Alessandro Biral e l`uso di Montaigne

Alessandro Biral e l’uso di Montaigne
(Paolo Slongo)
Un filo rosso accompagna l’opera di studioso di Alessandro Biral, o meglio
un compagno di viaggio, un autore col quale intesse una conversazione e un
confronto continuo che arriva fino, alla fine, al libro su Platone. Questo
compagno di viaggio è Montaigne. Il riferimento ai Saggi è presente fin dalla
prima pagina del libro, dove in forma di exergo è riportata una lunghissima
citazione, quasi due pagine, dal capitolo 13 del libro III. Montaigne è per Biral
un autore cruciale, perché cruciale è per lui il problema della relazione leggicostumi-phronesis. In Dal diritto di resistenza alla ragion di Stato1, ne La genesi
dell’opposizione tra ‘pubblico’ e ‘civile’ del 1977, in Jean Bodin e la moderna scienza politica
(1980) e, soprattutto, in Montaigne e Charron. Etica e politica nell’epoca delle guerre di
religione (1982). Questi saggi vanno a formare, nel loro insieme, un capitolo a sé
sul pensiero politico della prima modernità in Francia, al cui centro sta la figura
di Montaigne, come dimostra anche la pubblicazione recente degli appunti delle
lezioni del corso del 1979-80, intitolato “Gli Essais di Montaigne”, a cura
dell’Associazione. Ha scritto Duso, parlando di Biral: “La rilevanza che
l’attraversamento dei classici viene ad assumere non sta tanto nella conoscenza
di una loro dottrina, ma piuttosto nel fatto che, mediante esso, noi riusciamo a
pensare.” In questo caso ciò che è da pensare, attraverso gli Essais, è l’idea
stessa di società, delle sue leggi, della sue “forme di governo”, e delle molte
discorsività che la attraversano. Non c’è nessuna assolutizzazione del testo nella
lezione di Biral, ma una sua continua messa in relazione con le pratiche, i
discorsi, i processi sociali, i conflitti religiosi, le autorappresentazioni dei ceti e
delle parti che compongono in una certa situazione storica il corpo della
Francia e che vivono la sua crisi. Biral si guarda bene dal fare di Montaigne un
teorico dell’assolutismo nascente o un conservatore cieco quando reagisce alla
violenza delle guerre civili, ma evita anche di farne un “liberale” avant la lettre, un
machiavelliano o un nostalgico repubblicano. Montaigne, ci dice Biral, non
aderisce ad alcuna filosofia politica ereditata dalla tradizione. Non vi è, in realtà,
alcuna filosofia politica di Montaigne. Ogni filosofia politica si infrange contro
il fatto che gli uomini ricevono la loro forma da una coutume che tutto può, e che
li piega a tal punto che è impossibile cambiarli. Vorrei provare a concentrare il
mio intervento di oggi proprio sulla nozione di “costume” nella lettura che Biral
fa dei Saggi. I riferimenti testuali, durante le lezioni, sono frequenti e molto
Pubblicato originariamente in: “il Centauro. Rivista di filosofia e teoria politica”, 10, gennaioaprile 1984, pp. 3-22. Ripubblicato poi, insieme al saggio su Bodin e a quello su Montaigne e Charron,
in A. Biral, Storia e critica della filosofia politica moderna, a cura di G. Duso, Franco Angeli, Milano 1999,
pp. 21-42.
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precisi. Così come dettagliata e puntuale è la ricostruzione del contesto storicopolitico delle guerre civili di religione in Francia e del vasto dibattito
costituzionale che fa da sfondo al discorso di Montaigne. Parlando dell’ultima
fase del conflitto, a un certo punto Biral dice (cito dagli appunti delle lezioni):
“Il re, secondo una tradizione antica, era inteso non come legislatore, ma come
giudice: spettava al re dare giustizia di diritti e libertà più o meno esistenti.
