Introduzione

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Introduzione
Metafisica, ontologia e scienza@Nella più antica organizzazione sistematica degli scritti di Aristotele (384-322 a.C.), portata a
termine nella seconda metà del i secolo a.C. da Andronico di Rodi,
i testi raccolti nella Fisica furono posti subito prima di un’altra serie,
che gli studiosi definirono ta metà ta physikà biblia (in greco ta\
meta\ ta\ fusika\ biblàa), cioè “quelli [quei testi] che vengono dopo
quelli [quei testi] sulla fisica”. Da qui la parola “metafisica”, la
quale rispecchia però non solo l’organizzazione editoriale dell’opera
aristotelica ma anche, e soprattutto, il fatto che in quei testi Aristotele trattava ciò che si presupponeva essere alla base della fisica stessa e, più in generale, di tutte le forme specifiche della conoscenza
empirica: cioè, lo studio della natura ultima di tutte le cose, di ciò
che esiste concepito nella sua totalità.
La metafisica è tradizionalmente intesa proprio come l’esame delle
caratteristiche fondamentali di tutto ciò che esiste. Nell’antica
Grecia, mancando una separazione chiara fra scienza e filosofia,
essa non aveva uno statuto autonomo. Nel corso del Medioevo,
invece, la metafisica andò progressivamente a definirsi come disciplina a sé stante e fu sempre più individuata come “regina delle
scienze”, volta a conoscere la struttura fondamentale delle cose
attraverso un’analisi a priori, cioè condotta senza riferimento a
dati sperimentali e osservativi. Con l’emergere del pensiero empirista nel xvi e xvii secolo, la metafisica perse questa preminenza,
finendo con l’assumere importanza secondaria rispetto alla scienza, intesa come tentativo di conoscere e comprendere la realtà sulla
base dell’interazione diretta con quest’ultima, cioè dell’osservazione e della sperimentazione. Questa tendenza culminò nel xx secolo in un’influente corrente di pensiero dichiaratamente antimetafisica.
Francis Bacon (1562-1626), ad esempio, pur denominando “metafisica” la scienza delle proprietà essenziali delle cose, espresse una
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convinta critica alla tradizione scolastica di stampo aristotelico e
all’enfasi da questa posta su presunte cause finali e, più in generale,
su elementi non direttamente esperibili. John Locke (1632-1704)
escluse poi la possibilità stessa di una speculazione filosofica capace
di andare oltre i contenuti della percezione individuale. E David
Hume (1711-1776), in modo analogo, basò tutto il suo lavoro filosofico sulla convinzione che è impossibile andare oltre i puri dati
sensibili, portando la filosofia empirista e, con essa, l’opposizione
alla metafisica medievale al loro massimo grado di sviluppo sistematico.
Fra il xix e il xx secolo, questo atteggiamento si fuse con una critica di tipo diverso, determinata dal fatto che la metafisica, specialmente nella forma dell’idealismo ottocentesco, era venuta a basarsi
su ipotesi e costruzioni tanto grandiose quanto soggettive e non
sulla chiarezza argomentativa e sul rigore concettuale. Tale condanna della metafisica fu espressa, ad esempio, da filosofi importanti
come George Edward Moore (1873-1958), il quale riteneva che i
grandi problemi della metafisica non fossero altro che fraintendimenti legati al cattivo uso del linguaggio e dei concetti e che la
metafisica non rappresentasse quindi che un ostacolo per una
corretta indagine delle cose.
La fusione di questi due aspetti critici, e con essa il culmine della
tendenza antimetafisica, ebbe luogo nell’ambito del neopositivismo
logico, una corrente filosofica sviluppatasi a Vienna negli anni venti
del secolo scorso (e, in forma meno ufficiale, già nel decennio precedente). Il più importante esponente di questo movimento, Rudolf
Carnap (1891-1970), sosteneva che un’analisi attenta e accurata della
metafisica mostra chiaramente che le affermazioni di tipo metafisico
sono in realtà prive di senso e che la filosofia non può che ridursi, in
ultima analisi, alla ricostruzione e alla sistematizzazione su basi empiriste della conoscenza scientifica. Questo rifiuto della metafisica era
però più che altro il rifiuto di un certo tipo di metafisica, espressa
tramite affermazioni dal senso non chiaro e definito perché quasi
“letterarie” – con il che si intende qui il loro essere basate non su dati
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di fatto verificabili e sull’argomentazione, bensì sull’intuizione e la
rappresentazione di percezioni, emozioni e intuizioni soggettive.
