Interazione genica - Università degli Studi di Milano

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GLI OGM IN ALIMENTAZIONE ANIMALE E GARANZIE DI QUALITA’ E
SICUREZZA ALIMENTARE PER L’UOMO DEI PRODOTTI DERIVATI: STATO
DELL’ARTE.
Federica BELLAGAMBA, Franco VALFRE’, Vittorio M. MORETTI
(Dipartimento di Scienze e Tecnologie Veterinarie per la Sicurezza Alimentare della Università
degli studi di Milano)
L’introduzione sul mercato di alimenti geneticamente modificati (OGM) e di prodotti che ne
contengano tra gli ingredienti, ha suscitato non poche polemiche che hanno portato, nei vari Paesi,
ad adottare una serie di misure precauzionali volte essenzialmente a tutelare il consumatore,
garantendogli una più corretta informazione circa la presenza di OGM nell’alimento, sviluppando
parallelamente sistemi e metodologie di controllo sul prodotto (Regulation EC No. 1829/2003;
Directive 2001/18/EEC; Regulation, EC No. 258/97).
La sicurezza degli organismi vegetali geneticamente modificati (OGM) è ancora oggi argomento
ampiamente discusso, nonostante la coltivazione a scopo commerciale di queste nuove varianti sia
stata introdotta già da una decina di anni, a partire quindi dalla metà degli anni ’90. A tuttoggi si
stima che 45 milioni di ettari siano coltivati utilizzando queste nuove varianti genetiche (James,
2001), con prevalenza negli USA (72%), Argentina (17%) e Canada (10%). Le specie OGM
prevalentemente coltivate sono la soia (54%) e il mais (28%); il cotone e la canola sono presenti
con un valore percentuale intorno al 10%.
L’impiego di OGM continua a dividere opinione pubblica e mondo scientifico non solo su questioni
etiche, economiche e politiche, ma anche e oggi soprattutto, su questioni che riguardano la
sicurezza alimentare di questi prodotti sia per l’uomo che li consuma direttamente, che per le specie
zootecniche allevate, a cui vengono principalmente destinati tali prodotti. Il dibattito etico sulla
questione OGM verte sostanzialmente sul fatto che in definitiva i vantaggi di queste varianti
genetiche ricadevano nelle mani delle multinazionali che brevettavano il ‘costrutto genico’
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dell’OGM, nonché in quelle delle grosse aziende, spesso di proprietà delle stesse multinazionali,
che decidevano di coltivare tali specie. Tutti questo comporta una serie di ripercussioni pericolose e
sicuramente attese nell’ambiente per la distruzione della biodiversità, soprattutto in alcune realtà
agronomiche , nonché per l’introduzione ‘forzata’ di meccanismi di resistenza che potrebbero avere
un effetto boomerang sui naturali equilibri non solo degli organismi superiori, ma anche di quelli
procarioti.
Tutte queste valutazioni hanno portato a sviluppare nuove strategie, che potessero avere un impatto
meno drammatico soprattutto sull’opinione pubblica. Quindi se i primi OGM vegetali riguardavano
solo varietà più resistenti agli erbicidi (soia resistente al glifosate), agli attacchi degli insetti (mais
resistente alla piralide), oggi le nuove tecnologie e la sperimentazione (Kleter & Kuiper, 2002) si è
orientata verso la ‘costruzione’ di nuovi organismi nell’intento di migliorare le proprietà
nutrizionali del prodotto naturale, un esempio noto è il ‘golden rice’, modificato per produrre
provitamina A. Anche l’attività antiossidante di alcune molecole naturalmente presenti in alcuni
vegetali (isoflavoni, flavonoidi, isotiocianati) ha stimolato lo studio di varietà nuove che
concentrassero la presenza di tali sostanze.
L’altra grande questione abbiamo detto riguardare la sicurezza alimentare: come possiamo valutare
la sicurezza di questi alimenti nel food, quindi nel consumo diretto per l’uomo, e nel feed, inteso
come consumo per l’animale e indirettamente per l’uomo nel prodotto derivato?
Il primo approccio a questo tipo di valutazione si è risolto nel concetto di ‘substantial equivalence’,
che ha portato a tutta una serie di studi di comparazione di tipo agronomico, chimico, biochimico e
nutrizionale tra l’organismo modificato e quello tradizionale equivalente presente in natura.