Esso aveva il compito di governare il paese, quindi anche di trovare delle
misure nuove in relazione alle occasioni. Queste non erano intese come
provenienti da un potere legislativo quanto come animazione del diritto
esistente (il re non fa le leggi, ma anima le leggi esistenti). L'animazione del
diritto deve poi trovare tutti d'accordo. Questa animazione deve essere intesa
appunto come animazione e non come innovazione.” Biral sottolinea come
Montaigne si riferisca a una visione complessiva della natura delle leggi.
“Questa concezione pone insieme in una unità inscindibile due lati che per noi
sono chiaramente distinti e cioè la serie di norme esistenti e la convinzione
soggettiva della loro giustezza. Un altro termine che esprime questo "buon
diritto" in una identità dei due lati, è il costume, le consuetudini nel senso di
prassi continua. Con le guerre civili e confessionali, i due lati, prima uniti,
incominciano a disgregarsi. Il diritto francese in tutta la sua estensione va
riconosciuto ormai come un diritto esistente di fatto, ma all'esistente di fatto
non deve più essere coniugato l'altro termine, cioè buono. Diventa, perché non
è più buono, semplicemente antico. Questo diritto non ricompone più, non ha
più la capacità di portare a concordia i francesi tra di loro, anzi divide.
Il fatto che adesso sia possibile dichiarare il diritto di fatto esistente
semplicemente come antico permette di intendere questo steso diritto come
costume nel senso moderno della parola.”, osserva Biral. Che, poco più
avanti, dice, parafrasando Montaigne: Le leggi derivano la loro autorità dal
possesso e dall'uso ed è pericoloso ricondurle alla loro origine...Queste leggi
tengono unita una società. Una società non è pensabile al di fuori delle leggi, ma
esse non sono il prodotto della ragione, ma sono il prodotto del caso e
dell'abitudine. Queste leggi bisogna seguirle perché una volta hanno garantito
una vita associata e permettono ad un individuo di non incrementare il
disordine, di agire in modo moderato e quindi equilibrato (la legge è la
codificazione di un uso già provato; i legislatori non fanno altro che codificare
un già dato incosciente di un commercio umano). Il fatto che gli uomini si
uniscano, è un insaccamento che avviene per caso, per continue frizioni ed
urti, ma questo insaccamento ha un risultato migliore di qualsiasi arte. Una
società non nasce come prima, sulla base di una funzionalizzazione degli uomini
ad un compito divino, ma ha una origine del tutto necessaria per Montaigne,
perché gli uomini non possono non vivere in società, il l o r o modo di
unirsi dipende dalle frizioni continue e dal loro modo irriflesso, casuale,
necessitato dall'esterno di incastrarsi l'uno con l'altro. La società è un risultato
che mette insieme caso e necessità. Una società politica si forma attraverso
tutti i vizi umani, cioè il cemento che tiene uniti questi uomini è la loro
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particolare natura, la quale riesce a mettere assieme diversi individui in virtù dei
loro vizi, per mezzo di pratiche assolutamente irriflesse. Come il costume,
anche la religione diventa un cemento irriflesso della società politica. Il passo al
quale si riferisce Biral, e che mi sembra segnare qui tutta la sua lettura,
si trova in De la vanité “Infine io vedo dal nostro esempio – scrive Montaigne
– che la società degli uomini si regge e si tiene unita a qualsiasi costo. In
qualsiasi condizione siano posti, essi si rannicchiano e si sistemano,
muovendosi e ammucchiandosi, come dei corpi male accozzati che vengano
insaccati senz’ordine trovano da soli il modo di unirsi e prender posto gli uni
fra gli altri, spesso meglio di come l’arte avrebbe saputo disporli” 2. Questo
spontaneo articolarsi interno è “fisiologico”, fisico-dinamico piuttosto che
organico: è ordinamento del sociale, suo referente concreto è la società plurale
degli uomini nella sua storicità, un ordinarsi della società piuttosto che una
relazione di mero comando-obbedienza. Non presuppone una gerarchia, una
“testa” che comanda dispoticamente sulle “membra” del corpo. E tuttavia, è
proprio da questo “articolarsi” che emana la legge: “La necessità mette insieme
gli uomini e li riunisce (compose les hommes et les assemble). Quest’unione fortuita
