Libro IV Delle obbligazioni Titolo IX Dei fatti illeciti L’art. 1173 stabilisce che le obbligazioni possono derivare anche da atti giuridici illeciti, ossia da comportamenti dolosi o colposi che un soggetto commette a danno di altri. Questi ultimi possono ulteriormente distinguersi in: a) illeciti civili, che sorgono dalla violazione di norme poste a tutela di interessi prevalentemente privati (contenute nel Codice civile e nelle sue leggi complementari). Tale violazione sottoporrà il soggetto a responsabilità civile e, quindi, ad essere punito mediante sanzioni civili (es. risarcimento del danno); b) illeciti penali (o reati), che sorgono dalla violazione di norme poste a tutela di interessi prevalentemente pubblici (contenute nel Codice penale e nelle sue leggi complementari). Tale violazione sottoporrà il soggetto a responsabilità penale e, quindi, ad essere punito mediante sanzioni penali (es. ergastolo, multa, arresto, ecc.). Di rilievo è la distinzione tra gli illeciti civili e penali sotto il profilo della tipicità; infatti: - l’illecito penale è essenzialmente tipico: nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge come reato; - l’illecito civile è essenzialmente atipico: qualunque atto doloso o colposo che provoca ad altri un danno ingiusto, obbliga chi lo compie a risarcire il danno [2043]. Le principali figure di illecito civile, in relazione ai diversi tipi di diritti lesi, sono rintracciabili nella violazione dei diritti della personalità: vita, integrità fisica, onore, riservatezza (o privacy), immagine, nome, identità personale. 2043. (1) Risarcimento per fatto illecito. – Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto (1438), obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno (2947; 185, 198 c.p.) . (1) A norma dell’art. 3, comma 1, del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 2012, n. 189, l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo. Dalla lettera della norma si evince che l’illecito civile consiste nel generico dovere giuridico di non arrecare danno ad altri, la cui violazione fa sorgere in capo a chi l’ha commessa, l’obbligo di risarcire tale danno: è questa la base concettuale su cui poggia la responsabilità extracontrattuale o aquiliana (dalla lex aquilia de damno che nel diritto romano disciplinava la materia). Possiamo dunque distinguere tra: - responsabilità contrattuale, che si manifesta quando l’illecito configura la violazione di uno specifico dovere giuridico (inadempimento di un’obbligazione preesistente fra le parti) [1218]; - responsabilità extracontrattuale, che si manifesta quando l’illecito configura la violazione di un generico dovere giuridico (di non ledere l’altrui sfera giuridica al di là di qualunque obbligazione preesistente fra le parti) (esempio n. 1). Le componenti essenziali della responsabilità per atto illecito si distinguono a seconda che l’ambito sia oggettivo o soggettivo. Le componenti oggettive sono: a) il comportamento antigiuridico: la responsabilità extracontrattuale presuppone una condotta contraria all’ordinamento giuridico, un atto illecito appunto, che può essere tanto commissivo quanto omissivo (esempio n. 2); b) il danno: ledere l’altrui diritto vuol dire provocare un danno. Questo può essere: - patrimoniale, allorché cagioni pregiudizio al patrimonio del soggetto. Per questo esso sarà suscettibile di valutazione economica e ulteriormente distinguibile in danno emergente (in rela- 47 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 47 27-11-2014 11:04:21 2043 zione alle spese sostenute) e in lucro cessante (in relazione al mancato guadagno) (esempio n. 3); - non patrimoniale (o morale), allorché cagioni pregiudizio a beni di natura personale non suscettibili di valutazione economica, ossia risarcibile solo in sede penale, qualora l’atto illecito costituisca fattispecie delittuosa (esempio n. 4). Nell’ambito del danno non patrimoniale distinguiamo: 1) il danno alla vita di relazione, consistente in un deterioramento della vita socio- affettiva di un soggetto causato da gravi menomazioni psico-fisiche (esempio n. 5); 2) il danno biologico (o della salute), consistente in qualsiasi lesione duratura dell’integrità fisica di un individuo a prescindere dal fatto che provochi o meno lucro cessante: in altre parole il risarcimento si avrà anche se il danno non significherà anche mancato guadagno (v. D.Lgs. n. 38 del 2000, sugli infortuni in ambito lavorativo e L. n. 57 del 2001, sul risarcimento del danno di lieve entità). A riguardo la Cassazione ha ribadito che il danno biologico è, per espressa definizione legislativa, anche in ambito lavoristico (art. 13 del decreto legislativo 38/2000), la lesione della integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico legale. Vi è pertanto danno biologico quando la lesione della integrità psicofisica sia suscettibile di valutazione medico legale (così Cassazione n. 5437 del 2011); 3) il danno esistenziale (o meglio “danno non patrimoniale da pregiudizio esistenziale” ex Cass. civ. S.U. 26972/2008), derivante dalla forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, ma non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica; c) il nesso di causalità (tra comportamento e danno): perché un comportamento illecito possa essere addebitato ad un soggetto non è sufficiente la presenza di una condotta e di un evento, ma è necessario che l’evento sia la conseguenza diretta della condotta, cioè che tra i due sussista un rapporto di causa ad effetto (esempio n. 6). In proposito sono state elaborate dalla dottrina le seguenti teorie: - della causalità naturale (condicio sine qua non): è causa qualsiasi antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato; - della causalità adeguata: è causa la condotta umana che, oltre ad essere condizione indispensabile per la causazione dell’evento, è, altresì, secondo un giudizio anteriore rispetto al compimento della condotta, idonea a provocare CODICE CIVILE l’evento. Tale teoria esclude il nesso di causalità quando gli effetti della condotta non erano probabili secondo l’id quod plerumque accidit (cioè in base alla comune esperienza); - della causalità umana: è causa la condotta dell’uomo che si costituisce come antecedente necessario per la realizzazione dell’evento, quando questo non si è verificato con il concorso di fattori eccezionali; - della sussunzione sotto leggi scientifiche: è causa l’azione che, secondo il miglior metodo scientifico e la migliore esperienza del momento storico, è in grado di provocare l’evento con un’alta percentuale di probabilità. Fra le diverse teorie illustrate, quest’ultima è quella maggiormente seguita dalla più recente giurisprudenza. Per quel che concerne il risarcimento si rinvia al commento sub artt. 2058 e 2059. Occorre solo specificare che, ai fini della sua risarcibilità, il danno deve essere ingiusto (esempio n. 7). Invero, affinché la responsabilità sia posta a carico del soggetto non devono essere presenti elementi considerati dall’ordinamento come cause di giustificazione della sua condotta (c.d. scriminanti): si tratta, in pratica, di quelle situazioni eccezionali in presenza delle quali un determinato fatto, che normalmente costituisce reato, non è così considerato perché la legge o lo impone o lo consente, per cui, escludendo l’illiceità del fatto escludono, conseguentemente, anche l’obbligo del risarcimento. Le scriminanti disciplinate dal codice civile, ma più compiutamente dal codice penale, sono: a) la legittima difesa [2044] [c.p. 52]; b) lo stato di necessità [2045] [c.p. 53]; c) il consenso dell’avente diritto [c.p. 50], inteso come atto giuridico che permette al destinatario di agire con l’approvazione dell’avente diritto. Tale consenso ha, però, dei limiti, perché può essere validamente prestato solo se l’azione permessa incide su diritti disponibili, quindi, sostanzialmente su diritti patrimoniali. Non sono beni di cui il soggetto può disporre, invece, quelli riconducibili a diritti indisponibili, come ad esempio l’integrità fisica, i diritti personalissimi, il diritto al nome, all’onore, ecc.; d) l’esercizio di un diritto [c.p. 51], che si ha quando il soggetto, pur compiendo la condotta prevista in una fattispecie incriminatrice, non viene riconosciuto responsabile dell’illecito perché la legge gli consente di esercitare quel diritto attraverso quella determinata azione che normalmente costituisce reato (esempio n. 8); 48 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 48 27-11-2014 11:04:21 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 e) l’adempimento di un dovere [c.p. 51], che giustifica il soggetto agente e che può scaturire da: - norme giuridiche (legge o atto avente forza di legge, norma regionale, regolamento o consuetudine richiamata dalla legge, norme di un ordinamento straniero, ma soltanto quando il diritto internazionale pretenda che il dovere sia ritenuto valido dalla Stato italiano); - un ordine dell’Autorità (ossia il comando che il titolare di un potere di supremazia rivolge al suo inferiore, affinché questi compia una determinata condotta e, per essere vincolante, è necessario che sia formalmente e sostanzialmente legittimo). Le componenti soggettive sono: a) imputabilità [2046]; b) colpa, che ricorre allorché l’atto illecito sia stato compiuto: - per negligenza, ossia senza il dovuto impegno; - per imprudenza, ossia senza la dovuta attenzione; - per imperizia, ossia senza la necessaria competenza; - per mancato rispetto di determinate norme giuridiche (si pensi al codice della strada); c) dolo, che ricorre allorché l’atto illecito sia stato compiuto con la consapevolezza di arrecare danno ad altri, ovvero prevedendo e accettando il danno quale probabile conseguenza della propria condotta. Ai fini della responsabilità extracontrattuale: - non importa se l’illecito sia stato compiuto con colpa o con dolo, posto che colui il quale l’ha commesso è, in ogni caso, tenuto a risarcire tutti i danni provocati (prevedibili o imprevedibili che fossero); - non importa nemmeno il grado della colpa (che sia di lieve o di grave entità), posto che anche se fosse minima presupporrebbe l’obbligo di risarcire integralmente il danno; - importano, invece, il caso fortuito e la forza maggiore perché escludono la colpa; - non sussiste una presunzione di colpa a carico di chi commette l’illecito, posto che l’onere della prova spetta al danneggiato: chi vuol far valere un diritto deve dare la prova del suo fondamento [2697]. La Cassazione ha avuto occasione di rispondere ad uno spinoso quesito: è possibile tenere conto nella valutazione del danno risarcibile dell’avvenuto decesso del danneggiato? E pertanto del minor patimento sofferto? In considerazione del fatto che il danno morale viene liquidato nel- 2043 la misura della metà rispetto al danno biologico, la riduzione del quantum debeatur riferito a quest’ultimo determina automaticamente la diminuzione anche del danno morale risarcibile? Così come accade per il danno patrimoniale, risponde la Suprema Corte, anche per il danno biologico si deve tener conto della durata effettiva della vita del soggetto leso, ovviamente quando ciò sia possibile, ai fini della sua liquidazione. Trattandosi di due diverse ipotesi di danno, aventi presupposti del tutto distinti non si può prevedere nessun automatismo e ogni statuizioni di risarcimento richiede un’impugnazione specifica. In particolare l’età in tanto assume rilevanza ai fini della liquidazione del danno alla salute (lato sensu biologico) in quanto col crescere dell’età diminuisce l’aspettativa di vita, sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica. Ne consegue che, quando invece la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto per essere il soggetto deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicofisica del soggetto leso per l’intera durata della sua vita residua. Durata che è normalmente presunta (da qui la considerazione dell’età e della relativa speranza di vita in caso di lesioni che non abbiano provocato la morte), ma che è invece nota se la morte sia sopravvenuta. Non si può ritenere che una volta impugnata la sentenza in ordine alla liquidazione del danno biologico, è devoluta al giudice del gravame anche la statuizione relativa al danno morale, per essere stato lo stesso “manifestamente rapportato” alla metà del danno biologico (così Cassazione n. 22338 del 2007). A seguito di due importanti pronunce della Cassazione (n. 500 del 1999 e n. 157 del 2003), l’interesse legittimo acquisisce una sua autonomia risarcitoria: a) la normativa sulla responsabilità aquiliana di cui all’articolo in commento ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno, cioè, inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di 49 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 49 27-11-2014 11:04:22 2043 un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato dall’articolo in oggetto, non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela: spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l’ordinamento appresta tutela risarcitoria all’interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione. Ne consegue che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima della P.A., l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo (così Cassazione n. 500 del 1999) (esempio n. 9); b) sussiste la responsabilità della P.A. nei confronti dei privati con i quali sia intercorsa una convenzione di lottizzazione, per i danni procurati dal deprezzamento del terreno, ancorché non sia stato ancora conseguito lo ius aedificandi, qualora l’edificabilità sia stata preclusa da un piano regolatore poi annullato per mancanza di motivazione a nulla rilevando che un successivo piano, approvato regolarmente, abbia disposto nel medesimo senso (così Cassazione n. 157 del 2003). In pratica la responsabilità della P.A. nei confronti del privato sussiste ogni qualvolta un atto illegittimo ne abbia compresso la posizione di vantaggio. Nel solco così tracciato lo stesso giudice di legittimità ha sottolineato che la parte che chieda il risarcimento da lesione dell’interesse pretensivo è tenuta a fornire al giudice tutti gli elementi per la dimostrazione di una positiva valutazione della propria istanza. Infatti mentre nella lesione di un interesse oppositivo viene in rilevo il sacrifico dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio conseguente l’illegittimo esercizio del potere - nella lesione di un interesse pretensivo la verifica della illegittimità (e l’eventuale annullamento) dell’atto, è condizione necessaria, ma non sufficiente per il risarcimento, essendo necessario un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della pretesa dell’istante CODICE CIVILE ad ottenere il provvedimento favorevole. Da ciò consegue che il diritto del privato al risarcimento del danno prodotto dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica prescinde dalla qualificazione formale della posizione di cui è titolare il soggetto danneggiato in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, considerato che la tutela risarcitoria è fatta dipendere ed è garantita in funzione dell’ingiustizia del danno conseguente alla lesione di interessi giuridicamente riconosciuti. Per tali motivi la tecnica di accertamento della lesione varia a seconda della natura dell’interesse legittimo nel senso che, se l’interesse è oppositivo, occorre accertare che l’illegittima attività dell’Amministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio, mentre, se l’interesse è pretensivo, concretandosi la sua lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio prognostico, da condurre in base alla normativa applicabile, la fondatezza o meno della richiesta di parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole (così Cassazione n. 18511 del 2007). La Suprema Corte, con sentenza n. 20986 del 2007, ha avuto modo di ribadire il proprio orientamento interpretativo circa la responsabilità della P.A. per danni cagionati dai propri dipendenti. In particolare affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Invero la riferibilità alla P.A. del fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente viene meno quando lo stesso agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente. In tale ipotesi 50 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 50 27-11-2014 11:04:22 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A. La giurisprudenza di merito pur ammettendo, nel suo orientamento più recente, la configurabilità della responsabilità aquiliana nell’ambito dei rapporti coniugali per violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio, sottolinea che non ogni violazione degli obblighi in parola può essere fonte di un danno risarcibile in via aquiliana, né il mero addebito della separazione può essere sanzionato ex art. 2043 c.c., pena lo stravolgimento della funzione propria della responsabilità civile quale strumento volto a riallocare le esternalità negative in un’ottica non solo compensatrice, ma di deterrenza adeguata. Il ricorso al presidio della responsabilità civile, infatti, è legittimo al cospetto di condotte dolosamente, anche in termini di dolo eventuale, o gravemente colpose, eziologicamente ricollegabili alla lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela nell’ambito del consueto giudizio di bilanciamento proprio del settore in questione (così Trib. Venezia 3 luglio 2006). Interessante risulta la posizione della giurisprudenza di legittimità in ordine al danno esistenziale da pubblicità ingannevole (nella specie la questione ha riguardato la dicitura “light” riportata da alcune marche di sigarette). Premesso che la direttiva 2001/37/CE, attuata in Italia nel 2003, vieta l’uso di diciture, quali, appunto, quella “lights”, idonee a suggerire che un determinato prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. Ciò non esclude la possibilità di ritenere integrata la responsabilità aquiliana per l’uso, fatto antecedentemente, della dicitura in questione. Rilevante a tal fine che il fatto colposo dell’agente abbia cagionato un danno ingiusto consistente nella lesione dell’altrui sfera giuridica. I principi ispiratori della responsabilità civile pretendono la prova del danno assuntamente subito, nella specie il danno morale, o meglio il danno esistenziale o danno da stress. Il danno risarcibile è, anche nella responsabilità aquiliana, un danno conseguenza e come tale, al fine di ottenerne il risarcimento, ne va provata l’esistenza. L’articolo in commento nel richiedere il danno ingiusto (e non il fatto illecito) pone, quale fulcro del risarcimento, l’incisione, per opera del comportamento colposo dell’agente, della sfera giuridica altrui presidiata dall’ordinamento. È necessaria, in ogni caso, la prova del danno (esistenziale) nonché la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta del soggetto che si ritiene leso e il danno derivatone. Ai fini del risarcimento del danno 2043 da responsabilità aquiliana, lo stesso lungi dall’essere in re ipsa va provato, riconferma che tale onere probatorio incombe sull’attore danneggiato (cfr. Cassazione n. 15131 de 2007). Anche le Sezioni Unite, con sent. n. 794 del 2009, si sonno espresse in ordine al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) da pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie sigarette del tipo “light”). L’apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l’ha commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall’esistenza di una specifica disposizione o di un provvedimento che vieti l’espressione impiegata. Il consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole ed agisca, ai sensi dell’articolo in commento, per il relativo risarcimento, non assolve al suo onere probatorio dimostrando la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio sarebbero derivate le menzionate conseguenze dannose. I giudici di legittimità hanno altresì dovuto pronunciarsi su una spinosa questione giuridica attinente alla problematica del risarcimento del danno conseguente alla lesione del bene- vita dello straniero legalmente soggiornante in Italia a favore dei suoi familiari non residenti. La delicata controversia verte su quello che è il rapporto tra la condizione di reciprocità ed il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Il responsabile civile si trova, infatti, su posizioni nettamente antitetiche rispetto alla teoria avanzata dalle parti civili (i familiari della vittima) laddove, richiamando il disposto di cui all’art. 16 preleggi, che riconosce allo straniero il godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità, fatte salve le disposizioni contenute in leggi speciali, subordina il riconoscimento dei diritti fondamentali alla sola presenza della condizione suddetta. La Suprema Corte accoglie il ricorso presentato dalle parti civili in quanto riconosce che l’art. 16 si riferisce unicamente alla capacità di diritto privato e non ai diritti politici che rimangono, invece, riservati in linea di massima ai cittadini, indipendentemente da qualsiasi riferimento alla regolamentazione che i diritti stessi assumono in altri stati. 51 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 51 27-11-2014 11:04:22 2043 La reciprocità, infatti, è da intendersi soddisfatta allorché risulta che lo Stato estero non ponga alcuna discriminazione a danno del cittadino italiano. È, altresì, affermato in giurisprudenza che tale condizione oltre a non essere richiesta quando il diritto azionato riguarda i diritti inviolabili, quali il diritto alla libertà, l’inviolabilità del domicilio, la libertà e segretezza della corrispondenza, la libertà religiosa, la libertà di manifestazione del pensiero, la tutela giurisdizionale, la personalità della responsabilità penale, non vada invocata anche quando si faccia riferimento a diritti inviolabili come la vita e la salute, che non possono dipendere dalla legislazione vigente nel paese dello straniero altrimenti ponendosi in contrasto con i principi costituzionali coi quali l’art. 16 deve sempre confrontarsi. Posto che, in ordine all’estensione dei diritti dello straniero soggiornante in Italia ai propri parenti prevista dalla normativa sull’immigrazione, non vi è alcuna distinzione tra i familiari residenti e non residenti in Italia, la Corte riconosce che spetta a questi ultimi il risarcimento per la perdita del bene fondamentale della vita del loro congiunto causata da un fatto penalmente rilevante. La Costituzione, infatti, trattandosi di doveri inderogabili di solidarietà sociale, tutela il diritto de quo riconoscendolo a tutte le persone, indipendentemente dal loro status di cittadini o di stranieri. Discriminare la posizione e sostenere che solo i familiari stranieri soggiornanti in Italia hanno diritto al risarcimento, senza condizione di reciprocità, mentre coloro che vivono all’estero ne sono soggetti, rileverebbe una irragionevole disparità di trattamento fondata su di una interpretazione della legge sull’immigrazione del tutto disancorata dai principi fondanti della Costituzione. Ragionando diversamente si verificherebbe che la vita di uno straniero senza congiunti in Italia varrebbe molto meno di quella del cittadino italiano pur essendogli attribuiti in vita gli stessi diritti: si prescinderebbe, infatti, dai rapporti relazionali ed affettivi che, al contrario, ad altri soggetti vengono riconosciuti come produttivi di effetti giuridici dopo la morte. Per il solo fatto che queste relazioni riguardano persone non ricongiunte in Italia, verrebbe negato il diritto dello straniero soggiornante in Italia ad essere tenuto in considerazione, dopo la morte, per la perdita anche economica subita dai suoi congiunti. La perdita della vita umana in questo caso non troverebbe alcuna forma di risarcimento, nonostante il rapporto del cittadino con lo Stato italiano non CODICE CIVILE sia stato occasionale, ma dovuto ad una richiesta di lavoro di cui lo Stato italiano si è giovato. Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte di Cassazione, effettuando una ragionevole lettura del regolamento della legge sull’immigrazione, ritiene che il trattamento giuridico conseguente alla lesione del bene-vita spetta, alla stessa stregua dei quelli del cittadino italiano, anche ai familiari dello straniero, siano o meno conviventi in Italia (così Cassazione n. 5471 del 2009). Ricordiamo che con sentenza 6 febbraio 2009, n. 28, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni), nella parte in cui non prevede che i benefici riconosciuti dalla legge citata spettino anche ai soggetti che presentino danni irreversibili derivanti da epatite contratta a seguito di somministrazione di derivati del sangue. La Consulta ha rilevato che dalla disciplina complessiva del 1992 emerge che, mentre l’indennizzo è sempre riconosciuto nel caso di soggetti che abbiano contratto infezioni da HIV, siano esse derivate dalla somministrazione di sangue ovvero di emoderivati, ai soggetti che abbiano contratto l’epatite il beneficio è concesso solo nel caso in cui la malattia sia conseguita a trasfusione, ovvero, se si tratta di operatori sanitari, nelle ipotesi di contatto con il sangue o suoi derivati. Resta priva di tutela, invece, l’ipotesi in cui l’infezione da epatite sia conseguita alla somministrazione di emoderivati. Dunque, con riguardo a tale caso, si interrompe il parallelismo con la disciplina prevista a favore dei soggetti affetti da infezione da HIV. Il giudice delle leggi conclude affermando che il mancato riconoscimento dell’indennizzo a favore di coloro che abbiano contratto l’epatite a seguito di somministrazione di emoderivati non trova alcuna ragionevole giustificazione, dal momento che, del tutto immotivatamente, tale fattispecie resta priva di tutela. La stessa Corte, con sent. n. 107 del 2012, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui non prevede il diritto ad un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, nei confronti di coloro i quali abbiano subìto le conseguenze previste dallo stesso articolo 1, comma 1, a seguito di vaccinazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia (Corte cost. 107/2012). 52 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 52 27-11-2014 11:04:22 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 1. Gianni alla guida del suo taxi, provoca un incidente e cagiona danni fisici a Luca, suo passeggero e a Claudia che in quel momento attraversava la strada. Gianni sarà responsabile contrattualmente nei confronti di Luca ed extracontrattualmente nei confronti di Claudia. Se poi, non si adopera a pagare i danni a quest’ultima, incorre anche nei suoi confronti in responsabilità contrattuale, essendo tenuto ad adempiere anche in virtù di una fonte non contrattuale dell’obbligazione. Si osserva, a riguardo, la recente posizione della giurisprudenza di legittimità in base alla quale il conducente di un veicolo, essendo obbligato in base alle comuni regole di diligenza e prudenza - ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza, risponde per il pregiudizio all’integrità fisica che il trasportato abbia subìto a seguito del sinistro (così Cassazione n. 4993 del 2004). 2. Emblematico è l’esempio di chi, distraendosi dalla guida, tampona un’altra auto parcheggiata sul ciglio della strada (atto illecito commissivo), o di chi non ripulendo il marciapiedi dinnanzi casa dalla neve, provoca la caduta dei passanti (atto illecito omissivo). 3. Dario viene investito da un’automobile ed è costretto al ricovero in ospedale. Il danno emergente sarà costituito dalle spese di ricovero e dalle cure mediche e riabilitative; il lucro cessante, dal mancato guadagno causato dall’impossibilità di lavorare. 4. Beni di natura personale sono la tranquillità, la libertà, l’onore, l’immagine. 5. Si pensi a chi, a causa di un incidente stradale si trova costretto su di una sedia a rotelle e col volto completamente sfigurato. 6. Sussiste nesso di causalità tra la condotta di chi getta a terra una buccia di banana e l’evento lesivo rappresentato dalla frattura del soggetto che vi scivola poco dopo sopra, sempreché si dimostri che tale frattura sia stata provocata proprio da quella buccia di banana e non da altre cause (come potrebbe essere la caduta dalle scale di casa o da cavallo). 7. Esistono anche ipotesi di danno che l’ordinamento giustifica: si pensi, per tutti, al caso di licenziamento per giustificato motivo (crisi d’impresa). 8. Luigi abbandona la fabbrica dove lavora per esercitare il diritto di sciopero. 9. a) In materia di appalti pubblici la regolamentazione delle gare fa acquisire uno specifico rilievo al contatto tra partecipante e pubblica amministrazione configurando in capo al concorren- 2043 te interessi legittimi sia pretensivi che oppositivi, la cui lesione, correlata al pregiudizio al bene sostanziale tutelato attraverso le norme violate, è fonte del diritto al risarcimento (così Cassazione n. 9366 del 2003). b) In caso di esclusione illegittima di un concorrente da una gara d’appalto pubblico, per valutare l’ingiustizia del danno e la conseguente sua risarcibilità, occorre, da un lato, fare riferimento alla posizione del soggetto leso e, dall’altro, accertare se questi sia titolare di una semplice aspettativa, una semplice chance, oppure se, invece, si trovi in una situazione suscettibile di determinare un affidamento oggettivamente valutabile circa la conclusione in senso a lui favorevole (così Cassazione n. 11738 del 2003). u La responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.) ricorre solo allorquando la pretesa risarcitoria venga formulata nei confronti di un soggetto autore di un danno ingiusto, non legato all’attore da alcun rapporto giuridico precedente o, comunque, indipendentemente da tale eventuale rapporto, mentre, se a fondamento della pretesa venga enunciato l’inadempimento di un’obbligazione volontariamente contratta, ovvero anche derivante dalla legge (art. 1173 c.c.), è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale o legale (7989/1994, rv 487968). u Il principio secondo cui, a norma degli artt. 2043 c.c. e segg. affinché sorga l’obbligazione del risarcimento del danno è sufficiente un fatto che pregiudichi l’interesse altrui, ma occorre che esso abbia arrecato un danno ingiusto, va inteso nel senso che, mentre per tutti i fatti dannosi non costituenti reato, l’ingiustizia del danno è da intendersi (oltreché nell’accezione di danno prodotto “non iure” e, cioè, in assenza di cause giustificative del fatto dannoso) anche “contra ius” (vale a dire come fatto che incida su una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto), per i danni prodotti da reato, invece, l’ingiustizia è in “re ipsa” e non ha, quindi, bisogno di essere riconnessa alla violazione di un diritto soggettivo (1540/1995, rv 490387). u È ammissibile il concorso tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale di fronte ad un medesimo fatto che violi contemporaneamente non soltanto diritti derivanti dal contratto, ma anche i diritti spettanti alla persona offesa indipendentemente dal contratto stesso (418/1996, rv 495504). u In tema di risarcibilità dei danni conseguiti da fatto illecito (o da inadempimento, nell’ipotesi di responsabilità contrattuale) il 53 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 53 27-11-2014 11:04:23 2043 nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della cd. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel momento in cui si produce l’evento causante, le conseguenze dannose di esso non appaiono del tutto inverosimili (combinazione della teoria della “condicio sine qua non” con la teoria della “causalità adeguata”) (5913/2000, rv 536323). u Poiché l’articolo 2043 c.c., correlato agli articoli 2 della Costituzione e segg., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) (7713/2000, rv 537372). u In tema di risarcimento del danno da illecito, il principio della “compensatio lucri cum damno” trova applicazione solo quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale dipendano dal medesimo fatto. Ne consegue che, in caso di morte di una persona cagionata dall’altrui illecito, non rileva che il coniuge diventi titolare di pensione di reversibilità, fondando tale attribuzione su un titolo diverso dall’atto illecito (4205/2002, rv 553234). u In relazione al furto da parte di persone introdottesi nell’appartamento attraverso i ponteggi installati per i lavori di restauro dello stabile, va affermata la responsabilità, ai sensi dell’art. 2043 c.c., dell’impresa che per tali lavori utilizza i suddetti ponteggi, qualora, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa adozione delle cautele atte ad impedire l’uso anomalo delle impalcature, e così violando il principio del neminem laedere, abbia colposamente creato un agevole accesso ai ladri ponendo in essere le condizioni del verificarsi del danno (2844/2005). u Colui il quale subentra ad altri nel possesso di un appartamento in qualità di acquirente o di conduttore è tenuto a controllare, oltre all’efficienza dei servizi, anche la loro regolare tenuta in ragione dell’utenza che ne è stata fatta. Pertanto è responsabile dei danni subiti CODICE CIVILE dall’ente erogatore dell’energia elettrica chi, al momento dell’acquisto dell’appartamento, versi in colpa per non aver controllato l’integrità del misuratore (manomesso dal precedente proprietario), in quanto, ai fini della sussistenza della colpa, l’art. 2043 c.c. richiede che l’evento non sia voluto dall’agente, ma si verifichi, oltre che per inosservanza di norme giuridiche, per negligenza, imprudenza, imperizia, la cui misura di valutazione è rapportata alla diligenza dell’uomo medio (7679/2005). u Tra le aspettative che la morte di un figlio in giovane età fa venir meno per i genitori, e alle quali deve essere commisurato l’ammontare del risarcimento a carico del responsabile dell’evento, vi è anche quella di un apporto del figlio all’attività economica del padre (o della famiglia) nel campo dell’industria, del commercio, dei mestieri, delle professioni, quando tale apporto non si fondi su semplici speranze o su ipotetiche eventualità, ma su una ragionevole previsione, affidata a un criterio di ponderata probabilità, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (8002/2005). u Colui che chiede il risarcimento dei danni derivatigli, quale vittima secondaria, dalla lesione materiale subita dalla persona con cui convive a causa della condotta illecita di un terzo, deve dimostrare l’esistenza e la portata della convivenza instaurata con la medesima. E ciò perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela giuridica di fronte ai terzi (8976/2005). u La responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e della successiva verificazione, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, mentre ai fini della configurazione di siffatta responsabilità è del tutto indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno, svolgendo rilievo la correttezza dell’esecuzione agli effetti della configurazione di una responsabilità sotto un profilo diverso, cioè riconducibile, ancorché nel quadro dell’unitario rapporto in forza del quale il trattamento è avvenuto, direttamente alla parte della prestazione del sanitario (e di riflesso della struttura 54 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 54 27-11-2014 11:04:23 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 ospedaliera per cui egli agisce) concretatesi nello svolgimento dell’attività di esecuzione del trattamento (5444/2006). u I postumi permanenti conseguenti ad un fatto lesivo della persona, in quanto incidenti sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l’aspetto patrimoniale allorché, pur determinando una cosiddetta micropermanente sul piano strettamente biologico, tali esiti provochino negative ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato e ad ogni altra utile circostanza particolare (12423/2006). u In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell’evento, e ne costituisca un antecedente causale, l’agente deve rispondere per l’intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all’agente i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell’agente stesso per l’intero danno differenziale (13400/2007). u A differenza dalla responsabilità penale, la responsabilità civile e quella amministrativa si connotano per l’imputazione del danno, piuttosto che del fatto dal quale il danno deriva. La responsabilità, infatti, è sì costruita, sul piano strutturale, intorno al danno, e tuttavia un fatto è essenziale affinché il danno sorga. Questo «fatto» ha un’articolazione complessa, constando di tre elementi fondamentali: condotta, nesso causale ed evento lesivo. Tali elementi danno luogo, complessivamente, al fatto illecito, e siccome il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria è esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo, sinchè l’evento lesivo non si verifica il fatto non si perfeziona e non può derivarne alcun danno (14297/2007). u Nella struttura dell’articolo 2043 c.c. non si richiede che il fatto sia illecito ma solo se il danno sia ingiusto, per cui rileva che il fatto (assistito almeno dalla colpa dell’agente) abbia 2043 prodotto la lesione di una posizione giuridica altrui, ritenuta meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, lesione non altrimenti giustificata (15131/2007). u Il bene “salute” ed il bene “vita” costituiscono beni distinti e tutelati in forma distinta. Mentre infatti il primo ammette una forma di tutela risarcitoria, il secondo no, in quanto, essendo strettamente connesso alla persona del suo titolare, non se ne può concepire la autonoma risarcibilità quando tale persona abbia cessato di esistere. Ne consegue che, in caso di morte di un individuo causata dall’altrui atto illecito, ove la morte sia contestuale all’azione dannosa, nulla è dovuto agli eredi a titolo di risarcimento “jure successionis” del danno biologico sofferto dal loro dante causa, in quanto questi non ha mai subìto alcun “danno biologico” rigorosamente inteso (18163/2007). u Chi pretende il risarcimento del danno, ex articolo 2043 c.c., da tardiva assunzione conseguente a provvedimento illegittimo della P.A. non può allegare, a tale titolo (in particolare, sotto forma di lucro cessante), la mancata percezione delle retribuzioni che si sarebbero potute percepire e che sarebbero state versate per la contribuzione assicurativa in ipotesi di tempestiva assunzione, in quanto queste presuppongono l’avvenuto perfezionamento del rapporto di lavoro e rilevano sotto il profilo della responsabilità contrattuale. Al contrario, l’attore deve allegare e dimostrare i pregiudizi di tipo patrimoniale e/o non patrimoniale che siano eventualmente derivati dalla condotta illecita che si assume essere stata causa del danno lamentato (26282/2007). u In materia di diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, qualora si tratti di un illecito che, dopo un primo evento lesivo, determina ulteriori conseguenze pregiudizievoli, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria per il danno inerente a tali ulteriori conseguenze decorre dal verificarsi delle medesime solo se queste ultime non costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto, bensì la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile (580/2008). u Esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria (581/2008). 55 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 55 27-11-2014 11:04:23 2043 u Occorre distinguere il caso in cui la morte segua immediatamente o quasi alle lesioni, da quello in cui tra le lesioni e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo: nel primo caso si esclude la configurabilità del danno biologico, in quanto la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, incidendo sul diverso bene giuridico della vita; la si ammette, viceversa, nel secondo caso, essendovi un’effettiva compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, e se ne riconosce la trasmissibilità agli eredi (870/2008). u Provata la riduzione della capacità di lavoro specifica, se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità, (c.d. micropermanenti, le quali non producono danno patrimoniale, ma costituiscono mere componenti del danno biologico), è possibile presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura (non necessariamente in modo proporzionale), qualora la vittima già svolga un’attività o presumibilmente la svolgerà (1690/2008). u Ai fini della quantificazione e liquidazione ai genitori del danno morale per la morte di un figlio malato, non assume alcun rilievo lo stato di malattia del figlio stesso (5282/2008). u La circostanza secondo la quale il grave stato di disagio psichico del giovane malato comporterebbe, ipso facto, una diversa e minore intensità del rapporto affettivo con i genitori risulta anch’essa destituita di qualsivoglia concreto supporto probatorio, vero essendo, in contrario, che, secondo l’id quod plerumque accidit, gravi affezioni e preoccupanti patologie di un figlio intensificano, piuttosto che diminuire, il legame emozionale con il genitore (5282/2008). u Il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute. Il legislatore regionale, pertanto, non può disciplinare gli aspetti afferenti ad una disciplina di dettaglio del principio in esame (Corte cost. 253/2009). u È extracontrattuale, atteggiandosi come elusione del generale principio del “neminem laedere”, la responsabilità del soggetto erogatore di energia elettrica, qualora all’utente sia cagionato un incendio che investa una parte della rete di distribuzione estranea alla struttura dell’impianto dello stabile e quindi al rapporto derivante dal contratto di somministrazione di energia elettrica (26671/2008). CODICE CIVILE u Qualora il curatore fallimentare, che abbia qualifica di dottore commercialista, sia dichiarato responsabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 38, comma primo, legge fall. ed art. 2043 c.c., del danno ingiustamente cagionato alla procedura concorsuale nell’espletamento della sua attività di ausiliario di giustizia, l’assicuratore della responsabilità civile per la sua attività professionale deve tenerlo indenne, salvo che il rischio sia espressamente escluso dal contratto (2460/2009). u Il mancato tempestivo recepimento di direttive comunitarie costituisce illecito legislativo e genera un’obbligazione indennitaria ex lege se in presenza di grave violazione ed un simmetrico diritto del danneggiato ad essere compensato della perdita subita in conseguenza dell’inadempimento (ritardo) apprezzabile secondo criteri oggettivi (credito di valore), riconducibile quindi alla responsabilità contrattuale, senza che sia necessaria la prova del dolo o della colpa, rappresentando il denaro soltanto l’equivalente dell’utilità sottratta al patrimonio (9147/2009). u Nel caso in cui una cambiale sia pagata, nonostante la scadenza, in tempo utile (ex art. 43 r.d. n. 1699/1933), la banca del portatore del pagherò cambiario ha l’obbligo di attivarsi, nei confronti del Notaio, per impedire l’illegittima levata del protesto; se la banca non si attiva in tal senso, ne consegue una propria responsabilità c.d. da contatto sociale per non aver fornito tempestivamente un’informazione idonea ad evitare il prodursi di un danno (11130/2009). u Il c.d. “diritto alla sessualità” va inquadrato tra i diritti inviolabili della persona (art. 2), come modus vivendi essenziale per l’espressione e lo sviluppo della persona. La perdita o la riduzione della sessualità costituisce anche danno biologico (la cui valutazione nelle tabelle medico legali convenzionali supera normalmente il livello della micropermanente e determina un rilevante ritocco del punteggio finale) consequenziale alla lesione, ma nessuno ormai nega che la perdita o la compromissione anche soltanto psichica della sessualità (come avviene nei casi di stupro e di pedofilia) costituisca di per sé un danno, la cui rilevanza deve essere apprezzata e globalmente valutata, in via equitativa (13547/2009). u In tema di colpa professionale, la predisposizione di un contratto di locazione, pur non essendo in linea di principio vietata al consulente del lavoro, in quanto si tratta di attività per la quale non è prevista alcuna riserva a favore di specifiche categorie di professionisti, non rientra tuttavia nelle attività “tipiche” previste per 56 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 56 27-11-2014 11:04:23 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 il consulente del lavoro, né nella previsione contrattuale della polizza assicurativa di cui sopra (18912/2009). u In materia di compravendita, l’inadempimento del venditore determina la configurabilità di una responsabilità di tipo extracontrattuale nella sola ipotesi in cui il pregiudizio vada ad incidere su interessi dell’acquirente sorti al di fuori del rapporto contrattuale ed aventi la consistenza di diritti assoluti, quali il diritto alla salute, ovvero la lesione dell’immagine dell’impresa a questi facente capo (Trib. Bari 30 settembre 2009). u Nel caso di responsabilità medica, se la prestazione professionale è di routine spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze sono state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale, o da imperizia, o da inesperienza o inabilità dimostrando che invece sono sorte a causa di un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento (20806/2009). u Il consenso informato, espressione del diritto personalissimo di rilevanza costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, è un obbligo contrattuale del medico perché è funzionale al corretto adempimento della prestazione professionale, pur essendo autonomo da esso (20806/2009). u L’invalidità permanente (totale o parziale), mentre di per sé concorre a dar luogo a danno biologico, non comporta necessariamente anche un danno patrimoniale, a tal fine occorrendo che il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno, accerti se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l’infortunio subìto, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo se dall’esame di detti elementi risulti una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. La relativa prova incombe al danneggiato e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità di lavoro specifica (21062/2009). u In tema di risarcimento di danno patrimoniale subìto da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non una “micro permanente” ma una percentuale superiore di invalidità permanente, la mera cir- 2043 costanza che il soggetto danneggiato, all’epoca dell’incidente, non avesse una specifica capacità professionale e non svolgesse attività lavorativa non autorizza ad escludere un danno futuro solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini (20943/2009). u Il risarcimento del danno biologico derivante da lesioni che hanno provocato, dopo alcuni giorni (quindici, nella fattispecie) la morte del danneggiato, dovrà essere quantificato in base al numero dei giorni di sopravvivenza secondo il parametro dell’inabilità temporanea assoluta e totale e non secondo le tabelle dell’invalidità permanente predisposte in funzione della vita media futura presunta (21497/2009). u Il danno biologico iure successionis agli eredi della vittima del sinistro va calcolato sulla durata effettiva della vita del defunto (23053/2009). u In tema di vendite denominate “a catena” spettano all’acquirente l’azione contrattuale nei confronti del diretto venditore e quella extracontrattuale contro il produttore, per il danno sofferto in dipendenza dei vizi che rendono la cosa pericolosa (26514/2009). u Il consumatore di sigarette con la denominazione “lights” ha su di sé l’onere probatorio circa il danno lamentato e il nesso causale esistente (26514/2009). u L’ente pubblico risponde dei danni subiti dall’utente della strada secondo la regola generale di cui all’art. 2043 c.c., che non prevede limitazione della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia e trabocchetto (App. Napoli 3 marzo 2010). u Non costituisce violazione di prìncipi fondamentali dell’ordinamento l’affermazione che la p.a. può essere ritenuta responsabile, ai sensi dell’art. 2043 c.c. per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell’esercizio del potere di autotutela. (Nella specie, annullata dagli organi del contenzioso tributario una cartella esattoriale, il giudice di pace aveva condannato l’Amministrazione finanziaria sia al rimborso delle spese sostenute per difendersi, sia per il danno esistenziale. In applicazione del principio di cui sopra la S.C. ha confermato una tale statuizione) (698/2010). u Ai sensi dell’art. 2043 c.c., l’Amministrazione finanziaria può essere ritenuta responsabile, e quindi tenuta al risarcimento del danno recato al contribuente, per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell’esercizio del potere di autotutela, ove tale comportamento abbia arrecato danno al privato, ovvero se ciò costituisca violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento (698/2010). 57 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 57 27-11-2014 11:04:23 2043 u Il fatto che il figlio della vittima, deceduta a seguito di un fatto illecito altrui, sia maggiorenne ed economicamente indipendente non esclude la configurabilità (e la conseguente risarcibilità) del danno patrimoniale da lui subito per effetto del venir meno delle provvidenze aggiuntive che il genitore gli destinava, posto che la sufficienza dei redditi del figlio esclude l’obbligo giuridico del genitore di incrementarli, ma non il beneficio di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo, sicché la perdita conseguente si risolve in un danno patrimoniale, corrispondente al minor reddito per chi ne sia stato beneficato (1524/2010). u È risarcibile il danno patrimoniale sofferto dal figlio, benché maggiorenne ed economicamente indipendente, per effetto del decesso del genitore dovuto al fatto illecito altrui, quale minore reddito connesso al venir meno di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo, del quale il figlio stesso beneficiava (1524/2010). u Non è configurabile alcun diritto del danneggiato a vedere applicata l’una o l’altra tabella nella liquidazione del danno subito, posto che quello tabellare è un mero criterio di stima e di calcolo tendente ad uniformare l’attività liquidatoria a casi che tra di loro prospettano similitudini e che presuppone il determinante ragguaglio delle tabelle stesse alle peculiarità del caso concreto (1524/2010). u La responsabilità professionale del medico - ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato - ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il medico gravato dell’onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione (2847/2010). u L’intervento del medico, anche solo in funzione diagnostica, dà comunque luogo all’instaurazione di un rapporto di tipo contrattuale. Ne consegue che, effettuata la diagnosi in esecuzione del contratto, l’illustrazione al paziente delle conseguenze (certe o incerte che siano, purché non del tutto anomale) della terapia o dell’intervento che il medico consideri necessari o opportuni ai fini di ottenere, quante volte sia possibile, il necessario consenso del paziente all’esecuzione della prestazione terapeutica, costituisce un’obbligazione il cui adempimento deve essere provato dalla parte che l’altra affermi inadempiente, e dunque dal medico a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente (2847/2010). CODICE CIVILE u In materia di c.d. “consenso informato”, anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può sussistere uno spazio risarcitorio; mentre la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secundum leges artis, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l’accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato (2847/2010). u L’onere probatorio in tema di c.d. “consenso informato”, suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni, grava sul paziente: (a) perché la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui e pretenda per questo il risarcimento; (b) perché il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; (c) perché si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente, sicché anche il criterio di distribuzione dell’onere probatorio in funzione della “vicinanza” al fatto da provare induce alla medesima conclusione; (d) perché il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico costituisce un’eventualità che non corrisponde all’id quod plerumque accidit (2847/2010). u Per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla sosta di un veicolo davanti ad un passo carrabile, con conseguente impossibilità di utilizzare il box auto, l’attore è chiamato a provare che il veicolo era in sosta sul passo carrabile e l’impossibilità di utilizzare il box, mentre non è tenuto a dimostrare di essere il proprietario o di avere in uso il posteggio (3359/2010). u Il diritto di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, § 1, della Convenzione, ad una equa riparazione, secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89, ha natura indennitaria e non risarcitoria, e ad esso non è applicabile il 58 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 58 27-11-2014 11:04:24 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 termine di prescrizione breve previsto dall’art. 2947 c.c. (4524/2010). u Quando in seguito alla vaccinazione il figlio contrae la poliomielite, non solo il piccolo ha diritto al risarcimento del danno - biologico, morale e patrimoniale - ma anche i genitori (singolarmente) devono essere indennizzati in rapporto alla vita di relazione e al dovere di assistenza continua e solidale al minore per il resto della sua vita dolorosa (5190/2010). u L’ente sanitario non solo risponde ai sensi dell’art. 2043 c.c. per colpa grave da negligenza e imprudenza, ma anche in relazione alla qualificazione del rapporto di assistenza come contatto sociale di protezione (5190/2010). u Dell’esercizio pretesamente tardivo del potere autoritativo è chiamato a conoscere il g.a. per valutare l’illegittimità di tale ritardo, anche eventualmente ai fini risarcitori. Trattasi della figura del “danno da ritardo” nell’azione amministrativa, in merito al quale va ribadita la giurisdizione del giudice amministrativo. (7160/2010). u Appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia con cui si chiede la dichiarazione di illegittimità del ritardo nell’esercizio di poteri amministrativi (relativi alla determinazione dei corrispettivi tariffari per i servizi di controllo sul bagaglio da stiva nell’ambito del trasporto aereo) ed il risarcimento del danno per tale ritardo da parte della p.a., stante la natura autoritativa e tecnicamente discrezionale della determinazione ministeriale dei corrispettivi dovuti al gestore del servizio e della fissazione della relativa esigibilità (7160/2010). u A fronte di un potere autoritativo la posizione giuridica del soggetto che aspira al “bene della vita”, oggetto del potere, è di interesse legittimo pretensivo e non di un’aspettativa, costituente essa stessa un diritto soggettivo (diritto al diritto) (7160/2010). u Qualora una società di capitali subisca, per effetto dell’illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito (9295/2010). u Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 e 2055 c.c., chi subisce un danno ingiusto 2043 per fatto colposo imputabile a più persone ha diritto al risarcimento integrale del danno (ex art. 2043 c.c.) nei confronti di ognuno di loro (ex art. 2055 c.c., in tema di responsabilità solidale) (12731/2010). u Il professionista sanitario ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo non generico, dal quale sia possibile desumere con certezza l’ottenimento in modo esaustivo da parte del paziente di dette informazioni (15698/2010). u Va riconosciuto il danno biologico, subito dalle persone a seguito dei rumori emessi da un locale sottostante l’abitazione dei danneggiati, quale lesione dell’inviolabile diritto della persona alla salute. Tuttavia non rappresenta una situazione tale da richiedere la chiusura anticipata del locale essendo sufficiente limitare e ridurre i rumori e gli schiamazzi notturni (19851/2010). u Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno non patrimoniale, concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile. La liquidazione di tale danno non può che avvenire in via equitativa, con una valutazione complessiva del danno non patrimoniale, potendosi ricorrere a presunzioni sulla base di elementi obiettivi, forniti dal danneggiato quali le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare e la compromissione delle esigenze familiari (20667/2010). u La risarcibilità del danno derivante dalla lesione di un diritto o un interesse legittimo ex art. 2043 c.c. necessita della prova specifica e dell’accertamento in concreto della colpa dell’agente non potendo siffatta colpa consistere in re ipsa nel cattivo esercizio del potere pubblico (22021/2010). u Per il danno non patrimoniale che deriva dell’incidente stradale, il risarcimento deve essere unico ma omnicomprensivo: nel senso che la somma va determinata tenendo conto di tutti gli aspetti che il pregiudizio di carattere non patrimoniale, subito dalla vittima dell’incidente, è andato assumendo nel caso concreto. Per cui, anche la perdita della capacità lavorativa generica va liquidata come componente del danno biologico (23259/2010). 59 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 59 27-11-2014 11:04:24 2043 u Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice deve tener conto del tipo di pregiudizio creato dal sinistro e delle condizioni soggettive dalla vittima (23259/2010). u Qualora, a seguito della realizzazione di un’opera di pubblica utilità, si determini per il privato un meno agevole accesso dal fondo alla strada pubblica, il parametro di valutazione è costituito dalla diminuzione di valore, che costituisce l’oggettivo discrimine fra pretese indennitarie fondate e pretese infondate. Non rileva tanto, dunque, che il pregiudizio arrecato dalla realizzazione dell’opera tocchi il nucleo essenziale del diritto di proprietà - peraltro indefinibile se si ha riguardo alle facoltà che competono al proprietario ed alle possibili modalità di godimento di un bene - oppure aspetti qualificabili come marginali delle citate facoltà e modalità; quanto invece che, a seguito della realizzazione dell’opera pubblica, la possibilità di godimento sia diminuita e che il valore di mercato del bene abbia, per tale ragione, subito un decremento oggettivo, economicamente apprezzabile e non irrisorio (24266/2010). u In materia di responsabilità civile, il consumatore che, lamentando di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole (nella specie, relativa ad una marca di sigarette con la dicitura Light ed Extra Light), agisca per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., non assolve in modo adeguato all’onere della prova esistente a suo carico limitandosi a dimostrare il solo carattere ingannevole della pubblicità, ma è tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, la quale si concreta nella prevedibilità che dalla diffusione di quel messaggio sarebbero derivate le lamentate conseguenze dannose (26516/2009). u L’omesso uso del casco protettivo da parte del conducente di un motociclo può essere fonte di corresponsabilità della vittima di un sinistro stradale per il danno causato a se stessa ove il giudice di merito accerti in fatto che la suddetta violazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, costituendone, appunto, un antecedente causale (26568/2010). u La ritardata assunzione come invalido civile, a seguito di iniziale diniego per precedenti contravvenzionali, superato dal giudicato amministrativo, comporta il diritto per l’impiegato al risarcimento del danno per gli anni perduti (Cons. Stato 1759/2010). u Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sull’azione risarcitoria anche senza la preventiva impugnazione dell’atto ammini- CODICE CIVILE strativo poiché a seguito della l. 205/2000 e di Corte cost. 204/2004 il cittadino accanto alla tutela demolitoria dell’atto ritenuto illegittimo ha anche un’autonoma tutela risarcitoria (25395/2010). u Il pregiudizio economico che subisce una casalinga menomata nell’espletamento della sua attività in conseguenza di lesioni subite è pecuniariamente valutabile come danno emergente, ex art. 1223 c.c. (richiamato “in parte qua” dal successivo art. 2056) e può essere liquidato, pur in via equitativa, anche nell’ipotesi in cui la stessa sia solita avvalersi di collaboratori domestici, perché comunque i suoi compiti risultano di maggiore ampiezza, intensità, responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d’opera dipendente (16896/2010). u Affinché una condotta omissiva possa essere fonte di responsabilità per danni, ai sensi dell’articolo 2043 del Cc, è necessario che sia configurabile in capo al responsabile un obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso, che può nascere, oltre che da una norma di legge o da una previsione contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui. L’attività doverosa può essere, secondo le circostanze, anche solo informativa, come ad esempio, in caso di prestito grazioso di un oggetto pericoloso, ovvero concretarsi nel dovere di assicurarsi che il terzo - che a titolo di cortesia si stia adoperando nell’interesse di altro soggetto, manovrando in sua presenza un oggetto pericoloso di cui il soggetto interessato conosca la pericolosità - abbia adottato le precauzioni idonee per la corretta esecuzione della manovra o che queste siano stato comunque poste in essere. (Nella specie, in applicazione del principio di cui sopra la Suprema corte ha confermato la sentenza con cui il giudice del merito aveva ritenuto la responsabilità del proprietario di un trattore per le gravissime lesioni riportate da un soggetto - che si era spontaneamente indotto a prestare il proprio ausilio in via del tutto occasionale e non programmata nel tentativo di regolare il funzionamento di una forca per il prelevamento del letame collegato al trattore, atteso che il sinistro era conseguenza della intrinseca rischiosità dell’operazione che avrebbe richiesto l’intervento del proprietario per adottare tutte le cautele idonee a scongiurare l’evento dannoso) (1737/2011). u Nel caso di lesioni subite nel corso di un’attività natatoria all’interno di una piscina va riconosciuta la responsabilità del gestore della stessa - ex art. 2049 c.c. - che, nell’organizzare il corso di nuoto avrebbe dovuto predisporre 60 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 60 27-11-2014 11:04:24 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 modalità necessarie ad evitare “gli scontri” in vasca, sia del nuotatore che - ex art. 2043 c.c. - ha compiuto un’attività non improntata a criteri di perizia e diligenza, anche nel caso in cui abbia eseguito pedissequamente le indicazioni impartite dall’istruttore (6695/2011). u In tema di patologie conseguenti ad infezione con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, non sussistono tre eventi lesivi, bensì un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato) in conseguenza dell’assunzione di sangue infetto; ne consegue che già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B - la cui individuazione spetta all’esclusiva competenza del giudice di merito, costituendo un accertamento di fatto - sussiste la responsabilità del Ministero della salute, sia pure col limite dei danni prevedibili, anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo (11301/2011). u In tutti i casi in cui l’apparato produttivo di una società di notevoli dimensioni sia articolato in una serie di unità territoriali autonome, ciascuna affidata ad un soggetto all’uopo investito di mansioni direttive, il problema della responsabilità per l’osservanza delle disposizioni, sanzionate penalmente, poste a carico della società va affrontato con riferimento alla singola struttura aziendale interessata, all’interno della quale soltanto dovrà ricercarsi il responsabile, senza perciò esigere la prova specifica di una delega ad hoc da parte del legale rappresentante (o della persona occupante una posizione organizzativa apicale) al preposto alla singola struttura o settore di servizio in cui si è verificato il fatto incriminato (11481/2011). u Del principio sub n. 1 non può tuttavia giovarsi la società, legalmente rappresentata dal suddetto, che, in quanto solidalmente responsabile ex art. 6 L. 689/81 con il preposto alla struttura di vendita, autore materiale dell’illecito (di cui risultano accertati tutti gli elementi costitutivi), è tenuta comunque a risponderne, nulla rilevando che in concreto non sia stato possibile l’individuazione di tale persona fisica, considerato che la ratio del suddetto principio di solidarietà non è tanto quella di far fronte ad eventuali situazioni d’insolvenza del trasgressore, quanto invece quella di evitare che la violazione, comunque accertata, resti priva di conseguenze sanzionatorie nei casi in cui, per mancanza di identificazione dell’autore mate- 2043 riale o per altre ragioni che non consentano di procedere nei confronti dello stesso, sia invece identificabile il diverso soggetto per conto o nell’interesse del quale il predetto abbia agito, tenuto dunque a rispondere ai sensi del cit. art. 6 (11481/2011). u La legge 25 febbraio 1992, n. 210, facendo seguito ad una pronuncia di illegittimità costituzionale in materia (C. cost. n. 307 del 1990), ha introdotto un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie (art. 1, 1 comma) o di emotrasfusioni e somministrazioni di emoderivati (art. 1, 2 e 3 comma); indennizzo che si configura come diritto soggettivo ad una prestazione economica a carattere assistenziale (12538/2011). u L’impresa assicuratrice che contesti la sussistenza del nesso causale tra l’aumento dei premi e l’accertato di un cartello collusivo è autorizzata a fornire prova contraria, rispetto alla presunzione secondo cui il premio sia indebitamente aumentato per effetto e in conseguenza del comportamento collusivo della compagnia che ha partecipato all’intesa anticoncorrenziale. Tuttavia tale prova non può essere tratta da considerazioni di carattere generale attinenti alla situazione del mercato assicurativo, ma deve riguardare situazioni e comportamenti specifici dell’impresa interessata, che dimostrino come l’aumento del premio non sia determinato dalla partecipazione all’intesa ma da altri fattori, concreti e specifici (13486/2011). u La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado (Corte giust. 379/2011). u Secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, tre sono le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell’Unione al medesimo 61 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 61 27-11-2014 11:04:24 2043 imputabile, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi (Corte giust. 