I L F I L O S O F O Ludwig Wittgenstein Elaborazione grafica, Ludwig Wittgenstein. Il più schivo dei pensatori considerava la sua filosofia come una terapia che avrebbe guarito il linguaggio dalle patologie della metafisica. K Cesare Del Frate Direttore di Diogene. P ochi filosofi sono stati schivi come Ludwig Wittgenstein: pubblicò un’unica opera, il Tractatus logico-philosophicus, mentre tutti gli altri suoi scritti sono stati conosciuti solo dopo la sua morte, e in modo ancora oggi incompleto; le sue opere non erano pensate per un pubblico, erano piuttosto monologhi, come lui stesso sostiene in Pensieri diversi: “Scrivo quasi sempre soliloqui. Cose che mi dico a quattr’occhi”. Le stranezze e la ruvidità del suo carattere erano oggetto di scherzi e leggende fra chi lo conobbe; il suo maestro, Bertrand Russell, lo descrive così: “Una certa aria di misticismo l’avevo già sentita nel suo libro, ma sono rimasto sconcertato nello scoprire che è diventato un mistico, nel senso pieno del termine. Legge autori come Kierkegaard e Angelo Silesius e sta valutando seriamente l’idea di farsi monaco”. Da un certo punto di vista, Wittgenstein condusse effettivamente una vita monacale, in quanto improntata a un’assoluta sobrietà e alla scarsità di rapporti umani o sociali. Il carattere corrisponde qui alla filosofia: il suo stile di pensiero è sempre parco e animato da una logica stringente, alla ricerca dell’essenziale. Non a caso, nelle opere tarde, Wittgenstein sostiene che la filosofia è una terapia il cui compito è guarire il linguaggio dal non senso e dall’incomprensione: “Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie”. Se la metafisica complica il pensiero creando falsi problemi o interrogativi equivoci, il compito del filosofo è svelare queste illusioni per resituire le parole al loro uso quotidiano, comprendendo le regole che lo governano. La filosofia di Wittgenstein è interamente metodologica, o epistemica, è cioè un tentativo d’illustrare e comprendere i giochi linguistici degli uomini separando il senso dal non senso. L’eredità dell’autore del Tractatus e delle Ri- DIOGENE N. 22 Marzo 2011 cerche filosofiche è molteplice. Innanzitutto, viene considerato il padre della svolta linguistica novecentesca, quel cambio di paradigma che ha portato la filosofia a considerare il linguaggio, e non più Dio o la ragione, come l’orizzonte di senso entro cui comprendere l’essere umano. La svolta pragmatica Più recentemente, è stato utilizzato anche dai sostenitori della cosiddetta svolta pragmatica, come Knorr-Cetina o Latour, che considerano il linguaggio stesso una forma d’azione, e vedono nella prassi la radice ultima della soggettività e della società. Forse proprio questo è l’aspetto più dirompente delle riflessioni di Wittgenstein. La filosofia ha sempre considerato il linguaggio un sistema di rappresentazioni: uno specchio, o immagine, del mondo. Il significato di una parola risiederebbe nell’oggetto che descrive. Wittgenstein critica questo modello teoretico e contemplativo, per lui il linguaggio è prassi, “le parole sono azioni”, e il significato risiede nell’uso di un enunciato. Nel celebre esempio col quale illustra la teoria dei giochi linguistici troviamo due muratori: il primo chiede all’altro di passargli un mattone. Per un filosofo tradizionale, il senso di “mattone” è l’immagine del mattone. Se i muratori ragionassero così, passerebbero il tempo a immaginarsi mattoni senza costruire la casa. Invece i muratori si passano i mattoni e li dispongono per lavorare: le parole sono azioni e si legano ad altre azioni materiali. Uso il linguaggio per scrivere la nota della spesa, per elaborare un teorema matematico, per chiedere informazioni sulla strada da prendere. A volte lo uso anche per rappresentare il mondo, ma è solo una delle tante operazioni possibili di questo strumento eclettico e variegato come le forme di vita che va a comporre. K 65 I L F I L O S O F O Nel Tractatus logicophilosophicus, l’unico saggio pubblicato mentre era in vita, Wittgenstein propone una riforma in senso logico del tradizionale linguaggio filosofico. Prospettiva assurda, cortesia flickr.com. Logica e verità K David Pears Filosofo inglese, è stato uno dei maggiori studiosi di Wittgenstein. 66 Nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, leggiamo che il metodo corretto della filosofia dovrebbe essere quello di dire solo proposizioni della scienza naturale e, quindi, “qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare”. Qual è il significato di questa relazione tra scienza e filosofia? Qual era inoltre l’atteggiamento di Wittgenstein verso il ruolo della scienza nella società contemporanea? La relazione che Wittgenstein stabilisce fra la sua filosofia e la scienza è, in un certo senso, il tratto più importante del suo pensiero. Egli percepiva che la filo- sofia contemporanea - quella del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo era dominata dal modello della scienza, cosicché i filosofi producevano teorie filosofiche della medesima forma di quelle scientifiche e a questo egli si opponeva profondamente. Pertanto, si potrebbe considerare il suo primo libro, il Tractatus, come un lavoro simile a quello di Kant, che limita la scienza alla sfera che le è propria, mentre lascia la filosofia libera di svilupparsi indipendentemente da quella. La relazione tra scienza e filosofia è senz’altro, dal mio punto di vista, una DIOGENE N. 22 Marzo 2011 I L buona chiave per avvicinarsi alla filosofia di Wittgenstein. Ci sono molti altri modi per accostarvisi, ma la questione del rapporto tra scienza e filosofia è un filo rosso che attraversa tutto lo sviluppo del pensiero di Wittgenstein. Sino alla fine, infatti, egli si oppose all’assimilazione della filosofia alla scienza, all’idea che la filosofia dovesse produrre teorie metafisiche modellate sulle teorie scientifiche, per quanto prive, naturalmente, della verifica sperimentale che si ha nella scienza. Per quanto riguarda l’atteggiamento di Wittgenstein nei riguardi della scienza si tratta di un argomento assai difficile. Ciò che Wittgenstein pensava della scienza è che la tecnologia che essa produce ha avuto, nel complesso, un effetto molto negativo sulla vita umana. Egli riteneva che la gente fosse ormai ossessionata dal possesso, dalle macchine, e che avesse perso semplicemente contatto con la propria esistenza umana: alludo alle automobili, alla televisione e alla radio. Egli pensava che, nell’insieme, tutto ciò avesse un effetto negativo: la sua vita fu estremamente austera e semplice. Quando era a Cambridge, la sua stanza era arredata con molto poco, appena due sedie a sdraio, di quelle da spiaggia, e nessun quadro alle pareti. I muri erano assolutamente bianchi come quelli di una stanza d’ospedale. Viveva in una assoluta semplicità, cosa che ovviamente era una reazione verso il lusso nel quale era cresciuto da bambino a Vienna. Ma aveva anche un altro sentimento verso la scienza e la tecnologia, e cioè sentiva che la gente era alienata dall’ambiente circostante. A parte l’essere un filosofo, Wittgenstein progettò una casa davvero splendida a Vienna, ed era anche un buono scultore. Egli sentiva che l’esistenza umana si era andata deteriorando a partire dalla metà del Diciannovesimo secolo. Tuttavia questo suo atteggiamento è qualcosa di diverso dalla sua posizione teorica: sono due cose differenti. Da una parte, infatti, sul piano teorico, egli si oppose al predominio della scienza nella filosofia, dall’altra, dal punto di vista della vita quotidiana, egli semplificò la propria esistenza. Una trattazione a parte merita il rap- DIOGENE N. 22 Marzo 2011 porto tra Wittgenstein e Freud; Wittgenstein è affascinato da Freud, il quale proviene dal medesimo ambiente viennese. Un paziente sotto terapia, secondo Wittgenstein, è persuaso dall’analista, dal terapeuta, a considerare la propria vita e i propri sentimenti in una nuova luce. Secondo