n.37-40 maggio-dicembre 2010 notiziario bimestrale di architettura in questo numero L’OPINIONE BENI CULTURALI APPROFONDIMENTI inserto ARCHITETTURE Biennale 2010. People meet in architecture Roma, ovvero monumenti e potere Pensando a Magritte. Z5 il Giardino degli Occhi a cura di francesco cellini, mario panizza, carlo mancosu di renato nicolini 4 Un giardino poetico alla Biennale: conversazione con Piet Oudolf di luca d’eusebio 8 di michele campisi 12 RESTAURO Il restauro in Colombia. Un caso recente: il recupero del Panóptico d’Ibagué di alessandro pergoli campanelli 16 di franco zagari 24 PERCORSI LECORBUSIERIANI Interferenze di valerio casali Grattacieli 33 28 30 SOCIETÀ E/È COSTUME Sfida antica, marketing contemporaneo di renato nicolini numero 37-40, anno VII, maggio-dicembre 2010 redazione 00136 Roma, via Alfredo Fusco 71/a tel. 06 35192249-59 fax 06 35192260 e-mail [email protected] website: www.mancosueditore.eu PAOLO VINCENZO GENOVESE (P.V.C.) architetto, docente presso la School of Architecture, Università di Tianjin, Cina MARIA GIULIA PICCHIONE (M.G.P.) architetto, Ministero per i Beni e le Attività Culturali STEFANO GRASSI (S.G.) avvocato, docente presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze FULCO PRATESI (F.P.) architetto, presidente onorario WWF Italia direttore scientifico: CARLO MANCOSU vice direttore: ENRICO MILONE direttore responsabile: FABIO MASSI MASSIMO LOCCI (M.L.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Università “La Sapienza” di Roma responsabile di redazione: PAOLA SALVATORE redazione: VALENTINA COLAVOLPE CARLO MANCOSU (C.M.) editore comitato di redazione FABIO MASSI (F.M.) giornalista GIAN LUCA BRUNETTI (G.L.B.) architetto GIOVANNI CARBONARA (G.C.) architetto, direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti, Università “La Sapienza” di Roma VALERIO CASALI (V.C.) architetto LUIGI MAURO CATENACCI (L.M.C.) architetto FRANCESCO CELLINI (F.Ce.) architetto, preside della Facoltà di Architettura, Università Roma Tre EUGENIO MELE (E.Me.) avvocato, consigliere di Stato ENRICO MILONE (E.M.) architetto, presidente Centro Studi Ordine degli Architetti PPC (Cesarch) Roma RENATO NICOLINI (R.N.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria MAURIZIO ODDO (M.O.) architetto pubblicità M.E. Architectural Book and Review S.r.l. 00136 Roma, via Alfredo Fusco 71/a tel. 06 35192283 fax 06 35192260 e-mail [email protected] FRANCESCO RANOCCHI (F.R.) architetto abbonamento: 6 numeri – € 60,00 tel. 06 35192256 fax 06 35192264 ANTONINO SAGGIO (A.S.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura “L. Quaroni”, Università “La Sapienza” di Roma stampa Tipografia Grafica Artigiana – Roma PAOLA SALVATORE (P.S.) architetto collaboratori SILVIA CIOLI, architetto FRANCO ZAGARI, architetto MICHELE CAMPISI, architetto LAURA GUGLIELMI, architetto FRANCESCO MARIA MANCINI, architetto ARNALDO MARINO, architetto FRANCESCA ROMANA FIERI, architetto impaginazione e grafica LUCIANO CORTESI, ROBERTO DI IULIO, FABIO ZENOBI FURIO COLOMBO (F.C.) giornalista e scrittore MARIO PANIZZA (M.P.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura, Università Roma Tre LUCA D’EUSEBIO (L.D.E.) architetto (ambiente) ALESSANDRO PERGOLI CAMPANELLI (A.P.C.) architetto editore M.E. Architectural Book and Review S.r.l. 00136 Roma, via Alfredo Fusco 71/a tel. 06 35192255 fax 06 35192260 e-mail [email protected] website: www.mancosueditore.eu IDA FOSSA (I.F.) architetto PLINIO PERILLI (P.P.) scrittore e critico responsabile trattamento dati CARLO MANCOSU in copertina KOHN PEDERSEN FOX, Shanghai World Financial Center, Shanghai, Cina Autorizzazione del tribunale di Roma n. 235 del 27.05.2004 ISSN 1824-0526 Gli articoli firmati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la redazione, la quale è disponibile a riconoscere eventuali diritti d’autore per le immagini pubblicate, non avendone avuto la possibilità in precedenza. I manoscritti, anche se non pubblicati, non si restituiscono. La rivista è consultabile anche sul sito: www.mancosueditore.eu Le copie sono distribuite a tutti gli iscritti agli ordini degli architetti d’Italia, agli ingegneri edili, enti e istituzioni varie Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana Biennale 2010 People meet in architecture C l’opinione he l’architettura potesse definirsi come “la più noiosa delle arti” lo affermava nel Settecento un teorico come Francesco Milizia. A trasformare la Biennale in spettacolo, sull’onda lunga delle fortune mediatiche del Guggenheim Bilbao di Frank O. Gehry, era riuscito Massimiliano Fuksas (analogo successo avevano avuto vent’anni prima la “strada novissima” e il Teatro del Mondo di Aldo Rossi, nella Biennale Architettura di Paolo Portoghesi…). Con Fuksas lungo le pareti dell’Arsenale scorrevano in continuità le immagini di una grande multi visione delle città del mondo realizzata da Studio Azzurro. Da allora, il sistema dell’architettura si è sempre più caratterizzato come il firmamento delle archistar; e, nelle Biennali, da Sudjic ad Aaron Betsky, i progetti rappresentati tradizionalmente con pianta, sezioni e prospetti sono stati progressivamente sostituiti dalle instal Kazuyo Sejima, lazioni e dalle performance artistiche. direttore della 12. Mostra Internazionale di Architettura (foto: Giorgio Zucchiatti; courtesy: La Biennale di Venezia) Kazuyo Sejima & Associates, “Inujima Art House Project” (operated by: Naoshima Fukutake Art Museum n.37-40 Foundation; 2010 © Kazuyo Sejima & Associates) 4 La Biennale appena inaugurata, visitabile fino all’11 novembre, firmata da Kazuyo Sejima, sembra invitare in un’altra direzione, a giudicare dai saggi che aprono il voluminoso catalogo. Maurizio Lazzarato (Capitalismo e produzione di soggettività) cita Felix Guattari, l’“economia del possibile” – vale a dire l’“economia del desiderio”. «Poiché l’architetto non avrebbe più come obiettivo l’essere artista di forme costruite, ma si proporrebbe di essere anche il rivelatore dei desideri virtuali di spazio, di luoghi, di percorso e di territorio, dovrà (…) diventare un artista e un artigiano del vissuto sensibile e relazionale».Yuko Hasegawa spiega il titolo della Biennale (People meet in architecture) in riferimento a un pensatore un po’ dimenticato negli ultimi tempi della società dello spettacolo – di cui è stato acuto critico precorrendo Guy Debord – come Henri Lefebvre, e alla sua fondamentale Critica della vita quotidiana. «Lo spazio dell’utente è “vissuto”, non rappresentato (o concepito). Rispetto allo spazio astratto degli esperti (architetti, urbanisti, pianificatori), lo spazio degli atti quotidiani degli utenti è uno spazio concreto». Hasegawa ci invita a riflettere sul modo in cui Lefebvre si riferisce al corpo, «in termini di recupero dello spazio sensoriale-sensuale», auspicando «il ripristino di uno spazio per il “non visivo” in forma di “discorso” della voce, dell’olfatto e dell’udito». Percorrendo gli spazi dell’Arsenale e del Palazzo delle Esposizioni (ex Padiglione Italia) ai Giardini, si ha però una duplice, contraddittoria impressione. Da un lato proposte in sintonia con le premesse teoriche appena esposte. Kazuyo Sejima e il suo gruppo SANAA sono effettivamente espressione di una tendenza “non visiva” dell’architettura, fino a un’ambiguità che rasenta la dissoluzione, confondendo e sospendendo il giudizio dell’osservatore, mantenendo il significato costantemente fluido e mobile. Il grande plastico dell’isola di Inujima, dove Sejima e SANAA sono impegnati in un progetto d’intervento artistico, costruendo padiglioni trasparenti in materiali sperimentali in mezzo alle case spesso abbandonate dei pescatori, con l’intenzione di frenare l’esodo della popolazione e di dare all’isola una nuova prospettiva anche economica, è forse l’installazione che più rimane nella memoria dalla visita alla Biennale. Tadao Ando, maestro giapponese della generazione appena precedente, aveva fatto qualcosa di simile nell’isola di Naoshima, realizzando un museo d’arte contemporanea che era anche un albergo in cui il visitatore poteva dormire, anche in stanze firmate da artisti come Richard Long. Sejima e SANAA si fermano un gradino prima, senza arrivare al museo, evitando una proposta troppo definita d’uso, pensando piuttosto agli abitanti di Inujima che ai suoi visitatori, lasciando fluida la relazione tra paesaggio tradizionale e turismo culturale. La meraviglia generata dai nuovi padiglioni cerca di entrare in relazione con la vita quotidiana dell’isola; come dimostra il doppio video di Fiona Tan – in una sala dell’ex Padiglione Italia, oggi Palazzo delle Esposizioni ai Giardini (girato il primo dall’alto dell’elicottero alla scala del paesaggio di Inujima, il secondo invece a terra cercando i volti e i gesti della popolazione, fino al bruco che percorre lentamente una foglia). Un altro video, di Wim Wenders (Se gli edifici potessero parlare), percorre lentamente – lungo l’arco della giornata, dall’apertura alla chiusura – gli spazi di un altro edificio di SANAA, il Rolex Learning Center dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna, con l’intenzione di dimostrare che «gli edifici, come la gente, sono soggetti al tempo», e che alcuni edifici sono «particolarmente gentili e amichevoli, fatti per imparare, leggere e comunicare». La personalità che – assieme a Kazujo Seijima – emerge con maggiore forza da questa Biennale è però quella di un architetto che appartiene alla storia piuttosto che alla contemporaneità, Lina Bo Bardi, cui è dedicata una bellissima sala nel Palazzo delle Esposizioni. La progettista del Museo d’Arte Moderna di San Paolo del Brasile, e del centro d’arte SESC Pompeia, morta nel 1992, ne emerge come la principale precorritrice del modo “gentile” e partecipato di approccio all’architettura. Negli anni ’50 e ’60 la Bardi innova rispetto alla tradizione, cui peraltro si riferirà sempre, del funzionalismo di Le Corbusier, correggendola con le ispirazioni che le vengono dal «popolo brasiliano, che ha libertà di movimento, la libertà di fare a meno delle istituzioni». Kazuyo Sejima & Associates, “Inujima Art House Project” (operated by: Naoshima Fukutake Art Museum Foundation; © Kazuyo Sejima & Associates) Sotto: Wim Wenders, “If Buildings Could Talk…”, 2010. Video installazione 3D girato nell’edificio del Rolex Learning Center of the Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne (produced by: Neue Road Movies, Berlin; post-produced by: Cinepostproduction, München; with the support of Rolex; © Neue Road Movies 2010) Lina Bo Bardi, “Museu de Arte de São Paulo MASP”, 1957-1968. Concerto al Belvedere, 1992 (foto: Divulgation Itamar Miranda; Instituto Lina Bo e P.M. Bardi, San Paolo, Brasile) Il principio della libertà corregge il formalismo modernista.«Nelle civiltà orientali come quella del Giappone e della Cina – scrive Lina Bo Bardi – si osserva una coesistenza tra una posizione culturale del corpo (il corpo come spirito) e l’atto fisico. Questa coesistenza si ritrova anche in Brasile». Tra le installazioni contemporanee, appare coerente a questo spirito la sala dello Studio Mumbai Architects, che ha trasportato il proprio laboratorio a Mumbai, così come si trovava, carico di lavori in corso e di artigianalità del legno, nell’Arsenale di Venezia. «L’ambiente in cui viviamo è uno spazio che creiamo e abitiamo in modo inconscio…». Purtroppo, non tutta la Biennale procede con questa coerenza. Si ha l’impressione che, invitati a fare un passo di fianco, se non indietro, a proporre il lavoro dell’architetto come maieutica del senso della possibilità e della trasformazione, uscendo dalla trincea estetica com’era uscito negli anni Sessanta dalla trincea funzionalista, la maggior parte degli invitati faccia al contrario un passo avanti Sopra: Studio Mumbai Architects, “Studio Installation”, 2010 (© the authors) A destra: Transsolar & Tetsuo Kondo Architects, “Cloudscapes”, 2010 (foto: Frank Ockert) n.37-40 2010 6 Centro pagina: Olafur Eliasson, “Your split second house”, 2010 (© Olafur Eliasson) nella direzione ormai consueta della performance para-artistica. In qualche caso con forza ed efficacia (il Balancing Act di Anton Garcia-Abril & Ensamble Studio che interrompe, con una colossale doppia trave incrociata retta a un estremo da una molla, il percorso dell’Arsenale; o i tubi flessibili che spargono acqua, con effetto di gocce d’argento nel buio, di Olafur Eliasson…). In altri casi con risultati più che discutibili, come nell’ambiziosa istallazione di Transsolar & Tetsuo Kondo Architects, che vorrebbe farci passeggiare sopra una nuvola sottoponendoci a una sauna poco gradita col caldo della fine d’agosto veneziana. Mentre ci si trova a divagare con la testa e i piedi tra le nuvole, è difficile non domandarsi chi si occupi concretamente di architettura, dei problemi di tipologia, di urbanistica, di sostenibilità ambientale, che stanno riemergendo un po’ dovunque tra scoppi delle bolle immobiliari, crisi dell’illusione di ricchezza facile, carenza drammatica di case a basso costo soprattutto per i giovani e gli immigrati… Un’analoga duplicità caratterizza i padiglioni nazionali, che rispondono ciascuno a proprio modo al tema dell’incontro della gente mediato dall’architettura. Dominique Perrault usa il padiglione francese per forti immagini metropolitane; gli svizzeri riflettono sui ponti alpini, sulla mediazione tra tecnologie e paesaggio; l’Inghilterra, sotto il titolo emblematico di Villa Frankenstein, ci spinge a riflettere su Venezia, riprendendo Ruskin; il Giappone riflette sul “metabolismo delle città”, cioè sulla durata media di una costruzione e sulle conseguenze che ne derivano; il Bahrein (padiglione Reclaim di Noura Al Sayeh e Fuad Al Ansari, premiato con il Leone d’Oro) ha trasportato a Venezia, affidando la documentazione del paesaggio costiero in cui si inseriscono alle fotografie di Camille Zakharia, due baracche in legno di pescatori, dalle assi sconnesse, per farci riflettere sul ruolo che ancora oggi hanno le “architetture senza architetti” care a Giuseppe Pagano e Mario Ridolfi… Il padiglione Italia, curato da Luca Molinari, urta contro un limite non facilmente prevedibile. La voglia di dire tutto, per documentare quanto è accaduto negli