379/2011). u Il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che - come la casalinga - provveda da sé al lavoro domestico, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale, e non biologico. Ne consegue che chi lo invoca ha l’onere di dimostrare che gli esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di tale dimostrazione, nulla può essere liquidato a titolo di risarcimento di tale tipologia di danno patrimoniale (23573/2011). u La liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno non può costituire un’automatica conseguenza dell’accertata esistenza di lesioni personali, ma esige che sia verificata la attuale o prevedibile incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro, anche generica, della vittima (23573/2011). u Ove occorra valutare il lucro cessante di un minore menomato permanentemente, la liquidazione del risarcimento del danno va svolta sulla previsione della sua futura attività lavorativa, in base agli studi compiuti o che si stanno portando a termine (25571/2011). u Il danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse un’attività lavorativa produttiva di reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza, di persistenza, dopo l’infortunio, di una capacità generica, di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte (25571/2011). u La prova del danno da perdita della capacità lavorativa grava sul soggetto che chiede il risarcimento e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità di guadagno (25571/2011). u Qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata con riferimento ai valori monetari esistenti alla data della liquidazione, non occorre tener conto della svalutazione verificatasi a partire dal giorno dell’insorgere del danno, essendo dovuto al danneggiato soltanto il risarcimento del man- CODICE CIVILE cato guadagno (o lucro cessante) provocato dal ritardo nella liquidazione. Tale risarcimento può avvenire attraverso la liquidazione di interessi ad un tasso stabilito dal giudice del merito valutando tutte le circostanze del caso, ma gli interessi non possono essere calcolati dalla data dell’illecito sulla somma rivalutata, perché la somma dovuta - il cui mancato godimento va risarcito - va aumentata gradualmente nell’intervallo di tempo occorso tra la data del sinistro e quella della liquidazione. Inoltre, sull’importo liquidato all’attualità della data della pronuncia possono essere riconosciuti gli interessi compensativi, da calcolarsi nella misura degli interessi al tasso legale sulla minor somma che ne avrebbe costituito l’equivalente monetario alla data di insorgenza del credito (coincidente con quella dell’evento dannoso), ovvero mediante l’attribuzione di interessi sulla somma liquidata all’attualità ma ad un tasso inferiore a quello legale medio nel periodo di tempo da considerare, ovvero attraverso il riconoscimento degli interessi legali sulla somma attribuita, ma a decorrere da una data intermedia, ossia computando gli interessi sull’importo progressivamente rivalutato anno per anno dalla data dell’illecito (25571/2011). u In tema di responsabilità medica e nell’ambito della causalità di contatto sociale, la parte lesa ha l’onere di dare la prova del rapporto sanitario, della esistenza di una prestazione sanitaria negligente e della lesione della salute, secondo un riparto di onere della prova che imputa alla parte inadempiente la deduzione di cause giustificative di tale inadempimento, di guisa che il criterio della causalità non è quello proprio della imputazione penale secondo il criterio rigoroso della quasi certezza, ma è quello civilistico e probabilistico (27000/2011). u Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto: rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi (2085/2012). u Il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, 62 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 62 27-11-2014 11:04:24 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano (ad una valutazione ex an) del tutto inverosimili, fermo restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (2085/2012). u A norma dell’art. 2043 c.c., ai prossimi congiunti di un soggetto, deceduto in conseguenza del fatto illecito addebitabile ad un terzo, compete il risarcimento del danno anche patrimoniale, anche nel caso in cui il defunto avesse appena intrapreso una attività professionale remunerata; in questo caso, ad essi spetta il risarcimento del danno patrimoniale futuro, sulla base di una valutazione equitativa circostanziata ed a carattere satisfattivo che tenga conto della rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale dall’altro (3966/2012). u In tema di responsabilità civile, per l’accertamento del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno non è necessaria la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la prima ed il secondo, ma è sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica. Ne consegue che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile (6275/2012). u Il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano (ad una valutazione “ex ante”) del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (9927/2012). u Il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all’integrità psico-fisica 2047 non si riflette automaticamente, né tanto meno nella stessa misura, sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e, quindi, di guadagno della stessa (Cass. 23 agosto 2011, n. 17514). In tema di danno patrimoniale futuro, ai fini della risarcibilità di quello conseguente alla riduzione della capacità lavorativa specifica (anche in caso di postumi permanenti acclarati), il giudice, oltre a dover accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla suddetta capacità (e, a sua volta, sulla capacità di guadagno), è tenuto anche a verificare se e in quale misura nel soggetto leso persista o residui, dopo e malgrado l’infortunio patito, una capacità ad attendere al proprio o ad altri lavori confacenti alle sue attitudini nonché alle sue condizioni personali e ambientali in modo idoneo alla produzione di altre fonti di reddito, in sostituzione di quelle perse o ridotte, e solo nell’ipotesi in cui, in forza di detti complessivi elementi di giudizio, risulti una riduzione della capacità di guadagno e, in virtù di questa, del reddito effettivamente percepito, tale ultima diminuzione è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante (Cass. 21 aprile 2010, n. 9444). Il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante non può farsi discendere in modo automatico dall’accertamento dell’invalidità permanente, poiché esso sussiste solo se tale invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica; inoltre, pur essendo ammesso il ricorso alla prova presuntiva, trattandosi di danno futuro, occorre che sia certa o almeno altamente probabile la riduzione di capacità di lavoro specifica, spettando al giudice del merito valutarne in concreto l’incidenza, sulla scorta delle allegazioni e dei congruenti riscontri forniti dal danneggiato (13687/2012). u Il professionista sanitario ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo non generico, dal quale sia possibile desumere con certezza l’ottenimento in modo esaustivo da parte del paziente di dette informazioni (18334/2013). 2047. Danno cagionato dall’incapace. – In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere (428; 85 c.p.), il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto (20483). 63 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 63 27-11-2014 11:04:24 2047 Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa indennità (8432, 924, 925, 1038, 1053, 1328, 2045). La regola vuole che la responsabilità per fatto illecito sia dovuta a fatto proprio (responsabilità diretta), posto che ogni individuo risponde delle conseguenze dannose provocate dalla propria condotta. Esistono, però, dei casi particolari in cui la legge obbliga talune persone a rispondere del danno cagionato per fatto altrui (responsabilità indiretta). In altri termini, nei loro confronti la legge stabilisce una presunzione di colpa relativa (perché è ammessa prova liberatoria) per mancata sorveglianza. Il codice disciplina la materia nell’articolo in commento, nei due successivi e al terzo comma dell’art. 2054 relativi, rispettivamente, alla responsabilità: - delle persone tenute alla sorveglianza di un incapace naturale: se il danno è provocato da un soggetto non imputabile, obbligato al risarcimento è colui il quale doveva sorvegliarlo (esempio). Il soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace può, in ogni caso, liberarsi dalla responsabilità dimostrando di non aver potuto impedire il fatto; - dei genitori e dei tutori [2048 comma 1]: questi rispondono dei danni provocati dall’atto illecito compiuto dai figli minori di età non emancipati o delle persone soggette a tutela che abitano con essi, salvo che non provino di non aver potuto impedire il fatto; - dei precettori e dei maestri d’arte [2048 comma 2]: questi rispondono dei danni provocati dall’atto illecito compiuto dai loro allievi o apprendisti, salvo che non provino di non aver potuto impedire il fatto. Sul punto la Cassazione è intervenuta sottolineando che gli atti illeciti ascrivibili all’inadeguato espletamento della vigilanza sugli allievi da parte del personale docente sono direttamente riferibili al Ministero della pubblica istruzione, posto che l’art. 28 della Costituzione estende la responsabilità dei funzionari allo Stato in virtù del rapporto di immedesimazione organica (così Cassazione n. 9752 del 2005); - del dipendente in solido [2049]: con cui, ovvero del quale, risponde il proprio datore di lavoro; CODICE CIVILE - del conducente di veicolo [2054 comma 3]: col quale risponde in solido il proprietario, l’usufruttuario, l’acquirente con patto di riservato dominio, l’utilizzatore del mezzo in leasing. Alessia, baby-sitter del piccolo Davide, si distrae per rispondere al telefono e questo, senza perdere un solo momento, va alla finestra e butta giù il vaso di fiori poggiato sul davanzale, sfondando il tetto di un’auto in sosta. u La responsabilità del genitore, per il danno cagionato da fatto illecito del figlio minore, trova fondamento, a seconda che il minore sia o meno capace di intendere e volere al momento del fatto, rispettivamente nell’art. 2048 c.c., in relazione ad una presunzione “iuris tantum” di difetto di educazione ovvero nell’art. 2047 c.c., in relazione ad una presunzione “iuris tantum” di difetto di sorveglianza e di vigilanza. Le indicate ipotesi di responsabilità presunta, pertanto, sono alternative - e non concorrenti - tra loro, in dipendenza dell’accertamento, in concreto, dell’esistenza di quella capacità (2606/1997, rv 503228). u Ai fini della responsabilità di cui all’art. 2047 c.c., per il danneggiato è sufficiente dimostrare che l’incapace di intendere o volere ha cagionato il fatto dannoso al di fuori della sfera di sorveglianza del soggetto ad essa obbligato, mentre incombe su questi dimostrare che tale fatto si sarebbe comunque verificato anche se la sorveglianza fosse stata esercitata, e quindi che non vi è nesso di causalità tra l’omissione di essa e il fatto dannoso (5485/1997, rv 505301). u Ai fini della responsabilità civile ex art. 2047 c.c. per danni cagionati da persone incapaci di intendere e di volere, il giudice non può limitarsi a tener presente l’età dell’autore del fatto ma deve anche considerarne lo sviluppo intellettivo, quello fisico, l’assenza di eventuali malattie ritardanti, la forza del carattere, la capacità del minore di rendersi conto della illiceità della sua azione e la capacità del volere con riferimento all’attitudine di autodeterminarsi (8740/2001, rv 547754). u La presunzione di responsabilità di cui all’art. 2047 c.c., posta a carico di chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, non è applicabile al caso di danni che l’incapace abbia causato a se stesso (11245/2003, rv 565254). u Va respinta l’azione proposta nei confronti della società organizzatrice di una festa di ballo, da un soggetto, per le lesioni ricevute 64 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 64 27-11-2014 11:04:25 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 a seguito di una caduta durante il corso della festa, alla quale ha partecipato previo acquisto del relativo biglietto, mentre danzava, per effetto del violento urto subito da un bambino che correva incontrollato sulla pista da ballo, dovendo escludersi la sussistenza nel caso “de quo” delle ipotesi di responsabilità oggettiva previste dal codice civile in tema di fatto illecito, ed in particolare quelle di cui agli art. 2051 e 2050, c.c., non potendosi evidentemente attribuire all’organizzazione di un ballo ricreativo (si trattava di una festa) il carattere di attività pericolosa, e nel caso in esame, non sussistendo comunque un fatto od un’azione dannosa del convenuto né il nesso eziologico di causalità che lega il fatto al danno scaturito, e tantomeno, l’imputabilità soggettiva di chi si assume essere il responsabile dell’azione dannosa. Infatti è evidente che l’azione dannosa nel caso di specie, sia da attribuire in via esclusiva al bambino che, sfuggito al controllo di chi nell’occasione lo aveva in custodia, ha urtato l’attore facendolo cadere, ragione per cui alcuna responsabilità può essere attribuita alla società convenuta quale organizzatrice della manifestazione, in quanto ad essa non competeva certo il controllo delle condotte dei minori che accedevano allo stabilimento ove si svolgeva la manifestazione, così come normalmente consentito nelle feste che si tengono presso i locali aperti al pubblico, anche se tali condotte avessero assunto carattere violento o comunque tale da essere fonte di pericolo per i terzi, atteso che per tali soggetti, giuridicamente irresponsabili, la legge prevede un obbligo di sorveglianza a carico dei genitori ex art. 2048, c.c., o comunque di chi ne ha la contingente sorveglianza ex art. 2047, c.c. (Trib. Bari 14 gennaio 2010). 2048. Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte. – Il padre e la madre (316), o il tutore (357 ss.) sono responsabili del danno (2056) cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati (301, 316, 320) o delle persone soggette alla tutela (343, 414), che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante (404 ss.). I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti (2130) nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. 2048 Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto (1900, 20471, 20541). Rinviando al commento sub art. 2047 precedente occorre soltanto ribadire alcuni punti fondamentali dell’istituto in commento: a) i criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli minori consistono sia nel potere- dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi, in relazione al quale potere- dovere assume rilievo determinante il perdurare della coabitazione; sia anche e soprattutto nell’obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli l’educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari; b) la responsabilità dei genitori non può ritenersi esclusa per il solo fatto del temporaneo allontanamento del minore dalla casa familiare, qualora l’illecito da lui commesso consista nel mancato rispetto delle regole di comportamento vigenti nel contesto sociale, in termini tali da manifestare oggettive carenze dell’attività educativa (così Cassazione n. 7050 del 2008). c) che la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’articolo in commento di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore capace di intendere e di volere si concreta, normalmente, nella dimostrazione, oltre che di aver impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sullo stesso una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa. La Suprema Corte ci ricorda che deve ritenersi presunta la culpa in educando dei genitori qualora il fatto illecito commesso dal figlio minore sia di tale gravità da rendere evidente la sua incapacità di percepire il disvalore della propria condotta. I giudici di legittimità confermano il ben noto principio per cui i genitori di un figlio minorenne con essi convivente possono sottrarsi alla responsabilità di cui all’articolo in commento solo nel caso in cui dimostrino l’assenza di una loro culpa in educando e in vigilando, con la precisazione, però, che in talune fattispecie è possibile ritenere in re ipsa la culpa in educando e pertanto non è sufficiente limitarsi ad una 65 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 65 27-11-2014 11:04:25 2048 allegazione generica bensì è necessario fornire una prova specifica e rigorosa sulla correttezza dell’educazione impartita. In particolare i genitori sono solidalmente responsabili nei riguardi dei parenti della vittima di un sinistro stradale causato dal loro figlio minorenne mentre era alla guida di un ciclomotore, non avendo alcun rilievo il fatto che egli fosse prossimo al compimento della maggiore età al momento dell’incidente. Affinché i genitori del minore possano escludere la loro responsabilità è infatti necessario che essi dimostrino di essere esenti non solo da “culpa in vigilando”, ma anche da “culpa in educando” (il cui fondamento deve rinvenirsi nell’art. 147 c.c.), dovendo rigorosamente provare l’efficacia del loro impegno educativo. In assenza di tale prova, che non può ridursi all’espressione di un giudizio, rimane ferma - come detto - la presunzione di responsabilità dei genitori per il fatto illecito del figlio minorenne sancita dall’articolo in oggetto (nella specie, il mancato adempimento dell’obbligo educativo era stato dedotto dalla pacifica circostanza che il minore, al momento del sinistro, non indossava il casco protettivo) (così Cassazione n. 9556 del 2009). Per quel che concerne l’onere probatorio dell’insegnante e dell’amministrazione scolastica sappiamo che i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Anche per tale categoria di soggetti opera l’esimente da responsabilità di cui al terzo comma della norma in commento, soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto. La responsabilità di cui al secondo comma, dunque, si differenzia radicalmente da quella di cui al primo comma, sia quanto a presupposti richiesti ex lege, sia per la circoscrizione della relativa efficacia alle sole ipotesi in cui il fatto illecito dell’allievo scaturisca dalla omissione di vigilanza, e non anche da un difetto di educazione di cui possono rispondere soltanto i genitori. La disposizione suddetta, infine, presuppone anch’essa (al pari del primo comma) la capacità di intendere e di volere dell’allievo (altrimenti troverebbe applicazione l’art. 2047); ed è ormai pacifico, nel silenzio del legislatore, che la norma operi soltanto nei confronti dei soggetti minori di età, nell’ottica del tempo in cui essa è sorta, dove il precettore era concepito come il “continuatore dell’autorità paterna sull’allievo”. Con riguardo al secondo comma si è posto il problema del fondamento e della natura della re- CODICE CIVILE sponsabilità, laddove le soluzioni hanno oscillato tra la tesi della culpa in vigilando (diretta) e quella della responsabilità per fatto altrui (indiretta). La giurisprudenza maggioritaria è ormai nel senso di inquadrare la responsabilità dell’insegnante in termini di responsabilità diretta per omissione dell’obbligo di vigilanza su di lui incombente. Il soggetto danneggiato, pertanto, sollevato dall’onere di provare il dolo o la colpa dell’insegnante, dovrà dimostrare soltanto gli elementi oggettivi dell’illecito, vale a dire la condotta antigiuridica ed il nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso. Trattandosi di una presunzione relativa, poi, il soggetto chiamato a rispondere dell’illecito dell’allievo o apprendista, potrà esimersi da tale responsabilità soltanto provando di non aver potuto impedire il fatto. Il concetto di impossibilità di impedire il fatto, in punto di prova liberatoria, è stato enucleato dalla giurisprudenza: l’insegnante risponde salvo che dimostri di aver esercitato un’adeguata vigilanza sugli alunni, in relazione alle condizioni dei luoghi, all’età ed al grado di maturazione degli stessi e di non aver potuto impedire l’evento dannoso per la sua repentinità ed imprevedibilità, tali da non consentirgli un tempestivo ed efficace intervento (ciò, qualora sia presente all’evento). In caso di assenza - e sempre che l’assenza sia giustificata - la dottrina richiede la prova che l’attività svolta dagli studenti non sia per loro pericolosa, avuto riguardo all’età ed alla maturità media che si poteva pretendere. Non poche pronunce, tuttavia hanno richiesto il ricorrere di un quid pluris, escludendo l’operare della esimente della imprevedibilità, di fronte alla mancanza nella struttura pubblica delle “più elementari misure organizzative per mantenere la disciplina”. A questa impostazione mostra di aderire anche la giurisprudenza di legittimità. “Per superare la presunzione di responsabilità che grava sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo e repressivo, dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di detta serie causale” (così Cassazione n. 4542 del 2009). Invero la dottrina ha fortemente criticato tale approccio interpretativo, sia perché la prova liberatoria deve essere riportata alla figura dell’insegnante e solo a quella; sia perché si ri- 66 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 66 27-11-2014 11:04:25 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 schia di confondere il profilo della responsabilità dell’insegnante, con quello, più strettamente processualistico, della possibilità per quest’ultimo di chiamare in causa il Ministero competente (a norma dell’art. 61, L. 312/1980). L’appena citata pronuncia affronta anche quest’ultimo aspetto, relativamente alla prova liberatoria che incombe sulla pubblica amministrazione chiamata in causa. Va innanzitutto precisato che l’applicazione del secondo comma anche alla pubblica amministrazione non è stato così scontato, soprattutto a seguito dell’introduzione dell’art. 61 della legge 312/1980 cit., in base al quale “1. La responsabilità patrimoniale del personale direttivo, docente, educativo e non docente della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato e delle istituzioni educative statali per i danni arrecati direttamente all’Amministrazione in connessione a comportamenti degli alunni è limitata ai casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza sugli alunni stessi. 2. La limitazione di cui al comma precedente si applica anche alla responsabilità del predetto personale verso l’Amministrazione che risarcisca il terzo dei danni subiti per comportamenti degli alunni sottoposti alla vigilanza. Salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, l’Amministrazione si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi”. All’indomani dell’entrata in vigore della legge, si riteneva che la norma de qua, oltre a sancire il difetto di legittimazione dell’insegnante statale nel giudizio risarcitorio promosso dal terzo danneggiato, avesse altresì introdotto una deroga al secondo comma dell’articolo in commento, sia pure limitatamente alla responsabilità civile degli insegnanti statali per i fatti illeciti commessi dagli allievi. Con la conseguenza che nei confronti dei docenti pubblici e, per essi, della pubblica amministrazione nelle vesti del Ministero della pubblica istruzione, il danneggiato non potesse più invocare la presunzione di culpa in vigilando, dovendo viceversa dimostrare il dolo o la colpa grave dell’insegnante. La giurisprudenza sistematicamente scardinato simile impostazione, sia in virtù dei mutamenti subiti dal concetto stesso di pubblica amministrazione, depurata da quella prerogativa di intangibilità e di incontrastata superiorità rispetto al comune cittadino; ma anche per merito delle evoluzioni giurisprudenziali in tema di responsabilità contrattuale, segnate dall’avvento della c.d. responsabilità da contatto sociale nei confronti di enti ed istituti pubblici. 2048 La sentenza 4542 del 2009 citata accoglie in pieno tale rinnovato approccio interpretativo e sostiene che è orientamento giurisprudenziale costante che, in tema di responsabilità dell’amministrazione scolastica ex art. 61 della legge n. 312 del 1980, sul danneggiato incombe l’onere di provare soltanto che il danno è stato cagionato al minore durante il tempo in cui lo stesso era sottoposto alla vigilanza del personale scolastico, il che é sufficiente a rendere operante la presunzione di colpa per inosservanza dell’obbligo di sorveglianza, mentre spetta all’amministrazione scolastica dimostrare di aver esercitato la sorveglianza sugli allievi con diligenza idonea ad impedire il fatto. La valutazione circa il raggiungimento o meno della prova liberatoria, da parte di detta amministrazione, attiene al merito della vicenda ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata. Più di recente la stessa giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di sottolineare che, nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che - quanto all’istituto scolastico - l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che - quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico - tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218, sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (così Cassazione n. 5067 del 2010). E, ancora, che sussiste responsabilità per “culpa in vigilando” nei confronti di una maestra di scuola 67 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 67 27-11-2014 11:04:25 2048 materna per i danni subiti da un bambino lasciato incustodito mentre si trova in bagno. La particolare fascia d’età di questi bambini (da 3 a 6 anni) li rende inconsapevoli di valutare eventuali “pericoli” e ciò, quindi, rende ancora più stringente l’obbligo di vigilanza da parte delle maestre che, per non lasciarli incustoditi, possono anche avvalersi di personale scolastico non docente. Il ministero dell’Istruzione, in qualità di responsabile della condotta negligente dell’insegnante, è tenuto, pertanto, al risarcimento dei danni subiti dal minore (nella specie, la Corte ha confermato la condanna al risarcimento inflitta al ministero dell’Istruzione per i danni riportati da una bambina di tre anni che aveva subito un infortunio mentre era andata in bagno. La piccola era stata accompagnata dalla maestra ma, poi, era stata lasciata sola perché l’insegnante era dovuta tornare in classe per occuparsi degli altri bambini) (così Cassazione n. 9906 del 2010). u La responsabilità dell’insegnante per il fatto illecito dei suoi allievi, previsto dall’art. 2048, secondo comma, c.c., si basa su una colpa presunta, cioè sulla presunzione di negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza degli allievi, ed è quindi responsabilità personale per colpa propria (presunta) e per fatto altrui. Detta colpa, peraltro, quando si tratti di allievo minore, può riguardare anche il danno che lo stesso allievo ha procurato a se stesso con la sua condotta, in quanto l’obbligo di vigilanza dell’insegnante è posto anche a tutela dei minori a lui affidati, fermo restando la dimostrazione di non aver potuto impedire il fatto (8390/1995, rv 493506). u In tema di responsabilità dei genitori per i danni cagionati dall’illecito del figlio minore, ove manchi, da parte dei primi, la prova liberatoria di non avere potuto impedire il comportamento dannoso e cioè la dimostrazione di avere impartito al minore l’educazione e l’istruzione consone alle proprie condizioni familiari e sociali e di avere vigilato sulla sua condotta, così da non potersi configurare a loro carico una “culpa in educando” o “in vigilando”, i genitori medesimi sono obbligati a risarcire i detti danni nella stessa misura con cui tale obbligazione graverebbe sull’autore materiale dell’illecito e, quindi, nel caso sussistano le condizioni, anche al risarcimento dei danni non patrimoniali (540/1997, rv 501864). u I maestri ed i precettori rispondono, ex art. 2048 c.c., sia dei danni arrecati, sia dei danni subiti dai minori loro affidati (6331/1998, rv 516766). CODICE CIVILE u L’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il fatto illecito dal suddetto commesso, può esser ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c. (7270/2001, rv 547081). u I genitori sono solidalmente responsabili nei riguardi dei parenti della vittima di un omicidio commesso dal loro figlio minorenne, ancorché prossimo al compimento della maggiore età al momento del fatto. Tale responsabilità va ravvisata non in un difetto di vigilanza, data l’età del figlio, ma nell’inadempimento dei doveri di educazione e di formazione della personalità del minore, in termini tali da consentirne l’equilibrato sviluppo psicoemotivo, la capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli altri e tutto ciò in cui si estrinseca la maturità personale. Correttamente il giudice del merito può desumere il grado di educazione dal comportamento del minore, quando esso manifesti un fallimento educativo quanto alla capacità di frenare i propri istinti o di incanalarli in modalità espressive meno gravi e violente (18804/2009). u Va respinta l’azione proposta nei confronti della società organizzatrice di una festa di ballo, da un soggetto, per le lesioni ricevute a seguito di una caduta durante il corso della festa, alla quale ha partecipato previo acquisto del relativo biglietto, mentre danzava, per effetto del violento urto subito da un bambino che correva incontrollato sulla pista da ballo, dovendo escludersi la sussistenza nel caso “de quo” delle ipotesi di responsabilità oggettiva previste dal codice civile in tema di fatto illecito, ed in particolare quelle di cui agli art. 2051 e 2050, c.c., non potendosi evidentemente attribuire all’organizzazione di un ballo ricreativo (si trattava di una festa) il carattere di attività pericolosa, e nel caso in esame, non sussistendo comunque un fatto od un’azione dannosa del convenuto né il nesso eziologico di causalità che lega il fatto al danno scaturito, e tantomeno, l’imputabilità soggettiva di chi si assume essere il responsabile dell’azione dannosa. Infatti è evidente che l’azione dannosa nel caso di specie, sia da attribuire in via esclusiva al bambino che, sfuggito al controllo di chi nell’occasione lo aveva in custodia, ha urtato l’attore facendolo cadere, ragione per cui alcuna responsabilità può essere attribuita alla società convenuta quale organizzatrice della manifestazione, in 68 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 68 27-11-2014 11:04:25 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 quanto ad essa non competeva certo il controllo delle condotte dei minori che accedevano allo stabilimento ove si svolgeva la manifestazione, così come normalmente consentito nelle feste che si tengono presso i locali aperti al pubblico, anche se tali condotte avessero assunto carattere violento o comunque tale da essere fonte di pericolo per i terzi, atteso che per tali soggetti, giuridicamente irresponsabili, la legge prevede un obbligo di sorveglianza a carico dei genitori ex art. 2048, c.c., o comunque di chi ne ha la contingente sorveglianza ex art. 2047, c.c. (Trib. Bari 14 gennaio 2010). u Se il soggetto incapace, che cade sotto l’obbligo di vigilanza della scuola, commette l’atto dannoso (uno sgambetto), la scuola non può andare esente da responsabilità “essendo prevedibili azioni impulsive ed aggressive dei giovanetti” (4206/2010). u Nel caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che - quanto all’istituto scolastico - l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso; e che - quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico - tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (5067/2010). u Posto che la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante in caso di danno cagionato dall’alunno, anche a sé stesso, ha natura contrattuale, il Ministero dell’istruzione, in quanto responsabile della condotta negligente dell’insegnante, è tenuto al risarcimento dei 2049 danni subiti dal minore, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave (9906/2010). u In tema di responsabilità dell’istituto scolastico dal momento dell’iscrizione dell’alunno deriva, a carico dell’istituto, l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. Quindi, anche l’obbligo di vigilare, predisponendo gli accorgimenti necessari a seconda della conformazione dei luoghi, affinché nei locali scolastici non si introducano terzi (persone o animali) che possano arrecare danni agli alunni. Ne deriva che, nelle controversie per il risarcimento del danno da lesioni provocate dall’aggressione di un cane incustodito, nei locali e pertinenze messi a disposizione dalla scuola, l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l’amministrazione ha l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile, essendo stati predisposti gli accorgimenti idonei a impedire l’accesso a terzi (3680/2011). u In materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad infortunio subito da studente all’interno di struttura scolastica durante le ore di educazione fisica nel corso di una partita di calcio (o, come nella specie, di calcetto), ai fini della configurabilità della responsabilità a carico della scuola ex art. 2048 c.c. non è sufficiente il solo fatto di aver incluso nel programma della suddetta disciplina e fatto svolgere tra gli studenti una gara sportiva, ma è altresì necessario a) che il danno sia conseguenza del fatto illecito di un altro studente impegnato nella gara e b) che la scuola non abbia predisposto tutte le misure idonee a evitare il fatto (16261/2012). 2049. Responsabilità dei padroni e dei committenti. – I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti (1900, 2048). L’articolo in commento contiene la prima di una serie di norme qualificabili come eccezioni alla regola generale in base alla quale elemento essenziale della responsabilità civile è quello soggettivo. Infatti, in alcuni casi espressamente previsti dalla legge, la responsabilità civile può sussistere a prescindere da comportamenti dolosi o colposi del soggetto: si tratta della cosiddetta responsabilità oggettiva. 69 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 69 27-11-2014 11:04:26 2049 Qui il soggetto è piuttosto considerato responsabile in ragione del rischio che deve sostenere: - chi svolge determinate attività (di solito pericolose); - chi fa ausilio della collaborazione di altri per lo svolgimento di una determinata attività; - chi dispone di beni che potenzialmente possono arrecare danno ad altri. In tali ipotesi sarà, in pratica, sufficiente dimostrare il nesso di causalità (oggettivo) che lega l’azione all’evento dannoso, senza necessità di dover dimostrare né la colpa né il dolo. Per quel che concerne l’onere della prova, occorre precisare: a) in ambito di responsabilità oggettiva il danneggiato non è tenuto a dare prova della colpa dell’altro soggetto, dovendosi limitare a dimostrare di aver subito un danno e che questo sia stato prodotto da una causa riconducibile ad un caso di responsabilità oggettiva; incombe, piuttosto, in capo all’autore del danno provare la sussistenza di una delle ipotesi liberatorie da responsabilità; b) la prova liberatoria può essere: - esclusa (come per il fatto illecito causato dai dipendenti); - ammessa per chi dimostra di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno o per caso fortuito. Le figure tipiche di responsabilità oggettiva sono: a) responsabilità per danni provocati dai dipendenti. Padroni e committenti rispondono per i danni cagionati dall’atto illecito dei loro dipendenti nell’esercizio dei compiti cui sono adibiti. È forse l’ipotesi più grave di responsabilità oggettiva, posto che al soggetto su cui ricade non è concessa prova liberatoria. Nel caso di specie la responsabilità ricorre allorché: - l’autore del danno sia lavoratore subordinato; - l’autore del danno abbia procurato sofferenza a terzi a causa di un suo comportamento doloso o colposo; - la condotta dolosa o colposa sia stata determinata nell’esercizio delle proprie funzioni (esempio); b) responsabilità per danni provocati da prodotti difettosi (D.Lgs. n. 206 del 2005). Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto (ossia ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile, nonché l’elettricità). CODICE CIVILE Quando il produttore non è individuato, alla stessa responsabilità soggiace il fornitore che abbia distribuito il prodotto nell’esercizio di un’attività commerciale, se ha omesso di comunicare al danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla richiesta, l’identità e il domicilio del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto. La richiesta deve essere fatta per iscritto e deve indicare il prodotto che ha cagionato il danno, il luogo e, con ragionevole approssimazione, la data dell’acquisto; deve inoltre contenere l’offerta in visione del prodotto, se ancora esistente. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: - il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite; - l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere; - il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione. Un prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato in qualunque tempo messo in commercio. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie. La responsabilità è esclusa: - se il produttore non ha messo il prodotto in circolazione; - se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione; - se il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, nè lo ha fabbricato o distribuito nell’esercizio della sua attività professionale; - se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante; - se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso; - nel caso del produttore o fornitore di una parte componente o di una materia prima, se il difetto è interamente dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che la ha utilizzata. 70 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 70 27-11-2014 11:04:26 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 Il danneggiato deve provare il difetto, il danno, e la connessione causale tra difetto e danno. Il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità. Ai fini dell’esclusione da responsabilità è sufficiente dimostrare che, tenuto conto delle circostanze, è probabile che il difetto non esistesse ancora nel momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione. Se più persone sono responsabili del medesimo danno, tutte sono obbligate in solido al risarcimento. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro gli altri nella misura determinata dalle dimensioni del rischio riferibile a ciascuno, dalla gravità delle eventuali colpe e dalla entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio la ripartizione avviene in parti uguali. Nelle ipotesi di concorso del fatto colposo del danneggiato il risarcimento si valuta secondo le disposizioni dell’articolo 1227. Il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente esposto. Nell’ipotesi di danno a cosa, la colpa del detentore di questa è parificata alla colpa del danneggiato. È risarcibile: - il danno cagionato dalla morte o da lesioni personali; - la distruzione o il deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso, purché di tipo normalmente destinato all’uso o consumo privato e così principalmente utilizzata dal danneggiato. Il danno a cose è risarcibile solo nella misura che ecceda la somma di 387 euro. È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, nei confronti del danneggiato, la responsabilità prevista dalla legge. Il diritto al risarcimento si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile. Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l’esercizio di un’azione giudiziaria. Il diritto al risarcimento si estingue alla scadenza di dieci anni dal giorno in cui il produttore o l’importatore nella Unione europea ha messo in circolazione il prodotto che ha cagionato il danno. La decadenza è impedita solo dalla domanda giudiziale, salvo che il processo si estingua, dalla domanda di ammissione del credito in una proce- 2049 dura concorsuale o dal riconoscimento del diritto da parte del responsabile. L’atto che impedisce la decadenza nei confronti di uno dei responsabili non ha effetto riguardo agli altri. Tali disposizioni non si applicano ai danni cagionati dagli incidenti nucleari previsti dalla legge 31 dicembre 1962, n. 1860, e successive modificazioni, nonché ai prodotti messi in circolazione prima del 30 luglio 1988. c) responsabilità per danni provocati dall’esercizio di attività pericolose [➠2050]; d) responsabilità per danni provocati da cose in custodia [➠2051]; e) responsabilità per danni provocati da animali [➠2052]; f) responsabilità per danni provocati da rovina di edifici [➠2053]; g) responsabilità per danni provocati dalla circolazione dei veicoli [➠2054]; h) responsabilità per danni provocati da incidenti dipendenti dall’impiego pacifico dell’energia nucleare (art. 15, L. n. 1860 del 1962): “l’esercente di un impianto nucleare è responsabile […] di ogni danno alle persone o alle cose causato da un incidente nucleare avvenuto nell’impianto nucleare o connesso con lo stesso”; i) responsabilità per danni provocati all’ambiente (art. 311, D.Lgs. n. 152 del 2006): “Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”; l) responsabilità per danni provocati dal trattamento dei dati personali (art. 15, D.Lgs. n. 196 del 2003): “chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione delle regole inerenti le modalità di trattamento e requisiti dei dati personali. Se un operaio, per negligenza, lascia cadere un attrezzo da un’impalcatura ferendo un passante, sarà la ditta per cui lavora responsabile del danno subìto da quest’ultimo. 71 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 71 27-11-2014 11:04:26 2049 u La responsabilità indiretta di cui all’art. 2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipendente, postula l’esistenza di un rapporto di lavoro ed un collegamento tra fatto dannoso del dipendente stesso e mansioni da questi espletate, senza che sia, all’uopo, richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando sufficiente, viceversa, l’esistenza di un rapporto di cosiddetta “occasionalità necessaria”, da intendersi nel senso che l’incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue competenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché sempre entro l’ambito delle proprie mansioni (6970/2001, rv 546883). u La responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2049 c.c., essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito e il proprio datore di lavoro e sul collegamento dell’illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, prescinde del tutto da una “culpa in eligendo o in vigilando” del datore di lavoro ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa, con la conseguenza che l’accertamento della non colpevolezza del datore di lavoro compiuto dal giudice penale non vale ad escluderla (8381/2001, rv 547593). u In tema di responsabilità della pubblica amministrazione, per l’affermazione della responsabilità indiretta del ministero per il danno arrecato dal fatto illecito di un agente di polizia di Stato commesso ai sensi dell’articolo 2049 c.c. è sufficiente che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra l’illecito stesso e il rapporto che lega i due soggetti, nel senso che le mansioni o le incombenze affidate al secondo abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno, mentre rimane irrilevante che tale comportamento si ponga in modo autonomo nell’ambito dell’incarico ovvero abbia addirittura ecceduto i limiti di esso (Trib. Milano 28 ottobre 2006). u In tema di responsabilità della pubblica amministrazione il dolo dell’agente di polizia nel compiere il fatto dannoso non esclude il rapporto di occasionalità necessaria con le mansioni affidategli, da intendersi nel senso che l’illecito è stato reso possibile o comunque agevolato dal rapporto di lavoro con il ministero, che pertanto ne risponde ai sensi dell’articolo 2049 del codice civile (Trib. Milano 28 ottobre 2006). CODICE CIVILE u Nel caso che un dipendente della Pubblica Amministrazione abbia commesso un atto illecito e si accerti che ciò è avvenuto in quanto i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello predetto (vigilando poi sull’applicazione delle direttive medesime), vi è responsabilità diretta della P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori (864/2008). u Una volta assodato che nella fattispecie concreta la predetta emanazione rientrava tra i compiti di chi aveva funzioni dirigenziali nella struttura amministrativa, sussiste sia la riferibilità di tale atto alla stessa P.A., sia l’esistenza di un rapporto di causalità tra il comportamento omissivo di detti superiori e l’evento dannoso in base al principio secondo cui “causa causae est causa causati”, qualora nella fattispecie concreta, senza l’omissione in questione, non vi sarebbe stato l’atto illecito del dipendente subordinato direttamente produttivo del danno (864/2008). u Ai fini della responsabilità indiretta del datore di lavoro per il danno arrecato dal fatto illecito del dipendente, a norma dell’art. 2049 c.c., il rapporto di “occasionalità necessaria” tra l’illecito ed il rapporto datore di lavoro-dipendente sussiste anche qualora il dipendente abbia ecceduto i limiti delle sue mansioni o incombenze, finanche trasgredendo gli ordini ricevuti, sempre che egli abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni o incombenze gli furono affidate. La responsabilità indiretta del committente di cui all’art 2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l’esistenza di un nesso di “occasionalità necessaria” tra l’illecito e il rapporto di lavoro che vincola i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo (6632/2008). u Ai fini della configurabilità della responsabilità indiretta del datore di lavoro ex art. 2049 c.c., non è necessario che fra le mansioni affidate e l’evento sussista un nesso di causalità, essendo invece sufficiente che ricorra un semplice rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l’incombenza affidata deve essere tale da determinare una situazione che renda possibile, o anche soltanto agevoli, la consumazione del fatto illecito e, quindi, la produzione dell’evento dannoso, anche se il lavoratore abbia operato oltre i limiti dell’incarico e contro la volontà del committente o abbia agito con dolo, purché nell’ambito delle sue mansioni (1530/2010). 72 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 72 27-11-2014 11:04:26 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 u L’art. 2049 c.c. è una fattispecie di responsabilità prevista a favore dei terzi (cioè, è una norma che opera verso l’esterno), non operando, invece, nel rapporto interno tra committente e preposto nel caso di danno provocato all’uno e/o all’altro (6528/2011). u Ai sensi dell’art. 2049 c.c., gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul datore di lavoro ove tra l’illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando una condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore (21724/2012). 2050. Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose. – Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno (1681, 2054) (1) (2). (1) L’obbligo della assicurazione da responsabilità per danni da circolazione è attualmente disposto per i veicoli a motore senza guida di rotaie dall’art. 193 del codice della strada e dall’art. 122 del D.L.vo 7 settembre 2005, n. 209; per i natanti dall’art. 123 stesso D.L.vo; e per i ciclomotori e le macchine agricole dall’art. 237 del codice della strada). (2) Per l’indennizzo dei danni, in quanto conseguenti all’esercizio di attività pericolose, è obbligatoria l’assicurazione per responsabilità civile in materia di caccia (L. 11 febbraio 1992, n. 157), di circolazione di veicoli a motore e di natanti, di gare e competizioni sportive di veicoli a motore. L’articolo in argomento postula la sussistenza di un nesso causale tra l’esercizio dell’attività stessa e l’evento dannoso (esempio). Di regola sono considerate pericolose quelle attività così qualificate da specifiche norme destinate a prevenire sinistri e a tutelare l’incolumità pubblica, ovvero quelle per le quali la pericolosità trova riscontro nella natura delle cose e dei mezzi adoperati; mentre non possono considerarsi tali quelle nelle quali la pericolosità insorga per fatti estranei. Ricordiamo, a riguardo: 2050 - le attività di somministrazione di energia elettrica; - il trasporto di combustibili; - la produzione di gas in bombole; - l’attività costruttiva nel settore edilizio; - l’organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al pubblico; - l’esecuzione di lavori sulla strada pubblica (così Cassazione n. 7298 del 2003); - l’organizzazione di una gara sportiva di bob (così Cassazione n. 3528 del 2009). Anche in tema di responsabilità presunta per l’esercizio di attività pericolosa, il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza del nesso causale tra l’attività pericolosa ed il danno subìto; incombendo invece sull’esercente l’attività pericolosa l’onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno. Per quanto concerne più specificamente la responsabilità della P.A. la Cassazione (sent. n. 3130 del 2008) ha avuto modo di sottolineare che: - la discrezionalità e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario dei criteri e dei mezzi con i quali l’amministrazione realizza e mantiene un’opera pubblica trovano un limite nell’obbligo dell’amministrazione medesima di osservare, a tutela dell’incolumità dei cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e di regolamento disciplinanti quelle attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza che l’inosservanza di dette disposizioni e norme comporta la responsabilità dell’amministrazione per i danni arrecati a terzi; - non è rilevante, per escludere la responsabilità dei danni prodotti dall’opera pubblica, la congruità di quest’opera rispetto al fine pubblico che essa deve soddisfare, ma la lesione dei diritti dei terzi che essa abbia eventualmente prodotto per l’assenza degli accorgimenti tecnici idonei ad impedirla. Il produttore/venditore di tabacchi esercita un’attività pericolosa, per la ragione che i tabacchi, avendo quale unica destinazione il consumo mediante il fumo, contengono in sé, per loro stessa natura e per la loro composizione bio-chimica, una potenziale carica di nocività, potendo dal fumo derivare danno alla salute e, in molti casi, il peggiore dei mali, il cancro al polmone (così Corte Appello Roma n. 1015 del 2005). La produzione e la vendita di tabacchi lavorati costituiscono attività pericolose ai sensi del- 73 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 73 27-11-2014 11:04:26 2050 l’art. 2050 c.c., poiché i tabacchi, avendo come unica destinazione il consumo mediante il fumo, contengono in sé una potenziale carica di nocività per la salute umana; ne consegue che, ove il danneggiato abbia proposto una domanda risarcitoria - ai sensi dell’art. 2043 c.c. - nei confronti del produttore-venditore di tabacco, viola l’art. 112 c.p.c. ed incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che sostituisca a tale domanda quella, nuova e diversa, di cui all’art. 2050 c.c., la quale integra un’ipotesi di responsabilità oggettiva. (Nella specie, l’originaria domanda risarcitoria era fondata sul carattere ingannevole delle diciture Light e Extra Light apposte sulla confezione di una marca di sigarette) (così Cassazione n. 26516 del 2009). u La nozione di attività pericolosa di cui all’art. 2050 c.c. postula che l’attività presenti di per sé una notevole potenzialità di danno a terzi, mentre un’attività normalmente innocua ove diventi pericolosa per la condotta di chi la esercita, comporta soltanto la responsabilità secondo la regola generale dell’art. 2043 (13530/1992, rv 480073). u Non costituisce attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., la gestione di un impianto sciistico (6113/2000, rv 536456). u Incorre in responsabilità civile la società erogatrice di energia elettrica nelle ipotesi in cui si verifichino interruzioni o limitazioni di fornitura oppure sbalzi di frequenza o di tensione: trattasi di una responsabilità discendente dall’esercizio di attività pericolosa superabile solo offrendo la prova liberatoria di cui all’art. 2050 c.c. a nulla rilevando eventuali clausole di esonero della responsabilità non debitamente introdotte nel negozio sottoscritto dalle parti (11193/2007). u Dei danni causati dall’esercizio di attività pericolosa svolta da un ente collettivo, pubblico o privato, risponde sia l’ente in quanto tale, sia la persona preposta in concreto all’esercizio dell’attività pericolosa. Pertanto dei danni causati ad un infermiere dall’esposizione alle radiazioni emanate da un apparecchio radiografico rispondono in solido sia la Asl, sia il suo direttore sanitario (1966/2009). u L’attività di organizzazione di una gara sportiva connotata secondo esperienza da elevata possibilità di incidenti dannosi, non solo per chi vi assiste, ma anche per gli atleti, è da riguardare come esercizio di attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., ancorché in rapporto agli atleti nella misura in cui li esponga a conseguenze più gravi di quelle che possono essere CODICE CIVILE prodotte dagli stessi errori degli atleti impegnati nella gara (3528/2009). u L’attività bancaria non può essere considerata attività pericolosa, di per sé od in relazione alla natura dei mezzi adoperati, nei termini di cui all’art. 2050 c.c., come si è venuta storicamente formando e come viene normalmente interpretata. L’attività bancaria può indubbiamente sollecitare (più di altre) iniziative e comportamenti illeciti da parte di terzi, anche pericolosi per l’incolumità altrui. Né si può escludere che in futuro -con il moltiplicarsi del numero e della potenzialità dannosa degli illeciti- possano essere elaborate regole peculiari e più ampie di imputazione della responsabilità, a tutela degli utenti dei servizi bancari. Ma, allo stato attuale, l’esercizio dell’attività bancaria si considera mera occasione dell’esposizione a pericolo del patrimonio od anche dell’incolumità fisica della clientela; non invece la causa prima ed originaria dei corrispondenti rischi (3350/2009). u Qualora siano stati dimostrati in fatto il furto di identità e l’utilizzazione da parte del reo di un documento altrui in nulla alterato o modificato, da cui sia derivata l’emissione da parte della banca di libretti d’assegno al reo stesso, la riconoscibilità dell’abuso a carico dell’istituto di credito è da ritenersi in re ipsa, e da presumersi fino a prova contraria. È a carico della banca, quindi, e non del danneggiato, l’onere di fornire la prova della scusabilità del suo errore (per la somiglianza fra le due persone o per altra causa) (3350/2009). u Con riguardo all’esercizio di attività pericolosa, anche nell’ipotesi in cui l’esercente non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, in tal modo realizzando una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta, che abbia i requisiti del caso fortuito e sia idonea secondo l’apprezzamento del giudice di merito incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione - a causare da sola l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto di un terzo o del danneggiato stesso (25/2010). u Va respinta l’azione proposta nei confronti della società organizzatrice di una festa di ballo, da un soggetto, per le lesioni ricevute a seguito di una caduta durante il corso della festa, alla quale ha partecipato previo acquisto del relativo biglietto, mentre danzava, per effetto del violento urto subito da un bambino che correva incontrollato sulla pista da ballo, dovendo escludersi la sussistenza nel caso “de quo” delle ipotesi di 74 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 74 27-11-2014 11:04:27 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 responsabilità oggettiva previste dal codice civile in tema di fatto illecito, ed in particolare quelle di cui agli art. 2051 e 2050, c.c., non potendosi evidentemente attribuire all’organizzazione di un ballo ricreativo (si trattava di una festa) il carattere di attività pericolosa, e nel caso in esame, non sussistendo comunque un fatto od un’azione dannosa del convenuto né il nesso eziologico di causalità che lega il fatto al danno scaturito, e tantomeno, l’imputabilità soggettiva di chi si assume essere il responsabile dell’azione dannosa. Infatti è evidente che l’azione dannosa nel caso di specie, sia da attribuire in via esclusiva al bambino che, sfuggito al controllo di chi nell’occasione lo aveva in custodia, ha urtato l’attore facendolo cadere, ragione per cui alcuna responsabilità può essere attribuita alla società convenuta quale organizzatrice della manifestazione, in quanto ad essa non competeva certo il controllo delle condotte dei minori che accedevano allo stabilimento ove si svolgeva la manifestazione, così come normalmente consentito nelle feste che si tengono presso i locali aperti al pubblico, anche se tali condotte avessero assunto carattere violento o comunque tale da essere fonte di pericolo per i terzi, atteso che per tali soggetti, giuridicamente irresponsabili, la legge prevede un obbligo di sorveglianza a carico dei genitori ex art. 2048, c.c., o comunque di chi ne ha la contingente sorveglianza ex art. 2047, c.c. (Trib. Bari 14 gennaio 2010). u L’attività svolta presso il maneggio va qualificata come pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., quando riguardi danni conseguenti a esercitazioni di un principiante o di allievi giovanissimi e quindi non in grado di governare le imprevedibili reazioni dell’animale. È quindi applicabile la presunzione prevista dalla norma di cui all’art. 2050 c.c., che prevede l’obbligo per il gestore della attività pericolosa di risarcire il danno a meno che non provi di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno non essendo sufficiente come prova liberatoria la considerazione che esiste un margine di rischio, ineliminabile, che chi frequenta un maneggio, accetta preventivamente (17216/2010). u La società dilettantistica di calcio è sottoposta alla responsabilità contrattuale con obblighi di vigilanza e protezione nei confronti dei calciatori minorenni affidati alla sua custodia. Detti obblighi certamente impongono l’adozione di tutte le misure precauzionali ed organizzative per scongiurare danni alla salute dei piccoli atleti, ma non possono essere estesi sino al punto da coprire i rischi tipici e normalmente connessi all’attività sportiva praticata che, come 2051 tali, devono ritenersi, da un lato, accettati sia dal minore che dai genitori all’atto dell’iscrizione alla società sportiva e, dall’altro, socialmente adeguati secondo l’ordinamento giuridico nel suo complesso, nel momento in cui quella attività sportiva viene consentita ed anzi agevolata e promossa (Trib. Rovereto 6 agosto 2010). 2051. Danno cagionato da cosa in custodia. – Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito (1215, 1256, 1588, 1611, 2056). L’articolo in commento e il successivo disciplinano, rispettivamente, la responsabilità a carico di chi ha in custodia una cosa e di chi ha in uso un animale. Custodia e uso sono concetti che vanno determinati in relazione alla effettiva possibilità di ricavarne una utilità, tant’è che custode sarà, di regola, il proprietario, ma potrebbe essere anche il conduttore, se la cosa è stata concessa in locazione, o l’usufruttuario, se la cosa è stata concessa in usufrutto e via dicendo. La responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia si evince: - dall’essersi il danno verificato nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa (come, ad esempio, nel caso di infiltrazioni di acqua da un immobile ad un altro); - dall’esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi. In presenza di questi due elementi, la norma pone a carico del custode una presunzione iuris tantum di colpa, che può essere vinta soltanto dalla prova che il danno è derivato esclusivamente da caso fortuito, inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e della colpa del danneggiato. Pertanto, mentre incombe sul danneggiato l’onere di provare i due elementi sopra indicati sui quali si basa la responsabilità, presunta del custode, quest’ultimo, ai fini della prova liberatoria, ha l’onere di indicare e provare la causa del danno estranea alla sua sfera di azione (caso fortuito, fatto del terzo, colpa del danneggiato), rimanendo a suo carico la causa ignota. Il custode della cosa, per liberarsi dalla presunzione di responsabilità posta a suo carico, ha l’onere di provare l’esistenza 75 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 75 27-11-2014 11:04:27 2051 del caso fortuito che consiste in un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, dal carattere imprevedibile ed eccezionale, che può concretizzarsi anche nel comportamento colposo del danneggiato, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa custodita e l’evento dannoso che si è verificato. Si è, anche, precisato che “una volta accertata la sussistenza del caso fortuito, e cioè una volta escluso il nesso causale tra la cosa e l’evento dannoso, resta esclusa anche la responsabilità ex art. 2043 c.c. (così Cassazione n. 22807 del 2009). Oggetto di fervente lavoro ermeneutico ha assunto negli ultimi anni la questione della responsabilità della P.A. derivante da cattiva o assente manutenzione delle strade. In particolare la Cassazione ha stabilito a riguardo alcuni consolidati principi di diritto unanimemente condivisi dalla dottrina. La presunzione di responsabilità per danni da cosa in custodia, di cui all’articolo in commento, non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non risulti possibile - all’esito di un accertamento da svolgersi da parte del giudice di merito in relazione al caso concreto - esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta delle stesso da parte di terzi, sotto tale profilo assumono, soltanto la funzione di circostanze sintomatiche dell’impossibilità della custodia. Alla stregua di tale principio, con particolare riguardo al demanio stradale, la ricorrenza della custodia dev’essere esaminata non soltanto con riguardo all’estensione della strada, ma anche alle sue caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico appresta, in quanto tali caratteristiche assumono rilievo condizionante anche delle aspettative degli utenti. Ne deriva che, alla stregua di tale criterio, mentre in relazione alle autostrade, attesa la loro natura destinata alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, si deve concludere per la configurabilità del rapporto custodiale, in relazione alle strade riconducibili al demanio comunale non è possibile una simile, generalizzata, conclusione, in quanto l’applicazione dei detti criteri non la consente, ma comporta valutazioni ulteriormente specifiche. In quest’ottica, per le strade comunali - salvo il vaglio in concreto del giudice di merito circostanza eventualmente sintomatica della possibilità della custodia è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato il danno, si CODICE CIVILE trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso comune (così Cassazione n. 15383 del 2006). Peraltro qualora non sia applicabile la disciplina dell’articolo oggetto di trattazione, in quanto sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia sul bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043, che non prevede alcuna limitazione della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. In tal caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale (come, ad esempio, della strada), che va considerata fatto di per sé idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova di fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia. Infatti applicare l’art. 2043 in luogo dell’articolo in commento, si tradurrebbe in un ingiustificato privilegio per la P.A. in quanto richiederebbe al danneggiato un quid pluris rispetto a quanto previsto dalla norma, anche alla luce dei principi generali cui è ispirato l’ordinamento teso a favore di colui che ha subito la lesione in quanto portatore di una situazione soggettiva rilevante. In ogni caso, in relazione ai danni verificatisi nell’uso di un bene demaniale, tanto nell’ipotesi in cui risulti in concreto configurabile una responsabilità oggettiva della P.A. ai sensi del presente articolo, quanto in quello in cui risulti invece configurabile una responsabilità ai sensi dell’art. 2043, l’esistenza di un comportamento colposo dell’utente danneggiato (sussistente anche quando egli abbia usato il bene senza la normale diligenza o con un affidamento soggettivo anomalo sulle sue caratteristiche) esclude la responsabilità della P.A., qualora si tratti di un comportamento idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno ed il danno stesso, mentre in caso contrario esso integra un concorso di colpa ai sensi del primo comma dell’art. 1227, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante (e, quindi, della P.A.) in proporzione all’incidenza causale del comportamento stesso (così Cassazione n. 15383 del 2006 e 5307 del 2007). Non sussiste, infatti, responsabilità per le cose in custodia, qualora il danneggiato si astenga dal fornire qualsiasi prova circa la dinamica dell’incidente e il nesso eziologico tra il danno e la cosa e, inoltre, abbia fatto della cosa un uso im- 76 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 76 27-11-2014 11:04:27 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 proprio, cioè diverso rispetto a quello da ritenersi riconducibile alla sua ordinaria destinazione (così Cassazione n. 8106 del 2006). Con sentenza n. 11511 del 2008, la Suprema Corte ribadisce la nozione di “insidia” e “trabocchetto” in seno alla vetusta ed annosa questione della responsabilità per cose in custodia. Il pedone cade in una buca: la natura pubblica e l’estensione del bene possono salvare il comune dalla predetta responsabilità? I giudici di legittimità ribadiscono ancora una volta, in linea con la copiosa giurisprudenza in materia degli ultimi anni, che «la situazione di pericolo occulto, qualificabile in termine di “insidia” e “trabocchetto”, ricorre quando lo stato dei luoghi è caratterizzato dai concorrenti requisiti della non visibilità oggettiva del pericolo e della non prevedibilità soggettiva dello stesso, a prescindere dal carattere demaniale del bene in custodia e dall’estensione dello stesso». La responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto al quale la si imputa sia in grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un potere di sorveglianza, di modificarne lo stato e di escludere che altri vi apporti modifiche. A riguardo i giudici di legittimità hanno precisato in tal senso: a) che per le strade aperte al traffico l’ente proprietario si trova in questa situazione una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa (e l’onere probatorio di tale dimostrazione grava, palesemente, sul danneggiato); b) che è comunque configurabile la responsabilità dell’ente pubblico custode, salvo che quest’ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno; c) che l’ente proprietario non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa, atteso che solo quest’ultima (al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto) integra il caso fortuito previsto dall’articolo in commento, quale scriminante della responsabilità del custode (così Cassazione n. 24529 del 2009). La Suprema Corte, con sentenza n. 22882 del 2007, ha riconosciuto un onere di custodia in capo al condominio, escludendo che per i danni derivanti possa farsi genericamente riferimento all’art. 2043 c.c. Si tratta, in pratica, di una responsabilità “qualificata”, derivante dalla fun- 2051 zione stessa assolta dal condominio. I danni che i singoli condomini dovessero riportare a causa di scelte avventate del condominio (nel caso di specie era stato aperto un cancello rimasto chiuso per anni), devono essere risarciti se il condominio non ha fornito un’adeguata prova liberatoria. La Corte esclude, altresì, che l’imprudenza del soggetto danneggiato (per non avere prestato la necessaria attenzione) possa sollevare dal risarcimento: solo la prova del caso fortuito vale a liberare da responsabilità e la cooperazione colposa dell’infortunato potrà essere valutata eventualmente in sede di quantum ex art. 1227, comma 1 c.c. Con sentenza n. 6267 del 2008 la Corte di Cassazione ha posto un’altra pietra miliare sul cammino della ricostruzione volta all’individuazione delle fonti degli obblighi di garanzia poste a fondamento della responsabilità omissiva ex art. 40, comma 2, c.p. In particolare i giudici di legittimità affrontano la problematica delle responsabilità connesse alla posizione del responsabile di una ditta appaltatrice di lavori stradali. Perché sussista una posizione di garanzia penalmente rilevante, tale da poter fondare la responsabilità ex art. 40, comma 2, c.p., occorre, infatti, che il soggetto abbia un obbligo giuridico di impedire l’evento, cosicché in relazione all’inosservanza di tale obbligo possa configurarsi a carico del titolare della posizione di garanzia una responsabilità penale e personale. Il tema dell’obbligo di garanzia, ed in particolare l’individuazione delle fonti giuridiche di tale obbligo, è oggetto di annoso e non sopito dibattito, nel cui ambito sono state ricostruite diverse elaborazioni teoriche. Pur nella varietà delle opinioni espresse, tra teorie formali, teorie funzionali e teorie miste, l’indirizzo prevalente nel pensiero giuridico italiano tende ad assumere un atteggiamento “eclettico”, cioè tenta di conciliare gli opposti punti di vista. Orbene, in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità, il Supremo Collegio afferma che tra le fonti dell’obbligo di garanzia, tali da poter fondare la responsabilità omissiva ex art. 40, comma 2, c.p., rientrano, oltre che le norme di legge, anche le fonti convenzionali, tra le quali è certamente da ricomprendere il contratto, in virtù della clausola di cui all’art. 1372 che fa del contratto legge tra le parti. La fonte contrattuale, è bene precisare, comprende sia i contratti atipici che si fondano pur sempre sul consenso tra le parti, sia i contratti tipici, tra i quali vi è da ricomprendere anche il contratto di appalto. Perché, però, l’obbligo di garanzia possa dirsi effettivamente operante è 77 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 77 27-11-2014 11:04:27 2051 necessario, in ossequio al principio di personalità della responsabilità penale, che vi sia stata la concreta assunzione da parte del garante dei poteri-doveri impeditivi non solo giuridici, ma anche fattuali dell’evento dannoso o pericoloso. I principi suddetti hanno portato la Cassazione a confermare la condanna per omicidio colposo nei confronti del titolare di una ditta appaltatrice di lavori stradali, per la morte di una giovane donna seguita alla caduta da un ciclomotore cagionato dalla presenza di tre buche sul manto stradale, per aver omesso di approntare adeguata sorveglianza ed idonea segnalazione di emergenza laddove si erano prodotte nella zona in questione una serie di cedimenti del tratto stradale. La norma di cui all’art. 2051, c.c., prevede una responsabilità presunta in capo al custode per i danni provocati dalla cosa che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Il fondamento della responsabilità prevista dall’articolo in commento, dev’essere, dunque, individuato nel dovere di custodia che grava sul soggetto che, a qualsiasi titolo, ha un effettivo e non occasionale potere fisico sulla cosa in relazione all’obbligo di vigilare affinché la stessa non arrechi danni a terzi. La norma anzidetta trova applicazione anche nel regime del condominio degli edifici dove l’ente, in veste di custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, rispondendo conseguentemente dei danni da queste cagionati sia a terzi che agli stessi condomini. Ed infatti, ai sensi dell’art. 1117, le tubazioni sono di proprietà comune fino al punto di diramazione, esse assolvendo ad una funzione comune fino all’ingresso nella singola unità immobiliare privata, dove la conduttura è predisposta al servizio esclusivo della porzione di proprietà individuale. Pertanto, trattandosi di beni di proprietà comune, il condominio può essere chiamato a rispondere ai sensi della norma oggetto di commento, in presenza di infiltrazioni dannose dovute a difettosità od omessa manutenzione o ristrutturazione delle condutture, gravando sullo stesso, in qualità di custode, l’obbligo di mantenerle e conservarle in maniera tale da evitare la produzione di eventi dannosi. Ai fini del riconoscimento della responsabilità del custode non è necessario che la res sia intrinsecamente pericolosa, ma è sufficiente, perché possa essere riscontrato il rapporto di causalità fra la cosa ed il danno, che la medesima res abbia una concre- CODICE CIVILE ta potenzialità dannosa per sua connaturale forza dinamica o statica, ovvero, per effetto di concause umane o naturali (così Trib. Bari 14 gennaio 2010). u L’art. 2051 c.c. si riferisce al danno cagionato dalla cosa indipendentemente dal comportamento volontario di colui che se ne serve e non è applicabile quando il danno è derivato dalla cosa per effetto dell’azione su di essa esercitata dall’uomo (1321/1998, rv 512398). u L’art. 2051 c.c. non richiede necessariamente che la cosa sia suscettibile di produrre danni per la sua natura, cioè