Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona

Libro IV
Delle obbligazioni
Titolo IX
Dei fatti illeciti
L’art. 1173 stabilisce che le obbligazioni possono derivare anche da atti giuridici illeciti, ossia
da comportamenti dolosi o colposi che un soggetto commette a danno di altri.
Questi ultimi possono ulteriormente distinguersi in:
a) illeciti civili, che sorgono dalla violazione
di norme poste a tutela di interessi prevalentemente privati (contenute nel Codice civile e nelle
sue leggi complementari). Tale violazione sottoporrà il soggetto a responsabilità civile e, quindi,
ad essere punito mediante sanzioni civili (es. risarcimento del danno);
b) illeciti penali (o reati), che sorgono dalla violazione di norme poste a tutela di interessi
prevalentemente pubblici (contenute nel Codice
penale e nelle sue leggi complementari). Tale
violazione sottoporrà il soggetto a responsabilità
penale e, quindi, ad essere punito mediante sanzioni penali (es. ergastolo, multa, arresto, ecc.).
Di rilievo è la distinzione tra gli illeciti civili
e penali sotto il profilo della tipicità; infatti:
- l’illecito penale è essenzialmente tipico: nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente previsto dalla legge come reato;
- l’illecito civile è essenzialmente atipico:
qualunque atto doloso o colposo che provoca ad
altri un danno ingiusto, obbliga chi lo compie a
risarcire il danno [2043]. Le principali figure di
illecito civile, in relazione ai diversi tipi di diritti
lesi, sono rintracciabili nella violazione dei diritti
della personalità: vita, integrità fisica, onore, riservatezza (o privacy), immagine, nome, identità
personale.
2043. (1) Risarcimento per fatto illecito. – Qualunque fatto doloso o colposo,
che cagiona ad altri un danno ingiusto (1438),
obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno (2947; 185, 198 c.p.) .
(1) A norma dell’art. 3, comma 1, del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 2012, n. 189, l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica non risponde penalmente per
colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice,
anche nella determinazione del risarcimento del danno,
tiene debitamente conto della condotta di cui al primo
periodo.
Dalla lettera della norma si evince che l’illecito civile consiste nel generico dovere giuridico
di non arrecare danno ad altri, la cui violazione
fa sorgere in capo a chi l’ha commessa, l’obbligo
di risarcire tale danno: è questa la base concettuale su cui poggia la responsabilità extracontrattuale o aquiliana (dalla lex aquilia de damno
che nel diritto romano disciplinava la materia).
Possiamo dunque distinguere tra:
- responsabilità contrattuale, che si manifesta
quando l’illecito configura la violazione di uno
specifico dovere giuridico (inadempimento di
un’obbligazione preesistente fra le parti) [1218];
- responsabilità extracontrattuale, che si manifesta quando l’illecito configura la violazione
di un generico dovere giuridico (di non ledere
l’altrui sfera giuridica al di là di qualunque obbligazione preesistente fra le parti) (esempio n. 1).
Le componenti essenziali della responsabilità per atto illecito si distinguono a seconda che
l’ambito sia oggettivo o soggettivo.
Le componenti oggettive sono:
a) il comportamento antigiuridico: la responsabilità extracontrattuale presuppone una condotta contraria all’ordinamento giuridico, un atto
illecito appunto, che può essere tanto commissivo
quanto omissivo (esempio n. 2);
b) il danno: ledere l’altrui diritto vuol dire
provocare un danno. Questo può essere:
- patrimoniale, allorché cagioni pregiudizio
al patrimonio del soggetto. Per questo esso sarà
suscettibile di valutazione economica e ulteriormente distinguibile in danno emergente (in rela-
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zione alle spese sostenute) e in lucro cessante (in
relazione al mancato guadagno) (esempio n. 3);
- non patrimoniale (o morale), allorché cagioni pregiudizio a beni di natura personale non
suscettibili di valutazione economica, ossia risarcibile solo in sede penale, qualora l’atto illecito
costituisca fattispecie delittuosa (esempio n. 4).
Nell’ambito del danno non patrimoniale distinguiamo:
1) il danno alla vita di relazione, consistente
in un deterioramento della vita socio- affettiva di
un soggetto causato da gravi menomazioni psico-fisiche (esempio n. 5);
2) il danno biologico (o della salute), consistente in qualsiasi lesione duratura dell’integrità
fisica di un individuo a prescindere dal fatto che
provochi o meno lucro cessante: in altre parole
il risarcimento si avrà anche se il danno non significherà anche mancato guadagno (v. D.Lgs. n.
38 del 2000, sugli infortuni in ambito lavorativo
e L. n. 57 del 2001, sul risarcimento del danno di
lieve entità). A riguardo la Cassazione ha ribadito
che il danno biologico è, per espressa definizione
legislativa, anche in ambito lavoristico (art. 13
del decreto legislativo 38/2000), la lesione della
integrità psico-fisica della persona, suscettibile di
valutazione medico legale. Vi è pertanto danno
biologico quando la lesione della integrità psicofisica sia suscettibile di valutazione medico legale (così Cassazione n. 5437 del 2011);
3) il danno esistenziale (o meglio “danno
non patrimoniale da pregiudizio esistenziale”
ex Cass. civ. S.U. 26972/2008), derivante dalla
forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non
remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, ma non causata da una
compromissione dell’integrità psicofisica;
c) il nesso di causalità (tra comportamento e
danno): perché un comportamento illecito possa
essere addebitato ad un soggetto non è sufficiente
la presenza di una condotta e di un evento, ma è necessario che l’evento sia la conseguenza diretta della condotta, cioè che tra i due sussista un rapporto
di causa ad effetto (esempio n. 6). In proposito sono
state elaborate dalla dottrina le seguenti teorie:
- della causalità naturale (condicio sine qua
non): è causa qualsiasi antecedente senza il quale
l’evento non si sarebbe verificato;
- della causalità adeguata: è causa la condotta umana che, oltre ad essere condizione indispensabile per la causazione dell’evento, è,
altresì, secondo un giudizio anteriore rispetto al
compimento della condotta, idonea a provocare
CODICE CIVILE
l’evento. Tale teoria esclude il nesso di causalità
quando gli effetti della condotta non erano probabili secondo l’id quod plerumque accidit (cioè
in base alla comune esperienza);
- della causalità umana: è causa la condotta
dell’uomo che si costituisce come antecedente
necessario per la realizzazione dell’evento, quando questo non si è verificato con il concorso di
fattori eccezionali;
- della sussunzione sotto leggi scientifiche:
è causa l’azione che, secondo il miglior metodo
scientifico e la migliore esperienza del momento storico, è in grado di provocare l’evento con
un’alta percentuale di probabilità. Fra le diverse
teorie illustrate, quest’ultima è quella maggiormente seguita dalla più recente giurisprudenza.
Per quel che concerne il risarcimento si rinvia al commento sub artt. 2058 e 2059. Occorre
solo specificare che, ai fini della sua risarcibilità,
il danno deve essere ingiusto (esempio n. 7). Invero, affinché la responsabilità sia posta a carico
del soggetto non devono essere presenti elementi
considerati dall’ordinamento come cause di giustificazione della sua condotta (c.d. scriminanti):
si tratta, in pratica, di quelle situazioni eccezionali in presenza delle quali un determinato fatto, che normalmente costituisce reato, non è così considerato perché la legge o lo impone o lo
consente, per cui, escludendo l’illiceità del fatto
escludono, conseguentemente, anche l’obbligo
del risarcimento. Le scriminanti disciplinate dal
codice civile, ma più compiutamente dal codice
penale, sono:
a) la legittima difesa [2044] [c.p. 52];
b) lo stato di necessità [2045] [c.p. 53];
c) il consenso dell’avente diritto [c.p. 50],
inteso come atto giuridico che permette al destinatario di agire con l’approvazione dell’avente
diritto. Tale consenso ha, però, dei limiti, perché
può essere validamente prestato solo se l’azione permessa incide su diritti disponibili, quindi,
sostanzialmente su diritti patrimoniali. Non sono beni di cui il soggetto può disporre, invece,
quelli riconducibili a diritti indisponibili, come
ad esempio l’integrità fisica, i diritti personalissimi, il diritto al nome, all’onore, ecc.;
d) l’esercizio di un diritto [c.p. 51], che si ha
quando il soggetto, pur compiendo la condotta
prevista in una fattispecie incriminatrice, non
viene riconosciuto responsabile dell’illecito perché la legge gli consente di esercitare quel diritto
attraverso quella determinata azione che normalmente costituisce reato (esempio n. 8);
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e) l’adempimento di un dovere [c.p. 51], che
giustifica il soggetto agente e che può scaturire da:
- norme giuridiche (legge o atto avente forza
di legge, norma regionale, regolamento o consuetudine richiamata dalla legge, norme di un ordinamento straniero, ma soltanto quando il diritto
internazionale pretenda che il dovere sia ritenuto
valido dalla Stato italiano);
- un ordine dell’Autorità (ossia il comando
che il titolare di un potere di supremazia rivolge al suo inferiore, affinché questi compia una
determinata condotta e, per essere vincolante, è
necessario che sia formalmente e sostanzialmente legittimo).
Le componenti soggettive sono:
a) imputabilità [2046];
b) colpa, che ricorre allorché l’atto illecito sia
stato compiuto:
- per negligenza, ossia senza il dovuto impegno;
- per imprudenza, ossia senza la dovuta attenzione;
- per imperizia, ossia senza la necessaria
competenza;
- per mancato rispetto di determinate norme
giuridiche (si pensi al codice della strada);
c) dolo, che ricorre allorché l’atto illecito sia
stato compiuto con la consapevolezza di arrecare
danno ad altri, ovvero prevedendo e accettando
il danno quale probabile conseguenza della propria condotta.
Ai fini della responsabilità extracontrattuale:
- non importa se l’illecito sia stato compiuto con
colpa o con dolo, posto che colui il quale l’ha commesso è, in ogni caso, tenuto a risarcire tutti i danni
provocati (prevedibili o imprevedibili che fossero);
- non importa nemmeno il grado della colpa
(che sia di lieve o di grave entità), posto che anche se fosse minima presupporrebbe l’obbligo di
risarcire integralmente il danno;
- importano, invece, il caso fortuito e la forza
maggiore perché escludono la colpa;
- non sussiste una presunzione di colpa a carico di chi commette l’illecito, posto che l’onere
della prova spetta al danneggiato: chi vuol far
valere un diritto deve dare la prova del suo fondamento [2697].
La Cassazione ha avuto occasione di rispondere ad uno spinoso quesito: è possibile tenere
conto nella valutazione del danno risarcibile dell’avvenuto decesso del danneggiato? E pertanto
del minor patimento sofferto? In considerazione
del fatto che il danno morale viene liquidato nel-
2043
la misura della metà rispetto al danno biologico,
la riduzione del quantum debeatur riferito a quest’ultimo determina automaticamente la diminuzione anche del danno morale risarcibile?
Così come accade per il danno patrimoniale,
risponde la Suprema Corte, anche per il danno
biologico si deve tener conto della durata effettiva della vita del soggetto leso, ovviamente quando ciò sia possibile, ai fini della sua liquidazione.