(Cette cousture fortuite) si trasforma poi in legge (se forme apres en loix)”. Non c’è,
all’origine, altra forza che quella della “necessità” anonima; non un potere
superiore che detta la legge e perpetua attraverso di essa l’obbligazione. La
tessitura si compone e “si tiene unita”; solo in seguito diventerà un “bastiment”:
cemento legante di questa trama della vita associata, coesa da una durata che si
distende nel tempo, da una osservanza collettiva che non è obbedienza passiva
ma piuttosto adesione: ai suoi occhi la coesione della civitas non ha per legante
necessario la razionalità o la giustizia di regole universalmente ammesse. “Il re
Filippo – scrive Montaigne – raccolse una massa (un amas) di uomini, i più
malvagi e incorreggibili che poté trovare, e li riunì tutti in una città che fece
costruire per loro, e che portava il loro nome. Io credo che essi creassero con
gli stessi vizi un’orditura politica (une contexture politique) fra di loro e una comoda
e ordinata società (juste societé)”. La società tiene finché gli uomini non
avvertono questo miscuglio di caso, coercizione e fortuna che costituiscono il
costume. Esiste giusta società, dice Montaigne, lì dove gli uomini si tengono
uniti, comunque ciò avvenga. Non esiste nessun tipo di legge razionale, la legge
è legge in quanto codifica un uso consolidato: l'espressione scritta di una legge
è semplicemente espressione di un già dato. A questa forza che possiede un uso
consolidato, la legge deve tutta la sua autorità, quindi la legge non vale perché la
dà un principe, ma perché la comunità si è assuefatta e l'ha assimilata assieme
alla propria natura. E qui Biral legge il passo famoso: “Ora, le leggi mantengono
il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. E’ il fondamento
mistico della loro autorità; non ne hanno altri”3.
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Montaigne, Saggi, III, 9, trad. it. a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 2004, p. 1272.
Montaigne, Saggi, cit., III, 13, p . 1433.
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Così, Montaigne riconosce l’autorità delle usanze, mentre le peintures de police
separate dall’uso e dai modi di vita si riducono a pure teorie – astratte e incapaci “à
mettre en pratique”. I miti della società ideale e della rigenerazione appaiono
allora come meri artifici, come descrizioni di governi “feintes par art”. Gli esseri
umani sono sempre già «obligez» e «formez» da determinati costumi, sempre già
radicati in una certa abitudine sociale, in certe maniere di essere, in certi modi di
fare che informano le loro relazioni e regolano il loro vivere insieme. Come
emerge bene da un passo della Repubblica che Biral riporta nelle ultime pagine
del suo Platone e la conoscenza di sé: “Non sai – dice Socrate rivolgendosi verso
Glaucone – che esistono tante forme di vita dell’uomo quante sono le forme di
governo? O credi tu che le forme di governo nascano da una quercia o da una
roccia e non invece dai caratteri dei cittadini, che là dove s’inclinano trascinano
con sé tutto il resto?”4. Una società non è pensabile al di fuori delle leggi, ma
esse non sono il prodotto della ragione, sono piuttosto il prodotto della
contingenza e dell'abitudine. Queste leggi bisogna seguirle perché una volta
hanno garantito una vita associata e permettono nel caos della guerra civile di
agire in modo moderato. Il venir meno di una società politica è il venir meno
del suo vigore e della sua forza ed è l'invecchiamento del costume che produce
una separazione tra l’uomo e il suo ethos. Il mantenimento degli stati è una cosa
che oltrepassa la nostra intelligenza, dice Montaigne, ed è vano cercare di
creare o riordinare una società politica in virtù di un progetto inventato dalla
legge. Vivere in questo mondo significa aderire, ma consapevolmente per il saggio,
ai costumi esistenti nel proprio paese. Questo comportamento secondo
Montaigne singolarizza il saggio. Il volgo vive costantemente irretito dentro il
costume credendolo verità etica assoluta ed è per questo che disprezza tutti gli
altri costumi che non siano i suoi. Il saggio vive con il popolo e non se ne
differenzia assolutamente nel modo di comportarsi perché sceglie il costume
esistente, “son exercitation suive l’usage”5. Ma il saggio, vivendo con il popolo, ha
questo di caratteristico: a partire dalla propria consapevolezza di che cos'è il
