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Narrare i gruppi. Prospettive cliniche e sociali. Anno III, Vol. I, Marzo 2008
gruppi nella clinica
Il sé (anche patologico) come l’effetto di una scena rappresentata: il contributo dell’attività teatrale al cambiamento
nella clinica dei disturbi alimentari
ELENA FACCIO, MARA OLOCCO
Riassunto
L’articolo propone una rassegna teorica ed uno studio esplorativo sul rapporto tra
attività teatrale e rappresentazioni di sé. 15 attori amatoriali e 15 ospiti di un centro
per disturbi alimentari sono stati intervistati a conclusione di un’esperienza teatrale
ispirata al metodo Stanislavskij. Mediante un’intervista semi-strutturata ed una griglia di repertorio modificata è stato indagato e confrontato tra i due gruppi il rapporto tra le rappresentazioni legate al personaggio portato in scena e quelle relative
al sé percepito ponendo particolare attenzione alla rilevanza della “dimensione clinica” nell’analisi dei resoconti.
Partendo dall’assunto (i cui riferimenti in letteratura vengono esplorati nella prima
parte dell’articolo) che realtà e identità siano processi che si rinnovano costantemente nell’interazione, si può pensare che ciascuno agisca e produca intenzionalmente sé stesso in forma situata, a seconda delle differenti interazioni e dei ruoli. La
“terapia del ruolo stabilito” di Kelly e lo “psicodramma” di Moreno sono esempi di
come la persona possa modificare se stessa e generare “versioni” inedite di sé secondo modalità orientate dal terapeuta. In tal senso anche la cosiddetta “patologia”
potrebbe essere letta come una tra le possibili rappresentazioni di sé, e in quanto
tale potrebbe modificarsi attraverso la proposta e l’esercizio di ruoli differenti.
L’attività teatrale intesa come esplorazione dei sé possibili rivela dunque enormi
potenzialità per i temi della clinica e del cambiamento.
Parole chiave: Ruolo; Identità; Teatro; Disturbi Alimentari.
gruppi nella clinica
The self (even when pathological) as the end product of a dramatic experience: the role of dramatisation in effecting change in the treatment of eating
disorders
Summary
This article proposes to illustrate some theories and to explore the relationship between dramatisation and self-representation. 15 amateur actors and 15 patients in a
centre for eating disorders were interviewed following dramatisations inspired by
the Stanislavski method. Using semi-structured interviews and modified repertory
grids, we compared and analysed the relationship between how individuals depicted
themselves on the stage and self-perceptions, concentrating specifically on the importance of the “clinical setting” in our analysis of the outcomes.
Starting with the conjecture (the first section of this article considers where such
references are to be found in existing account) that reality and identity are concepts that constantly change in the course of interactions, we can assume that everyone functions and intentionally self-characterise in established ways, depending
on the interaction and their role. Kelly’s “established role therapy” and Moreno’s
“psycho-drama” provide examples of how change can be effected, and how,
prompted by the therapist, exclusive “versions” of the self can be created. Thus
even so called “illnesses” could be seen as one of many self-representations, and as
such could be changed by suggesting and acting out different roles. Dramatisations
understood as possible self-explorations therefore represent enormous potential for
clinical issues and for bringing about change.
Key words: Role; Identity; Theater; Eating Disorders.
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Elena Faccio, Mara Olocco
Introduzione
Com’è noto, l’attività teatrale praticata in modo sistematico e finalizzato rappresenta
una tra le forme di terapia di gruppo più utilizzate ed efficaci, ed ha trovato spazi di
applicazione in svariati settori della clinica, quello dei disturbi alimentari in particolare. La letteratura disponibile sull’argomento è piuttosto limitata, e sembra focalizzarsi quasi esclusivamente sulla necessità di trovare dati per legittimare la teatro-terapia
a partire dalle evidenze empiriche di efficacia (la scomparsa dei sintomi1) adottando
criteri di “evidence” fedeli alla prospettiva del ricercatore clinico e funzionali alla sua
lettura diagnostica. Questo lavoro si propone, viceversa, di inquadrare il senso
dell’intervento clinico basato sull’assunzione di ruolo, rintracciandone la coerenza
rispetto ad un certo filone di teorie sull’identità e sulla costruzione di realtà, e dando
voce a chi ha fatto esperienza teatrale (sia in ambito clinico che amatoriale) per cogliere, da un punto di vista interno, i criteri del cambiamento percepito.
In particolare questo articolo propone:
1) un approfondimento teorico relativamente alle ragioni che fanno del teatro
una forma elettiva di intervento clinico per terapeuti operanti nell’ambito
del costruzionismo e dell’interazionismo, rintracciando negli scritti di alcuni
autori le premesse del modello “drammaturgico” di costruzione della realtà
e dell’identità
2) alcuni esempi di intervento clinico basati sull’assunzione di ruolo proposti
da Gorge Kelly (la “terapia del ruolo stabilito”) e da Jacob Moreno (lo
“psicodramma”)
3) i risultati di una ricerca finalizzata all’indagine delle potenzialità che
l’esperienza teatrale può attivare nel cambiamento delle autorappresentazioni.
1. Come le realtà diventa reale: dal costruttivismo al modello drammaturgico di Erving Goffman
L’esistenza di un nesso tra realtà ed interazione è un’idea relativamente recente. Lo
è anche l’analisi dei modi in cui la comunicazione crea ciò che chiamiamo “realtà”
(Berger e Luckman, 1966, Watzlawick, 1976, 1981, et al.). L’assunto che la realtà sia
oggettiva e che la comunicazione sia semplicemente un modo di rappresentarla ha
sollevato non poche controversie, molti degli autori che citeremo hanno dedicato la
loro intera produzione a smentire quest’idea. L’abbandono del concetto di conoscibilità e quindi di assolutezza del reale è denso di implicazioni per tutti i campi del
sapere. Se “l’oggettività” del mondo è solo apparente, è sbagliato supporre che
l’antropologo, il biologo, lo psicologo o il fisico scoprano la realtà o la riproducano
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Si vedano ad esempio i lavori di Frisch,-Maria-J; Franko,-Debra-L; Herzog,-David-B
(2006) e di Diamond-Raab,-Lisa; Orrell-Valente,-Joan-K (2002).
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nelle loro descrizioni e nelle loro formule; noi tutti in fondo creiamo, o almeno
strutturiamo e modifichiamo la realtà nei – e con i – nostri sforzi prescientifici di
descriverla e di spiegarla.
Ma quali implicazioni ha tutto ciò per il poeta, il romanziere, l’attore – per tutti i
praticanti quelle discipline che nascono già come consapevoli finzioni del reale? I processi costruttivi del “reale scenico”, riscattati dall’accusa di “brutta copia” del vero,
possono divenire riferimento per comprendere come nasca ciò che consideriamo
“realtà? Questo è il presupposto dal quale muovono sia la “terapia del ruolo stabilito” di Kelly che lo “psicodramma” di Moreno: esperienze forti di trasformazione di
sé basate sul gioco di ruolo.
Perché riferirsi tanto al ruolo, al personaggio rappresentato, al teatro? Goffman,
l’autore che più tra tutti si è dedicato a questa analisi, considera il teatro non tanto
come una metafora del quotidiano, quanto come un vero “spaccato” dei processi
costruttivi del reale. Ciò che accade a teatro non è solo un “esempio verosimile”, la
scena teatrale è reale nello stesso modo in cui lo è la vita. Dal teatro impariamo il
reale, e non viceversa. L’unica differenza degna di nota è che per la strada - contrariamente al palco - non vi è coscienza del processo innescato dalle proprie azioni,
intenzioni e immagini di realtà. “Gli uomini costruiscono ciò che vivono senza averne consapevolezza, mediante degli artifici, pensando la realtà come se fosse indipendente dal loro agire” (Berger e Luckman, ed. it. 1969, p. 40). Per Goffman lo
studio della vita quotidiana è il luogo privilegiato per l’analisi di come si costruisca la
realtà sociale, che non è legata al manifestarsi di identità pre-esistenti, ma che è
l’effetto prodotto e riprodotto nei vari balletti, dei rituali dell’interazione. “Il self non
esiste, non è un’entità nascosta dietro gli eventi, ma una formula mutevole per gestirci tra essi” (Goffman, 1969 p. XVII). Ogni identità è costruita localmente, in situazione; sono i frames, le cornici di contesto e le regole che li organizzano a definire il senso della soggettività degli individui che ne sono coinvolti. Il sé è l’immagine
che l’individuo cerca di far passare come propria, non ha dunque origine nella persona come soggetto, ma nel complesso della scena e delle sue azioni. Il sé attribuito
ad un personaggio è il prodotto di una scena rappresentata, non la sua causa. Non è
qualcosa di organico con una collocazione specifica, ma un effetto drammaturgico
che emerge dalla scena, dunque è nell’istituzione sociale che vanno ricercati i mezzi
per produrre e mantenere il sé.
