54 — l’altra musica I Modena City Ramblers sbarcano a Venezia Tre concerti in laguna con Giovanni Dell’Olivo l’altra musica È stato un evento «autogestito» quanto strepitoso quello che ha visto protagonisti i Modena City Ramblers in una giornata di inizio autunno, il 26 settembre. Il gruppo emiliano, che ha da tempo sposato la causa dell’Associazione «Libera», portando le sue istanze in giro per il Paese, è infatti disceso in laguna per una kermesse lunga un giorno che ha visto l’avvio alla stazione ferroviaria di Santa Lucia, dove ha avuto luogo la prima esibizione, tra gli sguardi appassionati dei fan e la curiosità dei turisti di passaggio. In realtà il progetto nasceva da una forte motivazione civile, avendo i musicisti accolto senza esitazioni l’invito di suonare gratuitamente a Venezia in occasione della «Giornata della Legalità». E proprio a bordo della neobattezzata «Barca della Legalità» – un magnifico gozzo napoletano chiamato «Le Vagabond», il cui proprietario, Raoul Girotto, ha organizzato la manifestazione insieme a Gianni Ravarro di «Affari Puliti» e grazie alla sponsorizzazione della Nazionale Italiana Cantanti – hanno ripetutamente attraversato il Canal Grande offrendo anche a chi sostava sulle rive esecuzioni «acquatiche» dei loro brani più famosi. Dopo la ferrovia è stata la volta del chiosco delle Zattere, meta abituale per chi voglia ascoltare un po’ di buona musica, dove i Modena si sono fermati per un acclamato appuntamento pomeridiano, quando i loro sostenitori – avvertiti quasi esclusivamente dal tam tam del web – avevano già occupato, in totale tranquillità e pacatezza, gran parte della capiente fondamenta. E la performance non ha deluso le aspettative, promanando un’energia contagiosa che ha coinvolto anche coloro che stavano semplicemente passeggiando per di lì, stimolati a stare all’aria aperta da un sole benevolo e ammiccante. Poi di nuovo tutti in barca, trasportati dolcemente dallo splendido natante, che li ha condotti, lentamente e tra un dispiegarsi sereno di bandiere delle Associazioni promotrici, verso l’ultimo e più atteso appuntamento, la «Pescaria» di Rial- to. Durante il tragitto tutti hanno potuto ascoltare l’assolo del violinista, che travalicava i generi tra colti momenti di musica settecentesca e le familiari melodie dei cartoni animati anni ottanta. All’arrivo ad aspettare il gruppo c’erano già più di seicento persone, per lo più giovanissime, ansiose di sentire canzoni ormai entrate nell’immaginario collettivo come, per citarne solo alcune, «I cento passi» ed «El presidente»: i modenesi non si sono fatti ripetere l’invito, e hanno dato luogo a un concerto esplosivo e struggente, che ha mescolato con sapienza ritmi frenetici al ritornello di una sempreverde «Bella Ciao». L’iniziativa, anche grazie all’entusiasmo e al supporto degli organizzatori, è scivolata imperturbabile e senza alcun alone polemico, data anche la sua collocazione temporale: alle 21 era tutto finito, e diveniva già qualcosa di speciale da raccontare a chi non c’era. Ma i conoscitori dei Modena City Ramblers avranno senza dubbio notato qualcosa di inconsueto nella formazione: chitarrista d’eccezione era infatti Giovanni Dell’OliLa performance al chiosco delle Zattere (foto di Robyola) vo, noto e apprezzato cantautore veneziano che ha aderito con gioia alla manifestazione come testimonial di «Affari Puliti», proponendo proprio in «Pescaria» due pezzi del suo più recente repertorio, «Ernesto non fa più il medico» e «Sui terrapieni delle rotaie», cui ha aggiunto la sua originale versione di un classico popolare come «Il primo furto». Le atmosfere cantautoriali per una volta si sono mescolate al sound dinamico della band emiliana, in un mix che ha fatto immediatamente partire l’applauso. A quelle rarefatte atmosfere il compositore dovrà però tornare fra non molto, quando aprirà il concerto di Angelo Branduardi programmato il 3 novembre al Teatro La Fenice. Con il celebre menestrello del resto Dell’Olivo aveva già avuto modo di incontrarsi un anno fa, in occasione di Futuro Antico V, un evento unico accolto nella cornice impagabile del Teatro Malibran, all’interno del quale aveva interpretato quattro brani di Lagunaria, personale e fascinosa rielaborazione della nostra canzone popolare (cfr. VMeD 27, p. 29). (l.m.) ◼ l’altra musica — 55 V di Marco Rispoli erso la metà degli anni ottanta, mentre la spinta del- cadenze regolari e magari fin troppo ravvicinate, la stessa formula, per quanto gradita e attesa questa potesse essere da parte del pubblico e dell’industria culturale (e non è un caso se la stessa definizione di trip-hop venga vissuta dal gruppo come un indebito tentativo di etichettare le proprie creazioni musicali). Al contrario: ogni album dei Massive Attack ha visto la luce dopo una lunga gestazione, talora accompagnata da lacerazioni interne che culminano nell’uscita dal gruppo di Andrew Volves. Anche per questo i loro dischi di studio sono finora soltanto quattro: relativamente pochi, se si pensa ai meccanismi di un’industria discografica interessata a incitare a ritmi di produzione e consumo sempre più rapidi, addirittura istantanei. Ma l’attesa è stata ogni volta ripagata. Le loro opere si sviluppano lungo un percorso che, dalle particolarissime atmosfere dance presenti durante i primi anni, si è progressivamente spostato verso una la new wave iniziava a esaurirsi, a trasformarsi gradualmente in risacca, lasciando sulle rive d’Albione tutt’al più qualche residuo tardoromantico o neocommerciale, in un Regno Unito stremato, sgomento e oramai rassegnato davanti alle «riforme» di Margaret Thatcher, nuove energie musicali si stavano raccogliendo in certi angoli remoti del paese. Per esempio a Sud ovest, a Bristol e ancor più nei sobborghi di quella città. La englishness sembrava qui lasciare il posto a un universo postcoloniale, a un incrocio di generi che a quel tempo costituiva qualcosa