Storia della filosofia occidentale. II. Età moderna. Montaigne

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Mario Trombino
Storia della filosofia occidentale. II. Età moderna
Michel de Montaigne
Il contesto storico e culturale
Nella Francia del Cinquecento l'umanesimo ricevette notevole impulso dall'influenza culturale che ebbero l'Italia e la sua cultura. I
rapporti tra i Francesi e gli Italiani furono molto stretto per un lungo periodo, tra la fine del Trecento e l'inizio del Cinquecento, sia
per ragioni commerciali che politiche, essendo i Francesi impegnati a fondo nella penisola. Questo rapporto divenne invece assai
meno diretto, nonostante il persistente interesse della Francia, quando la penisola passò di fatto sotto il controllo della Spagna.
Questo accadde a partire dalla celebre battaglia di Pavia del 1525, quando la migliore cavalleria feudale francese venne spazzata via
dalle artiglierie di cui poteva disporre l'imperatore Carlo V. Ma ancora nella seconda metà del Cinquecento una delle nobildonne
italiane, Caterina de' Medici, andò sposa del re di Francia e si trovò per un certo periodo a dover gestire in prima persona la politica
della corona, nei difficilissimi anni dell'avvio della guerra civile che oppose per decenni i cattolici e gli Ugonotti (la celebre notte di
San Bartolomeo è del 1572).
L'interesse per l'Italia ? una terra in cui i Francesi, cioè gli Angioini, erano presenti e impegnati militarmente dalla metà del
Duecento - era stato vivissimo soprattutto nel corso del lungo regno di Francesco I, che aveva fatto di tutto per richiamare in Francia
personalità della cultura e per trarre dal profondo rinnovamento artistico e culturale italiano le linee di fondo di un ?rinascimento?
francese, che si espresse, ad esempio, nei celebri Chateaux della Valle della Loira e in uno stile di vita improntato a fasto e
raffinatezza che coniugava tradizione francese e apporti italiani.
Quanto all'umanesimo - inteso come l'insieme dei nuovi valori sull'uomo elaborati in Italia intorno al rinnovato recupero dei classici
latini e greci ? esso ebbe in Francia numerosi cultori sin dal primo Cinquecento. Soprattutto in campo pedagogico esso trovò ben
presto applicazione pratica, e il corso di studi tipicamente umanista finì per essere adottato come base per la formazione dei giovani
destinati, per nascita o per censo, a formare la futura classe dirigente del paese. La cultura francese era quindi intrisa di elementi
umanisti già negli anni in cui si formava l'intellettuale a cui dedichiamo questo capitolo, quel Michel de Montagne a cui la cultura
francese, ma anche europea, dell'epoca successiva deve moltissimo, per avere introdotto nella filosofia d'oltralpe nuova linfa e un
nuovo stile.
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1. Michel de Montaigne
1.1. La vita, l'opera e la personalità
Ci sono scrittori di una sola opera, e Montaigne è tra questi. Si tratta tuttavia di un'opera molto particolare, a cui l'autore ha lavorato
buona parte della sua vita, continuamente ampliandola e rivedendola. In essa, in qualche modo, Montaigne ha rispecchiato se stesso,
fino al punto da dare l'impressione a chi legge che essa sia stata per decenni la sua unica occupazione e preoccupazione.
Non è così naturalmente, essendosi Montaigne occupato a fondo di questioni politiche. Era nato nel 1533 da una famiglia nobiliare
della zona di Bordeaux (a Saint-Michel-de-Montaigne) e ricevette l'educazione tipica dei giovani nobili destinati al servizio dello
Stato e alla cura (anche politica, come è ovvio nel contesto di un sistema ancora vicino al feudalesimo) della proprietà. Oltre alla
formazione tipicamente umanista, studiò diritto ed ebbe sin da giovane incarichi importanti nel parlamento di Bordeaux, prima di
trasferirsi a Parigi, dove visse negli ambienti di corte.
Nel 1571, ormai quasi quarantenne, prese una decisione che diede l'impronta alla sua vita: rientrò nel suo castello nelle vicinanze di
Bordeaux e iniziò la vita di un nobile che dedica moltissimo tempo alla cura di sé e della propria opera. Visse a lungo immerso nei
suoi studi, in una torre del suo castello, apparentemente in isolamento, ma con la compagnia continua dei suoi classici e delle sue
carte.
Questa è l'immagine almeno che si ricava dalla lettura della sua opera ed è effettivamente l'immagine che lo caratterizza nel
panorama della storia della filosofia: l'intellettuale distaccato dal mondo che in tranquillo e raccolto isolamento riflette sul mondo,
che tuttavia conosce bene, con spirito pieno di disincanto, alla ricerca innanzitutto della serenità di vita che i suoi classici
consigliavano.
In realtà le vicende della sua vita lasciano trasparire una situazione assai meno tranquilla: lo troviamo impegnato a opporsi ai
protestanti nel suo distretto e dopo la pubblicazione dei primi due volumi della sua opera, nel 1580, è a Parigi; lo vediamo quindi
intraprendere un grande viaggio attraverso la Francia, la Germania, la Svizzera e l'Italia; poi, tra il 1582 e il 1586 fu borgomastro di
Bordeaux. Morì poi nel 1592, dopo avere nel 1588 ripubblicato la sua opera con ampi rifacimenti e l'aggiunta di un terzo libro.