Trattandosi di due diverse ipotesi di danno, aventi
presupposti del tutto distinti non si può prevedere
nessun automatismo e ogni statuizioni di risarcimento richiede un’impugnazione specifica. In
particolare l’età in tanto assume rilevanza ai fini della liquidazione del danno alla salute (lato
sensu biologico) in quanto col crescere dell’età
diminuisce l’aspettativa di vita, sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica. Ne
consegue che, quando invece la durata della vita
futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto per essere
il soggetto deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia
durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della
vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della
permanente lesione della integrità psicofisica del
soggetto leso per l’intera durata della sua vita residua. Durata che è normalmente presunta (da qui
la considerazione dell’età e della relativa speranza di vita in caso di lesioni che non abbiano provocato la morte), ma che è invece nota se la morte sia sopravvenuta. Non si può ritenere che una
volta impugnata la sentenza in ordine alla liquidazione del danno biologico, è devoluta al giudice
del gravame anche la statuizione relativa al danno
morale, per essere stato lo stesso “manifestamente rapportato” alla metà del danno biologico (così
Cassazione n. 22338 del 2007).
A seguito di due importanti pronunce della
Cassazione (n. 500 del 1999 e n. 157 del 2003),
l’interesse legittimo acquisisce una sua autonomia risarcitoria:
a) la normativa sulla responsabilità aquiliana di cui all’articolo in commento ha la funzione
di consentire il risarcimento del danno ingiusto,
intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno, cioè, inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di
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un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in
particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo.
Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del
fatto illecito delineato dall’articolo in oggetto,
non è possibile individuare in via preventiva gli
interessi meritevoli di tutela: spetta, pertanto, al
giudice, attraverso un giudizio di comparazione
tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con
quale intensità, l’ordinamento appresta tutela risarcitoria all’interesse del danneggiato, ovvero
comunque lo prende in considerazione sotto altri
profili, manifestando, in tal modo, una esigenza
di protezione. Ne consegue che anche la lesione
di un interesse legittimo, al pari di quella di un
diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e, quindi, dar luogo a risarcimento
del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima della
P.A., l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo (così Cassazione n. 500 del 1999) (esempio n. 9);
b) sussiste la responsabilità della P.A. nei confronti dei privati con i quali sia intercorsa una convenzione di lottizzazione, per i danni procurati
dal deprezzamento del terreno, ancorché non sia
stato ancora conseguito lo ius aedificandi, qualora
l’edificabilità sia stata preclusa da un piano regolatore poi annullato per mancanza di motivazione
a nulla rilevando che un successivo piano, approvato regolarmente, abbia disposto nel medesimo
senso (così Cassazione n. 157 del 2003). In pratica
la responsabilità della P.A. nei confronti del privato sussiste ogni qualvolta un atto illegittimo ne
abbia compresso la posizione di vantaggio.
Nel solco così tracciato lo stesso giudice di legittimità ha sottolineato che la parte che chieda il
risarcimento da lesione dell’interesse pretensivo
è tenuta a fornire al giudice tutti gli elementi per
la dimostrazione di una positiva valutazione della propria istanza. Infatti mentre nella lesione di
un interesse oppositivo viene in rilevo il sacrifico
dell’interesse alla conservazione del bene o della
situazione di vantaggio conseguente l’illegittimo
esercizio del potere - nella lesione di un interesse
pretensivo la verifica della illegittimità (e l’eventuale annullamento) dell’atto, è condizione necessaria, ma non sufficiente per il risarcimento,
essendo necessario un giudizio prognostico sulla fondatezza o meno della pretesa dell’istante
CODICE CIVILE
ad ottenere il provvedimento favorevole. Da ciò
consegue che il diritto del privato al risarcimento
del danno prodotto dall’illegittimo esercizio della
funzione pubblica prescinde dalla qualificazione
formale della posizione di cui è titolare il soggetto danneggiato in termini di diritto soggettivo o
di interesse legittimo, considerato che la tutela
risarcitoria è fatta dipendere ed è garantita in funzione dell’ingiustizia del danno conseguente alla
lesione di interessi giuridicamente riconosciuti.
Per tali motivi la tecnica di accertamento della
lesione varia a seconda della natura dell’interesse legittimo nel senso che, se l’interesse è oppositivo, occorre accertare che l’illegittima attività
dell’Amministrazione abbia leso l’interesse alla
conservazione di un bene o di una situazione di
vantaggio, mentre, se l’interesse è pretensivo,
concretandosi la sua lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio
prognostico, da condurre in base alla normativa
applicabile, la fondatezza o meno della richiesta
di parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio
di normalità, era destinata ad un esito favorevole
(così Cassazione n. 18511 del 2007).
La Suprema Corte, con sentenza n. 20986
del 2007, ha avuto modo di ribadire il proprio
orientamento interpretativo circa la responsabilità della P.A. per danni cagionati dai propri
dipendenti. In particolare affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto
in essere dal proprio dipendente - responsabilità
il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al
nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente
sia e si manifesti come esplicazione dell’attività
dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso
di potere, al conseguimento dei fini istituzionali
di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto.
Invero la riferibilità alla P.A. del fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente viene meno
quando lo stesso agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico
che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con
le attribuzioni proprie dell’agente. In tale ipotesi
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cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A.
La giurisprudenza di merito pur ammettendo,
nel suo orientamento più recente, la configurabilità della responsabilità aquiliana nell’ambito dei
rapporti coniugali per violazione degli obblighi
nascenti dal matrimonio, sottolinea che non ogni
violazione degli obblighi in parola può essere
fonte di un danno risarcibile in via aquiliana, né
il mero addebito della separazione può essere sanzionato ex art. 2043 c.c., pena lo stravolgimento
della funzione propria della responsabilità civile
quale strumento volto a riallocare le esternalità
negative in un’ottica non solo compensatrice, ma
di deterrenza adeguata. Il ricorso al presidio della
responsabilità civile, infatti, è legittimo al cospetto
di condotte dolosamente, anche in termini di dolo
eventuale, o gravemente colpose, eziologicamente
ricollegabili alla lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela nell’ambito del consueto
giudizio di bilanciamento proprio del settore in
questione (così Trib. Venezia 3 luglio 2006).
Interessante risulta la posizione della giurisprudenza di legittimità in ordine al danno esistenziale da pubblicità ingannevole (nella specie
la questione ha riguardato la dicitura “light” riportata da alcune marche di sigarette). Premesso che la direttiva 2001/37/CE, attuata in Italia
nel 2003, vieta l’uso di diciture, quali, appunto,
quella “lights”, idonee a suggerire che un determinato prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. Ciò non esclude la possibilità di ritenere integrata la responsabilità aquiliana per l’uso, fatto
antecedentemente, della dicitura in questione.
Rilevante a tal fine che il fatto colposo dell’agente abbia cagionato un danno ingiusto consistente
nella lesione dell’altrui sfera giuridica. I principi
ispiratori della responsabilità civile pretendono
la prova del danno assuntamente subito, nella
specie il danno morale, o meglio il danno esistenziale o danno da stress. Il danno risarcibile
è, anche nella responsabilità aquiliana, un danno
conseguenza e come tale, al fine di ottenerne il
risarcimento, ne va provata l’esistenza. L’articolo in commento nel richiedere il danno ingiusto
(e non il fatto illecito) pone, quale fulcro del risarcimento, l’incisione, per opera del comportamento colposo dell’agente, della sfera giuridica
altrui presidiata dall’ordinamento. È necessaria,
in ogni caso, la prova del danno (esistenziale)
nonché la sussistenza del nesso eziologico tra la
condotta del soggetto che si ritiene leso e il danno derivatone. Ai fini del risarcimento del danno
2043
da responsabilità aquiliana, lo stesso lungi dall’essere in re ipsa va provato, riconferma che tale
onere probatorio incombe sull’attore danneggiato (cfr. Cassazione n. 15131 de 2007). Anche le
Sezioni Unite, con sent. n. 794 del 2009, si sonno
espresse in ordine al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) da pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie sigarette del
tipo “light”). L’apposizione, sulla confezione di
un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l’ha commesso al risarcimento del
danno, indipendentemente dall’esistenza di una
specifica disposizione o di un provvedimento che
vieti l’espressione impiegata. Il consumatore che
lamenti di aver subito un danno per effetto di una
pubblicità ingannevole ed agisca, ai sensi dell’articolo in commento, per il relativo risarcimento,
non assolve al suo onere probatorio dimostrando
la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di
causalità tra pubblicità e danno, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio sarebbero
derivate le menzionate conseguenze dannose.
I giudici di legittimità hanno altresì dovuto
pronunciarsi su una spinosa questione giuridica
attinente alla problematica del risarcimento del
danno conseguente alla lesione del bene- vita
dello straniero legalmente soggiornante in Italia a favore dei suoi familiari non residenti. La
delicata controversia verte su quello che è il rapporto tra la condizione di reciprocità ed il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Il
responsabile civile si trova, infatti, su posizioni
nettamente antitetiche rispetto alla teoria avanzata dalle parti civili (i familiari della vittima)
laddove, richiamando il disposto di cui all’art.
16 preleggi, che riconosce allo straniero il godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino a
condizione di reciprocità, fatte salve le disposizioni contenute in leggi speciali, subordina il
riconoscimento dei diritti fondamentali alla sola
presenza della condizione suddetta. La Suprema
Corte accoglie il ricorso presentato dalle parti civili in quanto riconosce che l’art. 16 si riferisce
unicamente alla capacità di diritto privato e non
ai diritti politici che rimangono, invece, riservati in linea di massima ai cittadini, indipendentemente da qualsiasi riferimento alla regolamentazione che i diritti stessi assumono in altri stati.
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La reciprocità, infatti, è da intendersi soddisfatta
allorché risulta che lo Stato estero non ponga alcuna discriminazione a danno del cittadino italiano. È, altresì, affermato in giurisprudenza che
tale condizione oltre a non essere richiesta quando il diritto azionato riguarda i diritti inviolabili, quali il diritto alla libertà, l’inviolabilità del
domicilio, la libertà e segretezza della corrispondenza, la libertà religiosa, la libertà di manifestazione del pensiero, la tutela giurisdizionale, la
personalità della responsabilità penale, non vada invocata anche quando si faccia riferimento
a diritti inviolabili come la vita e la salute, che
non possono dipendere dalla legislazione vigente
nel paese dello straniero altrimenti ponendosi in
contrasto con i principi costituzionali coi quali
l’art. 16 deve sempre confrontarsi.
Posto che, in ordine all’estensione dei diritti dello straniero soggiornante in Italia ai propri
parenti prevista dalla normativa sull’immigrazione, non vi è alcuna distinzione tra i familiari residenti e non residenti in Italia, la Corte riconosce che spetta a questi ultimi il risarcimento per
la perdita del bene fondamentale della vita del
loro congiunto causata da un fatto penalmente
rilevante. La Costituzione, infatti, trattandosi di
doveri inderogabili di solidarietà sociale, tutela il
diritto de quo riconoscendolo a tutte le persone,
indipendentemente dal loro status di cittadini o
di stranieri. Discriminare la posizione e sostenere
che solo i familiari stranieri soggiornanti in Italia
hanno diritto al risarcimento, senza condizione di
reciprocità, mentre coloro che vivono all’estero
ne sono soggetti, rileverebbe una irragionevole
disparità di trattamento fondata su di una interpretazione della legge sull’immigrazione del tutto
disancorata dai principi fondanti della Costituzione. Ragionando diversamente si verificherebbe che la vita di uno straniero senza congiunti in
Italia varrebbe molto meno di quella del cittadino
italiano pur essendogli attribuiti in vita gli stessi diritti: si prescinderebbe, infatti, dai rapporti
relazionali ed affettivi che, al contrario, ad altri
soggetti vengono riconosciuti come produttivi
di effetti giuridici dopo la morte. Per il solo fatto
che queste relazioni riguardano persone non ricongiunte in Italia, verrebbe negato il diritto dello
straniero soggiornante in Italia ad essere tenuto
in considerazione, dopo la morte, per la perdita
anche economica subita dai suoi congiunti. La
perdita della vita umana in questo caso non troverebbe alcuna forma di risarcimento, nonostante
il rapporto del cittadino con lo Stato italiano non
CODICE CIVILE
sia stato occasionale, ma dovuto ad una richiesta
di lavoro di cui lo Stato italiano si è giovato. Alla
luce delle considerazioni svolte, la Corte di Cassazione, effettuando una ragionevole lettura del
regolamento della legge sull’immigrazione, ritiene che il trattamento giuridico conseguente alla
lesione del bene-vita spetta, alla stessa stregua
dei quelli del cittadino italiano, anche ai familiari
dello straniero, siano o meno conviventi in Italia
(così Cassazione n. 5471 del 2009).
