiana. L’uomo
giustificato «non è sottratto al potere del male, che continua ad assediarlo e alla presa del
peccato»: qui il peccato appare come qualcosa che proviene “dall’esterno”, che cerca di
impadronirsi dell’uomo. L’uomo giustificato, inoltre, «non è esentato dalla lotta di tutta la vita
contro l’avversione dell’egoistica concupiscenza dell’uomo vecchio nei riguardi di Dio»: qui
l’opposizione a Dio sembra provenire “dall’interno dell’uomo”.
La comprensione luterana (n 29) intende l’«opposizione a Dio che proviene dalla
concupiscenza egoistica dell’uomo vecchio» come peccato. L’uomo, riguardo a Dio, «è
interamente giusto, dato che Dio «attraverso la Parola e i sacramenti gli perdona i peccati e gli
attribuisce la giustizia di Cristo»; riguardo a se stesso, «riconosce attraverso la legge, di
continuare ad essere peccatore, poiché in lui abita ancora il peccato». Tuttavia, se l’uomo
giustificato è anche peccatore, nel senso spiegato, il suo peccato è “vinto” mediante Gesù
Cristo e, in tal modo «non è più separato da Dio».
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«I luterani comprendono tutto questo nel senso che il cristiano è “giusto e peccatore al tempo
stesso”. Egli è interamente giusto, poiché Dio attraverso la Parola e il sacramento gli perdona i
peccati e gli attribuisce la giustizia di Cristo, di cui egli si appropria nella fede e che lo rende
giusto in Cristo davanti a Dio. Ma, riguardo a se stesso, egli riconosce attraverso la legge, di
continuare a essere peccatore, poiché in lui abita ancora il peccato (1Gv 1,8; Rom 7,17.20);
infatti, continua a riporre la propria fiducia in false divinità e non ama Dio con quell’amore
indiviso che Dio, in quanto suo creatore, pretende da lui (Dt 6,5; Mt 22,36-40 e par.).
Quest’avversione a Dio è in quanto tale un vero peccato. Ma, grazie ai meriti di Cristo, il
potere del peccato che rende schiavi è vinto. Non è più un peccato “che domina” il cristiano,
essendo stato “vinto” mediante Cristo, con il quale il giustificato è unito nella fede; così il
cristiano, finché vive sulla terra, può condurre pur in modo discontinuo una vita nella giustizia.
E, nonostante il peccato, il cristiano non è più separato da Dio, poiché, essendo “rinato”
mediante il battesimo e lo Spirito Santo, gli viene perdonato il peccato nel suo quotidiano
ritorno al battesimo, per cui il peccato non lo condanna più e non è più per lui causa di morte
eterna. Quindi, affermando che il giustificato è anche peccatore e che la sua avversione a Dio è
un vero peccato, i luterani non negano che egli, nonostante il peccato, non sia separato da Dio
in Cristo e che il suo peccato sia un peccato “vinto”. Nonostante le differenze nella concezione
del peccato del giustificato, essi concordano su quest’ultimo punto con la controparte
cattolica».
La concezione cattolica (n 30) non considera l’inclinazione avversa a Dio peccato in senso
proprio. Questo perché mediante il battesimo il peccato è perdonato in modo che l’uomo non
è più separato da Dio e meritevole di condanna. L’inclinazione avversa a Dio diventa peccato
attraverso un «elemento personale», attraverso un consenso, consapevole e volontario, a ciò
che si oppone a Dio.
«I cattolici sono convinti che la grazia di Gesù Cristo, che viene concessa nel battesimo,
cancelli tutto ciò che è “veramente” peccato, tutto ciò che merita la “condanna” (Rm 8,1), ma
che resti nell’uomo un’inclinazione (concupiscenza) che viene dal peccato e spinge al peccato.