L'opera di cui parliamo ha per titolo semplicemente Saggi (in francese Essais), ed è in tre volumi. E' appunto una raccolta di saggi su
moltissimi argomenti. Va tuttavia chiarito che cos'è un saggio, visto che è questa forma letteraria a dare unità al suo lavoro. Il titolo,
in sé, nulla dice del contenuto, che non è neppure sommariamente indicato.
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Montaigne parte lavorando secondo la pratica consolidata degli umanisti: legge i classici e li commenta alla luce della propria
esperienza personale della vita, della sua conoscenza degli uomini, della sua riflessione. Nulla di diverso rispetto a quanto, dall'inizio
del secolo, avevano fatto altri umanisti europei proseguendo il lavoro di riscoperta dei valori del mondo classico proposto fra il
Trecento e il Quattrocento dagli umanisti italiani. Ad esempio, Erasmo da Rotterdam, il più celebre e letto degli umanisti europei
della prima metà del secolo, aveva scritto i celebri Adagia seguendo questa prassi. Il lettore era quindi portato a leggere con l'autore
antichi testi e ad attualizzarli, seguendo la particolare angolazione personale che lo scrittore imprimeva alla sua opera.
A mano a mano che Montaigne andava lavorando alla sua opera, le citazioni diminuiscono e il richiamo alle opere classiche si fa
sempre più un'occasione per lo scrittore per esprimere il proprio pensiero. Nasce così la forma moderna del saggio, che ha in
Montaigne il primo esponente di grande rilievo. L'oggetto è di volta in volta diverso, ma rimane costante lo stile e il metodo di
lavoro: lo stile è quello della scrittura umanista, elegante e raffinata, lontana dalla pedanteria scolastica; il metodo è il continuo
confronto di se stesso e delle proprie riflessioni da un lato con i classici, dall'altro con l'esperienza.
Naturalmente, dato questo carattere, l'opera non ha carattere sistematico, ma ciascun saggio fa in qualche modo storia a sé. Tuttavia,
benché in assenza di ogni sistematicità, è possibile identificare alcune costanti e alcune linee di fondo del pensiero di Montaigne. Ed
è a queste linee che dovremo adesso rivolgere la nostra attenzione.
Così si apre la raccolta:
"Al lettore
Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall'inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e
privato. Non ho tenu¬to in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale
proposito. L'ho dedicato alla privata utilità dei miei parenti e amici: affinché dopo avermi perduto (come toccherà loro ben presto)
possano ritrovarvi alcuni tratti delle mie qualità e dei miei umori, e con questo mezzo nutrano più intera e viva la cono¬scenza che
hanno avuto di me. Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei ador¬nato meglio e mi presenterei con
atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'es¬sere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né
artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leg¬geranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me
l'ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive
leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia
del mio libro: non c'è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano. Addio dunque; da Montaigne, il
primo di marzo millecinque¬centottanta." (M. de Montaigne, Al lettore, in Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1992)
1.2. Il tema umanista della mutevolezza dell'uomo
Un tema percorre da cima a fondo questo libro, scritto in un ventennio e in cui ogni singola pagina è stata riadattata molte volte a
nuove esigenze interiori e a nuove esperienze: quello della mutevolezza dell'uomo, della impossibilità di inquadrarlo in una natura
dai precisi caratteri.
Il tema è già negli umanisti del Quattrocento. Era stato Pico della Mirandola nella sua Orazione ad avere sostenuto che ?l'uomo è un
camaleonte?, perché può elevarsi verso le realtà superiori e divine dell'essere, o ripiegare verso la brutalità della materia. Ma in
Montaigne non si trova affatto uno slancio verso l'alto, o la tendenza verso il basso. Non è questo ad interessare Montaigne: è la
mutevolezza in quanto tale, la capacità dell'uomo di vivere nel presente e di adattarsi alle situazioni e alle circostanze, plasmando se
stesso senza rigidità.
Nella mutevolezza in quanto tale, cioè nella flessibilità razionale e pacata della sua natura, Montaigne sembra trovarsi perfettamente
a suo agio, e non avere alcuna intenzione di sognare un uomo che ascenda alle alte vette della spiritualità, abbandonate le sue radici
materiali. L'uomo è in questa medietà, è questa la sua natura, e da questa medietà, sembra dire Montaigne, non è bene uscire.
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1.3. Lo scetticismo come atteggiamento di fondo
Montaigne non si comporta come molti filosofi del passato, cui pure guarda con attenzione: non sostiene delle tesi filosofiche e sulla
base di esse osservi se stesso e la realtà; il suo modo di procedere è completamente diverso. I suoi ?saggi? non somigliano ai
?pensieri? di Marco Aurelio, o alle Confessioni di Agostino, perché Marco Aurelio e Agostino possiedono una salda dottrina
filosofica. Tutta l'esperienza umana che in opere di questo genere viene esaminata, ricchissima, è letta attraverso il filtro di una
teoria. Ma Montaigne non dispone di alcuna teoria.