Ricordiamo che con sentenza 6 febbraio
2009, n. 28, la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3,
della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo
a favore dei soggetti danneggiati da complicanze
di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni), nella
parte in cui non prevede che i benefici riconosciuti dalla legge citata spettino anche ai soggetti che presentino danni irreversibili derivanti da
epatite contratta a seguito di somministrazione di
derivati del sangue. La Consulta ha rilevato che
dalla disciplina complessiva del 1992 emerge
che, mentre l’indennizzo è sempre riconosciuto
nel caso di soggetti che abbiano contratto infezioni da HIV, siano esse derivate dalla somministrazione di sangue ovvero di emoderivati, ai
soggetti che abbiano contratto l’epatite il beneficio è concesso solo nel caso in cui la malattia
sia conseguita a trasfusione, ovvero, se si tratta
di operatori sanitari, nelle ipotesi di contatto con
il sangue o suoi derivati. Resta priva di tutela,
invece, l’ipotesi in cui l’infezione da epatite sia
conseguita alla somministrazione di emoderivati.
Dunque, con riguardo a tale caso, si interrompe
il parallelismo con la disciplina prevista a favore
dei soggetti affetti da infezione da HIV. Il giudice delle leggi conclude affermando che il mancato riconoscimento dell’indennizzo a favore di
coloro che abbiano contratto l’epatite a seguito
di somministrazione di emoderivati non trova
alcuna ragionevole giustificazione, dal momento
che, del tutto immotivatamente, tale fattispecie
resta priva di tutela. La stessa Corte, con sent.
n. 107 del 2012, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1, della legge
25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui non
prevede il diritto ad un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, nei
confronti di coloro i quali abbiano subìto le conseguenze previste dallo stesso articolo 1, comma
1, a seguito di vaccinazione contro il morbillo, la
parotite e la rosolia (Corte cost. 107/2012).
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1. Gianni alla guida del suo taxi, provoca un
incidente e cagiona danni fisici a Luca, suo passeggero e a Claudia che in quel momento attraversava la strada. Gianni sarà responsabile
contrattualmente nei confronti di Luca ed extracontrattualmente nei confronti di Claudia. Se poi,
non si adopera a pagare i danni a quest’ultima,
incorre anche nei suoi confronti in responsabilità
contrattuale, essendo tenuto ad adempiere anche
in virtù di una fonte non contrattuale dell’obbligazione. Si osserva, a riguardo, la recente posizione
della giurisprudenza di legittimità in base alla quale il conducente di un veicolo, essendo obbligato in base alle comuni regole di diligenza e prudenza
- ad esigere che il passeggero indossi la cintura di
sicurezza, risponde per il pregiudizio all’integrità
fisica che il trasportato abbia subìto a seguito del
sinistro (così Cassazione n. 4993 del 2004).
2. Emblematico è l’esempio di chi, distraendosi dalla guida, tampona un’altra auto parcheggiata sul ciglio della strada (atto illecito commissivo), o di chi non ripulendo il marciapiedi
dinnanzi casa dalla neve, provoca la caduta dei
passanti (atto illecito omissivo).
3. Dario viene investito da un’automobile
ed è costretto al ricovero in ospedale. Il danno
emergente sarà costituito dalle spese di ricovero
e dalle cure mediche e riabilitative; il lucro cessante, dal mancato guadagno causato dall’impossibilità di lavorare.
4. Beni di natura personale sono la tranquillità, la libertà, l’onore, l’immagine.
5. Si pensi a chi, a causa di un incidente stradale si trova costretto su di una sedia a rotelle e
col volto completamente sfigurato.
6. Sussiste nesso di causalità tra la condotta
di chi getta a terra una buccia di banana e l’evento lesivo rappresentato dalla frattura del soggetto che vi scivola poco dopo sopra, sempreché si
dimostri che tale frattura sia stata provocata proprio da quella buccia di banana e non da altre
cause (come potrebbe essere la caduta dalle scale
di casa o da cavallo).
7. Esistono anche ipotesi di danno che l’ordinamento giustifica: si pensi, per tutti, al caso di licenziamento per giustificato motivo (crisi d’impresa).
8. Luigi abbandona la fabbrica dove lavora
per esercitare il diritto di sciopero.
9. a) In materia di appalti pubblici la regolamentazione delle gare fa acquisire uno specifico
rilievo al contatto tra partecipante e pubblica amministrazione configurando in capo al concorren-
2043
te interessi legittimi sia pretensivi che oppositivi,
la cui lesione, correlata al pregiudizio al bene sostanziale tutelato attraverso le norme violate, è
fonte del diritto al risarcimento (così Cassazione
n. 9366 del 2003).
b) In caso di esclusione illegittima di un concorrente da una gara d’appalto pubblico, per valutare l’ingiustizia del danno e la conseguente
sua risarcibilità, occorre, da un lato, fare riferimento alla posizione del soggetto leso e, dall’altro, accertare se questi sia titolare di una semplice aspettativa, una semplice chance, oppure se,
invece, si trovi in una situazione suscettibile di
determinare un affidamento oggettivamente valutabile circa la conclusione in senso a lui favorevole (così Cassazione n. 11738 del 2003).
u  La responsabilità extracontrattuale (art.
2043 c.c.) ricorre solo allorquando la pretesa
risarcitoria venga formulata nei confronti di un
soggetto autore di un danno ingiusto, non legato all’attore da alcun rapporto giuridico precedente o, comunque, indipendentemente da tale
eventuale rapporto, mentre, se a fondamento
della pretesa venga enunciato l’inadempimento
di un’obbligazione volontariamente contratta,
ovvero anche derivante dalla legge (art. 1173
c.c.), è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale o legale (7989/1994, rv 487968).
u  Il principio secondo cui, a norma degli artt.
2043 c.c. e segg. affinché sorga l’obbligazione
del risarcimento del danno è sufficiente un fatto
che pregiudichi l’interesse altrui, ma occorre che
esso abbia arrecato un danno ingiusto, va inteso
nel senso che, mentre per tutti i fatti dannosi
non costituenti reato, l’ingiustizia del danno è
da intendersi (oltreché nell’accezione di danno
prodotto “non iure” e, cioè, in assenza di cause
giustificative del fatto dannoso) anche “contra
ius” (vale a dire come fatto che incida su una
posizione soggettiva attiva tutelata come diritto
perfetto), per i danni prodotti da reato, invece,
l’ingiustizia è in “re ipsa” e non ha, quindi, bisogno di essere riconnessa alla violazione di un
diritto soggettivo (1540/1995, rv 490387).
u  È ammissibile il concorso tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale di
fronte ad un medesimo fatto che violi contemporaneamente non soltanto diritti derivanti dal
contratto, ma anche i diritti spettanti alla persona offesa indipendentemente dal contratto
stesso (418/1996, rv 495504).
u  In tema di risarcibilità dei danni conseguiti da fatto illecito (o da inadempimento,
nell’ipotesi di responsabilità contrattuale) il
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nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto
normale secondo il principio della cd. regolarità
causale, con la conseguenza che, ai fini del
sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il
rapporto fra illecito ed evento può anche non
essere diretto ed immediato se, ferme restando
le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel
momento in cui si produce l’evento causante, le
conseguenze dannose di esso non appaiono del
tutto inverosimili (combinazione della teoria
della “condicio sine qua non” con la teoria della
“causalità adeguata”) (5913/2000, rv 536323).
u  Poiché l’articolo 2043 c.c., correlato agli
articoli 2 della Costituzione e segg., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto
patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici
della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione
risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno
evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare
(danno conseguenza) (7713/2000, rv 537372).
u  In tema di risarcimento del danno da illecito, il principio della “compensatio lucri cum
damno” trova applicazione solo quando sia il
pregiudizio che l’incremento patrimoniale dipendano dal medesimo fatto. Ne consegue che,
in caso di morte di una persona cagionata dall’altrui illecito, non rileva che il coniuge diventi
titolare di pensione di reversibilità, fondando
tale attribuzione su un titolo diverso dall’atto
illecito (4205/2002, rv 553234).
u  In relazione al furto da parte di persone
introdottesi nell’appartamento attraverso i
ponteggi installati per i lavori di restauro dello
stabile, va affermata la responsabilità, ai sensi
dell’art. 2043 c.c., dell’impresa che per tali lavori utilizza i suddetti ponteggi, qualora, trascurando le più elementari norme di diligenza
e perizia e la doverosa adozione delle cautele
atte ad impedire l’uso anomalo delle impalcature, e così violando il principio del neminem
laedere, abbia colposamente creato un agevole
accesso ai ladri ponendo in essere le condizioni
del verificarsi del danno (2844/2005).
u  Colui il quale subentra ad altri nel possesso di un appartamento in qualità di acquirente
o di conduttore è tenuto a controllare, oltre
all’efficienza dei servizi, anche la loro regolare
tenuta in ragione dell’utenza che ne è stata
fatta. Pertanto è responsabile dei danni subiti
CODICE CIVILE
dall’ente erogatore dell’energia elettrica chi,
al momento dell’acquisto dell’appartamento,
versi in colpa per non aver controllato l’integrità del misuratore (manomesso dal precedente
proprietario), in quanto, ai fini della sussistenza
della colpa, l’art. 2043 c.c. richiede che l’evento
non sia voluto dall’agente, ma si verifichi, oltre
che per inosservanza di norme giuridiche, per
negligenza, imprudenza, imperizia, la cui misura di valutazione è rapportata alla diligenza
dell’uomo medio (7679/2005).
u  Tra le aspettative che la morte di un figlio
in giovane età fa venir meno per i genitori, e alle
quali deve essere commisurato l’ammontare del
risarcimento a carico del responsabile dell’evento, vi è anche quella di un apporto del figlio all’attività economica del padre (o della famiglia)
nel campo dell’industria, del commercio, dei
mestieri, delle professioni, quando tale apporto
non si fondi su semplici speranze o su ipotetiche
eventualità, ma su una ragionevole previsione,
affidata a un criterio di ponderata probabilità,
alla stregua di una valutazione che faccia ricorso
anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dalla
comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto (8002/2005).
u  Colui che chiede il risarcimento dei danni
derivatigli, quale vittima secondaria, dalla lesione
materiale subita dalla persona con cui convive a
causa della condotta illecita di un terzo, deve dimostrare l’esistenza e la portata della convivenza
instaurata con la medesima. E ciò perché soltanto
la prova della assimilabilità della convivenza di
fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela
giuridica di fronte ai terzi (8976/2005).