Essendo convinti che il peccato dell’uomo richieda necessariamente un elemento personale,
elemento che manca nell’inclinazione avversa a Dio, i cattolici non considerano quest’ultima un
peccato in senso vero e proprio. Ma con ciò non vogliono negare che quest’inclinazione non
corrisponda al piano originario di Dio riguardo all’uomo, né che essa non sia obiettivamente
avversione a Dio e oggetto di una lotta che dura per tutta la vita; ma riconoscenti per la
salvezza operata da Cristo, essi vogliono semplicemente affermare che l’inclinazione avversa a
Dio non merita la pena della morte eterna e non separa il giustificato da Dio. Tuttavia, quando
il giustificato si separa volontariamente da Dio, non basta il ritorno all’osservanza dei
comandamenti, ma occorre che riceva nel sacramento della riconciliazione il perdono e la pace
mediante la parola del perdono che gli viene assicurata in forza dell’opera di riconciliazione di
Dio in Cristo».
Cattolici e luterani, pur avendo un concetto differente di peccato, concordano su tre aspetti.
1 - Nell’uomo giustificato c’è opposizione a Dio. Ciò che di vitalità distruttiva
(concupiscenza) esiste nel battezzato, anche se precede le decisioni volontarie, non va inteso
come realtà soprannaturale, ma come opposizione a Dio.
2 - La concupiscenza nel giustificato non deve necessariamente esprimersi in singole
azioni peccaminose. I luterani esprimono questo con il concetto di “peccato vinto”.
3 - L’opposizione a Dio non separa da Dio. Ciò che nell’uomo giustificato è
opposizione a Dio per i luterani resta peccato, perché in opposizione a Dio, ma non separa da
lui perché è perdonato; per i cattolici non è peccato perché il giustificato non è separato da
Dio e in lui non c’è nulla che lo separi da Dio.
5. Legge e Vangelo (nn 31-33)
Questa sezione non si riferisce a una questione controversa, perché non esistono condanne
riferite alla distinzione tra legge e vangelo.
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La comprensione comune (n 31)
«Insieme confessiamo che l’uomo viene giustificato nella fede nel Vangelo,
“indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,28). Cristo ha portato a compimento la
legge e l’ha superata quale via alla salvezza mediante la sua morte e risurrezione. Confessiamo
pure che per il giustificato i comandamenti di Dio rimangono in vigore e che Cristo nella sua
parola e nella sua vita esprime la volontà di Dio, che è anche per il giustificato la norma del
proprio agire».
Cattolici e luterani concordano nell’affermare che i comandamenti di Dio, anche se l’uomo è
giustificato “indipendentemente dalle opere della legge”, restano in vigore e che Cristo, con la
sua parola e azione, indica la volontà di Dio, che resta, per il giustificato “la norma del proprio
agire”.
I luterani (n 32) ritengono essenziale, per la comprensione della giustificazione, la corretta
distinzione e correlazione tra Legge e Vangelo. La legge, nel suo significato teologico, è
“domanda e accusa” per ogni uomo, cristiano compreso, per il proprio peccato; svela all’uomo
i suoi peccati, perché questi si rivolga al Vangelo, che solo lo giustifica.
«I luterani fanno notare che la distinzione e la giusta correlazione fra Legge e Vangelo sono
essenziali per la comprensione della giustificazione. Nel suo uso teologico la legge è domanda e
accusa sotto la quale ogni uomo, anche il cristiano, essendo peccatore, si trova per tutta la vita
e che svela i suoi peccati, in modo che egli si rivolga interamente, nella fede al Vangelo, alla
misericordia di Dio in Cristo, che solo lo giustifica».
I cattolici (n 33) evidenziano che Cristo non è legislatore nel senso di Mosè, in quanto ha dato
compimento e superato la legge come via di salvezza.
«Poiché la legge quale via alla salvezza è stata portata a compimento e superata dal Vangelo, i
cattolici possono dire che Cristo non è legislatore nel senso di Mosè. Sottolineando che il
giustificato è tenuto all’osservanza dei comandamenti di Dio, i cattolici non negano che la
grazia della vita eterna sia stata concessa ai figli di Dio in modo assolutamente misericordioso
mediante Gesù Cristo».
6. Certezza della salvezza
La questione della certezza della salvezza è essenziale nella concezione luterana della
fede: la fede è certezza della salvezza, perché operata solo dalla parola di Dio mediante lo
Spirito Santo. Il Concilio di Trento esprime un diverso concetto della fede.