Ancora oggi, molti filosofi storcono il naso al solo sentir pronunciare la parola metafisica. La più o meno tacita assunzione che si trova
alla base di questo atteggiamento è che tutto quello che c’è da dire
sulla natura ultima della realtà non può che essere basato sulla scienza, per cui la metafisica rimane al di fuori del novero di quelle attività che possono portare a una genuina conoscenza, ed è conseguentemente da evitare come tempo perso. Ma anche in questo caso è
più corretto dire che ciò che si mette in dubbio è un tipo specifico
di metafisica, il quale prescinde dal confronto con il dato empirico
e procede solamente a livello concettuale, piuttosto che la metafisica nella sua interezza. Non sorprende, quindi, che la metafisica sia
stata recuperata in tempi più recenti da quella stessa filosofia (la
filosofia analitica) che si situa in continuità più o meno diretta con
la prospettiva neopositivista. Non sorprende, altresì, che ciò sia
stato fatto sviluppando la metafisica in una forma ben diversa da
quella appena descritta e, nella maggior parte dei casi, proprio come
espressione diretta di certi specifici presupposti metodologici relativi all’importanza dell’evidenza empirica.
Da una parte, la filosofia analitica assume come presupposto metodologico fondamentale l’imprescindibilità della rigorosa analisi
concettuale. Storicamente, tale approccio si è dapprima tradotto
nella chiarificazione del linguaggio, nel contesto di un interesse
primariamente interpretativo e (per usare la terminologia introdotta da Peter Strawson, 1959) “descrittivo” rispetto alla struttura del
nostro pensiero sul mondo e al nostro modo di parlare di esso. Gli
analitici hanno poi concepito lo studio del linguaggio come potenzialmente “rivoluzionario”, tale cioè da non scoprire, bensì stabilire
a quali entità ci riferiamo attraverso le nostre parole. In questo
contesto, la metafisica, anche allontanandosi dallo studio sistematico del linguaggio, è diventata un’impresa legittima anche e soprattutto nella sua forma (ancora nei termini di Strawson) “revisionista”, capace cioè di porsi anche in contrasto con ciò che può
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sembrare ovvio sulla base del linguaggio e delle nostre intuizioni di
senso comune. Dall’altra parte, si è andato progressivamente riconoscendo il ruolo insostituibile della scienza e i filosofi analitici
interessati alla metafisica sono ormai consapevoli della necessità di
misurarsi con i dati scientifici.
Allo stesso tempo, però, il rapporto fra metafisica (e filosofia in
generale) e scienza rimane complesso e ben lontano dall’essere definito in modo chiaro e univoco.
Un’idea significativa, sviluppatasi negli ultimi venticinque-trent’anni, è che la metafisica abbia senso solo nella forma di “metafisica sperimentale”. Secondo Shimony (1981), il quale ha introdotto il concetto, in certi casi una teoria scientifica e un’ipotesi
filosofica considerate insieme implicano una determinata conseguenza empirica. E quest’ultima può essere verificata sperimentalmente in modo tale che, tenendo ferma la teoria fisica, si può porre
in questione l’ipotesi filosofica. Ne segue che la scienza può avere
conseguenze metafisiche, almeno nel senso “negativo” di confutare alcune ipotesi di natura extrascientifica. Idee simili appaiono in
opere più recenti. Ladyman e Ross (2007), ad esempio, si oppongono con forza alla metafisica di tipo “scolastico” (con il che essi
intendono quella metafisica che procede esclusivamente a priori,
affrontando problemi e questioni che non hanno e non possono
avere alcun riscontro fattuale) e insistono sulla necessità di subordinare sistematicamente la metafisica a un’analisi attenta della
migliore scienza disponibile.
Sebbene l’idea di “naturalizzare” la metafisica limitandola a quelle
congetture e affermazioni che possono essere avvalorate dallo studio
empirico della realtà sia condivisibile, un’appropriata caratterizzazione della metafisica richiede però un’analisi più dettagliata.
Una prima questione riguarda che cosa funzioni esattamente come
un’ipotesi metafisica. Spesso l’oggetto di discussione dei testi che
rientrano nel novero della metafisica sperimentale/naturalizzata
sembra essere solo lo status e la validità di ipotesi che, anche se
molto generali, rimangono interamente nel dominio della scien10
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za, in quanto direttamente derivanti da specifiche teorie e testabili
sperimentalmente. Si potrebbe controbattere che asserzioni come,
ad esempio, “la velocità della luce è la velocità più alta a cui un’entità materiale può muoversi” rappresentano quanto di più generale si può arrivare a definire e a mettere in questione (o avvalorare)
sulla base di dati sperimentali. Ma dire questo equivale a rifiutare
la possibilità di ipotesi di natura non totalmente empirica. Vale a
dire, a escludere la metafisica dall’insieme delle discipline “rispettabili” in favore della scienza.