u  La responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di
adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento
cui il paziente venga sottoposto e della successiva verificazione, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso e, quindi, in forza di
un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente,
mentre ai fini della configurazione di siffatta
responsabilità è del tutto indifferente se il
trattamento sia stato eseguito correttamente
o meno, svolgendo rilievo la correttezza dell’esecuzione agli effetti della configurazione di
una responsabilità sotto un profilo diverso, cioè
riconducibile, ancorché nel quadro dell’unitario
rapporto in forza del quale il trattamento è
avvenuto, direttamente alla parte della prestazione del sanitario (e di riflesso della struttura
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ospedaliera per cui egli agisce) concretatesi
nello svolgimento dell’attività di esecuzione del
trattamento (5444/2006).
u  I postumi permanenti conseguenti ad un
fatto lesivo della persona, in quanto incidenti
sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento risarcitorio, sotto l’aspetto
patrimoniale allorché, pur determinando una
cosiddetta micropermanente sul piano strettamente biologico, tali esiti provochino negative
ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura,
precludendola o rendendola di più difficile
conseguimento, in relazione all’età, al sesso del
danneggiato e ad ogni altra utile circostanza
particolare (12423/2006).
u  In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi
di cui agli articoli 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali
alla produzione dell’evento, e ne costituisca un
antecedente causale, l’agente deve rispondere
per l’intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell’agente per quei danni che non
dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero
verificati ugualmente anche senza di essa, né per
quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all’agente
i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano
sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva,
e non si sarebbero verificati senza di essa, con
conseguente responsabilità dell’agente stesso
per l’intero danno differenziale (13400/2007).
u  A differenza dalla responsabilità penale,
la responsabilità civile e quella amministrativa
si connotano per l’imputazione del danno, piuttosto che del fatto dal quale il danno deriva. La
responsabilità, infatti, è sì costruita, sul piano
strutturale, intorno al danno, e tuttavia un fatto è essenziale affinché il danno sorga. Questo
«fatto» ha un’articolazione complessa, constando di tre elementi fondamentali: condotta, nesso causale ed evento lesivo. Tali elementi danno
luogo, complessivamente, al fatto illecito, e
siccome il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria è esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo, sinchè l’evento lesivo non
si verifica il fatto non si perfeziona e non può
derivarne alcun danno (14297/2007).
u  Nella struttura dell’articolo 2043 c.c. non
si richiede che il fatto sia illecito ma solo se il
danno sia ingiusto, per cui rileva che il fatto
(assistito almeno dalla colpa dell’agente) abbia
2043
prodotto la lesione di una posizione giuridica
altrui, ritenuta meritevole di tutela da parte
dell’ordinamento, lesione non altrimenti giustificata (15131/2007).
u  Il bene “salute” ed il bene “vita” costituiscono beni distinti e tutelati in forma distinta.
Mentre infatti il primo ammette una forma di
tutela risarcitoria, il secondo no, in quanto, essendo strettamente connesso alla persona del
suo titolare, non se ne può concepire la autonoma risarcibilità quando tale persona abbia
cessato di esistere. Ne consegue che, in caso di
morte di un individuo causata dall’altrui atto
illecito, ove la morte sia contestuale all’azione
dannosa, nulla è dovuto agli eredi a titolo di
risarcimento “jure successionis” del danno biologico sofferto dal loro dante causa, in quanto
questi non ha mai subìto alcun “danno biologico” rigorosamente inteso (18163/2007).
u  Chi pretende il risarcimento del danno,
ex articolo 2043 c.c., da tardiva assunzione conseguente a provvedimento illegittimo della P.A.
non può allegare, a tale titolo (in particolare,
sotto forma di lucro cessante), la mancata percezione delle retribuzioni che si sarebbero potute
percepire e che sarebbero state versate per la
contribuzione assicurativa in ipotesi di tempestiva assunzione, in quanto queste presuppongono
l’avvenuto perfezionamento del rapporto di lavoro e rilevano sotto il profilo della responsabilità
contrattuale. Al contrario, l’attore deve allegare
e dimostrare i pregiudizi di tipo patrimoniale e/o
non patrimoniale che siano eventualmente derivati dalla condotta illecita che si assume essere
stata causa del danno lamentato (26282/2007).
u  In materia di diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, qualora si tratti di
un illecito che, dopo un primo evento lesivo, determina ulteriori conseguenze pregiudizievoli, il
termine di prescrizione dell’azione risarcitoria per
il danno inerente a tali ulteriori conseguenze decorre dal verificarsi delle medesime solo se queste
ultime non costituiscono un mero sviluppo ed un
aggravamento del danno già insorto, bensì la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma
rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento
dell’azione del responsabile (580/2008).
u  Esistono due momenti diversi del giudizio
aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a
fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o
di fatto, presenta rilevanti analogie con quella
penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo
come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto
dell’obbligazione risarcitoria (581/2008).
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u  Occorre distinguere il caso in cui la morte
segua immediatamente o quasi alle lesioni, da
quello in cui tra le lesioni e la morte intercorra
un apprezzabile lasso di tempo: nel primo caso
si esclude la configurabilità del danno biologico, in quanto la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute,
incidendo sul diverso bene giuridico della vita;
la si ammette, viceversa, nel secondo caso, essendovi un’effettiva compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto che si protrae per
la durata della vita, e se ne riconosce la trasmissibilità agli eredi (870/2008).
u  Provata la riduzione della capacità di
lavoro specifica, se essa è di una certa entità e
non rientra tra i postumi permanenti di piccola
entità, (c.d. micropermanenti, le quali non producono danno patrimoniale, ma costituiscono
mere componenti del danno biologico), è possibile presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura
(non necessariamente in modo proporzionale),
qualora la vittima già svolga un’attività o presumibilmente la svolgerà (1690/2008).
u  Ai fini della quantificazione e liquidazione ai genitori del danno morale per la morte
di un figlio malato, non assume alcun rilievo lo
stato di malattia del figlio stesso (5282/2008).
u  La circostanza secondo la quale il grave
stato di disagio psichico del giovane malato
comporterebbe, ipso facto, una diversa e minore intensità del rapporto affettivo con i genitori
risulta anch’essa destituita di qualsivoglia concreto supporto probatorio, vero essendo, in contrario, che, secondo l’id quod plerumque accidit,
gravi affezioni e preoccupanti patologie di un
figlio intensificano, piuttosto che diminuire, il
legame emozionale con il genitore (5282/2008).
u  Il consenso informato riveste natura di
principio fondamentale in materia di tutela
della salute in virtù della sua funzione di sintesi
di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute.
Il legislatore regionale, pertanto, non può disciplinare gli aspetti afferenti ad una disciplina
di dettaglio del principio in esame (Corte cost.
253/2009).
u  È extracontrattuale, atteggiandosi come
elusione del generale principio del “neminem
laedere”, la responsabilità del soggetto erogatore di energia elettrica, qualora all’utente sia
cagionato un incendio che investa una parte
della rete di distribuzione estranea alla struttura dell’impianto dello stabile e quindi al rapporto derivante dal contratto di somministrazione
di energia elettrica (26671/2008).
CODICE CIVILE
u  Qualora il curatore fallimentare, che abbia
qualifica di dottore commercialista, sia dichiarato responsabile, ai sensi del combinato disposto
degli artt. 38, comma primo, legge fall. ed art.
2043 c.c., del danno ingiustamente cagionato
alla procedura concorsuale nell’espletamento
della sua attività di ausiliario di giustizia, l’assicuratore della responsabilità civile per la sua
attività professionale deve tenerlo indenne,
salvo che il rischio sia espressamente escluso dal
contratto (2460/2009).
u  Il mancato tempestivo recepimento di
direttive comunitarie costituisce illecito legislativo e genera un’obbligazione indennitaria
ex lege se in presenza di grave violazione ed un
simmetrico diritto del danneggiato ad essere
compensato della perdita subita in conseguenza dell’inadempimento (ritardo) apprezzabile
secondo criteri oggettivi (credito di valore),
riconducibile quindi alla responsabilità contrattuale, senza che sia necessaria la prova del
dolo o della colpa, rappresentando il denaro
soltanto l’equivalente dell’utilità sottratta al
patrimonio (9147/2009).
u  Nel caso in cui una cambiale sia pagata,
nonostante la scadenza, in tempo utile (ex art.
43 r.d. n. 1699/1933), la banca del portatore del
pagherò cambiario ha l’obbligo di attivarsi, nei
confronti del Notaio, per impedire l’illegittima
levata del protesto; se la banca non si attiva in
tal senso, ne consegue una propria responsabilità c.d. da contatto sociale per non aver fornito
tempestivamente un’informazione idonea ad
evitare il prodursi di un danno (11130/2009).
u  Il c.d. “diritto alla sessualità” va inquadrato
tra i diritti inviolabili della persona (art. 2), come
modus vivendi essenziale per l’espressione e lo
sviluppo della persona. La perdita o la riduzione
della sessualità costituisce anche danno biologico (la cui valutazione nelle tabelle medico legali
convenzionali supera normalmente il livello della micropermanente e determina un rilevante ritocco del punteggio finale) consequenziale alla
lesione, ma nessuno ormai nega che la perdita o
la compromissione anche soltanto psichica della
sessualità (come avviene nei casi di stupro e di
pedofilia) costituisca di per sé un danno, la cui
rilevanza deve essere apprezzata e globalmente
valutata, in via equitativa (13547/2009).
u  In tema di colpa professionale, la predisposizione di un contratto di locazione, pur non
essendo in linea di principio vietata al consulente del lavoro, in quanto si tratta di attività per
la quale non è prevista alcuna riserva a favore di
specifiche categorie di professionisti, non rientra tuttavia nelle attività “tipiche” previste per
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il consulente del lavoro, né nella previsione contrattuale della polizza assicurativa di cui sopra
(18912/2009).
u  In materia di compravendita, l’inadempimento del venditore determina la configurabilità
di una responsabilità di tipo extracontrattuale
nella sola ipotesi in cui il pregiudizio vada ad incidere su interessi dell’acquirente sorti al di fuori
del rapporto contrattuale ed aventi la consistenza
di diritti assoluti, quali il diritto alla salute, ovvero
la lesione dell’immagine dell’impresa a questi facente capo (Trib. Bari 30 settembre 2009).
u  Nel caso di responsabilità medica, se la
prestazione professionale è di routine spetta
al professionista superare la presunzione che le
complicanze sono state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale, o da
imperizia, o da inesperienza o inabilità dimostrando che invece sono sorte a causa di un
evento imprevisto ed imprevedibile secondo
la diligenza qualificata in base alle conoscenze
tecnico-scientifiche del momento (20806/2009).
u  Il consenso informato, espressione del diritto personalissimo di rilevanza costituzionale
all’autodeterminazione terapeutica, è un obbligo contrattuale del medico perché è funzionale al corretto adempimento della prestazione
professionale, pur essendo autonomo da esso
(20806/2009).
u  L’invalidità permanente (totale o parziale), mentre di per sé concorre a dar luogo a danno biologico, non comporta necessariamente
anche un danno patrimoniale, a tal fine occorrendo che il giudice, oltre ad accertare in quale
misura la menomazione fisica abbia inciso sulla
capacità di svolgimento dell’attività lavorativa
specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di
guadagno, accerti se ed in quale misura in tale
soggetto persista o residui, dopo e nonostante
l’infortunio subìto, una capacità ad attendere
ad altri lavori, confacente alle sue attitudini
e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di
reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo
se dall’esame di detti elementi risulti una riduzione della capacità di guadagno e del reddito
effettivamente percepito, questo è risarcibile
sotto il profilo del lucro cessante. La relativa
prova incombe al danneggiato e può essere
anche presuntiva, purché sia certa la riduzione
della capacità di lavoro specifica (21062/2009).