In riferimento al concetto di sé, Goffman (1971, p. 288) propone una distinzione
tra il sé attore “fabbricante di impressioni”, che cerca di mettere in atto una rappresentazione, e il “sé” in quanto personaggio, “una figura le cui qualità devono essere
evocate dalla rappresentazione”.
“Un personaggio rappresentato in teatro non è per certi versi reale … ma mettere in
scena questo tipi di figura non corrispondente a realtà implica l’uso di tecniche reali,
quelle stesse che servono alle persone per sostenere la loro situazione sociale...quanti
sono impegnati in interazioni faccia a faccia sul palcoscenico di un teatro devono
ottemperare a esigenze di base delle situazioni reali: devono mantenere una definizione della situazione sul piano espressivo, ma questo avviene in circostanze tali da
facilitare lo sviluppo di una terminologia appropriata allo studio dei compiti di interazione che noi tutti condividiamo”. (Goffman, 1971, p. 289).
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Secondo questa prospettiva la vita sociale è riconducibile ad una rappresentazione
in cui gli attori recitano su diversi palcoscenici, agendo alternativamente sulla ribalta
o nel retroscena, dando una loro versione di personaggi formalizzati e codificati. I
comportamenti da retroscena non sono tuttavia più "naturali" né più "reali".
Anch’essi possono essere ricondotti al ruolo atteso (lo è anche l'informalità del
comportamento) e recitato a beneficio dei "compagni di squadra". Nel modello di
Goffman, peraltro, viene rifiutato il parallelismo tra "recitare" e "fingere": la verità
sociale, al contrario, è un concetto sfuggente, che “dipende dalla situazione" per cui
non è il fatto di essere coinvolto in una rappresentazione a distinguere chi è sincero
da chi non lo è, quanto piuttosto l'atteggiamento, il sentimento di identificazione
che un soggetto nutre verso il proprio ruolo. Nel saggio Role Distance (In: Espressione e identità Gioco, ruoli, teatralità. Il Mulino, 1979) l’irriverente sociologo ritiene sia
possibile distanziarsi dall’immagine proiettata in un ruolo solo perché abbiamo a
disposizione altri ruoli, più adatti ad ospitare l’immagine con cui vorremmo il nostro pubblico ci ricordasse. Anche quando l’attore scende dal palco per concedere
l’autografo al suo pubblico sta recitando il ruolo di non averne uno.
Nella prospettiva drammaturgica gli individui non eseguono semplicemente il copione, ne sono anche i registi, quindi Goffman considera “rappresentazioni” tutte
quelle attività individuali che servono ad influenzare il “pubblico” durante un incontro. Goffman ritiene che queste rappresentazioni siano governate da regole che
indicano il comportamento più appropriato da tenere. In sintesi ciascuno si sceglie
il personaggio più adatto alla scena e alle regole di contesto, non il più autentico o
aderente al sé (che in quanto tale, come abbiamo visto, non esiste). Si deve partire
dal presupposto che l’oggetto di studio dell’interazione non sia tanto l’individuo e la
sua psicologia, quanto piuttosto le relazioni sintattiche fra le azioni di persone che
vengono a trovarsi a contatto diretto. La prospettiva teorica di Goffman si pone a
metà strada tra quella strutturale, che intende i ruoli e le impalcature sociali come
unità di analisi cui l’individuo si adegua durante la socializzazione, di cui interiorizza
le norme e si conferma nelle aspettative, e quella dell’interazionismo simbolico che
considera come unità di analisi gli individui e i gruppi sociali e la produzione dei significati che li riguardano.
Per approfondire il concetto di ruolo lo studioso afferma che “l’individuo tenderà a
costruire il suo ruolo nel corso dell’interazione modificandolo di continuo sulla base
delle inferenze del ruolo degli altri”(Goffman, 1971, p. 20). All’interno della pratica
teatrale l’attore costruisce il personaggio sulla base di alcune caratteristiche che gli
vengono fornite dal testo di riferimento e dal contesto nel quale è inserito, tali caratteristiche però potranno subire dei cambiamenti e rimodellarsi sulla base
dell’interazione con gli altri personaggi e col pubblico. In questo senso il personaggio racchiuderà in sé tutti i livelli di realtà e cercherà le strategie volte a conservare
la definizione di realtà che possa essere condivisa con i suoi compagni e con il pubblico.
1.2. Quando la finzione diventa realtà: il metodo Stanislavskij
Quasi contemporaneamente a Goffman, Kostantin Stanislavskij si dedica allo studio dei processi di costruzione della realtà sul palcoscenico. Da una prospettiva di-
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versa, quella del regista impegnato nella formazione dei propri allievi-attori, egli sviluppa una serie di teorizzazioni e di indicazioni operative circa le modalità di “animazione” del personaggio. Nel testo ”Il lavoro dell'attore su se stesso” (1936) il regista russo scrive sotto forma di diario di un immaginario attore le premesse per un
metodo che consenta di rendere viva la scena rappresentata. Due sono, per Stanislavskij, i grandi processi coinvolti nell’interpretazione: la personificazione e la riviviscenza. Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare per proseguire con lo sviluppo dell’espressività fisica, dell’impostazione della voce, della
logica e coerenza delle azioni fisiche. Il processo di reviviscenza implica la capacità
di rivivere, quindi di riattraversare emotivamente oltre ché cognitivamente la scena,
partendo dalle sovrapposizioni con le proprie esperienze vissute.
Il lavoro di Stanislavskij è orientato a sviluppare la capacità di auto-monitoraggio e
di aumentare la consapevolezza interna; nel “metodo delle azioni” l’attore deve ricercare nell’agire in scena e nelle interazioni le modalità di entrata nel personaggio,
che non è più definito a priori secondo tratti di personalità, ma che vive nel qui ed
ora e si plasma nel momento in cui viene agito.
Analogamente a quanto proposto da Berger e Luckman, per il regista la realtà della
scena non dipende dalla “verità di ciò che si rappresenta”, ma dalla “credibilità” che
permette di comunicare ciò che si vive e che viene scoperto nell’atto stesso di recitarlo. “La falsità della finzione è eclissata dalla verità delle impressioni, dall’azione
fisica e dal fatto che noi ci crediamo” (Stanislavskij, ed.it. 1996, p. 67).
Gli esercizi che il regista descrive offrono all’allievo la possibilità di produrre dei
cambiamenti: dalla capacità di dirigere le proprie emozioni, alla consapevolezza delle sensazioni corporee, l’attore sperimenta le intrinseche potenzialità del suo modo
di essere e di rappresentarsi. Come afferma anche Dirk Borgade, famoso teatrante,
“l’attore accoglie l’altro che deve diventare attraverso un processo che modifica la
sua identità, che diviene dunque soggetta a continui rimodellamenti” (Salvini, 2004,
p. 281).
In teatro, secondo Stanislavskij, “succede qualcosa per cui gli occhi cominciano a
vedere in un altro modo, le orecchie a sentire altrimenti, la mente a valutare in modo nuovo quello che ci circonda; finché la finzione provoca per via naturale una
conforme azione reale”. L’attore non si limita ad imitare la realtà, a riprodurre un
personaggio pensato da altri, quello che l’attore crea, succede nella finzione, che diviene palcoscenico di realtà. Per questo l’invito che Stanislavskij fa ai suoi attori è
quello di interagire davvero con i compagni di scena, di sentire le sensazioni e le
emozioni della persona con cui si sta parlando, di ascoltare veramente ciò che dice;
questo darà un senso e una maggiore veridicità alle sue risposte. La relazione che si
crea è una componente importante della realtà che si osserva e rappresenta un mezzo per aiutare il pubblico a guardare la scena con occhi nuovi e attivare quei “meccanismi concettuali di conservazione degli universi” (Beger e Luckman, 1969, p.
147), che permettono di entrare in una realtà altra dalla propria senza per questo
metterla in discussione in quanto falsa.
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2. Terapie che utilizzano i ruoli: da Moreno a Kelly
In che modo il lavoro sui ruoli può favorire il cambiamento nelle interazioni e nelle
rappresentazioni di sé? Diversi autori hanno approfondito le potenzialità di cambiamento associate al gioco di ruolo: lo “psicodramma” di Jacob L. Moreno e la
“terapia del ruolo stabilito” di George A. Kelly sono i principali esempi di applicazione clinica.