ultimi vent’anni, approda al risultato di apparire pieno come un uovo, se non un po’ agnostico. È una Biennale nella Biennale, che però fa parte per se stessa sottraendosi alla A sinistra e sotto: Noura Al Sayeh e Fuad Al Ansari, Kingdom of Bahrain (foto: Camille Zakharia; © Ministry of Culture – Kingdom of Bahrain) Si ringrazia per la collaborazione La Biennale di Venezia - Archivio Storico delle Arti Contemporanee domanda People meet in architecture. Peccato, perché in Italia (penso soltanto alla discutibile concezione di nuovo spazio pubblico proposta di fatto dalla ricostruzione dell’Aquila, con la gente costretta a incontrarsi nei centri commerciali…) gli spunti per una discussione non sarebbero mancati. Il Padiglione Italia non è comunque senza elementi d’interesse, come la parte dedicata ai “beni sequestrati alla mafia”, e in particolare la nuova sede degli uffici comunali a Castelvetrano (2005-07) di Santo Giunta, Orazio La Monaca, Leonardo Tilotta e Simone Tilone (che, per i principi architettonici che la ispirano,è anche un affettuoso omaggio alla memoria di Pasquale Culotta, che ci ha lasciato da poco…). R.N. n.37-40 2010 7 Piet Oudolf, il Giardino delle Vergini, Venezia, 2010. L’immagine mostra la griglia e le aree disegnate sul terreno per collocare i gruppi di piante Tutte le immagini contenute in questo articolo mostrano il Giardino delle Vergini realizzato per la Biennale di Venezia (© Piet Oudolf) Un ggiardino p poetico alla Biennale: conversazione con Piet Oudolf P l’opinione iet Oudolf è l’autore del Giardino delle Vergini realizzato all’Arsenale di Venezia in occasione della dodicesima Biennale di Architettura. La giuria della Biennale ha conferito una menzione d’onore al giardino, «delicato e impressionistico nella sua accurata orchestrazione», collocato fra n.37-40 2010 8 gli edifici industriali dei cantieri navali e dei magazzini marittimi. Un sito fino ad oggi abbandonato di per sé di grande fascino, che il giardino completa magnificamente. Direttamente coinvolto da Kazuyo Sejima, il curatore della Biennale di Architettura, che conosce e apprezza il suo lavoro, Oudolf ha realizzato per la prima volta nella storia della Biennale un giardino. Questo è stato di grande stimolo per lui, benché vi fossero dei tempi molto ristretti e un budget assai limitato: «Fare un giardino in quattro mesi è stata una bella scommessa. Un progetto di corsa e una realizzazione di corsa». Piet Oudolf, sempre molto attento al contesto naturale che ospita i suoi giardini, utilizza prevalentemente le erbacee perenni di tarda fioritura disegnando geometrie di forme e colori accostando foglie, fiori e steli in grande varietà nel desiderio di lavorare anche con la natura esistente. Infatti, anche in questo caso, ha lasciato intatta parte della folta vegetazione selvatica già presente sul sito. Quindi chi attraversa il piccolo giardino con i rovi di more sullo sfondo e le variegatissime bordure fra le alberature centenarie non ne percepisce esattamente i limiti. Oudolf, mascherando un po’ la sua scelta poetica, racconta che una delle prime operazioni per la preparazione del sito per ospitare il nuovo giardino è stata quella di liberarlo dai rovi. Questa operazione sembra abbia costituito un capitolo di spesa oneroso sul ridotto bilancio a disposizione: «Avevamo un piccolo budget e dovevamo liberarci dai rovi. Allora abbiamo cercato di far funzionare le due cose». La successiva operazione per la realizzazione del giardino ha visto l’utilizzo del metodo della rappresentazione a terra del progetto sul sito. In base al disegno di progetto viene realizzata una griglia di 2 × 2 m come riferimento per apportare direttamente sul suolo il disegno della sistemazione delle piante. Molti sono i disegni di dettaglio per la piantumazione di un singolo gruppo di piante che arriva alla definizione del numero preciso di piante da collocare. Molto soddisfatto dell’esito del giardino, Piet Oudolf intende seguirne le evoluzioni durante i prossimi mesi venendo di persona a Venezia. Per il momento si nota che nel giardino sono assenti le sedute. Alla richiesta di come mai non vi fossero, risponde che «in verità mi avevano promesso delle sedute, forse arriveranno. Credo ci saranno degli sponsor interessati. Altrimenti non avrei fatto un sentiero così largo. La preparazione del terreno e la realizzazione del sentiero hanno costituito una parte importante della spesa. Per caso mi sono incontrato con Robert Hammond e quindi il giardino ha avuto la fortuna di ospitare un Chance Encounter». Si tratta di un happening ideato da Lisa Bielawa e Robert Hammond, entrambi borsisti 2010 dell’Accademia Americana di Roma, che hanno organizzato un esperimento urbano teso alla rivitalizzazione artistica e urbanistica del Lungotevere di Roma. Piet Oudolf Piet Oudolf, uno dei più noti paesaggisti a livello internazionale, è nato a Haarlem in Olanda nel 1944. Ha lavorato come barista, pescivendolo, metalmeccanico e cameriere prima di essere assunto in un vivaio a 26 anni. Segue corsi di progettazione e gestione dei giardini aprendo il suo studio di progettazione di giardini nel 1976. Nel 1982 si trasferisce con la moglie Anija in una fattoria a Hummelo, dove ancora vive e lavora, in modo da poter dedicare più tempo a sperimentare con le piante e aprendo un vivaio. I suoi lavori hanno ispirato la nascita negli anni Novanta del movimento New Wave Planting, noto anche come New Perennial. Egli stesso ha aderito a questo movimento che cerca l’abolizione dei dogmi nella progettazione dei giardini usando masse di piante graminacee perenni disposte naturalmente a gruppi e masse di colori, e ne è uno delle firme più rappresentative. La ricerca sperimentale di Piet e Anija si è concentrata prevalentemente sulle piante perenni, con attenzione alla loro forma, dando nome a oltre 70 nuove piante. Da questa esperienza è nata recentemente Future Plants una società specializzata sulla selezione, coltivazione, allevamento, protezione e vendita delle piante che sono utili e hanno tutte le qualità necessarie per l’abbellimento e il verde pubblico. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Planting Design: Gardens in Time and Space (2005) in collaborazione con Noel Kingsbury, Planting the Natural Garden (2003) in collaborazione con Henk Gerritsen, Dreamplants for the Natural Garden (2000) e More Dreamplants in collaborazione con Henk Gerritsen, Designing With Plants (1999) in collaborazione con Noel Kingsbury, Designing with Grasses (1998) in collaborazione con Michael King. Piet Oudolf è stato pregiato della medaglia d’oro al Chelsea Flower Show di Londra nel 2000, della medaglia d’oro Veitch Memorial dal Royal Horticultural Society nel 2002, dell’Award for Excellence in progettazione dalla commissione d’arte della città di New York, del Dalecarlica Award 2009 dalla commissione Swedish Park, il premio dell’Association of Professional Landscape Designers nel 2010 per il contributo alla progettazione dei giardini e, infine, della menzione speciale 2010 della dodicesima Biennale di Venezia per il Giardino delle Vergini all’Arsenale. Tra i suoi progetti principali vi sono giardini per spazi pubblici, ma anche per abitazioni private e uffici in Olanda, Gran Bretagna, Germania, Svezia e Stati Uniti: l’ingresso del giardino botanico De Uihof a Utrecht, il giardino del centro Reuma Verpleeghuis a Rotterdam, la riserva naturale Pensthorpe nel Norfolk e la RHS Wisley nel Surrey, alcuni giardini al Millennium Park a Chicago e il Battery Park e la High Line a New York, il Lurie Garden a Chicago collaborando con Frank Gehry e Gustafson Guthrie Nichol. n.37-40 2010 9 Cento sedie rosse pieghevoli sono state lasciate sulla banchina del fiume per studiare le reazioni e l’uso che lo spettatore ne fa mentre assiste alla pièce musicale a sorpresa di 30 minuti di Lisa Bielawa. Chance Encounter è stato replicato negli spazi antistanti il MAXXI in occasione dell’inaugurazione e appunto alla Biennale di Venezia. A proposito del suo recente giardino realizzato sulla High Line a Manhattan – giardino fondato e fortemente voluto da Robert Hammond e Joshua David – Oudolf ha più volte detto che si è trattato della cosa più audace che avesse mai fatto, «praticamente ho avuto a che fare con un ambiente con una limitata ecologia del suolo proprio al centro di uno dei contesti urbani più “duri”, vissuto da persone che con molta probabilità non usciranno mai da New York City. Ma la High Line è anche fortemente concettuale: riconnette con qualcosa di perduto nel tentativo di avvicinare le persone a un tipo di bellezza che forse non hanno mai sperimentato prima». Lista delle essenze utilizzate per il Giardino delle Vergini n.37-40 2010 10 PERENNI Achillea “Walter Funcke” Aconitum wilsonii Agastache “Blue Fortune” Anemone “Pamina” Anemone robustissima Aster ageratoides “Asran” Aster amelius “Sonora” Aster “Little Carlow” Aster novae-angliae “Alma Potschke” Aster “Oktoberlicht” Cimicifuga ramosa “Atropurpurea” Echinacea “Fatal Attraction” Echinacea purpurea mix Echinops bannalicus “Taplow Blue” Eupatorium rugosum “Chocolate” Eupatorium maculatum “Atropurpureum” Genziana trifola “Royal Blue” Helenium “Rubinzwerg” Heuchera micrantha “Palace Purple” Kirengeshoma palmata Lobelia vedraiensis Persicaria amplexicaulis “Alba” Persicaria “Orange Field” Scabiosa columbaria “Butterfly Blue” Scutellaria incana Sedum “Matrona” Stachys officinalis “Hummelo” Tricyrtis formosana “Purple Beauty” ANNUALI Ammi visnage “Green mist” Dahlia coccigea Dahlia “North Star” Nicotiana sylvestris Nicotiana “Tinkerbell” A ogni gruppo di piante è attribuito un numero che identifica un’essenza specifica ERBACEE Molinia caerulea “Edith Dudzus” Molinia caerulea “Heidebraut” Molinia caerulea “Moorhexe” Molinia caerulea “Transparent” Panicum virgalum “Rehbraum” Panicum virgalum “Heavy Metal” Pennisetum alopecuriodes “Virdiscens” Sesleria autumnalis Piet Oudolf, che non ha fatto studi particolari e lavora con l’istinto, è riconosciuto come uno dei più geniali e innovativi paesaggisti contemporanei. È definito “un naturalista” per la propensione all’utilizzo di piante erbacee selvatiche quasi a voler nascondere la razionalità del progetto del giardino. Le piante che usa sembrano essere selvatiche, mentre i giardini che fa non lo sono affatto. Il suo approccio genera progetti di giardini molto “naturali” che non partono mai da affermazioni aprioristiche bensì rispondono ai materiali presenti nel paesaggio in cui si inseriscono: il suo clima, la sensibilità del cliente e la complessità delle richieste. Di fronte alla domanda: che effetto fa al fondatore del movimento New Perennial fare un giardino in Italia, patria della tradizione formale nell’arte dei giardini, Oudolf ha tenuto a precisare innanzitutto di non esserne il fondatore ma di aver solo aderito al movimento. Secondo Oudolf «nel fare giardini vi sono tanti dogmi, quello che mi interessa è proprio eliminare i dogmi, allontanarmene, essere libero. Se una cosa non piace è giusto non fare quello che non ti piace». Il movimento New Perennial è spesso associato al paesaggista irlandese William Robinson (18381935), pioniere del giardino selvatico in cui dominano le piante perenni insieme a quelle autoctone di un sito al fine di creare paesaggi in linea con la tradizione architettonica del movimento inglese degli Arts and Crafts. Potremmo dire che Oudolf ne sia l’erede contemporaneo. Hai lavorato molto nell’Europa del nord, nel Canada e Stati Uniti. È stata la prima esperienza in Italia? «Sì. I miei giardini sono adesso più noti in Italia. In Italia però ho visto che non sono abituati, in termini di manutenzione, al mio tipo di giardinaggio. Venezia è al limite tra il Mediterraneo e l’Europa quindi ho usato piante che conosco adatte a climi continentali. Le persone dei climi continentali sono motivate verso questo tipo di giardino, mentre in Italia vi è più consuetudine per i giardini formali». Oudolf e la moglie hanno un vivaio dove fare le sperimentazioni con le piante. A Venezia non hanno utilizzato le piante del loro vivaio che è pensato soprattutto per sperimentare, ma hanno fatto riferimento a dei vivai olandesi per poter avere un controllare diretto. Il loro vivaio apre al pubblico durante i Grass Days di fine estate e ai primi di autunno. È il periodo in cui sono particolarmente interessanti i suoi giardini. Come dice lui stesso «morire in maniera interessante è altrettanto importante quanto vivere». I Grass Days sono eventi di grande interesse perché il vivaio vanta circa 70 nuove specie e offre la possibilità di vedere non solo le piante in vaso ma anche la loro resa sul terreno, in un’apposita zona della loro proprietà. Pensi che nel fare giardini oggi sia necessario un approccio più sostenibile? «Penso che sia bello vedere il lento cambiamento che hanno le piante. Lo trovo molto istruttivo». In effetti Oudolf ha nei confronti del giardinaggio un atteggiamento profondamente filosofico se non addirittura religioso: «Mi piace mettere le persone in contatto con i processi della loro vita. Quello che richiede una vita intera, una pianta lo sperimenta in tempi più brevi. In questo senso il giardinaggio è un microcosmo del ciclo vitale». Nel caso del Giardino delle Vergini si può dire che rappresenti anche una perfetta trasposizione del tema della Biennale, People meet in architecture, dall’architettura al paesaggio attraverso una piacevole pausa tra padiglioni e architetture nel poetico scenario dell’Arsenale. Silvia Cioli e Luca D’Eusebio n.37-40 2010 11 Crollo di parte della volta della Domus Aurea, avvenuto il 30 marzo 2010 Sotto: l’interno della Domus Aurea Roma, ovvero monumenti e potere beni culturali a cura di Maria Giulia Picchione Il n.37-40 2010 12 30 marzo di quest’anno, come forse ci si poteva attendere da qualche parte di questa antica città, crollava una porzione di una vecchia volta adiacente i leggendari anfratti della Domus Aurea neroniana. Questa, sia pur piccola cosa, era parte delle strutture, tutt’oggi esistenti del terrazzamento voluto da Traiano ai primi anni del II secolo d.C., costruito lì per potervi poggiare la sontuosa architettura delle sue terme; forse anch’esse nate dalle idee di Apollodoro damasceno. A distanza di un