u  In tema di risarcimento di danno patrimoniale subìto da una persona minore o comunque in età giovanile, qualora sia accertata non
una “micro permanente” ma una percentuale
superiore di invalidità permanente, la mera cir-
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costanza che il soggetto danneggiato, all’epoca
dell’incidente, non avesse una specifica capacità
professionale e non svolgesse attività lavorativa
non autorizza ad escludere un danno futuro
solo sulla base di ciò e senza ulteriori indagini
(20943/2009).
u  Il risarcimento del danno biologico derivante da lesioni che hanno provocato, dopo
alcuni giorni (quindici, nella fattispecie) la morte del danneggiato, dovrà essere quantificato
in base al numero dei giorni di sopravvivenza
secondo il parametro dell’inabilità temporanea
assoluta e totale e non secondo le tabelle dell’invalidità permanente predisposte in funzione
della vita media futura presunta (21497/2009).
u  Il danno biologico iure successionis agli eredi della vittima del sinistro va calcolato sulla durata effettiva della vita del defunto (23053/2009).
u  In tema di vendite denominate “a catena”
spettano all’acquirente l’azione contrattuale
nei confronti del diretto venditore e quella extracontrattuale contro il produttore, per il danno sofferto in dipendenza dei vizi che rendono
la cosa pericolosa (26514/2009).
u  Il consumatore di sigarette con la denominazione “lights” ha su di sé l’onere probatorio
circa il danno lamentato e il nesso causale esistente (26514/2009).
u  L’ente pubblico risponde dei danni subiti
dall’utente della strada secondo la regola generale di cui all’art. 2043 c.c., che non prevede
limitazione della responsabilità della P.A. per
comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia e trabocchetto (App. Napoli 3 marzo 2010).
u  Non costituisce violazione di prìncipi fondamentali dell’ordinamento l’affermazione che
la p.a. può essere ritenuta responsabile, ai sensi
dell’art. 2043 c.c. per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell’esercizio
del potere di autotutela. (Nella specie, annullata dagli organi del contenzioso tributario una
cartella esattoriale, il giudice di pace aveva
condannato l’Amministrazione finanziaria sia al
rimborso delle spese sostenute per difendersi,
sia per il danno esistenziale. In applicazione del
principio di cui sopra la S.C. ha confermato una
tale statuizione) (698/2010).
u  Ai sensi dell’art. 2043 c.c., l’Amministrazione finanziaria può essere ritenuta responsabile, e quindi tenuta al risarcimento del
danno recato al contribuente, per il mancato o
ritardato annullamento di un atto illegittimo,
nell’esercizio del potere di autotutela, ove tale
comportamento abbia arrecato danno al privato, ovvero se ciò costituisca violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento (698/2010).
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u  Il fatto che il figlio della vittima, deceduta a
seguito di un fatto illecito altrui, sia maggiorenne
ed economicamente indipendente non esclude la
configurabilità (e la conseguente risarcibilità) del
danno patrimoniale da lui subito per effetto del
venir meno delle provvidenze aggiuntive che il
genitore gli destinava, posto che la sufficienza dei
redditi del figlio esclude l’obbligo giuridico del
genitore di incrementarli, ma non il beneficio di
un sostegno durevole, prolungato e spontaneo,
sicché la perdita conseguente si risolve in un danno patrimoniale, corrispondente al minor reddito
per chi ne sia stato beneficato (1524/2010).
u  È risarcibile il danno patrimoniale sofferto
dal figlio, benché maggiorenne ed economicamente indipendente, per effetto del decesso
del genitore dovuto al fatto illecito altrui, quale
minore reddito connesso al venir meno di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo, del
quale il figlio stesso beneficiava (1524/2010).
u  Non è configurabile alcun diritto del danneggiato a vedere applicata l’una o l’altra tabella nella liquidazione del danno subito, posto
che quello tabellare è un mero criterio di stima
e di calcolo tendente ad uniformare l’attività
liquidatoria a casi che tra di loro prospettano
similitudini e che presuppone il determinante
ragguaglio delle tabelle stesse alle peculiarità
del caso concreto (1524/2010).
u  La responsabilità professionale del medico - ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della
terapia o dell’intervento che ritenga di dover
compiere, allo scopo di ottenerne il necessario
consenso informato - ha natura contrattuale e
non precontrattuale; ne consegue che, a fronte
dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il
medico gravato dell’onere della prova di aver
adempiuto tale obbligazione (2847/2010).
u  L’intervento del medico, anche solo in funzione diagnostica, dà comunque luogo all’instaurazione di un rapporto di tipo contrattuale.
Ne consegue che, effettuata la diagnosi in esecuzione del contratto, l’illustrazione al paziente
delle conseguenze (certe o incerte che siano,
purché non del tutto anomale) della terapia o
dell’intervento che il medico consideri necessari
o opportuni ai fini di ottenere, quante volte sia
possibile, il necessario consenso del paziente
all’esecuzione della prestazione terapeutica,
costituisce un’obbligazione il cui adempimento
deve essere provato dalla parte che l’altra affermi inadempiente, e dunque dal medico a fronte
dell’allegazione di inadempimento da parte del
paziente (2847/2010).
CODICE CIVILE
u  In materia di c.d. “consenso informato”,
anche in caso di sola violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella
violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può
sussistere uno spazio risarcitorio; mentre la risarcibilità del danno da lesione della salute che
si verifichi per le non imprevedibili conseguenze
dell’atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secundum leges artis, ma tuttavia
effettuato senza la preventiva informazione del
paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone
l’accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato
adeguatamente informato (2847/2010).
u  L’onere probatorio in tema di c.d. “consenso informato”, suscettibile di essere soddisfatto
anche mediante presunzioni, grava sul paziente:
(a) perché la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte
che alleghi l’inadempimento altrui e pretenda
per questo il risarcimento; (b) perché il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; (c) perché si tratta
pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe
orientata la scelta soggettiva del paziente, sicché
anche il criterio di distribuzione dell’onere probatorio in funzione della “vicinanza” al fatto da
provare induce alla medesima conclusione; (d)
perché il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico
costituisce un’eventualità che non corrisponde
all’id quod plerumque accidit (2847/2010).
u  Per ottenere il risarcimento dei danni
derivanti dalla sosta di un veicolo davanti ad un
passo carrabile, con conseguente impossibilità di
utilizzare il box auto, l’attore è chiamato a provare che il veicolo era in sosta sul passo carrabile
e l’impossibilità di utilizzare il box, mentre non
è tenuto a dimostrare di essere il proprietario o
di avere in uso il posteggio (3359/2010).
u  Il diritto di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di
violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto
1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto
del termine ragionevole di cui all’art. 6, § 1,
della Convenzione, ad una equa riparazione,
secondo quanto previsto dall’art. 2 della legge
24 marzo 2001 n. 89, ha natura indennitaria e
non risarcitoria, e ad esso non è applicabile il
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termine di prescrizione breve previsto dall’art.
2947 c.c. (4524/2010).
u  Quando in seguito alla vaccinazione il figlio contrae la poliomielite, non solo il piccolo
ha diritto al risarcimento del danno - biologico,
morale e patrimoniale - ma anche i genitori
(singolarmente) devono essere indennizzati in
rapporto alla vita di relazione e al dovere di
assistenza continua e solidale al minore per il
resto della sua vita dolorosa (5190/2010).
u  L’ente sanitario non solo risponde ai sensi
dell’art. 2043 c.c. per colpa grave da negligenza e imprudenza, ma anche in relazione alla
qualificazione del rapporto di assistenza come
contatto sociale di protezione (5190/2010).
u  Dell’esercizio pretesamente tardivo del potere autoritativo è chiamato a conoscere il g.a.
per valutare l’illegittimità di tale ritardo, anche
eventualmente ai fini risarcitori. Trattasi della figura del “danno da ritardo” nell’azione amministrativa, in merito al quale va ribadita la giurisdizione del giudice amministrativo. (7160/2010).
u  Appartiene alla giurisdizione del giudice
amministrativo la controversia con cui si chiede
la dichiarazione di illegittimità del ritardo nell’esercizio di poteri amministrativi (relativi alla
determinazione dei corrispettivi tariffari per i
servizi di controllo sul bagaglio da stiva nell’ambito del trasporto aereo) ed il risarcimento del
danno per tale ritardo da parte della p.a., stante
la natura autoritativa e tecnicamente discrezionale della determinazione ministeriale dei corrispettivi dovuti al gestore del servizio e della fissazione della relativa esigibilità (7160/2010).
u  A fronte di un potere autoritativo la posizione giuridica del soggetto che aspira al “bene
della vita”, oggetto del potere, è di interesse
legittimo pretensivo e non di un’aspettativa,
costituente essa stessa un diritto soggettivo
(diritto al diritto) (7160/2010).
u  Qualora una società di capitali subisca,
per effetto dell’illecito commesso da un terzo,
un danno, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di
questa, il diritto al risarcimento compete solo
alla società e non anche a ciascuno dei soci, in
quanto l’illecito colpisce direttamente la società
e il suo patrimonio, obbligando il responsabile
al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto
indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito (9295/2010).
u  Ai sensi del combinato disposto degli artt.
2043 e 2055 c.c., chi subisce un danno ingiusto
2043
per fatto colposo imputabile a più persone ha
diritto al risarcimento integrale del danno (ex
art. 2043 c.c.) nei confronti di ognuno di loro
(ex art. 2055 c.c., in tema di responsabilità solidale) (12731/2010).
u  Il professionista sanitario ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in
ordine alle cure mediche o all’intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve sottoporre
al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo non
generico, dal quale sia possibile desumere con
certezza l’ottenimento in modo esaustivo da parte
del paziente di dette informazioni (15698/2010).
u  Va riconosciuto il danno biologico, subito
dalle persone a seguito dei rumori emessi da un
locale sottostante l’abitazione dei danneggiati,
quale lesione dell’inviolabile diritto della persona alla salute. Tuttavia non rappresenta una situazione tale da richiedere la chiusura anticipata
del locale essendo sufficiente limitare e ridurre i
rumori e gli schiamazzi notturni (19851/2010).
u  Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente
reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno non patrimoniale, concretamente accertato in relazione ad una particolare
situazione affettiva con la vittima, non essendo
ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto
anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio
contro il responsabile. La liquidazione di tale
danno non può che avvenire in via equitativa,
con una valutazione complessiva del danno non
patrimoniale, potendosi ricorrere a presunzioni sulla base di elementi obiettivi, forniti dal
danneggiato quali le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare e la compromissione
delle esigenze familiari (20667/2010).
u  La risarcibilità del danno derivante dalla
lesione di un diritto o un interesse legittimo ex
art. 2043 c.c. necessita della prova specifica e
dell’accertamento in concreto della colpa dell’agente non potendo siffatta colpa consistere
in re ipsa nel cattivo esercizio del potere pubblico (22021/2010).
u  Per il danno non patrimoniale che deriva
dell’incidente stradale, il risarcimento deve essere unico ma omnicomprensivo: nel senso che
la somma va determinata tenendo conto di tutti
gli aspetti che il pregiudizio di carattere non patrimoniale, subito dalla vittima dell’incidente, è
andato assumendo nel caso concreto. Per cui,
anche la perdita della capacità lavorativa generica va liquidata come componente del danno
biologico (23259/2010).