Ha però i classici, che in qualche modo ne svolgono la funzione: così di volta in volta Montaigne è stoico con gli stoico, epicureo
con gli epicurei, scettico con gli scettici, perché misura la sua vita interiore e l'esperienza della vita e degli uomini su questo metro.
Ma non sposa mai alcuna dottrina di scuola: si comporta come uno scettico di tipo completamente nuovo rispetto ai modelli
dell'antichità.
Lo scetticismo greco e poi latino era una corrente filosofica ? parallela alle grandi correnti dell'ellenismo e alle grandi scuole
dell'epoca ? che partiva da alcuni assunti teorici di fondo sulla impossibilità per l'uomo di raggiungere conoscenze certe e ne
derivava alcune precise regole di vita, ad esempio l'indifferenza ai valori etici e la libertà interiore. Dal punto di vista logico, la teoria
era giustificata attraverso complesse analisi delle teorie delle altre scuole filosofica per mostrare quanto poco i loro fondamenti
fossero saldi.
Montaigne non conduce analisi di questo tipo e non assume una simile e univoca posizione teorica. Il suo scetticismo è piuttosto
l'atteggiamento di fondo di un umanista che sa che l'uomo è mutevole, e che lo sono anche i suoi pensieri, e non c'è da fidarsi sulla
stabilità nella delle scelte umane né delle certezze a cui di volta in volta si affida.
Spesso questo atteggiamento è assunto attraverso riflessioni di carattere pratico, come quando ricorda che si diventa cristiani perché
si è nati in una terra in cui il Cristianesimo è la religione comunemente accolta, e questo è un caso. ?Si nasce cristiani come si nasce
abitanti del Périgord?, cioè di una regione della Francia. Se si fosse nati altrove?
Il suo scetticismo è quindi più una filosofia di vita che un principio teorico: un atteggiamento appunto, che tuttavia consente di dare
giudizi. Mentre gli antichi scettici sospendevano il giudizio (la celebre epoché), nei Saggi di Montaigne il giudizio è continuamente
in opera. Ma si tratta sempre di un giudizio mutevole, dato di volta in volta nell'esame di una specifica situazione o problema, e non
implica un passaggio ad una teoria generale. E' una riflessione sulla pagina del classico in lettura e sulla esperienza che viene
richiamata. In ultima analisi, il giudizio è un leggersi dentro, alla ricerca di se stessi, secondo un modello socratico che rimane
sempre vivo nella pagina di Montaigne.
Si prenda come esempio il tema classico dell'amore, che Montaigne trovava in Platone e poi negli umanisti, che dal Quattrocento in
poi lo avevano ripreso in moltissimi scritti, per lo più dialoghi sul modello platonico. Montaigne apprezza naturalmente molto il
dialogo come mezzo letterario per esprimere molti punti di vista divergenti e farli interagire tra loro. Ma sul tema specifico, osserva
che
?il mio paggio sa esattamente che cosa sia fare all'amore; leggetegli un brano sull'argomento tratto da Leone Ebreo e lui non avrà la
minima idea di quel che si tratta?.
Qui lo scetticismo di Montaigne si esprime nella considerazione che le teorie platoniche e neoplatoniche sull'amore, molto
affascinanti sul piano letterario e filosofico, sono però altrettanto distanti dalla realtà dell'esperienza degli uomini. La filosofia che si
allontana dalla vita non serve alla vita: e infatti non serve al paggio, che viceversa sa benissimo di che cosa si tratta a proposito
dell'amore. Il fatto che questi non tragga vantaggio dalla lettura dei filosofi non significa che non ha bisogno di una filosofia per
comprendere l'amore; significa che occorre un modo diverso di fare filosofia, un modo adatto alla vita: è opportuno essere scettici
sul fatto che la filosofia del passato sappia aiutarlo.
Lo scetticismo è innanzitutto un atteggiamento dello spirito umano: esso ricorda che la vita, non la teoria, è importante e che si deve
rimanere fedeli alla mutevolezza del vivere e alla sua concretezza dell'esperienza vissuta.
"Teofrasto diceva che la conoscenza umana, guidata dai sensi, poteva giudicare le cause delle cose fino a un certo punto, ma arrivata
alle cause ultime e prime bisognava che si fermasse e ripiegasse o per la sua debolezza o per la difficoltà delle cose. È un'opinione
media e accomodante, che la nostra dottrina possa condurci fino alla conoscenza di alcune cose, e che abbia determinati limiti di
potenza oltre i quali è temerità impiegarla. Quest'opinione è plausibile e introdotta da persone concilianti; ma è difficile porre dei
limiti al nostro spirito: esso è curioso e avido, e non ha ragione di fermarsi a mille passi piuttosto che a cinquanta. Avendo provato
per esperienza che ciò in cui uno era fallito, un altro vi era riuscito; e che ciò che era ignoto a un secolo, il secolo successivo lo ha
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chiarito; e che le scienze e le arti non si gettano in uno stampo, ma si formano e si modellano a poco a poco maneggiandole e
rifinendole a più riprese, come gli orsi abbelliscono i loro piccoli leccandoli e rileccandoli: quello che le mie facoltà non possono
scoprire, non smetto di sondarlo e provarlo; e, rimaneggiando e impastando questa nuova materia, agitandola e riscaldandola, apro a
colui che mi segue qualche possibilità di goderne più a suo agio, e gliela rendo più duttile e maneggevole." (M. de Montaigne,
Opinioni, in Saggi, cit.)