L’applicazione del concetto di ‘substantial equivalent’ viene però definito lo ‘starting point’ per
stabilire la sicurezza di un OGM in quanto rappresenta l’iter per l’identificazione di potenziali
differenze tra organismo modificato e quello naturale equivalente; esso quindi non rappresenta di
per sè garanzia di sicurezza del nuovo prodotto. Infatti nella UE questa classe di prodotti vegetali
sostanzialmente equivalenti all’alimento tradizionale con il quale sono analiticamente comparati si
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riferisce per ora solo agli alimenti che non recano tracce di DNA e proteine (ad esempio: oli,
autolisati, ecc.) Ma sempre a livello comunitario e nella valutazione della sicurezza degli OGM
basata sul raffronto tra tradizionale ed OGM stesso non in toto
ma solo sulle differenze
eventualmente riscontrate, esistono altre due classi di prodotti valutati:
b. sufficientemente simili al tradizionale: quando un elemento – ad esempio una proteina espressa
dal gene inserito – sicuramente identificabile sia discordante rispetto al tradizionale;
c. non sufficientemente simile al tradizionale: allorché gli elementi sostanziali di differenziazione
siano più di uno o le modificazioni indotte siano molto marcate.
La questione quindi rimane aperta, ma soprattutto la questione ancora aperta e decisamente più
complessa riguarda lo stabilire le conseguenze che a livello molecolare, la manipolazione genetica
per l’introduzione di un nuovo ‘construtto genico’, può determinare non solo nell’organismo che
viene direttamente modificato, ma anche nell’organismo che introduce, che viene a contatto quindi
per via orizzontale con questo ‘nuovo’ DNA.
Interazione genica
Le conoscenze scientifiche della biologia molecolare hanno infatti fatto comprendere che
l’espressione genica, che conduce alla sintesi di una certa proteina è un meccanismo molto
complesso, che prevede l’interazione di più geni nel controllo della sua sintesi; l’introduzione di
DNA esogeno per costruire un OGM, comporta quindi anche l’introduzione di sequenze di DNA
per la regolazione della trascrizione della nuova proteina e sono proprio queste sequenze quelle più
imputabili di alterazione della normale espressione genica di un organismo complesso. Per esempio
oggi ci si chiede se il nuovo ‘costrutto genico’, introdotto in un organismo vegetale, sia anche in
grado di alterare l’espressione di micronutrienti o macronutrienti, così come di tossine o altri fattori
antinutrizionali (Kuiper et al., 2002).
Allergenicità
Le potenzialità allergeniche del cosiddetto Novel Food, suscitano grande timore e grande attenzione
nella valutazione della sicurezza di un organismo geneticamente modificato. Tale timore è oggi
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purtroppo supportato dal dato incontrovertibile che le allergie alimentari sono in serio aumento, con
sintomatologie sempre più severe e complesse (Wal, 1998). La strategia adottata (FAO/WHO,
2001) per la valutazione delle potenzialità allergeniche delle proteine introdotte in un OGM, è stata
recentemente riorganizzata proprio allo scopo di compiere valutazioni sempre più accurate che
tengano in considerazione lo studio della ‘nuova’ proteina nella sua struttura molecolare (sequenza
in aminoacidi) mettendola in realzione a quella di altri allergeni presenti in natura, delle sue
proprietà allergeniche sia in vivo che in vitro, ma anche dei possibili cambiamenti che l’espressione
di questa proteina potrebbe determinare su altri allergeni presenti naturalmente nell’organismo
definito ‘recipiente’ della nuova proteina (Kleter & Kuiper, 2002).
Trasferimento orizzontale di materiale genetico (Gene transfer)
Tra le questioni più controverse e dibattute riguardanti i rischi potenziali legati al consumo di OGM,
troviamo, senza dubbio, quella che discute l’ipotesi di un possibile trasferimento orizzontale del
DNA transgenico dopo che questo viene rilasciato nell’ambiente e si lega ai minerali del suolo o ai
polisaccaridi delle piante (Gallori et al., 1994; Steward & Carlson, 1986), o addirittura dopo la sua
introduzione diretta nell’uomo o nell’animale con l’alimento. Benché non siano disponibili, a
tuttoggi, evidenze scientifiche certe che inducano ad avvalorare tele ipotesi, bisogna altresì
ricordare che prove sperimentali, recentemente discusse in letteratura, hanno dimostrato che è
possibile rintracciare DNA di origine vegetale in tessuti di animali, facendo quindi supporre un
meccanismo orizzontale di integrazione di DNA esogeno.