Wittgenstein, anche se personalmente non condivido una simile veduta, il mito implicito nella teoria freudiana consiste nell’affermazione che vi sono degli eventi risalenti ai primi anni di vita, racchiusi nell’inconscio del paziente, che vengono rivelati solo in analisi e che questi non sono solo eventi inconsci, ma anche eventi connessi causalmente. Questa impostazione produce una specie di versione psicologica della fisica, una psicologia costruita analogamente alla fisica, che certamente era ciò che Freud intendeva realizzare e che era, secondo Wittgenstein, un mito. In realtà, secondo lui, è possibile solo che un abile analista riesca a persuadere il paziente a considerare la sua vita passata sotto una nuova luce, a vederne nuovi aspetti e nuove relazioni, ma non a scoprire eventi che hanno avuto luogo nel suo inconscio. Nel Tractatus Wittgenstein cerca di scoprire l’essenza della proposizione. Perché la nozione di proposizione è così importante? Wittgenstein era un autentico filosofo dei filosofi. Cioè, egli scriveva filosofia per i filosofi, avendo altri filosofi in mente quali suoi interlocutori. Aveva l’idea, non del tutto originale, che il modo migliore di esaminare il pensiero umano fosse di prendere il linguaggio e di analizzarlo scomponendolo nei suoi elementi più semplici. L’analogia è con l’atomismo della fisica antica, vale a dire con l’idea che, se si vuole comprendere la struttura delle diverse sostanze, le si deve analizzare riconducendole alla loro struttura atomica. Ebbene, Wittgenstein condivideva questa idea a proposito del pensiero e delle proposizioni che esprimono i pensieri: era necessario scomporli nei loro elementi più semplici sino a mostrare esattamente quale fosse l’essenza del pensiero umano. Wittgenstein non voleva riformare il linguaggio, poiché nel F I L O S O F O Tractatus egli stesso afferma che il linguaggio quotidiano è perfettamente in ordine così come esso è. La sua idea era, invece, che dietro al linguaggio di tutti i giorni ci fosse un altro linguaggio molto più accurato e molto più perfettamente strutturato, nel quale il linguaggio ordinario poteva essere tradotto. Quando scrisse il Tractatus, egli pensava di produrre uno schema per la traduzione del linguaggio ordinario in questo linguaggio molto tecnico basilare. La ragione era che egli voleva mostrare ciò che ha senso e ciò che è privo di senso. Credeva che una larga parte della filosofia fosse non senso e che, quindi, l’unico modo di correggere questa situazione fosse quello di produrre un’analisi esaustiva di ogni cosa che potesse essere legittimamente detta, analizzandola sino ai suoi elementi fondamentali. In questo modo, si sarebbe ottenuta una specie di mappa di ogni possibile linguaggio e, quindi, di ogni possibile insieme di proposizioni. In quest’ottica, ogniqualvolta ci si trova di fronte ad affermazioni filosofiche imbarazzanti, le si può osservare, interrogandoci se l’affermazione o le affermazioni in questione possono trovare posto nella mappa. Se la risposta è affermativa, la proposizione può essere accettata, altrimenti, ci troviamo di fronte a un’incomprensione, vale a dire a un uso improprio del linguaggio, che non ha senso. Questo era lo scopo del lavoro di Wittgenstein sviluppato nel Tractatus. In quale misura le idee di Wittgenstein sono debitrici dei lavori di logica e di filosofia della matematica di Frege e di Russell? Inoltre quanto hanno influito Kant e la tradizione kantiana sul Wittgenstein del Tractatus? Frege e Russell furono coloro che ebbero la maggiore influenza su questa parte del lavoro di Wittgenstein. E la cosa principale che egli trasse da loro, da entrambi, fu l’idea di una perfetta analisi del linguaggio. Wittgenstein ereditò questa concezione da Frege e fece uso della logica di quest’ultimo, e naturalmente di quella di Russell, per costruire lo schema di un linguaggio perfetto. Da Russell trasse non solamente questo, ma anche l’idea che la 67 I L F I L O S O F O struttura apparente di una proposizione può differire molto dalla sua struttura reale, profonda. Se si prende una frase ordinaria, che sembra dica una certa cosa, e la si analizza, può risultare che essa sia sorprendentemente diversa. Queste furono le due principali influenze sul Tractatus. Come Wittgenstein stesso affermò nella prefazione, il suo debito principale fu verso Frege e Russell. Occorre anche ricordare l’importanza rivestita dalla filosofia kantiana. Penso che la cosa più semplice da dire sia che il sistema di Wittgenstein nel Tractatus è una specie di versione linguistica di Kant, della filosofia kantiana. Ovviamente, una simile affermazione è assai imprecisa. Non dobbiamo dimenticare che Kant ha tentato di mostrare la validità delle categorie scientifiche e del modo in cui noi costruiamo il mondo usando le nozioni di causa ed effetto, di spazio e tempo. E contemporaneamente ha cercato di porre a tutto questo dei limiti, di tracciare un confine netto, affermando che al di là di questo confine ci sono l’etica e l’estetica. Questo era in realtà anche il programma di Wittgenstein nel Tractatus. Ovviamente egli fece uso di metodi molto diversi da quelli di Kant, perché la sua indagine è per intero linguistica o logica, mentre quella di Kant è una ricerca concettuale. Ma lo scopo è lo stesso e gli esiti non sono poi così dissimili. Il risultato infatti è dare alla conoscenza scientifica e fattuale una base assolutamente sicura e solida, innanzitutto, e quindi, di limitarne l’ambito, in modo tale che al di fuori si trovino altre sfere del pensiero come l’etica e l’estetica. Rimane naturalmente il problema della metafisica: certamente il modo in cui Wittgenstein ne diede conto fu diverso da quello di Kant. Questo è l’autentico rapporto esistente fra la filosofia di Kant e quella di Wittgenstein. Wittgenstein sostiene che mostrare l’essenza di una proposizione significa, allo stesso tempo, mostrare l’essenza di ogni possibile descrizione, e quindi del mondo. Cosa significa? Nel Tractatus, egli combatte l’idea che la filosofia debba produrre teorie analoghe alle teorie scientifiche, per quanto 68 prive di verifica. D’altro lato, chiaramente, il sistema del Tractatus è esso stesso una teoria sulla natura del mondo. Wittgenstein credeva, infatti, che, una volta arrivati al livello fondamentale in cui il linguaggio è completamente analizzato, le proposizioni corrispondano esattamente ai fatti del mondo. E osservando questo linguaggio, attraverso di esso, si vede la struttura essenziale del mondo, alla quale le proposizioni corrispondono. Solo se si è capaci di chiarire perfettamente il proprio linguaggio e i propri pensieri, si è in grado di vedere, attraverso questi, la reale natura del mondo. Questa è la concezione del Tractatus. In questo senso, si potrebbe dire che il libro adotta una metafisica realistica. In seguito, però, Wittgenstein abbandonò questa concezione e abbracciò l’idea, del tutto diversa, che la credenza che il linguaggio corrisponda al mondo sia semplicemente una conseguenza del nostro limitato punto di vista. Si vede il mondo attraverso il linguaggio, e si pensa che ciò sia una corrispondenza perfetta, ma la ragione per cui essi sembrano corrispondere è che si portano questi occhiali da cui si guarda il mondo. Dopo il Tractatus, quindi, egli abbandonò l’idea di un linguaggio atomico corrispondente perfettamente alla realtà. Naturalmente molti altri, oltre Wittgenstein, hanno avuto questa idea del linguaggio come raffigurazione del mondo. Mi torna in mente, a tal proposito, un racconto di uno scrittore inglese, William Golding, intitolato The Inheritors, che narra di persone che vissero prima dell’uomo di Neandertal e che comunicavano l’un l’altra per mezzo d’immagini: invece di pronunciare frasi, esse si inviavano telepaticamente immagini. È solamente un esempio dell’idea del tutto naturale che una frase sia un’immagine. Se si spiega la grammatica ai bambini, un modo