Nei primi decenni del Novecento Jacob Moreno (1889-1974) propone un metodo,
lo “psicodramma”, che utilizza il concetto di ruolo e le tecniche teatrali come strumento di terapia alternativa a quelle tradizionali. Ritroviamo in Moreno, come in
Stanislavskij la centralità del tema dell’azione, considerata precursore del cambiamento, della relazione e dell’apprendimento. Si parla infatti di “metodo attivo” in
quanto si ricorre all’utilizzo del linguaggio del corpo e di una regia terapeutica basata sul fare oltre ché sul dire.
L’intervento di gruppo nello psicodramma non si rivolge solo alle persone in quanto portatrici di un certo problema, ma si occupa degli individui in rapporto al ruolo
che essi esercitano in un determinato contesto sociale. Le tecniche suggerite da Moreno si pongono come principale obiettivo quello di favorire nel gruppo la capacità
di realizzare atti creativi, di assumere ruoli nuovi, trasformando quelli personali, sociali e lavorativi inadeguati e limitanti, oppure rivivendoli alla luce di nuovi significati.
Ad esempio con la tecnica dell’inversione di ruolo la persona può sperimentare un
duplice processo: quello di entrare nei panni dell’altro per conoscere meglio ciò che
prova e quello di cercare di vedere se stessa attraverso il filtro dello sguardo altrui,
in un percorso contestuale di auto ed eteropercezione che facilita la possibilità di
sperimentarsi lungo prospettive plurime. Lo psicodramma consente un “riaddestramento ai ruoli”, facilita l’emergere di immagini inedite di sé e rende le persone
capaci di uscire dal circolo vizioso della ripetizione di quei ruoli in cui abbiamo sperimentato dei fallimenti. Vestire i panni di un altro può generare vissuti ed immagini
che presentano aspetti di novità e di compiutezza per l’acquisizione di ulteriori
competenze relazionali.
La persona si addentra nella scoperta di verità nuove sentendosi rassicurata e protetta dalla presenza e dagli stimoli del gruppo; questo costituisce un apprendimento
che potrà trovare graduale applicazione anche nella quotidianità.
Steward e Barry sostengono che le tecniche utilizzate nello psicodramma da Moreno abbiano influenzato le teorizzazioni di Kelly (1955-1991), in particolar modo
spostando la sua attenzione dalla lettura intrapsichica dei costrutti al contesto sociale dove avviene la costruzione dell’identità, poiché le tecniche che Moreno proponeva permettevano alle persone di sperimentare spontaneamente i costrutti personali all’interno di uno spazio sociale controllato. In effetti anche Kelly osserva come
all’interno dell’esperienza teatrale le persone tendano a trovare, attraverso il ruolo,
nuovi canali verbali e comportamentali, adatti a tradurre ciò che vogliono esprimere: il ricorso alla finzione permette di esplorare i propri pensieri in modi nuovi e diversi. Dice Kelly: “Molti pazienti si sentono talmente minacciati sotto tutti i punti di
vista che hanno smesso di esplorare se stessi. Le loro costruzioni di se stessi sono
diventate parzialmente impermeabili, sono così impegnati a dedicare tutti i loro
sforzi ad essere se stessi che non hanno tempo per scoprire se stessi” (1955, p.223.).
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Alla luce di queste riflessioni Kelly si sofferma a pensare agli effetti che potrebbe
generare la proposta di costruzione di un nuovo ruolo. Di qui la curiosità di voler
esplorare un modello terapeutico davvero peculiare, che poi chiamerà “terapia del
ruolo stabilito”(Kelly, 1955). Questo tipo di intervento focalizza l’attenzione su alcune aree del sistema di costruzione del paziente, accompagnandolo ad elaborare
un nuovo personaggio che gli permetta di abbandonare temporaneamente se stesso,
il proprio modo di pensare e di agire. A guida di ciò sta la stesura di un profilo che
il terapeuta, sulla base di alcuni colloqui e di pochi strumenti clinici ha appositamente “inventato”. Deve trattarsi di un ruolo che non sia troppo simile al modo di rappresentarsi della persona, né troppo diverso, ovvero che trascuri le difficoltà poco
rilevanti per proporre cambiamenti “radicali” rispetto a solo uno o due costrutti nucleari, che non devono essere impermeabili (così vengono chiamati i costrutti che
indicano un’immobilità, nei quali il sé resta invischiato). Mettere queste persone di
fronte alla responsabilità di essere qualcosa in aggiunta a quanto hanno già incapsulato nel proprio concetto di sé, significa infatti metterli a confronto con una minaccia. Per questo la costruzione del profilo deve essere ben soppesata, non deve sortire sensi di forzatura e deve enfatizzare il ruolo protettivo del gioco di finzione: una
volta concluso il tempo della recita, il paziente potrà uscire dal personaggio e tornare ad essere se stesso. Kelly attribuisce importanza non solo all’azione, ma anche
all’interpretazione dei costrutti soggiacenti a tali azioni. Egli chiede inoltre al suo
paziente di portargli delle “prove” di una buona recita, ovvero di crearsi conferme:
le reazioni degli altri devono dar vita all’identità fittizia recitata. Come a dire: “Sarai
davvero riuscito a recitare quando ti renderai credibile agli occhi di chi confonderà
il tuo personaggio per ciò che sei”. Anche per Kelly la prova vera della costruzione
del personaggio si ha dunque nel momento dello scambio umano che lo trasforma
in qualcosa di reale: come per Stanislavkij l’attenzione che l’attore ripone sulle “circostanze date e sulle persone reali” gli permette di familiarizzare con il ruolo assegnato, sperimentando e anticipando gli eventi dal suo interno. Il regista sostiene che
quando i fattori esterni diventano familiari, i processi psicologici e gli stati affettivi
incominciano a costruire davvero il personaggio.
Il personaggio diventa reale nel momento in cui gestisce il controllo sulla sua condotta di fronte agli altri. Per questo gli attori che si trovano a cooperare di fronte ad
un pubblico di osservatori saranno attenti al “controllo delle impressioni”. Come
sottolinea anche Roland Barthes (1998) “il piano di riferimento dell’attore non è
un’interiorità eterna, priva di rapporto con le circostanze stesse dello spettacolo; il
piano di riferimento è l’intelligenza del pubblico, quella specie di pro-getto collettivo che, da solo deve essere in grado di giustificare la piéce” (Barthes, 1998, p. 364).
Il modello di Kelly, ancora una volta, rispecchia la posizione dualistica che Stanislavkij riassume nel continuo dialogo tra “attore” e “personaggio”, oggetto e soggetto
nella rappresentazione di sé.
Rappresentare un personaggio significa raggiungere un’ampia comprensione di cosa
possa accadere nelle esperienze che egli incontra, sviluppando la fenomenologia di
quelle esperienze, elaborando un processo di attribuzione di significati a livello individuale ma anche all’interno del gruppo degli attori che partecipano alla scena.
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2.2 La patologia come ruolo impersonato
Alla luce delle riflessioni proposte dai modelli terapeutici orientati all’utilizzo del
ruolo come strumento di cambiamento, viene da chiedersi quali possano essere i
risvolti di tali modalità operative in ambito clinico dal punto di vista di chi ne fa esperienza. Quali gli effetti dell’attribuzione di caratteristiche di personalità o della
recita di un personaggio sulle auto-rappresentazioni?
Secondo molti autori costruttivisti definire una persona mediante etichette
(anch’esse configurabili come ruolo assegnato), ad esempio quelle clinico – diagnostiche, non solo genera costruzioni di sé coerenti con quella etichetta, ma contribuisce a rendere statica la propria posizione e improbabile la costruzione di altre idee
su di sé (Armezzani, 2003, p. 57).
L’attribuzione di caratteristiche psicologiche e comportamentali può attivare l’autoattribuzione di schemi prototipici o di tipizzazione i quali “hanno un effetto organizzativo nel modo in cui le persone percepiscono se stesse, si attribuiscono un
ruolo e si dispongono per l’azione” (Salvini, 2005, p. 166p. 163). Andando oltre le
nosografie convenzionali e i termini tecnici della psicologia e della psichiatria, Kelly
definisce il disturbo come “qualsiasi costruzione personale che venga usata ripetitivamente, a dispetto della sua inconsistente invalidazione” (Kelly, 1955, p. 831) e
propone una “diagnosi transitiva” (Armezzani, 2003, p. 55) dove l’interesse non sia
rivolto ad afferrare ciò che la persona “è”, ma a comprendere ciò che sta cercando
di fare e come potenzialmente si possano generare dei cambiamenti.