Un secondo problema riguarda l’aspetto metodologico. Un’assunzione più o meno tacita in molti autori che si presentano come
esponenti della metafisica naturalizzata è che, dato che la metafisica
come indagine a priori non ha senso, essa non può che consistere in
una sorta di “estensione” dei metodi empirici, propri delle scienze
naturali, all’ambito filosofico. Ma anche in questo caso non si fa che
presupporre senza un’argomentazione esplicita che non ci siano
ambiti di studio veramente autonomi rispetto alla scienza.
Generalizzando, ci si può chiedere se la concezione dominante della
metafisica naturalizzata non si basi su un non pienamente giustificato atteggiamento “eliminativista”, volto a ridurre la metafisica alla
scienza. In effetti, sembra quasi inevitabile diventare eliminativisti
se si nega che la metafisica abbia strumenti e concetti propri, o
comunque se la si definisce solo “in negativo”, in contrasto cioè con
la forma di metafisica (quella aristotelica e medievale) che non si
vuole perseguire e che, anzi, si considera deleteria.
Detto questo, è possibile caratterizzare la metafisica in modo meno
“estremo” distinguendola nettamente dalla scienza ma ammettendo, al tempo stesso, che essa debba essere integrata e completata
sulla base del dato scientifico. In questo contesto, la metafisica si
delinea come lo studio (a partire, ovviamente, da questioni e dati di
fatto radicati nell’esperienza) di ciò che è possibile, vale a dire di
ipotesi alternative sulla natura delle cose e di possibili risposte a
specifici quesiti su ciò che esiste. In quanto tale, essa utilizza in effetti strumenti e metodi puramente concettuali per definire categorie,
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nozioni, ipotesi e congetture. Allo stesso tempo, però, queste ultime vanno necessariamente applicate e “riempite di contenuto” sulla
base della nostra conoscenza della realtà concreta.
Così concepita, la metafisica diventa qualcosa di insostituibile: essa
è possibile, e in effetti necessaria, proprio in quanto definisce non
ciò che è vero, ma ciò che potrebbe esserlo, configurandosi così
come base fondante per la scienza stessa (cfr. Lowe, 1998). La
scienza, infatti, ha a che fare “solo” con la spiegazione di dati osservativi e sperimentali attraverso modelli e teorie dall’applicazione
più o meno limitata, funzionali alle nostre interazioni pratiche con
la natura più che alla descrizione della “realtà”. Per essere considerata più che un’impresa meramente “utile”, essa deve essere arricchita con elementi interpretativi provenienti dall’esterno. Vale a
dire, con i metodi e i concetti propri della filosofia. In poche parole, allora, la metafisica non può essere ridotta alla scienza né estratta direttamente da essa, poiché le teorie scientifiche non forniscono
la propria interpretazione e non danno una risposta a domande
sulla struttura fondamentale di ciò che esiste se non in modo indiretto, mediato dai metodi e dai concetti della metafisica stessa, che
viene quindi necessariamente a presentarsi come disciplina autonoma e non subordinata alla scienza e di fatto prioritaria rispetto a
quest’ultima. Allo stesso tempo, rimane però vero che la scienza è
necessaria alla metafisica nella misura in cui quest’ultima è intesa
come qualcosa di più di un mero esercizio concettuale e mira a
contribuire all’approfondimento della nostra conoscenza del
mondo reale.
In sintesi, come la metafisica fornisce strumenti essenziali per l’interpretazione e la comprensione della scienza, così la scienza rappresenta una sorgente di informazioni e un terreno di verifica imprescindibile per le nostre ipotesi metafisiche.
Quanto appena detto si connette direttamente a un altro elemento
importante: se la metafisica in quanto indagine sulla natura ultima
delle cose non può prescindere da un’attenta considerazione delle
indicazioni provenienti dalla scienza e deve costantemente cercare
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di supportare le proprie ipotesi e congetture sulla base di quest’ultima, diventa allora chiaro che si presuppone un atteggiamento realista sulla scienza – tale da ritenere che essa scopra almeno in parte
come stanno veramente le cose – e non una prospettiva strumentalista/antirealista – secondo cui il successo pratico della scienza non
implica che essa vada intesa come una descrizione veritiera della
realtà.