per farlo è quello d’illustrare il parallelismo fra le parole in una frase e i particolari di un disegno. Credo perciò che sia un’idea alquanto naturale e non una sofisticata invenzione dei filosofi. Come si presenta in Wittgenstein tale concezione? Egli riteneva che la natura ultima della realtà del mondo, questa è la sua teoria metafisica, consistesse di og- getti che, combinati in certi determinati modi, rendono vere le proposizioni basilari. E la natura essenziale del mondo, secondo questa concezione, era che una qualsiasi combinazione o esiste o non esiste, senza che si dia una terza possibilità. Pertanto, una proposizione del linguaggio fondamentale è o vera o falsa, senza una terza alternativa. Per capire perché la proposizione è come un’immagine o un quadro può essere utile il seguente esempio: se si disegna una pianta di Roma e il Vaticano viene posto a Nord di un determinato edificio in cui ci si trova, dobbiamo dire che il Vaticano, rispetto all’edificio preso come punto di riferimento, è a Nord oppure non lo è. In realtà, è vero che questo non è un esempio completamente soddisfacente, perché entrambi, sia il Vaticano che l’edificio di riferimento, potrebbero trovarsi esattamente alla stessa latitudine, tuttavia, esso serve a rendere più chiara l’idea della teoria della proposizione-immagine. Una proposizione è, infatti, un’immagine della realtà perché mostra l’organizzazione e le relazioni reciproche degli oggetti nel mondo. E tali relazioni o sono come la proposizione ce le presenta oppure no. La proposizione o è vera o è falsa, senza altre alternative. Si tratta di una logica bivalente. Wittgenstein sostiene che le dimostrazioni logiche sono senza senso. Ma d’altra parte afferma che una proposizione dotata di senso è una raffigurazione di un fatto in virtù della sua struttura logica. Qual è il ruolo della logica nel Tractatus? Sembra paradossale sostenere che una verità logica sia senza senso, perché “se P allora Q” è una verità logica che sembra avere perfettamente senso. Ebbene, per comprendere, è necessario fare una distinzione: una cosa è una proposizione priva di senso, che è totalmente inservibile e da buttare via, altra cosa, invece, è una proposizione che non esprime una possibilità che sia o vera o falsa. Ora, una proposizione logica appartiene a quest’ultima classe. Non è qualcosa che possa essere vero o falso. Se qualcuno sottoponesse a prova sperimentale la proposizione citata prima, DIOGENE N. 22 Marzo 2011 I L DIOGENE N. 22 Marzo 2011 L’illusione ottica del vaso e dei due profili. Giochi di parole e di immagini I filosofi del passato avevano la presunzione di spiegare l’essenza delle cose usando, come strumenti, le parole. Ma queste, obietta Wittgenstein, non hanno senso in sé, non esprimono un significato univoco ma lo assumono in relazione all’uso che ne facciamo, soprattuto nella dimensione ordinaria, originaria e quotidiana del linguaggio. Le parole, quindi, formano “giochi linguistici” che è inutile spiegare, dato che possono essere capiti solo giocando lo stesso gioco, ossia partecipando in prima persona ai fenomeni di cui si tratta. Lo stesso discorso vale per l’immagine: quella qui sopra rappresenta un vaso centrale o due profili di teste contrapposte? Sia l’una che l’altra riposta sono vere e possibili, ma, si noti, non possono coesistere. Si vede il vaso oppure le due teste, alternativamente, e la scelta è sempre il frutto di una nostra libera decisione, in un certo senso dall’uso che vogliamo fare dell’immagine. Come esempio di immagine paradossale Wittgenstein propose la celebre illussione ottica dell’anatra-coniglio, qui sotto, già studiata dallo psicologo statunitense Joseph Jastrov, ma esistono innumerevoli immagini, architetture e persino oggetti tridimensionali egualmente paradossali, di cui le immagini in questa sezione offrono un esempio. L’illusione ottica dell’anatra e del coniglio. direi che questi ha semplicemente frainteso questa proposizione. Ho provato questa esperienza durante la guerra. Ero topografo nell’esercito per un reggimento d’artiglieria. Facevamo delle mappe di siti in campo aperto per mezzo di triangolazioni, di metodi trigonometrici. Era un lavoro molto faticoso; si doveva camminare attorno a questi immensi triangoli per registrare le osservazioni. Un giorno, durante l’inverno, il mio assistente e io ripetemmo più volte l’operazione e il triangolo risultava sempre avere 190 gradi, cioè più di due angoli retti. Allora gli dissi: “Come possiamo essere certi che non si tratti semplicemente di un triangolo eccezionale, un triangolo con 190 gradi? Insomma abbiamo solo avuto sfortuna”. Chiaramente si tratta della mancata comprensione di una verità matematica; allo stesso modo, quando si tenta di mettere alla prova sperimentalmente una proposizione logica, vuol dire che non la si è compresa. Egli pensava che la logica ci dia la struttura ultima del linguaggio, il linguaggio basilare e perciò il mondo, questa era la sua idea. Egli credeva che, partendo dal livello fondamentale con quella che egli chiamava la proposizione elementare, che può essere o vera o falsa senza altre possibilità, si potessero combinare queste proposizioni elementari in molti modi usando le connessioni logiche, così costruendo proposizioni sempre più complesse. In questa maniera tutto ciò che può essere detto risulterebbe da una combinazione di proposizioni elementari: tutto ciò che può essere detto e che abbia un senso, vale a dire che possa essere vero o falso. E la logica, pensava Wittgenstein, esibisce davvero la struttura di questo sistema linguistico. Egli riteneva che la logica, nella sua interezza, fosse realmente basata sui valori di verità, vale a dire pensava che la verità di ogni formula logica dipendesse interamente dalla verità delle proposizioni di base, le proposizioni elementari, e che queste mostrassero la struttura del mondo. La sua visione della logica era quindi in realtà assai differente da quella di Frege e di Russell, in quanto egli credeva che ciò che la logica tratta non siano le di- F I L O S O F O 69 I L F I L O S O F O “ Ogni affermazione vera in geometria per essere ritenuta valida deve essere evidente per mezzo dell’intuizione spaziale. Wittgenstein fece propria questa idea e la applicò alla logica. mostrazioni o i teoremi, ma semplicemente il fatto che certe determinate combinazioni, per la loro propria natura, siano verità logiche, certe altre contraddizioni, e tutto ciò che sta nel mezzo, siano proposizioni contingenti, vale a dire vere o false. Per Wittgenstein, quindi, la logica fornisce effettivamente la struttura del mondo. Ma le proposizioni della logica non sono proposizioni allo stesso modo delle proposizioni ordinarie, tutt’altro. Questa idea viene in effetti da Schopenhauer. Se si legge Il mondo come volontà e rappresentazione c’è un capitolo sulla geometria, che Wittgenstein ha letto, nel quale Schopenhauer dice che Euclide sbaglia nell’istituire la geometria come insieme di assiomi e teoremi, in quanto ogni affermazione vera in geometria per essere ritenuta valida deve essere evidente per mezzo dell’intuizione spaziale, e non richiede una dimostrazione. Wittgenstein fece propria questa idea e la applicò alla logica. Nel Tractatus incontriamo la nozione di “mistico”, che Wittgenstein definisce nel seguente modo: “Mistico è ciò che non può essere detto, ma che si mostra da sé”. Questa non è una formulazione usuale di mistico. Che cosa intende Wittgenstein con la sua definizione? Suppongo che ordinariamente il termine mistico si riferisca a colui che è direttamente in contatto con il mondo spirituale, o qualcosa del genere. Wittgenstein usa l’idea, la parola mistico in modo molto diverso. Per lui il mistico include tutto ciò che non può essere espresso nel linguaggio scientifico e fattuale. Quindi, e questo è un tratto pa70 radossale del Tractatus, le cose che si possono dire, affermare, si limitano alle affermazioni