po’ di tempo, sopiti i clamori e le inevitabili indignate costernazioni, insieme ai residui sembrano oggi già sotterrate anche le più caritatevoli e insolite attenzioni dei giornali. Del resto, nel contemporaneo, tutto sembra essere mosso dalla “notizia” e com’è noto dal più consueto paradosso mediatico, se una cosa non la trovi su quelle pagine vuol dire che non è mai accaduta. Nel nostro caso vuol dire che è accaduta per i tre giorni che hanno accolto gli immancabili commenti e i solonici responsi sulle taumaturgie indispensabili a questa città che… ahimè non è più la stessa! Tra la polvere dei pavimenti di Colle Oppio, lì accanto all’ingresso misterioso della Domus neroniana, rimane molto più di quanto faccia credere l’informe mucchio di residui; resta, piaccia o no, una strana idea della Roma contemporanea, l’inconsolato destino della città. Al sommo della questione esiste una evidente conflittualità tra “passato” e contemporaneo.Checché ne voglia pensare un certo modernismo destrorso che vuole ancora porre, al di fuori del tempo, la figura di un umanesimo nostalgico fatto di concezioni in sé conflit- tuali come spiritualità dei valori umani e materiale sopravvivenza. Una destra dirigistica che trova nella relazione essenziale tra indirizzo del vertice istituzionale e politica per la base civica l’unica opposizione etico-politica al “parlamentarismo culturale”: uno spettro che si aggira(va) quanto meno nel sottosuolo di Roma. In verità, tanti si vorrebbero illudere della sua reale capacità rigeneratrice a fronte di una imbarazzante empasse davanti cui parcheggia l’idea di “sinistra”. Una supremazia che in quarant’anni di solide istituzioni culturali e relate uniformi sociali resiste nell’idea nostalgica e nella memoria epifenomenica di sia pur gloriose generazioni. Dov’è quella bella città; ma dov’è il Bello in questa città? Dove le sue sempre più arcaiche sofferenze postbelliche da cui fumavano, tra i ruderi macabri del grande errore, speranze nascoste di civiltà. Forse già in quegli stessi momenti, covava, impercettibile e nascosta, una ben altra rovina. È il paradosso dell’Italia moderna a partire dagli anni Cinquanta: viva nelle ruderi sembianze di interi quartieri storici; San Lorenzo, mortale nelle variopinte e policrome accelerazioni dei sobborghi agricoli occupati. Tanto che pare assai difficile parlare della città storica prescindendo dalla sua esistenza metropolitana che la include come un nucleo inquieto, che la muta e la modifica in una fibra inattiva secca e legnosa, intorno alla quale ruotano vortici di sostanze sempre più estranee. La “moltitudine” ha definito questo processo. Ha costruito in questo suolo la dinamica corruttrice del consenso. La città nella sua storia ha sempre vissuto, con contiguità e sentimento di appartenenza, la sua esistenziale condizione monumentale. La società, in qualche modo, ne era parte organica anche a dispetto del potere che ne ha sempre subìto un’attrazione ferale, evocandola nel proprio immaginario come la propria massimizzabile rappresentazione; non ultima la città napoleonica, né quella umbertina. Ai segni di un potere strettamente legato alla sostanza tangibile dei luoghi si è in seguito sostituito un meccanismo di controllo più etereo e rarefatto che si sostanziava nell’Immagine quale mezzo del contatto sublime. Oggi l’evoluzione del rapporto tra potere e monumento si è quasi annullato abbandonando quest’ultimo a un autonomo destino di inutile contenitore, di incoerente presenza nel tessuto degli scambi sociali della città. La condizione di romantica suggestione, anacronistica e per certi versi surreale, rimane affidata a un precario e residuale apparato giuridico del vecchio Stato che a suo tempo, con cognizione democratica ne aveva definito la categoria sostanziale nello status di “bene”; una identità che in questi giorni è difficile collocare esattamente nella sua originaria vestizione. Prova ne è il lento abbandono del Ministero creato negli anni Settanta dal- l’intervento di una generazione intellettuale che mostrava ancora di credere alla idea salvifica di “tutela” come avamposto della civiltà. Oggi si parla sempre più astrattamente del patrimonio come luogo di un ennesimo veicolo da immettere nella fluidità delle relazioni produttive. Il lessico con cui si vuole sostanziare l’innovazione del settore rappresenta sempre più evidentemente la distanza che corre tra il sistema dei valori dell’età classica e il contemporaneo. Qual è lo spazio oggi possibile della grande tradizione che, dall’Umanesimo all’Illuminismo, ci ha definito nella coscienza più importante della nostra cultura e della sua espressività linguistica? Determinato dalla grande recessione economica, seconda solo a quella del ’29, il destino dei monumenti si è posto sempre più in coincidenza con l’obbligo di una loro autonoma capacità di sopravvivenza e di idoneità produttiva. Quello che era stato l’assunto etico sancito dall’articolo 9 della Costituzione, l’obbligo di fatto da parte della Repubblica alle provvidenze indispensabili per la salvaguardia dell’identità materiale: paesaggio, patrimonio storico e artistico è sempre più disatteso. Come per gli altri articoli “fondamentali” è sottoposto alle bordate di insofferenza dei “manovratori” al comando negli ultimi due decenni. Pesa qui non solo il fatto che su di essi non sia più stata licenziata una efficace politica della risorsa; né sul primario, né sullo straordinario, quanto piuttosto l’assunzione di un ruolo negativo. Un recente rapporto («Giornale dell’Arte», n. 298, maggio 2010, p. 10) chiarisce il peso dell’inefficacia gestionale del denaro disponibile in considerazione dei 1.843 miliardi di euro di residuo passivo per il 2009. La situazione è per altro comune a tutti i ministeri, il più compromesso dei quali, per paradosso è quello dello Sviluppo Economico dove i residui passivi arrivano quasi al 60% degli stanziamenti di bilancio. Nel corso degli ultimi esperimenti dei nuovi ordinamenti e assetto ministeriale, i tentativi sono culminati con la formazione di società finanziarie parzialmente esterne all’amministrazione pubblica che avessero tali capacità di spesa.Anche in questo caso, a parte di qualche strategico impiego, per insondabili motivi, la giacenza paralitica delle attività è stata quasi pari al silenzioso lavorio che vi si svolge ai consueti margini. Rimangono in piedi alcune certezze: il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, svuotato del suo personale non più sostituito nel corso del tempo, è stato di fatto deposto da qualsiasi capacità ed efficacia; ridotto ad affrontare la sempre maggiore aggressività delle L’interno del Colosseo Sotto: il Portico d’Ottavia componenti territoriali. La strategia in atto almeno da poco più di un decennio ha una data topica nel 1997. Con la “legge Bassanini” si erano infatti determinati, con l’ultima concordia generale del Parlamento, condizioni ideali per innovare seriamente il settore. Anche questo esperimento, che comunque avrebbe mostrato forte carattere propositivo, ancora oggi non pare aver avuto esito di completezza. Varie istanze hanno spinto al mantenimento di uno status quo da cui non appaiono esimersi le colpe dello stesso mondo professionale e intellettuale dentro l’istituzione: un patrimonio umano ridotto troppo spesso a gerarchiche carriere d’apparato. Il mondo dei beni, intanto, una volta decaduto nell’inutile, poteva non più rappresentare intralcio, come poi diventato, all’esercizio dello sviluppo, dell’occupazione e rigenerazione fondiaria del territorio. L’età post-liberale ha di fatto sovra passato l’idea del patrimonio come struttura della sfera pubblica a beneficio dell’azione speculativa in funzione del consolidamento finanziario. Il ruolo del presente apparato bancario, quanto più lontano ed estraneo all’etica sociale che in qualche modo vi sopravviveva ancora negli anni Sessanta, ha determinato anche per i settori a sé ignoti e lontani alla pratica finanziaria, vincoli di redditività. Comuni, ministeri, Regioni, enti appositi, fondazioni, si sono fatti in quattro per dimostrare la assai stupida idea dei “giacimenti culturali”. Come se di fatto non avessero, i monumenti di Roma, nessun ruolo nella mobilità turistica. Si è poi scoperto che nessuna istituzione è stata in grado di attribuirsi conti economici in parità. n.37-40 2010 13 Il MACRO (Museo d’Arte Contemporanea di Roma) Sotto: il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) n.37-40 2010 14 L’estemporaneità con cui il potere politico ha assunto la disciplina adesso rimbalza da un esperimento all’altro: oggi potrà andare alla grande un bravo manager; poi una società finanziaria, poi ancora – perché non vendere tutto? Ma a chi, e cosa? Non possono aversi dubbi sul fatto che il monastero di Pizzighettone, luogo caro al paradosso politico, soprattutto se mancante da svariati decenni di manutenzione, non rischi minimamente la sua incerta e ruderale sopravvivenza marginale. Certamente più attraente una spiaggia, una galleria già restaurata dove portare invitati e convegnisti: un destino ancor più risibile dello sfortunato monastero.Quanto dovremo ancora aspettare? Quanti esperimenti? Il settore, quindi, per tale scarsa capacità competitiva sarà ben al riparo dai sostegni allo sviluppo, lasciando molta parte del suo costrutto alla speranza di una coscienza civica sempre più analfabeta. Da tutto questo non può che sopravvivere l’idea di città turistica. Quali altri destini si è in grado di immaginare infatti? Roma ne assume il portato più esemplare. Quel tessuto di quartieri, ricco degli strati più multiformi e degli eventi singolari, finisce in mano ai torpedoni: gli unici che hanno oggi il diritto di circolazione libera e indefinita tra le strade della vecchia città. Le trasformazioni si misurano su queste intenzioni. Spazi che si possono ora recludere con provvidenziali cancellate che ne evitino attività di mantenimento. Vi si passa sotto, a distanza per tragitti studiati al massimo del risultato col minimo degli sforzi. Il Colosseo finché tiene così com’è, Veiovis: questo sconosciuto; le pozze del Portico di Ottavia, i semi ponteggi della Torre dei Conti. Le notti che ormai calano pericolosamente nel buio; forse ci salverà l’involontaria comicità di un “suono e luci”. I Fori sono colti da un meritato sonno. Sono scenari questi che non partecipano all’immaginario turistico. Non risiedono né permangono nel trascorso dell’esperienza di viaggio; non più di un piatto di pajata o di un’asfittica carbonara. Roma intanto trova la sua nuova vocazione modernista! La liberazione da quel passato, la cancellazione di quel “parlamentarismo culturale” porta distintamente la cifra neo-futurista della nuova epoca: multietnica, multiformale, eccentrica, a volte americana e informale, questa volta però fuori dagli studi artistici del Prenestino. Si compiono i processi di lungo cammino con l’arte per la riverente moltitudine che a frotte occuperà le sale impercorribili dei nuovi musei d’arte moderna; involucri luciformi e turpidi ben riparati dal corrosivo materialismo: il Macro-Mattatoio, il MAXXI. La suggestione al potere è un’efficiente macchina organizzativa pronta a monetizzare l’evento. È chiaro che a partire da qui non può vedersi conflittualità tra il passato e il contemporaneo. Tutti gli spazi vanno bene – al contemporaneo. È il passato che mostra sempre più i segni di un logoro rapporto con la città, che si dimostra sempre più abbandonato all’estemporanea iniziativa di istituzioni passatiste. L’idea dello Stato, l’anglosassone modello delle “comunità” resistito alla dinamica della comunicazione appartengono di fatto a un’archeologia socialogica in cui ha sempre meno terra l’individuo. Vale a questo punto la crudele rassegnazione poetica di Pier Paolo Pasolini: (…) questo cielo di bave sopra gli attici giallini che in semicerchi immensi fanno velo alle curve del Tevere, ai turchini monti del Lazio… Spande una mortale pace, disamorata come i nostri destini, tra le vecchie muraglie l’autunnale maggio. In esso c’è il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare tra le macerie finito il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita; il silenzio, fradicio e infecondo… Michele Campisi restauro a cura di Giovanni Carbonara e Alessandro Pergoli Campanelli (San Bonifacio de) Ibagué (del Valle de las Lanzas), il “Panóptico”: vista del cortile interno dopo i recenti lavori n.37-40 2010 16 Il restauro in Colombia. Un caso recente: il recupero del Panóptico d’Ibagué L a disciplina del restauro architettonico non è certo sconosciuta in Colombia. Lo dimostrano i tanti interventi degli ultimi anni, specialmente quelli realizzati nei siti turistici più noti, laddove il risalto provocato dai numerosi riconoscimenti internazionali (quali, ad esempio, i prestigiosi inserimenti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO, come è avvenuto per il porto, la fortezza e i monumenti storici di Cartagena) ha attivato ingenti risorse economiche.Tuttavia, come spesso accade, l’aumento degli investimenti non ha automaticamente generato risultati altrettanto positivi per la conservazione e il restauro dei principali monumenti. Questo perché la direzione – oculata o meno – di ogni intervento è rimasta, nella maggior parte dei casi, affidata all’iniziativa e alla capacità dei singoli progettisti, non sempre versati nel campo conservativo. Attualmente in Colombia non esistono, infatti, specifiche normative sui beni culturali né tantomeno strutture di tutela paragonabili a quelle attive in Italia da oltre un secolo. Vi è, però, sia a livello teorico che professionale, un sempre maggior interesse per le tematiche della conservazione e del restauro. Fra gli architetti colombiani che si occupano di restauro, uno dei progettisti più attivi e attenti alle preesistenze storiche è Alberto Samudio Trallero, direttore del corso di specializzazione in Conservación y Restauración del Patrimonio Arquitectónico dell’Università di Bogotá “Jorge Tadeo Lozano”. I suoi lavori – seppur sempre d’alta qualità – sono esemplificativi d’un procedere altalenante che, in assenza d’un sistema pubblico di controllo e indirizzo, di volta in volta si conforma sulle diverse esigenze d’una