di davvero inaudito. Punk, elettronica, hip hop, reggae, dub e altro ancora: erano questi gli ingredienti che confluivano nei set del Wild Bunch, un gruppo – o meglio, appunto, un «mucchio selvaggio» – composto da musicisti, dj e artisti di varia provenienza. Questa formazione aperta fu la cellula originaria di un genere musicale che, nella decade successiva, avrebbe fatto epoca, portando forse per la prima volta la città d’origine alla ribalta della cultura musicale Massive Attack britannica, accanto ad altri più celebri centri inglesi, come Liverpool o Manchester. Nascedimensione più introspettiva, giungendo a toccare un indiscusva infatti quello che poi si sarebbe chiamato «trip-hop» o anche so vertice nel loro terzo lavoro, Mezzanine (1998), in cui fin dalle «Bristol sound». scelte strumentali, che danno considerevole spazio alla chitarNel 1987 tre componenti del collettivo – Robert Del Naja (nora, è possibile osservare un avvicinamento a certe sonorità dark. to anche come «3D»), Grantley Marshall («Daddy G») e AnOra – dopo l’esperienza di 1000th Window (2003), che per alcudrew Volves («Mushroom») – davano vita ai Massive Attack, ni versi prosegue il cammino imboccato con il disco precedendiventando gli esponenti principali di quel nuovo genere mute, dopo il lavoro a diverse colonne sonore (tra cui va qui ricordasicale, assieme ai Portishead e a Tricky. L’originario eclettismo to il brano «Herculaneum», presente nella Soundtrack del film trovava allora fin dai primi singoli una definizione, un tratto diGomorra) – è imminente l’uscita del quinto album, prevista per stintivo, nel ricorso a ritmi rallentati, meditativi e ipnotici, ideale l’inizio dell’anno prossimo. Nell’attesa ci si può godere il recensupporto di cangianti influssi musicali e di contributi vocali che, te ep Splitting the Atom, che nello spazio di quattro brani ci connel corso degli anni, saranno assai vari e vedranno succedersi ai ferma la vitalità di questa formazione, suggerendo tra l’altro la microfoni, tra gli altri, Tricky, Horace Andy, Tracey Thorn (vopossibilità di una sintesi tra la matrice dance degli esordi e le sugcalist degli Everything but the Girl), Elizabeth Frazer (vocalist gestioni gotiche dei dischi successivi. E nell’atdei Cocteau Twins) e Sinéad O’Connor. tesa, soprattutto, ci si può godere un loro conL’elenco di questi nomi permette di ripercorcerto: tra breve, l’8 novembre, faranno visita rere una vicenda artistica che, a partire dal priConegliano (Tv) a Conegliano, presso l’Arena Zoppas, per una mo album Blue Lines (1991), non ha mai ceduto Zoppas Arena delle due date italiane del loro tour europeo. ◼ alla tentazione di riproporre di continuo, con 8 novembre, ore 20.30 l’altra musica In attesa del quinto album, il ritorno dei Massive Attack 56 — l’altra musica A Portogruaro la canzone d’autore di Gianmaria Testa E le tredici canzoni di Mongolfières, tutte in italiano, nella miglior tradizione autoctona, ricevono unanimi positivi consensi dal giornalismo musicale parigino, mentre da noi qualcuno snobisticamente tira fuori i nomi di Paolo Conte, Ivano Fossati, Luigi Tenco, persino Fabrizio De André, quasi a voler rimarcare un déjà vu inesistente, fino a dimostrare superficialità e pressapochismo nell’ascolto di Testa, poiché Gianmaria è tutto fuorché un clone di questo o quel di Guido Michelone cantautore rinomato. Il «cantastorie» piemontese e cosmopolita al tempo stesso, è infatti unico e singolarissimo fin i soo voluti i francesi, un quindicina d’anni fa, per dall’esordio e resta ancora precipuamente «alla Gianmascoprire il talento di un nuovo protagonista della canria Testa» dopo altri sei dischi – Extra-Muros (1996), Lamzone d’autore italiana, non più giovanissimo. Gianpo (1999), Il valzer di un giorno (2000), Altre latitudini (2003), maria Testa, cuneese di Cavallermaggiore, tipico borgo colDa questa parte del mare (2006), Solo dal vivo (2009) – due dvd e linare tra Savigliano e Racconigi, cantante, compositore, migliaia di concerti in tutto il mondo. Certo, come ogni cantautore, nessuno crea ex novo, e anche per Testa non è difficile individuare i modelli prediletti: le influenze condivise, ancora una volta, come nella tradizione dei cantautori più sofferti, delicati, intimi, profondi e narrativi, sono francesi più che italiane, quasi a riaffermare una certa priorità, nel gusto e nei richiami, ai vari George Brassens, Jacques Brel, George Moustaki, Leo Ferré. Tuttavia, alle radici della poetica di Testa risulta evidente il legame con il territorio, proprio nel senso di terra e di territorialità: sul piano musicale accetta le regole della forma-canzone, in chiave modernamente cantautoriale, aprendo ad esempio ai ritmi e alle armonie delle sonorità afroamericane novecentesche, ma guardando parimenti alla lezione dei menestrelli urbani statunitensi e magari, indirettamente, alle culture occitaniche facenti parti della cosiddetta «Pruvincia Granda», il Cuneese: autentica sub-regione di confine, che lambisce Francia, Liguria, Monferrato, Astigiano, Torinese, Alessandrino. E parlando di Cuneese come non dimenticare le Langhe con la letteratura di Beppe Fenoglio e di Cesare Pavese? A volte in Testa sembrano evocati personaggi, figure, località, scorci paesaggistici, che transitano anche dalle pagine di questi grandi romanzieri. Ma il tema del Gianmaria Testa (foto di Paolo Soriani) viaggio, che resta una costante del cantautore, è anche frutto di un’altra peculiarità dell’uomo e dell’artista: per lunghi anni Testa lavora quale capostazione e, nella memoria collettiva, i treni, i binari, le ferrovie, le chitarrista, oggi cinquantunenne, registra infatti il suo prisale d’attesa permangono quali moderni archetipi a rimarmo album, Mongolfières, nel 1995 ad Amiens, con una presticare la suggestione dell’abbandono, della lontananza, delgiosa etichetta d’Oltralpe come Label Bleu, per merito della via di fuga, di arrivi e partenze che si rinnovano e si ripela produttrice Nicole Courtois; assieme a lui a condividere tono nelle storie di ciascun essere. E ora un nuovo avvenla direzione artistica, a curare gli arrangiamenti e a suonare turoso viaggio attende Testa: un viaggio da solo, a tu per sassofoni e clarinetti c’è il giovane Piero Ponzo, a sua voltu, come nell’ultimo album, con voce e ta conteso dai Treliu (gruppo folk) e da chitarra, come ai tempi d’oro della canCarlo Actis Dato (free jazz). Sono, del zone d’autore, dove basta un’unica preresto, proprio il folk e il jazz, una delle Portogruaro senza a comunicare. Comunicare parochiavi di lettura per capire l’assoluta geTeatro Comunale «Luigi Russolo» le, musica, immagini, realtà, sogni. ◼ nialità del Testa folk-singer e story-teller. 