fattuali del tipo: questo tavolo è fatto di legno o di qualunque altra cosa; o alle affermazioni scientifiche, alle teorie e questo è tutto ciò che può realmente essere detto, tutto ciò che ha un senso letterale. Tutto il resto si divide in due categorie. Innanzitutto affermazioni senza senso prive di qualsiasi significato; e dall’altro il mistico, che include l’insieme del sistema filosofico del Tractatus, qualcosa che dunque, strettamente parlando, può solamente essere mostrato e che non può essere espresso in un linguaggio fattuale. Esso comprende anche l’etica, l’estetica e la religione: tutte queste cose appartengono alla medesima categoria del mistico. Il mistico è perciò quella parte di un indice che chiameremmo miscellanea: tutto ciò che non può essere classificato come scientifico o fattuale diviene parte del mistico, a condizione ovviamente che non sia privo di senso. Pertanto, il concetto di mistico in definitiva si potrebbe definire un concetto negativo: ciò che tutte queste cose hanno in comune è una caratteristica negativa, il non poter essere espresse nel linguaggio fattuale. Ma ovviamente le differenze fra le varie cose raccolte sotto l’etichetta di mistico sono enormi. Wittgenstein visse fra due mondi, la Vienna di Kraus e la Cambridge di Russell. A quale di questi mondi appartenne di più? Appartenne sempre a entrambi. Il tratto più significativo, almeno nei suoi saggi, che si può far risalire a Vienna, è l’ironia, il carattere epigrammatico dei suoi scritti, il distacco e la serietà sottostanti. Wittgenstein fu profondamente influenzato da Karl Kraus, ma anche da molti altri scrittori viennesi. La cosa però che più colpisce della sua eredità viennese è il disinteresse nell’afferrare pensieri precisi ed esprimere i pensieri individuali in modo convenzionale in un libro ordinario. Egli sentì sempre che i pensieri hanno una vita propria e affermò, molte volte, l’impossibilità di poterli esprimere attraverso un libro con un inizio e una fine. L’unica espressione veramente accurata dei suoi pensieri è un breve epigramma perfettamente escogitato e racchiuso in un paragrafo. Credeva, infatti, che essi avessero una specie di esistenza autonoma, che sarebbe stata stravolta se si fosse tentato di forzarli entro un capitolo di un libro. Questa è certamente l’eredità più cospicua che gli derivò dall’ambiente viennese. Per quanto riguarda l’Inghilterra, credo che l’influenza della filosofia sviluppatasi a Cambridge e quella di Russell fosse molto forte nel 1912, quando lavorò con lui per la prima volta. Non fu lui che lo avvicinò alla filosofia, allora aveva già letto Schopenhauer e altri autori. Wittgenstein però, sebbene non per lungo tempo, fu profondamente influenzato dall’atomismo della filosofia di Russell, molto simile a quello della sua prima filosofia. Ma fu proprio questo atomismo logico, caratteristico del periodo del Tractatus, a scomparire più decisamente nel suo pensiero più tardo. Ciò che conservò, invece, della filosofia inglese fu l’idea che si dovesse essere assolutamente accurati nell’analisi di una frase, accuratezza che, nell’ultima fase della sua filosofia, impiegò nella descrizione di un gioco linguistico. In questo senso, la Cambridge del filosofo e logico Moore ebbe su di lui un’influenza decisiva. Non perché la sua filosofia fosse simile a quella di Moore, ma nel senso che questa specie di totale onestà intellettuale, a mio parere, gli derivò dal suo lavoro in Inghilterra. K Tratto da: D. Pears, Linguaggio e mondo nel Tractatus di Wittgenstein, EMS Rai, 1989. DIOGENE N. 22 Marzo 2011 I L F I L O S O F O Illusione ottica in architetura, cortesia panoramio.com. Regole e paradossi Le regole sono comprensibili solo a partire dalla loro stessa applicazione, non in base a misteriosi processi mentali o a interpretazioni intellettualistiche. C he cosa significa, in cosa consiste, seguire correttamente una regola? “Ma come può una regola insegnarmi che cosa devo fare a questo punto?”, si chiede Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Egli ritiene che due siano i tipi di risposta che i filosofi hanno per lo più dato a questo interrogativo: secondo alcuni dobbiamo rispondere alla domanda riconoscendo che le conseguenze di una regola “esistono già, in un senso ideale di esistere, prima di essere tratte”, che le conseguenze sono contenute in una regola “come una collana di perle in una scatoletta, dobbiamo soltanto tirarla fuori”. Secondo questa prospettiva è come se la regola tracciasse “la linea della sua propria osservanza attraverso l’intero spazio”. Quando comprendi la regola, “la tua mente vola, per così dire, in avanti e compie tutti i passaggi prima che tu pervenga fisicamente a questo o quel punto”. Ora, Wittgenstein ritiene che queste siano solamente delle immagini che si travestono da spiegazioni e che non fanno che riproporre e moltiplicare, secondo quello che è il destino di ogni platonismo, la domanda a cui si illudevano di rispondere: chi, o che cosa, ci assicura che il punto a cui siamo fisicamente giunti sia proprio il punto a cui la regola è già da sempre idealmente giunta? Infatti, “l’assunzione di DIOGENE N. 22 Marzo 2011 una prefigurazione del passaggio non ci porta avanti, poiché non colma lo iato tra la prefigurazione e il passaggio reale”. È di fronte alle difficoltà appena evocate che nasce il secondo tipo di risposta. Una volta riconosciuto che la regola non anticipa né predetermina “in un modo singolarissimo” le sue applicazioni, si è infatti spinti ad affermare che tra essa e ciascuna delle sue applicazioni deve intervenire qualcosa o qualcuno. Eppure, ci sono conseguenze paradossali a cui conduce la supposizione che tra la regola e la sua applicazione debba sempre intervenire qualcosa come un’interpretazione. Se la regola deve essere sempre e comunque interpretata, se tra la regola e ogni sua applicazione c’è uno iato da colmare, allora è difficile evitare la conclusione che “qualunque cosa io faccia, può sempre essere resa compatibile con la regola mediante una qualche interpretazione”. Ma se qualunque cosa io faccia può essere messa d’accordo, mediante un’interpretazione, con la regola, essa potrà anche essere messa, tramite una diversa ma equivalente interpretazione, in contraddizione con la medesima regola: “A questo punto, però, non esistono più né concordanza né contraddizione”. Se il platonismo reifica e mitizza le regole, chi sostiene il ruolo dell’interpre- tazione le dissolve. Rispetto a questi due esiti, la mossa di Wittgenstein consiste nel sottolineare che è nell’uso che una regola è tale. Ciò significa, in primo luogo, che è seguendo una regola che ne impariamo il significato, e che capiamo una regola imparando a distinguere tra ciò che concorda con essa e ciò che la contraddice. Le conseguenze di questa mossa sono molte e di grande peso. Intanto, non si danno regole prima e al di fuori delle varie e differenti pratiche che chiamiamo “seguire una regola”, le quali, a loro volta, si intrecciano e connettono nel tessuto complesso e variopinto di una forma di vita. Inoltre, non è la regola che spiega e fonda una prassi, ma è nella prassi che la regola vale come tale: “Per stabilire una prassi non sono sufficienti le regole, ma abbiamo anche bisogno di esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa”. A un certo punto, la regola “è la cosa spiegata, non la cosa che spiega”. K Tratto da: L. Perissinotto, Le vie dell’interpretazione nella filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2002. K Luigi Perissinotto Insegna Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. 71 I L F I L O S O F O La vita come sfondo Prospettiva assurda, cortesia flickr.com. Alle radici di un dialogo possibile tra le culture: certezza, forme di vita, multuculturalismo a partire da Wittgenstein. E K Anna Boncompagni ???? 