committenza, ora istituzionale ora privata. È un approccio strettamente dipendente dalle capacità e dalle sensibilità personali piuttosto che dall’applicazione d’una metodologia rigorosa e condivisa. Alcuni lavori sono, infatti, improntati al rispetto dell’autenticità del bene sul quale s’è intervenuti, con inserzioni delicatamente riconoscibili, come nel restauro del seicentesco bastione di Santa Catalina, realizzato nel 2004. Altri suoi lavori, invece, sono tesi maggiormente alla valorizzazione d’importanti monumenti attraverso l’introduzione di nuove funzioni d’uso (è il caso del restauro del settecentesco Palazzo dell’Inquisizione trasformato, fra il 1996 e il 2003, nel nuovo Museo Storico di Cartagena, o di quello della cattedrale e del chiostro di San Domenico, attuale sede del Centro per la Formazione e la Cooperazione Spagnola). Vi sono poi altri interventi che, pur eseguiti su preesistenze storicamente connotate, col restauro hanno poco a che vedere e che, anzi, rischiano di trasformare, lentamente ma inesorabilmente, il tessuto minore dei centri storici. Lo stesso rischio, ugualmente, si potrebbe verificare anche in Italia se i progettisti fossero lasciati in balia di se stessi e della sola committenza, senza l’ausilio di alcun controllo pubblico (questi sono solo alcuni fra i tanti pregi di un sistema di tutela come quello italiano, spesso criticato ma che, Cartagena, il “Palacio de la Inquisicìon” (fine del XVIII sec.) sede dell’attuale Museo Storico dopo i restauri proprio nel confronto con altre realtà straniere, mostra tutto il proprio valore). Uno dei più interessanti restauri attualmente in corso di esecuzione in Colombia riguarda l’area dell’ex penitenziario d’Ibagué. Il processo che ha portato alla realizzazione dell’intero intervento, su progetto dell’architetto Luis Humberto Duque Gómez, è stato assai lungo: vale tuttavia la pena ripercorrerlo per comprendere le molte difficoltà che incontrano simili operazioni in Colombia. Tutto ha inizio nel lontano 1987, quando il complesso venne inserito fra i pochi immobili riconosciuti quali patrimonio histórico y cultural del Paese (risoluzione n. 10 del Consiglio Nazionale dei Monumenti). Dovranno poi passare altri dieci anni perché il Panóptico venga dichiarato, nel 1997, monumento nazionale e, un anno dopo (risoluzione n. 752 del 1998), bien de interés cultural de carácter nacional. È però solo nel 2001 che il penitenziario viene definitivamente chiuso e iniziano, di fatto, 14 anni dopo il riconoscimento del valore storico-architettonico dell’intero complesso, le procedure operative per la sua conversione in museo. Da sinistra: facciata principale e dettaglio del portale barocco Sotto: vista del cortile interno e del portico del secondo piano L’episodio, anche dal punto di vista sociale, fu certamente rilevante. Non a caso proprio nel 2004 Ibagué viene eletta capitale andina dei diritti umani e della pace. Si giunge così al 2005 quando, finalmente, si apre il cantiere del Panóptico i cui lavori, ad oggi, sono conclusi per il solo nucleo centrale. Basta però leggere già l’intestazione del cantiere, Restauración integral obra nueva paisajismo museografia y proyectos técnicos del panoptico de Ibagué, per cogliere la complessità dell’intervento e la coesistenza di diverse istanze, non tutte necessariamente riconducibili al restauro. n.37-40 2010 17 Cartagena, cattedrale di Santo Domingo, facciata principale prima e dopo i lavori di restauro Sotto: Studio Samudio, progetto di restauro, prospetto principale e pianta del primo e del secondo piano L’edifico principale dell’ex complesso penitenziario, dalla particolare pianta cruciforme, è meglio noto come Panóptico. Il nome deriva da un’opera letteraria del 1791, Panopticon or the inspection-house: containing the idea of a new principle of construction applicable to any sort of establishment, in which persons of any description are to be kept under inspection, del giurista inglese Jeremy Bentham (per l’edizione italiana v. Bentham, Jeremy, Panopticon, ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault, Michel e Perrot, Michelle, Venezia, Marsilio, 1983). Egli riteneva che attraverso l’architettura fosse possibile indurre le persone a determinati comportamenti “disciplinati” grazie a «un nuovo modo per ottenere potere sulla mente, in una quantità finora mai vista». Si trattava, in sostanza, di una moderna e raffinata strategia del terrore applicata n.37-40 2010 18 all’architettura attraverso l’invenzione di una nuova tipologia costruttiva (in questa circostanza una casa di detenzione ma lo stesso modello poteva adattarsi, secondo Bentham, anche a scuole, fabbriche e ospedali, in particolare quelli per i malati di mente). Grazie ad alcuni accorgimenti basati sulle regole dell’ottica, sarebbe stato infatti possibile, anche con un solo guardiano, sorvegliare senza essere visti tutte le persone presenti (detenuti, operai, malati o, magari, alunni), incutendo un senso di onnipresente vigilanza. Quello della soggezione indotta dalla consapevolezza d’una “presenza invisibile” è un principio associato più volte all’architettura: basti pensare, ad esempio, al medievale Corridore del Cassero di Prato, utilizzato dalle truppe fiorentine per entrare e uscire di nascosto dalla città senza esser visti. La novità dell’idea di Bentham fu rappresentata dall’averla associato a uno specifico tipo edilizio, il panottico, appunto. Si tratta d’una tipologia che Bentham riteneva adattabile, secondo le circostanze a edifici diversi ma che, com’era facilmente prevedibile, riscontrò maggior successo proprio come prototipo di una moderna struttura carceraria piuttosto che in altre applicazioni civili. Nel Lazio si ha un pregevole esempio nell’ex carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano; da notare che la struttura di questo panottico italiano – assai più vicina all’originaria idea del giurista inglese che non la sua tarda derivazione colombiana – è stata realizzata a partire dal 1794, ovvero solo tre anni dopo la pubblicazione dell’opera di Bentham. I lavori del Panóptico di Ibagué iniziarono invece nel 1892 (la struttura fu ultimata nel 1902) sotto la direzione del generale Manuel Casabianca. Questi ripropose il progetto utilizzato per il panottico di Bogotà (oggi trasformato in museo nazionale), dell’architetto danese Thomas (o Tomàs) Reed che, giunto da Caracas nel 1847 per insegnare architettura nell’università statale, successivamente si trasferì a Quito, in Ecuador, dove nel 1855 progettò un analogo edificio penitenziario (cfr. Saldarriaga Roa, Alberto et al., En busca de Thomas Reed, arquitectura y polìtica en el siglo XIX, Bogotà, Secretaria general Alcadia Mayor, 2005). Ad oggi sono ancora esistenti in America Latina solo pochi dei molti edifici carcerari realizzati sul modello di Bentham: oltre i due colombiani e il panottico di Quito (ancora utilizzato come casa di detenzione) vi sono, infatti, il Palazzo di Lecumberri a Città del Messico (oggi sede dell’archivio generale) e il panottico di La Paz, in Bolivia (anch’esso in corso di conversione). Dal punto di vista delle scelte progettuali il restauro del panottico di Ibagué è stato pensato e realizzato secondo le modalità di una “manutenzione spinta” ovvero con evidenti tendenze al ripristino di un aspetto pulito e decoroso della struttura monumentale. Vi sono, poi, insieme agli interventi più strettamente di restauro, anche altre opere di nuova architettura, di arredo esterno e di musealizzazione. In particolare, l’aggiunta di nuovi edifici all’interno dell’area dell’ex penitenziario è propedeutica alla riconversione in spazio museale, mentre la progettazione degli spazi verdi ha assunto precise valenze simboliche. Al posto di garitte e mura di guardia (alte oltre 6 metri) che confinavano il vecchio penitenziario e delle quali, ancora per poco, sono visibili alcuni tratti (destinati come gli altri ad essere completamente abbattuti) vi saranno, infatti, moderne recinzioni tese quasi a scomparire. L’intenzione è che una maggior permeabilità restituisca il panottico alla In alto da sinistra: Cartagena, Teatro Heredia, prospetto principale dopo i recenti interventi di restauro Cattedrale di San Pedro Claver, una fase dei delicati inter venti di restauro delle murature in pietra corallina della facciata Sotto: Ibagué, la facciata principale del “Panóptico”, prima e dopo i restauri n.37-40 2010 19 Nelle intenzioni di Duque Gómez i riflessi del penitenziario sull’acqua rappresenteranno così lo «specchio di un passato restaurato». Si tratta quindi, nell’insieme, non d’un intervento di restauro conservativo ma certamente di un meno rigoroso e più articolato «conjunto de proyectos, obras de restauración, obra nueva y tratamiento de paisajismo que sustenten la articulación de lo histórico con las nuevas necesidades y usos», come dichiarato dal progettista stesso (Duque Gómez in Saravia Ríos, Elizabeth, Museo panóptico, «Arcadia», 23, agosto 2007, p. 32). La volontà alla base dell’intervento è manifesta: riconvertire un pregevole edifico di fine Ottocento a un uso più consono, celando o, meglio, cercando di cancellare, per quanto possibile, il ricordo delle tante sofferenze in precedenza associate a quel luogo, senza però rinunciare a evocarne, in maniera garbata, la memoria. La stessa conservazione dell’edifico principale del carcere, con gli spazi angusti delle celle sarà a tal proposito, secondo Duque Gómez, sufficiente: «El edificio como pieza principal del museo, por sus dimensiones y características, resultará por sí mismo impactante para las personas que no han entrado a una cárcel, e imaginen en el recorrido la vida en confinamiento» (ibidem). È un complesso, quindi, quello del panottico di Ibagué che con la sua storia evoca ricordi positivi e, insieme, anche assai negativi. Il progetto, attraverso una precisa lettura critica, ne ha riproposti alcuni scegliendo, al contempo, di mitigarne altri. L’edifico è stato così riproposto nel suo “stile originario”, attraverso il rifacimento di alcune parti con materiali e tecniche costruttive ormai appartenenti alla storia passata. La struttura del Panóptico è stata, infatti, riportata, per quanto riguarda le coperture e i prospetti esterni alle sue forme iniziali di fine Ottocento, eliminando tutte quelle superfetazioni giudicate deturpanti e conservando, fra le tante aggiunte e decorazioni “spontanee”, solo quelle ritenute, città, rimuovendo una separazione ormai funzionalmente inutile e simbolicamente carica di valenze negative. Precise operazioni di architettura del paesaggio trasformeranno quindi gli spazi esterni, avvalendosi d’un tema definito dagli stessi progettisti «tipico dell’architettura islamica»: la circolazione dell’acqua. Questa scorrerà in Ibagué, piccoli canali lungo tutti gli spazi esterni per poi colmail “Panóptico” re cinque stagni artificiali. A tale scopo si riutilizzeranno anche le strutture di una piscina risalente al lontano In alto: 1915, da tempo non più in uso. i resti, da demolire, delle recinzioni dell’ex casa di detenzione A destra: particolare della copertura in “guadua” della torre centrale dopo il ripristino della configurazione originaria del tetto; uno dei bracci interni dopo il restauro. L’armonia irreale e il tono caldo dei colori utilizzati è in evidente contrasto con la severità n.37-40 dei luoghi e con 2010 la loro funzione originaria 20 Ibagué, il “Panóptico” Sopra: nella reinterpretazione del restauro le colorazioni delle finestre, una volta utilizzate dai detenuti per identificare la propria cella, sono diventate, un elemento decorativo della facciata A fianco: planimetria e “master plan” dell’intero progetto di recupero dell’ex complesso carcerario A sinistra: alcuni dei “murales” interni conser vati nel progetto di restauro attraverso un condivisibile giudizio critico, le più meritevoli di perpetuazione. Sono così rimaste, delle molte pitture interne, probabilmente eseguite dagli stessi detenuti per rendere la loro prigionia meno pesante, solo le più consone al nuovo decoro della struttura, ovvero quelle in grado di restituire una testimonianza della solitudine carceraria, ma non dello squallore e del degrado. Il valore che si è voluto evidenziare è stato quello di un documento architettonico, ritenuto rilevante più per le sue qualità formali che non per particolari motivazioni storiche legate al vissuto dei detenuti. Ecco perché il progetto di restauro del Panóptico ha scelto di privilegiare l’istanza estetica, portatrice di valori di speranza, su quella storica tout court nel conservare – seppur trasformandolo e “colorandolo” eccessivamente in più parti – un documento importante della storia cittadina di Ibagué. A.P.C. n.37-40 2010 21 Pensando a Magritte Z5 il Giardino degli Z5 approfondimenti è un grande crescent residenziale di sei piani, con una unica corte a giardino di forma ellittica, spazio che è allo stesso tempo l’ingresso alle unità abitative, in sei punti sul suo perimetro, ai garage e ai servizi nel sottosuolo, e l’affaccio della maggior parte degli appartamenti. Il giardino è quindi un luogo di rappresentanza, non tanto dove stare, ma da attraversare e da vedere dall’alto, un ambito molto presente nella vita quotidiana degli abitanti, che segna fortemente l’identità del complesso. Il progetto ha cercato di lavorare con due obiettivi: stabilire dei caratteri che assolvessero quest’attesa di identità e rendere lo spazio il più possibile dinamico per contrastare la staticità della forma ellittica. n.37-40 2010 24 Occhi Il suolo, interamente artificiale, è articolato su tre livelli a gradoni a prato, con washingtonie, ciliegi giapponesi, magnolie soulengiane, arbusti di varia natura, ficus repens, grandi pergole in acciaio ricoperte di glicine. Gli alberi e le palme sono disposti su collinette coniche in modo di avere un maggiore spessore di zolla dove serve e si è avuto cura di disporre le piante più pesanti sulla testa dei pilastri sottostanti. Con dolore si è dovuto rinunciare a piantare dei boschetti di bambù, che invece si sarebbero voluti in quantità, per la temuta invasione da parte di queste piante dei canali di deiezione. Come pure si è dovuto rinunciare a piantare banani, pur essendo il giardino molto protetto