14 novembre, ore 20.30 l’altra musica C l’altra musica — 57 Paolo Nutini: la canzone d’autore viene dal Regno Unito D l’altra musica opo il sold out realizzato due anni fa al Rolling Stone di Milano, torna in Italia per alcune date del suo tour europeo Paolo Nutini, che sarà al New Age Club di Roncade il 24 novembre. Autore raffinato, amato dai giovanissimi (e non solo), Nutini nasce in Scozia, a Paisley, un sobborgo di Glasgow, nel gennaio del 1987. Il bisnonno, in realtà, è originario di Barga (Lucca), nella Media Valle del Serchio, mentre la madre è di Glasgow. La buona occasione per questo oramai affermato cantautore scozzese di origini italiane bussa alla porta nel 2003, anno in cui il suo concittadino David Sneddon vince la prima serie di «Fame Academy», programma televi- camente attraverso il passaparola, diventano fra i più scaricati dalla rete. La major discografica Atlantic non si lascia sfuggire l’occasione e lo mette subito sotto contratto, facendogli incidere – a Liverpool con Ken Nelson, produttore dei Coldplay – il suo primo album: These Streets esce in Gran Bretagna nel 2006, anticipato dal singolo «Last Request». Dopo solo alcuni mesi, l’album supera il milione di copie vendute e da These Streets vengono estratti i singoli «Jenny don’t be hasty», «Rewind» e «New shoes». Quest'ultimo è il primo singolo per il mercato americano. Il disco è dunque un vero e proprio successo e il giovanissimo cantante viene chiamato dai Rolling Stones ad aprire la data viennese del loro «A Bigger Bang Tour». Nel 2008 la musica di Nutini entra a far parte della colonna sonora della trasposizione cinematografica del libro di Irvin Welsh Ecstasy: three tales of chemical romance, e nel 2009 esce il suo nuovo album, inizialmente previsto per il giugno del 2008: prodotto da Ethan Johns (Kings of Leon, Ryan Adams), si intitola Sunny Side Up ed è preceduto dal singolo «Candy». Paolo Nutini in concerto (foto di Andre Harry) Il disco viene registrato in diversi paesi, tra cui l’Irlansivo della BBC scopritore di nuovi talenti. A Paisley viene da, il Galles, New York, Los Angeles e i Real World Stuorganizzato uno spettacolo per celebrare il rientro in città dios, gli studi di Peter Gabriel a Bath. Si tratta di un aldi Sneddon, che, in viaggio da Londra, è però in forte ritarbum pieno di buoni sentimenti e suoni abbaglianti – redo per i festeggiamenti. Un dj di una radio locale, vedengalo dei Vipers, la band di Nutini – tessuti insieme alla do che il pubblico comincia a innervosirsi, decide di salivoce soul e ipnotizzante del giovane musicista, una delre sul palco improvvisando un quiz, il cui vincitore potrà le più particolari a essere uscite dal Regno Unito in quecantare un paio di canzoni durante l’attesa. E Nutini, nosti anni e che continua a guadagnare larghi consensi da nostante le iniziali reticenze ad esibirsi, sale sulla scena e pubblico e critica. Se «Candy», il primo singolo, è soffervince. Il pubblico va letteralmente in visibilio ascoltandota e allo stesso tempo meravigliosa, altri momenti di riliene la voce e le sonorità, che rimandano a chi maggiormenvo emergono da Sunny Side Up, come ad esempio lo swing te ha influenzato la sua musica: i Beatles, David Bowie, i soul di «Coming Up Easy» e le sonorità di «Pencil Full Pink Floyd, gli U2, gli Oasis… Ed è proprio in questa ocOf Lead», in cui la voce di Paolo scivola, colpisce e stride casione, vero caso del destino, che un manager lo nota. Ha seguendo ardite linee melodiche, rimbalzando qua e là al così inizio la sua carriera. meglio di sé; ma anche «Worried Man», A diciassette anni si trasferisce a Lonun’ode straziante accompagnata da una dra, dove comincia a esibirsi nei locali della città. Ma la vera svolta arriva gra- Roncade (Tv) – New Age Club compagine di archi. Per le date italiane… si preannunciano nuovi sold out. (i.p.) ◼ zie a internet: un paio di suoi brani, uni24 novembre, ore 20.00 58 — l’altra musica «Tonight: Franz Ferdinand» A Jesolo l’appuntamento con la band scozzese U l’altra musica n tour che loro di John Vignola stessi definiscono incandescente, una Jesolo (Ve) serie di concerti, su e giù per Palazzo del Turismo l’Europa, e la voglia di pen8 dicembre, ore 21.00 sare già a «nuovi progetti». Questi sono i Franz Ferdinand: probabilmente la migliore pop-rock band in circolazione oggi. Con il loro nuovo album, hanno dimostrato pure la tenuta su strada di un progetto aperto a curiosità e a riferimenti lontano dal puro e semplice r’n’r. Con poche battute Alex Kapranos ha raccontato come stanno andando le cose in un periodo così movimentato. Il vostro nuovo disco, Tonight: Franz Ferdinand, dal vivo viene fuori meno sottile e un po’ più arrabbiato. Una scelta pianificata? Crediamo che un album e un concerto siano due cose parecchio diverse fra di loro. L’energia dell’esibizione è un punto di forza, a cui non vorremmo mai rinunciare. Così, si perdono chiaramente certi dettagli, ma almeno si propone qualcosa di diverso dall’ascolto a casa, o in cuffia. A questo proposito, la generazione dei vostri fan pare aver abbandonato definitivamente lo stereo da camera per le cuffie