La comprensione comune (n 34)
«Insieme confessiamo che i credenti possono fidarsi della misericordia e delle promesse di Dio.
Anche nella loro debolezza e nelle molteplici minacce per la loro fede essi possono basarsi,
grazie alla morte e risurrezione di Cristo, sulla promessa efficace della grazia di Dio nella Parola
e nel sacramento ed essere così certi di questa grazia».
I credenti possono fare affidamento sulla misericordia di Dio e sulle sue promesse. La fede è
intesa qui come fiducia. Una fiducia che resiste alle minacce che le sono portate perché si
fonda «sulla promessa efficace della grazia di Dio nella Parola e nel sacramento». La certezza
di cui è forte la fede dei credenti non il proprio fondamento nell’uomo, ma in Dio.
La comprensione luterana (n 35) distingue tra “certezza” e “sicurezza”: l’uomo giustificato è
certo della sua salvezza, in considerazione di Cristo e della sua promessa, anche se, «guardando
a se stesso, non ne è mai sicuro».
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«Questo è stato sottolineato in modo particolare dai riformatori: nel combattimento spirituale il
credente non deve guardare a se stesso, ma solo a Cristo e porre ogni fiducia unicamente in lui.
Così riponendo la sua fiducia nella promessa di Dio, egli è certo della sua salvezza, anche se,
guardando a se stesso, non ne è mai sicuro».
I cattolici (n 36) si riconoscono nella posizione luterana che fonda la fede sulla realtà oggettiva
della promessa di Cristo, a prescindere dalla personale esperienza. Solo così la certezza è
possibile ed effettiva.
«I cattolici possono condividere la richiesta dei riformatori di fondare la fede sulla realtà
oggettiva della promessa di Cristo, di prescindere dalla propria esperienza e di confidare
unicamente nella promessa di Cristo (cf. Mt 16,19; 18,18). Con il concilio Vaticano II, i
cattolici affermano che credere significa abbandonarsi interamente a Dio, che ci libera dalle
tenebre del peccato e della morte e ci risuscita per la vita eterna. In questo senso, non si può
credere in Dio e al tempo stesso considerare inaffidabile la sua promessa. Nessuno può
dubitare della misericordia di Dio e dei meriti di Cristo. Ognuno può invece essere seriamente
preoccupato della propria salvezza, quando guardi alle sue debolezze e mancanze. Pur
conoscendo i propri fallimenti il credente può essere certo che Dio vuole la sua salvezza».
7. Le opere buone del giustificato (nn 37-39)
La comprensione comune (n 37)
«Insieme confessiamo che le opere buone - una vita cristiana nella fede, nella speranza e nella
carità - seguono la giustificazione e sono frutti della giustificazione. Quando il giustificato in
Cristo vive e agisce nella grazia ricevuta, porta, con linguaggio biblico, buoni frutti. Questa
conseguenza della giustificazione è per il cristiano, nella misura in cui combatte durante tutta la
vita contro il peccato, anche un dovere che egli deve assolvere; perciò, Gesù e gli scritti
apostolici ammoniscono il cristiano di compiere le opere dell’amore».
Cattolici e luterani concordano su due affermazioni: la prima che le opere buone sono frutto
della giustificazione e seguono ad essa; la seconda che il cristiano è “ammonito” da Gesù a
“compiere le opere dell’amore”.
Per i cattolici (n 38) le opere buone sono quelle compiute (“ricolme”) per mezzo della grazia e
dell’azione dello Spirito Santo. Di esse si evidenziano due aspetti:
1) «Contribuiscono a far crescere la grazia», nel senso che, grazie a queste opere, «la
giustizia ricevuta da Dio si conserva e la comunione con Cristo si approfondisce».
“Conservare” va inteso nel senso che le buone opere, in quanto opere che corrispondono alla
giustizia donata e ricevuta da Dio, impediscono che questa sia nuovamente vanificata
dall’uomo. “Crescita della grazia” è intesa come “approfondimento della comunione con
Cristo”, non nel senso che prima ci sarebbe meno grazia e, successivamente, di più, (la grazia è
presente o non lo è), quanto piuttosto nel senso che la grazia orienta l’uomo, la sua libertà in
modo più profondo.