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u  Nella liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice deve tener conto del tipo di
pregiudizio creato dal sinistro e delle condizioni
soggettive dalla vittima (23259/2010).
u  Qualora, a seguito della realizzazione di
un’opera di pubblica utilità, si determini per
il privato un meno agevole accesso dal fondo
alla strada pubblica, il parametro di valutazione è costituito dalla diminuzione di valore, che
costituisce l’oggettivo discrimine fra pretese
indennitarie fondate e pretese infondate. Non
rileva tanto, dunque, che il pregiudizio arrecato
dalla realizzazione dell’opera tocchi il nucleo
essenziale del diritto di proprietà - peraltro
indefinibile se si ha riguardo alle facoltà che
competono al proprietario ed alle possibili modalità di godimento di un bene - oppure aspetti
qualificabili come marginali delle citate facoltà
e modalità; quanto invece che, a seguito della
realizzazione dell’opera pubblica, la possibilità
di godimento sia diminuita e che il valore di
mercato del bene abbia, per tale ragione, subito un decremento oggettivo, economicamente
apprezzabile e non irrisorio (24266/2010).
u  In materia di responsabilità civile, il consumatore che, lamentando di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole
(nella specie, relativa ad una marca di sigarette
con la dicitura Light ed Extra Light), agisca per
il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043
c.c., non assolve in modo adeguato all’onere
della prova esistente a suo carico limitandosi a
dimostrare il solo carattere ingannevole della
pubblicità, ma è tenuto a provare l’esistenza del
danno, il nesso di causalità, nonché (almeno) la
colpa di chi ha diffuso la pubblicità, la quale si
concreta nella prevedibilità che dalla diffusione
di quel messaggio sarebbero derivate le lamentate conseguenze dannose (26516/2009).
u  L’omesso uso del casco protettivo da parte del conducente di un motociclo può essere
fonte di corresponsabilità della vittima di un
sinistro stradale per il danno causato a se stessa
ove il giudice di merito accerti in fatto che la
suddetta violazione abbia concretamente influito sulla eziologia del danno, costituendone,
appunto, un antecedente causale (26568/2010).
u  La ritardata assunzione come invalido civile, a seguito di iniziale diniego per precedenti
contravvenzionali, superato dal giudicato amministrativo, comporta il diritto per l’impiegato
al risarcimento del danno per gli anni perduti
(Cons. Stato 1759/2010).
u  Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sull’azione risarcitoria anche senza
la preventiva impugnazione dell’atto ammini-
CODICE CIVILE
strativo poiché a seguito della l. 205/2000 e di
Corte cost. 204/2004 il cittadino accanto alla
tutela demolitoria dell’atto ritenuto illegittimo ha anche un’autonoma tutela risarcitoria
(25395/2010).
u  Il pregiudizio economico che subisce una
casalinga menomata nell’espletamento della
sua attività in conseguenza di lesioni subite è
pecuniariamente valutabile come danno emergente, ex art. 1223 c.c. (richiamato “in parte
qua” dal successivo art. 2056) e può essere liquidato, pur in via equitativa, anche nell’ipotesi in
cui la stessa sia solita avvalersi di collaboratori
domestici, perché comunque i suoi compiti risultano di maggiore ampiezza, intensità, responsabilità rispetto a quelli espletati da un
prestatore d’opera dipendente (16896/2010).
u  Affinché una condotta omissiva possa essere fonte di responsabilità per danni, ai sensi
dell’articolo 2043 del Cc, è necessario che sia
configurabile in capo al responsabile un obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso, che
può nascere, oltre che da una norma di legge
o da una previsione contrattuale, anche da una
specifica situazione che esiga una determinata
attività a tutela di un diritto altrui. L’attività doverosa può essere, secondo le circostanze, anche
solo informativa, come ad esempio, in caso di
prestito grazioso di un oggetto pericoloso, ovvero concretarsi nel dovere di assicurarsi che il
terzo - che a titolo di cortesia si stia adoperando
nell’interesse di altro soggetto, manovrando in
sua presenza un oggetto pericoloso di cui il soggetto interessato conosca la pericolosità - abbia
adottato le precauzioni idonee per la corretta
esecuzione della manovra o che queste siano stato comunque poste in essere. (Nella specie, in applicazione del principio di cui sopra la Suprema
corte ha confermato la sentenza con cui il giudice del merito aveva ritenuto la responsabilità
del proprietario di un trattore per le gravissime
lesioni riportate da un soggetto - che si era spontaneamente indotto a prestare il proprio ausilio
in via del tutto occasionale e non programmata nel tentativo di regolare il funzionamento di una
forca per il prelevamento del letame collegato al
trattore, atteso che il sinistro era conseguenza
della intrinseca rischiosità dell’operazione che
avrebbe richiesto l’intervento del proprietario
per adottare tutte le cautele idonee a scongiurare l’evento dannoso) (1737/2011).
u  Nel caso di lesioni subite nel corso di
un’attività natatoria all’interno di una piscina
va riconosciuta la responsabilità del gestore della stessa - ex art. 2049 c.c. - che, nell’organizzare
il corso di nuoto avrebbe dovuto predisporre
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modalità necessarie ad evitare “gli scontri” in
vasca, sia del nuotatore che - ex art. 2043 c.c.
- ha compiuto un’attività non improntata a criteri di perizia e diligenza, anche nel caso in cui
abbia eseguito pedissequamente le indicazioni
impartite dall’istruttore (6695/2011).
u  In tema di patologie conseguenti ad infezione con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e
HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione
di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue
infetto, non sussistono tre eventi lesivi, bensì un
unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità
fisica (essenzialmente del fegato) in conseguenza dell’assunzione di sangue infetto; ne consegue che già a partire dalla data di conoscenza
dell’epatite B - la cui individuazione spetta
all’esclusiva competenza del giudice di merito,
costituendo un accertamento di fatto - sussiste
la responsabilità del Ministero della salute, sia
pure col limite dei danni prevedibili, anche per
il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme
di manifestazioni patogene dello stesso evento
lesivo (11301/2011).
u  In tutti i casi in cui l’apparato produttivo
di una società di notevoli dimensioni sia articolato in una serie di unità territoriali autonome,
ciascuna affidata ad un soggetto all’uopo investito di mansioni direttive, il problema della responsabilità per l’osservanza delle disposizioni,
sanzionate penalmente, poste a carico della società va affrontato con riferimento alla singola
struttura aziendale interessata, all’interno della
quale soltanto dovrà ricercarsi il responsabile,
senza perciò esigere la prova specifica di una
delega ad hoc da parte del legale rappresentante (o della persona occupante una posizione
organizzativa apicale) al preposto alla singola
struttura o settore di servizio in cui si è verificato il fatto incriminato (11481/2011).
u  Del principio sub n. 1 non può tuttavia
giovarsi la società, legalmente rappresentata
dal suddetto, che, in quanto solidalmente responsabile ex art. 6 L. 689/81 con il preposto alla
struttura di vendita, autore materiale dell’illecito (di cui risultano accertati tutti gli elementi
costitutivi), è tenuta comunque a risponderne,
nulla rilevando che in concreto non sia stato
possibile l’individuazione di tale persona fisica,
considerato che la ratio del suddetto principio
di solidarietà non è tanto quella di far fronte
ad eventuali situazioni d’insolvenza del trasgressore, quanto invece quella di evitare che
la violazione, comunque accertata, resti priva di
conseguenze sanzionatorie nei casi in cui, per
mancanza di identificazione dell’autore mate-
2043
riale o per altre ragioni che non consentano di
procedere nei confronti dello stesso, sia invece
identificabile il diverso soggetto per conto o
nell’interesse del quale il predetto abbia agito,
tenuto dunque a rispondere ai sensi del cit. art.
6 (11481/2011).
u  La legge 25 febbraio 1992, n. 210, facendo
seguito ad una pronuncia di illegittimità costituzionale in materia (C. cost. n. 307 del 1990), ha
introdotto un indennizzo a favore dei soggetti
danneggiati da complicanze di tipo irreversibile
a causa di vaccinazioni obbligatorie (art. 1, 1
comma) o di emotrasfusioni e somministrazioni
di emoderivati (art. 1, 2 e 3 comma); indennizzo
che si configura come diritto soggettivo ad una
prestazione economica a carattere assistenziale
(12538/2011).
u  L’impresa assicuratrice che contesti la sussistenza del nesso causale tra l’aumento dei
premi e l’accertato di un cartello collusivo è autorizzata a fornire prova contraria, rispetto alla
presunzione secondo cui il premio sia indebitamente aumentato per effetto e in conseguenza
del comportamento collusivo della compagnia
che ha partecipato all’intesa anticoncorrenziale. Tuttavia tale prova non può essere tratta da
considerazioni di carattere generale attinenti
alla situazione del mercato assicurativo, ma
deve riguardare situazioni e comportamenti
specifici dell’impresa interessata, che dimostrino come l’aumento del premio non sia determinato dalla partecipazione all’intesa ma da altri
fattori, concreti e specifici (13486/2011).
u  La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni
arrecati ai singoli a seguito di una violazione del
diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale
violazione risulti da interpretazione di norme di
diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate
dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa
grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge
13 aprile 1988, n. 117, sul risarcimento dei danni
cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
e sulla responsabilità civile dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza
del principio generale di responsabilità degli Stati
membri per violazione del diritto dell’Unione da
parte di uno dei propri organi giurisdizionali di
ultimo grado (Corte giust. 379/2011).
u  Secondo costante giurisprudenza della
Corte di Giustizia, tre sono le condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto
al risarcimento dei danni causati ai singoli per
violazione del diritto dell’Unione al medesimo
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imputabile, vale a dire che la norma giuridica
violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente
caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti
lesi (Corte giust. 379/2011).
u  Il danno da riduzione della capacità di
lavoro, sofferto da persona che - come la casalinga - provveda da sé al lavoro domestico,
costituisce una ipotesi di danno patrimoniale,
e non biologico. Ne consegue che chi lo invoca
ha l’onere di dimostrare che gli esiti permanenti
residuati alla lesione della salute impediscono
o rendono più oneroso (ovvero impediranno
o renderanno più oneroso in futuro) lo svolgimento del lavoro domestico; in mancanza di
tale dimostrazione, nulla può essere liquidato a
titolo di risarcimento di tale tipologia di danno
patrimoniale (23573/2011).
u  La liquidazione del danno patrimoniale da
riduzione della capacità di lavoro e di guadagno
non può costituire un’automatica conseguenza
dell’accertata esistenza di lesioni personali, ma
esige che sia verificata la attuale o prevedibile
incidenza dei postumi sulla capacità di lavoro,
anche generica, della vittima (23573/2011).
u  Ove occorra valutare il lucro cessante di
un minore menomato permanentemente, la
liquidazione del risarcimento del danno va
svolta sulla previsione della sua futura attività
lavorativa, in base agli studi compiuti o che si
stanno portando a termine (25571/2011).
u  Il danno patrimoniale da perdita della
capacità lavorativa deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto
leso svolgesse un’attività lavorativa produttiva di
reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza, di persistenza, dopo l’infortunio, di una
capacità generica, di attendere ad altri lavori,
confacenti alle attitudini e condizioni personali
ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti
idonei alla produzione di altre fonti di reddito,
in luogo di quelle perse o ridotte (25571/2011).
u  La prova del danno da perdita della capacità lavorativa grava sul soggetto che chiede
il risarcimento e può essere anche presuntiva,
purché sia certa la riduzione della capacità di
guadagno (25571/2011).