dell’iPod. Un bene o un male? Nessuna delle due cose. I Walkman esistono da più di vent’anni. Mi pare che oggi la musica sia dappertutto, ovvero che non le manchino le occasioni di farsi sentire. I giovani non sono così disattenti però bisogna conquistarli, essere sinceri con loro. E la fine del cd, allora? Non comporta un ulteriore problema? Non mi sembra. C’è molto spazio per ascoltare canzoni, oggi. Il problema è rimanere vigili, fare davvero rock. La crisi è ai piani alti, non alla base. Non bisogna mica credere a tutto ciò che si legge. Ovvero? Ovvero le vie di fuga esistono ancora. I concerti resistono, e pure il rock. C’è parecchia crisi, non solo economica, ma di orizzonti, di sicuro. Ma la si può combattere. Anche con il rock, che come mi dice, esiste? Noi abbiamo fatto un album per uscire dalla nostra crisi. Ci siamo poi messi in tour e oggi siamo pieni di idee per il futuro. Piove, è vero. Ma non è la disperazione il modo giusto per andare avanti. Come va il tour? Alimenta questo ottimismo? Era importante per noi arrivare sui palchi pieni di energie. Così è stato. È presto per fare un vero e proprio bilancio, ma i live funzionano. Ci stiamo divertendo e questo è l’essenziale. Nelle canzoni il suo stile è sempre più distaccato, quasi amaro. È una riflessione sul suo mondo, o in generale sul momento che stiamo attraversando? Le due cose coincidono. Mi spiego meglio: con la band abbiamo vissuto momenti difficili comprensibili, quasi fisiologici. Abbiamo alzato barriere fra di noi, come se non fossimo veramente amici. Diciamo che il cd è stato una specie di reset rispetto alle aspettative che avevamo quando abbiamo cominciato. Quali altre aspettative avevate, oltre al successo? La presunzione di gestirlo bene. Invece, è difficile riuscire a stare in equilibrio sull’onda del successo. Ora siamo meno poetici e più concreti, ma non rinunciamo a tenere in piedi la band. Per questo, come le dicevo, rimaniamo ottimisti. Progetti imminenti? Suonare e ancora suonare. Il resto viene da sé. Non siamo una multinazionale, quindi puntiamo sulle energie piuttosto che sui piani a lunga scadenza. ◼ l’altra musica — 59 La VI edizione del San Servolo Jazz Meeting G iunge alla sua sesta edizione il San Servolo Jazz Me- eting, uno fra gli eventi più originali di questo nuovo autunno musicale veneziano. In programma, un confronto tra il jazz italiano e quello internazionale, che porterà in laguna le migliori note della scena contemporanea nelle sue differenti formazioni, dal solo per pianoforte al duo, dal trio al quartetto. La rassegna apre il sipario il Venezia 5 novembre con una prima asIsola di San Servolo soluta: si tratta del trio formato 5, 12, 21, 26 novembre dal sassofonista Michael Blake (già ospite a San Servolo qualche anno fa e recente collaboratore di Enrico Rava), dal contrabbassista Ben Allison e dal batterista Hamid Drake. Il 12 novembre lo spazio acustico si apre invece al pianoforte solo, con uno dei maestri del jazz italiano, Franco D’Andrea, musicista dell’anno 2008 per il prestigioso «Top Jazz», artista che dall’avventura dei Perigeo al suo recente quartetto ha sempre rappresentato l’eccellenza della nostra musica. Sabato 21 approderà a San Servolo un duo che metterà in contatto due delle scene maggiormente attive del jazz di oggi, quella di Chicago e quella norvegese: i sassofoni e i clarinetti di Ken Vandermark incontreranno infatti uno dei batteristi più talentuosi della new wave scandinava, Paal Nilssen-Love. La chiusura della rassegna, il 26 novembre, spetta al quartetto Tinissima, che, con l’omonimo disco, giunse secondo al «Top Jazz» del 2008: Tinissima è l’omaggio in musica a Tina Modotti da parte del sassofonista Francesco Bearzatti insieme alla tromba di Giovanni Falzone e alla sezione ritmica composta da Danilo Gallo e Zeno De Rossi. Quattro appuntamenti per altrettanti modi di rileggere il jazz, tra ricerca e tradizione. (i.p.) ◼ Ken Vandermark «Half The Fun» nuovo disco per il Franco D’Andrea Quartet S ebbene costantemente riconosciuto dall’amore del pubblico – e come si potrebbe non volere bene a un uomo e un artista così signorile? – e dalle classifiche della critica, Franco D’Andrea rimane per certi versi un jazzista ancora sottovalutato. Una delle ragioni si può forse trovare nella sua pur corposa e fondamentale discografia, disseminata tra tante etichette più o meno piccole, strategia che di certo non ha contribuito, pur nella straordinaria qualità musicale, a «rafforzarne il brand». Fa quindi doppiamente piacere trovare il pianista di Merano, alla testa del suo quartetto, in un nuovo disco di l’altra musica Un’isola a tempo di jazz Franco D’Andrea Quartet un’etichetta giovane, ma dalla forte personalità, come El Gallo Rojo, fondata anche dal batterista della band, il veronese Zeno De Rossi. Colpisce, in questa nuova prova del quartetto (un concerto registrato in Piemonte nel settembre del 2008), la qualità quasi telepatica che contraddistingue le tante strategie improvvisative messe in atto dal pianista: tutto il gruppo, completato dal sassofono obliquo di Andrea Ayassot e dal solido contrabbasso di Aldo Mella, si muove dentro un costante stato di tensione esplorativa, unendo con spettacolari traiettorie sonore, il Lennie Tristano di «Turkish Mambo» e una vecchia composizione di D’Andrea come «Via Libera», il blues alla libera improvvisazione, i dioscuri Duke Ellington e Billy Strayhorn. Ne esce un lavoro di straordinaria intensità musicale, nel quale l’equilibrio tra le differenti componenti, i pesi degli spazi solistici in rapporto ai piani sovrapposti dei collettivi, sono calibrati con una sapienza davvero rara anche in una scena talentuosa quale quella del jazz italiano di questi anni. Un esempio per tutti? La sapiente costruzione della title-track, che pur avendo cinquant’anni (era nello splendido disco Such Sweet Thunder di Duke Ellington) diventa un coloratissimo ponte verso