72 cco una delle affermazioni più significative eppure più difficili da decifrare di Wittgenstein: “Ciò che dobbiamo accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita”. La citazione viene dalla seconda parte delle Ricerche filosofiche, scritto, più volte rimaneggiato, corretto e pubblicato postumo nel 1953. L’indagine wittgensteiniana arriva alla forma di vita partendo dal linguaggio, tentando di dar conto del modo in cui le parole assumono significato e contribuiscono a dare forma al nostro vivere. Nel momento in cui per spiegare il linguaggio perde importanza la prospet- DIOGENE N. 22 Marzo 2011 I L tiva corrispondentista della verità, per la quale a ogni parola corrisponde un oggetto e la frase rispecchia una situazione del mondo reale, assume rilievo l’idea che il senso delle parole venga non tanto dagli oggetti ai quali corrispondono, quanto dall’uso che di tali parole facciamo nel parlare quotidiano. Così, il significato della mia espressione non lo andrò più a cercare nel mondo là fuori, ma all’interno del contesto comunicativo nel quale essa è inserita. Un contesto che non è fatto solo di altre parole, ma di un insieme di persone, azioni, movimenti, suoni, espressioni facciali, riferimenti culturali, ambienti, immagini, abitudini, credenze, attese. È a tutto questo che si riferisce l’espressione forma di vita, ed è tutto questo che (ci dice Wittgenstein) dobbiamo “accettare” come “dato”. Se tentiamo di analizzare il linguaggio, troviamo comportamenti sensati intrecciati tra loro, che contribuiscono essi stessi a costruire il significato dei termini, in modo tale che non potremmo mai progettare un’analisi nel senso tradizionale del termine, cioè una disamina dell’oggetto per scomposizione in elementi semplici. Ciò che è sensato Il dato del quale andiamo in cerca non può essere un elemento semplice, perché la scomposizione distrugge proprio il nostro oggetto d’indagine, ce lo toglie da sotto gli occhi. Ciò che è sensato non si può analizzare nei termini di elementi non sensati. Il nostro dato è costitutivamente articolato, complesso. Il dato quindi non è un piccolo mattoncino che, assemblato con tanti altri piccoli mattoncini, dà luogo a un edificio, l’edificio della conoscenza. Il dato non è un fondamento. Se troviamo quello che ci sembra il muro maestro della casa – ebbene, questo stesso muro maestro “si potrebbe quasi dire che è sorretto dall’intera casa”, scrive Wittgenstein in Della certezza. C’è uno slittamento semantico essenziale che va colto a questo punto: se è di un dato che andiamo in cerca, non lo troveremo, miticamente, in un fondamento, ma piuttosto, prosaicamente, in uno sfondo, nello sfondo che costituisce “l’intero brulichio delle azioni DIOGENE N. 22 Marzo 2011 F I L O S O F O “ Ogni espressione dipende normalmente da una serie di assunzioni di sfondo, delle quali non ci rendiamo nemmeno conto. umane”, per citare sempre Wittgenstein, contro il quale assumono significato le azioni, i concetti, i giudizi, le reazioni. Ogni espressione infatti, anche quella il cui significato sembra assolutamente letterale – un’affermazione come “il gatto è sul tappeto”, per fare un esempio utilizzato dal filosofo John Searle – dipende normalmente da una serie di assunzioni di sfondo, delle quali non ci rendiamo nemmeno conto, tanto sono profondamente installate nel nostro modo di vivere. Che fine farebbero infatti il gatto e il tappeto, se non tenessimo conto del fatto che diamo per scontato che ci sia la forza di gravità? In assenza di gravità, che significato potrebbero mai avere “sopra” e “sotto”? Il significato non è mai indipendente dallo sfondo, e ogni assunzione di sfondo dipende da innumerevoli altre, in un circuito che però non rimane sterilmente chiuso in se stesso: il circolo ermeneutico non è un mero esercizio d’interpretazione molteplice che si esaurisce nel linguaggio, perché il linguaggio stesso non è che uno strumento del nostro vivere, e in quanto strumento è nel vivere che trova gli appigli del suo funzionamento. Il linguaggio è essenzialmente deittico, si rivolge a qualche cosa che indichiamo, e questa sua natura deittica è comprensibile solo a partire dal contesto pragmatico-comunicativo nel quale la frase viene enunciata. Lo sfondo infatti non ha a che fare solamente con il know that, con il “come stanno le cose”, ma anche, in un modo difficilmente districabile dal primo significato, con il know how, con il saper fare le cose e con il conoscere come si eseguono, coerentemente con un dato contesto e date caratteristiche naturali e culturali, certe azioni. È sempre Searle a fornirci qualche indicazione ulteriore sullo sfondo, che definisce (in una delle tante formulazioni, solo in parte sovrapponibili, che si trovano nel suo lavoro) “un insieme di capacità mentali non rappresentazionali, che rendono possibile ogni rappresentazione”. Certezze e verità Lo sfondo, il background, afferma, consiste di due componenti: il background profondo, ovvero le capacità comuni a tutti gli esseri umani, come il camminare, il percepire e “l’atteggiamento preintenzionale che tiene conto della solidità delle cose e dell’esistenza indipendente degli oggetti e delle altre persone” (si noti la complessità filosofica nascosta dietro queste parole); e un background locale, corrispondente a pratiche culturali, come ad esempio il saper aprire porte o bere dalle bottiglie, non necessariamente proprie di ogni individuo in ogni tempo e luogo. È interessante notare che questa distinzione si ritrova, anche se il collegamento non è mai esplicito, nella letteratura secondaria sul tema della forma di vita di Wittgenstein. Uno degli assi del dibattito riguarda infatti proprio la natura singolare o plurale della forma di vita; ci si chiede, in altre parole, se Wittgenstein parlando di forma di vita intenda riferirsi alle caratteristiche che accomunano tutti gli esseri umani (background profondo), oppure alle caratteristiche delle singole culture (background locale). Un secondo asse del dibattito è se la forma di vita abbia natura empirica oppure trascendentale, se cioè le caratteristiche del nostro modo di vivere siano osservabili e descrivibili attraverso un 73 I L F I L O S O F O linguaggio, per così dire, neutro rispetto a esse, o se piuttosto non costituiscano esse stesse le categorie interpretative attraverso le quali ogni sguardo sul mondo e sulla nostra stessa natura deve passare. Se noi proviamo a far lavorare insieme questi due assi del dibattito – la natura singolare o plurale della forma di vita, e la sua natura empirica o trascendentale – troviamo una griglia di quattro possibili situazioni, che possiamo guardare un po’ più da vicino. La forma di vita è una e trascendentale: l’uomo in quanto tale ha determinate caratteristiche, che costituiscono la lente attraverso la quale si rapporta al mondo, a se stesso e agli altri. Il linguaggio stesso ne è parte integrante. Non è possibile dar conto della forma di vita, in quanto per poterlo fare ci si dovrebbe situare fuori da essa, il che non ha senso. La forma di vita è plurale e trascendentale: ogni cultura è a se stante. Ognuna ha il proprio metro di giudizio e non è possibile alcun dialogo neutrale tra di esse, perché ogni cultura è in grado di vedere le altre solo a partire dal proprio linguaggio. Questo significa, a un estremo, relativismo più assoluto (perché io riconosco che non potrò mai giudicarti, e nemmeno percepirti per quello che sei) e all’altro estremo antirelativismo assolutista (proprio perché comunque non potrò mai rapportarmi a te in modo neutrale, sono legittimato a ritenere che soltanto io, nel mio quadro di riferimento, ho ragione). La forma di vita è una ed empirica: tutti gli esseri umani condividono alcune caratteristiche di fondo, in parte probabilmente innate in parte acquisite; appartenendo alla medesima specie, hanno fondamentalmente lo stesso tipo di percezioni, si muovono e utilizzano il corpo in una data maniera, sono dotati di linguaggio, vivono in forma associata, tendono a rispondere a determinati