u  Qualora la liquidazione del danno da
fatto illecito extracontrattuale sia effettuata
con riferimento ai valori monetari esistenti alla
data della liquidazione, non occorre tener conto
della svalutazione verificatasi a partire dal giorno dell’insorgere del danno, essendo dovuto al
danneggiato soltanto il risarcimento del man-
CODICE CIVILE
cato guadagno (o lucro cessante) provocato dal
ritardo nella liquidazione. Tale risarcimento può
avvenire attraverso la liquidazione di interessi ad
un tasso stabilito dal giudice del merito valutando tutte le circostanze del caso, ma gli interessi
non possono essere calcolati dalla data dell’illecito sulla somma rivalutata, perché la somma
dovuta - il cui mancato godimento va risarcito
- va aumentata gradualmente nell’intervallo di
tempo occorso tra la data del sinistro e quella
della liquidazione. Inoltre, sull’importo liquidato
all’attualità della data della pronuncia possono
essere riconosciuti gli interessi compensativi, da
calcolarsi nella misura degli interessi al tasso legale sulla minor somma che ne avrebbe costituito
l’equivalente monetario alla data di insorgenza
del credito (coincidente con quella dell’evento
dannoso), ovvero mediante l’attribuzione di
interessi sulla somma liquidata all’attualità ma
ad un tasso inferiore a quello legale medio nel
periodo di tempo da considerare, ovvero attraverso il riconoscimento degli interessi legali
sulla somma attribuita, ma a decorrere da una
data intermedia, ossia computando gli interessi
sull’importo progressivamente rivalutato anno
per anno dalla data dell’illecito (25571/2011).
u  In tema di responsabilità medica e nell’ambito della causalità di contatto sociale, la
parte lesa ha l’onere di dare la prova del rapporto sanitario, della esistenza di una prestazione
sanitaria negligente e della lesione della salute,
secondo un riparto di onere della prova che imputa alla parte inadempiente la deduzione di
cause giustificative di tale inadempimento, di
guisa che il criterio della causalità non è quello
proprio della imputazione penale secondo il criterio rigoroso della quasi certezza, ma è quello
civilistico e probabilistico (27000/2011).
u  Nell’imputazione per omissione colposa il
giudizio causale assume come termine iniziale la
condotta omissiva del comportamento dovuto:
rilievo che si traduce a volte nell’affermazione
dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del
rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. Il Giudice pertanto è tenuto ad
accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso
non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica)
l’agente avesse posto in essere la condotta
doverosa impostagli, con esclusione di fattori
alternativi (2085/2012).
u  Il nesso causale è regolato dal principio di
cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento
è da considerare causato da un altro se il primo
non si sarebbe verificato in assenza del secondo,
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nonché dal criterio della cosiddetta causalità
adeguata, sulla base del quale, all’interno della
serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli
eventi che non appaiano (ad una valutazione
ex an) del tutto inverosimili, fermo restando,
peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi
ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la
regola della preponderanza dell’evidenza o del
“più probabile che non”, mentre nel processo
penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (2085/2012).
u  A norma dell’art. 2043 c.c., ai prossimi
congiunti di un soggetto, deceduto in conseguenza del fatto illecito addebitabile ad un
terzo, compete il risarcimento del danno anche
patrimoniale, anche nel caso in cui il defunto
avesse appena intrapreso una attività professionale remunerata; in questo caso, ad essi spetta
il risarcimento del danno patrimoniale futuro,
sulla base di una valutazione equitativa circostanziata ed a carattere satisfattivo che tenga
conto della rilevanza del legame di solidarietà
familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale dall’altro (3966/2012).
u  In tema di responsabilità civile, per l’accertamento del nesso causale tra condotta illecita ed
evento di danno non è necessaria la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria
tra la prima ed il secondo, ma è sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica. Ne consegue che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno
possa ritenersi conseguenza inevitabile della
condotta, ma anche quando ne sia conseguenza
altamente probabile e verosimile (6275/2012).
u  Il nesso causale è regolato dal principio di
cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento
è da considerare causato da un altro se il primo
non si sarebbe verificato in assenza del secondo,
nonché dal criterio della cosiddetta causalità
adeguata, sulla base del quale, all’interno della
serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli
eventi che non appaiano (ad una valutazione
“ex ante”) del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio
applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige
la regola della preponderanza dell’evidenza o
del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il
ragionevole dubbio” (9927/2012).
u  Il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all’integrità psico-fisica
2047
non si riflette automaticamente, né tanto meno
nella stessa misura, sulla riduzione percentuale
della capacità lavorativa specifica e, quindi, di
guadagno della stessa (Cass. 23 agosto 2011, n.
17514). In tema di danno patrimoniale futuro,
ai fini della risarcibilità di quello conseguente
alla riduzione della capacità lavorativa specifica
(anche in caso di postumi permanenti acclarati), il giudice, oltre a dover accertare in quale
misura la menomazione fisica abbia inciso sulla
suddetta capacità (e, a sua volta, sulla capacità
di guadagno), è tenuto anche a verificare se
e in quale misura nel soggetto leso persista o
residui, dopo e malgrado l’infortunio patito,
una capacità ad attendere al proprio o ad altri
lavori confacenti alle sue attitudini nonché alle
sue condizioni personali e ambientali in modo
idoneo alla produzione di altre fonti di reddito,
in sostituzione di quelle perse o ridotte, e solo
nell’ipotesi in cui, in forza di detti complessivi
elementi di giudizio, risulti una riduzione della
capacità di guadagno e, in virtù di questa, del
reddito effettivamente percepito, tale ultima
diminuzione è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante (Cass. 21 aprile 2010, n. 9444). Il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da
lucro cessante non può farsi discendere in modo
automatico dall’accertamento dell’invalidità
permanente, poiché esso sussiste solo se tale
invalidità abbia prodotto una riduzione della
capacità lavorativa specifica; inoltre, pur essendo ammesso il ricorso alla prova presuntiva,
trattandosi di danno futuro, occorre che sia certa o almeno altamente probabile la riduzione di
capacità di lavoro specifica, spettando al giudice del merito valutarne in concreto l’incidenza,
sulla scorta delle allegazioni e dei congruenti
riscontri forniti dal danneggiato (13687/2012).
u  Il professionista sanitario ha l’obbligo di
fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento
chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve
sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un
modulo non generico, dal quale sia possibile
desumere con certezza l’ottenimento in modo
esaustivo da parte del paziente di dette informazioni (18334/2013).
2047. Danno cagionato dall’incapace. – In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere (428;
85 c.p.), il risarcimento è dovuto da chi è
tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il
fatto (20483).
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2047
Nel caso in cui il danneggiato non abbia
potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle
parti, può condannare l’autore del danno a
un’equa indennità (8432, 924, 925, 1038,
1053, 1328, 2045).
La regola vuole che la responsabilità per fatto
illecito sia dovuta a fatto proprio (responsabilità
diretta), posto che ogni individuo risponde delle conseguenze dannose provocate dalla propria
condotta. Esistono, però, dei casi particolari in
cui la legge obbliga talune persone a rispondere
del danno cagionato per fatto altrui (responsabilità indiretta). In altri termini, nei loro confronti
la legge stabilisce una presunzione di colpa relativa (perché è ammessa prova liberatoria) per
mancata sorveglianza.
Il codice disciplina la materia nell’articolo in
commento, nei due successivi e al terzo comma
dell’art. 2054 relativi, rispettivamente, alla responsabilità:
- delle persone tenute alla sorveglianza di un
incapace naturale: se il danno è provocato da un
soggetto non imputabile, obbligato al risarcimento è colui il quale doveva sorvegliarlo (esempio).
Il soggetto tenuto alla sorveglianza dell’incapace
può, in ogni caso, liberarsi dalla responsabilità dimostrando di non aver potuto impedire il fatto;
- dei genitori e dei tutori [2048 comma 1]:
questi rispondono dei danni provocati dall’atto illecito compiuto dai figli minori di età non
emancipati o delle persone soggette a tutela che
abitano con essi, salvo che non provino di non
aver potuto impedire il fatto;
- dei precettori e dei maestri d’arte [2048
comma 2]: questi rispondono dei danni provocati
dall’atto illecito compiuto dai loro allievi o apprendisti, salvo che non provino di non aver potuto impedire il fatto. Sul punto la Cassazione è
intervenuta sottolineando che gli atti illeciti ascrivibili all’inadeguato espletamento della vigilanza
sugli allievi da parte del personale docente sono
direttamente riferibili al Ministero della pubblica
istruzione, posto che l’art. 28 della Costituzione
estende la responsabilità dei funzionari allo Stato
in virtù del rapporto di immedesimazione organica (così Cassazione n. 9752 del 2005);
- del dipendente in solido [2049]: con cui,
ovvero del quale, risponde il proprio datore di
lavoro;
CODICE CIVILE
- del conducente di veicolo [2054 comma 3]:
col quale risponde in solido il proprietario, l’usufruttuario, l’acquirente con patto di riservato dominio, l’utilizzatore del mezzo in leasing.
Alessia, baby-sitter del piccolo Davide, si distrae per rispondere al telefono e questo, senza
perdere un solo momento, va alla finestra e butta
giù il vaso di fiori poggiato sul davanzale, sfondando il tetto di un’auto in sosta.
u  La responsabilità del genitore, per il danno cagionato da fatto illecito del figlio minore,
trova fondamento, a seconda che il minore sia o
meno capace di intendere e volere al momento
del fatto, rispettivamente nell’art. 2048 c.c., in
relazione ad una presunzione “iuris tantum”
di difetto di educazione ovvero nell’art. 2047
c.c., in relazione ad una presunzione “iuris tantum” di difetto di sorveglianza e di vigilanza.
Le indicate ipotesi di responsabilità presunta,
pertanto, sono alternative - e non concorrenti
- tra loro, in dipendenza dell’accertamento,
in concreto, dell’esistenza di quella capacità
(2606/1997, rv 503228).
u  Ai fini della responsabilità di cui all’art.
2047 c.c., per il danneggiato è sufficiente dimostrare che l’incapace di intendere o volere ha
cagionato il fatto dannoso al di fuori della sfera
di sorveglianza del soggetto ad essa obbligato,
mentre incombe su questi dimostrare che tale
fatto si sarebbe comunque verificato anche se
la sorveglianza fosse stata esercitata, e quindi
che non vi è nesso di causalità tra l’omissione di
essa e il fatto dannoso (5485/1997, rv 505301).
u  Ai fini della responsabilità civile ex art.