la musica del futuro. Franco D’Andrea rimane il jazzista al tempo stesso più maturo e più esplorativo della nostra musica: in questa solo apparente contraddizione sta la sua statura. (e.b.) ◼ 60 — l’altra musica «Il Nuovo Canzoniere Italiano»: la rivista di Gualtiero Bertelli In questo percorso, che da un anno segue il filo della memoria e delle emozioni, piuttosto che quello della storia e della cronologia, abbiamo già incontrato alcuni degli attori principali della straordinaria avventura che porta il nome di Nuovo Canzoniere Italiano: Gianni Bosio e Roberto Leydi, interpreti di primaria importanza in quella eccezionale stagione, ma anche Ivan Della Mea, Sandra Mantovani, Fausto Amodei e altri. Nei diversi articoli abbiamo attraversato alcuni momenti di questa vicenda. Mi pare sia giunto il momento di rimettere un po’ in fila i principali eventi, in modo che anche chi, per la giovane età o per altri interessi culturali, non ha potuto avvicinarsi quarant’anni orsono (!!) a questo percorso culturale, possa averne oggi un’idea quanto meno coerente, seppure necessariamente sommaria. Quindi, a partire da queste righe, cercherò di condurvi attraverso le vicende politiche e culturali che caratterizzarono la nascita e la vita del NCI. (g.b.) stazione, che solo in parte permarrà nello sviluppo successivo, l’esperienza degli ultimi «Cantacronache», tutta spesa sul fronte della raccolta di canzoni politiche, in Italia e in altri paesi, senza alcuna pretesa di ordine scientifico. Il titolo viene proposto da Leydi, per collegarsi esplicitamente ai vecchi canzonieri socialisti e, «concepito come una rivista, “Il Nuovo Canzoniere Italiano” nasce senza lunghe discussioni teoriche. Impaginato da Franco Magnani, in quel momento grafico presso le Edizioni Avanti!, è stampato in multilith, volendo forse riecheggiare analoghe riviste americane, per esempio “Sing out”».5 Il primo numero venne stampato in cinquecento copie e successivamente ristampato; i numeri più fortunati della rivista vendettero tre-quattromila copie. Benché l’editoriale avesse dato un taglio notevolmente ascientifico alla «linea» della rivista, e forse proprio perché na- l’altra musica I n principio erano le Edizioni Avanti! Le storiche edizioni del Partito Socialista, risorte dopo la Liberazione, rivelarono fin dai primi anni cinquanta un certo interesse per il mondo popolare e nel 1958 l’impegno si fece più preciso, con l’apertura di una nuova collana, «Mondo popolare», diretta da Roberto Leydi. La prima pubblicazione è Marionette e burattini1 di Roberto Leydi e Renata Mezzanotte Leydi ed è un libro di 550 pagine, di ottima veste grafica che raccoglie testi dal repertorio classico del teatro italiano delle marionette e dei burattini. Seguono, sempre con vesti grafiche piuttosto inusuali per le spartane edizioni socialiste, La piazza,2 spettacoli popolari descritti e illustrati da diversi autori, i già citati Canti della Resistenza Italiana con allegato relativo disco e Questa sera grande spettacolo,3 storia del circo italiano di Alessandro Cervellati. Ma la scelta che portò alla svolta definitiva all’interno delle Edizioni, facendo divenire centrale l’interesse per la cultura del mondo popolare, fu la pubblicazione della rivista «Il Nuovo Canzoniere Italiano», il cui primo numero uscì nel luglio del 1962. «“Il Nuovo Canzoniere Italiano” è stato prima di tutto il titolo di una rivista nata per avviare, a lato di una saggistica specifica riservata a sedi più opportune, una nuova misura dell’interesse della cultura italiana per i documenti e i problemi relativi a quei dati della cultura non ufficiale (nel nostro caso canzoni) che testimoniano la protesta politica e sociale in prospettiva storica e nello stato attuale. Accanto a testi raccolti nel nostro paese, il “Canzoniere” pubblicherà documenti politico-sociali di altre nazioni e di altri continenti, secondo suggerimenti di attualità e riferirà anche sul lavoro creativo, in Italia e fuori d’Italia, di quegli autori e di quei cantanti che si dedicheranno a creare, su temi vecchi e nuovi, canzoni che al filone del documento politico s’indirizzano. Da tutto ciò dovrebbe uscire, è nostra speranza, un quadro quanto mai ampio e suggestivo, magari con intenzioni, qualche volta, di esplicita provocazione».4 Così si presenta la nuova rivista ai suoi lettori nell’editoriale non firmato del primo numero e, poiché i curatori del fascicolo sono Roberto Leydi e Sergio Liberovici, possiamo ritenere che questa sia la linea sulla quale è stata avviata la nuova pubblicazione. Infatti non è difficile scorgere in questa impo- ta senza lunghe discussioni teoriche, essa porta già al suo interno i semi del disaccordo che esploderà tra i due curatori e che porterà all’uscita dall’impresa di Liberovici. L’occasione della rottura tra Leydi e Liberovici è data da un concerto di Sandra Mantovani, nel giugno del ‘62, al Teatro del Popolo della Società Umanitaria di Milano, mentre si stanno ancora correggendo le bozze del primo numero della rivista. In quell’occasione la Mantovani ricantò per la prima volta in pubblico alcuni dei canti politico-sociali trovati nelle recenti ricerche sul campo, cercando di riproporre gli elementi stilistici costituivi delle esecuzioni originali, effettuando quel «ricalco filologico» dei modi esecutivi popolari di cui abbiamo a lungo parlato in precedenti articoli. Questa impostazione contrastava nettamente e con l’attività di riprosta sino ad allora realizzata dai «Cantacronache», e con gli interessi più volte esplicitati da Liberovici, che non nutriva alcuna propensione per il folk-revival. Dal canto suo Leydi considerava le modalità esecutive proposte da Liberovici, ed attuate da molti cantanti di «Cantacronache», legate a modelli interpretativi teatrali borghesi. Questa differenziazione oggi, ai nostri occhi, può sembrare futile. Ma allora non fu vissuta come tale dalle parti, e portò