costume e dalla necessità di vivere secondo l’usage, può soggettivarlo e quindi
esercitare la propria capacità pratica. Ordinato alla nozione di “uso”, il punto di
vista adottato da Montaigne rivela la coerenza dell’affermazione politica che vi
si trova implicata. Quando la politica non è più governata dal sapere o dalla
ragione, si tratta comunque di governare la vita. La consapevolezza del saggio di
cui parla Biral a proposito di Montaigne richiede la lealtà nei confronti delle
istituzioni e delle leggi che nei Saggi è continuamente rivendicata e che si fonda
solo sulla coscienza e sulla riflessione. “Finché in questo regno ci sarà una legge
antica io mi ci atterrò”. Questo tipo di atteggiamento, nota Biral, permette di
assumere il “buon diritto antico”, dove ancora è presente e accettato, non per la
sua giustizia, che non ha più, e non ha mai avuto secondo Montaigne, ma
Platone, Repubblica, VIII, 544d-e, cit. in A. Biral, Platone e la conoscenza di sé, Franco Angeli, Milano
2013 (ma Laterza, Bari 1997), p. 210.
5 Montaigne, Saggi, I, 26, p. 167.
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perché consente all’uomo di adottare un comportamento, un ethos che
Montaigne chiama della “costanza”. Anche se dietro le leggi non si trova che
contingenza, arbitrio, passioni, ecco ciò che si rivela a Montaigne quando saggia
la consistenza delle leggi, delle norme e delle regolarità che si osservano in
generale, quando le valuta alla luce di ciò che le ha fatte nascere. Ciò che trova è
la precarietà della loro origine. Vale tanto per le leggi che per i costumi.
L’origine delle leggi e dei costumi, la loro nascita, segue la sorte di tutto ciò che
è nel tempo, ciò che muta continuamente, e che muore. Il mondo è “branloire
perenne”. Inevitabile è il fallimento di ogni “giustificazione” del diritto a partire
dalla sua origine. Solo nell’uso le leggi danno buona o cattiva prova di sé. E
richiedono un sapere, dice Biral commentando l’Eutidemo (298b), “nel quale il
fare venga a coincidere con il sapersi servire di ciò che si fa”, un sapere che
abbia in sé ed anzi sia il criterio del suo stesso uso e che perciò non esiste
indipendentemente dal suo essere in opera”6. In questo saggio su Platone a un
certo punto Biral dice: “A distanza di due millenni, annotando i sintomi dello
schiodarsi della monarchia francese e del suo mondo, Montaigne scrive che
ormai il sapere si trova rinchiuso nelle biblioteche e racconta di un suo
conoscente che, alla sua richiesta di dirgli cosa mai sapesse, gli rispose
indicando i libri che aveva letto. Si vuole diventare saggi – commenta
Montaigne – con la sapienza altrui e, parafrasando Platone, aggiunge: “la scienza
non è fatta per dar luce all’anima che non ne ha, né per far sì che un cieco veda;
il suo mestiere non è di procurarle la vista, ma di educargliela e di regolare il suo
passo purché essa abbia già i suoi piedi e le gambe dritti e robusti. E’ buona
medicina la scienza; ma nessuna medicina è abbastanza forte da conservarsi
senza alterarsi e corrompersi per il difetto del vaso che la contiene. Un tale ha la
vista buona, ma non è dritta; quindi vede il bene e non lo segue; vede la scienza
e non se ne serve”7. L'interiorità non è qualcosa di radicalmente separabile dal
corpo e dal suo “uso”, perché l'interiorità è una separatezza rispetto al mondo,
ma non ritaglia nell'uomo stesso una dimensione interna stabile rispetto a quello
che è all’esterno, appunto perché prodotta attraverso il movimento che gli è
consustanziale, un “uso”. La virtù è habitus, seconda natura, abitudine, si
acquista nel governo di sé, ma non designa un ambito spirituale separato. Essa,
oltre ad essere governo di sé, è “pratique des hommes” e uso del mondo. Phronesis,
prudenza, moderazione è il suo strumento, pratica di sé e degli altri, pratica del
mondo in cui abita: essa, dice Montaigne, “ama la vita, ama la bellezza e la gloria
e la salute. Ma la sua funzione propria e specifica è saper usare di quei beni con
misura (savoir user de ces biens là regleement)”8. Sapere ciò che si deve a se stessi,
«savoir être à soy» (ciò che Montaigne dice essere “la plus grande chose du
monde”, significa anche conoscere la giusta regola che deve misurare il nostro
uso (nel senso della krèsis o dell’usus degli stoici) degli altri, del mondo, delle cose