2) Il carattere “meritorio” delle opere buone significa che «a queste opere è promesso,
secondo la testimonianza biblica, un premio in cielo». L’affermazione è precisata con tre
annotazioni:
- Le “opere meritorie” indicano «la responsabilità dell’uomo nei confronti delle sua azioni»;
- Non contestano la loro natura di dono;
- Non negano che la giustificazione resta sempre un dono di grazia immeritato.
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175.
«Secondo la concezione cattolica, le opere buone, che sono ricolme della grazia e dell’azione
dello Spirito Santo, contribuiscono a far crescere la grazia, per cui la giustizia ricevuta da Dio si
conserva e la comunione con Cristo si approfondisce. Affermando la “meritorietà” delle opere
buone, i cattolici intendono dire che a queste opere è promesso, secondo la testimonianza
biblica, un premio in cielo. Essi vogliono esprimere la responsabilità dell’uomo nei confronti
delle sue azioni, ma non intendono contestare la natura di dono delle opere buone, e tanto
meno negare che la giustificazione resti sempre in sé dono immeritato di grazia».
La concezione luterana (n 39) condivide con quella cattolica il concetto della “conservazione
della grazia” e della “crescita nella grazia e nella fede”. Esclude che le buone opere del
cristiano siano “meriti”, le intende invece come “frutti” e “segni” della giustificazione. Da qui
la considerazione della vita eterna come “premio immeritato”.
«Anche presso i luterani si trova il concetto della conservazione della grazia e della crescita
nella grazia e nella fede. Essi sottolineano che la giustizia, quale accettazione da parte di Dio e
partecipazione alla giustizia di Cristo, è sempre perfetta, ma affermano al tempo stesso che la
sua azione nella vita cristiana può crescere. Considerando le opere buone del cristiano come
“frutti” e “segni” della giustificazione, non come propri “meriti” essi intendono la vita eterna,
secondo il Nuovo Testamento, un “premio” immeritato, nel senso di un compimento della
promessa di Dio fatta ai credenti».
3 - La solidarietà nella redenzione di Cristo (la giustificazione)463
La giustificazione rappresenta l’azione del Dio trinitario intenzionata ad incorporare gli
uomini a Cristo, mediante il dono dello Spirito.
Per la meditazione biblica e la riflessione della Chiesa sull'azione “giustificante” della grazia di
Cristo nell'uomo peccatore rimandiamo al capitolo su “La grazia come incorporazione a
Cristo” (pp 107-162).
La riflessione qui riguarda i “gesti” che la libertà creaturale deve compiere per offrire la
propria collaborazione alla grazia di Cristo. Se la libertà creata può superare il peccato grazie
alla pasqua di Gesù Cristo, questo superamento avviene attraverso le condizioni reali della
libertà. Il riferimento è ad alcuni temi classici della teologia tradizionale (la preparazione alla
giustificazione, la crescita, possibile perdita, ricupero della vita di grazia, il merito, il dono della
perseveranza, la grazia attuale).
1. La trattazione del tema della giustificazione va collocato nell’ambito più complessivo
dell’incorporazione, quale elemento dell’incorporazione dell’uomo a Cristo. L’inserimento
consente un duplice risultato.
Il primo libera la giustificazione da una marcata accentuazione antropologica, in quanto non
viene intesa solo per riferimento alla libertà peccatrice (la giustificazione dell’uomo peccatore)
e alla modificazione reale della natura umana (il dono creato o la grazia come habitus). Questo
permette di sciogliere l’alternativa tra una giustizia solo imputata (interpretazione luterana) e
modificazione reale, accidentale della natura umana (interpretazione cattolica). L’alternativa
impedisce di cogliere la diversa prospettiva delle due accentuazioni: la prima sottolinea l’origine
della giustificazione (sola gratia, proviene cioè solo dall’azione di Dio), la seconda accentua
l’esito della grazia (la giustizia è per l’uomo e nell’uomo, anche se non è una “proprietà”
dell’uomo). Inoltre la comprensione della giustificazione come l’unione degli uomini a Cristo
(incorporazione) consente di liberare il tema da un’interpretazione restrittiva (individualistica)
463
Cfr G. COLZANI, Antropologia, 409-430; A. BENI- G. BIFFI, La grazia di Cristo, op cit 184-202; A.