all’allontanamento di Liberovici e Margot dal gruppo di Milano, con il quale, per altro, continueranno a collaborare altri ex «Cantacronache» come Amodei, Amedei e Straniero. A questo punto la guida della rivista rimase a Leydi che imprimerà alla stessa e a tutto il lavoro del «Nuovo Canzoniere Italiano» una linea di sviluppo che segnerà profondamente i primi tre anni di vita dell’esperienza. Da gennaio ‘63, quando esce il secondo numero firmato dal solo Leydi, al settembre ‘65, quando si conclude la collaborazione dello stesso con la rivista, vengono pubblicati cinque numeri del «Nuovo Canzoniere Italiano», con un regolare andamento semestrale. L’impostazione originale, un po’ casuale, viene corretta e, anche se sarà sua caratteristica peculiare affrontare argomenti tra loro molto diversi, cionono- stante si consoliderà come strumento di discussione critica, alternando i risultati della ricerca sul campo con momenti di riflessione teorica rivolti all’interno ed all’esterno del movimento. Altro indicatore dell’influenza di Leydi è lo spazio sempre maggiore riservato alla canzone popolare non immediatamente di segno politico e la teorizzazione a tutto campo della riproposizione filologica del canto popolare. In proposito un Cesare Bermani piuttosto lontano da quello che conosceremo qualche anno dopo, stendendo il resoconto della prima rassegna dell’Altra Italia (Milano 6 marzo – 29 maggio 1964), scriverà: «Il momento più avanzato nella ricostruzione del canto popolare è, a nostro avviso, rappresentato da Sandra Mantovani, specializzatasi nell’esecuzione di antiche ballate dell’Italia settentrionale e nel canto politico padano. Ascoltandola, ad esempio, nell’esecuzione di “L’Italia l’è malada” ci si rende conto di quale lavoro di interpretazione e di creatività richieda la ricostruzione di un canto popolare. L’individuazione del carattere di esso, elaborato poi nella conservazione della sua fisionomia tipica, permette a Sandra Mantovani di creare una nuova canzone in cui siano esaltati e resi espliciti gli elementi distintivi di questa forma di espressività. Così “L’Italia l’è malada”, pur tanto radicata nella tradizione del canto protestatario padano, potenzia nella ricostruzione la carica di aggressività, accentua la propria caratteristica di invettiva cantata. Lo sforzo di approfondimento di modi popolari contraddistingue anche Giovanna Marini, Maria Teresa Bulciolu, Caterina Bueno, nelle cui esecuzioni è palese la ricerca di un giusto rapporto con la tradizione. Preoccupazioni di questo genere ci sono invece sembrate assenti nell’esecuzione dei canti veneti della pur dotata Luisa Ronchini, che ha una certa simpatia per il modo di cantare di Margot». 6 Siamo a circa un anno dalla vicenda del primo disco di Luisa, di cui ho scritto nel n. 28 di VMeD, e già prendono forma le critiche che resero così complicata la vita del neonato «Canzoniere Popolare Veneto». Sei mesi dopo Leydi firmerà il sesto, e per lui ultimo, numero della rivista, interamente dedicato alle «Proposte per una nuova canzone», dopo del quale si aprirà quella polemica attorno ai temi sopra citati a cui ho fatto cenno più volte e che porterà a una insanabile rottura all’interno del Canzoniere. La rivista continuerà, con alterne fortune e soprattutto con incerta frequenza, fino alla seconda metà degli anni settanta, con la pubblicazione di una terza serie costituita prevalentemente da numeri monografici in cui la funzione primaria di Canzoniere si riduce a favore di lunghe riflessioni sulla propria storia. Un segno chiaro del declino che sta prendendo il movimento, proprio quando i nostri concerti riempivano piazze e teatri. Ma questo è un altro pezzo della storia. I primi dieci numeri della rivista, quelli della prima serie che va dal 1962 al 1968, sono stati riediti anastaticamente dall’Editore Mazzotta e dall’Istituto Ernesto De Martino, in un unico volume nel 1978; se vi capita dateci un’occhiata. È la documentazione più viva e stupefacente di quell’incredibile avventura. ◼ Nelle immagini: copertina del primo numero della rivista, luglio 1962 (fascicolo già di proprietà di Luisa Ronchini); Marcia della pace. Domenica 24 settembre 1961 ebbe luogo la prima marcia della pace Perugia-Assisi. Ad essa parteciparono anche Fausto Amodei e Franco Fortini, visibili nella foto della pagina di destra. In quell’occasione scrissero e cantarono la «Canzone della Marcia della pace», riprodotta in questa doppia pagina del «Nuovo Canzoniere Italiano» n. 1. 1. Roberto Leydi-Renata Mezzanotte Leydi, Marionette e burattini, Milano, Edizioni Avanti!, 1958. 2. A.G. Bragaglia e altri, La piazza, Milano, Edizioni Avanti!, 1959. 3. Alessandro Cervellati, Questa sera grande spettacolo, Milano, Edizioni Avanti!, 1961. 4. Tratto da «Un canzoniere», editoriale del «Nuovo Canzoniere Italiano» n. 1, 1962. 5. Cesare Bermani, Dalla cultura contadina alla cultura urbana, in «Il Nuovo Canzoniere Italiano» dal1962 al 1968, op. cit., pp. 7-8. 6. Cesare Bermani, L’altra Italia, in «Il Nuovo Canzoniere Italiano», n. 5, Milano, Edizioni del Gallo, febbraio 1965. l’altra musica l’altra musica — 61 62 — l’altra musica Da Lisbona a Venezia Teresa Salgueiro e Mafalda Arnauth L’ex voce dei Madredeus e la stella del fado si raccontano di Guido Michelone l’altra musica I l rapporto tra la città di Venezia e la grande musica popolare lusitana che, da circa un secolo in qua, si rivela soprattutto nel fado di Lisbona, è abbastanza simile a quanto avvenuto nel resto d’Italia: attorno agli anni sessanta c’è l’innamoramento (peraltro corrisposto) verso Amalia Rodrigues, senza dubbio la maggior fadista del XX secolo, che, oltre un memorabile recital in laguna, registra anche tre album dedicati al nostro Paese: A una terra che amo (’73), In Italia (’74), In teatro (’77). Poi occorre aspettare gli anni novanta per trovare un analogo entusiasmo verso altri artisti portoghesi, dapprima con il gruppo