per suo intrinseco potere, in quanto, anche in relazione alle cose prive di un proprio dinamismo, sussiste un dovere di custodia e controllo, allorquando il fortuito o l’effetto dell’uomo possano prevedibilmente intervenire, come causa esclusiva o come concausa, nel processo obiettivo di produzione dell’evento dannoso, eccitando lo sviluppo di un agente, di un elemento o di un carattere che conferiscono alla cosa l’idoneità al nocumento (5796/1998, rv 516341). u In tema di responsabilità per danni da cosa in custodia, il caso fortuito idoneo a superare la presunzione di responsabilità del custode può anche consistere nel comportamento del danneggiato allorché questo abbia costituito la causa esclusiva dell’evento dannoso (4616/1999, rv 526141). u La responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. è esclusa soltanto quando il danno sia eziologicamente riconducibile non alla cosa, ma al fortuito senza che rilevi che questo sia costituito da un comportamento umano, nel fatto cioè dello stesso danneggiato o di un terzo (4757/1999, rv 526297). u La presunzione di colpa per i danni cagionati dalla cosa in custodia ex art. 2051 c.c. ha base nell’esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere inerisce il dovere di custodire la cosa stessa in modo da impedire che produca danni a terzi (5885/1999, rv 527452). u Elemento indispensabile, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c., è la relazione diretta tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, intesa nel senso che la prima abbia prodotto direttamente il secondo, e non abbia, invece, costituito lo strumento mediante il quale l’uomo abbia causato il danno con la sua azione od omissione (1682/2000, rv 533878). u Per il risarcimento del danno cagionato da cose in custodia, l’art. 2051 c.c., non richiedendo 78 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 78 27-11-2014 11:04:27 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 la prova dell’esistenza di una specifica, intrinseca pericolosità della cosa in sé, non prevede, peraltro, un esonero, per il danneggiato, dall’onere di dimostrare l’esistenza di un efficace nesso causale tra la “res” e l’evento (10687/2001, rv 548752). u Poiché la responsabilità per le cose in custodia si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione tra questi e la cosa dannosa e poiché il limite di tale responsabilità risiede nell’intervento del caso fortuito che attiene non al comportamento del responsabile, ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi (12219/2003). u Si ha responsabilità per i danni da cose in custodia anche quando per lo stato in cui la cosa si trova a essere mantenuta, chi ne fa uso si procura un danno e a questo fine non vale distinguere tra una pericolosità stabile o una pericolosità occasionalmente indotta nella cosa da fattori estranei o ancora dalla sola presenza di elementi che rendono pericoloso l’uso della cosa, che altrimenti non lo sarebbe (4739/2007). u Anche la P.A. incorre nella responsabilità ex articolo 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia. Si tratta di responsabilità oggettiva essendo sufficiente, per la sua concreta configurabilità, che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito (Trib. Vallo della Lucania 6 luglio 2007). u Ove non sia applicabile la disciplina della responsabilità ex articolo 2051 c.c., per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, la P.A. risponde dei danni subiti dall’utente, secondo la regola generale di cui all’articolo 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale, mentre sull’ente pubblico graverà l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità (Trib. Vallo della Lucania 6 luglio 2007). u Sia in ipotesi di responsabilità oggettiva della P.A. ex articolo 2051 c.c., sia in caso di responsabilità della stessa ex articolo 2043 c.c., il comportamento colposo del danneggiato nell’uso di bene demaniale, esclude la responsabilità della P.A., se tale comportamento è idoneo a interrompere il nesso causale tra la causa del 2051 danno e il danno stesso, integrando, altrimenti, un concorso di colpa ai sensi dell’articolo 1227, comma 1, c.c. con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato (Trib. Vallo della Lucania 6 luglio 2007). u La prevedibilità dell’insidia in ragione della conoscenza dello stato dei luoghi non consente di attribuire l’evento lesivo al fatto del danneggiato con conseguente esclusione della responsabilità del custode ex art. 2051 c.c.; il comportamento imprudente del danneggiato potrà al più rilevare ai fini dell’applicazione della regola di cui all’art. 1227 c.c. comma 1 (fattispecie relativa ad infortunio occorso ad un condomino per effetto dell’insidia derivante da beni comuni dell’edificio) (22882/2007). u La responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non esonera il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione “iuris tantum” della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità (858/2008). u In base al principio dell’onere della prova spetta al danneggiato “dimostrare che il luogo del sinistro fosse abitualmente frequentato da animali selvatici con un numero eccessivo di esemplari, tale da costituire un vero e proprio pericolo per gli utenti della strada ovvero fosse stato teatro di precedenti incidenti tali da allertare le autorità preposte, e da imporre all’ente proprietario della strada l’obbligo di collocare appositi cartelli di segnalazione stradale di pericolo” sì da escludere i requisiti della forza maggiore e/o del caso fortuito (27673/2008). u La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale” così che la responsabilità del sinistro provocato da questi animali bradi è ascrivibile al soggetto che esercita il potere di controllo e di custodia su 79 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 79 27-11-2014 11:04:28 2051 di essi e sui luoghi in cui si è verificato l’evento lesivo dei diritti altrui (27673/2008). u L’affidamento della manutenzione stradale alle imprese appaltatrici non esonera il Comune al controllo e alla vigilanza, il quale risponderebbe direttamente in caso d’inadempimento: infatti, il contratto d’appalto per la manutenzione delle strade costituisce solamente lo strumento tecnico-giuridico per la realizzazione in concreto del compito istituzionale del Comune di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade di sua proprietà ai sensi dell’art. 14 del Codice della strada. Nel caso in questione, deve ritenersi che il rapporto che si instaura tra il Comune e impresa non basta ad escludere la responsabilità del Comune committente nei confronti degli utenti delle singole strade ai sensi e per gli effetti dell’art. 2051 c.c. (1691/2009). u Nel caso di parcheggio di un’auto in un piazzale gestito da ditta privata, si verte in tema di contratto atipico per la cui disciplina occorre far riferimento alle norme relative al deposito. Ne consegue responsabilità del gestore nel caso di furto del veicolo, senza che essa possa essere esclusa dall’esposizione di un cartello affisso all’ingresso del parcheggio, con cui la ditta rappresenta di non rispondere del furto totale o parziale delle auto. Trattasi, infatti, in tale caso di una clausola di esclusione della responsabilità di carattere vessatorio, perciò inefficace se non sia approvata specificamente per iscritto (1957/2009). u Il gestore del locale notturno al di fuori del quale avviene una rissa è responsabile per gli eventuali danni cagionati a cose o persone. Non è necessario che il danno si sia verificato “nello sviluppo di un agente insito nella cosa” e che il soggetto convenuto (il gestore del locale notturno), per proprio ruolo nel rapporto con la “cosa”, abbia l’obbligo di vigilare e di tenerla sotto controllo per impedire eventuali danni ai terzi; è invece sufficiente che sussista un nesso deterministico tra la cosa e l’avvenuto danno, nesso che in relazione alla particolare natura del fatto dannoso (caduta con lesioni gravi per l’urto di corpi contro un riparo inidoneo, nel caso in esame la recinzione troppo bassa al di fuori del locale non ha di fatto impedito la caduta su strada del giovane) si qualifichi per il determinismo causale delle regole codificate nel codice penale. (8128/2009). u In tema di risarcimento del danno cagionato da cose in custodia, la fattispecie di cui all’art. 2051 c.c. individua un’ipotesi di responsabilità oggettiva e non una presunzione di colpa, essendo sufficiente per l’applicazione della CODICE CIVILE stessa la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa, e, perciò, trova applicazione anche nell’ipotesi di cose inerti (11695/2009). u Il custode della cosa che ha creato il danno è il responsabile oggettivo dell’evento e si libera solo quando fornisce la prova del caso fortuito, autonomo o incidentale. Non conta se l’oggetto che causò l’incidente sia pericoloso o inerte (11695/2009). u In tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., ai fini della responsabilità del custode per l’evento dannoso, è sufficiente che il danneggiato provi il nesso causale con la cosa custodita, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della stessa; il dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso improprio della cosa da parte del terzo o del danneggiato, si arresta soltanto al caso in cui la pericolosità dell’anomala utilizzazione di essa, intesa come fattore causale esterno, sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, da renderla del tutto imprevedibile e perciò inevitabile (20415/2009). u Agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito si applica, in linea generale, l’art. 2051 c.c. in riferimento alle situazioni di pericolo “immanentemente” connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, essendo configurabile il caso fortuito in relazione a quelle occasioni di pericolo provocate dagli stessi utenti ovvero da una imprevedibile alterazione dello stato della cosa che sfugga anche al controllo diligente e che non possa essere rimossa o segnalata. La presenza del segnale stradale “Caduta massi” sulla strada statale non esclude automaticamente dalle responsabilità dell’ente custode della strada in caso di frana. Tale segnale è, invece, sintomatico della consapevolezza nell’ente proprietario della pericolosità della strada ed è quindi un elemento rivelatore per il giudice: solo il caso fortuito esonera il custode ex articolo 2051 c.c. e non si può non tener conto dalla specifica pericolosità del tratto di strada, che impone una particolare vigilanza (20754/2009). u L’ente proprietario della strada provinciale è responsabile dell’incidente determinato dalla neve: a configurarla basta che il danneggiato provi che il sinistro è dipeso dall’asse viario, poi spetta all’amministrazione, come custode del bene, riuscire a dimostrare il caso fortuito per liberarsi dall’onere del risarcimento (24529/2009). 80 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 80 27-11-2014 11:04:28 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 u In tema di responsabilità da cose in custodia, non può escludersi l’applicazione dell’art. 2051 c.c. nel caso di incidente su rete autostradale a causa di “velocità non particolarmente moderata” pur in assenza di specifiche ragioni che la impongano, tenuto conto che è consentito ai normali utenti tenere in autostrada una velocità relativamente elevata (2360/2010). u La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia ex art. 2051 c.c., prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva necessitando solo un rapporto eziologico tra la cosa ed il danno (Trib. Potenza 10 marzo 2010). u La responsabilità di cose in custodia ex art. 2051 c.c. sussiste essenzialmente sulla base di due presupposti: un’alterazione della cosa che per le sue intrinseche caratteristiche determina la configurazione nel caso concreto della c.d. insidia o trabocchetto, e l’imprevedibilità e invisibilità di tale “alterazione” per il soggetto che, in conseguenza di detta situazione di pericolo, subisce un danno (11592/2010). u Colui il quale intende far valere una responsabilità contrattuale o extracontrattuale della Pubblica Amministrazione deve dimostrare che l’evento dannoso sia causalmente ricollegabile ad una insidia o trabocchetto, nascente da situazioni di fatto creatrici di un pericolo per l’utente della strada (20757/2010). u In tema di danno cagionato da cose in custodia è indispensabile, per l’affermazione di responsabilità del custode, che sia accertata la sussistenza di un nesso di causalità tra la cosa ed il danno patito dal terzo, dovendo, a tal fine, ricorrere la duplice condizione che il fatto costituisca un antecedente necessario dell’evento, nel senso che quest’ultimo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie di esso, e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano causale, dalla sopravvenienza di circostanze da sole idonee a determinare l’evento (20757/2010). u La responsabilità resta esclusa in presenza di caso fortuito, la cui prova grava sull’ente, per effetto della presunzione iuris tantum, ovvero se l’utente danneggiato abbia tenuto un comportamento colposo tale da interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso, potendosi eventualmente ritenere, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1 un concorso di colpa idoneo a diminuire, in proporzione della incidenza causale, la responsabilità della pubblica amministrazione, sempre che tale concorso sia stato dedotto e provato (21328/2010). 2051 u La Regione ha l’obbligo di predisporre tutte le misure idonee atte ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o a cose; quindi, nell’ipotesi di danno provocato dalla fauna selvatica ed il cui risarcimento non sia previsto da apposite norme, la Regione può essere chiamata a rispondere in forza della disposizione generale del “neminem laedere” (23095/2010). u Il Comune è responsabile per i danni subiti da un passante che sia caduto a causa di un tombino sporgente rispetto al livello del marciapiede. Nè può essere imputato alla vittima di non aver camminato sull’altro lato della via: senza la recinzione dell’area interessata dai lavori né l’apposizione di segnali stradali il tombino instabile costituisce un pericolo occulto e non prevedibile. L’utente della strada, infatti, ha diritto di aspettarsi che la superficie del fondo sia regolare in assenza di segnalazioni contrarie (23277/2010). u Chi proponga domanda di risarcimento dei danni da cose in custodia, ai sensi dell’art. 2051 c.c., in relazione alle condizioni di una strada (nella specie, danni conseguenti alla caduta da una motocicletta), ha l’onere di dimostrare le anomale condizioni della sede stradale e la loro oggettiva idoneità a provocare incidenti del genere di quello che si è verificato (nella specie, presenza di pietrisco sul fondo stradale). È onere del custode convenuto in risarcimento, invece, dimostrare in ipotesi l’inidoneità in concreto della situazione a provocare l’incidente, o la colpa del danneggiato, od altri fatti idonei ad interrompere il nesso causale fra le condizioni del bene ed il danno (26751/2010). u La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia viene esclusa dimostrando il caso fortuito, che sussiste quando il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante riesca a interrompere il nesso tra la cosa custodita e l’evento lesivo. In caso di piogge intense che provochino la tracimazione delle acque, l’ente preposto non è responsabile per i danni causati se riesce a dimostrare di aver provveduto alla manutenzione in modo scrupoloso, di avere cioè adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno e che, nonostante ciò, l’evento lesivo si sia verificato ugualmente (10720/2011). u La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia ha carattere oggettivo; perché essa possa, in concreto, configurarsi è sufficiente che l’attore dimostri il verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene, salvo la prova del fortuito, incombente sul custode. Allegata e dimostrata la presenza sulla corsia di marcia di un’autostrada di un animale di dimensioni 81 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 81 27-11-2014 11:04:28 2055 tali da intralciare la circolazione, non spetta all’attore in responsabilità, sia nell’ambito della tutela offerta dall’art. 2051 c.c., sia alla stregua del principio generale del “neminem laedere”, di cui all’art. 2043 c.c., provarne anche la specie, la quale potrà semmai essere dedotta e dimostrata dal convenuto quale indice della ricorrenza di un caso fortuito (fattispecie relativa ad un sinistro causato dalla presenza in autostrada di una volpe) (11016/2011). u In base all’art. 2051 c.c. è onere del custode fornire la prova che l’evento si era verificato per caso fortuito o per fatto del terzo per liberarsi della presunzione di responsabilità che incombe su di esso (19131/2011). u Poiché la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall’art. 2051 cod. civ., ha carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia, una tale responsabilità non è di per sé esclusa dal fatto volontario della vittima, salva la valutazione della sua condotta ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., consistente nella fruizione del bene custodito, benché non conforme al suo uso ordinario, quando non vi sia ragionevole modo di attendersi una peculiare oggettiva pericolosità dell’uso diverso, ma reso possibile dalla facile accessibilità alla cosa medesima (1769/2012). u Gli obblighi di sorveglianza e di tutela dell’Istituto scolastico sussistono solo allorché l’allievo si trovi all’interno della struttura, mentre tutto quanto accade all’esterno, per esempio sui gradini di ingresso, può, ricorrendone le condizioni, trovare ristoro attraverso l’attivazione della responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 codice civile (19160/2012). u In tema di responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia, per aversi caso fortuito occorre che il fattore causale estraneo al soggetto danneggiato abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa custodita e l’evento lesivo, ossia che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. (Nella specie, la S.C. ha affermato che una pioggia di eccezionale intensità può costituire caso fortuito in relazione ai danni riportati dai proprietari di appartamenti inondati da acque tracimate a causa di tale evento, a condizione che l’ente preposto provi di aver provveduto alla manutenzione del sistema di smaltimento delle acque nella maniera più scrupolosa e che, nonostante ciò, l’evento dannoso si è ugualmente determinato) (10898/2013). CODICE CIVILE 2055. Responsabilità solidale. – Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido (1294) al risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso (1299) contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate (12271). Nel dubbio (20542), le singole colpe si presumono uguali (12982). Può accadere che l’evento dannoso sia la conseguenza di un comportamento imputabile a più di una persona ovvero dalla somma di diverse condotte, ciascuna imputabile ad una distinta persona: in tutte e due le ipotesi i soggetti che hanno concorso a provocare l’evento dannoso sono obbligati al risarcimento in via solidale. In questo modo il danneggiato potrà pretendere ed ottenere il risarcimento rivolgendosi ad uno qualsiasi dei responsabili. Ovviamente a chi, tra i corresponsabili, provvede a risarcire il danno, è concessa azione di regresso nei confronti degli altri, secondo le norme sulla solidarietà passiva (esempio n. 1). Può anche accadere che l’evento dannoso sia causato dalla somma di due condotte distinte, l’una imputabile al responsabile, l’altra allo stesso danneggiato. In tal caso il risarcimento [1227 comma 1]: - andrà diminuito in proporzione all’entità della colpa di quest’ultimo e alle conseguenze che ne sono derivate; - non sarà dovuto relativamente a quei danni che lo stesso danneggiato avrebbe potuto scongiurare se avesse usato la diligenza media. Potrebbe verificarsi inoltre l’ipotesi in cui il danneggiato, comportandosi negligentemente, aggravi ancora di più il danno (esempio n. 2): in questo caso chi ha provocato il danno non sarà responsabile degli ulteriori danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare comportandosi in maniera diligente. Le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 24397 del 2007, pronunciandosi sul risarcimento del danno da occupazione appropriativa, hanno sancito i seguenti principi di diritto: a) siccome nello schema dell’occupazione espropriativa l’illecito si perfeziona con effetto estintivo della proprietà privata al momento della radicale ed irreversibile trasformazione del fon- 82 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 82 27-11-2014 11:04:28 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 do, se avvenuta in periodo di occupazione illegittima o alla scadenza dell’occupazione legittima, tutta l’attività svolta nel corso dell’occupazione da chiunque esplicata - per definizione illecita - rende l’autore o gli autori responsabili del relativo risarcimento ai sensi del presente articolo e dell’art. 2043 precedente: detta responsabilità grava sempre e comunque anzitutto sull’ente che ha consumato l’illecita apprensione e posto in essere il mutamento del regime di appartenenza dell’immobile; b) il mero ricorso allo strumento della concessione traslativa con l’attribuzione al concessionario affidatario dell’opera, della titolarità di poteri espropriativi, non può comportare indiscriminatamente l’esclusione di ogni responsabilità al riguardo del concedente. Perché ciò avvenga è infatti necessario, in osservanza al principio di legalità dell’azione amministrativa, che l’attribuzione all’affidatario di detti poteri e l’accollo da parte sua degli obblighi indennitari siano previsti da una legge che espressamente li autorizzi: non essendo altrimenti consentito alla p.a. disporne a sua discrezione onde sollevarsi dalle responsabilità che il legislatore le attribuisce; c) qualora l’amministrazione espropriante affidi ad altro soggetto, mediante una concessione, la realizzazione di un’opera pubblica, e gli deleghi nello stesso tempo gli oneri concernenti la procedura ablatoria, l’illecito in cui consiste l’occupazione appropriativa (per cui, a causa della trasformazione irreversibile del suolo in mancanza del decreto di esproprio, si verifica comunque la perdita della proprietà a danno del privato) è ascrivibile anzitutto al soggetto che ne sia stato autore materiale [c.p. 40, 41], pur senza essere munito di un titolo che l’autorizzasse; d) in caso di affidamento ad altro soggetto, mediante concessione, della realizzazione di opera pubblica, sussiste, altresì, una corresponsabilità solidale dell’Ente delegante, il quale con il conferimento del mandato non si spoglia delle responsabilità relative allo svolgimento della procedura espropriativi e rimane obbligato, in presenza di tutti i presupposti, al relativo risarcimento ai sensi del combinato disposto dall’articolo in commento e dal citato art. 2043; e) la responsabilità concorrente del delegante si riferisce unicamente agli effetti dell’illegittima occupazione ed (irreversibile) appropriazione definitiva del fondo privato, e non anche agli ulteriori danni causati dall’appaltatore-esecutore dei lavori durante la materiale costruzione dell’ope- 2055 ra pubblica, non collegabili né all’esecuzione del progetto né a direttive specifiche dell’amministrazione committente, ma a propri comportamenti materiali attuati in violazione del precetto generale di cui al più volte citato art. 2043. 1. Marco, alla guida dell’auto del fratello Franco, se produce colposamente un danno ad un terzo, è tenuto a risarcirlo in via solidale con quest’ultimo. 2. Si pensi al proprietario di un appartamento sito all’ultimo piano di una palazzina il cui tetto è stato rovinato da lavori effettuati per installare delle antenne, che non fa nulla per evitare che le infiltrazioni di acqua si ripercuotano anche sul resto degli appartamenti. u Per la responsabilità solidale prevista dall’art. 2055 c.c., non è necessario che più persone concorrano nell’unica azione o omissione, ma basta, nel caso di pluralità di azioni o omissioni, pur se autonome e temporalmente distinte, che ciascuna di esse abbia concorso in maniera causalmente efficiente a produrre l’evento (814/1997, rv 502063). u Qualora l’unico evento dannoso sia imputabile a più responsabili, compete alla scelta del danneggiato agire contro uno o più dei soggetti responsabili (11985/1998, rv 521123). u È ravvisabile la responsabilità solidale se l’unico evento dannoso è imputabile a più persone che abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che le azioni o le omissioni di ciascuna persona costituiscano distinti ed autonomi fatti illeciti o violazione di norme giuridiche diverse. Può pertanto essere pronunciata la condanna in via solidale quando più debitori siano tenuti per la medesima prestazione, a nulla rilevando in contrario la diversità della fonte dalla quale le obbligazioni derivano e la diversa natura delle rispettive azioni ed omissioni (1415/1999, rv 523406). u In contrapposizione all’art. 2043 c.c., che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un “fatto” doloso o colposo, il successivo art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”, sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà. Ne consegue che l’unicità del fatto dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 c.c. per la legittima predicabilità di una responsa- 83 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 83 27-11-2014 11:04:28 2056 bilità solidale tra gli autori dell’illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno, e senza che, con tale principio, contrasti la disposizione dell’art. 187 c.p., capoverso la quale, con lo statuire per i condannati per uno stesso reato l’obbligo in solido al risarcimento del danno, non esclude ipotesi diverse di responsabilità solidale di soggetti che non siano colpiti da alcuna condanna o che siano colpiti da condanna per reati diversi o che siano taluni colpiti da condanna e altri no (7507/2001, rv 547207). u Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 e 2055 c.c., chi subisce un danno ingiusto per fatto colposo imputabile a più persone ha diritto al risarcimento integrale del danno (ex art. 2043 c.c.) nei confronti di ognuno di loro (ex art. 2055 c.c., in tema di responsabilità solidale) (12731/2010). 2056. Valutazione dei danni. – Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso (1226). Per il risarcimento del danno conseguente da illecito trovano applicazione, salvo eccezioni, le stesse norme prestabilite per il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento delle obbligazioni. La liquidazione, fatta dal giudice, comprenderà, dunque, sia la perdita effettivamente subìta (danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto conseguenza immediata e diretta del fatto illecito (esempio). In particolare: - il lucro cessante sarà valutato dall’autorità giudiziaria con equo apprezzamento delle circostanze del caso [1223]; - se il danno non può essere dimostrato nel suo esatto ammontare, l’autorità giudiziaria provvede alla sua liquidazione in base a valutazione equitativa [1226], ipotesi, questa, che ricorre soprattutto se il danno è di natura non patrimoniale; CODICE CIVILE - in caso di concorso di colpa del danneggiato la somma da risarcire verrà diminuita in proporzione all’entità della colpa e delle conseguenze scaturite; essendo, invece, esclusa la risarcibilità dei maggiori danni ricollegabili al mancato uso, da parte del medesimo danneggiato, dell’ordinaria diligenza. La giurisprudenza ci ricorda che la liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della capacità di lavoro e di guadagno non può costituire un’automatica conseguenza dell’accertata esistenza di lesioni personali, ma esige che sia verificata la attuale o prevedibile incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro, anche generica, della vittima. Ne consegue che quando detti postumi sono di lieve entità o, comunque, manchino elementi concreti dai quali desumere una incidenza della lesione sulla attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso, vanno escluse l’esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica (così Cassazione n. 4493 del 2011). Nel danno emergente possono essere ricomprese le spese ospedaliere o le cure mediche necessarie a seguito dei danni cagionati alla persona. Nel lucro cessante possono essere ricompresi i mancati guadagni conseguenti a forme di invalidità permanente a seguito dei danni cagionati alla persona. u In tema di responsabilità per fatto illecito, il principio della proporzionale riduzione del risarcimento del danno, in ragione dell’entità percentuale del contributo causale del comportamento del danneggiato (art. 1227, primo comma, c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c.), trova applicazione anche nel caso in cui questo ultimo sia soggetto incapace (1442/1983, rv 426270). u Ai fini del risarcimento del danno da fatto illecito, che è rivolto a reintegrare compiutamente il patrimonio del danneggiato, il giudice del merito è libero di scegliere di volta in volta il criterio più idoneo a far coincidere in concreto l’entità della riparazione pecuniaria con il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato stesso (2986/1984, rv 435027). u Il potere discrezionale, conferito al giudice dall’art. 1226 c.c., di liquidare il danno in 84 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 84 27-11-2014 11:04:29 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 via equitativa è subordinato alla condizione che sia impossibile o molto difficile provare il danno nel suo preciso ammontare; l’esercizio concreto, in senso positivo o negativo, del detto potere e l’accertamento dell’esistenza del presupposto costituito dalla impossibilità o rilevante difficoltà della prova non sono suscettibili di sindacato in sede di legittimità, se la relativa decisione sia sorretta da motivazione immune da vizi logici e da errori di diritto (4619/1985, rv 442081). u Nella liquidazione del danno non patrimoniale ai prossimi congiunti della vittima il giudice di merito deve considerare i parametri individuati dalla Suprema corte in materia di danno morale parentale in relazione ai valori costituzionali della persona e della integrità familiare che la perdita del congiunto compromette in modo definitivo. In questo contesto, se il fattore della convivenza esalta maggiormente il vincolo della vita in comune, la comunione di affetti e di solidarietà ben può sussistere anche nel caso di una scelta di vita autonoma del figlio medico, essendo i vincoli spirituali altrettanto stretti e degni di tutela. Nella liquidazione del danno futuro di natura patrimoniale permanente il giudicante deve ispirarsi a quella equità circostanziata di cui parla l’articolo 2057 c.c. che bene si integra con l’articolo 2056 c.c., con riferimento alla considerazione delle condizioni delle parti lese e della natura del danno da privazione di una solidarietà economica (14845/2007). u In tema di immissioni sonore intollerabili, il danno alla salute conseguente deve essere specificamente allegato e provato. Al fine, non basta produrre un certificato medico attestante un generico stato d’ansia, non essendo questo di per sé risarcibile. A fortiori se ivi manchi l’affermazione positiva del nesso causale avvincente il detto stato e le immissioni sonore (25820/2009). u In tema di obbligazione risarcitoria da fatto illecito extracontrattuale, gli interessi compensativi dovuti per il danno da ritardo non possono essere calcolati dalla data dell’illecito sulla somma liquidata per capitale e rivalutata sino al momento della decisione, dovendo, invece, essere computati o con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, per effetto dei prescelti indici medi di rivalutazione monetaria, ovvero anche in base ad un indice medio, tenuto conto che la liquidazione del danno da ritardo rientra pur sempre nello schema liquidatorio di cui all’art. 2056 c.c., in cui è ricompresa la valutazione equitativa del danno stesso ex art. 1226 c.c. (5671/2010). 2056 u Inerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno evento, all’ambito dei fatti costitutivi della domanda di risarcimento danni, esso dev’essere allegato dal soggetto leso e non può certo essere individuato ed introdotto d’ufficio da parte del giudice e ciò nemmeno attraverso il potere di liquidazione equitativa del danno, di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere concerne la quantificazione del danno e non l’individuazione del danno (10957/2010). u In tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, in quanto incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l’aspetto strettamente patrimoniale, allorché, pur determinando una c.d. micropermanente sul piano strettamente biologico, eventualmente provochino negative ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare (21012/2010). u In materia di risarcimento del danno la liquidazione mirata a ristorare il nocumento accusato dal danneggiato deve essere integrale, dovendo tener conto delle perdite cagionate alla vittima del fatto illecito, nonché alle sofferenze morali e future che il destinatario dell’azione lesiva si veda costretto a subire ovvero è presumibile che subisca o che possa subire in seguito. Il danno morale soggettivo può essere liquidato in aggiunta al danno biologico, per avvertite esigenze di personalizzazione del risarcimento. Allo stesso modo, è possibile dichiarare il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale al di là del decretato risarcimento del danno morale e ciò tutte le volte che la parte lesa fornisca in giudizio la prova di avere perduto la possibilità di conseguire un risultato sperato, che si sarebbe verosimilmente verificato se non vi fosse stata la verificazione del fatto illecito (11609/2011). u Le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla circolazione. I relativi parametri sono conseguentemente da prendersi a riferimento da parte del giudice di 85 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 85 27-11-2014 11:04:29 2057 merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella, di inferiore ammontare, cui sia diversamente pervenuto, incongrua essendo la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui si perviene mediante l’adozione dei parametri esibiti dalle dette tabelle di Milano. Vanno ristorati anche i c.d. aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale o del c.d. danno esistenziale, sicchè è necessario verificare se i parametri recati dalle tabelle tengano conto (anche) dell’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto che si estrinsechi in uno svolgimento dell’esistenza, e cioè in (radicali) cambiamenti di vita, dovendo in caso contrario procedersi alla c.d. “personalizzazione”, riconsiderando i parametri recati dalle tabelle in ragione (anche) di siffatto profilo, al fine di debitamente garantire l’integralità del ricorso spettante al danneggiato (in applicazione del suesposto principio, la Corte ha cassato la decisione dei giudici del merito che, nel disporre il risarcimento del danno non patrimoniale in favore della una vittima di un sinistro stradale, avevano preso a riferimento le Tabelle elaborate dal Tribunale di Brescia, senza peraltro prevedere una personalizzazione di tale danno, alla luce delle gravi conseguenti esistenziali riportate dalla vittima in seguito al sinistro) (14402/2011). u Ai fine della liquidazione del danno non patrimoniale, pur essendo consentito ai giudici di merito di assumere come parametri di riferimento le tabelle utilizzate nei vari tribunali della Repubblica tuttavia - poiché si tratta del ricorso ad un criterio che è comunque equitativo e che trova il proprio fondamento normativo negli artt. 1226 e 2056 c.c. - essi sono tenuti a dare conto del criterio utilizzato, esplicitando in ogni caso quale sia il sistema seguito e provvedendo poi alla necessaria personalizzazione in riferimento al caso concreto (8557/2012). u Nella liquidazione del danno per lucro cessante da invalidità permanente il giudice deve ricorrere ai coefficienti tabellari adeguandoli ai valori correnti e adattandoli al caso concreto, oltre a tener conto della svalutazione monetaria (8985/2012). 