La diagnosi può dunque essere intesa come una “costruzione di realtà” (Armezzani,
2003, p. 55) che non viene definita dalle “categorie patologiche”, ma che appunto è
costruita nella relazione che si crea tra l’individuo e lo psicologo, dove la “gestione
del ruolo” assume un aspetto fondamentale. Infatti, ogni qual volta si guardi ad un
uomo come attivo e responsabile costruttore della sua realtà, si instaura una “relazione di ruolo” (Armezzani, 2003, p. 81). Il “modello drammaturgico” di Goffman
può indurci a pensare allora che il “disturbo” non sia altro che un ruolo attraverso il
quale l’individuo costruisce la propria realtà, alla stregua dei personaggi che l’attore
sperimenta nell’attività teatrale. Il ruolo che l’individuo sceglie di impersonare o che
gli viene assegnato, attraverso i criteri diagnostici, contribuisce alla ricerca di una
costruzione di realtà e ad una definizione di sè coerente con quel ruolo.
In quest’ottica il “disturbo” non risiede nella persona, intesa come un insieme di
caratteristiche stabili e definite, ma è l’ “effetto drammaturgico” del coro di voci che
concorre a descriverlo (il suo contesto sociale) e nel quale agisce (Goffman, 1983).
In funzione del ruolo che riveste, e dei rimandi che ne derivano, ciascun individuo
è in grado di generare diverse forme di autoconsapevolezza, rappresentazioni e definizioni di sé. In questo senso anche il pubblico che osserva un personaggio in
scena, gli attribuisce un sé coerente, un’identità che si costituisce come prodotto e
non come movente della scena rappresentata. Così, anche il “disturbo del comportamento alimentare” potrebbe essere inteso come l’effetto di un ruolo.
La teatroterapia (Orioli, 2001) aspira alla possibilità di improvvisare una parte e costruire una “maschera” appropriata alla situazione permettendo all’individuo di impersonare un ruolo che si discosti da quello assegnato dalla “malattia”, dando spazio e voce ad una nuova esperienza. La rappresentazione teatrale diviene così lo
spazio dove poter essere altro da sé, ma anche lavorare sulle varie sfaccettature dell’
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“essere”. La creatività dell’attore ha libero campo, la scissione tra ciò che è e ciò che
vorrebbe essere viene approfondita attraverso la rappresentazione teatrale, senza
necessità, da parte dell’individuo, di negarla in quanto “patologica”. Improvvisando
una scena, l’attore può diventare più consapevole di alcune parti di sé e acquisire la
consapevolezza di essere in grado di modificare la realtà della scena in un processo
caratterizzato dalla continua trasformazione. Egli può, attraverso la momentanea
scissione della personalità, intravedere un’immagine altra e farla propria nell’azione
scenica. Il teatro gioca una funzione importante, in quanto rispecchia l’idea di un
uomo dalla personalità multipla divisa tra molti personaggi da interpretare, personaggi che costruisce e modifica intenzionalmente in funzione degli scopi che vuole
raggiungere.
L'obiettivo che si pone il teatro come terapia è quello di portare gli attori ad interpretare con l'intensità di chi vive in modo coinvolto e consapevole i differenti ruoli
che la vita spesso richiede. Poiché la tendenza di alcuni individui è quella di nascondersi costantemente dal mondo esterno, utilizzando maschere “inappropriate” e
“disfunzionali”, il teatro offre loro la possibilità di esprimere il proprio “disagio”
attraverso la drammatizzazione delle proprie esperienze e l’espressione nuovi ed inediti lati del proprio sé. Si tratta di un’esperienza che dà la possibilità di sperimentare questa molteplicità di ruoli in realtà diverse, costruite in relazione con gli altri: è
finzione, ma le parole sono vere come i gesti, come le emozioni.
3. La ricerca
La ricerca è finalizzata all’indagine del cambiamento nelle auto-rappresentazioni di
attori impegnati in un’attività teatrale. A tal fine sono stati messi a confronto i resoconti relativi agli effetti percepiti dell’assunzione di nuovi ruoli da parte di attori
partecipanti alle attività del laboratorio in contesto clinico rispetto a quelli ottenuti
in contesto amatoriale. Il parallelo tra “sistemi di costruzione di realtà” e di “identità” tra i due gruppi ha consentito di sondare le potenzialità che l’attività teatrale può
offrire nella clinica dei disturbi del comportamento alimentare e non solo.
3.1. Obiettivi specifici
Nello specifico, i due gruppi sono stati messi a confronto rispetto ai seguenti temi:
1) La percezione soggettiva dei processi implicati nella costruzione del ruolo teatrale, in particolare si è posta attenzione all’analisi dei costrutti che la persona utilizza
per descriversi in quanto persona reale e in quanto personaggio rappresentato.
2) La percezione soggettiva degli effetti di “estensione” delle caratteristiche del personaggio a quelle del “sé”. Ciò al fine di rispondere alla domanda: dal punto di vista
di chi ne fa esperienza, la rappresentazione di un ruolo (quello teatrale) permette di
generare costruzioni di sé alternative, di mettere in atto comportamenti altri e vivere
una realtà nuova che possa tracciare percorsi di cambiamento?
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3) La rilevanza delle configurazioni di identità attivate dal laboratorio teatrale nel
senso più generale dell’identità. Ci si aspetta che chi abbia scelto volontariamente il
teatro possa assegnare al “sé in quanto attore” caratteristiche positive e maggiormente desiderabili rispetto a chi pratica il laboratorio come forma di terapia vincolata al ricovero presso una struttura per il trattamento dei disturbi alimentari
4) Indagare, in termini esplorativi, come si le persone coinvolte nella ricerca tendano a descriversi rispetto ai vari ruoli prescelti (gli elementi) e approfondire le distanze o vicinanze percepite tra questi.
3.2. Partecipanti
Hanno partecipato allo studio 30 persone di età compresa tra i 18 e i 35 anni (età
media 25,7). Il Gruppo “1” è composto da 15 attori amatoriali (8 femmine e 7 maschi) costituitisi in un’associazione finalizzata alla rappresentazione di uno spettacolo. Il Gruppo “2” (composto a sua volta da 12 femmine e 3 maschi), è costituito da
ospiti di un centro residenziale per i disturbi del comportamento alimentare. Nel
centro (ad orientamento di tipo cognitivo-comportamentale) il laboratorio teatrale
viene proposto, insieme alla danza-terapia, come tappa del percorso terapeutico,
essendo finalizzato al miglioramento della consapevolezza corporea.
3.3. Strumenti
Gli strumenti di indagine sono stati costruiti e/o modificati ad hoc e sono tesi
all’indagine dei significati personali nella costruzione dell’esperienza.
- L’intervista semi-strutturata
L’intervista è composta da 11 domande. Esse indagano 4 aree tematiche e si ispirano agli assunti dei metodi Stanislavskij e Grotowski:
1) Area della costruzione di realtà: (ad es: “attraverso quali processi ritieni possibile la costruzione del personaggio e della scena? Quali “artifici” consentono di eliminare l’effetto finzione” e “rendere vere le emozioni” del personaggio?)
2) Area della costruzione di identità: (ad es: “attraverso quali processi ritieni sia
possibile la costruzione del personaggio?)
3) Area della costruzione del ruolo (ad es: “Prova a descrivere con una metafora
il rapporto tra te ed il tuo personaggio”)
4) Area del cambiamento percepito: (ad es: “Ritieni che l’esperienza del laboratorio abbia avuto una qualche influenza sulla tua vita?” “Ritieni che il personaggio ti
abbia in qualche modo cambiato? In che termini?”)
- La griglia di repertorio modificata
La Griglia di Repertorio, Kelly (1955), è stata modificata in funzione degli obiettivi di
ricerca: al fine di poter confrontare le diverse esperienze di costruzione di realtà si è
scelto di uniformare gli elementi e di mantenere libera l’elicitazione dei costrutti.
11
gruppi nella clinica
Sono stati selezionati 8 elementi fissi, tra questi:
- tre riferiti al sé: - Io in questo momento, - Io tra dieci anni, per valutare la prospettiva di cambiamento nel tempo, e - Io come vorrei essere, parametro per la valutazione della stima di sé e degli altri
- tre situazionali riferiti all’esperienza del laboratorio teatrale - Io nel laboratorio teatrale
- Io come se non avessi fatto teatro - il mio ultimo personaggio, per indagare l’auto-percezione
rispetto ai vari ruoli e la rilevanza dell’esperienza teatrale nel sistema di costruzione
della propria identità.
- gli ultimi due sono elementi di confronto: - la persona che ammiri, - la persona
che detesti, e aprono la possibilità di costruire, avvicinandosene o distanziandosene,
due esempi paradigmatici dei significati del proprio mondo a cui viene attribuita una
valenza positiva o negativa.