1.4. La formazione dell'uomo e la religione
Al contrario che per quasi tutti gli altri argomenti, sparsi in molti saggi e ripresi in contesti diversi, all'educazione Montaigne ha
dedicato saggi specifici, molto importanti per la storia della pedagogia. Qui ne basti un cenno, per mostrare come il suo scetticismo
si applichi all'essenziale questione del modo in cui un bambino e un giovane debbono essere allevati. E' chiaro che questo è un banco
di prova per qualsiasi immagine dell'uomo un filosofo proponga, perché l'educazione consente di indirizzare i giovani verso una
direzione piuttosto che nell'altra, ed è il modello che si ha in mente a indicare la via.
Montaigne, che si occupa solo dell'educazione dei giovani del suo ceto sociale e non estende il discorso alla società in generale, si
pronuncia certo a favore di una educazione di tipo umanistico, ma al di fuori di ogni preoccupazione erudita. L'essenziale è che il
giovane sia in grado di formare il proprio giudizio in modo da saper condurre la propria vita, e questo giudizio si formerà riflettendo
sul mondo piuttosto che applicando ricette di scuola. Non che i libri non servano, ma sevono nella misura in cui parlano della vita (e
i grandi classici in un modo o nell'altro lo fanno).
L'intelligenza del giovane dovrà essere educata ad essere vigile, pronta, esperta del mondo: dovrà essere allenata alla lettura,
all'osservazione degli uomini attraverso i viaggi, alla conversazione colta, in cui la capacità di esprimere giudizi ben meditati e ben
formati è essenziale, acquisendo al capacità di interagire con gli altri, come si conviene in società.
L'unica autorità riconosciuta, anche se con urbanità e rispetto degli altri, è tuttavia il proprio giudizio ben ponderato.
Poiché Montaigne vive nei difficili anni della crisi politica della Francia dovuta all'esplodere dei conflitti di religione, il tema
dell'educazione non può non legarsi al tema della religione, che tuttavia non è trattato in saggi specifici. Anzi, il tema ricorre
sovente, ma in modo sfumato sicché si è potuto vedere ? testi alla mano ? in Montaigne un cattolico ortodosso entusiasta, o piuttosto
un ateo nascosto o uno scettico radicale.
Nella sua vita, in effetti, si è comportato come un cattolico ortodosso e praticante. Se però si leggono le sue opere, la questione è
piuttosto complessa, perché rispetto al contesto del momento (caratterizzato dallo scontro tra Cattolici e Protestanti) è piuttosto
difficile dire con esattezza in cosa in realtà credesse (sempre che il termine ?credere? possa essere usato senza contraddizione per chi
guardava ogni cosa e tutto giudicava con atteggiamento scettico).
E' difficile tuttavia, senza forzare le sue parole, parlare in senso forte di incredulità. Per incarico del padre, aveva tradotto l'opera di
un teologo, Raymond Sebond, in cui si sosteneva una tesi molto precisa: che la fede si può dimostrare anche attraverso l'intelletto
naturale, non solo attraverso la rivelazione. In una celebre Apologia di Raymond Sebond, che fa parte dei Saggi, Montaigne riprende
le tesi dell'aristotelismo padovano, e pone la fede su un piano totalmente diverso da quello della ragione. Da questo punto di vista è
certamente razionale credere: non tuttavia nel senso che la ragione possa dimostrare alcuna verità della fede, ma piuttosto nel senso
che la fede e la ragione sono come due rette parallela, che non si incontrano. La ragione non ha quindi alcun motivo di opporsi alla
fede. La religione appartiene ad un piano della vita che è parallelo a quello della vita reale, che è caratterizzato dall'esperienza
possibile e dalla ragione. La fede vale, per così dire, soltanto nel suo ambito, cioè al di là della fede e della ragione.
Così a proposito dei miracoli Montaigne nota che l'uomo non conosce a sufficienza la natura, i suoi fenomeni e le sue leggi, ed è
quindi difficile dire se davvero un certo evento è un miracolo o non lo è, perché per poterlo dire sarebbe necessario poter conoscere a
fondo la natura delle cose. Questa tesi non è in realtà in alcun modo una argomentazione contro l'esistenza dei miracoli. E' però
velata da un razionalismo di fondo. Due generazioni dopo la pubblicazione dei Saggi, simili argomenti potranno essere letti in
tutt'altra luce, cioè come prove contro la possibilità che i miracoli siano davvero tali. Montaigne si limita però solo ad osservare che
non conosciamo a fondo né la natura né i miracoli.
Quanto alla libera interpretazione della Scrittura che appartiene alla tradizione protestante, ormai affermatasi da decenni al momento
in cui se ne occupa (sia come magistrato che come scrittore), Montaigne è del tutto contrario ad essa. Vi si oppone in quanto fonte di
inquietudine, di rottura della tradizione, e Montaigne è sì scettico, ma anche conservatore. Osserva dunque che la radicalità delle
posizioni religiose - la durezza dei calvinisti sui temi della giustificazione per fede, della libera interpretazione delle Scritture, e così
via ? si conciliano male con la natura profonda dell'uomo, che non può in realtà giudicare nulla su Dio (?Chi lo può giudicare??) e
nulla di sicuro sapere, ma proprio per questo è bene si affidi alla tradizione. Anche questo significa la celebre frase che abbiamo già
citato: ?si nasce cristiani come si nasce abitanti del Périgord?.