A. Biral, Platone: governo e potere, in Id., Storia e critica della filosofia politica moderna, cit., p. 325-326.
Ivi, p. 337.
8 Montaigne, Saggi, cit., I, 26, pp. 214-215.
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– vale a dire tutto ciò che deriva dalla prudenza mondana e politica, e che ha a
che fare con ciò che gli stoici comprendevano nella categoria degli officia. Nella
cura, nel prendere in cura, la vita in quanto cosa usabile coincide senza residui
con la vita in quanto capacità di usare: savoir user. La dimensione etica – la cura
di sé – non ha una consistenza autonoma: essa non ha altro luogo e altra
consistenza che la relazione d’uso fra l’uomo e il mondo. La ricerca politica e la
ricerca di se stessi vengono, così, a coincidere e disegnano la stessa strada; chi la
percorre – scrive Biral parlando di Platone – verrà a conoscere se stesso nel
significato pieno di questo termine: si prenderà cura di sé9. In questo senso si
comprende come le parole che descrivono la natura del politico possano valere
anche per Montaigne: “La politica non è un sapere che verte sulla città, come se
la città fosse un oggetto su cui è possibile comprensione esterna e sul quale è
possibile dall’esterno intervenire, ma è il sapere mai separabile di chi ha trovato e
sa ritrovare sempre e di nuovo la sua propria misura e in ciò riesce solo vivendo
nella città”10. La phronesis, così come la prudence in Montaigne, non è una dynamis:
“è un sapere che non propone il problema della sua utilizzazione, perché con il
suo buon uso si identifica e in questo vive”, scrive Biral11
La misura indicava ancora in Aristotele una norma razionale inscritta
nell’essere delle cose. La misura della prudenza è la verità pratica, cioè la regola
d’azione richiesta dalla situazione concreta. Una città particolare, legata a una
popolazione data, a un certo clima, a dei costumi, non assume che una
costituzione – il proprio del phronimos è saper trovare questa costituzione. L’ariston
métron – la moyenne mesure del capitolo De l’experience (III, 13) – indica una misura
non più iscritta nell’essere delle cose, ma in noi stessi. Tutto il capitolo III, 13
verte su un sapere che è acquisito attraverso l’esperienza di sé: l’oggetto finale di
un tale sapere è questa regola giusta che deve normare la nostra vita: “La
saggezza pratica – dice Biral – viene a mutare in tal modo significato”12. Non si
tratta più di una regola iscritta nell’essere, dato che con l’essere per Montaigne
“nous n’avons aucune communication”: si tratta di una regola immanente e
riconosciuta nell’esperienza del rapporto del nostro esprit con l’alternarsi degli
stati di salute e degli stati di malattia del nostro corpo – un alternarsi del quale
dobbiamo comprendere la giustezza e la legittimità. È in questa esperienza che,
per Montaigne, si conquista conoscenza di sé nel suo senso socratico, che è
anche costituzione di sé, “dare ordine a se stesso” e produrre così la propria
singolarità.
A. Biral, Storia e critica, cit., p. 329.
Platone e la conoscenza di sé, cit., p. 196.
11 Platone: governo e potere, in Storia e critica, cit., p. 328.
12 Montaigne e Charron. Etica e politica nell’epoca delle guerre di religione, ivi, p. 72.
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