Madredeus, quindi, dal duemila, con le cantanti Bévinda, Misia e Dulce Pontes, che però simboleggiano l’incontro fra le tradizioni locali e la world music. Oggi invece, il fado autentico è tornato al centro dell’attenzione in tutto il Portogallo e non è difficile presagire la calata a Venezia e in Italia, come già in parte avvenuto nei mesi scorsi, delle nuove cantanti, belle e bravissime, come Maria Ana Bobone, Mariza, Ana Moura, Katia Guerreiro, Cristina Branco e come Teresa Salgueiro (già vocalist dei Madredeus) e Mafalda Arnauth, interpreti-autrici-musiciste che si prestano volentieri a parlare di questa preziosa sonorità simboleggiata dal fado portoghese. Teresa, conosci bene Venezia? Ci ho cantato una sola volta con i Madredeus tanti anni fa, ma ho impara- Teresa Salgueiro to a conoscerla mentre registravo un disco, O Paraíso, con i Madredeus in uno studio a Modigliano, poco fuori dal centro. Ma nei momenti di pausa, in gondola o sul vaporetto, mi sono incuriosita a girare per i canali e a scoprire angoli bellissimi della città. Ho avuto il tempo giusto per passeggiare «sull’acqua». Tu vieni da Lisbona, che, come Venezia, è una città d’acqua... Se mi parli di mare, le differenze però sono notevoli: l’Atlantico è molto forte, mentre l’Adriatico è più tranquillo, ma a Lisbona c’è il delta del fiume Tejo, che però è come un piccolo mare, e dunque un po’ più tranquillo dell’Oceano; e in questo forse c’è somiglianza tra le due città. A parte Venezia, da pochi mesi è uscito il tuo nuovo disco, Matriz, in cui è forte la presenza del fado. L’avevi mai cantato, prima? A parte le serate da ragazzina nelle Case del Fado della vecchia Lisbona, avevo registrato un paio di fado nel disco di Antonio Chainho, un maestro della «guitarra portugueisa». E perché proprio ora ti sei dedicata al fado? Da solista, per me, si tratta della prima volta assoluta, e il motivo riguarda il desiderio di un disco, tutto mio, che vuole celebrare la ricchezza, la diversità della cultura lusitana antica. E il fado in mezzo a quasi mille anni di musica portoghese dev’essere presente, perché è la musica urbana di Lisbona lungo il Novecento, che ha influenzato tutta l’altra musica della nazione. Il fado, nell’immaginario, significa Lisbona, una città che è sempre stata cosmopolita non solo verso l’esterno, con la presenza di indiani, africani, brasiliani, ma anche per il resto del Paese, visto che ha attirato numerose popolazioni dell’interno; e il fado riflette indirettamente questo cosmopolitismo sia internazionale sia regionale. In Matriz canti un brano del repertorio della regina del fado, Amalia Rodrigues... Con Foi Deus ho tentato di rappresentare la forza della figura della Rodrigues che, per prima, ha introdotto la poesia nel fado; all’inizio i testi trattavano dei temi comuni, dalla gelosia alla vita quotidiana, mentre Amalia ha avuto la capacità di ispirare nuovi artisti, prendendo antiche poesie e accostandole a nuove musiche, oppure ispirando gli scrittori che hanno composto per lei, come Alain Oulman. L’hai conosciuta di persona, Amalia? Sì, l’ho incontrata in tre occasioni diverse, sempre a casa sua, perché la sua agente in Giappone Keiko Nakamura, negli anni novanta, era anche la nostra, come Madredeus. E questa signora mi accompagnò a casa di Amalia e fu un momento indimenticabile: raccontava migliaia di storie, dalle tournée ai paesi visitati, attraverso quel grande viaggio che è stata la sua vita. Ma le tue fonti ispirative vanno anche oltre il fado... Già agli esordi con i Madredeus facevamo una musica che non era fado ma che univa antico e moderno, proprio per il nostro desiderio di interessarci a differenti sonorità. Le mie collaborazioni da solista poi ti mostrano come io sia aperta a tanti aspetti sia classici sia contemporanei. E personalmente amo ascoltare, anche in privato, il melodramma, la musica antica, persino quella d’avanguardia. E dunque, in tal senso, il tuo cd è un omaggio a tutta la storia della musica portoghese? Forse omaggio è troppo, detto così. Direi che Matriz è piuttosto la volontà di esprimere una ricchezza artistica che esiste ma che si deve scoprire, perché il canzoniere popolare lusitano è bellissimo, ma è dimenticato; ci sono brani stupendi che ora vengono eseguiti solo da gruppi locali, senza arrangiamenti. E quindi io volevo fare un disco che fosse molto portoghese, con le canzoni in cui mi identifico, cer- cando, come ti dicevo, di offrire una visione della molteplicità delle musiche portoghesi. E quindi sei contenta del tuo lavoro da solista? Sì, perché è completamente diverso dai due precedenti, che erano ancora prodotti da Pedro Ayres Magalhães, che è anche il leader dei Madredeus, che ho lasciato perché mi imponeva un contratto in esclusiva di sette anni e io sentivo invece di avere la volontà (e la capacità) di cantare altre cose. Che obiettivi ti poni? Devo cercare la mia personalità, un nuovo cammino da costruire passo a passo. Sono per la prima volta fuori dal gruppo ed è il primo stadio di un percorso che spero sia lungo. Il mio obiettivo comunque è celebrare la gioia di essere portoghese, di una cultura al contempo antica e variegata. Il Portogallo è la frontiera più arcaica dell’Occidente, immutata da novecento anni, anche se prima sono arrivati i Fenici, i Romani, gli Arabi, persino i Celti al Nord. Pur essendo poco esteso, il Portogallo è un paese con tante regioni, magari piccolissime, e io voglio captare l’essenza di questa diversità. Per questo termino l’album con l’opera di tre compositori novecenteschi, assai diversi tra loro, ma tutti in un rapporto molto intimo con la poesia, la musica, le tradizioni lusitane. Passiamo ora, quasi senza soluzione di continuità, a conversare con un’altra grande interprete come Mafalda Arnauth. Mafalda, come ti senti a essere considerata la nuova stella del fado portoghese? Sono particolarmente felice perché sono momenti importanti nella