3.4. Metodologia e analisi dei dati
Per l’analisi qualitativa delle risposte all’intervista semi-strutturata è stato utilizzato il
programma Atlas.ti, un software per l’analisi del contenuto che segue un criterio
ermenetutico di categorizzazione e segmentazione del testo. Questa procedura si
rifà alla Grounded Theory elaborata da Glaser e Strauss (1967) secondo la quale la teoria deve emergere dagli elementi ottenuti attraverso la ricerca empirica: l’analisi prevede un processo ad andamento circolare tra identificazione di categorie (parole o
brevi frasi) tratte dal testo stesso, loro applicazione e nuova definizione delle stesse
sulla base dell’aderenza al testo, finché il sistema di codici non sia in grado di cogliere i significati del testo in modo soddisfacente rispetto agli obiettivi del ricercatore.
Si tratta dunque di una procedura che parte dal basso per poi arrivare ad una definizione della teoria (Glaser, Strauss, 1967): l’assunto non è la conferma di ipotesi,
quanto la produzione di nuove chiavi di lettura, che emergano dal testo stesso.
Nel caso specifico della ricerca il software è stato applicato all’analisi dei testi nel
confronto tra i due gruppi d’indagine, secondo un principio tematico: ogni domanda corrisponde infatti ad un’area tematica riferibile al modello teatrale proposto da
Konstantin Stanislavskij.
Rispetto alla creazione e analisi della griglia di repertorio va specificato che
l’elicitazione dei costrutti è avvenuta utilizzando il metodo delle triadi, applicato alle
triplette sopra identificate (Pezzullo, 2003), mentre per l’analisi quantitativa ci si è
avvalsi del programma informatico GRIDSTAT di Richard Bell (1998), in particolare per l’analisi dei cluster, integrata all’analisi qualitativa di categorizzazione semantica dei costrutti.
12
Elena Faccio, Mara Olocco
3.5. Risultati
3.5.1. L’intervista semi-strutturata
I risultati della segmentazione e categorizzazione dei testi prodotti dai partecipanti
in risposta alle domande che compongono le quattro aree dell’intervista saranno
presentati mediante la comparazione tra i due gruppi (Gruppo 1 = attori amatoriali
/ Gruppo 2 = gruppo clinico) specificando la frequenza di comparsa di contenuti
codificati entro le macro-categorie semantiche dominanti a sinistra riportate.
1) Area della COSTRUZIONE DI REALTÀ
Domanda esempio: “Attraverso quali processi ritieni che sia possibile la costruzione della scena?”
Gruppo 1
Frequenza Gruppo 2
1AGIRE, 9
IMPROVVISARE
(IMPORTANZA
CORPO/
AVERE 11
OBIETTIVI/PROVARE
COSE DIVERSE)
2INTERAZIONE
CON ALTRI
IMPORTANZA DEL
REGISTA
1- IMPROVVISARE
(VIVERE REALTÀ
ALTRA/
IMMAGINAZIONE)
2- INTERAZIONE CON
ALTRI
Freq.
11
5
Per quanto riguarda la costruzione della scena i gruppi evocano in modo apparentemente simile due temi: quello dell’azione e dell’improvvisazione, e quello
dell’interazione. Nel primo gruppo si condivide l’idea che la scena venga costruita in
funzione degli obiettivi che i personaggi devono raggiungere, la scena esisterebbe in
quanto provata, nel Gruppo 2 si sottolinea l’importanza del fattore immaginativo,
ovvero della capacità di ricreare nella mente tutto ciò che costituisce la rappresentazione. L’effetto scena deriverebbe dall’improvvisazione e dalla capacità di vivere
spontaneamente la situazione in cui il personaggio è inserito: le circostanze date per
quella situazione e le relazioni che si instaurano tra i partecipanti.
Un elemento di differenza tra i due gruppi è legato al ruolo assegnato all’occhio esterno: se nel Gruppo 1 è importante l’occhio del regista che osserva, in quanto la
scena costruita dagli attori necessita e non può prescindere dallo sguardo di chi sta
fuori, nel Gruppo 2 questo punto di osservazione non viene considerato; la scena
infatti si costruisce esclusivamente facendone parte. Questo aspetto potrebbe essere
letto come peculiare atteggiamento del gruppo “clinico” a vivere lo sguardo esterno
come negativo, in quanto portatore di un giudizio dal quale difendersi.
Domanda 4: “Secondo te quali sono le condizioni che rendono vere le emozioni per te e per il pubblico?”
Domanda 5: “Attraverso quali strategie ritieni sia possibile eliminare l’effetto finzione?”
13
gruppi nella clinica
Gruppo 1
Freq.
1- VERSO IL PUBBLICO
(NON PROTESO AL
PUBBLICO/ NON
SENTIRSI GIUDICATI/
RACCONTARE A
QUALCUNO/
CATTURARE
ATTENZIONE/
RAPPRESENTARE LA
FINZIONE)
2- METODO DELLE
AZIONI
(AGIRE/ ELIMINARE
CLICHÉ/ IMPORTANZA
DEL CORPO)
3- CARATTERISTICHE
ACQUISITE
(CAPACITÀ DI
CONCENTRARSI/
ESSERE RILASSATI/
ESSERE SPONTANEO/
METTERSI IN GIOCO)
12
11
16
Gruppo 2
1- VERSO IL PUBBLICO
(NON SENTIRSI
GIUDICATI)
2- EMOZIONI
(PROVARE EMOZIONI/
TRASMETTERE
EMOZIONI)
4- VIVERE UNA REALTÀ
ALTRA
5- METTERSI NEI PANNI
DI UN ALTRO
Freq.
4
10
4
11
Il Gruppo di attori amatoriali (Gruppo 1) sembra vivere come vere le situazioni
sceniche in funzione del pubblico. La recita di un ruolo non è intesa come una
“parte” già scritta che debba essere replicata, ma come un racconto che nasce in
quel momento e che diventa vivo in quanto rivolto a qualcuno. L’attore deve essere
attento a chi lo osserva, non deve cercare di spaventarlo o impressionarlo, né di
compiacerlo, allo stesso tempo è proprio il rapporto tra l’attore ed il pubblico a far
sì che ci si immerga nella medesima realtà. Questo permette di eliminare l’effetto
finzione e anche di trasmettere le emozioni vive.
Il pubblico non è vissuto con funzione giudicante l’attore. Si crea piuttosto un dialogo tra l’attore e chi lo osserva, che genera la realtà teatrale rendendola “vera”.
Questa accezione non riguarda invece le risposte del Gruppo 2, che tende piuttosto
ad isolare l’attore dall’osservatore, per ridurre l’effetto del giudizio. L’attore deve
essere assorbito dunque da quello che sta facendo senza prestare attenzione a chi
sta dall’altra parte. Come se l’osservatore non disponesse di altri ruoli se non di
quelli di critica.
Mentre nel Gruppo 1 la bravura dell’attore è intesa come capacità di spostarsi da
una realtà all’altra, rimanendo in bilico tra sé come persona, sé come attore e sé
come personaggio (secondo quanto previsto anche dal metodo Stanislavskij), nel
Gruppo 2 l’attore si estranea e diviene esclusivamente quel personaggio in quella
14
Elena Faccio, Mara Olocco
situazione, poiché assume che l’entrata nel personaggio possa avvenire indipendentemente dal rapporto con il pubblico, anzi, malgrado il rapporto con il pubblico.
Strategia percepita come rilevante dal Gruppo 1 per l’eliminazione dell’effetto finzione è il “metodo delle azioni”: l’azione, l’attenzione alla naturalezza del gesto, è
ciò che consente di render vero ciò che si recita. E’ grazie alle azioni agite sul palco
che diventa vera la scena. Quindi le posture, le movenze e l’espressività del corpo
risvegliano nell’attore la sensazione di coincidenza con se stesso e di autenticità.
L’agire dell’attore è intenzionale e si nutre di obiettivi mentre le azioni fini a se stesse non comunicano niente, né all’attore, né al pubblico.
Nel Gruppo 2 non viene citata l’azione come strumento per eliminare l’effetto finzione o rendere le emozioni vere, mentre viene sottolineata la capacità dell’attore di
provare veramente le emozioni “come se” fosse il personaggio. Non emerge la consapevolezza di un vero e proprio metodo, ma si sottolinea l’importanza del “mettersi nei panni di” un’altra persona rispetto ad una specifica situazione.
Nei confronti del pubblico l’attore non deve pensare di essere se stesso, quanto di
essere il personaggio. Nei confronti della scena è importante la capacità acquisita di
estraniarsi da quello che si è per essere altro, ma nello stesso tempo anche la capacità di vivere, sentire ed essere in grado di trasmettere le emozioni come attore per
rendere “vera” la realtà che si rappresenta. Così, se da una parte le emozioni posso
essere recuperate dall’attore nel bagaglio della sua memoria, dall’altra, come personaggio, egli ha l’opportunità di sperimentarne di nuove e di imparare a comunicarle.