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1.5. Un'etica umanista del giusto mezzo
L'uomo non deve dunque presumere di andare oltre se stesso. La visione dell'umanesimo italiano quattrocentesco che poneva l'uomo
al centro dell'universo, sospeso tra il cielo (a cui l'anima neoplatonicamente anelerebbe) e la terra (alla quale l'uomo appartiene ma
dalla quale dovrebbe cercare di elevarsi) viene dunque reinterpretata in un senso che a molti è apparso espressione di un modo di
sentire borghese, da classe media: Montaigne in un celebre passo dell'ultimo dei suoi Saggi dichiara che l'uomo non deve cercare di
essere quello che non è, non deve cercare di sfuggire alla condizione umana. Deve accettarsi per quello che è, una creatura in
posizione mediana del mondo, una posizione che non deve affatto cercare di abbandonare, per salire verso il cielo della perfezione
divina o scendere nell'abbrutimento della condizione animale. Dichiara apertamente di provare le vertigini per le ascese mistiche, di
non amare i luoghi alti e inaccessibili. Desidera piuttosto restare là dove, come uomo, è di casa e dove la natura lo ha collocato.
E' una sorta di teoria del giusto mezzo, non priva di difficoltà: una posizione tutt'altro che facile da vivere. E' difficile essere uomini,
costretti dalla natura ad una posizione intermedia (tra sapere e non sapere, tra la vita e la morte, tra il tempo in cui si vive e l'eterno a
cui l'anima aspira) che non dà in effetti stabilità: tutto, infatti, lo abbiamo detto sin dall'inizio, è in mutamento, nulla è stabile nella
vita. Ma se si impara a vivere da uomini, nella mutazione continua e fluida dell'accadere, si può essere pienamente felici,
raggiungere quella che potremmo chiamare perfezione, cioè la completezza del proprio essere uomini.
Montaigne riecheggia qui antiche suggestioni epicuree, ma anche aristoteliche: la sua teoria umanista di una sorta di giusto mezzo
non è qualcosa di statico, una ricetta prescrivibile una vola per tutte. E' una necessaria conquista di tutti i giorni, di fronte alla
estrema mutevolezza della vita. Conoscere i propri limiti, non eccedere nel giudizio, acquisire misura in ogni cosa: una vera battaglia
dello spirito, una difficile conquista.
"Amministriamo il tempo; ce ne resta ancora molto di ozioso e mal impiegato. Il nostro spirito non ha probabilmente altre ore
bastanti per fare le sue faccende, senza separarsi dal corpo per quel po' che gli occorre per il suo bisogno. Essi vogliono mettersi
fuori di se stes¬si e sfuggire all'uomo. È follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d'in¬nalzarsi, si
abbassano. Questi umori trascendenti mi spaventano, come i luoghi elevati e inaccessibili; e nulla mi è così difficile a digerire nella
vita di So¬crate come le sue estasi e le sue demonerie (?). E fra le nostre scienze, mi sembrano più terrestri e basse quelle che sono
poste più in alto. E non trovo nulla di così meschi¬no e di così mortale nella vita di Alessandro come le sue fantasie sulla propria
immortalizzazione. Fi¬lota lo punzecchiò argutamente con la sua risposta; in una lettera si rallegrava con lui per l'oracolo di Giove
Ammonio che l'aveva collocato fra gli dèi: ?Per te ne sono ben lieto, ma c'è di che compian¬gere gli uomini che dovranno vivere
con un uomo e obbedirgli, mentre egli supera la misura di un uo¬mo e non se ne accontenta ». (?)
È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo al¬tre condizioni perché non
comprendiamo l'uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c'è dentro. Così, abbiamo un bel mon¬tare
sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. (?)
Le vite più belle sono, secondo me, quelle che si conformano al modello comune e umano, con ordine, ma senza eccezionalità e
senza stravaganza." (M. de Montaigne, Luoghi elevati e inaccessibili, in Saggi, cit.)
1.6. ?Tu non muori perché sei malato, muori perché sei vivo?
L'ideale umanista dell'acquisizione della misura in ogni cosa trova una importante applicazione nell'esame filosofico del tema della
morte. Montaigne riprende l'antica riflessione stoica ed epicurea, scuole filosofiche per le quali la morte non va mai vista disgiunta
dalla vita e non va mai considerata se non come il termine ?naturale? di essa. In questo senso Montaigne può scrivere che la piena
consapevolezza della vita implica l'accettazione della morte, perché ?tu non muori perché sei malato, muori perché sei vivo?.