carriera di un’artista. Mi spinge a continuare, a dare del mio meglio e a rendermi degna di tutti i miei sforzi e della mia dedizione, soprattutto in un momento di tanti talenti e tante nuove proposte, in particolare nell’universo della musica portoghese. È un piacevole incentivo al mio percorso. Nel 2004 ho creato una casa discografica per meglio curare la produzione dei miei dischi. Credo che l’aspetto più sorprendente della musica a cui lavoro sia davvero poter cantare le mie parole, che quindi, a loro volta, hanno un messaggio molto personale e caratterizzato. Sei molto bella, ma, sinceramente, quanto ha influito la bellezza fisica nella tua carriera? Io dico spesso che «la vita è bellezza», non solo in senso estetico, chiaramente, ma anche per il fascino che si rivela nella quotidianità! E io canto la vita, così come naturalmente tutto quello che faccio e come lo faccio, come mi rappresento: ci deve essere questo senso di armonia, e la bellezza dell’anima che si trova dentro di me deve essere un fedele riflesso verso l’esterno. Se tu dovessi spiegare il fado a un veneziano, che cosa diresti? Direi che anche se uno straniero non riesce a comprendere pienamente la bellezza della parola portoghese, c’è qualcosa di universale, in questa musica, la poesia, che riflette l’essere umano in tutte le sue dimensioni. Come tutti gli esseri umani, noi abbiamo in comune gli stati d’animo, umorismo, amore, tristezza, dolore, gioia, e quando qualcuno li canta per raggiungere il cuore di chi è sensibile, ecco cos’è il fado: trasmettere la vita attraverso il canto e farla percepire al di là di ogni barriera culturale, linguistica, ideologica. Ma per Mafalda Arnauth cosa rappresenta esattamente il fado portoghese? Il fado è la vita; ed è la mia vita, in particolare, che trovo in altri, che vedo accadere intorno a me, nella sua forma più semplice, o nelle situazioni più complesse. E tutte le emozioni che ci capitano semplicemente per il fatto di essere vivi. In parallelo al tuo successo, ad esempio con il tuo più recente album Flor de fado, c’è, in questi ultimi anni, un ritorno al fado tradizionale, che ha pure un grande successo nel mondo. Come spieghi questo amore per il passato? Ti ho parlato di emozioni universali che trovo nel fado, così sento anche che ci sia qualcosa fuori dal tempo. E il lato molto umano di questa musica è decisamente attraente per il pubblico, perché in un momento di freddezza, di sgomento o di distanza tra le persone, il fado si impone quasi come una forma di terapia, che consente al pubblico di gridare, ridere, commuoversi e provare sentimenti anche con una semplice canzone, ma solo quando chi la interpreta mette tutta la sua vita nel cantarla. E penso che sia questa «tradizione» ad affascinare e sedurre il mondo intero. Hai lavorato con altri musicisti portoghesi? E chi preferisci tra i giovani cantanti? Ho avuto qualche occasione di collaborare con loro, ma non come vorrei. Vado a molti concerti, mi piace applaudire il lavoro di altre persone e mi piace avere l’ispirazione anche attraverso il loro talento. Fortunatamente oggi in Portogallo ci sono molti giovani artisti: oltre quelli a che conosci, Camané, Carminho, Joan Almond, Helder Moutinho, Antonio Azambuja, Marco Rodrigues. Spero un giorno di diventare un punto di unione tra le idee e i progetti che avvicinano queste voci. Come avverti quindi la situazione del fado, della musica e della cultura in Portogallo, oggi? Credo che la musica non sia considerata come un elemento fondamentale, e ciò mi rattrista molto. Nella crisi che stiamo vivendo, la musica, che potrebbe essere un balsamo e uno stimolo per la società, è quasi un lusso al quale pochi hanno accesso e che lascia troppi musicisti senza lavoro e senza equilibrio. Credo che sia urgente sentire la musica e la nostra cultura come parte del patrimonio nazionale, della nostra ricchezza, per renderle disponibili a tutti, salvaguardando anzitutto la dignità degli artisti. ◼ Mafalda Arnauth l’altra musica l’altra musica — 63 fnv / matteo pellizzari Luma, photo courtesy Sebastiano Casellati A Venezia scorre una nuova intensità: Caffè Vergnano 1882, a Rialto, in Campo dell’Erbaria. Una caffetteria e pasticceria affacciata sul Canal Grande, dove sorseggiare un caffè fumante oppure leggere un libro, ascoltare un concerto, godere di una mostra fotografica o di arte contemporanea, navigare online o pranzare. PROGRAMMAZIONE EVENTI NOVEMBRE-DICEMBRE 2009 Caffè Vergnano 1882 Venezia Rialto caffè, pasticceria, sandwich, cocktail, libri, arte, design Venerdì 20 novembre ore 19.30 Federico Stragà canta FRANK SINATRA, Federico Stragà e Paolo Vianello, voce e piano Campo dell'Erbaria, Rialto, San Polo 129 Tel. +39 041 2770948 www.caffevergnano1882veneziarialto.com www.caffevergnano.com JAZZ CAFE' CAFFE' LETTERARIO Venerdì 6 novembre ore 19.30 Luigi Vitale e Alvise Seggi, vibrafono e contrabbasso Giovedì 5 novembre ore 18:00 Federico Moro, autore, e Alessandro Tusset, editore, presentano La Bisbetica Domata - Edizioni Elzeviro Venerdì 13 novembre ore 19.30 Lorena Favot e Massimo Zemolin, JAUNTY JAZZ duet, voce e chitarra Giovedì 12 novembre ore 18:00 Filippo Caburlotto, autore, e Massimo Andreoli, presidente Consorzio Europeo Rievocazioni Storiche, presentano Venezia Immaginifica - Edizioni Elzeviro Venerdì 27 novembre ore 19.30 Alessia Obino e Domenico Caliri, DUKE ELLINGTON’S SOUND OF LOVE, voce e chitarra Giovedì 3 Dicembre 0re 18:00 Renato Pestriniero, traduttore, e Beppe Vanzella, collezionista e storico della fotografia, presentano Vita Veneziana (Venetian Life) di W.D.Howels - Edizioni Elzeviro La programmazione proseguirà a dicembre con un concerto ogni venerdì dalle 19.30 in poi. Ogni sabato dalle 19:30 Lounge & Coffee Music con i Kj's Chicco e Joao Camisola. Giovedì 10 Dicembre 0re 18:00 Claudio Dell'Orso, autore, e Alessandro Tusset, editore, presentano Nero Veneziano Edizioni Elzeviro