2) Area della COSTRUZIONE DI IDENTITÀ
Domanda: “Cosa intendi per “essere attore” secondo la tua esperienza?”
Gruppo 1
Freq.
1- COMUNICARE E
INTERAGIRE CON GLI
ALTRI
(EVOCARE EMOZIONI/
MOSTRARSI AGLI ALTRI)
2- IMPARARE UN
METODO (acquisire capacità)
(METTERE IN PRATICA
LA TEORIA/AVERE
OBIETTIVI/CAPACITÀ DI
CONCENTRARSI/
CONOSCENZA DI SÉ)
3- GESTIRE UN RUOLO
(DIVERSO DA SÉ/
METTERSI NEI PANNI DI
UN ALTRO/COSTRUIRE
UN PERSONAGGIO)
14
9
10
4
1
Gruppo 2
1- COMUNICARE E
INTERAGIRE CON ALTRI
(MOSTRARE CIÒ CHE HAI
DENTRO/ NON TEMERE
GIUDIZIO)
2- IMPARARE UN
METODO
(AVERE OBIETTIVI/
CONOSCENZA DI SÉ)
3- GESTIRE UN RUOLO
(DIVERSO DA SÉ/
METTERSI NEI PANNI DI
UN ALTRO)
4- AGIRE
(METTERSI IN
GIOCO/ESSERE
SPONTANEO/ESPRIMERSI
CON IL CORPO)
15
Freq.
6
4
14
7
2
gruppi nella clinica
4- AGIRE E METTERSI
IN GIOCO
5- COSTRUIRE REALTÀ
5- VIVERE UNA REALTÀ
ALTRA
L’attore viene inteso, in entrambi i gruppi, come colui che”fa” piuttosto che come
colui che “è”, infatti le risposte si riferiscono non tanto ad elenchi di aggettivi qualificativi, quanto alle azioni che egli compie per essere tale.
Trasversalmente emerge il tema dell’intenzionalità e della consapevolezza, si definiscono inoltre le capacità dell’attore come acquisite attraverso un metodo e attraverso il “mettere in pratica” la teoria. L’attore non può inoltre essere descritto prescindendo dal contesto in cui è inserito, dalle relazioni che crea con gli altri attori e dal
ruolo. Attraverso la coperta del ruolo egli ha la possibilità di essere e di agire diversamente da come farebbe nella vita quotidiana. Il ruolo viene percepito attivamente,
in entrambi i gruppi, come quello strumento attraverso il quale l’attore ha modo di
descriversi con parole diverse, di pensarsi come se fosse un’altra persona e di agire
in situazioni “altre”, ma che lui stesso concorre a generare. Allo stesso tempo
l’attore non è colui che si cuce addosso le caratteristiche di un’altra personalità,
quanto piuttosto colui che, vivendo nel personaggio vite diverse da quelle alle quali
è abituato, ha l’opportunità di osservare modalità di pensiero, di sentimento e reazione, proprie e altrui, nei confronti di un altro se stesso.
Domanda 2: “Attraverso quali processi ritieni sia possibile la costruzione del personaggio?”
Gruppo 1
Freq.
1- DIFINIRE LE
CARATTERISTICHE
(CERCARE RISORSE IN
SÉ/
UNA PARTE DI SÉ/
CERCARE RISORSE
FUORI DA SÉ/
AZIONI (agire)/ TESTO)
2- INTERAZIONE CON
ALTRI
(CONFRONTO CON
ALTRI)
3- IMPROVVISARE
(PROVARE COSE
DIVERSE)
35
8
5
Gruppo 2
1- DEFINIRE LE
CARATTERISTICHE.
CERCARE IN SÉ/ FUORI
DA SÉ/
UNA PARTE DI SÉ
2- GESTIRE IL RUOLO
(ESSERE SPONTANEO/
METTERSI NEI PANNI DI
UN ALTRO)
Freq.
17
8
Secondo Stanislvskij l’identificazione dei segni caratteristici del personaggio permette all’attore di ritrovarsi in essi, oltrepassando la maschera del ruolo che interpreta.
L’attore non è colui che espone se stesso di fronte a chi lo osserva ma è colui che
mostra dei modi di essere che gli appartengono, attraverso il suo personaggio.
16
Elena Faccio, Mara Olocco
L’attore deve evitare i clichè, ovvero quelle tipizzazioni dei ruoli che ingessano il
carattere in qualcosa di generico. Dai “tipi” difficilmente possono nascere delle emozioni, mentre personalizzare e ritrovare dentro se stessi determinati pensieri e
modi di agire permette all’attore non solo di provare delle sensazioni inaspettate,
ma anche di venire a conoscenza di lati del proprio modo di essere che non sarebbero potuti emergere altrimenti.
Secondo quanto emerge dall’analisi delle risposte fornite dal Gruppo 1, gli attori
amatoriali tendono a strutturare la costruzione del personaggio in due fasi: in un
primo momento creano un quadro generale di ciò che dovranno recitare, identificano il “tipo” di personaggio che potrà esser messo in scena. In un secondo momento le caratteristiche emerse vengono animate da esempi e riflessioni tra attori.
Non sono dunque semplicemente date dal testo e riprodotte nel personaggio, ma
vengono create ad hoc in un lungo lavoro di ricerca collettiva. Le si ricerca anche
nella consapevolezza dell’attore rispetto a se stesso e ai suoi modi di fare. Se in un
primo momento il personaggio è inteso come l’effetto di una costruzione e di una
interpretazione del ruolo individuale, è nella costruzione della scena in interazione
con gli altri attori che il personaggio prende vita, si modifica ed agisce, in un continuo adattamento del ruolo al ruolo. Come se fosse possibile un dialogo tra l’attore
ed il suo ruolo, tra il ruolo ed il contesto e tutte le interazioni a cui prende parte.
Anche dalle risposte del Gruppo 2 si può cogliere una analoga suddivisione tra le
due fasi di creazione: una più teorica ed una più pratica. Il ruolo non è dato
dall’esterno e riprodotto (ruolo assegnato), viene piuttosto creato dall’attore stesso,
che ha il compito di decidere come utilizzarlo ed impersonarlo.
3) Area del RUOLO E delle RAPPRESENTAZIONI DI SÈ
Domanda: ”Prova a descrivere con una metafora il rapporto tra te e il tuo personaggio”
Gruppo 1
Freq.
1- UNA PARTE DI SÉ
IMMAGINE RIFLESSA
MIA SORELLA
2-DIVERSO DA SÉ
AMICO
CONOSCENTE
IL MIO SUPERIORE
3- DIETA
UNA SCALATA
9
Gruppo 2
1- UNA PARTE DI SÉ
SIMILE A ME
IMMAGINE RIFLESSA
MOBILE ANTICO
Freq.
11
6
2
Gli attori amatoriali (Gruppi 1) tendono a descrivere il rapporto sé-personaggio in
tre modi: (1) come simile a sé, rappresentativo di alcune parti di se stessi, che possono essere anche più approfondite o più estreme (è “l’altro me stesso”, “più vero
di me”, “il mio sfogo”). (2) come diverso, con valori e modi di essere differenti, o
ancora (3) come processo costruttivo: è “la mia sfida”, “la mia scalata”, il mio “mettermi in gioco”. Nel gruppo clinico sembra essere presente solo il primo caso: la
17
gruppi nella clinica
persona tende a mettere in luce attraverso il personaggio certi aspetti propri. Gli intervistati dichiarano al limite di esplorare “nei panni di un’altra persona” (ad esempio di un genitore) alcune caratteristiche proprie e le reazioni che queste generano.
Davvero interessante la tendenza a divenire consapevoli di questa “partecipazione”
al personaggio solo a posteriori. Alcuni intervistati riportano lo stupore per essere
riusciti a far emergere nella scena degli aspetti che forse a parole non sarebbero riusciti a descrivere. Ritrovarsi in situazioni costruite diviene così una sorta di “cuscinetto” che attutisce la paura del mostrarsi agli altri, ma anche a sé stessi.
4) Area del CAMBIAMENTO PERCEPITO
Domanda: Ritieni che l’esperienza del teatro abbia avuto una qualche influenza nella tua vita?
Gruppo 1
Freq.
1- CONSAPEVOLEZZA
(DI SÉ/ CORPOREA)
2- INTERAZIONE
CON GLI ALTRI
(NON SENTIRSI
GIUDICATI)
3- SPERIMENTARE
COSE DIVERSE
4- VIVERE UNA
REALTÀ ALTRA
5- IMPARARE UN
METODO
10
17
2
4
4
Gruppo 2
1- CONSAPEVOLEZZA
(DI SÉ/ CORPOREA)
2- INTERAZIONE CON
GLI ALTRI
(DIVERTIRSI/ NON
SENTIRSI GIUDICATI/
METTERSI NEI PANNI DI
UN ALTRO)
3- METTERSI IN GIOCO
4- SPERIMENTARE COSE
DIVERSE
Freq.