dal vento, avendo scoperto che fra il cen- tro di Roma – dove queste piante prosperano – e il quartiere, d’inverno, si può misurare una differenza che sarebbe fatale di dieci gradi. Come si vede per la vegetazione si è scelto un repertorio piuttosto originale, che sarebbe stato anche più spinto, per rispondere meglio al tema, un roof garden incluso in un ambiente densamente costruito, seppure con infinite attenzioni verso una ricerca di trasparenza e leggerezza. Non ultima l’importanza dei tutori, vistosi e multicolori, per compensare il periodo di adolescenza di ciliegi e magnolie. Si distinguono due diversi percorsi principali: un anello a ellisse perimetrale lastricato in gres a campi paralleli bianchi intervallati da righe sottili nere, e al centro un sistema complementare coloratissimo in resina che invece attraversa il giardino e porta a due ascensori verso i garage. Per dare maggiore continuità fra i diversi piani un sistema di grandi pergole in acciaio, fra loro parallele, scavalcano i gradoni, dipinte in varie tonalità di azzurro e destinate a essere inghiottite dal glicine. Poste a filari sono composte da elementi piatti perpendicolari ai salti di quota con un profilo molto particolare, che li fa sembrare come delle gambe in movimento, che nell’insieme, se l’imma- gine può essere accettata, possono far pensare a uno spettacolare corpo di ballo. Chi percorre il giardino ha così il massimo della trasparenza quando è di fronte e di copertura man mano che si sposta sui lati. Ancora in acciaio due grandi balaustre continue, questa volta bianche, accompagnano le scale che sulle due esedre dell’ellisse collegano i tre livelli. Qui sarà il ficus repens a inghiottire strutture e sovrastrutture creando nel punto più delicato dell’ellisse una ibridazione fra architettura, percorsi e giardino. SCHEDA TECNICA NOME DEL PROGETTO: Z5, il Giardino degli Occhi LUOGO: Roma, Quartiere Talenti Complesso abitativo Impreme PROGETTO: Franco Zagari con Barbara Salerno, Maura Teiner e Domenico Avati COLLABORATORI: foto e video di Maria Rosa Russo CRONOLOGIA: 2007-2010 DATI DIMENSIONALI: 3.000 mq IMPRESE OPERE A VERDE: Valverde MATERIALI: Resina Artigrup e Gres Marazzi (pavimentazioni) Targetti (illuminazione) Valverde (impianto irrigazione e materiali vegetali) Maestri del ferro (pergole) Al centro del giardino una fontana radente con getti intermittenti di acqua e aria. Il pavimento è dipinto in resina di colore bianco con un disegno solarizzato di due occhi che immediatamente si riconoscono come quelli di Audrey Hepburn, un carattere molto forte n.37-40 che sottrae 2010 il giardino alla sua staticità geometrica 25 Un altro elemento caratteristico sono delle pergole in acciaio che mediano i due salti di quota e carenano le bocche d’aria dei garage. Vagamente antropomorfe, destinate a essere inghiottite dal glicine, le pergole sono sistemi di piatti fra loro allineati e paralleli di disegno sinuoso, che ricordano un corpo di ballo n.37-40 2010 26 Al centro del giardino vi è il tema dominante, una piccola piazza con getti di vapore intermittenti, caratterizzata dal disegno di due grandi occhi, immediatamente riconoscibili: sono quelli enigmatici e indimenticabili di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, dipinti sul suolo, fortemente solarizzati in modo che avvicinandosi il disegno diventa del tutto astratto. È un carattere forte quanto affidato alla interpretazione personale di chi lo vive, un disegno che in qualche modo in fase di progetto si è affermato da sé, cercavamo un deus ex machina, un evento inatteso che spiazzasse il peso e la simmetria e quando questa immagine da noi molto amata si è presentata non ne abbiamo più potuto fare a meno, non senza sorpresa trovando poi l’appoggio degli abitanti. Chi osserva il giardino improvvisamente si rende conto di esserne osservato a sua volta, come accade visitando uno stupa nepalese, i grandi occhi conferiscono al giardino una sua misteriosa personalità, aperta alle più diverse interpretazioni. Franco Zagari Interferenze T percorsi lecorbusieriani a cura di Valerio Casali ra le sue tante pubblicazioni Le Corbusier aveva concepito una serie particolare, da lui personalmente curata («edité, dirigé, mise en page par Le Corbusier»), caratterizzata da un contenuto di carattere quasi, direi, confidenziale; la collana è battezzata Gli album della ricerca paziente (Les carnets de la recherche patiente) e si distingue per una numerazione molto evidente, scritta a mano dall’autore, in numeri arabi, in copertina. La serie di pubblicazioni – ognuna dedicata a un’opera del maestro – che prevedeva numerosi titoli, si è poi esaurita in soli tre numeri,1 di cui il secondo è dedicato alla Cappella di Ronchamp.2 Il libro, di formato pressoché quadrato – 18,80 × 20 cm – è diviso in tre parti e alla p. 87, quale illustrazione introduttiva alla terza parte, figura una strana immagine: una sorta di composizione geometrica astratta, realizzata con campiture puntinate e rigate. Questa immagine è assai inquietante, perché non si riesce a percepirne immediatamente il significato e altrettanto difficile risulta metterla in relazione con il soggetto del libro. Peraltro nessuna didascalia aiuta il lettore. Conoscendo il rigore proprio di Le Corbusier e sapendo come ogni minimo elemento nelle sue opere – in qualunque campo – svolga un ruolo preciso e mai sia casuale, né introdotto con leggerezza, non si può saltare la pagina a piè pari per passare oltre… Ma, come trovare un’interpretazione? In effetti l’immagine è ermetica ed è impossibile risalire al suo significato se non si conosce una puntuale spiegazione, fornita dallo stesso Le Corbusier alcuni anni prima, nel Modulor 2, ove, alla p. 157 (fig. 58), figura – tale e quale – l’illustrazione in parola; questa volta l’immagine è accompagnata da altre due similari – p. 156 (fig. 57) e p. 158 (fig. 59) – e da un breve testo (pp. 155 e 159) che riporto integralmente: «Interferenze Osservate! Ecco dei cliché che mostrano le trame di tre diversi tipi di retini sovrapposti che danno origine a disegni simili ad onde, di natura senza dubbio matematica. Né geometra, né matematico, non sono designato a fornire la spiegazione: mi contento di osservare il fenomeno. n.37-40 2010 28 Le Corbusier, “Modulor 2”, p. 156 Le Corbusier, “Modulor 2”, p. 157 Il “retino” è un prodotto messo recentemente a disposizione degli ateliers di disegno, dei fotoincisori e dei grafici. Sono dei fogli di cellofan trasparente con trame diverse stampate in nero. Qui la prima trama è un puntinato regolare (fig. 57); la seconda un rigato regolare (fig. 58) e la terza, una combinazione di puntinato e di rigato (fig. 59). Per realizzare il giuoco (imprevisto) che vi propongo, basta prendere il primo frammento di “retino” che vi viene sottomano, e posarlo su uno uguale, girando impercettibilmente da sinistra verso destra o viceversa, ci si accorgerà allora che si sono determinati, in un tempo inferiore ad un quarto di rotazione, sette diversi disegni di esagono. Questo si svolge sotto i vostri occhi: in un secondo, avete visto nascere e svilupparsi un fenomeno geometrico affascinante. Ma se, nella vostra rotazione, non vi siete arrestati alle tappe giuste, non ci sarà geometria; resterete davanti alla porta, nell’inconsistente! Questo fenomeno d’interferenza dimostra sia l’incontro ed anche la perfezione.Tutto questo dipende da voi o dalle circostanze della vostra lettura o dalla vostra disattenzione o dal minimo spostamento di un oggetto. La ricchezza del mondo è proprio in queste sfumature che la maggioranza dimentica di vedere perché immagina una ricchezza spettacolare, rumorosa, torrenziale, etc…. che vive solo in terreni privilegiati inaccessibili ai modesti… È stato sufficiente osservare!…». Scopriamo dunque che il significato dell’immagine è estremamente importante: Le Corbusier afferma che la bellezza è conseguenza della perfezione; una perfezione di ordine matematico, che diviene reale solo in istanti precisissimi, quando si verifica una totale concordanza di elementi, misure, proporzioni. Come gli stupefacenti esagoni scaturiscono d’un tratto dalle trame puntinate, l’opera “indicibile” sorge improvvisamente nell’istante in cui la concordanza, la precisione, la perfezione si verificano. E come gli esagoni non esistono che per certe determinate posizioni dei puntinati, per certi – e solo per certi – rapporti tra le trame sovrapposte, così lo “spazio indicibile”3 non si determina che in presenza di uno stato di perfezione. Le Corbusier, “Modulor 2”, p. 158 Sotto: Le Corbusier, “Modulor 2”, p. 158, particolare A sinistra dall’alto: illustrazione, “Modulor 2”, p. 156, particolare Le Corbusier, “Modulor 2”, p. 157, particolare Non a caso una tale riflessione – o meglio l’illustrazione che tale riflessione sottintende – è posta in un libro sulla Cappella di Ronchamp; Le Corbusier giudicava che questo edificio fosse «frutto dei numeri», affermazione un po’ provocatoria, giacché la cappella si presenta come un’architettura piuttosto libera – particolarmente libera in confronto ad altre opere del maestro – e le sue qualità più appariscenti sembrano non essere in alcun rapporto con i numeri; l’architetto, al contrario, ha sempre sostenuto che proporzione e precisione sono all’origine della bellezza della cappella ed è per questo che l’immagine in questione viene ad assumere carattere di esplicazione del “miracolo Ronchamp”. Essa ammonisce che l’architettura non scaturisce da un gesto creatore spontaneo e geniale; semmai questo può essere esistito in qualche momento del processo, ma quello che finalmente determina la qualità di un’opera è la perfezione, frutto della “ricerca paziente”, lavoro assiduo e puntiglioso, chiave del processo creativo lecorbusieriano: in assenza della perfetta rotazione comportante l’unica posizione rivelatrice, non ci sono esagoni, ma solo retini puntinati e rigati; così come a Ronchamp, al di fuori della concorde perfezione di tutti gli elementi, non ci sarebbe una grande opera, ma solo muri, tetti e finestre… V. C . NOTE 1 1 - “Une petite maison” (“Una piccola casa”); 2 - “Ronchamp”; 3 - “Les maternelles vous parlent” (“Le scuole materne vi parlano”) 2 Le Corbusier, “Ronchamp”, Les Editions Girsberger, Zurigo, 1957 3 Al proposito vedere: Valerio Casali, “L’espace indicible”, «L’architetto italiano» n. 17, dicembre 2006/gennaio 2007, pp. 38-41 n.37-40 2010 29 La celebre scena del film “King Kong” e il “Burj Khalifa” di Dubai Sfida antica, marketing contemporaneo società e/è costume a cura di Renato Nicolini L n.37-40 2010 30 e due cose che mi hanno più emozionato, in questo 2010, sono state il nuovo grattacielo di Dubai e il nuovo film – dieci anni dopo Titanic – di James Cameron. Mi sono domandato che cosa potesse tenerle insieme, e ne è uscito quest’articolo. Il 4 gennaio del 2010 è stato aperto al pubblico il nuovo grattacielo campione d’altezza del mondo, il Burj Khalifa di Dubai, 828 m di altezza all’antenna. La costruzione, che era iniziata il 21 settembre del 2004, è frutto di una joint venture tra un’impresa sudcoreana, la Samsung C & T (che aveva già realizzato i grattacieli – a suo tempo anch’essi primatisti – Taipei 101 a Taipei e Petronas Towers a Kuala Lampur), una belga, la Besix, e una degli Emirati Arabi, l’ArabTec. Il prezzo di vendita degli spazi destinati a uffici è di 43.000 dollari al mq, degli Armani Residences di 37.000 dollari al mq. La Burj Khalifa (Torre del Califfo) sorge nel centro di Dubai, vicino alle isole artificiali più famose del mondo, le Palm Islands e le World Islands, al più grande centro commerciale del mondo, il Dubai Mall, e al Dubai Waterfront. Solo qualche mese fa era sembrato che l’economia del Dubai stesse per esplodere in una bolla speculativa, ma l’Emiro (di Abu Dhabi) ha messo mano al proprio portafoglio personale e ripianato i conti. Nel Dubai tutto è travestimento, sotto la novità si celano altri nomi, storie e miti antichi del mondo. Gli Emirati Arabi Uniti – così si chiama lo Stato che riunisce, assieme al Dubai, sette emirati – erano noti come la Costa dei Pirati. Il lupo perde il pelo ma…? Gli Emirati oggi sono una federazione di sette monarchie ereditarie assolute. Il Consiglio Supremo dei Sovrani, formato dai sette emiri, ognuno dei quali signore assoluto in casa propria, elegge nel suo seno il presidente (tradizionalmente l’emiro di Abu Dhabi) e il primo ministro (l’emiro del Dubai). Non esistono partiti politici. La stessa ibridazione tra passato e futuro si mostra passando dalla geografia all’architettura. I progettisti del grattacielo sono niente meno che i SOM di Chicago, la griffe Skidmore, Owings e Merrill ben lontana nel tempo dagli Skidmore, Owings e Merrill originari. Un nome che è di per sé garanzia di continuità, piuttosto che di innovazioni… Ma il gioco dei rimandi non si ferma alla firma. La forma del Burj Khalifa – è stato quasi immediatamente osservato – ricorda quella del grattacielo alto un miglio disegnato ma mai costruito da Frank Lloyd Wright per l’Illinois. Più nella snellezza della costruzione, che non nei particolari (c’è una evidente differenza dal futuro immaginato da Wright, che prevedeva una pista d’atterraggio per oltre 50 elicotteri sul tetto del suo grattacielo). Forse come omaggio all’architettura “organica” wrightiana, circola su Wikipedia il fiore a cui i SOM si sarebbero ispirati per la Burj Khalifa, l’Hymenacallis, della famiglia cui appartengono le Amarillidi. Anche se Wikipedia non lo sa, a me viene in mente il Regno di Ofioch della Principessa Brambilla di ETA Hoffmann e la favola dell’Amarillide. Il futuro del deserto arabo si congiunge così col romanticismo tedesco e col suo vagheggiamento delle origini, dello stato originario del mondo. Se lo scoppio della bolla speculativa non ha fermato la Burj Khalifa, ha assicurato però alla torre un lungo periodo di dominio incontrastato come edificio più alto del mondo. Sono stati infatti rinviati a tempo indeterminato i progetti per la Nakheel Tower (1.000 m), sempre nel Dubai; per la Hurjan Tower (Torre del Corallo, 1.022 m) a Manama nel Bahrein. Mentre ci vorranno almeno 25 anni per la Mubarak al Kabir Tower (1.001 m) nel Kuwait. Fermato ai nastri di partenza il progetto di