In conclusione, metafisica e scienza, seppure strettamente integrate
e complementari, sono attività distinte. E solo riconoscendo l’autonomia della metafisica rispetto alla scienza si può arrivare alla
formulazione di ipotesi cogenti rispetto a tutta una serie di quesiti,
condivisi fra le due discipline, che non solo ammettono ma, di
fatto, richiedono un approccio complesso in cui l’esame concettuale e l’elaborazione del dato empirico vanno in parallelo e si completano a vicenda. Allo stesso tempo, uno sviluppo sinergico di metafisica e scienza presuppone una valenza non meramente pragmatica
e strumentale delle teorie scientifiche.
La natura degli oggetti materiali@Nell’ambito della filosofia più
recente, la metafisica è divenuta oggetto di attento studio e di dibattito in quanto ontologia. Mentre la metafisica studia la natura ultima
di tutto ciò che esiste, l’ontologia si occupa di fornire ciò che Varzi
(2001) definisce «un accurato inventario» dei tipi di cose che esistono in domini più o meno specifici. Nella sua accezione filosofica più
generale, l’ontologia è il tentativo di fornire un accurato inventario
e una precisa descrizione della realtà nel suo complesso.
Fra le diverse questioni pertinenti all’ontologia generale, a partire
almeno dall’opera di Strawson, quella relativa alla natura degli
oggetti materiali e alle nozioni di identità e individualità delle cose,
come ben mostrato tra gli altri da Lowe (1998), è diventata centrale. In sé, tale questione racchiude molteplici aspetti. Vi sono
domande relative ai “generi naturali”, ai tipi di cose che esistono.
Ad esempio, che cosa determina l’unità e la connessione reciproca
di tutte quelle entità che indichiamo con la parola “albero”? Oppu13
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re l’ontologia degli oggetti materiali può occuparsi delle condizioni
di identità e differenza numerica delle cose, o della capacità di un
oggetto di rimanere sé stesso nel corso del tempo. Questi e altri temi
sono rilevanti (e verranno trattati nel corso del testo) ma la questione più fondamentale e di maggior interesse è un’altra. Essa concerne la costituzione interna degli oggetti, vale a dire lo studio di come
e sulla base di quali elementi fondamentali si viene a costituire un
oggetto in quanto tale.
Nel capitolo 1 si considererà la prospettiva basata sulla concezione,
per molti versi intuitiva, secondo cui un oggetto va distinto in a)
“qualcosa” di fondamentale, corrispondente all’oggetto in sé e per
sé, e b) proprietà che questo qualcosa possiede. Si prenderà poi in
esame la concezione secondo cui queste due categorie ontologiche
non sono in realtà distinte e gli oggetti in quanto tali vanno considerati come fondamentali nella loro interezza e complessità. Infine,
si esaminerà l’idea secondo la quale gli oggetti sono “ritagli” più o
meno arbitrari di un tutto quadridimensionale esteso nello spaziotempo.
Nel capitolo 2 si passerà alle concezioni ontologiche monocategoriali, tali cioè da suggerire un’analisi del concetto di oggetto materiale in termini di un solo tipo di entità. Dapprima si considererà la
visione secondo cui gli oggetti sono composti solo dalle loro
proprietà, intese come universali, entità ripetibili (capaci, cioè, di
esistere in molti posti allo stesso momento) e numericamente identiche in tutte le cose che hanno la stessa proprietà.
Il capitolo 3 si incentrerà invece sulle teorie nominaliste, le quali
negano l’esistenza di entità appartenenti a certe categorie ontologiche normalmente date per scontate e magari centrali in altre teorie.
Si prenderanno in esame: il nominalismo della somiglianza, secondo cui fra i costituenti fondamentali della realtà vanno annoverati
gli oggetti ma non le proprietà; il nominalismo basato sui “tropi”,
che suggerisce di credere solo nelle proprietà ma non si “impegna”
ontologicamente rispetto all’esistenza di universali; e, infine, una
sorta di “via di mezzo” costituita da un’ontologia di “particolari
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semplici” che sono, allo stesso tempo, delle cose concrete e delle
proprietà specifiche.
Il capitolo 4 offrirà uno sguardo più generale su altri temi rilevanti
nel contesto dell’ontologia degli oggetti materiali.
Nel corso di tutto il libro, ma soprattutto nei capitoli 2, 3 e 4, si
cercherà, sulla scorta delle riflessioni compiute in questa Introduzione, di individuare e di mostrare i risvolti empirici delle varie teorie
ontologiche e di valutarne la credibilità e l’applicabilità alla luce
della descrizione delle cose fornitaci dalla scienza.
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