GANOCZY, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, op cit, 215-310; F. G. BRAMBILLA, Antropologia
teologica, op cit, 550-592.
Antropologia Teologica 2009-2010
176.
per collocarlo in un contesto storico-salvifico, sacramentale, ecclesiale e universale (la Chiesa,
in quanto corpo di Cristo, è il segno reale [sacramento] di tutti gli uomini ad “essere in
Cristo”).
Il secondo riguarda la corretta comprensione dell’aspetto della giustificazione come
incorporazione a Cristo. L’agire salvifico di Dio a favore dell’uomo, per incorporarlo a Cristo,
si attua nell’uomo mediante la fede (giustificazione per la fede), che appare la determinazione
cristiana della libertà credente. La figura della libertà cristiana è quella di una libertà che, proprio
perché dispone di sé nella forma della fede, cioè nella forma dell’autoaffidamento a Dio,
riconosce il primato all’iniziativa divina (non solo nel momento della giustificazione battesimale,
ma anche prima e dopo). L’azione di Dio, cui la libertà accede mediante la fede, trasforma la
libertà nel suo essere (trasformazione reale e in profondità), nel suo agire (nella preparazione e
nello sviluppo della vita di grazia); individualmente (il singolo) e nei rapporti storici (uomodonna, con gli altri uomini e con il mondo).
2. Sul versante storico due questioni caratterizzano l’interpretazione cattolica della
giustificazione: il tema della preparazione (e sviluppo) della giustificazione e il tema del merito.
L’inserimento di questi temi nel quadro della predestinazione/ incorporazione consente di
superare una loro lettura segnata dalla contrapposizione tra l’agire divino, gratuito (la grazia) e
la cooperazione dell’uomo (la libertà). L’impegno della teologia cattolica a conservare il
rapporto tra la realtà divina della grazia e quella umana della libertà, si confronta con due
fronti: quello pelagiano, in riferimento alla necessità della grazia nella preparazione e nello
sviluppo della giustificazione e il fronte luterano, in riferimento alla cooperazione della libertà
nella vita di grazia (tema del merito).
Queste due istanze, cui il concilio di Trento ha fatto riferimento, possono essere
riprese/riconsiderate a partire dalla prospettiva generale della predestinazione /
incorporazione. L’istanza della necessità della grazia è sottolineata dalla teologia cattolica in
funzione antipelagiana, sul presupposto dell’uomo peccatore, quindi incapace di procurarsi da
sé la giustificazione. All’interrogativo: “Che cosa è in grado di fare l’uomo peccatore
nell’ambito dell’agire morale?”, Pelagio risponde che l’uomo da sé può praticare l’impeccantia e
giungere alla santità. Agostino, di contro, risponde che l’uomo, senza la grazia, non può
compiere nulla in ordine all’agire morale.
Una seconda risposta compare nel medioevo, quando l’introduzione della metafisica
aristotelica permette di distinguere tra un agire morale naturale e gli aiuti soprannaturali,
lasciando pensare la possibilità di guadagnare una giustizia puramente naturale. La risposta
cattolica ribadisce l’impossibilità per l’uomo peccatore di osservare senza la grazia la legge
morale naturale e di conseguire la giustizia. La necessità della grazia è sostenuta sulla base
dell’uomo peccatore.
Se la prospettiva di partenza è quella della predestinazione-incorporazione, la necessità della
grazia è giustificata dalla conformazione della libertà umana al destino filiale di Gesù. Senza la
grazia non è possibile per l’uomo partecipare alla condizione filiale di Geù e lo stesso agire
morale va considerato come incoativamente aperto alla forma morale dell’agire cristiano,
impossibile senza il dono dello Spirito (grazia increata).
La seconda questione riguarda la cooperazione alla giustificazione. La teologia cattolica
condivide con la Riforma la necessità della grazia (contro il pelagianesimo), ma rispetto alla
Riforma sostiene anche la necessità della cooperazione dell’uomo al processo della
giustificazione, perché esclude che la tesi della gratuità della giustificazione comporti la
sottovalutazione della partecipazione dell’uomo all’azione salvifica. La problematica della
partecipazione dell’uomo peccatore al processo della giustificazione si articola nei temi della
1) necessità della preparazione alla giustificazione;
2) le proprietà della giustificazione e le condizioni della perseveranza;
3) il valore dell’agire dell’uomo giustificato (il merito).