Un sano atteggiamento di fronte alla morte non trova in essa nulla che sconsigli di godere dei piaceri della vita; anzi, la felicità
umana dipende dall'applicazione e dalla cura che si mette nel costruire la propria vita in modo da trarre da essa il massimo piacere ?
cioè la semplice felicità ?epicurea? del vivere, non un particolare piacere ? e per conseguenza se la vita è breve e l'aspettativa di vita
è ridotta, l'impegno nel vivere deve essere ?più profondo e pieno?. Il pensiero della morte deve quindi essere vissuto come un invito
alla più profonda e piena adesione alla vita. Imparare a morire, secondo l'antica massima, non è assolutamente possibile se non si
impara a vivere, e dunque ad accettare la condizione umana reale, che implica la fine della vita. Il saggio non teme la morte e non
vede nulla di male nel non vivere più; ma vede la bontà della vita, e la sua pienezza, pur nella limitatezza del tempo.
Appendice I
Uomini del Nuovo Mondo e del Vecchio
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Un tema che Montaigne da umanista ha trattato con attenzione è quello della natura umana e del suo rapporto con l'educazione, la
storia e la tradizione. Tipico è il suo modo di guardare al "Nuovo Mondo", cioè le Americhe, in rapporto al "Vecchio Mondo", cioè
l'Europa. In un celebre passo così si esprime:
"Vivono lungo il mare, protetti dalla parte della terra da grandi ed alte montagne; fra que¬ste e quello occupano una pianura larga
circa cento leghe. Hanno grande abbondanza di pesce e di carni che non somigliano affatto alle nostre, e le mangiano senza altro
ac¬corgimento che la cottura. Il primo che condusse là un cavallo, sebbene fosse venuto a contatto con loro in parecchi altri viaggi,
fece loro tanto orrore con quella montatura che lo uccisero a colpi di frecce prima di poterlo riconoscere. Le loro costruzioni sono
mol¬to lunghe, e capaci di contenere due o trecento anime; rivestite con la scorza di grandi alberi, toccano terra da un lato e si
sostengono e si appoggiano l'una all'altra alla som¬mità, al modo di certi nostri granai la cui copertura scende fino a terra e serve di
fian¬cata. Hanno del legno così duro che ne tagliano e ne fanno spade e graticole per cuo¬cere la carne. I loro letti sono di un tessuto
di cotone, sospesi al tetto, come quelli delle nostre navi, a ognuno il suo, perché le donne dormono separate dai mariti. Si alzano col
sole, e mangiano subito dopo essersi alzati, una volta per tutta la giornata; non fanno infatti altro pasto che quello. [...] Tutta la
giornata la passano a danzare. I più giovani vanno a caccia delle bestie con l'arco. Una parte delle donne si occupa intanto a
riscal¬dare la loro bevanda, e questo è il loro compito principale. Qualcuno dei vecchi, la mat¬tina, prima che si mettano a
mangiare, fa un discorso a tutti gli abitanti del capannone, passeggiando da un capo all'altro, e ripetendo la stessa frase parecchie
volte, finché ha finito il giro. Egli raccomanda loro due sole cose: il valore contro i nemici e l'amore per le loro mogli. [...] Sono
rasati dappertutto, e si fanno la barba molto meglio di noi, sen¬za altro rasoio che non sia di legno o di pietra. Credono che le anime
siano eterne, e che quelle che si sono rese meritevoli di fronte agli dei dimorino in quella parte del cielo do¬ve si leva il sole; i
maledetti invece dalla parte d'occidente. Hanno non so quali preti e profeti, che si mostrano molto di rado al popolo, avendo la loro
dimora sulle montagne. Al loro arrivo si fa una gran festa e una solenne adunata di parecchi villaggi [...]. Questo profeta parla loro in
pubblico, esortandoli alla virtù e al dovere; ma tutta la loro scienza etica contiene solo questi due articoli, la fermezza in guerra e
l'affetto verso le loro don¬ne. [...] Essi fanno guerra contro i popoli che sono al di là delle loro montagne, più ad¬dentro nella
terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che archi o spade di legno, appuntite da capo, come le punte dei nostri
spiedi. Straordinaria è la loro te¬nacia nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di san¬gue; poiché
fughe e panico non sanno che siano. Ognuno porta come proprio trofeo la testa del nemico che ha ucciso, e l'appende all'ingresso
della propria casa. Per molto tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare, poi quello che
ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi conoscenti; attacca una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo
di essa, lontano di qualche passo per paura d'esserne colpito, e dà da tenere alla stessa maniera l'altro braccio al suo più caro amico; e
tutti e due, alla presenza di tutta l'assemblea, l'ammazzano a colpi di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e
ne mandano dei pezzi ai loro amici assenti. Non lo fanno, come si può pensare, per nutrir¬sene, come facevano anticamente gli Sciti;
ma per esprimere una suprema vendetta. [...] Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c'è in tale modo di fare, ma
piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle no¬stre. Penso che ci sia più barbarie nel
mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco
a po¬co, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici,
ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell'arrostirlo e mangiarlo dopo che è
morto. Possiamo dunque ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragio¬ne, ma non confrontandoli con noi
stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie. La loro guerra è assolutamente nobile e generosa, e ha tutte le giustificazioni e tutta
la bellezza che può avere questa malattia dell'umanità; tra loro essa non ha altro fondamento che la sola passione per il valore. Non
lottano per la conquista di nuove terre, perché godono ancora di quell'ubertà naturale che li provvede senza lavoro e senza fatica di
tutte le cose necessarie, con tale abbondanza che non hanno alcun interesse ad allargare i loro confini. E sono ancora nella felice
situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono; tutto quello che va al di là è superfluo per loro." (M.
de Montaigne, Uomini del nuovo mondo e del vecchio, in Saggi, cit.)