2057. Danni permanenti. – Quando il danno alle persone ha carattere permanente la liquidazione può essere fatta dal giudice, tenuto conto delle condizioni delle parti CODICE CIVILE e della natura del danno, sotto forma di una rendita vitalizia (1872 ss.). In tal caso il giudice dispone le opportune cautele. In relazione al danno alla persona, disciplinato dall’articolo in commento, occorre puntualizzare che: a) l’invalidità permanente - ossia la definitiva inettitudine a valersi delle proprie capacità psicofisiche e, dunque, a conseguire lo stesso reddito che il danneggiato avrebbe potuto realizzare se l’evento dannoso non si fosse verificato - presuppone che la liquidazione possa essere effettuata dal giudice (tenendo conto delle condizioni delle parti e della natura del danno e disponendo altresì le dovute cautele) sotto forma di rendita vitalizia; b) nell’ambito di tale tipologia di danno, dottrina e giurisprudenza, ne hanno “tipizzato” alcune come, ad esempio: - il danno alla vita di relazione: consistente nell’impossibilità o nella difficoltà di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello normale. Esso costituisce una componente del danno patrimoniale e concreta non una generica menomazione, bensì un nocumento che tocca aspetti specifici della personalità umana, variabili a seconda dell’età, del sesso, dell’attività esercitata e delle condizioni ambientali in cui la vittima vive ad opera; - il danno estetico: ovvero la compromissione dell’integrità fisionomica della persona. Esso costituisce, necessariamente, un danno biologico (danno-evento) ed, eventualmente, un danno patrimoniale (danno-conseguenza), se il danneggiato dimostri che la perduta integrità estetica ha causato una riduzione del reddito. La valutazione del c.d. danno estetico deve essere effettuata nell’ambito della generale valutazione del danno biologico, ma ai fini di una corretta liquidazione del danno biologico, il giudice di merito deve procedere alla cd personalizzazione dei criteri tabellari dovendo adeguatamente valutare e motivare in merito alle ripercussioni fisiche e psichiche che il pregiudizio subito dal danneggiato ha provocato sulla propria sfera personale (così Cassazione n. 9549/2009); - il danno biologico: che consiste nella menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore-uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle 86 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 86 27-11-2014 11:04:29 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica. u Il danno alla salute, per quanto normalmente si risolva in un peggioramento della qualità della vita, presuppone pur sempre una lesione dell’integrità psicofisica, di cui quel peggioramento è solo conseguenza. Non è dunque in sé risarcibile la minore godibilità della vita, ma solo il diritto alla salute, costituente il bene giuridicamente tutelato dall’art. 32 Cost. In difetto di una lesione dell’integrità psicofisica del soggetto, che sia conseguita alle sofferenze indotte dalla perdita del congiunto, non è configurabile un danno biologico risarcibile per gli stretti congiunti della persona deceduta (10629/1998, rv 520100). u Tra lesione della salute e diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo. Ne consegue che in presenza di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in egual misura la capacità di produrre reddito, ma il soggetto leso ha sempre l’onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l’invalidità permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno (12757/1999, rv 531239). u In tema di risarcimento del danno alla vita di relazione, qualora sia stata liquidata equitativamente una somma globale, con riferimento sia alla parte di danno già maturata, sia a quella futura, tenendosi conto, per quest’ultima parte, degli interessi a scalare corrispondenti all’erogazione anticipata, gli interessi compensativi sull’intera somma globale liquidata, decorrono pur sempre dalla data del fatto illecito produttivo del danno (6321/2000, rv 536557). u Nella valutazione del danno biologico il quale si riferisce alla salute come bene in sé, indipendentemente dalla capacità del danneggiato di produrre reddito ed a prescindere da questo - costituisce valido criterio di liquidazione equitativa quello che assume a parametro il cosiddetto punto d’invalidità, determinato sulla base del valore medio del punto di invalidità calcolato sulla media dei precedenti giudiziari aumentabile fino al cinquanta per cento al fine di consentire al giudice di rapportare la liquidazione alle accertate peculiarità della fattispecie concreta (età del danneggiato, entità e natura della menomazione, epoca dell’evento lesivo ecc.). La scelta del giudice di merito di liquidare il danno alla salute con il criterio sopra 2058 esposto non è censurabile in sede di legittimità se sorretta da congrua motivazione in ordine all’adeguamento del valore medio del punto, risultante dai dati acquisiti nella giurisprudenza di merito, alle particolarità della singola fattispecie (6396/2001, rv 546514). u In tema di liquidazione del danno alla persona, è da considerarsi irrilevante il rifiuto del danneggiato di sottoporsi ad intervento chirurgico al fine di diminuire l’entità del danno, atteso che non può essere configurato alcun obbligo a suo carico di sottoporsi all’intervento stesso, non essendo quel rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall’art. 1227 c.c. (6502/2001, rv 546565). u Qualora, al momento della liquidazione del danno biologico, la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, la valutazione va riferita al danno effettivamente prodotto dal sinistro. L’ammontare del danno biologico, che gli eredi del defunto richiedono “iure successionis”, va calcolato con riferimento alla durata effettiva della vita del danneggiato. Nella valutazione del danno non patrimoniale va, comunque, tenuto conto che, nei primi tempi, il patema d’animo è più intenso che nei periodo successivi (2106/2008). u In tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, in quanto incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l’aspetto strettamente patrimoniale, allorché, pur determinando una c.d. micropermanente sul piano strettamente biologico, eventualmente provochino negative ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura, precludendola o rendendola di più difficile conseguimento, in relazione all’età, al sesso del danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza particolare (21012/2010). 2058. Risarcimento in forma specifica. – Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore. Per la responsabilità extracontrattuale è ammesso: 87 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 87 27-11-2014 11:04:29 2059 - un risarcimento in forma specifica, consistente nel ripristino della situazione precedente all’evento dannoso (esempio), sempreché sia in tutto o in parte possibile e che non risulti eccessivamente oneroso per il responsabile; - un risarcimento per equivalente, consistente nel pagamento di una somma di denaro (si rinvia al commento sub art. 2056) corrispondente al danno subìto. Rifacimento di una cosa distrutta o eliminazione di una cosa fatta illecitamente. u La condanna al risarcimento del danno mediante reintegrazione in forma specifica può essere pronunciata con l’ordine di eliminazione di quanto illecitamente fatto, che risulti identificato come fonte esclusiva di un danno attuale destinato a protrarsi nel tempo (9278/1993, rv 483845). u In tema di disposizione del secondo comma dell’art. 2058 c.c., in virtù della quale, anche se il danneggiato abbia chiesto, quando possibile, la “reintegrazione in forma specifica”, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per “equivalente” ove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, la differenza fra la “riparazione in forma specifica” ed il risarcimento per “equivalente” consiste nel fatto che, nel primo, la somma dovuta è calcolata sui costi occorrenti per la riparazione, e, nel secondo, è riferita alla differenza fra il bene integro (e cioè nel suo stato originario) ed il bene leso o danneggiato (5993/1997, rv 505706). u Nel caso di un sinistro stradale ove la morte dell’infortunato sopraggiunga solo mezz’ora dopo l’incidente, il danno per morte va preso in considerazione quale peculiare voce o aspetto dei danni non patrimoniali subiti direttamente dai parenti, fra i quali danni rientrano anche quelli conseguenti alla perdita del rapporto parentale; al dolore da essi risentito in proprio, di riflesso, per la consapevolezza del male che il proprio congiunto ebbe a subire, e così via. Si tratta di danni che i congiunti possono far valere iure proprio, quale parte dei danni non patrimoniali da essi personalmente subiti, non di danni spettanti iure ha ereditario (25264/2010). u In caso di riduzione dell’importo da liquidare agli eredi a titolo di risarcimento per i danni non patrimoniali subiti a seguito della perdita di un congiunto il giudice è tenuto a fornire adeguata motivazione (25264/2010). CODICE CIVILE 2059. Danni non patrimoniali. – Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge (892 c.p.c.; 1852, 187, 189 c.p.). Con la storica decisione dell’11 novembre 2008, n. 26972 (di contenuto identico ad altre tre sentenze, tutte depositate contestualmente: 26973, 26974 e 26975) le Sezioni Unite della Cassazione, oltre a comporre i precedenti contrasti sulla risarcibilità del c.d. danno esistenziale, hanno profondamente riesaminato i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all’articolo in commento La sentenza ha innanzitutto ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad es., nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del presente articolo, per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione. La decisione è quindi passata ad esaminare il contenuto della nozione di danno non patrimoniale, stabilendo che quest’ultimo costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva. È, pertanto, scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il c.d. “danno morale soggettivo”, inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico ed unitario danno non patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante. Invero la Suprema Corte ha recentemente ribadito con sent. n. 18641 del 2011 (ma v. anche, in non dissimili termini, la precedente sentenza n. 5770 del 2010) come il profilo morale del danno non patrimoniale, sorretto da una propria specifica ratio, viva di vita propria ed autonoma, escludendo altresì a chiare lettere di poterne predicare l’auspicata scomparsa “per assorbimento” all’interno del più ampio e omnicomprensivo contenitore del danno biologico tabellato. Tanto è vero che le tabelle elabo- 88 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 88 27-11-2014 11:04:29 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 rate dal Tribunale di Milano a partire dal 2009, che la sentenza n. 12408/2011 ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio nazionale, non hanno mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come voce integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale; tali tabelle, infatti, propongono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente alla lesione permanente dell’integrità psicofisica suscettibile di accertamento medico legale e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore, sofferenza soggettiva in via di presunzione in riferimento a un dato tipo di lesione, vale a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico standard, personalizzazione del danno biologico, danno morale. Il risarcimento del danno morale può essere escluso quando risulti con assoluta certezza, in base a specifiche acquisizioni medico- legali risultanti da un’apposita consulenza, la totale e assoluta incapacità di percepire il dolore da parte del neonato, cioè il suo permanente e irreversibile stato totalmente vegetativo. Da questo principio è stato tratto il corollario che non è ammissibile nel nostro ordinamento un danno definito “esistenziale”, inteso quale perdita del fare areddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, costituisce né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 c.c., e che non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato. Ciò però non implica un assoluto rifiuto della Suprema Corte in ordine al danno esistenziale, il quale benché non potrà più essere considerato come voce autonoma di danno non patrimoniale potrà, comunque, essere risarcito in virtù di una valutazione che il giudice dovrà compiere caso per caso; all’uopo la cassazione si è lasciata andare in qualche esempio rivelatore di quali danni, da domani, potranno e non potranno più essere risarciti: ha, difatti, condiviso l’orientamento delle sentenze “gemelle” in ordine al risarcimento del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto, ovvero del danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome e alla riservatezza. Destino diametralmente opposto avranno i pregiudizi, le ansie, il diritto alla qualità della vita, lo stato di benessere. Secondo gli “ermel- 2059 lini” il risarcimento del danno alla persona dovrà, in ogni caso, essere integrale, nel senso che “dovrà ristorare integralmente il pregiudizio, ma non oltre”. Come detto sarà, quindi, compito del giudice, da ora in poi, accertare l’effettiva sussistenza del pregiudizio allegato, “individuando quali ripercussioni negative sul valore- uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione”, e tenendo a mente che “potranno costituire solo voci del danno biologico nel suo aspetto dinamico … i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica”. Da ciò le Sezioni Unite hanno tratto spunto per negare la risarcibilità dei danni non patrimoniali c.d. “bagatellari”, ossia quelli futili od irrisori, ovvero causati da condotte prive del requisito della gravità, ed hanno al riguardo avvertito che la liquidazione, specie nei giudizi decisi dal giudice di pace secondo equità, di danni non patrimoniali non gravi o causati da offese non serie, è censurabile in sede di gravame per violazione di un principio informatore della materia. La sentenza si completa con due importanti precisazioni in tema di responsabilità contrattuale e prova del danno. Per quanto riguarda la responsabilità contrattuale, è stato precisato che anche dall’inadempimento di una obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale, che sarà risarcibile nei limiti ed alle condizioni sopra indicate (nei casi espressamente previsti dalla legge, ovvero quando l’inadempimento abbia leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione). In tema di prova del danno, è stato ammesso che essa possa essere fornita anche per presunzioni semplici, fermo restando però l’onere del danneggiato di indicare gli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio. Tale assetto interpretativo - osservano le Sezioni Unite - permette di superare anche la limitazione alla tradizionale figura del cd. “danno morale soggettivo transeunte”, nata dal combinato disposto dell’articolo in commento e dell’art. 185 c.p. a cui il primo rinvia, ed intesa in termini di patema d’animo transeunte (cioè passeggero) derivante da reato. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l’uno né l’altro articolo parlano di danno morale, e tantomeno lo ritengono rilevante solo se transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagiona- 89 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 89 27-11-2014 11:04:30 2059 ta dal reato non è necessariamente “transeunte”, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo. Nell’ottica di un’interpretazione unitaria e di ampio respiro del danno non patrimoniale, “la formula danno morale non può più individuare una autonoma sottocategoria di danno, ma semmai descrivere, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento”. Detto altrimenti, nell’ambito della categoria generale del “danno non patrimoniale”, non emergono distinte sottocategorie, “ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale”. È solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ed è ancora a fini soltanto descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale. La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”. Il danno esistenziale, in particolare, si afferma sullo scenario giurisprudenziale come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (in passato risarcito nell’ambito dell’art. 2043 in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto. Tale figura di danno nasce dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’articolo in oggetto, e seguendo la via, inaugurata per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043, inte- CODICE CIVILE so come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona. Con la nozione di danno esistenziale si intende il “non poter più fare ciò che si faceva prima”, il danno cioè da peggioramento della qualità della vita, il danno da lesione del “diritto ad essere felici” (come un tempo). La giurisprudenza, nell’accogliere tale nozione di danno, ha nel tempo ricondotto le lesioni più variegate alla categoria del danno esistenziale. Ciò è accaduto in tema di danno tanatologico, con riferimento ad una sentenza della Cassazione del 2001 che definì esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ma che era rimasta lucida durante l’agonia, e riconobbe il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta, però, la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita, e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Le Sezioni Unite paiono abbracciare una nozione di danno esistenziale molto vicina, fino ad esserne assorbita, a quella di danno morale soggettivo (inteso, però, secondo la nuova concezione). Così, in presenza di reato, il pregiudizio del non poter più fare (ma la corte sposa, infatti, la nozione di “sofferenza morale del non poter più fare”) sarà risarcibile, accertata l’ingiustizia ex art. 2043, in presenza anche solo di un interesse giuridicamente rilevante, non necessariamente di rango costituzionale, considerata la copertura legislativa (art. 185 c.p.), che assicura l’indice di rilevanza dell’interesse leso. In assenza di reato, invece, e al di fuori dei casi determinati dalla leg- 90 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 90 27-11-2014 11:04:30 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 ge, pregiudizi di tipo esistenziale saranno risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ad esempio, pregiudizi attinenti alla sfera della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica e quindi non “etichettabili” come danno biologico; pregiudizi legati alla libertà sessuale nel rapporto di coniugio ecc. Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, Suscettibile di valutazione medico- legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi, come detto, i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato”. Vero è che - a poco più di un mese dalla pronuncia delle Sezioni Unite sul danno esistenziale (Cass. 26972/2008 cit.) in cui ne hanno “bandito l’esistenza e di conseguenza la risarcibilità” - gli effetti di tale epocale svolta “esistenziale” sono già evidenti. L’esempio di come le voci di danno stiano mutando le loro forme è chiaramente rintracciabile nella sentenza n. 29191 del 12 dicembre 2008. Infatti, il restringimento del danno esistenziale ha portato ad un ampliamento del danno morale che sta assumendo dimensioni abnormi rispetto a quelle circoscritte degli ultimi anni. “Il danno morale non deve essere quantificato in relazione al danno biologico, ossia non deve essere valutato come danno pro quota del biologico, perché il valore dell’integrità morale non può essere considerato una quota minore del danno alla salute. Deve esserci la necessità di escludere, per il giudice di merito, la liquidazione del danno mediante criteri di tipo automatico”. È sempre necessaria la personalizzazione del danno che va effettuata calcolando la componente della capacità lavorativa e del danno “psichico”. Affermano inoltre i giudici di legittimità che la morte della vittima per cause indipendenti dalla lesione originaria, incide sulla valutazione del danno biolo- 2059 gico futuro, che resta tale nella sua integrità sino al tempo del decesso, come debito di valore. Di conseguenza si evidenzia che “la riduzione non opera sulla determinazione del danno biologico statico, ma solo sulla determinazione del danno biologico globale, considerato ai valori attuali al tempo della decisione in relazione alla estinzione del danno futuro a seguito della vita”. Sono così evidenti gli effetti che ha provocato la pronuncia delle Sezioni Unite del novembre 2008: è già iniziata una concreta espansione verso una maggiore autonomia ed indipendenza del danno morale la cui liquidazione non può effettuarsi mediante criteri automatici, quali ad esempio le tabelle alle quali i giudici hanno fatto da sempre riferimento, mentre emerge la necessaria personalizzazione del danno in relazione sia al danno biologico che al danno morale. Nel solco tracciato dalle sezioni unite novembrine si inserisce Cassazione n. 469 del 2009 a conferma del nuovo volto e “dimensionamento” del danno non patrimoniale. Questa volta, nel mirino, sono i c.d. “danni riflessi” o “da rimbalzo”, sub specie di danno morale subito iure proprio dai genitori di un bambino paraplegico, a seguito delle lesioni gravissime riportate da quest’ultimo durante il parto. La Corte non ha dubbi nell’approvarne il riconoscimento e non manca di rinviare alle conclusioni raggiunte dalle recenti Sezioni Unite n. 26972 del 2008. Il danno morale richiesto iure proprio dai genitori deve essere comunque risarcito - tuona la Corte - come danno non patrimoniale, nell’ampia accezione di danno “senza etichette” così come ridisegnato dal Supremo Consesso di legittimità. Il relativo risarcimento dovrà essere liquidato integralmente, secondo equità ed adeguatamente parametrato alla incidenza della lesione sofferta: tanto più elevato quanto maggiore è la lesione che determina la doverosità dell’assistenza familiare ed “un sacrificio totale ed amorevole verso il macroleso”. Successivamente, con sentenza a Sezioni Unite n. 557 del 2009, la Corte di Cassazione affronta il tema della risarcibilità del danno biologico iure proprio per perdita di un congiunto, uniformandosi a quanto da esse già statuito nella più volte citata sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 in tema di danno non patrimoniale ed esistenziale. Nel confermare la sentenza impugnata, il Supremo Consesso di legittimità enuncia il principio secondo cui, ai fini del risarcimento del danno biologico iure proprio per perdita di un congiunto, occorre provare la sussistenza in con- 91 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 91 27-11-2014 11:04:30 2059 creto di tale danno, non essendo sufficiente allegare la menomazione del tessuto familiare quale danno esistenziale, inteso come peggioramento oggettivo delle condizioni di vita in conseguenza di un fatto ingiusto che ha provocato la lesione di un diritto costituzionalmente garantito: danno che è in re ipsa, non necessita di prova e può essere liquidato in via equitativa. Secondo una rilettura costituzionalmente orientata dell’articolo in commento che riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità che vede l’art. 2043 demandato alla cura dei danni patrimoniali e l’articolo oggetto di trattazione a quella dei danni non patrimoniali, la sofferenza per la perdita di un congiunto è pertanto risarcibile se viene provato in concreto un danno biologico inteso come menomazione alla integrità psico-fisica, ovvero nell’ambito del danno morale in ragione della giovane età della vittima e del ruolo di riferimento familiare per i congiunti con conseguente incremento del relativo ristoro. E, invero, nel confermare la sentenza impugnata, le Sezioni Unite aderiscono e condividono il ragionamento seguito dalla corte di merito la quale, pur negando l’esistenza di un danno biologico iure proprio per perdita di un congiunto poiché in concreto non provato, ha ritenuto che effettivamente “nella specie, la perdita sofferta appariva di particolare gravità, sia per il coniuge - in relazione alla giovane età della vittima ed alla centralità del ruolo che essa veniva ad occupare nella compagine familiare in ragione della poliedricità del suo impegno di moglie, madre e lavoratrice - che per i figli, privati della madre in un’età in cui la madre costituisce la figura genitoriale di primario rilievo sotto il profilo affettivo”. Sulla base di tali considerazioni la corte di merito ha pertanto elevato il risarcimento per “il danno morale per la perdita della congiunta” riassorbendo correttamente il “danno da perdita del rapporto parentale” nel danno morale, secondo un principio aderente a quanto stabilito dalle sezioni unite con le sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008, con le quali è stato negato che il c.d. “danno esistenziale” costituisca un’autonoma categoria di danno e tutti i danni non patrimoniali sono stati ricondotti nell’ambito della previsione dell’articolo in commento, ivi compreso il “danno da perdita del rapporto parentale”. Ma la Suprema Corte fa di più. Con sentenza n. 24435 del 19 novembre 2009 afferma che in tema di danno dovuto ai parenti della vittima, non è necessaria la prova specifica della sua sus- CODICE CIVILE sistenza, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione. La prova del danno morale è, infatti, correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla base dello stretto vincolo familiare, di eventuale coabitazione e, comunque, di frequentazione, che essi avevano avuto, quando ancora la vittima era in vita. La morte di un giovane figlio e fratello, provocato da colpa di terzi, condannati per il reato di omicidio colposo, costituisce indubbiamente grave sofferenza per genitori e fratelli, sui quali incide in modo consistente la perdita del congiunto. Anche per gli zii, pertanto, sia pure in misura minore, deve riconoscersi la sussistenza di dolore e sofferenza per la scomparsa di un nipote in giovane età, a loro legato da vincoli di affetto. La liquidazione del danno non patrimoniale - cosiddetto danno morale - non avendo la funzione di reintegrazione patrimoniale mediante la corresponsione di un equivalente pecuniario del bene perduto, non può essere effettuata che con valutazione equitativa, rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Essa però deve ispirarsi alla considerazione di tutte le concrete circostanze individuali, in modo da adeguare l’indennizzo al caso particolare e da renderlo il più possibile rispondente a criteri di equità e deve, comunque, rispettare l’esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell’indennizzo. L’intensità del vincolo familiare può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la ritenuta prova dell’esistenza del danno morale, in assenza di elementi contrari, e, inoltre, l’accertata mancanza di convivenza del soggetto danneggiato con il congiunto deceduto può rappresentare un idoneo elemento indiziario da cui desumere un più ridotto danno morale, con derivante influenza di tale circostanza esclusivamente sulla liquidazione dello stesso. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che non più di due anni prima le Sezioni Unite civili della Cassazione con sentenza 24 marzo 2006, n. 6572 avevano provveduto a sancire la sussistenza del danno esistenziale nel novero dei danni non patrimoniali tracciando le coordinate affinché il suo risarcimento potesse avere ingresso nel processo. Il danno esistenziale, in questo caso derivante da demansionamento, veniva definito come pregiudizio incidente «sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la 92 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 92 27-11-2014 11:04:30 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». Altrettanto precisa e consapevole era la distinzione tra danno esistenziale e danno morale: «Il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso». Per quel che concerne gli aspetti «gestionali» del danno esistenziale nel processo, i giudici di legittimità affermavano in quella sede che il danno esistenziale - o meglio i fatti in cui esso si compendia - va sempre e ineluttabilmente allegato dal danneggiato. Se manca l’allegazione, il giudice non potrà dunque ritenere verificati fatti tali da integrare danno esistenziale. Tra l’altro la mancanza di allegazione non potrà trovare supplenza nell’intervento del giudice neppure nel caso in cui l’illecito ovvero, come nel caso di demansionamento, l’inadempimento contrattuale determinino usualmente pregiudizi esistenziali. In pratica il danno esistenziale «necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita». Il danno esistenziale - del quale, nella sentenza delle Sezioni Unite, emergeva evidente la natura «consequenziale» - doveva essere poi oggetto di prova: essa doveva essere fornita mediante testimonianza ovvero con altri mezzi istruttori con cui dimostrare nel processo il concreto cambiamento che l’illecito aveva portato in senso peggiorativo nella qualità di vita del danneggiante. Ed infatti, aggiungeva la pronuncia, «se è vero che la stessa categoria del danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale... all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro». Ben possibile, inoltre, il ricorso le presunzioni: «Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui giudice può far ricorso anche in via esclusiva... per la formazione del suo convincimento». Ancora oggi la giurisprudenza pare volersi riagganciare ai principi emersi dalla 2059 sentenza del 2006 e lo fa, ad esempio, con Cass., sez. lav., n. 17084 del 2011, laddove ribadisce che “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”. Invero, a voler tracciare una linea di confine tra i pronunciamenti del 2006 e quelli successivi alle sezioni unite del novembre 2008 sul medesimo tema del demansionamento e della dequalificazione, la Cassazione, con sent. n. 29832 del 2009 sostiene che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio 93 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 93 27-11-2014 11:04:31 2059 medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (che, a seguito di Cass. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua “serietà”, nel danno non patrimoniale, da intendere come ogni pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Direttamente collegata alla problematica del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale è la questione del danno provocato dal fumo di sigaretta. La Cassazione - inaugurando un nuovo orientamento giurisprudenziale che apre una breccia per la risarcibilità del danno da fumo - sostiene, infatti che, in tema di danni da fumo è risarcibile il danno “iure proprio” subito dai prossimi congiunti per la definitiva perdita del rapporto parentale. In particolare, l’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, per la definitiva perdita del rapporto parentale si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, CODICE CIVILE 29 e 30 Cost., esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’articolo in commento, in raccordo con le suindicate norme della costituzione e si distingue sia dall’interesse al “bene salute” (protetto dall’art. 32 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse, all’integrità morale (protetto dall’art. 2 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo). Nella situazione della perdita del rapporto parentale, normalmente vi è la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale, la cui prova può essere anche fondata su presunzioni, che non siano adeguatamente contrastate da altre prove contrarie (così Cassazione n. 22884 del 2007). La stessa corte ha poi sottolineato che, in materia di responsabilità civile, il consumatore che, lamentando di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole (nella specie, relativa ad una marca di sigarette con la dicitura Light ed Extra Light), agisca per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., non assolve in modo adeguato all’onere della prova esistente a suo carico limitandosi a dimostrare il solo carattere ingannevole della pubblicità, ma è tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, la quale si concreta nella prevedibilità che dalla diffusione di quel messaggio sarebbero derivate le lamentate conseguenze dannose (così Cassazione n. 26516 del 2009). Questione sempre più stringente è poi quella dell’insolita fattispecie di immissione intollerabile che va sotto il nome di “fumo passivo”. È noto che le Sezioni Unite con sent. 26972 del 2008 hanno riesaminato approfonditamente i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all’articolo in commento e, con particolare riferimento al profilo che qui interessa, hanno chiarito che esso si atteggia come un danno- conseguenza, per il quale è richiesto che il danneggiato fornisca prova dell’esistenza della lesione subita, non già come una tipologia di danno- evento, risarcibile in re ipsa, cioè a prescindere da prove sull’effettiva sofferenza patita. La terza sezione della Cassazione, con sentenza n. 7875 del 2009, ribadendo implicitamente detto principio, ha ritenuto assolto - ai fini del riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno non patrimoniale a chi lamenti l’immissione di fumo passivo nella propria abitazione deducendo, quale conseguenza della lamentata propagazione, di aver dovuto modificare le proprie abitudini domestiche - l’onere probatorio richiesto dalla nor- 94 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 94 27-11-2014 11:04:31 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 ma, laddove ha affermato che “la sentenza impugnata ha descritto le conseguenze delle lamentate immissioni sul modo di vivere la casa dei danneggiati e questo individua ciò che può essere liquidato come danno non patrimoniale”. Con tale pronuncia sono state, altresì, confermate le deduzioni logico- giuridiche effettuate dai giudici di merito con riguardo alla risarcibilità del danno non patrimoniale in conseguenza di immissioni da fumo passivo di sigarette, che abbiano compromesso il diritto al normale svolgimento della vita familiare dei danneggiati, annoverando tale diritto fra quelli costituzionalmente tutelati e suscettibili della protezione garantita dall’articolo in oggetto (la questione riguardava una famiglia che si era rivolta al giudice lamentando la presenza di immissioni di fumo da sigarette nel proprio appartamento provenienti dal bar sottostante). Ne discende, pertanto, che i giudici di legittimità, seppur toccando incidentalmente l’argomento, abbiano inteso ribadire l’orientamento giurisprudenziale introdotto dalle Sezioni Unite in tema di danno non patrimoniale, dando l’abbrivio ad una nuova campagna anti-tabacco tesa a dar maggior risalto ad un problema molto discusso ma raramente affrontato in campo giuridico, la cui portata lesiva sembrerebbe rivelarsi ben più ampia che in passato. La Cassazione ha avuto occasione di soffermarsi sul danno derivante da lesione all’integrità della sfera sessuale della persona e lo ha fatto con sent. n. 19092 del 2009, ritenendo risarcibile il pregiudizio derivante dalla impossibilità e/o seria difficoltà di praticare rapporti sessuali a seguito di un errato intervento chirurgico. In tal senso, ai fini della prova della sussistenza del nesso causale tra condotta negligente ed imperita ed evento dannoso, si deve escludere che la situazione clinica del paziente all’atto dell’intervento possa costituire una concausa in relazione ai danni subiti dal soggetto leso e ciò anche in considerazione della circostanza che deve attendibilmente ritenersi che il campo operatorio al momento dell’intervento chirurgico sia privo di complicazioni locali (nella specie, accertata la sussistenza di un nesso causale tra l’intervento chirurgico di isterectomia eseguito su una donna e la successiva insorgenza di una fistola vescicovaginale con conseguente compromissione della integrità psico-fisica della stessa, la Corte di legittimità ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno sia in favore della danneggiata sia in favore del coniuge in ragione del pregiudizio su- 2059 bito dalla coppia a causa della sopravvenuta impossibilità di praticare rapporti sessuali a seguito dell’errato intervento chirurgico). Anche la preoccupazione per il proprio stato di salute può essere risarcita. Lo afferma la Cassazione con sentenza n. 11059 del 2009, confermando la condanna dell’ICMESA s.p.a. di Seveso al risarcimento del danno patito dalle persone residenti in prossimità dell’impianto produttivo della predetta società dal quale, in data 10 luglio 1976, era fuoriuscita una nube tossica composta da diossina. Nel caso di specie, era stato dimostrato dagli attori, sia per fatto notorio che documentalmente, il danno non patrimoniale, ravvisato dai giudici nel patema d’animo indotto in ognuno dalla preoccupazione per il proprio stato di salute. Gli attori, infatti, in quanto soggetti a rischio, erano stati sottoposti a ripetuti controlli sanitari, sia nell’immediatezza dell’evento sia successivamente, per parecchi anni, almeno fino al 1984. Considerato che il reato di disastro ambientale ha carattere plurioffensivo, in quanto incidente sia sul bene pubblico immateriale ed unitario dell’ambiente che sulla sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso in ragione della loro residenza o frequentazione abituale, è risarcibile il danno derivato ai soggetti che si siano trovati in particolare relazione con l’ambiente inquinato da sostanze altamente tossiche. La giurisprudenza amministrativa ci ricorda che l’articolo in commento - anche nell’ambito dei rapporti di lavoro - consente la risarcibilità dei pregiudizi di tipo esistenziale non solo quando l’illecito costituisca reato o comporti la violazione di un diritto inviolabile della persona, ma in ogni caso in cui sia ravvisabile la lesione di un bene costituzionalmente protetto (come accade nel caso del diritto del magistrato all’esercizio delle sue funzioni). Di tali pregiudizi conosce il giudice amministrativo, nelle materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva. Anche con riferimento ai rapporti di pubblico impiego, il danno non patrimoniale è risarcibile quando l’illecito e la lesione riguardino beni costituzionalmente protetti, tra cui rientrano le prerogative dei magistrati e del loro status nell’esercizio delle loro funzioni; per la liquidazione del danno si può tenere conto della incidenza dell’illecito sul sereno svolgimento delle funzioni da parte del magistrato e delle conseguenze di tipo esistenziale derivanti dal mancato conferimento di un incarico previsto dalla legge. Va accolta, pertanto, la 95 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 95 27-11-2014 11:04:31 2059 domanda di risarcimento del danno non patrimoniale subito da un magistrato per l’attribuzione dell’incarico al quale aveva diritto ad altro soggetto, ove si possano ragionevolmente ritenere effettivamente verificati e provati gli stress e i patemi d’animo conseguenti allo scavalcamento (nella specie disposto con un atto discostatosi dal giudicato), e allo svolgimento dell’incarico da parte del collega all’interno del medesimo ufficio (così Consiglio di Stato n. 1899 del 2009). Il Tribunale di Torino (sent. 17 marzo 2009), nel procedere alla valutazione del danno non patrimoniale patito da una persona rimasta ferita in seguito ad un sinistro stradale, si è posto il problema della liquidazione del danno morale. Il giudice ha richiamato la pronuncia delle Sezioni Unite n. 26972/2008 con la quale è stata fornita un’ampia definizione del danno biologico, comprensivo della sofferenza interiore. Il Tribunale, tuttavia, ha osservato che il legislatore (con il Codice delle Assicurazioni) ha indicato una diversa definizione del danno biologico (ai sensi dell’art. 138, infatti, il danno biologico è la “lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”). Per tale ragione il danno morale (provato in via presuntiva) è stato liquidato con un’ulteriore somma rispetto a quella risultante dalle tabelle di legge (nella specie con il 25% di quanto riconosciuto a titolo di danno biologico). In altri termini la definizione che del danno biologico danno gli art. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni (“lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale ...”) è evidentemente più ristretta rispetto al danno non patrimoniale cui fanno riferimento le Sezioni Unite. Infatti, nell’ambito di quest’ultima nozione di danno rientra la sofferenza fisica e morale; mentre è innegabile che l’accertamento medico legale dell’entità della lesione psico-fisica (cioè del danno biologico tradizionalmente inteso) viene effettuato con considerazione solo marginale della sofferenza fisica e del tutto prescindendo dalla sofferenza psichica. In altri termini: non pare che in ogni caso in cui esista una lesione fisica o psichica in essa sia compresa (quale “parte” di un “insieme” più grande) la sofferenza insita in tale lesione. O, quantomeno, gli attuali crite- CODICE CIVILE ri medico-legali per la valutazione della lesione non sono adeguati a tener conto di tale sofferenza. Costituisce dato di comune esperienza il fatto che alcune lesioni, che comportano esiti permanenti di entità minima, si accompagnino a sofferenze fisiche - senza valutare quelle psicologiche - molto intense; e che non vi sia quindi necessaria correlazione fra entità della menomazione psico-fisica (percentualmente indicata) ed entità della sofferenza. La valutazione della sofferenza deve allora essere adeguatamente “recuperata” dal giudice, in fase di liquidazione del danno, attraverso diversi sistemi: ad esempio aumentando il valore del punto-base; o attraverso un aumento percentuale dell’importo liquidato a titolo di danno biologico (operazioni che, in pratica, realizzano il medesimo risultato); ma anche, ove necessario, ristorando la sofferenza mediante valutazione equitativa del tutto svincolata dall’entità monetaria riconosciuta a titolo di danno biologico. Tutto ciò a condizione che tali valutazioni siano supportate da adeguata istruttoria e motivazione in punto di esistenza ed entità del pregiudizio che si va a liquidare. Non pare infatti che il significato ultimo delle indicazioni contenute nella più volta citata sentenza delle Sezioni Unite vada colto nel divieto di “liquidazione in percentuale” (del “morale” rispetto al “biologico”), quanto nel divieto di liquidazioni automatiche e immotivate. Ciò posto, va osservato che qualora la lesione biologica (intesa in senso tradizionale) non superi il limite del 9%, la valutazione e liquidazione del danno da sofferenza mediante un aumento del valore punto non è praticabile, poiché tale valore è fissato dalla legge. E non è evidentemente sostenibile che i valori siano stati fissati dal legislatore già tenendo conto della sofferenza; poiché il consolidato orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità (all’epoca di emanazione dell’art. 139 codice delle assicurazioni, e del suo “antecedente” normativo, cioè della L. 57/2001) era nel senso che la sofferenza dovesse essere ristorata “a parte” attraverso il riconoscimento del danno morale. Ogni diversa interpretazione presterebbe il fianco a censure di illegittimità costituzionale, in quanto precluderebbe, nei casi rientranti nella previsione dell’art. 139 del Codice assicurazioni, l’integrale ristoro del danno alla persona. D’altra parte non è plausibile, a fronte di definizioni normative del danno biologico identiche (tali sono quelle dell’art. 138 comma 2 e dell’art. 139 comma 2 Codice assicurazioni), che si ritenga escluso da tale nozione il danno da 96 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 96 27-11-2014 11:04:31 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 sofferenza per le lesioni macropermanenti (liquidandolo mediante uno dei sistemi sopra indicati) e lo si ritenga invece incluso per le micropermanenti. Né la più volte citata sentenza delle Sezioni Unite definisce il danno non patrimoniale in modo diverso a seconda dell’entità della lesione; al contrario, lo definisce in termini unitari e comprensivi, sempre, del danno da sofferenza fisica e psichica (la cui entità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento). Alla luce di tali considerazioni si ritiene che, anche nel caso di lesioni micropermanenti, possa (non già debba) esistere un pregiudizio “da sofferenza”, non incluso nella liquidazione effettuata mediante i criteri dettati dall’art. 139 Codice assicurazioni. Tale pregiudizio consiste nel patimento interiore (temporaneo o no) causato dall’illecito: sia per il turbamento e per i disagi che esso ha in concreto comportato, sia per le privazioni cui ha costretto la vittima. E la sua dimostrazione potrà essere data mediante prova documentale, testimoniale o presuntiva, assumendo proprio quest’ultima particolare rilievo, e potendo anzi costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice (chiaramente in questo senso il par. 4.10 della citata sentenza delle Sezioni Unite del 2008). Con riferimento al caso di specie il Tribunale di Torino sostiene che è possibile ritenere provato un danno “da sofferenza” consistente per un verso nei patimenti che normalmente si accompagnano a una lesione dell’integrità fisica di entità medio- bassa, ma con lunga durata (9 mesi) della malattia temporanea e necessità di deambulare con tutori. Va poi considerato il disagio derivante dal non poter attendere per lungo tempo alla propria attività lavorativa; il dispiacere nel veder “sfumare” l’occasione di costituire una società edile con altri soggetti; la sofferenza e il senso di inadeguatezza dovuti al fatto che la propria famiglia, durante il periodo di malattia, dovette essere mantenuta dalla madre dell’attore. Tali sofferenze sono strettamente legate alla lesione fisica (pur essendo del tutto al di fuori di essa e non riducibili a mere proiezioni o riflessi del danno biologico); appare pertanto congruo un criterio di liquidazione - necessariamente equitativa - rapportata al pregiudizio biologico subito dall’attore. Di portata analoga risulta la posizione della Corte di legittimità che, con sentenza n. 16448 del 2009, ha affermato che il danno morale può essere liquidato in misura pari ad una frazione di quanto riconosciuto a titolo di danno biologico. 2059 Il risultato così raggiunto, tuttavia, deve essere “personalizzato” tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno. La Corte ha altresì precisato che nel compiere la sopra descritta operazione non può giungersi a liquidazioni “puramente simboliche o irrisorie”. Nella specie il danno morale era stato liquidato con una somma pari al 50% di quanto risarcito a titolo di danno biologico da invalidità permanente. L’unica possibile forma di liquidazione - per ogni danno che sia privo, come quello biologico e quello morale, delle caratteristiche della patrimonialità - è quella equitativa. Infatti, una precisa quantificazione pecuniaria è possibile in quanto esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare, fermo restando il dovere del giudice di dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e del percorso logico che lo ha condotto a quel determinato risultato. In particolare la liquidazione del danno biologico può essere effettuata dal giudice, con ricorso al metodo equitativo, anche attraverso l’applicazione di criteri predeterminati e standardizzati, e può essere legittimamente effettuata dal giudice sulla base delle stesse “tabelle” utilizzate per la liquidazione del danno biologico, portando, in questo caso, alla quantificazione del danno morale in misura pari ad una frazione di quanto dovuto dal danneggiante a titolo di danno biologico, purché il risultato, in tal modo raggiunto, venga poi “personalizzato”, tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, con la conseguenza che non può giungersi a liquidazioni puramente simboliche o irrisorie (v. Cassazione n. 11039 del 2006 e n. 18178 del 2007). Vi è danno biologico, in ambito lavoristico, quando la lesione della integrità psico-fisica sia “suscettibile di valutazione medico legale” (art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000). Il giudice non può pertanto, nel quantificare il pregiudizio subito dal lavoratore per lavoro straordinario usurante, limitarsi al criterio dell’equità, individuando una somma in modo apodittico, ma deve giungere alla determinazione mediante una valutazione medico legale. Tale valutazione può anche essere effettuata dal giudice stesso a condizione che si basi comunque su un fondamento medico legale (così Cassazione n. 5437 del 2011). La Suprema Corte ci ricorda inoltre che nella nozione di danno biologico - che è danno alla salu- 97 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 97 27-11-2014 11:04:31 2059 te, valore della persona umana inviolabile a norma dell’art. 32 Cost., tutelato ai sensi dell’articolo in commento - rientrano tutte le ipotesi di danno “non reddituale”, compresi i danni alla vita di relazione e i danni da riduzione della capacità lavorativa generica. Sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le cui diverse sottocategorie hanno una funzione solo descrittiva, al giudice di merito è tuttavia consentito risarcire conseguenze pregiudizievoli molto diverse, laddove l’invalidità temporanea venga liquidata come danno biologico alla vita di relazione anche nel suo aspetto ludico considerata l’età del bambino, e l’invalidità permanente come danno biologico nel suo aspetto di limitazione di vita socio-lavorativa futura (così Cassazione n. 9708 del 2012). a) L’abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, il quale danno può essere di natura patrimoniale, allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati dall’illecito. Ai prossimi congiunti della vittima di un reato spetta “iure proprio” il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto di cui all’articolo 1223 c.c. né quello di cui all’articolo 185 c.p., in quanto anche tale danno trova causa diretta ed immediata nel fatto illecito. L’attribuzione della legittimazione “iure proprio” si fonda anche e soprattutto sul riconoscimento dei “diritti della famiglia” previsto dall’articolo 29 Cost., il quale riconoscimento deve essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo anche a gratificazioni e reciproci diritti (così Cassazione n. 38952 del 2007). b) Quali tipi di danni possono essere risarciti al turista che non abbia potuto godere appieno del viaggio organizzato a causa dell’inadempimento o inesatto inadempimento delle prestazioni derivanti dal contratto turistico? A chi può rivolgersi il turista danneggiato per il ristoro dei danni patiti? La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24044 del 2009, chiarisce i quesiti su espo- CODICE CIVILE sti, ripercorrendo fedelmente il dato normativo rilevante a riguardo e riallacciandosi all’orientamento della giurisprudenza prevalente. Ebbene, osserva la Corte, il soggetto tenuto a risarcire a danni allo “sfortunato” turista è l’organizzatore del viaggio, anche qualora il danno sia stato materialmente cagionato da prestatori di servizi turistici presenti nel luogo di vacanza, in ossequio a quanto stabilito Direttiva CEE 90/314, regolarmente recepita nel nostro paese, in ultimo trasfusa nel D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo). Occorre in ogni caso verificare che i prestatori del servizio turistico abbiano agito come rappresentanti del tour operator, ciò è sufficiente per far scattare la responsabilità di quest’ultimo il quale potrà poi agire in rivalsa nei loro confronti. I giudici di legittimità non esitano ad affermare che il fenomeno rappresentativo nella fattispecie può essere ricostruito anche facendo ricorso al principio generale dell’apparentia iuris, ossia dell’affidamento incolpevole. La Corte, poi, chiarisce che dall’inadempimento dell’organizzatore può derivare sia un danno patrimoniale che non patrimoniale. In realtà, il c.d. danno da vacanza rovinata è un tipo di danno non patrimoniale e si sostanzia in un pregiudizio consistente nel disagio e nell’afflizione subita dal turista, per non avere potuto godere appieno della vacanza come occasione di svago e riposo, distinguendosi in tal guisa dal danno morale soggettivo, ossia dalla sofferenza transitoria, dal turbamento transeunte seguita alla commissione di un fatto illecito. Non ha rilievo, sostiene la Corte, che il danno non patrimoniale sia dipeso da un inadempimento contrattuale. Ed infatti, come la Corte ha avuto modo di chiarire a sezioni unite (cfr. Cassazione S.U. n. 26972 del 2008), l’articolo in commento, riletto alla luce dei principi costituzionali, consente il risarcimento dei danni non patrimoniali anche nel caso di responsabilità contrattuale. In altri termini, la lesione di un diritto inviolabile della persona, costituzionalmente rilevante, determina l’obbligo di risarcire l’eventuale danno non patrimoniale arrecato, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. c) Durante una partita di pallacanestro, un giovane cestista, nel tentativo di recuperare la palla, non riusciva a frenare la propria corsa ed andava ad urtare contro una porta a vetri posta in prossimità del campo da gioco. Il Tribunale di Milano, con sent. 30 gennaio 2009, accertata la responsabilità dei convenuti, li ha condannati al risarcimento del danno patrimoniale e non pa- 98 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 98 27-11-2014 11:04:32 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 trimoniale subito dal ragazzo. Il giudice, quindi, dopo aver liquidato il danno alla salute, ha preso in considerazione il danno non patrimoniale “diverso dal biologico” consistente nella particolare sofferenza cagionata al giovane atleta da un evento che, “all’improvviso e forzatamente”, lo allontanava per mesi dalla normale pratica agonistica e dagli studi intrapresi, caricandolo di ansie e comprensibili patemi. Tale danno è comprensivo non solo della sofferenza transeunte (ovvero del danno morale) ma anche “di ogni altro pregiudizio connesso alla forzosa compressione che l´infortunio ha cagionato allo sviluppo del suo impegno nell’attività sportiva praticata” (ovvero, rileviamo, un danno di tipo esistenziale). Sotto il profilo del danno non patrimoniale, diverso dal biologico, va tenuto conto della particolare sofferenza cagionata al giovane atleta da un evento tanto serio e cruento, che all´improvviso e forzatamente lo allontanava per mesi dalla normale pratica agonistica e dagli studi intrapresi, caricandolo di ansie e comprensibili patemi. Si stima equo liquidare per tale voce di danno non patrimoniale, comprensivo della sofferenza transeunte e di ogni altro pregiudizio connesso alla forzosa compressione che l´infortunio ha cagionato allo sviluppo del suo impegno nell’attività sportiva praticata, la somma di complessivi euro 6.000 al valore attuale. d) Un uomo acquista un immobile e versa l’intera somma pattuita. I venditori, tuttavia, non rispettano le clausole contrattuali e rendono disponibile l’appartamento solo tre mesi dopo la data prevista per la consegna. Il Tribunale accerta l’inadempimento contrattuale dei venditori e li condanna al risarcimento del danno derivante dal mancato utilizzo dell’immobile quantificato in via equitativa in euro 2.100 nonché al pagamento delle spese condominiali sostenute dall’acquirente in tale lasso di tempo. Il giudice accoglie, altresì, la domanda volta al risarcimento del danno esistenziale patito dall’acquirente il quale non ha potuto godere dell’appartamento per ben tre mesi. Nel caso di specie è stato violato il diritto dell’attore a vivere con la compagna (la quale era incinta) nella casa appena acquistata ove auspicava di veder nascere e crescere la figlia. Il danno esistenziale così accertato è stato liquidato, in via equitativa, con la somma di euro 3.000 (così Trib. Roma 30 luglio 2009). e) È risarcibile non solo il danno morale, ma anche il danno esistenziale patito dalla parte offesa (così Cassazione penale n. 36276 del 2010). 2059 u La valutazione del danno morale sfugge, in virtù del suo contenuto etico, ad una precisa quantificazione ed è, pertanto, di natura essenzialmente equitativa; tuttavia, il giudice di merito, al cui prudente criterio essa è rimessa, deve rispettare l’esigenza di una razionale correlazione tra l’entità oggettiva del danno (specie se reiterato nel tempo) e l’equivalente pecuniario, in modo che questo, tenuto conto del potere di acquisto della moneta, mantenga la sua connessione con l’entità e la natura del danno da risarcire, così che non rappresenti un mero simulacro o una parvenza di risarcimento. Ne consegue che è censurabile l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito ogni volta che la liquidazione del danno morale appaia manifestamente simbolica o per nulla correlata con le premesse di fatto in ordine alla natura ed all’entità del danno dallo stesso giudice accertate (4671/1996, rv 497714). u Il danno morale non è risarcibile quando la responsabilità dell’autore dell’illecito sia stata affermata non in seguito ad un accertamento concreto, ma in base ad una presunzione legale di responsabilità (9598/1998, rv 519161). u Il danno patrimoniale, che per il combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 185 c.p., è risarcibile nel caso in cui derivi da un fatto illecito costituente reato e consistente in un turbamento ingiusto dello stato d’animo o in uno squilibrio o riduzione delle capacità intellettive della vittima, comprende anche le sofferenze fisiche e morali da questa sopportate in stato di incoscienza (7075/2001, rv 546937). u Ai fini del risarcimento del danno da fatto illecito, il danno non patrimoniale, quale sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso, deve considerarsi verificato nel momento stesso in cui l’evento dannoso si realizza (o, nel caso di diffamazione, nel momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza), pur dovendosi tener conto della natura istantanea o permanente dell’illecito, o della sua reiterazione. Ne consegue che la liquidazione del danno deve effettuarsi con riferimento al momento dell’evento dannoso ed alle caratteristiche indicate, mentre non incidono su di essa fatti ed avvenimenti successivi, quale la morte del soggetto leso (10980/2001, rv 548928). u In tema di risarcimento del danno ogniqualvolta si verifichi la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. 99 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 99 27-11-2014 11:04:32 2059 Nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tener conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona (8827/2003). u Il riconoscimento dei diritti della famiglia, di cui all’articolo 29 Cost., va inteso non già come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto parentale ispira, generando bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Allorché un fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri e una determinante riduzione, se non un annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita in relazione all’esigenza di provvedere perennemente ai bisogni del familiare deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela ulteriore apprestata dall’articolo 2059 c.c. in caso di lesione di un interesse costituzionalmente protetto (8827/2003). u Il danno derivante da morte di un congiunto, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell’atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi, che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice (15019/2005). u Il riconoscimento dei diritti della famiglia va inteso non, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri e un determinante riduzione, se non annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita del coniuge in relazione all’esigenza di provvedere agli straordinari bi- CODICE CIVILE sogni dell’altro coniuge, sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti, deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela apprestata dall’articolo 2059 c.c. in caso di lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto (20324/2005). u Il danno non patrimoniale è, diversamente dal danno patrimoniale ex articolo 2043 c.c., danno scaturente dall’evento dannoso di carattere tipico, che si compendia nella triplice accezione del danno morale soggettivo, quale mero dolore o patema d’animo interiore; del danno biologico, consistente nella lesione all’integrità psicofisica accertabile in sede medico-legale; del cosiddetto danno esistenziale, quale pregiudizio che determina una modifica peggiorativa della personalità da cui consegue uno sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare, conseguente all’ingiusta violazione di valori essenziali costituzionalmente tutelati della persona (9861/2007). u In tema di responsabilità aquiliana, il danno non patrimoniale deve essere risarcito non solo nei casi di lesione di situazioni soggettive costituzionalmente protette, ma anche nei casi di situazioni legislativamente protette come figure tipiche di danno non patrimoniale, rientranti nell’ambito di una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del codice civile. Non appare riconducibile tuttavia né all’una né all’altra categoria di danni non patrimoniali risarcibili la perdita, a seguito di un fatto illecito (incidente stradale), di un cavallo indicato dalla parte come animale di affezione, in quanto essa non è qualificabile come fattispecie di danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata, né tanto meno può essere sufficiente a tal fine la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita della qualità della vita (14846/2007). u Ineriscono alla sfera della famiglia, costituzionalmente protetta, i pregiudizi alla realizzazione personale derivanti dalla perdita del prossimo congiunto, in conseguenza di un fatto illecito altrui. La distruzione del nucleo familiare, la impossibilità dei superstiti di esplicare la propria personalità nei rapporti con il congiunto, la perdita delle attività sociali e culturali costituiscono delle privazioni e modifiche delle abitudini della vita, in senso negativo che rientrano nelle dimensioni costitutive del danno da perdita parentale. Il parente che intende indica- 100 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 100 27-11-2014 11:04:32 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 re la dimensione esistenziale e non patrimoniale di tale danno, unitamente alle perdite di ordine morale soggettivo, ed alle perdite psicofisiche della propria salute, deve allegare e provare le diverse situazioni di danno, in modo da evitare qualsiasi possibile duplicazione (20987/2007). u La prova, anche del danno parentale-esistenziale, è a carico di chi ne chiede il risarcimento, e il giudice deve decidere iuxta allegata et provata, secondo le prove, anche in via presuntiva, dedotte dalla parte. La esistenza del danno parentale, qualunque sia il profilo dedotto (come danno diretto di ordine psichico, o come patema d’animo proprio del danno morale, o come autonomo danno esistenziale, ma ancorato a posizioni soggettive costituzionalmente protette) deve essere provato come danno conseguenza (nella specie di un illecito sanitario da cui è derivata la morte di una giovanissima paziente ricoverata e non debitamente curata) (20987/2007). u Una lettura costituzionalmente orientata delle norme processuali in materia di intervento adesivo autonomo, deve consentire la legittimazione a partecipare al processo già pendente tra altri soggetti, acquisendo, per effetto del processo stesso, la qualità di parte. I soggetti che intervengono debbono peraltro accettare il processo nello stato in cui si trova, operando nei loro confronti le preclusioni connesse funzionalmente alle fasi di sviluppo del procedimento. La preclusione non opera in relazione all’attività assertiva del volontario interveniente nei cui confronti non è operante il divieto di produrre domande nuove, divieto che vincola le parti originarie (20987/2007). u Nel bipolarismo risarcitorio (danni patrimoniali e danni non patrimoniali) previsto dalla legge, al di là della questione puramente nominalistica, non è possibile creare nuove categorie di danni, ma solo adottare per chiarezza del percorso liquidatorio, voci o profili di danno, con contenuto descrittivo (ed in questo senso ed a questo fine può essere utilizzata anche la locuzione danno esistenziale, accanto a quella di danno morale e danno biologico), tenendo conto che da una parte deve essere liquidato tutto il danno, non lasciando privi di risarcimento profili di detto danno, ma che dall’altra deve essere evitata la duplicazione dello stesso, che urta contro la natura e funzione puramente risarcitoria della responsabilità aquiliana (22884/2007). u Allorché si chieda, in sede di responsabilità aquiliana, il risarcimento di “tutti i danni”, la domanda investe sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale. In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di 2059 risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, con la conseguenza che solo nel caso in cui nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, l’eventuale domanda proposta in appello per una voce non già indicata in primo grado, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile (22884/2007). u Il danno morale subiettivo, sofferto per un danno alla persona, rientra a pieno titolo nella lettura costituzionalmente orientata del danno non patrimoniale e dell’articolo 2059 c.c. La responsabilità per danno non patrimoniale può essere imputata, così come avviene in caso di danno patrimoniale, a titolo di responsabilità oggettiva. Alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex articolo 2059 c.c. non ostano né la mancanza di un accertamento in concreto della colpa dell’autore del danno, tutte le volte in cui essa venga ritenuta sussistente in base ad una presunzione di legge, quale quella di cui all’articolo 2050 c.c., né l’impossibilità di qualificare il fatto dannoso in termini di reato (25187/2007). u Ai fini della risarcibilità del danno morale, alla stregua del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno, se essa, come nel caso di cui all’art. 2054 c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e, se ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato. Pertanto, l’orientamento che ammette la risarcibilità del danno morale pure nel caso in cui la responsabilità sia ritenuta su basi presuntive si può ora considerare diritto vivente (3532/2008). u L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga l’autore al risarcimento dei danni non patrimoniali sia ai sensi dell’art. 10 c.c., sia ai sensi dell’art. 29 legge n. 675 n. 1996, ove la fattispecie configuri anche violazione del diritto alla riservatezza, sia in virtù della protezione costituzionale dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost.: protezione costituzionale che di per sé integra fattispecie prevista dalla legge (al suo massimo livello di espressione) di risarcibilità dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c. L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico che la vittima abbia risentito dalla pubblicazione e di cui abbia fornito la prova (12433/2008). u Qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte 101 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 101 27-11-2014 11:04:32 2059 lesa può far valere il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per dare il suo consenso alla pubblicazione: somma da determinarsi in via equitativa, con riferimento al vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione, tenendo conto, in particolare, dei criteri enunciati dall’art. 128, 2º comma, della legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto di autore (12433/2008). u In tema di risarcimento del danno dovuto all’interruzione della fornitura di energia elettrica, non è ipotizzabile un danno alle relazioni sociali quale conseguenza della revoca degli inviti per una festa che prevedeva oltre cento ospiti; il disagio e il dispiacere per la mancata serata in compagnia non costituiscono danno non patrimoniale o esistenziale giuridicamente rilevante, ma attengono alla sfera pregiuridica dei rapporti di rilievo meramente sociale (29211/2008). u Il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. A tal scopo non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati a fine di formazione di un atto di notorietà né le indicazioni fornite dalla coppia alla pubblica amministrazione per fini anagrafici (23725/2008). u In relazione al ritardo nell’erogazione dell’indennizzo a favore di soggetti danneggiati da trasfusioni o vaccinazioni obbligatorie (art. 1 della legge n. 210 del 1992) non è configurabile il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., posto che quest’ultimo riguarda le ipotesi in cui sia leso un valore inerente la persona, il quale, nella specie, risulta già tutelato mediante l’erogazione dell’indennizzo stesso (26883/2008). u L’ingiusta prospettazione di una bocciatura rappresenta una delle peggiori evenienze per uno studente. Pertanto la minaccia di una bocciatura da parte di un insegnante può ingenerare forti timori, incidendo sulla libertà morale dei ragazzi (36700/2008). u Il contratto avente ad oggetto utenze telefoniche deve essere inquadrato nello schema giuridico del contratto di somministrazione, rientrante nella categoria dei cosiddetti “contratti per adesione”, nei quali il creditore che agisca per il pagamento o il risarcimento dei danni ha esclusivamente l’onere di allegazione CODICE CIVILE dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento e di provare il pregiudizio subito, mentre è la parte inadempiente a dover provare l’insussistenza dell’inadempimento mediante la prova positiva dell’assolvimento degli obblighi su di lui gravanti (Trib. Montepulciano 20 febbraio 2009). u Per l’accertamento dell’effettiva perdita della capacità lavorativa per le lesioni subite a seguito di incidente stradale, occorre una valutazione complessiva da parte del giudice, il quale non può ridurre la percentuale d’invalidità sul rilievo che l’infortunato ha un titolo di studio che consente lo svolgimento di un impiego sedentario, ma deve apprezzare in concreto l’attività lavorativa per verificare quanto la lesione incida sulle chances di mobilità lavorativa (1969/2009). u Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale conseguito alla morte del congiunto a seguito di commissione di un fatto astrattamente configurabile come reato - comprensivo di qualunque pregiudizio derivante dalla lesione di interessi inerenti la persona meritevoli di tutela in base all’ordinamento secondo quanto statuito dalle sezioni unite con sentenza n. 26972 del 2008 - non può non tenersi conto della presumibile durata nel tempo del pregiudizio provocato ai congiunti dalla perdita del rapporto parentale, benché non sia inibito al giudice di ritenere che tale pregiudizio sarebbe andato progressivamente scemando, fino anche ad annullarsi dopo un adeguato lasso di tempo, e di considerare dunque irrilevante che, al momento della morte, l’aspettativa di vita del defunto fosse inferiore, a causa delle infermità dalle quali egli era affetto, a quella media considerata dalle tabelle in uso presso i vari uffici giudiziari (3357/2009). u In tema di risarcimento danni per investimento sulle strisce pedonali, il concorso colposo può essere ravvisato solo ove il pedone abbia tenuto una condotta assolutamente imprevedibile e del tutto straordinaria, non ipotizzatale nel caso di semplice attraversamento “frettoloso ed a testa bassa” (20949/2009). u In tema di c.d. “danno da nascita indesiderata”, sussiste la responsabilità dell’Azienda sanitaria da cui dipende l’ospedale che ha effettuato gli esami strumentali a verificare il regolare evolversi di una gestazione, allorquando, a causa dell’intempestiva diagnosi di gravi malformazioni del feto, ai genitori sia stato negato il diritto di decidere per l’interruzione della gravidanza, attesa la sussistenza di un grave turbamento psichico degli stessi che si traduce in una malattia dell’anima (13/2010). 