stimoli nello stesso modo; la cultura stessa fa parte della natura umana. Nel mondo esistono poi forme di vita animali ma non umane, con le quali l’uomo si confronta pur non condividendone la natura. La forma di vita è plurale ed empirica: su molteplici scale, ogni aggregato umano, dal piccolo gruppo alla cultura di un popolo o di 74 un’area del globo, costituisce una forma di vita caratterizzata dalla presenza di prassi e conoscenze condivise, che vanno dalle semplici abitudini comportamentali (il modo in cui si dice sì con il corpo, per esempio) alle forme culturali più alte e complesse. Ogni cultura è passibile di descrizione empirica attraverso l’osservazione antropologica. Naturalmente questo è solo uno schema e in quanto tale ha il difetto della… schematicità. Le diverse concezioni della forma di vita non necessariamente si escludono a vicenda. Forme di vita Negli scritti di Wittgenstein, fra l’altro, per quanto l’espressione “forma di vita” compaia solo poche volte, non ne troviamo una caratterizzazione precisa; piuttosto, prendendo in esame non solo le Ricerche filosofiche ma anche gli scritti precedenti e successivi, dalle Note sul Ramo d’oro di Frazer a Della certezza, si può identificare un progressivo spostamento da una caratterizzazione di tipo empirico e plurale a una riflessione che si avvicina di più, negli ultimi anni, a certe forme di trascendentalismo che ricordano il Tractatus logico-philosoficus,la prima opera del filosofo. A prescindere da ogni intento filologico o esegetico, quello che sembra interessante sottolineare è che il privilegio che Wittgenstein stesso accorda a un metodo di tipo osservativo ci può legittimare ad assumere un atteggiamento antropologico verso la forma di vita. Un atteggiamento nel quale diverse culture, riconoscendo di essere tutte, per l’appunto, cultura, siano in grado di confrontarsi, dialogare e migliorarsi nell’ottica di un interesse superiore. Naturalmente la possibilità effettiva di un simile dialogo non va data per scontata, e in questa chiave l’indice migliore per capire se una cultura è in grado di confrontarsi veramente con un’altra è dato dalla capacità di quella stessa cultura di giudicare, criticare e correggere se stessa. Perché ciò sia possibile, ci suggerisce la filosofa Naomi Scheman, che prende in considerazione la società occidentale odierna, è essenziale che all’interno della forma di vita esistano e siano legittimate a parlare alcune posizioni di “marginalità privilegiata” che, collocandosi al limite della forma di vita, ne facciano parte ma allo stesso tempo non si sentano completamente “a casa”. Proprio il disagio, la critica, l’allargamento di prospettiva che le marginalità privilegiate (la comunità gay, la comunità nera, la cultura ebraica, i rom e così via) consentono, danno l’indice dello stato di salute e della capacità di dialogo di una cultura. In questo senso, oltretutto, la filosofia stessa può ritrovare una propria dimensione nella ricerca di tipo critico, anche orientata storicamente, volta a delineare i caratteri propri del modo di vivere di determinate epoche e culture, e il modo in cui le prassi vitali hanno dato luogo, nel tempo, a linguaggi, ideologie, sovrastrutture. Con l’intento di riuscire a vedere quel dato di sfondo che, per ritornare alla citazione iniziale di Wittgenstein, è ciò che dobbiamo “accettare”; dove l’idea dell’accettazione non ha a che fare con una forma di assenso a prescindere, ma col rispetto, la critica e il confronto. K A P P R O F O N D I R E K F. Cimatti, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. K G. Frongia, Wittgenstein e la diversità degli animali, in R. Egidi (a cura di), Wittgenstein e il Novecento, Donzelli, Roma, 1996. K A. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino, 1975. K N. Garver, This complicated form of life. Essays on Wittgenstein, Open Court, Londra, 1994. K N. Scheman, Forms of life: Mapping the rough ground, in H. Sluga e D. G. Stern (a cura di), The Camdridge companion to Wittgenstein, Cambridge University Press, Cambridge, 1996. K J. Searle, Intentionality, Cambridge University Press, Cambridge, 1983. K L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1999. K L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino, 1999. DIOGENE N. 22 Marzo 2011 Prospettiva assurda, cortesia flickr.com. Oltre la comprensione La filosofia è forse una raffinata risposta a quella particolare forma di autismo di cui sembrano soffrire i filosofi, spesso come estraniati dal mondo? A K Andy Martin Insegna Filosofia alla Cambridge University. DIOGENE N. 22 Marzo 2011 vrei dovuto pensarci due volte prima di pranzare con uno psicologo: “Sei decisamente autistico”, mi ha detto, “Cosa?!”, “Proprio così, lo si capisce anche dal tuo stupore, come volevasi dimostrare”. La sua provocazione ironica consisteva nel fatto che se non avessi accettato la sua descrizione, allora avrei manifestato tendenze autistiche. Una particolare conversazione intercorse fra Ludwig Wittgenstein, durante un suo esame, e i filosofi Bertrand Rus- sel e G. E. Moore, a Cambridge nel 1929. Wittgenstein stava presentando il suo Tractatus Logico-Philosophicus, saggio già famoso scritto nel 1921 come tesi di dottorato. Russel e Moore stavano obiettando che non comprendevano un passo del libro quando vennero bruscamente interrotti da un Wittgenstein decisamente irritabile: “Non mi aspetto che lo capiate!”. Ho sempre pensato che la risposta del filosofo fosse altezzosa, che mostrasse troppa sicumera e mancanza di rispetto. Ma, se l’autismo può essere definito 75 I L F I L O S O F O come incapacità di comprendere gli altri, è allora plausibile che Wittgenstein stia qui facendo un’affermazione filosofica, piuttosto che stigmatizzare i limiti dei suoi interlocutori. Si potrebbe parafrasare quanto da lui enunciato in questo modo: “Grazie, signori, per aver sollevato il problema della comprensione. Il fatto è che, in generale, non mi aspetto che le persone capiscano quanto ho scritto. E non perché abbia scritto qualcosa di criptico, o ellittico, o di difficile interpretazione, ma perché non ci è mai dato, come soggetti, di capire pienamente quanto altri dicono o scrivono. E questa è la ragione per cui non mi aspetto che comprendiate il problema dell’incomprensione”. Il problema dell’incomprensione Se Wittgenstein stava facendo una simile affermazione, allora ciò offrirebbe una prospettiva illuminante da cui leggere il Tractatus, dove andrebbe ripensata l’insistenza sulla “proposizioni che non dicono nulla”, solitamente interpretata come la questione del “mistico”: “Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico”. Piuttosto che segnare una cesura netta fra due tipi di proposizione, da una parte quelle ben formate e intelligibili (la scienza), dall’altra quelle vaghe, dubbie e mistiche (etica ed estetica), dovremmo ammettere che, dato il modo in cui gli uomini interagiscono, c’è sempre, almeno potenzialmente, un mistero celato fin nelle proposizioni più elementari. È difficile immaginare di poter riuscire a eliminare completamente ogni residuo di oscurità, la possibilità dell’incomprensione che si annida sempre in ogni affermazione. A volte Wittgenstein ritiene di aver risolto il problema, altre no, “la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso”, scrive nel Tractatus. E come dovremmo interpretare le dense, elegiache e forse incomprensibili ultime righe di questo testo, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”? Forse Wittgenstein sta qui suggerendo: “Sono autistico” o, per dirla in altri termini, l’autismo non è un’anomalia esotica ma una costante dell’essere umano. Probabilmente sto fraintendendo il testo: se l’ho compreso correttamente, devo necessariamente fraintenderlo. Comunque, Wittgenstein è stato frequentemente definito autistico. La psichiatra Sula Wolff, ad esempio, in Loners, the life path of unusual children, analizza il filosofo come un caso da manuale della sindrome di Asperger, una variante dell’autismo, una delle sue forme meno gravi ed evidenti ma che ciò nonostante comporta l’inabilità nel gestire le relazioni sociali. Wittgenstein ammette di avere difficoltà nel comprendere il significato delle altrui espressioni o azioni; in un appunto scrive: “Tendiamo a percepire la lingua cinese come un gorgoglio inarticolato. Chi conosce il cinese invece riconosce in quei suoni il linguaggio. Nello stesso modo, spesso non riesco a riconoscere l’umanità di un altro essere umano”. Il che potrebbe anche spiegare il passo delle Ricerche filosofiche in cui sostiene che, se anche un leone potesse parlare, noi non lo capiremmo. Filosofi autistici Wittgenstein non è il solo, anche un altro filosofo, Russell, è stato definito autistico. È ipotizzabile che Wittgenstein, quando gli dice di non aspettarsi che questi lo comprenda, intendesse dire: “Sei autistico!”