Secondo quanto riportato in letteratura (Doerfler, 2000; Hohlweg & Doerfler, 2001) sono frequenti
le situazioni in cui DNA estraneo (trasformazione con virus oncogenici, generazione di organismi
transgenici) entra in contatto e va ad integrarsi al materiale genetico di cellule animali. Se questi
eventi rappresentano situazioni particolari, legate essenzialmente alle metodologie sperimentali
utilizzate nella biologia molecolare, esiste però anche una via, più naturale e frequente, di contatto
con DNA transgenico, a cui gli organismi superiori vengono esposti, rappresentata dal tratto gastrointestinale e mediata dall’alimento (Schubbert et al., 1994, 1997, 1998). Sebbene le occasioni di
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contatto con un organismo che ha ricevuto l’inserzione artificiale di un gene, se non addirittura di
un insieme di geni, non possano essere oggi scongiurate ed appaiano sempre più difficilmente
controllabili, non sono ancora molti i dati e le ricerche scientifiche volte a verificare quale sia il
destino del DNA estraneo ingerito con l’alimento, la sua stabilità e persistenza nel tratto gastrointestinale.
Bisogna comunque ricordare che gli organismi procarioti hanno sviluppato processi per
l’acquisizione e il riarrangiamento di materale genetico con cui entrano in contatto, che ha come
conseguenza una integrazione di nuove sequenze nucleotidiche nel DNA batterico. La resistenza ad
alcuni antibiotici sviluppata da molti batteri ha seguito questo meccanismo. La manipolazione
genetica per la costruzione di un OGM prevedeva l’introduzione, nel construtto transgenico, di un
gene per l’antibiotico resistenza (generalmente alla kanamicina e alla neomicina), con la funzione di
marcatore nella prima fase di trasformazione e selezione dell’organismo che si voleva modificare.
Sebbene diverse prove scientifiche abbiano scongiurato la responsabilità degli OGM sul
trasferimento dell’antibiotico resistenza, sostenendo anche che la kanamicina e neomicina, per la
loro tossicità non venivano più impiegati nelle terapie antibatteriche sull’uomo, disposizioni
legislative recenti vietano ufficialmente l’impiego dei geni per l’antibiotico resistenza a partire dal
2005 e già multinazionali come la Novartis Seed hanno dichiarato di aver sostituito questi marcatori
con altri sistemi, che hanno ovviamente brevettato (Gasson, 2000).
L’assorbimento di DNA di origine alimentare, nell’uomo, varia da 0.1 a 1 grammo al giorno
(Doerfler, 2000), ed include frammenti di geni diversi che derivano da DNA vegetale, animale e
batterico. Nella maggioranza dei casi il DNA estraneo, che vogliamo definire esogeno, sembra
essere inattivato e degradato già dalle nucleasi della saliva, quindi dal basso valore del pH dello
stomaco e ancora da altre endonucleasi dell’intestino tenue (Duggan et al., 2000). Tuttavia vi sono
evidenze scientifiche che confermano il passaggio di frammenti di DNA attraverso la barriera
intestinale, imputabile anche all’interazione tra il materiale genetico ed alcune proteine o sostanze
minerali che eserciterebbero una funzione protettiva nei confronti dei meccanismi di degradazione
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sopra descritti. Prove sperimentali condotte in animali di laboratorio (Schubbert et a., 1994) hanno
dimostrato che frammenti di DNA estraneo (DNA di batteriofago M13) somministrato con
l’alimento si ritrovano nel nucleo delle cellule dell’intestino tenue (cellule epiteliali, cellule della
sottomucosa, placche del Peyer). Sempre tali frammenti sarebbero in grado di superare non solo la
barriera gastrica, ma anche quella intestinale, ritrovandosi nei leucociti, nelle cellule della milza e
del fegato (Schubbert et al., 1997; Doerfler et al., 1997). Inoltre il ritrovamento di frammenti di
DNA esogeno è stato verificato anche nelle cellule di feti di topine alle cui madri era stato
somministrato, sempre con l’alimento, DNA di batteriofago M13, facendo supporre un
trasferimento per via trans-placentare, ma non lungo la linea germinale (Schubbert et al., 1998). In
alcuni casi il DNA estraneo veniva ad integrarsi con il genoma dell’animale, a volte portando con se
sequenze di E.coli, suggerendo che l’integrazione avvenisse prima nel genoma del batterio, presente
nella microflora intestinale, e successivamente in quello dell’animale (Doerfler et al., 1997;
Schubbert et al., 1997).
Le osservazioni riportate suggeriscono una via di approccio metodologico riguardo la possibilità di
identificare nelle cellule di alcuni organi di animali alimentati con OGM la presenza di materiale
genetico esogeno, proveniente verosimilmente da questi ultimi.