Antropologia Teologica 2009-2010
177.
1.1 - Sulla preparazione alla giustificazione464 la teologia cattolica sostiene la tesi della necessità
della grazia. Alla problematica suscitata dalla scoperta dell’America, cioè degli uomini fuori
dell’ordine cristiano, vengono date due tipi di risposte: quella dei teologi gesuiti e quella dei
teologi agostiniani.
La risposta dei gesuiti, mediante la natura pura, valuta positivamente le capacità naturali
dell’uomo, che restano anche dopo il peccato originale, in quanto l’uomo perde solo i doni
soprannaturali (spoliatus in gratuitis). Pertanto è possibile una preparazione remota alla
giustificazione con le sole forze naturali (solo negativa), mentre la grazia è richiesta solo per la
preparazione positiva (come insegna il concilio di Trento).
La risposta dei teologi agostiniani, che trova la sua forma esasperata in Baio e Giansenio, sulla
base della identificazione del non cristiano con l’uomo in stato di natura decaduta (peccatore),
sostiene che l’uomo è peccatore in tutti i suoi atti fuori della grazia (anche in quelli che
sembrano virtuosi). Questa tesi è stata ripetutamente condannata dal Magistero (contro Baio
cfr DS 1925; contro i giansenisti cfr DS 2308.2311), in quanto contraddice l'insegnamento
tridentino, che afferma la necessità della preparazione: se infatti antecedentemente alla
giustificazione l'uomo può solo peccare, non si vede che senso possa avere la richiesta di una
preparazione che nel caso non potrebbe avere nessun valore morale.
La corretta interpretazione della preparazione alla giustificazione chiede il superamento
di una prospettiva che pensa grazia e libertà come due grandezze precostituite al loro rapporto,
per considerare il processo di trasformazione reale della/nella libertà da parte della grazia già
dall’inizio del processo giustificante. Tutta la preparazione sta sotto l’azione della grazia,
assumendo l’apertura e trasformando le chiusure della libertà creaturale. Il processo di
trasformazione attuato dalla grazia comporta sia la guarigione della libertà quanto la sua
positiva disposizione alla libertà filiale. In questa prospettiva gli atti preparatori non
“meritano” tanto la grazia, ma indicano la disposizione della libertà credente a essere attuata
nella forma cristiana (filiale). In questo senso sono positivi, perché già segnati dalla grazia e
sono
un
anticipo
della
loro
forma
teologale,
quella
realizzata
dalla
giustificazione/incorporazione a Cristo. Per questo non ha senso parlare di una preparazione
negativa, perché si corre il rischio di separare i piani, più che raccordare la disposizione della
libertà credente e la sua determinazione cristiana (filiale).
2.1 - Riguardo alle proprietà della giustificazione il concilio di Trento nel decreto De iustificatione
(capp 8-15), descrivendo il dinamismo concreto della vita di grazia non si limita al momento
della fede sfiduciale (che non prevede crescita, perdita, recupero), presenta un complesso di
atteggiamenti della libertà umana che, con la sua concreta storicità, introduce nella
giustificazione un aspetto di drammaticità e di dinamicità: peccabilità anche del credente,
necessità di osservare i comandamenti, ammissibilità della grazia, ricuperabilità dello stato di
grazia, crescita, perseveranza della grazia…Il Concilio tratta la questione in riferimento alla
grazia della giustificazione e alla responsabilità del credente riguardo al decadere o progredire
nella vita di grazia. Parlando di uno “speciale auxilium” per la crescita della vita di grazia e per
la perseveranza, intende evidenziare il carattere drammatico e dinamico dell’esistenza
dell’uomo giustificato. Al riguardo un collegamento con il tema delle virtù e dei carismi
favorirebbe una migliore comprensione del carattere dinamico della vita di grazia465.