6
10
4
3
Sono piuttosto simili le macro-categorie emerse dalle analisi dei network prodotti
dai due gruppi. Il teatro sembra favorire la conoscenza di se stessi ed una maggiore
consapevolezza del proprio corpo, risultato di innegabile importanza se riferito al
gruppo clinico. I partecipanti riferiscono che l’esperienza teatrale sembra influire
fortemente anche sulla capacità di relazionarsi, infatti gli intervistati considerano
migliorate le proprie modalità interattive, e superate alcune limitazioni legate alla
timidezza o al senso in inadeguatezza.
Il teatro è inteso come luogo dove divertirsi, provare cose diverse, sperimentare
nuove versioni di sé, giocare con le proprie rigidità, utilizzare il ruolo per mettere in
atto nuove modalità di comportamento e osservare le reazioni dell’altro.
In particolare il Gruppo 2 fa riferimento al disturbo alimentare come ad un limite,
che può creare ostacoli nell’esplorazione di alcune attività del laboratorio. La capacità di mettersi in gioco senza preoccuparsi del giudizio altrui rappresenta per molti
una sfida; le persone a teatro sperimentano la possibilità di essere e di fare senza
dover necessariamente raggiungere una qualche meta. Così nello spazio terapeutico
il laboratorio può rappresentare un momento per essere diversi o essere sé stessi
senza preoccuparsene.
18
Elena Faccio, Mara Olocco
Domanda: Ritieni che il personaggio che tu hai rappresentato ti abbia in qualche modo cambiato,
in che termini?
Gruppo 1
Freq.
1-UNA PARTE DI SÉ
(CERCARE RISORSE IN
SÉ/ CONSAPEVOLEZZA
DI SÉ)
2-DIVERSO DA SÉ
(IMPARARE A
MODIFICARSI/
METTERSI IN GIOCO)
3- INTERAZIONE CON
GLI ALTRI
7
9
2
Gruppo 2
1- CONSAPEVOLEZZA DI
SÉ
(CERCARE RISORSE IN SÉ/
PARTE DI SÉ/ PROVARE
EMOZIONI)
2- CAPACITÀ DI GESTIRE
IL RUOLO
(METTERSI NEI PANNI DI
UN ALTRO)
3- SPERIMENTARE COSE
DIVERSE
Freq.
9
5
3
Dai resoconti del Gruppo 1 si può evincere l’idea che il personaggio non cambi
l’attore, ma che il lavoro di costruzione dello stesso e l’esperienza del laboratorio
offrano la possibilità di essere diversi da come ci si propone agli altri quotidianamente, per tornare ad essere più se stessi all’uscita dal ruolo (ovvero più consapevoli). Sperimentare delle modalità nuove di agire e di pensare viene vissuto come incentivo per la persona per modificare certi aspetti di sé. C’è una parte di ogni personaggio in ciascuno, nel senso che potenzialmente si potrebbe rappresentare qualsiasi personaggio: ciascuno può giocare con caratteristiche che lo rappresentano così come con aspetti anche molto lontani da sé.
Il personaggio può costituire un incentivo a tornare sui propri modi di agire.
Anche nel Gruppo 2 si fa riferimento ad un personaggio che non modifica, ma che
fa riflettere. Esso può dare la possibilità ad una persona di provare a gestire un ruolo diverso dal proprio, provare a mettersi nei panni di un altro, per poter anche meglio comprendere le reazioni delle altre persone e pensare a sé attraverso il filtro di
quel ruolo.
Il fatto di ritrovarsi in una situazione nuova e diversa dal solito e in un ruolo molto
lontano da quello che si riveste quotidianamente permette di mettere in luce anche
alcuni aspetti di sé inaspettati o di pensare a come modificare i propri comportamenti sperimentando nella pratica teatrale dell’improvvisazione azioni e parole alternative; certe volte può capitare di soffermarsi così su alcuni difetti o aspetti che si
vorrebbero eliminare, imparando ad ironizzare su questi.
3.5.2. La griglia di repertorio modificata: analisi dei cluster e dei costrutti
Dall’applicazione dell’analisi dei cluster sono emerse strutture diversificate per i due
gruppi coinvolti nella ricerca. Ricordiamo qui brevemente che questa procedura
consente di elaborare una rappresentazione complessiva delle “distanze” e delle
19
gruppi nella clinica
“vicinanze” tra gli elementi scelti per la costruzione della griglia. Un cluster è dunque caratterizzato da un gruppo di elementi in cui si minimizza la distanza intragruppo e si massimizza la distanza intergruppi.
Dall’applicazione della tecnica è emerso che il gruppo “non clinico” presenta in 11
griglie su 15 una struttura a due fattori. Un primo nucleo di elementi, caratterizzati
dai legami più stretti, comprende: IO NEL LABORATORIO, PERSONA CHE
AMMIRO, IO COME VORREI ESSERE , IO TRA 10 ANNI.
In alcuni casi (6 griglie) si unisce a questo nucleo l’elemento del IO IN QUESTO
MOMENTO, in altri (5 griglie) questo elemento è contrapposto e compare vicino a
quelli del secondo nucleo: IO COME SE NON AVESSI FATTO TEATRO,
PERSONA CHE DETESTI, che non presentano legami molto stretti e possono
essere considerati secondari nella struttura di costruzione di sé della persona.
Per quanto riguarda l’elemento IL MIO ULTIMO PERSONAGGIO, in 8 griglie
viene associato agli elementi del secondo nucleo: al personaggio vengono attribuite
delle caratteristiche negative, come ad un sé limitato, un ruolo attraverso il quale
poter sperimentare aspetti di sé che non si vorrebbero avere o che si vorrebbero
modificare. Tali modi di essere sono nella maggior parte dei casi antitetici (in quanto dicotomici) rispetto alle caratteristiche attribuite a sé nel laboratorio e al proprio
sé ideale. Al personaggio sono legate dunque le caratteristiche di sé che si vogliono
modificare, ma anche le caratteristiche altrui indesiderate.
In altri 3 casi il personaggio racchiude invece una parte di sé che la persona considera positiva, rappresenta la possibilità di sperimentare un ruolo e una modalità di
comportamento a cui si protende.
Esempio di dendrogramma ottenuto dall’analisi dei cluster applicata ad una griglia
del gruppo 1.
io nel laboratorio .+----------------+
io in questo momento.+
|-----------------------------+
io come vorrei .--+--+
|
|
io tra dieci anni .--+ |-----------+
|
persona che ammiri .-----+
|
il mio personaggio .--------------+--------------------+
|
persona che detesti .--------------+
|-----------+
io come se non avess.-----------------------------------+
Dall’analisi dei costrutti elicitati per le triplette riferite a questi elementi, si osserva,
innanzi tutto, una struttura di costrutti marcatamente affine alla dicotomia “positivo” – “negativo” con caratteristiche positive attribuite prevalentemente agli elementi del primo nucleo e costrutti considerati indesiderabili associati al secondo nucleo.
Le dimensioni di significato emerse dall’analisi semantica dei costrutti elicitati in
queste griglie evocano principalmente i temi del cambiamento, della ricerca, della pos-
20
Elena Faccio, Mara Olocco
sibilità di essere in potenziale e non già definiti, inoltre evoca l’essere attivo e attento rispetto
alle cose che succedono e l’ essere in grado di gestirle rispetto agli obiettivi posti e al ruolo, avere la
capacità di adattarsi alle situazioni in cui ci si trova ad agire e di modificarsi, l’attenzione
verso gli altri e verso le situazioni, una maggiore consapevolezza di sé che porta anche a
provare a superare i propri limiti, una crescita e anche una maggiore sicurezza che si può
acquisire. Dunque una dimensione legata al cambiamento, al poter essere attivamente operanti, attenti agli atri e alla situazione attorno a sé.
Alle aree qui evidenziate si contrappongono i costrutti relativi agli elementi del secondo nucleo, che sono invece legati alla dimensione della staticità, dell’essere fermi,
poco consapevoli di se stessi e insicuri. Si ritrova qui uno stato di passività in cui la persona non si mette in gioco e risulta povera di emozioni e di interessi, poco attenta verso gli altri
e soprattutto incentrata su se stessa. Emerge anche il costrutto di rigidità corporea e mentale a sottolineare ulteriormente la componente statica di questi elementi.
Per quanto riguarda il Gruppo clinico, 9 griglie su 13 presentano un nucleo principale di elementi molto vicini tra loro: IO COME VORREI ESSERE, PERSONA
CHE AMMIRI, IO TRA 10 ANNI. La dimensione rilevante ruota dunque attorno
al futuro, ideale e positivo, dove l’attenzione è riposta su elementi che evocano il sé
oltre al problema (il “disturbo alimentare) e oltre l’esperienza del centro terapeutico.