Appendice II.
Il "saggio" come genere letterario
I Saggi di Montaigne trattano i più diversi argomenti e si prestano a molti tipi di commento, interpretazione, confutazione, o a
fornire spunti per ulteriori approfondimenti, o per aprire nuove vie di ricerca. I lettori di Montaigne nel Cinquecento e nel
Sei-Settecento sono stati attratti da ciascuna di queste possibilità, sicché la sua posizione su questo o quel tema la si trova citata un
po' ovunque nella più varia delle maniere. Si potrebbe dire che quel che importa di Montaigne non è ciascuna delle sue tesi - peraltro
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sempre provvisoria e ?aperta? ? ma la forma-saggio con cui ha scelto di riflettere.
Per questa ragione abbiamo selezionato due testi di studiosi contemporanei che presentano lo stile della sua scrittura analizzandolo al
fine di identificarne la forma e di giustificarla dal punto di vista filosofico. Si potrà agevolmente confrontare quanto essi dicono con
gli esempi della scrittura di Montaigne che abbiamo riportato nel testo.
- Il ?saggio? come nuovo genere letterario
"Che cos'è un saggio? Che significa questo titolo in Montagne? A posteriori non è così difficile scoprire alcuni esempi precedenti,
anche nell'antichità, ma bisogna in proposito far notare che in primo luogo ciò accadeva soltanto dopo che si era venuti a conoscenza
dell'opera di Montaigne, e inoltre che con ciò non diventa sempre chiaro quello che lo stesso Montaigne intendeva. Non a torto si è
anche parlato di un nuovo titolo enigmatico. Non è possibile in questa sede entrare nel profondo, come si dovrebbe, e sarà necessario
limitarsi soltanto ad alcune osservazioni. Probabilmente, la cosa piú semplice è di vedere in un saggio, quale fu scritto da Montaigne,
una prova, una specie di esperimento personale nei riguardi di tutto quello che avviene. Lo scrittore mette alla prova la realtà, la vita,
se stesso e con ciò l'uomo nel mondo. Egli non sì considera legato ai risultati, comincia per modo di dire ogni giorno da capo e
sem¬bra che sia dimentico di tutti gli esperimenti precedenti. E neppure si preoccupa della riuscita di quello che intraprende, trova
soddisfazione nel fatto di aver iniziato qualcosa e con la massima facilità, soltanto per il suo piacere e perché cosí gli garba, passa da
una cosa all'altra. Per questo è spesso particolarmente difficile capire dove precisamente Montaigne, partendo da esperienze
personali, giunga a considerazioni generali o fino a qual punto citazioni classiche o d'altro genere facciano parte dell'argomentazione
generale. La caduta indolore di un dente viene annotata da Montaigne e tale fatto lo porta quasi direttamente al pensiero che ogni
giorno noi moriamo un poco e che quindi la morte non fa altro che dare l'ultimo piccolo colpo. Qui stanno racchiusi tre fatti
importanti che meritano di essere notati. Per prima cosa, il «saggio» come genere è scarsamente legato a regole (e per questo, infatti,
appartiene al genere specificamente letterario-umanistico). Lo scrittore può muoversi del tutto liberamente e mettere qualsiasi cosa
sul tappeto nel momento che gli garba. Non è legato a norme retoriche, poiché semplicemente non esistono norme. E neppure esiste
un «tono» specifico del saggio; anche se dopo Montaigne, e soprattutto dopo i suoi seguaci inglesi, esso si farà sentire con tono
piuttosto vivace. Il saggio, dunque, non è un'argomentazione logicamente costruita; e nemmeno si limita a un'obiettiva riproduzione
dei fatti. Esso infatti risulta essere un po' di tutto nello stesso tempo, eppure rimane sempre la possibilità di cambiarlo. Si può
difficilmente considerare un caso che Montaigne abbia continuato ad aggiungere qualcosa all'opera sua, fino alla morte, cosí che ne
è scaturito un testo formato da diversi «strati». Per contro si può essere assolutamente certi che Montaigne, anche fosse vissuto
molto tempo ancora, per anni avrebbe elaborato gli Essais e gli Essais soltanto. In un certo senso, questo libro è divenuto l'opera
della sua vita. Ciò comporta - secondo fatto importante - che Montaigne evidentemente parte da quanto osserva nella sua vita. Il
puro ragionare teorico, che era proprio degli umanisti, riceve ora una base di osservazione immediata. Già precedentemente,
Leonardo da Vinci aveva additato tale necessità; dopo di lui, in Francia, Ber¬nard Palissy sottolineerà tale esigenza per la ricerca
scientifica e Montaigne, in generale, si accinge al lavoro secondo questo metodo.