. O, se avesse avuto una macchina del tempo, avrebbe potuto dire: “Se devo credere a quanto sostengono Wolff e altri psichiatri, noi due siamo autistici. Forse lo sono tutti i Prospettiva assurda, cortesia flickr.com. 76 DIOGENE N. 22 Marzo 2011 I L filosofi; è la ragione per cui finiamo a studiare filosofia”. Non intendo affermare che tutti i filosofi siano autistici nel senso clinico del termine. Ma prendiamo una famosa sentenza di Sartre: “L’inferno sono gli altri”. L’autismo, con la sua intrinseca povertà di contatti affettivi, non potrebbe spiegare queste parole? La paura dei volti e dello “sguardo dell’altro” analizzati da Sartre ne sono sintomi classici. Sartre riconosce questo fenomeno in se stesso e in altri: definisce esplicitamente Flaubert come “autistico” nel suo grandioso studio sullo scrittore, L’idiota di famiglia, e afferma pure “Flaubert sono io”. La tesi di Sartre, secondo cui Flaubert cresce autistico e tutto ciò che scrive, cercando ad esempio di immedesimarsi nella personalità di Madame Bovary, sia una forma di compensazione, potrebbe essere facilmente applicata al filosofo stesso. Un’implicazione degli studi sull’autismo potrebbe suonare pressappoco così: tu, filosofo, sei incline alla filosofia proprio perché non afferri ciò che gli altri ti dicono. Tu, come Wittgenstein, sei abituato ad ascoltare o leggere proposizioni, ma le percepisci come prive di significato, o come se fossero pronunciate o scritte in cinese. In altre parole, la filosofia sarebbe la tendenza a interpretare le altrui proposizioni come fossero puzzle di difficile comprensione. Un buon meccanico Forse è in questo senso che Wittgenstein sostiene che per essere un buon filosofo dovresti diventare un buon meccanico d’auto (mansione che egli effettivamente svolse durante la Prima guerra mondiale). La riparazione delle macchine funge qui da metafora del linguaggio: sappiamo d’altronde che Wittgenstein elaborò la sua prima teoria a riguardo mentre si trovava a Parigi studiando i referti giudiziari di un incidente automobilistico. Le radici della teoria della rappresentazione (i modelli usati in tribunale per raffigurare l’evento) e della definizione ostensiva (tutte quelle frecce ed etichette) sono già tutte qui. Ma al centro dell’episodio c’erano due macchine e una collisione. Forse il linguaggio po- DIOGENE N. 22 Marzo 2011 trebbe essere visto come un’automobile, realizzata per condurti da A a B, portando un certo carico di informazioni, ma passibile di rimanere bloccata, o di incepparsi, o di subire un incidente, dovendo di conseguenza essere riparata. Una simile concezione meccanica del linguaggio è affine alla logica autistica, che capisce i sistemi molto meglio delle persone. Gli autistici non sono empatici, sono invece estremamente sensibili all’ordine e alle categorizzazioni sistemiche, come la matematica. Il punto a cui voglio arrivare è che la maggioranza dei meccanici è composta da uomini piuttosto che donne. Solitamente gli autistici sono maschi: il rapporto rispetto alle femmine è di 4 a 1 (di 10 a 1 nella sindrome di Asperger). Lo psichiatra che diede il nome a quest’ultima sindrome scrisse che la mente autistica è “una variante estrema dell’intelligenza maschile”. Comprendere non è tutto In maggioranza i filosofi sono maschi: persino sul blog filosofico del “New York Times” sul quale scrivo il rapporto è di 4 a 1. Uno psicologo potrebbe dire: “la filosofia riguarda la creazione di sistemi di pensiero tramite una logica dura e fredda, mentre l’empatia cerca paradisi più umani e meno meccanici”. Prendiamo la questione da un altro verso: Platone, in La repubblica, scrive che le donne sono portate alla filosofia esattamente come gli uomini, e ciò le qualifica a divenire le governanti della città ideale. Pare che fra i protofilosofi presocratici ci fossero donne, ma si esprimevano per lo più con stile oracolare e per enigmi. La filosofia, da Aristotele in poi, si è prefissata di abolire gli enigmi anche se questi, oggi come oggi, sembra stiano tornando di moda. Davvero devo mirare a una comprensione totale e completamente trasparente? Il rivendicare di capirmi così bene ed esaustivamente non è forse una forma di egemonia, di rapporto di potere asimmetrico? Simone de Beauvoir, quando scrisse “donna non si nasce, si diventa”, stava esercitando il suo diritto a una certa dose di autismo: l’essere femminile non è completamente conoscibile né, quindi, dominabile. Signifi- F I L O S O F O cativamente, l’epigrafe del suo primo romanzo riporta una citazione di Hegel: “Ogni coscienza cerca la morte dell’altra”. Quando la filosofa femminista Luce Irigaray intitola un saggio Questo sesso che non è un sesso, ci sta chiedendo di non dare per scontata la nostra comprensione della differenza sessuale. Lo studio della psicopatologia, con i mezzi della neurologia cognitivista, ci suggerisce una storia ipotetica: perché abbiamo sviluppato il linguaggio? Questo è nato in risposta al fraintendimento. Il linguaggio corporeo, i gesti, gli ammiccamenti non sono abbastanza: non siamo telepati e non ci capiamo. Abbiamo bisogno di suoni e segni scritti, di atti locutori, della parola e del linguaggio. Se mi dici ciò che vuoi, farò lo stesso con te. Il linguaggio è un sistema nato per compensare un deficit di empatia. Ma con o senza il linguaggio, posso pur sempre mostrare tratti autistici, ad esempio fraintendendo i segni. Forse sarebbe più corretto dire che l’autismo può essere identificato solamente se c’è l’aspettativa di comprendersi. Ma se l’autismo è un problema, da un certo punto di vista è anche una soluzione, in quanto è l’affermazione che la comprensione stessa è spesso sopravvalutata. Si tratta di un problema illustrato da Wittgenstein nell’introduzione al Tractatus, dove scrive: “La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e irreversibile. Io ritengo, dunque, di aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti”. Il che spiega anche perché, alla fine del libro, suggerisca che chiunque sia salito sulla sua scala filosofica dovrebbe, subito dopo, gettarla via. Tratto da: A. Martin, Beyond understanding, in “New York Times”, 21 Novembre 2010. Traduzione di Cesare Del Frate. 77 Prospettiva assurda, cortesia ytmnd.com. Guarire il linguaggio Se la metafisica complica il pensiero con falsi problemi e concetti ambigui, allora la terapia filosofica dovrà riportare la chiarezza. I K G.H. von Wright Filosofo finlandese, è stato allievo di Wittgenstein. 