Libeskind per Ground Zero, previsto per un’altezza uguale all’anno dell’indipendenza americana, 1.776 m. Il grattacielo, lo skyscraper, è uno dei simboli per eccellenza della modernità. New York si afferma come capitale del XX secolo (come Parigi lo era stata del XIX) all’ombra dell’Empire State Building. Quest’immagine di New York si diffonde in tutto il mondo, attraverso la fotografia e la nuova arte, il cinema. L’Empire State Building si trasforma in icona della nuova civiltà industriale, programmaticamente opposta alla natura. Tensione che si rivela drammaticamente quando sul grattacielo si arrampica la Grande Scimmia, riemersa dalla preistoria, King Kong. La grande città si rivela però piuttosto simile alla foresta selvaggia da cui King Kong proviene, luogo di desideri e conflitti altrettanto primitivi. L’Empire State Building non un’invenzione da set cinematografico, come Metropolis di Fritz Lang e Thea von Harbou. E come luogo reale ricompare in tutta una serie di film ambientati a New York, di cui voglio almeno citare Un giorno a New York. Tre militari, in licenza nella Grande Mela per un giorno, come prima cosa salgono sulla terrazza dell’Empire State Building; “Il grattacielo alto un miglio” in un disegno di Frank Lloyd Wright e il progetto di Libeskind per Ground Zero ed è sulla stessa terrazza che, 24 ore dopo, la loro avventura si conclude. Luogo dunque di sospensione temporale, capace di generare un altro senso del tempo, nel passaggio di testimone con la Tour Eiffel di Paris qui dort di René Clair, ancora sotto il segno del cinema muto. Il grattacielo non si pacificherà mai, nell’immaginario nostro contemporaneo. Gli peserà sempre l’ombra della Grande Scimmia (o forse addirittura la memoria del divieto biblico all’uomo di spingersi nell’alto dei cieli con le sue costruzioni, la Torre di Babele cui Peter Brueghel ha dato forma “moderna” nel Cinquecento). Non resterà legato a New York, ritornerà alla Chicago delle sue origini, invaderà il dominio della “città dell’automobile” per eccellenza, Los Angeles (To live and to die in L.A. di William Friedkin). L’attentato dell’11 settembre del 2001 alle Torri Gemelle di New York ha fatto esplodere anche i territori dell’immaginario e del simbolico. Le reazioni sono state molto diverse tra di loro. I nuovi Paesi asiatici, dalla Malaysia a Taiwan, da Singapore a Hong Kong, da Shangai a Dubai, si sono sentiti spinti a spezzare l’equivalenza grattacielo-USA. n.37-40 2010 31 Il “Grattacielo Pirelli” di Gio Ponti e la “Torre Velasca” dei BBPR Sotto: il gigantesco “albero-casa” del film Avatar Mentre in Occidente, nonostante Libeskind, è come riemerso – penso soprattutto a certe dichiarazioni di Renzo Piano sull’“inopportunità” dei grattacieli (espresse sia a proposito di Ground Zero e della nuova sede del «New York Times» sia – con qualche caduta di stile – per delegittimare le Torri di Cesare Ligini all’EUR) – il tabù biblico contro la Torre di Babele. Accompagnato dal diffondersi di immagini manieriste, in cui il grattacielo si piega su se stesso, come nei cartoon della moglie di Rem Koolhaas, e sembra quasi volersi negare “facendosi strano” (come nei progetti, che forse non vedremo mai realizzati, per l’ex Fiera di Milano). Difficile non pensare – per contrasto – alla Torre Velasca dei BBPR, al Grattacielo Pirelli di Gio Ponti, alle case a Corso d’Italia a Milano di Luigi Moretti. Esisteva, anche rispetto alla tipologia americana per eccellenza, una tradizione “italiana” che faceva della nostra esperienza – anche formale – della città, patrimonio comune. Altrettanto difficile non pensare che, sostanzialmente, gli sono state voltate le spalle. Anche in questo sra- dicamento dalla maniera italiana a proposito delle costruzioni alte ha pesato il trauma dell’11 settembre. Mi è sembrato invece operare per un superamento dello choc l’ultimo, straordinario film di James Cameron, Avatar. Nel film non c’è il grattacielo, ma il suo equivalente nel mondo naturale, un gigantesco “albero-casa”, alto centinaia di metri, forse un chilometro forse di più… Non è il terrorismo islamico, ma il terrorismo endogeno del mondo capitalistico, a distruggerlo, sparandogli contro raffiche di missili che ricordano i due aerei che hanno perforato le due torri del World Trade Center abbattendole. Sarà l’azione degli altri uomini, giganti azzurri alti tre metri, connessi alla natura in un’unica rete, a ricostruire quanto la violenza occidentale ha distrutto. Nel mondo dell’immaginario, dei desideri, è noto che ogni cosa “all’incontrario va”. E nella direzione opposta al senso comune, così come su Pandora l’“albero casa” si ricostruisce da sé, anche sulla Terra seguitiamo a spingerci – nelle ibride forme della Burj Khalifa (è un progetto americano, data la firma dei progettisti? Arabo-cinese-sudcoreano, date le nazionalità dell’impresa? È un sogno estremo postmoderno nel mondo favolistico di Dubai? Dubai è una città o la nuova invenzione del marketing urbano dopo Las Vegas?) – nell’assalto al cielo. Nel Giobbe del Rapisardi, poema ormai dimenticato dell’Italia carducciano-crispina, l’assalto riusciva e l’umanità spodestava “l’eterno”… R.N. architettureidee Il grattacielo ha avuto per più di un secolo il suo baricentro geografico e culturale negli Stati Uniti; è poi migrato in Oriente e questo passaggio ha coinciso, schematicamente, con l’inizio della sperimentazione decostruttivista. Le aree di maggiore influenza sono diventate la penisola arabica, la Malesia, Hong Kong e Shanghai, oltre ad alcune città europee, prime fra tutte Londra e Francoforte. Dopo il lungo impero del prisma di cristallo miesiano e l’orgia del Post Modern, entrambi radicati nel tessuto delle città, il grattacielo è diventato il simbolo dell’isolamento e della straniazione dal tessuto compatto. Conseguentemente, la sua figura si è trasformata in un elemento morfologico a sé stante, destinato a rapportarsi con un territorio molto vasto, ben al di là delle aree limitrofe. È quello che accade nelle città d’Oriente che, prive quasi sempre di un tessuto urbano, composto di edifici alti, si ritrovano improvvisamente sbilanciate dalla presenza di torri fuori scala, inconfrontabili con l’edilizia circostante. Questa condizione di landmark MARIO PANIZZA CityLife, Milano Area di progetto: 255.000 mq circa (area di proprietà di CityLife); 111.000 mq circa (area comunale al contorno); 65.000 mq circa (area di cessione da parte di Fiera di Milano al Comune) Superficie edificabile: 288.879 mq – 51% (residenziale), 49% (terziario) Parco e aree pubbliche: 160.000 mq Servizi e aree a valore aggiunto: cinema, ristoranti, bar, locali, shopping di qualità, sedi di associazioni, poste, banche, servizi alle imprese Parcheggi: 7.000 circa – 800 circa (parcheggi pubblici), 4.500 circa (parcheggi per residenti), 1.500 circa (parcheggi per uffici e commercio) Infrastrutture e trasporti pubblici previsti: Tunnel Gattamelata; Metropolitana 5 (stazione Tre Torri) Cronologia: 2007 (inizio lavori) – 2014 (fine lavori) Costo: 523 mln di euro circa isolato sta promuovendo una ricerca espressiva molto libera, tesa a inseguire i caratteri della grandezza assoluta e autoreferente, attraverso la convulsa ricerca verso il desiderio di combinare regionalismo e high-tech. In qualche modo il grattacielo orientale fonde i due linguaggi precedenti – l’astrattismo razionale e la riconoscibilità dei motivi figurativi – attraverso modelli che aggiungono al rigore della CityLife: il dritto, lo storto, il curvo idee DI Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind I tre grattacieli nello skyline di Milano architetture 35 idee architetture 36 costruzione essenziale il decoro, a grande scala, di alcuni temi figurativi. Anche in questa nuova accezione orientale il grattacielo non perde tuttavia il carattere primario di paradosso costruttivo che, utilizzando l’architettura dagli effetti speciali, cattura e trasforma in profitto la curiosità dei passanti. La coincidenza temporale con il Decostruttivismo non ha però avuto un concreto riscontro nella definizione dell’immagine; solo in Europa l’audacia di alcune intemperanze costruttive ha avuto un certo rilievo, concentrandosi soprattutto in quei grattacieli che, più bassi – circa la metà degli edifici dei record –, potevano sopportare la sperimentazione di forme, talvolta solo apparentemente, squilibrate. L’impegnativo progetto presentato da CityLife, la cordata che si è aggiudicata la gara per la riqualificazione dell’area della Fiera Campionaria di Milano, affida all’immagine di tre grattacieli il compito di definire il carattere dell’intervento. Quale architettura, se non quella legata alla forma del grattacielo, avrebbe infatti potuto rappresentare meglio la carica simbolica che, insieme al contenimento dei costi di gestione e alla rapidità di esercizio, erano alla base delle richieste del concorso? In realtà l’insediamento non si limita ai tre grattacieli; comprende un parco di 160.000 mq e si articola su un territorio molto esteso dove sono previste attività commerciali, residenziali e ricreative. Entro il 2014 sorgeranno anche un museo di arte contemporanea (Daniel Libeskind), Il progetto presentato da CityLife si articola su un territorio molto esteso e prevede molteplici attività, commerciali, residenziali e ricreative ma è sui tre grattacieli che si concentra il maggiore interesse: ribattezzati “il dritto, lo storto e il curvo” esprimono scelte figurative che impongono la loro personalità tre lotti di edilizia residenziale (Arata Isozaki, Zaha Hadid e Daniel Libeskind), due torri residenziali (Pier Paolo Maggiora) e un vasto complesso direzionale e commerciale. Sia gli alloggi che gli uffici occuperanno 150.000 mq. È però sui tre grattacieli che si concentra il maggiore interesse; dell’intero intervento rappresentano la componente più visibile e appariscente: ribattezzati “il dritto, lo storto e il curvo”, esprimono scelte figurative determinate che, anche attraverso la loro semplificazione terminologica, impongono la loro personalità. Quello di Isozaki – il dritto – sviluppa un profilo impostato sulla ripetizione di un modulo di sei piani sagomato da linee curve che riecheggiano il tema formale delle torri di Brancusi. L’impianto tipologico è regolato da un sistema strutturale modulare, con le scale e gli ascensori confinati alle estremità dei lati corti per lasciare agli ambienti per gli uffici il massimo di affaccio sull’esterno. Lo storto, il grattacielo di Zaha Hadid, delinea una sagoma che sfida i principi della verticalità, proponendo un volume che, attraverso la rotazione della pianta, provoca uno sbilanciamento molto pronunciato. L’effetto è curioso e si affida alla combinazione accorta delle geometrie che governano il disegno della pianta: il nucleo rigido centrale – perfettamente in verticale – ha una forma irregolare, calibrata sulle distanze che può tollerare la gabbia strutturale esterna man mano che i singoli pilastri si allontanano dalla giacitura iniziale. idee In alto: il grattacielo di Isozaki, “il dritto”, sviluppa un profilo impostato sulla ripetizione di un modulo di sei piani sagomato da linee curve che riecheggiano il tema formale delle torri di Brancusi In basso: il grattacielo di Zaha Hadid, “lo storto”, presenta un volume che, attraverso la rotazione della pianta, provoca uno sbilanciamento molto pronunciato architetture 37 idee Anche il grattacielo di Libeskind – il curvo – mira a impressionare per la precarietà dell’equilibrio. In questo caso a sfidare la verticalità non è il volume inclinato, bensì una porzione di guscio irregolare che si piega salendo verso l’alto. L’uso accorto della geometria accompagna, anche in questo caso, le esasperazioni strutturali: solo una breve porzione, la più alta e meno voluminosa, sporge rispetto alla sagoma di appoggio e il nucleo rigido dei collegamenti verticali è posto nell’angolo opposto dello sbilanciamento, proprio per riequilibrare e compensare l’insieme. Il progetto di Libeskind è quello che ha provocato il maggior numero di critiche: viene contestato soprattutto per la sua foma bizzarra, poco riguardosa verso i principi dell’architettura e la sobrietà del contesto urbano milanese. Si è giunti perfino a rimproverargli un’immagine poco “virile”, quella che, secondo alcuni, dovrebbe rappresentare il carattere distintivo del grattacielo. Tutte le volte che si intraprendono campagne di stampa in difesa della tradizione e dello stile, quasi sempre si finisce per osteggiare il Moderno e confinarne la ricerca formale all’interno di pochi canoni consolidati. A sostegno di queste tesi si muovono valori dove la retorica domina sull’autonomia e l’originalità del pensiero. Sarebbe al contrario più opportuno, quando il contesto non impone particolari condizioni di rispetto legate al carattere delle preesistenze, che il progetto venisse valutato attraverso i parametri concreti che misurano un edificio, cercando di porre in secondo piano le categorie universali dell’ideologia. Ciò ovviamente non significa che, lontano da un centro antico, tutto sia lecito e il giudizio estetico sia affidato alla pura soggettività. L’opera architettonica può essere valutata però con maggiore autonomia e le sue qualità rintracciate soprattutto architetture 38 In questa pagina: il grattacielo di Libeskind, “il curvo”, sfida la verticalità piegando una porzione del guscio esterno verso l’alto mentre, nell’angolo opposto allo sbilanciamento, propone un nucleo rigido di appoggio che riequilibra l’insieme Alcune immagini del complesso progetto per la riqualificazione dell’area della Fiera Campionaria di Milano. All’immagine dei tre grattacieli è affidato il compito di valorizzare pubblicitariamente l’impegno dell’impresa idee 39 architetture nelle premesse espressive del progetto. Il grattacielo di Libeskind, così come quello di Zaha Hadid, e per certi versi anche come quello di Isozaki con il suo esplicito riferimento alle sculture di Brancusi, hanno motivi di esagerata esibizione provocatoria; ma non veniva chiesto loro proprio di esibire un forte carattere simbolico di richiamo, per promuovere l’interesse sull’intero insediamento? D’altronde la scelta del grattacielo quasi mai corrisponde a una esclusiva esigenza tipologica: quasi