Cfr J. AUER, Il vangelo della grazia, Cittadella, Assisi 1971, 111-128; M. FLICK- Z. ALSZEGHY, Il
vangelo della grazia. Un trattato dogmatico, Firenze 1964, 201-250; 320-364; A. BENI- G. BIFFI, La grazia di
Cristo, op cit, 184-197.
465
Cfr G. COLZANI, Antropologia teologica, op cit, 551-589; G. ANGELINI sul rapporto tra l’antropologia e le virtù, in “La virtù e la figura cosciente credente”, AA.VV., L’intelletto cristiano, Glossa, Milano
2004, 165-192.
464
Antropologia Teologica 2009-2010
178.
3.1 – La nozione di merito466 intende qualificare l’agire dell’uomo giustificato, l’agire radicato e
alimentato dalla fede-che-salva (cfr Gal 5,6….). Con questa nozione la teologia cattolica
sottolinea il valore proprio dell’agire dell’uomo giustificato, trasformato nel suo essere e nel
suo agire (3.1.1) e il rapporto tra la vita di grazia - la santificazione - e la vita eterna - la
beatitudine - (3.1.2).
3.1.1 – A differenza della Riforma che considera il merito un attentato alla sola gratia (gratuità)
della giustificazione, la teologia cattolica lo pone in relazione a una grazia che trasforma
l’uomo nel suo essere e agire, conferendogli un valore adeguato alla nuova condizione. Quanto
il cristiano compie, accade sotto l’influsso di Cristo, che non mortifica la capacità dell’uomo,
ma la potenzia, tanto da rendere “meritorie” le sue opere. Sembra essere questo il senso di
quanto afferma il decreto tridentino De iustificatione (n 16), dove la gratuità della grazia non è
ribadita sulla contrapposizione tra l’iniziativa di Dio e le capacità dell’uomo, ma, evidenziando
l’elemento proprio della vita di grazia come incorporazione a Cristo, sulla capacità di
trasformare l’essere e l’agire dell’uomo.
3.1.2 – Proprio perché l’azione della grazia (la giustificazione) trasforma l’essere e l’agire del
credente, s’instaura un rapporto tra l’agire cristiano e il compimento della libertà (la vita
eterna). La lettura del rapporto non può essere quella retribuzionista, ma quella della vita di
grazia, quale incorporazione a Cristo, che consente di considerare l’agire virtuoso del cristiano
(il merito) non separato dal merito della croce di Cristo. L’agire del cristiano riceve dalla croce
di Cristo la conformazione alla sua obbedienza pasquale. La qualità meritoria dell’azione del
cristiano appare pertanto come un’irradiazione del merito di Cristo, non nel senso di un
trasferimento del valore meritorio della croce di Cristo al cristiano, ma di una sua reale
attuazione nell’operare del credente. Il merito, riferito all’incorporazione alla pasqua di Gesù, è
anticipo e domanda l’incorporazione allo stato di gloria del Risorto, cioè la partecipazione alla
vita risorta di Gesù (la vita eterna). Questa partecipazione, come evidenzia l’apostolo Paolo, è
azione dello Spirito in noi, il quale, proprio perché ci rende capaci di assimilarci sempre di più
alla morte di Gesù, ci rende capaci di “meritare” la partecipazione alla risurrezione di Gesù,
alla sua vita eterna.
466
Cfr J. RIVIÈRE, voce “Mérite” in DThC X, coll 574-785; Y.-M. CONGAR- V. VAJTA, voce “Mérite”, in “Vocabulaire oecuménique”, 231-279; P. EMERY, Le Christ nôtre récompense. Grâce de Dieu et
responsabilité de l'homme, Neuchâtel 1962; M. FLICK - Z. ALSZEGHY, Le opere della vita nuova, in ID, Il
vangelo della grazia, op cit, 617-710; H. RONDET, Le mérite, in ID. Essais sur la théologie de la grâce, Paris
1965, 98-105 ; P. FRANSEN, Grazia e merito, in MS IX, 478-484; G. COLZANI, Il merito, in ID., L'uomo
nuovo. Saggio di antropologia soprannaturale, Torino 1977, 217-226; W. MOLINSKI, voce “Merito”, in SM V,
coll 213-221.