78 n un clima sociale di bigottismo e ipocrisia, anche la lingua tende a corrompersi. Vi si infiltrano eufemismi. Le cose non vengono più chiamate direttamente e semplicemente con i loro nomi, ma sono mascherate da evasive circonlocuzioni, e a esse ci si riferisce con un’artificiosa terminologia tecnica. Lo stile diventa oscuro, il significato si fa sfuggente. Nella società moderna questa distorsione del linguaggio ha assunto proporzioni grottesche con il gergo della pubblica amministrazione e dei media. Fu forse nell’Austria degli ultimi Asburgo che iniziò a dilagare questa malattia dei tempi, oggi universale. Combatterla fu il compito che si assunse la generazione dei cosiddetti purificatori, alla quale Wittgenstein appartiene. Secondo Wittgenstein, i problemi filosofici sono dovuti a confusioni linguistiche, a ciò che egli chiamò l’incantamento del nostro pensiero a opera del linguaggio. Queste difficoltà non sono domande in cerca di risposta, ma “bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del nostro linguaggio”, come af- DIOGENE N. 22 Marzo 2011 I L ferma in Ricerche filosofiche. Una delle cause principali di questi bernoccoli è che “non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole”. Non riusciamo cioè a cogliere la “rappresentazione perspicua” che ci rivela l’uso non distorto del linguaggio, riportando le parole indietro, da ciò che Wittgenstein chiama “il loro impiego metafisico” al “loro impiego quotidiano”. La chiarezza data dalla rappresentazione perspicua è assoluta, fa sparire completamente i problemi filosofici. La filosofia che si attiene a tale criterio è strettamente descrittiva. Essa non spiega nulla, per esempio come sia possibile che i segni significhino, né risponde a domande sull’essenza, per esempio su cosa siano il pensiero, la verità o la necessità logica. Essa mette da parte gli interrogativi del tipo “Come è possibile?” e “Cos’è?” per dirigere la nostra attenzione sul ruolo che le parole problematiche hanno nella comunicazione reale. In questo senso, si può dire che “il lavoro del filosofo consiste nel mettere insieme ricordi, per uno scopo determinato”. Nessuna risposta Una filosofia che non cerca risposte a domande, non spiega le questioni che richiamano l’interesse del filosofo (né teorizza su di esse) e non tenta di fornire fondamenti alle nostre credenze non è una filosofia per la quale il pensiero scientifico possa fornire un modello. Al contrario, essa lotta contro le infiltrazioni di tale pensiero e lo ritiene responsabile delle confusioni di cui il filosofo tenta di liberarsi. Non è ostile, non è necessario lo sia, alla scienza in quanto tale. Piuttosto, assume un atteggiamento critico, persino ostile, per quanto riguarda l’influenza della scienza al di fuori del suo dominio, in particolare sul pensiero filosofico. In questo, essa si oppone a una delle correnti intellettuali maggioritarie della modernità. Il discorso di Wittgenstein sulla filosofia mi fa venire in mente questa immagine: nel grande giardino del linguaggio, vi sono appezzamenti di terreno curati, frequentati da esseri umani che giocano giochi linguistici non corrotti. Ma questo giardino è anche parzialmente rico- DIOGENE N. 22 Marzo 2011 F I L O S O F O “ La metafisica contro la quale Wittgenstein lotta non è radicata nella teologia, ma nella scienza. perto da erbacce metafisiche che nascondono alla vista gli appezzamenti, rendendo indistinti i loro confini, e dunque confondono coloro che giocano con il linguaggio. Il bravo filosofo sarebbe un giardiniere che, estirpando le erbacce, riporta alla luce nella loro purezza gli appezzamenti di terreno linguistico e fa dunque in modo che la comunicazione non venga impedita dalle confusioni metafisiche. Per i positivisti le questioni sono metafisiche quando non possono essere risolte con gli strumenti della scienza o con una deduzione logica che si fondi su premesse accettabili scientificamente. Com’è ampiamente testimoniato dai documenti del periodo del massimo splendore positivistico, i campioni della “nuova filosofia” consideravano la metafisica come risultato e residuo delle credenze religiose di una società premoderna, come mascheramento razionalizzante di atteggiamenti fortemente irrazionali. La filosofia era la forza che aveva aiutato le forze reazionarie a bloccare e ritardare il progresso dell’uomo emancipato, razionale e secolarizzato. I limiti della scienza La lotta di Wittgenstein contro la metafisica fu qualcosa di molto diverso. Per uso metafisico del linguaggio egli intendeva quell’“andare a ruota libera” che si verifica quando le parole vengono distaccate dal loro uso corrente e sono usate per costruire, nell’isolamento linguistico della mente del filosofo, dei “castelli di carte”. Nei secoli passati della storia europea la riflessione dei metafisici era in larga misura alimentata dai rituali linguistici di una cultura religiosa. Si trattava di una cultura in cui i giochi linguistici con parole come Dio, peccato, grazia, giudizio universale e redenzione avevano un uso quotidiano stabilito. In modo analogo, il pensiero che Wittgenstein chiama metafisico è caratterizzato dai modelli linguistici e dagli abiti mentali di una società prevalentemente scientifica. La metafisica contro la quale Wittgenstein lotta non è dunque radicata nella teologia, ma nella scienza. Egli combatte l’influsso ottenebrante che sul pensiero hanno non i relitti di una cultura morta, ma gli abiti di una viva. Di ciò Wittgenstein diede un chiaro avvertimento nel Libro blu, dove scriveva: “I filosofi hanno sempre davanti agli occhi il metodo della scienza, e hanno l’irresistibile tentazione di rispondere alle domande nello stesso modo in cui fa la scienza. Questa tendenza è la reale fonte della metafisica, e porta il filosofo nell’oscurità completa”. E subito dopo forniva degli esempi: la bramosia di teorie generali, di contro a ciò che Wittgenstein definisce “l’atteggiamento di disprezzo per il caso particolare”, la tendenza a spiegare il concetto di numero, a ridurre l’infinito al finito, la matematica alla logica, il comportamento intenzionale al meccanismo corporeo. Gli esempi più volgari di questa tendenza mi pare siano dati dall’attuale filosofia della mente, per esempio nella forma dell’“identificazione” dei cosiddetti stati mentali con i processi cerebrali da parte dei fisicalisti o nel rifiuto da parte dei materialisti dei concetti psicologici del senso comune, il tutto a favore di una futura neuroscienza compiuta. Come vide Wittgenstein, è diffi79 I L F I L O S O F O cile che la filosofia possa perdersi inoltrandosi nella jungla della metafisica più di quanto non accada con le attuali manifestazioni di una cultura filosofica fattasi in verità scientista. Il filosofo viennese era anche acutamente consapevole che non stava continuando una tradizione. Ciò che egli faceva era tanto diverso da ciò che avevano fatto Leibniz o Spinoza quanto la vita nella nostra epoca differisce da quella dei loro tempi. Tuttavia vi sono ancora affinità tali, come scrisse lui stesso, da rendere la sua filosofia una legittima erede delle attività intellettuali del passato, che tradizionalmente sono conosciute con il nome di filosofia. Spero di aver chiarito in che senso i tentativi filosofici di Wittgenstein fossero una lotta contro l’atmosfera intellettuale predominante del nostro secolo, che chiamerei “modernità”. In origine A essa si affiancava un’euforica fiducia nel progresso ottenuto con l’impiego di procedure razionali nella gestione delle società democratiche industrializzate. I lutti delle due guerre mondiali e il fardello che l’uomo ha imposto alla natura, minacciando di distruggere la biosfera, hanno di molto affievolito questo ottimismo. Ma anche se l’umanità è sgomenta, in preda a una disposizione cupa, persino apocalittica, questo progresso distruttore continua. “È possibile che scienza e industria”, scrisse Wittgenstein poco prima di morire, finiscano per rivelarsi “le cose più durature” del mondo moderno. Ma aggiunse anche che non vi è nulla di assurdo nel credere che “l’era scientifica e tecnica sia l’inizio della fine dell’umanità” e che il genere umano, nel tentativo di guidare il proprio cammino verso il futuro affidandosi alla razionalità scientifica, “cada in una trappola”. K Tratto da: G. H. von Wright, Wittgenstein e il Novecento, in R. Egidi (a cura di), Wittgenstein e il Novecento, Donzelli, Roma, 1996. Prospettiva assurda, cortesia flickr.com. 80 DIOGENE N. 22 Marzo 2011