sempre esprime l’intenzione di esibire un carattere esuberante e di affidare all’edificio il compito di valorizzare pubblicitariamente l’impegno dell’impresa. Anche le perplessità sull’incoerenza tra grattacielo e tessuto urbano hanno poca consistenza. Milano ha infatti voluto in passato nel suo centro cittadino due importanti grattacieli, modelli copiati e di grande rilievo nella storia dell’architettura moderna: la Torre Velasca (BBPR, 1958) e il Grattacielo Pirelli (Gio Ponti, 1961). Le motivazioni storicistiche e ambientali non giustificano pertanto le critiche ai tre grattacieli di CityLife; ciò tuttavia non ne riconosce implicitamente le qualità architettoniche che, per altri versi, sollevano non pochi dubbi che riguardano soprattutto il rapporto non ben giustificabile tra la loro esibita muscolarità strutturale e la poco razionale utilizzazione degli spazi. Ma a questo punto si rientra in una valutazione critica che riguarda gran parte dell’architettura contemporanea, soprattutto in Italia, dove l’originalità dell’immagine è inseguita molto più della correttezza funzionale. La riconoscibilità di una firma affermata esprime un valore che spesso azzera la qualità dell’opera. Questo peraltro è anche favorito dal ciclo ormai diffuso che vede l’idea architettonica concludersi con il progetto e, solo raramente, misurarsi con le verifiche della realizzazione. n architettureopere opere Burj Dubai, il grattacielo dei record architetture 40 L’edificio in fase di costruzione e l’area del distretto finanziario principale di Dubai La costa di Dubai caratterizzata da avveniristici grattacieli e arcipelaghi artificiali SOM – Skidmore, Owings and Merrill LLP opere Burj Khalifa (Burj Dubai), Dubai, Emirati Arabi Uniti Cronologia: 2004-2009 (costruzione); 2010 (inaugurazione) Altezza antenna: 828 m Numero piani: 160 (esterni), 2 (sotterranei) Area di progetto: 454.249 mq Costruttore: Emaar Properties Costo: 1,5 mld di dollari MARIO PANIZZA L’edificio terminato si presenta come una svettante stalagmite in crescita progressiva 41 architetture DI opere architetture 42 Il Burj Dubai è il grattacielo dei record: numero di appartamenti, uffici, posti macchina, spazi pubblici, giardini e, soprattutto, il primato dell’altezza. La sua storia non può essere disgiunta dalle vicende dell’emirato che, nel volgere di pochi anni, a partire dal 2003 (inizio della costruzione dell’edificio) è passato da una grande espansione a una crisi economica molto profonda. Il modificarsi così repentino della condizione finanziaria del Paese sembra corrispondere alle esagerazioni delle scelte architettoniche già compiute in questa nazione: il Burj Al Arab, l’hotel a sette stelle dove si può anche sciare, e le isole artificiali a forma di palme che raccolgono lussuose ville in mezzo al mare. Anche il Burj Dubai, in pianta, ha la forma di un fiore. Risponde in tal modo a precise esigenze distributive e strutturali, e rimane nella tradizione grafica della cultura araba. Il modello organico viene poi interpretato e governato da precise regole geometriche, al fine di fissare tutte le misure all’interno di opportune gerarchie scalari e, stabilendo una novità assoluta per un progetto di architettura, lasciare che l’opera tolleri il principio, presente nella concezione iniziale, che l’esito finale possa mutare nel corso della realizzazione. Questo ha accresciuto la curiosità sull’edificio, mantenendo incerto fino alla fine il numero dei moduli che sarebbero stati agganciati al nucleo centrale e, soprattutto, lasciando indefinita l’altezza che sarebbe stata raggiunta a conclusione dell’opera. L’immagine, anche adesso che l’edificio è terminato, rende bene questa idea di crescita progressiva: una stalagmite che sale da terra e non si sa quale quota raggiungerà, quale delle numerose opzioni del progetto seguirà. L’assunzione di una pianta a petali non è del tutto nuova. Oltre alle sagome a ninfea proposte in più occasioni da Alvar Aalto, a Chicago Schipporeit e Heinrich costruiscono nel 1968 il Lake Point Tower, un grattacielo a tre lobi, proprio come il Burj Dubai, che a sua volta ricorda i modelli, mai realizzati, progettati da Mies van der Rohe all’inizio degli anni Venti. Proiettare da un nucleo centrale tre corpi separati permette di ottenere il maggior numero di affacci liberi e assicura una vista molto ampia sull’intero Golfo Persico. All’interno di questo profilo trilobato della pianta si sviluppano ulteriori temi di modellazione formale, legati alle specifiche varianti della grafia araba, che permettono di isolare le singole cellule residenziali. La moltiplicazione degli elementi che vanno a comporre il profilo del perimetro rende pertanto molto ricca la gamma delle offerte funzionali e garantisce a tutti i lussuosi alloggi che svettano a grande altezza viste assolutamente privilegiate. Il Burj Dubai è l’edificio dei record anche per la grande estensione degli spazi all’aperto, veri e propri parchi verdi, alimentati dall’acqua raccolta grazie alla condensa che viene dal contatto tra il caldo umido esterno all’edificio e il raffrescamento degli ambienti interni. Il profilo pulito della silhouette mette in evidenza la moltiplicazione degli elementi e la modellazione formale La pianta dell’edificio a forma di fiore risponde a precise esigenze distributive e strutturali oltre a rimanere nella tradizione grafica della cultura araba opere Due profili che, a scala diversa, rendono evidente il contesto in cui il grattacielo si inserisce architetture 43 opere Il progetto di un grattacielo impone sempre la ricerca di soluzioni economicamente ben misurate, proprio perché l’investimento è tale che non può permettersi di trascurare fattori che per altri edifici sarebbero secondari. Tra questi, il tempo privo di profitti, talvolta anche lungo, necessario alla costruzione, e la spendibilità pubblicitaria dell’opera che deve proporre un’architettura ben riuscita e ricca di optionals. Per la architetture 44 Alcune immagini del Burj Dubai realizzato e in fase di costruzione Il grattacielo illuminato nello skyline di Dubai opere prodotto architettonico. Insomma, la coerenza vitruviana tra forma, funzione e struttura per un grattacielo dei record è assolutamente imprescindibile: Adrian Smith dello Studio SOM, con la pulizia della silhouette del Burj Dubai, indica una strada precisa, che ricerca nelle forme “copiate” dalla natura non un’immagine di moda, ma la semplicità costruttiva e, per quanto è possibile, il contenimento dei costi energetici. n 45 architetture costruzione dell’Empire State Building le travi in acciaio della struttura venivano fuse 72 ore prima del loro montaggio, giusto il tempo per il trasporto in cantiere e mettere in opera senza occupare uno spazio prezioso tra le strade di Manhattan; nell’AT&T, sempre a New York, Philip Johnson giunge, tra le altre scelte, a “inventare” il lampadario che, aumentando le altezze interne degli ambienti, rende ancora più prestigioso il DI FRANCESCO MARIA MANCINI Renzo Piano Building Workshop The New York Times Building, New York, NY Progetto: 2001 Costruzione: 2004-2007 Consulenti USA: FXFOWLE Architects Consulenti per l’interior design: Gensler Architecture Strutture: Thornton Tomasetti Impianti: Flack + Kurtz Superficie complessiva: 150.000 mq Area di intervento: 7.800 mq Altezza dell’edificio all’antenna: 319 m Altezza dell’edificio: 227,5 m Costo: 1 mld di dollari opere Il New York Times Building di Renzo Piano non si pone come rivale dei giganti d’Oriente che, a partire dalle Petronas Towers di Cesar Pelli a Kuala Lumpur (1998), hanno dato nuovo slancio alla corsa per il primato in altezza. Inaugurato il 17 settembre 2007, per le sue dimensioni medio-alte (52 piani, 319 m all’antenna) il Times è attualmente terzo tra i grattacieli di New York, puntando più sul rapporto con il tessuto urbano che sulla forma eccezionale, secondo quella linea “cittadina” di grattacieli che disegnano il profilo, sempre mutevole, delle metropoli. Tranne rari casi, infatti, il grattacielo americano si inserisce in un tessuto ordinato, costituito da edifici, più o meno alti, che architetture 46 Una leggerezza sostenibile Il NY Times Building visto dall’8a strada L’ingresso principale alla sede del giornale da cui si percepisce la hall in tutta la sua lunghezza nello skyline pronunciano la loro singolarità individuale, ma alla quota stradale disegnano la compattezza del blocco urbano denso, utilizzato in tutta la sua estensione. Come sappiamo l’innovazione più originale di questo schema compare a Manhattan nel 1958 grazie a Mies van der Rohe, che arretrando il Seagram Building rispetto al filo stradale, determina su Park Avenue uno spazio-piazza aperto alla L’edificio in relazione alla scala urbana circostante opere modellando la composizione tra l’edificio alto e quello basso sul più significativo dei simboli urbani: la piazza con la “chiesa” e il “campanile”. Renzo Piano adotta questo schema per il New York Times preferendo alla caratterizzazione figurativa il tema compositivo della torre e della sala bassa, aperta alla città e arricchita da un arioso giardino interno. «La maggior parte dei grattacieli a New York scende fino a terra, prendendo possesso in modo piuttosto aggressivo del territorio», spiega Piano, mentre in questo caso il piano terra di fatto unisce la 40a Strada alla 41a: «L’edificio e la città si leggono a vicenda e dialogano (…) una buona metafora del concetto di redazione e di giornale, una struttura che si alimenta della città».1 La trasparenza come metafora per l’edificio è un’idea perseguita sin dalle prime fasi del progetto, nonostante l’attentato dell’11 settembre 2001. Questo atto di negazione della città avrebbe potuto indurre ad accentuare il tema della sicurezza, ma non l’architetto genovese, che riafferma l’importanza della fruibilità dello spazio urbano anche dentro i grandi edifici. La lobby del Times Building si apre al pubblico per più di 100 m oltre i nuclei ascensori. Dall’ingresso su strada si notano le attività all’interno, dal trambusto dell’atrio fino alla quiete del giardino, una corte di 400 mq circondati da 2.400 mq di spazi commerciali ad essa complementari, dalla newsroom del Times e dagli uffici soprastanti. Un auditorio di 380 posti prospiciente il patio completa l’offerta di servizi, potendo ospitare videoconferenze, commedie teatrali, notiziari live e recital musicali. Questa piastra riccamente articolata si traduce in un optional invitante e, nel contempo, permette alla città di estendere la riqualificazione di un’area fino a poco prima tra le più degradate e insicure. Su di essa si sovrappone la torre quadrata degli uffici che offre a ogni piano 3.000 mq di superficie utile illuminata da luce naturale. Le soluzioni distributive più utilizzate sono due: l’open space modulato su un passo di 1,5 m, con workstations schermate da bassi pannelli, che si alternano a spazi di incontro e collaborazione, o il perimeter plan con gli uffici disposti su un anello esterno e i servizi raggruppati nell’area centrale. Il progetto, oltre a un’attenta ricerca edilizia sul piano tipologico, mostra grande attenzione alla sostenibilità, realizzando un vero e proprio tecno-tipo che integra la matrice distributiva del grattacielo con le sue prestazioni strutturali e tecnologiche. Anzi tutto Renzo Piano sceglie di mostrare le travi all’esterno e all’interno dell’edificio. 25.000 tonnellate di acciaio, per il 95% riciclato, vengono accuratamente sagomate e assemblate in un telaio a vista integrato nell’involucro, mentre un nucleo centrale in cemento armato resiste alle sollecitazioni orizzontali, bilanciando la leggerezza del reticolo esterno. Il nucleo nella parte alta si riduce, 47 architetture città. Una soluzione ripresa da molti altri progetti, sebbene con l’ulteriore variante, più redditizia sul piano commerciale, di porre la piazza all’interno dell’edificio. I grandi atri risultano infatti gli accorgimenti più efficaci per richiamare il pubblico dei visitatori e, quindi, dei potenziali clienti. Sono spazi che coincidono per lo più con la lobby del grattacielo, generalmente di grande altezza e di forte impatto, ben visibile dalla strada. Gli esempi non sono pochi e riguardano sia i grattacieli del periodo déco che quelli post modern, entrambi contraddistinti da decori esuberanti. Parallelamente a queste soluzioni, con gli ambienti pubblici che occupano la parte basamentale dell’edificio, se ne sviluppano altre, dove al foyer è destinato uno spazio, sempre interno al lotto, ma adiacente all’edificio principale. Anche in questo caso vi sono prototipi molto seguiti, come il Republic Bank Center, realizzato a Houston nel 1984 da Philip Johnson, che risolve il rapporto con la città 1 1 4 Legenda: 7 5 2 3 6 opere 7 1 1 1. spazi commerciali 2. atrio 3. auditorium 4. foyer 5. patio 6. area carico/scarico 7. ascensori 1 architetture 48 Sezione longitudinale. La Times Company utilizza dal piano terra fino al 27°, per un totale di 80.000 mq. A partire dal piano tecnico altri 21 livelli, per complessivi 67.000 mq, sono gestiti dalla Forest City Ratner Companies Pianta del piano terra. Intorno alla corte interna si articolano la main hall del giornale, gli ambienti commerciali (MUJI, Dean & DeLuca Cafè, Inakaya) e un piccolo auditorio Lo spazio interno beneficia di splendide viste grazie alle vetrate a tutta altezza protette da curtain wall di ceramica 6 6 2 3 6 5 6 2 4 4 6 5 4 5 8 6 5 7 7 4 4 9 1 3 2 8 4 1 3 5 8 6 9 3 6 3 2 a b 6 6 Legenda: Legenda: 6 1. atrio/attesa 2. postazioni di lavoro open space 3. riunioni 4. fotocopie/caffè 5. spazi comuni 6. uffici 7. spazi tecnici 8. ascensori 9. wc 6 2 6 4 3 6 6 2 8 1 6 3 3 8 1 9 9 4 5 4 7 4 3 4 7 6 5 3 5 c 2 d 6 In alto: piante dal 2° al 27° livello. Soluzioni open space (a) e perimeter plan (b) In basso: piante dal 29° al 52° piano. Soluzioni open space (c) e perimeter plan (d). Ai piani alti affittati ad altre compagnie, la superficie commerciale aumenta grazie alla riduzione del nucleo ascensori 6 6 49 architetture 6 opere 6 2 opere eliminando un blocco ascensori in favore di una più ampia superficie commerciale. Questo modello strutturale è capace di rispondere a ben 24 combinazioni di spinte del vento e azione sismica sopportando, nella