E con ciò si è indicato anche il terzo fatto. Sotto molti aspetti, infatti, gli Essais possono essere considerati un diario o
un'autobiografia, perché, nel corso di questa eccezionale opera di compilazione che non arriva mai a una conclusione generale,
Montaigne racconta appunto la sua vita, le sue esperienze e le immediate reazioni. Egli ci racconta di se stesso, di quel che pensa e
sente e vorrebbe, ma nello stes¬so tempo allude a come l'uomo in generale pensa e sente e vuole: ogni individuo porta in sé la forma
completa dell'essere uomo. Nessuno dunque può parlare dell'uno, senza dare anche espressione all'altro. Se si vuole fare una rozza
distinzione, allora si potrebbe dire che Montaigne è un tipico autore umanistico in quanto descrive l'individuo nel mondo, ma egli fa
anche aprire la cornice dell'Umanesimo, o l'arricchisce, oppure - e questo mi pare il termine più riuscito - la completa, quando passa
a descrivere se stesso e quindi reputa ogni individuo adatto a servire da esempio." (S. Dresden, Umanesimo e rinascimento, trad. it.
di G. Antonelli, Il Saggiatore, Milano 1968)
- Sulla scrittura degli Essais
"Montaigne è, culturalmente, un uomo del Rinascimento, anzi un gentiluomo, cui la propria condizione sociale offre l'agio d'un ozio
da riempire leggendo, in una ben fornita biblioteca. (?)Se è vero che Montaigne vive nella fruizione dei classici, è altrettanto vero
che non è egli un erudito - o almeno lo è solo nel senso etimologico della parola - ma piuttosto un pensatore per cui l'erudizione altro
non è che una tappa fra tante per la cono¬scenza del proprio essere sul parametro costante degli antichi: con essi egli dialoga,
guadagnando, nelle pieghe del discorso altrui, lo spazio per la propria voce. Lo scontro delle opinioni è l'indispensabile
provocazione esterna che gli permette di attualiz¬zare il proprio potenziale d'invenzione. Se la pagina è irta di citazioni, gli autori
antichi non sono tanto una fonte di sapienza quanto un deposito di saggezza in cui trovar conferma della propria esperienza fissata in
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formula paradigmatica (?).
La forma dei Saggi trae origine dalle raccolte di esempi, citazioni, sentenze di cui si erano compiaciuti la tarda antichità e il
Medioevo; e così Montaigne aveva cominciato. Ma al contrario dei coevi compilatori che, utili amministratori e agenti di diffusione
della materia umanistica, accumulano aneddoti e incastonano e chiosano detti memorabili fornendo del loro soltanto il filo per
legarli, Montaigne intende, sì, che questi ornamenti presi a prestito lo accompagnino, ma non che lo coprano e lo nascondano (?). Su
Montaigne citatore si è detto molto; ma non si è pensato a verificare, testi alla mano, l'esattezza della precedente affermazione e, in
linea di massiina, la scrupolosa esattezza di ogni citazione, compatibilmente con le lezioni, spesso erronee, delle edizioni
cinquecentine cui attingeva o delle fonti indirette. (?) E lo spoglio, assai più sistematico di quanto gli sia piaciuto far credere, frutta,
più che un composto, una soluzione; non di rado la massima è sottoposta a un cambia¬mento intenzionale, l'autore imbrigliato e
coatto nella direzione del «saggio» che si sta svolgendo (?)
La dimostrazione esemplificativa di tale procedere esula ovviamente da questa sede; basti qui sottolineare, ai fini del nostro discorso,
il preciso lavoro d'intarsio così compiuto da Montaigne, e dedurre in conseguenza la necessità di porre attenzione non solo e non
tanto a quello che Montaigne cita, ma a come lo cita (?)
Ora, se tale preciso lavoro d'intarsio esiste, è di per se stesso una freccia di direzione che indica come sull'edonismo di Montaigne, e
dunque sulla gratuità dei Saggi, non si debba insistere troppo; anzi, come nei Saggi stessi vada cercato appunto il limite
dell'edonismo dell'autore, nel suo scriverli innanzi tutto, e poi nel correggerli, pubblicarli, ricorreggerli, ripubblicarli. Insomma nel
suo ritiro, votato all'ozio e alla tranquillità, sorge imprescindibile l'urgenza d'un lavoro per non abbandonarsi, appunto, all'edonismo
puro, per non disperdersi, per registrare, giorno per giorno, la propria tensione all'autodefinizione, all'autoapprofondimento, dandole
corpo attraverso la parola (?). E se il suo assunto è che tutto è già stato detto, è chiaro come il valore e il significato del suo scritto
debbano ricercarsi, agli occhi e nell'intenzione stessa dell'autore, non tanto nel cosa ma nel come: siamo ricondotti a una definizione
dei modi, vale a dire dello stile di Montaigne.
Sulla «spontaneità» di questo stile, ossia sulla noncuranza e incoerenza di questa scrittura hanno insistito intere generazioni di critici.
Più di recente, si tende invece a disegnare l'immagine d'un Montaigne perfettamente padrone del gioco che, rifiutando la logica
deduttiva e discorsiva, ne guasterebbe scientemente i modelli retorici: e si evidenzia nei Saggi la parte del progetto, del lavoro di
costruzione, al livello dell'arinatura della frase, della struttura dei capitolo, dell'architettura del libro. L'alternativa, ovviamente, è
fittizia, ed è faziosa la spaccatura fra i due tipi di lettura, l'uno e l'altro semplificanti." (S. Solmi, Sulla scrittura degli Essais, in M. de
Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1992)
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