I costrutti elicitati rispetto a questi elementi fanno riferimento allo stare bene,
all’essere sicuro di sé, all’essere se stessi, liberi, senza temere più il giudizio dell’altro. Si leggono costrutti come l’essere determinato, realizzato, normale, sereno, deciso, forte. Si tratta di
dimensioni di significato che sottendono una certa staticità dell’essere, le persona
sembra tendere a qualcosa di definito e stabile con il superamento del problema attuale.
L’ideale di sé dunque è legato ad un essere futuro diverso da come ci si percepisce
nel momento attuale, descritto con le caratteristiche che si ammirano nelle altre persone, come la determinatezza, la sicurezza e la realizzazione personale.
Le autodescrizioni sembrano ruotare attorno a sé “oltre il problema”, che è “altro”
ed è strutturato secondo dimensioni di autoefficienza e autostima.
L’analisi delle griglie del secondo Gruppo è stata approfondita mediante l’indagine
della relazione presente tra due elementi, che nella maggior parte dei casi risultano
graficamente vicini tra loro: IO NEL LABORATORIO TEATRALE e IO IN
QUESTO MOMENTO. In questo nucleo le persone tendono a descriversi per
quello che stanno vivendo nel presente: un momento di transizione e cambiamento.
I costrutti che emergono in riferimento a questi due elementi sono legati al tema del
movimento, della ricerca, della confusione. E’ un sé timido, trattenuto, che cerca di mettersi in
gioco anche all’interno del laboratorio, di sperimentare cose nuove e di approfondire la
capacità di un contatto anche fisico con gli altri del gruppo, in atteggiamento di scoperta e
di curiosità per quel che potrebbe succedere.
Questo nucleo appare più flessibile e differenziato, ciascun individuo presenta i costrutti che ritiene rilevanti per sé in questo momento e per l’esperienza del teatro,
ma ciò che accomuna la maggioranza è l’essere appunto in cambiamento, unitamente alla paura per un percorso sconosciuto, ma in potenziale, sentendosi aperti alle
nuove situazioni da vivere.
21
gruppi nella clinica
Un ultimo aspetto posto sotto analisi è relativo all’elemento IO COME SE NON
AVESSI FATTO TEATRO. Qual è il ruolo attribuito dai partecipanti al gruppo
clinico all’esperienza del laboratorio teatrale nell’idea che hanno di sé stessi?
Dall’analisi dei costrutti emerge che la descrizione di sé come se non avessi fatto
teatro risulta lontana dal nucleo principale (positivo), e più vicina a caratteristiche
ritenute limitanti. Se non avessero fatto l’attività teatrale avrebbero qualcosa in meno,
l’equivalente di un’occasione mancata per comprendere qualcosa di nuovo su di sé.
Emergono costrutti come timido, non consapevole del proprio corpo, che ha paura del giudizio degli altri, che non ha capito molte cose, non è se stessa, limitata, più chiusa, meno spontanea,
insicura, più rigida, impacciata, incapace di gestire il ruolo, pensa di non valere, incompleta, con
un’ occasione mancata, non prova rabbia.
Questi vengono anche associati all’elemento PERSONA CHE DETESTI e in alcuni casi sono rappresentativi anche del sé nella dimensione attuale.
3.6. Conclusioni
Arrivando dunque alla sintesi dei risultati, come rispondere al quesito di fondo circa
la possibilità che l’esperienza del teatro favorisca il cambiamento? Quali le principali
somiglianze e differenze tra modo di intendere il laboratorio da parte di attori amatoriali e da parte di chi ha fatto del teatro la propria terapia?
Se tutti i partecipanti hanno inteso l’attività teatrale come possibile palestra per i
multipli del sé, diversi sono i modi in cui viene connotato l’allenamento: per il
gruppo degli attori amatoriali infatti vi è un’idea estesa, si potrebbe quasi dire distribuita sul gruppo, del personaggio e dei processi che concorrono alla sua “animazione”, lo sguardo del regista è fondamentale in tutto ciò: può apportare miglioramenti
alla credibilità della scena, è produttivo e funzionale all’automonitoraggio, individuale e collettivo. Al contrario, per il gruppo clinico la regia significa giudizio.
L’interazione con gli altri è infatti limitata dal timore di essere giudicati negativamente e non viene proprio contemplato l’occhio dell’altro nel descrivere i processi
di costruzione della scena: l’attore è infatti totalmente assorbito dalla realtà che costruisce, e si considera unico protagonista. In questo senso all’interno del laboratorio teatrale come terapia gli intervistati descrivono auspicano a se stessi la possibilità
di superare la paura di essere giudicati attraverso l’utilizzo del ruolo. Il personaggio
viene inteso come la possibilità di agire e mostrare aspetti di sé, proteggendosi con
lo schermo del ruolo impersonato.
L’analisi delle griglie di repertorio ha reso possibile un confronto tra differenti modalità di descrizione di sé nei due gruppi. Per gli attori amatoriali il teatro sembra
aver fatto nicchia nel sistema identitario: la maggior parte degli intervistati ritiene
rilevante nella descrizione di sé l’insieme delle caratteristiche positive che si attribuisce anche nel contesto del laboratorio e che sono ritenute desiderabili. Il teatro è il
luogo dove poter essere ciò che si vorrebbe, dove poter saggiare ciò che si sarà e
dove amplificare tutto ciò che si ha di positivo.
Per chi lo considera uno strumento di terapia (il Gruppo 2), il laboratorio è invece
lo spazio in cui potersi descrivere al presente più che al futuro, con i propri limiti, le
proprie rigidità, le paure di essere se stessi. Il laboratorio non è ancora
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Elena Faccio, Mara Olocco
un’esperienza che accoglie le parti desiderabili di sé, ma offre la possibilità di interpretare le proprie idee sul cambiamento. L’attività teatrale spinge invece a descriversi per come si è nell’adesso, quindi offre la possibilità di migliorare la consapevolezza rispetto a sé ed al proprio corpo. Le persone si descrivono anche come propense
a cambiare, a scoprire nuove identità e a mettersi in gioco. Questo può far pensare
che il teatro sia funzionale al percorso terapeutico in quanto favorisce la presa
d’atto di ciò che la persona sta vivendo, ma consente nello stesso tempo di non focalizzarsi troppo sul problema.
In tal senso, anche il “disturbo del comportamento alimentare” può essere inteso
(come del resto emerge anche dalle parole degli intervistati) come un insieme di
comportamenti, attitudini e atteggiamenti che non si spiegano mediante caratteristiche di personalità, ma che rispecchiano una costruzione di sé che si genera attorno
ad un ruolo (“patologico”), in funzione della situazione e degli obiettivi che la persona si pone. Nella pratica teatrale si può del resto “giocare” sulla rappresentazione
del “disturbo”, come se si trattasse di un ruolo impersonato: per esempio è possibile mettere in scena la malattia secondo un’idea di attore intenzionale che gestisce
quello che vive. Ciò permette di guardare al disagio come a qualcosa che l’attore
può governare e dirigere: non si tratterebbe più dunque di una malattia “subita”, ma
di qualcosa che possa essere ricreato e modificato attraverso la rappresentazione
teatrale.
Sulla base di quanto sino ad ora argomentato sembra plausibile pensare al teatro nel
contesto clinico come ad una risorsa, teoricamente ed epistemologicamente fondata, per produrre nuovi obiettivi e percorsi personali centrati non solo sull’individuo
ma anche e soprattutto sull’interazione. Infatti nel laboratorio teatrale l’interazione
con gli altri va ben oltre la relazione paziente-terapeuta e permette di lavorare in situazioni diversificate e non necessariamente incentrate sul “problema”. I significati
attribuiti al corpo sembrano inoltre modificarsi attraverso un’esperienza che esula
dal considerarlo esclusivamente come “corpo estetico” (colto secondo i parametri
di magrezza o grassezza, adeguatezza o meno). Nel laboratorio teatrale l’attenzione
è rivolta al corpo come canale di comunicazione con se stessi e con gli altri; attraverso il contatto corporeo viene favorita la capacità di sentirlo a guida del proprio
agire. Il corpo sperimenta la possibilità di liberarsi dalle definizioni a cui spesso è
vincolato, va oltre quei limiti e sente, si muove e si relaziona ad una nuovo senso di
libertà. La ricerca sembra infatti dirci che il percorso di emancipazione dallo sguardo esterno come presenza giudicante (condizione vera per gli attori amatoriali) possa essere favorito dall’esperienza teatrale, qualora praticata in modo sistematico e
continuativo.
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