sua snellezza, i notevoli allungamenti e contrazioni dovuti agli shock termici che in estate raggiungono anche i 24°. Un secondo aspetto è il tema dell’efficienza energetica. Il grattacielo è supportato da un impianto di cogenerazione a gas in grado di produrre 1,4 MW di energia elettrica, mentre un circuito secondario integrato ne recupera il calore dissipato sfruttandolo per riscaldare gli ambienti. Il Times è così in grado di produrre fino al 40% di energia necessaria al raffrescamento estivo e al riscaldamento invernale. Un’efficiente ventilazione forzata permette di condizionare l’aria esterna fino a 6° più calda della norma e immetterla architetture 50 In alto: Al centro e in basso: La struttura in acciaio a vista costituisce parte integrante dell’immagine dell’edificio La lobby, lungo i due blocchi degli ascensori ad alta velocità, è caratterizzata da 560 display che offrono un dinamico ritratto del Times, alternando titoli estratti dai 156 anni dei suoi archivi agli strilli delle ultime notizie La caffetteria su due livelli al 14° piano: un luogo piacevole per una pausa, equipaggiato, come tutto l’edifico, con rete wi-fi e voip system La corte all’interno dell’ariosa lobby si pone in contrasto con i ritmi intensi della città, costituendo il cuore pubblico dell’edificio Lo spazio di lavoro, di classe A, è progettato per essere flessibile secondo le necessità della Times Company, che affianca alle news attività di business e corporate Vista notturna dello skyline della città opere luce naturale, in totale assenza di fenomeni di abbagliamento. Il curtain wall di frangisole ceramici, le ampie vetrate e la struttura caratterizzano sul piano espressivo l’involucro, mostrando un’immagine vibrante che amplifica la trasparenza dell’edificio man mano che la sagoma procede verso l’alto. Il confine con il cielo si perde quando la frangia del bordo superiore si smaterializza e i segni sottili della struttura dell’involucro non hanno più nessun volume da proteggere. n 1 Renzo Piano, intervista al «Corriere della Sera» del 16 novembre 2007 51 architetture lentamente dall’elegante pavimento in rovere, invece di pomparla ad alta velocità dal soffitto. Grazie al calore dalle persone e dei computer l’aria viene post-riscaldata senza sprechi, salendo per poi defluire dalle riprese a soffitto. L’azione di sensori di anidride carbonica assicura un notevole comfort, favorito anche dalla ventilazione naturale. Un sistema di illuminazione ad alta efficienza gestisce 18.000 lampade con alimentatori a chip programmabili in funzione dell’apporto di luce solare. A questo si affianca un dispositivo di ombreggiamento dinamico, costituito da uno schermo di aste in ceramica capace di un risparmio energetico annuo del 30%. La riduzione del 50% del flusso di energia solare proveniente dall’esterno ha permesso di installare vetrate da cielo a terra in tutti i piani del grattacielo. Lo spazio interno guadagna così una splendida vista e un maggior apporto di C.Y. Lee & Partners Architects/Planners Taipei 101, Taipei, Taiwan Cronologia: 2004 (realizzazione) Altezza antenna: 508 m Peso: 705.130 t Acciaio: 107.000 t Calcestruzzo: 242.852 mc Ascensori: 63 (velocità: 16,83 m/s) Costo: 1,5 mld di euro DI FRANCESCA ROMANA FIERI opere Taipei 101, fra tradizione e innovazione architetture 52 Alcune immagini dell’edificio che domina Taipei. Il motivo formale della rastremazione ha un preciso scopo strutturale e funzionale opere Ora che il grattacielo più alto del mondo è il Burj Dubai, il Taipei 101 è un po’ passato in secondo piano, anche se rimane leader nell’inglobare tecnologia costruttiva e cultura del luogo, attraverso un’attenta cura dei dettagli. La sua struttura a gradoni, che si distacca dalla consueta forma filante, richiamando un gambo di bambù, antico simbolo di crescita, è formata da 8 moduli rastremati a base quadrata, ognuno di 8 piani, che si innalzano uno sopra l’altro da un basamento piramidale. Proprio intorno al numero 8, che nella cultura cinese rappresenta abbondanza, prosperità e buon auspicio, si ordina l’insieme degli elementi costruttivi; non mancano tuttavia altri simboli: quattro grandi dischi, che raffigurano monete, sono montati sulle quattro facciate, a marcare il passaggio dei due diversi motivi geometrici della parte in elevazione; alcuni draghi d’acciaio sono posti a guardia degli spigoli; le cifre ruyi, antico simbolo associato alle nuvole del cielo, dichiarano guarigione e protezione. Anche l’altezza di 101 piani commemora il rinnovo del tempo (100+1) e tutti i nuovi anni (1-01). A rafforzare l’effetto scenografico dell’edificio contribuisce l’illuminazione, che ogni sera propone uno dei sette colori Quattro grandi dischi che raffigurano monete sono montati sulle quattro facciate Pianta piano tipo e schema sintetico delle destinazioni d’uso dei vari piani architetture 53 opere architetture 54 Sul piano del risparmio energetico, le facciate continue in vetro verde offrono protezione dalla radiazione solare bloccando il 50% del calore esterno Ai suoi 101 piani, serviti da 63 ascensori, si aggiungono 5 piani interrati dedicati al commercio opere dello spettro che corrispondono ai giorni della settimana. Ma oltre a richiamare così fortemente la cultura religiosa cinese, il Taipei 101 è anche un insieme di alta tecnologia. La sua solidità strutturale inizia con le fondazioni, ancorate a una massa rocciosa che si trova a 60 m al di sotto del piano di campagna, prosegue dal 1° al 62° piano con 8 colonne d’acciaio riempite di cemento – due in ogni angolo – e si conclude in sommità con una sfera d’acciaio di oltre 5 m di diametro che, sostenuta da pompe idrauliche, scorre da 1 a 150 cm, riequilibrando le sollecitazioni orizzontali provocate dal vento o dai terremoti. Questo accorgimento tecnico, già sperimentato in altri edifici a partire dal Citicorp Center di Hugh Stubbins a New York (1977), è risultato uno dei più sicuri ed efficaci nell’alleggerimento delle strutture in acciaio. Nei grattacieli infatti, se si riescono a neutralizzare, almeno in parte, le spinte orizzontali, è possibile giungere a una riduzione fino al 20% del peso della struttura. Anche il motivo formale della rastremazione di 7° ogni 8 piani ha un preciso scopo strutturale e funzionale: ogni segmento è completato da travi che si collegano al nucleo centrale e l’aggetto esterno è utilizzato come spazio calmo in caso di incendio. Sugli angoli gli spigoli sagomati a “W” hanno il compito di irrigidire l’involucro e rompere, per forma, la spinta del vento. Sul piano del risparmio energetico, le facciate continue in vetro verde offrono protezione dalla radiazione solare bloccando il 50% del calore esterno e il sistema di gestione delle acque grigie soddisfa il 30% del bisogno totale. È previsto un investimento di quasi 2 milioni di dollari, che dovrebbero essere recuperati in soli tre anni, per ottenere entro un anno la certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design). Il Taipei 101 diventerebbe in tal modo l’edificio sostenibile più alto del mondo. n In sommità è posta una sfera d’acciaio di oltre 5 m di diametro che, sostenuta da pompe idrauliche, scorre da 1 a 150 cm, riequilibrando le sollecitazioni orizzontali provocate dal vento o dai terremoti In alto a sinistra: La struttura dell’edificio è ancorata a una massa rocciosa che si trova a 60 m al di sotto del piano di campagna In basso a destra: L’effetto scenografico dell’edificio è affidato all’illuminazione che ogni sera propone uno dei colori dello spettro architetture 55 ARNALDO MARINO opere DI architetture 56 Il territorio di Pudong infittito di grattacieli in continua competizione per il primato d’altezza e originalità Il drago cinese alla guerra dei simboli Kohn Pedersen Fox La facciata dell’edificio su cui si specchia la Jin Mao Tower di SOM 57 architetture Chi, all’inizio degli anni ‘90, visitando Shanghai avesse gettato lo sguardo dalla riva occidentale dello Huangpu dove il fiume realizza un’ampia ansa, avrebbe osservato sull’altra sponda una vasta estensione di territorio coltivato a risaia e un agglomerato di case di pescatori costituente il distretto di Lujiazui. Oggi la vista si trova invece a fronteggiare un esteso, più di Manhattan, e moderno quartiere per affari con uno skyline decisamente avveniristico. Shanghai, insieme a Hong Kong, ha rappresentato da sempre la porta d’accesso alla modernità per la nazione cinese che usciva dalla sua condizione di gigante dormiente. La rincorsa a un progresso che fosse anche ostentazione di primati ha rappresentato quindi per la dirigenza cinese una politica da perseguire con metodo e persistenza (si pensi alle faraoniche e costosissime Olimpiadi di Pechino). In vent’anni dunque il territorio di Pudong si è infittito di grattacieli in continua competizione per il primato d’altezza e l’originalità. Nell’area solo fino a tre anni fa la scena era dominata dalla Jin Mao Tower di SOM, che ostentava il suo dominio sull’intorno dall’alto dei suoi 420 m, oltreché in virtù del suo stile orientaleggiante che ammiccava allo spirito locale. Ma il suo primato non ha fatto in tempo a consolidarsi che al suo cospetto, beffardamente a distanza di pochi metri, è sorto il nuovo emblema della modernità cittadina. La realizzazione dello Shanghai World Financial Center (SWFC) ha richiesto 11 anni, comprensivi anche di una battuta d’arresto di circa quattro, coincidente con una delle più rovinose crisi finanziarie asiatiche. Il progetto di Kohn Pedersen Fox interpreta il programma finanziario di un consorzio di investitori giapponesi guidato dalla Mori Corporation, un gigante economico con una sua visione della modernità urbana fatta di densificazione e vertical cities garden. Il programma iniziale, per un edificio di 97 piani, prevedeva di superare le mitiche Petronas Towers in Malaysia, ma il fermo del cantiere e il protrarsi nel tempo della realizzazione ha richiesto, alla ripresa nel 2003 per conservare il primato, un’addizione per raggiungere, con i suoi attuali 101 piani, i 492 m. Seguendo uno schema, sia statico che funzionale, che trova nel J. Hancock Center di opere Shanghai World Financial Center (SWFC), Shanghai, Cina Cronologia: 1997-2008 (realizzazione) Altezza antenna: 492 m Piani: 101 Ascensori: 91 Foto: Maurizio Gargano opere SOM a Chicago del 1968 il capostipite di questo genere, il progetto prevede che intorno a un nocciolo centrale, fortemente inerziale costituito dal sistema delle connessioni verticali (scale, ascensori e tecnologico), si sviluppi anularmente lo spazio servito per un totale di 358.000 mq. Realizzando in termini funzionali un mix che garantisce la compresenza di attività commerciali, lavorative e residenziali e dunque rifugge dai limiti e dalla scarsa attrattiva degli edifici monofunzionali. Sulla base di canoni ormai classici l’edificio modula il suo volume in tre segmenti (basamento-fusto-coronamento) corrispondenti funzionalmente alle differenti attività insediate. Solidamente incardinato su un “podio” compatto e massivo che lo radica fortemente al suolo, il volume affonda per tre piani sotto il livello di terra a realizzare un capace parcheggio, ed emerge per cinque con un vasto e sontuoso centro per il commercio. Su questa sorta di piedistallo si erge poi, affusolato e lucente con la sua pelle vitrea priva di asperità, il fusto del corpus principale costituito per 70 piani (7-77) da spazi per ufficio e per altri 15 (79-93) dall’ennesimo lussuoso ed esclusivo hotel. Con un ultimo guizzo, infine, a coronare il suo bisogno di primato, la stele si conclude con un maestoso, e forse retorico se non inutile, portale che L’edificio affusolato e lucente, simbolo della modernità cittadina, svetta a pochi metri di distanza dalla Jin Mao Tower Il volume principale disegnato sull’intersezione di due archi permette di ridurre la resistenza alle forze orizzontali architetture 59 opere architetture 60 assicura però ai visitatori paganti della galleria belvedere un’esperienza visiva unica e incomparabile. Nell’allegoria dei segni, che poggia nella tradizione cinese, il prisma basale allude alla terra mentre i due archi, dalla cui intersezione si genera il volume principale, rappresentano il cielo. E dunque l’edificio si pone come elemento di legame La galleria belvedere offre ai visitatori un punto di vista unico sulla città di Shanghai tra i due. Ma l’argomento sembra debole se è vero come è vero che il grattacielo in quanto tale, per sua natura, è nato per scalare il cielo. Rimane il dato ingegneristico, quello sì ineludibile, di alleggerire e rastremare il volume per ridurre la resistenza alle forze orizzontali e, a parità d’altezza, il peso complessivo del gigante. Alcune immagini della grande vetrata panoramica 61 architetture Infine, se è vero che il veleno sta nella coda, la risoluzione formale del coronamento ha avuto implicazioni e connotazioni politiche che hanno sollecitato antiche e mai sopite idiosincrasie se non ostilità. L’establishment cinese, che in una visione molto pragmatica si è sempre dimostrato pronto a recepire e fare proprio qualunque elemento esterno che significasse modernità e promozione sul piano internazionale, difficilmente poteva accettare l’idea che un consorzio d’impresa giapponese realizzasse l’edificio emblema di Shanghai collocando in sommità un segno (un tondo) che palesemente richiama il “Sol levante”. E così, senza tanti rimpianti ma con molto realismo, il sole è diventato un portale e l’impresa è andata a buon fine. n opere D’altronde che la questione sia staticamente rilevante è confermato dalla necessità di “smorzare” l’oscillazione apicale dell’edificio – fino a 1 m – in presenza di vento, adottando un espediente già sperimentato nel 1977 da Hugh Stubbins nel suo Citicorp Bldg a New York. La dislocazione infatti al 90° piano di un bilanciere inerziale di 150 tonnellate, monitorato e azionato da computer, consente di assorbire l’energia trasmessa dal vento, e di mitigare lo spostamento laterale che genererebbe condizione di malessere oltreché insicurezza. opere architetture 62 Il grattacielo culmina con una grande apertura trapezoidale opere L’edificio trova posto in un moderno quartiere per affari con uno skyline avveniristico architetture 63