Risultati sperimentali recentemente pubblicati, condotti per stabilire il livello di degradazione di due
geni eterologhi presenti in varietà di soia e di mais, hanno confermato il passaggio di una quota del
DNA transgenico attraverso l’intestino rendendosi così disponibile ad essere incorporato dalle
cellule della microflora intestinale o dalle stesse cellule epiteliali dell’intestino tenue (Martín-Orúe
et al., 2002).
Alla luce delle evidenze scientifiche riscontrate in letteratura e precedentemente esposte circa la
possibilità che DNA estraneo introdotto con l’alimento possa, in un organismo superiore, bypassare la barriera gastro-intestinale, per andare addirittura ad integrarsi a cellule del sistema
immunitario (Schubbert et al., 1994; 1997), diventa legittimo chiedersi quale sia il destino del DNA
modificato delle varietà transgeniche, per esempio, in un animale alimentato con OGM, così come
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quale possa essere l’approccio metodologico per la sua rintracciabilità anche negli alimenti
d’origine animale. Sono già state descritte le evidenze scientifiche a sostegno di un possibile
trasferimento di frammenti leggeri di DNA estraneo, attraverso l’alimento, nelle cellule e tessuti dei
vertebrati. Ricerche recenti (Klotz & Einspanier, 1998; Einspanier et al., 2001; Klotz et al., 2002)
descrivono un approccio metodologico per il riconoscimento, mediante PCR, di frammenti di DNA
appartenenti a sequenze geniche di vegetali modificati, in campioni di sangue e in tessuti (fegato,
rene, milza, intestino, muscolo) prelevati da specie zootecniche (pollo, suino, bovino) alimentate
con prodotti transgenici.
Il problema legato alla presenza di OGM riguarda perciò non solo quegli alimenti che arrivano
‘manipolati’ sulle nostre tavole, bensì anche quegli alimenti di origine animale, che possono
derivare da animali che sono stati alimentati con materie prime modificate, per i quali la legge non
prevede una dichiarazione in etichetta.
Nel corso degli ultimi anni sono state messe a punto numerose metodiche analitiche sia qualitative
che quantitative, alcune delle quali divenute ufficiali per alcuni Paesi e per prodotti specifici, in
grado di indagare la presenza di DNA transgenico nell’alimento (Anklam et al., 2002). I metodi
d’indagine per identificare gli OGM, si sviluppano sostanzialmente su due fronti:
-
indagine diretta sul DNA per identificare l’intervento di manipolazione (PCR);
-
indagine sul prodotto (proteina) che viene codificato dal gene modificato (ELISA).
I limiti legati a queste metodiche non sono pochi per il fatto che la loro applicazione è condizionata
da:
-
presenza di DNA che possa essere estratto dalla matrice;
-
dichiarazione da parte della ditta produttrice del gene modificato o dei geni che funzionano da
elementi di controllo (geni promotori o terminatori) o da marcatori;
-
presenza di una nuova proteina codificata dal gene esogeno.
Ma cosa possiamo dire riguardo i prodotti derivati da animali alimentati con OGM?
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A questo proposito forse è bene ricordare che il mais e la soia, che costituiscono la base foraggiera
nell’allevamento di diverse specie d’interesse zootecnico, rappresentano i vegetali geneticamente
modificati più diffusi nel mondo e approvati dalla legge dei vari Paesi (Regulation 1139/98/EEC).
Vi è quindi un altro importante capitolo legato al cosiddetto Novel Food e riguarda la nutrizione
animale e gli OGM. Sostanzialmente nell’ambito di questa tematica sono due le domande che
interessano: la prima riguarda l’aspetto più zootecnico-nutrizionistico, cioè quali sono gli effetti
nutrizionali legati al consumo di OGM rispetto all’alimento “naturale”; la seconda, invece, riguarda
come sia possibile controllare nell’animale il percorso che il DNA transgenico segue una volta
ingerito con l’alimento.
Per quanto riguarda la prima questione sono già state eseguite numerose prove sperimentali, nelle
principali specie d’interesse zootecnico, che sostengono sostanzialmente l’assenza di differenze
significative sulle performance produttive dell’animale, in relazione all’impiego di materie prime
geneticamente modificate (Hammond et al., 1996; Brake & Vlachos, 1998; Flachowsky & Aulrich,
2001). Abbiamo visto invece come la seconda questione abbia un approccio metodologico
decisamente più complesso, ma che tuttavia non esclude la possibilità che elementi di DNA
eterologo possano essere identificati e caratterizzati. Per certo, lo sviluppo delle biotecnologie sta
contribuendo e contribuirà certamente nel prossimo futuro a mettere a disposizione tecniche
analitiche sempre più robuste e sensibili allo scopo di individuare tali elementi, che potranno
garantire il controllo di tutta le filiera.
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