102 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 102 27-11-2014 11:04:32 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 u In tema di c.d. “danno da nascita indesiderata”, è da escludere la responsabilità professionale del medico che abbia prescritto tempestivamente gli esami da effettuare, ma le cui prescrizioni siano rimaste disattese da parte della struttura ospedaliera (13/2010). u La “nascita indesiderata” determina una radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, i quali si trovavano esposti a dover misurare (non i propri specifici “valori costituzionalmente protetti”, ma) la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta procreativa, allora finiscono per consistere proprio nei “rovesciamenti forzati dell’agenda” di cui parte della dottrina discorre nel prospettare la definizione del danno esistenziale (13/2010). u La fattispecie della “nascita indesiderata” sembra costituire un caso paradigmatico di lesione di un interesse che non determina un prevalente danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, ma impone al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore (quanto si voglia nobilitata dalla dedizione al congiunto svantaggiato, ma peggiore, tanto che nessuno si augurerebbe di avere un figlio senza gambe piuttosto che con) di quella che avrebbe altrimenti condotto (13/2010). u In tema di “danno da nascita indesiderata”, qualora l’imperizia del medico impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all’aborto, e ciò determini un danno alla salute della madre, è ipotizzatane che da tale danno derivi un danno alla salute anche del marito (13/2010). u Il danno esistenziale va risarcito a condizione che lo stesso venga debitamente provato. Per danno esistenziale deve intendersi ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno e lo stesso va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento (ivi compresa la prova per presunzioni) (Trib. Varese 12 aprile 2010). u Il danno morale è il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato. Deve essere convalidata la giurisprudenza antecedente alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 nella parte in cui si affermava che il danno biologico 2059 ed il danno morale hanno natura diversa e non si identificano in alcun modo in quanto il primo consiste nella lesione dell’integrità psicofisica mentre il secondo è costituito dalla lesione dell’integrità morale (Trib. Varese 12 aprile 2010). u È compito del giudice fornire una adeguata motivazione in merito alla prova della sofferenza soggettiva patita dal danneggiato ed in merito all’adeguamento dei valori al caso concreto (Trib. Varese 12 aprile 2010). u In caso di danni connessi alle prestazioni di medici operanti all’interno della struttura sanitaria, incombe sulla vittima che agisce in giudizio l’onere di provare la stipulazione del contratto e l’inadempimento del professionista, mentre incombe sulla struttura l’onere di provare che la prestazione sia stata eseguita in modo idoneo e che gli esiti letali siano dipesi da evento imprevisto ed imprevedibile (1524/2010). u Il diniego illegittimo rivolto all’assicurato - da parte della Cassa previdenziale di appartenenza, di ricongiunzione dei periodi assicurativi, costituisce una forma di ‘imperizia’, e quindi di colpa, che come tale genera profili di responsabilità non patrimoniale risarcibili in capo al professionista interessato (3023/2010). u Per effetto della lettura evolutiva dell’art. 2059 c.c. fornita dalla più recente giurisprudenza della Corte di Legittimità, il danno non patrimoniale deve ritenersi risarcibile non solo nei casi contemplati da apposita previsione di legge ma anche in caso di lesione dei valori fondamentali della persona tutelati dalle disposizioni immediatamente precettive della Carta Costituzionale. Si è in questo modo aderito ad un approccio ermeneutico che legge in senso elastico la tipicità del danno non patrimoniale risarcibile, consentendo il ristoro del danno in caso di lesione di valori costituzionali primari, oltretutto non confinabili ad un numerus clausus in quanto ricavabili, in forza della clausola aperta di cui all’art. 2 della Costituzione, in base ad un criterio dinamico che consente di apprezzare l’emersione, nella realtà sociale, di nuovi interessi aventi rango costituzionale in quanto attinenti a posizioni inviolabili della persona (3397/2010). u L’ampliamento della categoria del danno non patrimoniale, categoria unitaria non scindibile in sottocategorie strutturalmente autonome, è tuttavia compensata, dall’introduzione di un limite ontologico e di un onere probatorio. Quanto al primo, in quadro interpretativo attento al contemperamento tra i principi costituzionali di solidarietà e di tolleranza, il risarcimento del danno non patrimoniale costituzionalmente qualificato è stato ammesso nei soli 103 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 103 27-11-2014 11:04:32 2059 casi in cui la lesione del diritto costituzionale sia qualificata dalla serietà dell’offesa e dalla gravità delle conseguenze nella sfera personale. Quanto al secondo aspetto la Cassazione, superando la teoria del danno evento, esige che il danneggiato fornisca la prova, oltre dell’evento dato dalla sussistenza di una lesione del diritto costituzionalmente primario che superi la soglia della tollerabilità, anche della ricorrenza di significative ripercussioni pregiudizievoli sotto il profilo del danno conseguenza (3397/2010). u Anche a ritenere sussistente l’incisione dei valori di cui agli artt. 2, 4 e 41 Cost., il Collegio reputa che il semplice ritardo, che la condotta amministrativa ha cagionato, nell’inizio di un’attività economica (nella specie di rivendita di giornali) non evidenzi una lesione grave dei diritti primari della persona tale da ripercuotersi, oltre la soglia della tollerabilità, sulla qualità della vita e sulla sfera esistenziale (3397/2010). u Il semplice ritardo, nell’inizio di un’attività economica (nella specie di rivendita di giornali), cagionato dalla condotta amministrativa non costituisce un fatto idoneo in quanto tale, in assenza dell’introduzione di ulteriori sostegni probatori, a far presumere il fatto ignoto della sussistenza di danni non patrimoniali qualificati sotto il profilo delle ripercussioni gravi sulla sfera personale ed esistenziale (3397/2010). u La categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. ha natura onnicomprensiva; pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (es.: diritto alla salute), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante. Devono dirsi tendenzialmente escluse ipotesi in cui il ristoro del danno non patrimoniale (anche sotto la specie di danno biologico da usura psico-fisica) possa essere in concreto ristorato a prescindere dalla sua concreta allegazione e prova (4553/2010). u Nel caso in cui il lavoratore sia stato adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale (senza, peraltro, aver goduto di alcun riposo compensativo), laddove il medesimo lavoratore richieda, in relazione alle indicate modalità della prestazione, il risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica, ovvero per la lesione del diritto alla salute o del diritto alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, questi è tenuto, comunque, ad allegare e provare CODICE CIVILE in termini reali, sia nell’an che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi caratteri naturalistici nonché nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all’art. 36, Cost. (4553/2010). u Nel contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso”, sottoscritto dall’utente sulla base di una articolata proposta contrattuale, spesso basata su un depliant illustrativo, l’organizzatore o il venditore assumono specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo, riguardo a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera, livello dei servizi etc., che vanno “esattamente” adempiuti; pertanto ove la prestazione non sia esattamente realizzata, sulla base di un criterio medio di diligenza ex. art. 1176 1° comma c.c. (da valutarsi in sede di fase di merito), si configura responsabilità contrattuale, tranne nel caso in cui organizzatore o venditore non forniscano adeguata prova di un inadempimento ad essi non imputabile (5189/2010). u Nel contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso”, organizzatore e venditore devono provare: o il caso fortuito (o la forza maggiore), o l’esclusiva responsabilità del consumatore, oppure l’esclusiva responsabilità di soggetto-terzo, quali eventi successivi alla stipula del “pacchetto” (5189/2010). u Quando in seguito alla vaccinazione il figlio contrae la poliomielite, non solo il piccolo ha diritto al risarcimento del danno - biologico, morale e patrimoniale - ma anche i genitori (singolarmente) devono essere indennizzati in rapporto alla vita di relazione e al dovere di assistenza continua e solidale al minore per il resto della sua vita dolorosa (5190/2010). u In caso di immissioni acustiche valutate come obiettivamente intollerabili, sussiste il danno alla salute laddove l’attore dimostri un nesso tra i rumori ed i disturbi patiti, ma non si configura alcun danno morale. Il superamento della soglia delle immissioni acustiche, infatti, non costituisce di per sé reato, bensì illecito amministrativo. Né ai fini del riconoscimento di un tale danno può invocarsi l’art. 32 della Costituzione (5564/2010). u Il risarcimento del danno morale si può configurare in caso di violazione ingiusta di un valore inerente la persona e costituzionalmente garantito. Ma alcun risarcimento è ammissibile allorché l’attore non richieda, con la domanda introduttiva del giudizio, alcun tipo di risarcimento del danno non patrimoniale (5564/2010). u Il danno cosiddetto “tanatologico” o da morte avvenuta a breve distanza di tempo da lesioni personali, deve essere ricondotto nella 104 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 104 27-11-2014 11:04:33 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 dimensione dei danni morali e concorre alla liquidazione degli stessi da configurare in modo unitario ed onnicomprensivo, procedendosi alla personalizzazione della somma complessiva che tenga conto, perciò, anche della suddetta voce di danno, ove i danneggiati ne abbiano fatto specifica e motivata richiesta e sempre che le circostanze del caso concreto nel giustifichino la rilevanza (8360/2010). u Quando la lesione del diritto all’immagine è stata arrecata dalla pubblicazione di fotografie che non si dovevano pubblicare perché la persona fotografata non era d’accordo per la pubblicazione, il fatto che l’interesse della persona che è stato leso sia rappresentato proprio dal particolare aspetto del diritto all’immagine rappresentato dal tener riservata la rappresentazione fotografica e ad escluderne la fruibilità da parte di terzi, e, dunque, la conseguente certezza che la persona non avrebbe commercializzato la rappresentazione fotografica, non è di per sé ostativo a che quella persona possa allegare l’esistenza di un danno rappresentato dall’utilità che avrebbe potuto conseguire se chi ha utilizzato indebitamente le fotografie avesse dovuto pagare il suo consenso. Appartenendo la scelta della pubblicazione delle fotografie esclusivamente alla persona fotografata ed essendo scelta suscettibile di ripensamento nel tempo, se del caso anche in dipendenza delle vicende della professione od anche soltanto dell’evoluzione dei tempi, ad escludere che si configuri come danno conseguenza il non aver ottenuto l’utilità che sarebbe derivata dal prezzo del consenso non sarebbe potuta valere la scelta fatta al momento dell’utilizzazione di non volere la pubblicazione delle foto. Ritenere altrimenti, sarebbe contrario alla stessa logica di una situazione personalissima come quella del diritto all’immagine, che non si cristallizza nell’atteggiarsi della volontà del soggetto in un dato momento, ma, proprio per la sua natura, dev’essere a lui garantita anche nella possibilità ch’egli nel tempo possa mutare convincimento ed indirizzarsi altrimenti (10957/2010). u Inerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno evento, all’ambito dei fatti costitutivi della domanda di risarcimento danni, esso dev’essere allegato dal soggetto leso e non può certo essere individuato ed introdotto d’ufficio da parte del giudice e ciò nemmeno attraverso il potere di liquidazione equitativa del danno, di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere 2059 concerne la quantificazione del danno e non l’individuazione del danno (10957/2010). u Il potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa presuppone l’impossibilità o la rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare: l’onere della prova di siffatta difficoltà incombe comunque all’attore che, diversamente, dovrebbe dimostrare l’effettivo danno. Così nel caso del risarcimento del danno dovuto al mancato godimento del diritto di usufrutto di un terreno è corretto procedere ad una liquidazione equitativa tenuto conto della difficoltà di quantificare il danno sia per la limitata estensione del terreno sia per la variabilità della resa delle coltivazioni (12613/2010). u Il professionista sanitario ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo non generico, dal quale sia possibile desumere con certezza l’ottenimento in modo esaustivo da parte del paziente di dette informazioni (15698/2010). u In caso di incidente stradale il risarcimento che ne deriva è sì unico, ma deve essere onnicomprensivo di tutte le sofferenze morali patite dal soggetto leso onde evitare inutili duplicazioni delle varie poste di danno eventualmente derivate dall’incidente stesso (19816/2010). u La parte danneggiata da un comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato ha diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c., i quali debbono essere liquidati in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.) (19816/2010). u Va riconosciuto il danno biologico, subito dalle persone a seguito dei rumori emessi da un locale sottostante l’abitazione dei danneggiati, quale lesione dell’inviolabile diritto della persona alla salute. Tuttavia non rappresenta una situazione tale da richiedere la chiusura anticipata del locale essendo sufficiente limitare e ridurre i rumori e gli schiamazzi notturni (19851/2010). u Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno non patrimoniale, concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e di- 105 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 105 27-11-2014 11:04:33 2059 retta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile. La liquidazione di tale danno non può che avvenire in via equitativa, con una valutazione complessiva del danno non patrimoniale, potendosi ricorrere a presunzioni sulla base di elementi obiettivi, forniti dal danneggiato quali le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare e la compromissione delle esigenze familiari (20667/2010). u Alla luce di consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno non patrimoniale, concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire “iure proprio” contro il responsabile (Cass. 9556 del 2002). La liquidazione di tale danno non può che avvenire in via equitativa, con una valutazione complessiva del danno non patrimoniale, potendosi ricorrere a presunzioni sulla base di elementi obiettivi, forniti dal danneggiato quali le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare e la compromissione delle esigenze familiari (20667/2010). u Nel caso di un sinistro stradale ove la morte dell’infortunato sopraggiunga solo mezz’ora dopo l’incidente, il danno per morte va preso in considerazione quale peculiare voce o aspetto dei danni non patrimoniali subiti direttamente dai parenti, fra i quali danni rientrano anche quelli conseguenti alla perdita del rapporto parentale; al dolore da essi risentito in proprio, di riflesso, per la consapevolezza del male che il proprio congiunto ebbe a subire, e così via. Si tratta di danni che i congiunti possono far valere iure proprio, quale parte dei danni non patrimoniali da essi personalmente subiti, non di danni spettanti iure ha ereditario (25264/2010). u In caso di riduzione dell’importo da liquidare agli eredi a titolo di risarcimento per i danni non patrimoniali subiti a seguito della perdita di un congiunto il giudice è tenuto a fornire adeguata motivazione (25264/2010). u Il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del Cc: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente CODICE CIVILE dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad esempio, nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza o a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, e con la precisazione, in tale ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio in conseguenza sofferto, e che la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave e che il danno non sia futile. In tal caso, inoltre, la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (4427/2011). u Una volta ravvisata la responsabilità di un soggetto per i danni derivati dalla lesione di un diritto inviolabile della persona, qual è la salute, la risarcibilità di un tipo di pregiudizio non patrimoniale che sia conseguenza della lesione di quel diritto non può essere affermata o esclusa in riferimento a una qualificazione che concerna il comportamento dell’autore della condotta, in quanto il danno risarcibile va individuato sul piano degli effetti e non delle modalità della lesione dell’interesse protetto (6749/2011). u Non ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla perdita del proprio tempo libero l’avvocato che “perde” quattro ore per farsi riattivare la linea adsl a causa delle informazioni sbagliate fornite dall’operatore telefonico. Nella specie, va riconosciuto solo il diritto al risarcimento dei danni subiti per l’illegittima sospensione delle linee telefoniche urbane e per le errate informazioni ricevute. Il diritto al tempo libero, infatti, non costituisce un diritto fondamentale dell’uomo e, nella sola prospettiva costituzionale, non integra un diritto costituzionalmente protetto, e ciò per la semplice ragione che il suo esercizio è rimesso alla esclusiva autodeterminazione della 106 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 106 27-11-2014 11:04:33 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 persona, che è libera di scegliere tra l’impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il suo tempo libero da lavoro e da ogni occupazione (9422/2011). u In presenza di una liquidazione del danno morale che sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali, nei termini propri del danno c.d. esistenziale é da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a titolo di danno morale già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare al (diverso) titolo di danno esistenziale; così come deve del pari dirsi nell’ipotesi di liquidazione del danno biologico effettuata avendosi riguardo anche a siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato. Laddove tali aspetti relazionali (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il c.d. danno esistenziale) non siano stati invece presi in considerazione, dal relativo ristoro non può invero prescindersi (10527/2011). u In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, il giudice nel procedere alla quantificazione ed alla liquidazione deve evitare duplicazioni risarcitorie, mediante l’attribuzione di somme separate e diverse in relazione alle diverse voci (sofferenza morale, danno alla salute, danno estetico, ecc), ma deve comunque tenere conto dei diversi aspetti in cui il danno si atteggia nel caso concreto (11609/2011). u Il mobbing si realizza quando è riconoscibile una azione aggressiva cosciente e volontaria, protratta nel tempo, finalizzata a mettere uno o più lavoratori in una condizione di forte disagio col fine dell’espulsione dal contesto lavorativo o della sottomissione al potere direttivo. Occorre pertanto che la condotta del datore di lavoro si concretizzi in sistematici e reiterati comportamenti ostili da cui può derivare l’effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore (nel caso di specie la S.C. ha escluso che possano essere ricondotti ad una azione di mobbing alcuni episodi, comunque marginali ed isolati, riconducibili ad un comportamento scorretto del datore di lavoro ma non connotati da un carattere persecutorio nei confronti del dipendente) (12048/2011). u Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione può e deve tenersi conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, di talché si ritiene, in via di principio, inammissibile, in quanto duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzio- 2059 ne del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello esistenziale (14263/2011). u La responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica attività esercitata; tale diligenza non è quella del buon padre di famiglia ma quella del debitore qualificato ai sensi dell’art. 1176, secondo comma c.c. che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente connesse all’esercizio della professione e ricomprende pertanto anche la perizia; la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all’art. 2236, secondo comma c.c. non ricorre con riferimento ai danni causati per negligenza o imperizia ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica; quanto all’onere probatorio, spetta al medico provare che il caso era di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta provare che l’intervento era di facile esecuzione e al medico che l’insuccesso non è dipeso da suo difetto di diligenza (2334/2011). u In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (2334/2011). u Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre; il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie; il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del 107 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 107 27-11-2014 11:04:33 2059 rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno; é compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione (11609/2011). u Il “danno biologico”, comporta che tale figura - che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private - va individuata nella lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, con una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (11609/2011). u Poiché l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative (come l’art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto (12408/2011). u Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione può e deve tenersi conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, di talché si ritiene, in via di principio, inammissibile, in quanto duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello esistenziale (14263/2011). u Le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226 CODICE CIVILE c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla circolazione. I relativi parametri sono conseguentemente da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella, di inferiore ammontare, cui sia diversamente pervenuto, incongrua essendo la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui si perviene mediante l’adozione dei parametri esibiti dalle dette tabelle di Milano. Vanno ristorati anche i c.d. aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale o del c.d. danno esistenziale, sicché è necessario verificare se i parametri recati dalle tabelle tengano conto (anche) dell’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto che si estrinsechi in uno svolgimento dell’esistenza, e cioè in (radicali) cambiamenti di vita, dovendo in caso contrario procedersi alla c.d. “personalizzazione”, riconsiderando i parametri recati dalle tabelle in ragione (anche) di siffatto profilo, al fine di debitamente garantire l’integralità del ricorso spettante al danneggiato (in applicazione del suesposto principio, la Corte ha cassato la decisione dei giudici del merito che, nel disporre il risarcimento del danno non patrimoniale in favore della una vittima di un sinistro stradale, avevano preso a riferimento le Tabelle elaborate dal Tribunale di Brescia, senza peraltro prevedere una personalizzazione di tale danno, alla luce delle gravi conseguenti esistenziali riportate dalla vittima in seguito al sinistro) (14402/2011). u In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dall’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella 108 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 108 27-11-2014 11:04:33 R.D. 16 marzo 1942, n. 262 suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (24718/2011). u La liquidazione del danno morale operata mediante il meccanismo semplificativo del riferimento ad una mera frazione di quanto liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico non consente di cogliere quale sia stato il punto di riferimento dai giudici di merito in concreto preso in considerazione ai fini della debita personalizzazione della liquidazione del danno morale ai cui fini, per potersi considerare congrua ed adeguata risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana, è necessario che possa evincersi in quali termini si sia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato d’animo (2228/2012). u La valenza costituzionale del diritto inciso costituisce presupposto di risarcibilità del danno non patrimoniale solo quando la legge ordinaria non la contempli essa stessa. Il che non accade quando il fatto costituisca reato ed il risarcimento del danno non patrimoniale sia dunque direttamente previsto dagli artt. 2059 c.c., e 185 c.p.c. (3718/2012). u In caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo, la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia è autonomamente risarcibile, non come danno biologico, ma come danno morale, inteso come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita, sempre che sofferenza psichica vi sia stata e, dunque, che la vittima sia stata in condizioni tali da percepire il proprio stato (il che va escluso in caso di coma immediatamente conseguito all’evento dannoso) (6273/2012). u In caso di lesione dell’integrità fisica con esito letale, un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è configurabile qualora la morte sia intervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo, sì da potersi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso, mentre non è configurabile quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall’evento, giacché essa non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di un bene giuridico diverso, e cioè del bene della vita (6273/2012). 2059 u Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di danno esistenziale, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel danno esistenziale si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 c.c. (6930/2012). u Va riconosciuto il danno biologico terminale subito dalla vittima, ponendo in rilievo che la quantificazione in via equitativa va operata in relazione al pregiudizio sofferto, le cui caratteristiche peculiari consistono nel fatto che si tratta di un danno alla salute che, sebbene temporaneo, è massimo nella sua identità ed intensità. La quantificazione equitativa va operata avendo presenti sia il criterio equitativo puro sia il criterio di liquidazione tabellare, purché essi criteri siano dal giudice adeguatamente personalizzati, ovvero adeguati al caso concreto (7499/2012). u Quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi compreso il danno morale inteso quale sofferenza fisica soggettiva causata dal reato, che si trasmette agli eredi. Tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo (circostanze delle quali occorre tener conto in sede di liquidazione, ma irrilevante ai fini della risarcibilità) e può sussistere sia da solo sia unitamente ad. altri tipi di pregiudizi non patrimoniali (come quelli derivanti da lesioni personali e, come in questo caso, dalla morte di un congiunto) (7499/2012). u In tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di 109 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 109 27-11-2014 11:04:34 2059 entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (10303/2012). u Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, la cui liquidazione non è però ostativa a che il giudice tenga conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ivi compresi gli eventuali ulteriori danni patrimoniali derivanti dalla riduzione della capacità lavorativa generica, allorquando la cifra di invalidità, che sia venuta ad investire il danneggiato, non consenta, per la sua entità, l’esercizio di attività lavorativa da parte del soggetto leso e dagli atti sia infatti emersa la prova della lesione della capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, idonei alla produzione di fonti di reddito (908/2013). u Il “tempo libero” non costituisce, di per sè, un diritto fondamentale della persona tutelato a livello costituzionale e sovranazionale, e ciò per la semplice ragione che il suo esercizio è rimesso alla esclusiva autodeterminazione della persona, che è libera di scegliere tra del 2012l’impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il proprio tempo libero da lavoro e da ogni occupazione, con la conseguenza che non può essere fonte di un obbligo risarcitorio in relazione al danno non patrimoniale (21725/2012). u Nel nostro ordinamento non esiste l’autonoma categoria del danno “esistenziale”, in quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi che scaturiscono dalla lesione di interessi di rango costituzionale della persona, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore voce di danno si risolverebbe in una non consentita duplicazione risarcitoria; ove, invece, si intendesse includere nella categoria i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe illegittima, stante la non risarcibilità di simili pregiudizi in base al menzionato art. 2059 c.c. (3290/2013). u Il danno biologico, il danno morale ed il danno alla vita di relazione rispondono a pro- CODICE CIVILE spettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo, in quanto un determinato evento può causare, nella persona della vittima come in quelle dei familiari, un danno alla salute medicalmente accertabile, un dolore interiore ed un’alterazione della vita quotidiana. Ciò non significa che il giudice di merito sia tenuto, in via automatica, alla liquidazione separata di tutte queste singole poste di danno, ma si traduce nell’obbligo di tenere presente i diversi aspetti della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni ma anche “vuoti” risarcitori; quanto al danno da lesione del rapporto parentale, il giudice dovrà accertare, con onere della prova a carico dei familiari, se a seguito del fatto lesivo si sia determinato nei superstiti uno sconvolgimento delle normali abitudini tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse (19402/2013). u Il danno biologico, quello morale e quello dinamico-relazionale altrimenti definibile “esistenziale”, costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili. Tuttavia, pur non essendo ammissibile, nel nostro ordinamento, l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, quel che rileva, ai fini risarcitori, è che, ove si siano verificati pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi non siano stati già oggetto di apprezzamento e di liquidazione da parte del giudice del merito, a nulla rilevando che quest’ultimo li liquidi sotto la voce di danno non patrimoniale oppure li faccia rientrare secondo la tradizione passata sotto la etichetta “danno esistenziale” (23147/2013). u Il danno esistenziale non costituisce un’autonoma voce di danno risarcibile, ma costituisce un aspetto della più ampia categoria del danno non patrimoniale. Di tale danno quindi va tenuto conto, nel determinare la somma complessivamente spettante a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, a cui va apportato un congruo aumento, in misura da determinare con riguardo alle peculiarità del caso concreto (25409/2013). 110 STM_608_CodiceLavoroSpiegato_2014_1.indb 110 27-11-2014 11:04:34