2047 c.c. per danni cagionati da persone incapaci di intendere e di volere, il giudice non può
limitarsi a tener presente l’età dell’autore del
fatto ma deve anche considerarne lo sviluppo
intellettivo, quello fisico, l’assenza di eventuali
malattie ritardanti, la forza del carattere, la capacità del minore di rendersi conto della illiceità della sua azione e la capacità del volere con
riferimento all’attitudine di autodeterminarsi
(8740/2001, rv 547754).
u  La presunzione di responsabilità di cui all’art. 2047 c.c., posta a carico di chi è tenuto alla
sorveglianza dell’incapace, non è applicabile al
caso di danni che l’incapace abbia causato a se
stesso (11245/2003, rv 565254).
u  Va respinta l’azione proposta nei confronti della società organizzatrice di una festa
di ballo, da un soggetto, per le lesioni ricevute
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
a seguito di una caduta durante il corso della
festa, alla quale ha partecipato previo acquisto del relativo biglietto, mentre danzava, per
effetto del violento urto subito da un bambino
che correva incontrollato sulla pista da ballo,
dovendo escludersi la sussistenza nel caso “de
quo” delle ipotesi di responsabilità oggettiva
previste dal codice civile in tema di fatto illecito, ed in particolare quelle di cui agli art. 2051
e 2050, c.c., non potendosi evidentemente attribuire all’organizzazione di un ballo ricreativo
(si trattava di una festa) il carattere di attività
pericolosa, e nel caso in esame, non sussistendo
comunque un fatto od un’azione dannosa del
convenuto né il nesso eziologico di causalità
che lega il fatto al danno scaturito, e tantomeno, l’imputabilità soggettiva di chi si assume essere il responsabile dell’azione dannosa. Infatti
è evidente che l’azione dannosa nel caso di specie, sia da attribuire in via esclusiva al bambino
che, sfuggito al controllo di chi nell’occasione lo
aveva in custodia, ha urtato l’attore facendolo
cadere, ragione per cui alcuna responsabilità
può essere attribuita alla società convenuta
quale organizzatrice della manifestazione, in
quanto ad essa non competeva certo il controllo
delle condotte dei minori che accedevano allo
stabilimento ove si svolgeva la manifestazione,
così come normalmente consentito nelle feste
che si tengono presso i locali aperti al pubblico,
anche se tali condotte avessero assunto carattere violento o comunque tale da essere fonte di
pericolo per i terzi, atteso che per tali soggetti,
giuridicamente irresponsabili, la legge prevede
un obbligo di sorveglianza a carico dei genitori
ex art. 2048, c.c., o comunque di chi ne ha la
contingente sorveglianza ex art. 2047, c.c. (Trib.
Bari 14 gennaio 2010).
2048. Responsabilità dei genitori,
dei tutori, dei precettori e dei maestri
d’arte. – Il padre e la madre (316), o il tutore (357 ss.) sono responsabili del danno
(2056) cagionato dal fatto illecito dei figli
minori non emancipati (301, 316, 320) o
delle persone soggette alla tutela (343, 414),
che abitano con essi. La stessa disposizione
si applica all’affiliante (404 ss.).
I precettori e coloro che insegnano un
mestiere o un’arte sono responsabili del
danno cagionato dal fatto illecito dei loro
allievi e apprendisti (2130) nel tempo in cui
sono sotto la loro vigilanza.
2048
Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto (1900, 20471, 20541).
Rinviando al commento sub art. 2047 precedente occorre soltanto ribadire alcuni punti fondamentali dell’istituto in commento:
a) i criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti
dai figli minori consistono sia nel potere- dovere
di esercitare la vigilanza sul comportamento dei
figli stessi, in relazione al quale potere- dovere assume rilievo determinante il perdurare della coabitazione; sia anche e soprattutto nell’obbligo di
svolgere adeguata attività formativa, impartendo
ai figli l’educazione al rispetto delle regole della
civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e
nello svolgimento delle attività extrafamiliari;
b) la responsabilità dei genitori non può ritenersi esclusa per il solo fatto del temporaneo
allontanamento del minore dalla casa familiare,
qualora l’illecito da lui commesso consista nel
mancato rispetto delle regole di comportamento
vigenti nel contesto sociale, in termini tali da manifestare oggettive carenze dell’attività educativa
(così Cassazione n. 7050 del 2008).
c) che la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’articolo in commento di non aver potuto
impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore capace di intendere e di volere si concreta,
normalmente, nella dimostrazione, oltre che di
aver impartito al minore un’educazione consona
alle proprie condizioni sociali e familiari, anche
di aver esercitato sullo stesso una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa.
La Suprema Corte ci ricorda che deve ritenersi presunta la culpa in educando dei genitori
qualora il fatto illecito commesso dal figlio minore sia di tale gravità da rendere evidente la sua
incapacità di percepire il disvalore della propria
condotta. I giudici di legittimità confermano il
ben noto principio per cui i genitori di un figlio
minorenne con essi convivente possono sottrarsi alla responsabilità di cui all’articolo in commento solo nel caso in cui dimostrino l’assenza
di una loro culpa in educando e in vigilando, con
la precisazione, però, che in talune fattispecie è
possibile ritenere in re ipsa la culpa in educando e pertanto non è sufficiente limitarsi ad una
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2048
allegazione generica bensì è necessario fornire
una prova specifica e rigorosa sulla correttezza
dell’educazione impartita. In particolare i genitori sono solidalmente responsabili nei riguardi
dei parenti della vittima di un sinistro stradale
causato dal loro figlio minorenne mentre era alla
guida di un ciclomotore, non avendo alcun rilievo il fatto che egli fosse prossimo al compimento della maggiore età al momento dell’incidente.
Affinché i genitori del minore possano escludere
la loro responsabilità è infatti necessario che essi dimostrino di essere esenti non solo da “culpa
in vigilando”, ma anche da “culpa in educando”
(il cui fondamento deve rinvenirsi nell’art. 147
c.c.), dovendo rigorosamente provare l’efficacia
del loro impegno educativo. In assenza di tale
prova, che non può ridursi all’espressione di un
giudizio, rimane ferma - come detto - la presunzione di responsabilità dei genitori per il fatto illecito del figlio minorenne sancita dall’articolo
in oggetto (nella specie, il mancato adempimento
dell’obbligo educativo era stato dedotto dalla pacifica circostanza che il minore, al momento del
sinistro, non indossava il casco protettivo) (così
Cassazione n. 9556 del 2009).
Per quel che concerne l’onere probatorio dell’insegnante e dell’amministrazione scolastica
sappiamo che i precettori e coloro che insegnano
un mestiere o un’arte sono responsabili del danno
cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Anche per tale categoria di soggetti opera
l’esimente da responsabilità di cui al terzo comma
della norma in commento, soltanto se provano di
non aver potuto impedire il fatto. La responsabilità di cui al secondo comma, dunque, si differenzia radicalmente da quella di cui al primo comma,
sia quanto a presupposti richiesti ex lege, sia per
la circoscrizione della relativa efficacia alle sole
ipotesi in cui il fatto illecito dell’allievo scaturisca
dalla omissione di vigilanza, e non anche da un difetto di educazione di cui possono rispondere soltanto i genitori. La disposizione suddetta, infine,
presuppone anch’essa (al pari del primo comma)
la capacità di intendere e di volere dell’allievo (altrimenti troverebbe applicazione l’art. 2047); ed è
ormai pacifico, nel silenzio del legislatore, che la
norma operi soltanto nei confronti dei soggetti minori di età, nell’ottica del tempo in cui essa è sorta,
dove il precettore era concepito come il “continuatore dell’autorità paterna sull’allievo”.
Con riguardo al secondo comma si è posto il
problema del fondamento e della natura della re-
CODICE CIVILE
sponsabilità, laddove le soluzioni hanno oscillato
tra la tesi della culpa in vigilando (diretta) e quella della responsabilità per fatto altrui (indiretta).
La giurisprudenza maggioritaria è ormai nel senso di inquadrare la responsabilità dell’insegnante
in termini di responsabilità diretta per omissione dell’obbligo di vigilanza su di lui incombente. Il soggetto danneggiato, pertanto, sollevato
dall’onere di provare il dolo o la colpa dell’insegnante, dovrà dimostrare soltanto gli elementi oggettivi dell’illecito, vale a dire la condotta antigiuridica ed il nesso di causalità tra il fatto e l’evento
dannoso. Trattandosi di una presunzione relativa,
poi, il soggetto chiamato a rispondere dell’illecito
dell’allievo o apprendista, potrà esimersi da tale
responsabilità soltanto provando di non aver potuto impedire il fatto. Il concetto di impossibilità
di impedire il fatto, in punto di prova liberatoria, è
stato enucleato dalla giurisprudenza: l’insegnante risponde salvo che dimostri di aver esercitato
un’adeguata vigilanza sugli alunni, in relazione
alle condizioni dei luoghi, all’età ed al grado di
maturazione degli stessi e di non aver potuto impedire l’evento dannoso per la sua repentinità ed
imprevedibilità, tali da non consentirgli un tempestivo ed efficace intervento (ciò, qualora sia
presente all’evento). In caso di assenza - e sempre
che l’assenza sia giustificata - la dottrina richiede
la prova che l’attività svolta dagli studenti non sia
per loro pericolosa, avuto riguardo all’età ed alla
maturità media che si poteva pretendere.
Non poche pronunce, tuttavia hanno richiesto
il ricorrere di un quid pluris, escludendo l’operare della esimente della imprevedibilità, di fronte
alla mancanza nella struttura pubblica delle “più
elementari misure organizzative per mantenere la
disciplina”. A questa impostazione mostra di aderire anche la giurisprudenza di legittimità. “Per
superare la presunzione di responsabilità che grava sull’insegnante per il fatto illecito dell’allievo, non è sufficiente la sola dimostrazione di non
essere stato in grado di spiegare un intervento
correttivo e repressivo, dopo l’inizio della serie
causale sfociante nella produzione del danno, ma
è necessario anche dimostrare di aver adottato,
in via preventiva, tutte le misure disciplinari o
organizzative idonee ad evitare il sorgere di una
situazione di pericolo favorevole al determinarsi
di detta serie causale” (così Cassazione n. 4542
del 2009). Invero la dottrina ha fortemente criticato tale approccio interpretativo, sia perché la
prova liberatoria deve essere riportata alla figura
dell’insegnante e solo a quella; sia perché si ri-
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
schia di confondere il profilo della responsabilità
dell’insegnante, con quello, più strettamente processualistico, della possibilità per quest’ultimo
di chiamare in causa il Ministero competente (a
norma dell’art. 61, L. 312/1980).
L’appena citata pronuncia affronta anche quest’ultimo aspetto, relativamente alla prova liberatoria che incombe sulla pubblica amministrazione
chiamata in causa. Va innanzitutto precisato che
l’applicazione del secondo comma anche alla
pubblica amministrazione non è stato così scontato, soprattutto a seguito dell’introduzione dell’art. 61 della legge 312/1980 cit., in base al quale
“1. La responsabilità patrimoniale del personale
direttivo, docente, educativo e non docente della
scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato e delle istituzioni educative statali per i danni arrecati direttamente all’Amministrazione in connessione a comportamenti degli
alunni è limitata ai casi di dolo o colpa grave
nell’esercizio della vigilanza sugli alunni stessi. 2. La limitazione di cui al comma precedente
si applica anche alla responsabilità del predetto
personale verso l’Amministrazione che risarcisca
il terzo dei danni subiti per comportamenti degli
alunni sottoposti alla vigilanza. Salvo rivalsa nei
casi di dolo o colpa grave, l’Amministrazione si
surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse
da terzi”. All’indomani dell’entrata in vigore della legge, si riteneva che la norma de qua, oltre a
sancire il difetto di legittimazione dell’insegnante
statale nel giudizio risarcitorio promosso dal terzo
danneggiato, avesse altresì introdotto una deroga
al secondo comma dell’articolo in commento, sia
pure limitatamente alla responsabilità civile degli
insegnanti statali per i fatti illeciti commessi dagli allievi. Con la conseguenza che nei confronti dei docenti pubblici e, per essi, della pubblica
amministrazione nelle vesti del Ministero della
pubblica istruzione, il danneggiato non potesse
più invocare la presunzione di culpa in vigilando,
dovendo viceversa dimostrare il dolo o la colpa
grave dell’insegnante. La giurisprudenza sistematicamente scardinato simile impostazione, sia
in virtù dei mutamenti subiti dal concetto stesso
di pubblica amministrazione, depurata da quella
prerogativa di intangibilità e di incontrastata superiorità rispetto al comune cittadino; ma anche
per merito delle evoluzioni giurisprudenziali in
tema di responsabilità contrattuale, segnate dall’avvento della c.d. responsabilità da contatto sociale nei confronti di enti ed istituti pubblici.
2048
La sentenza 4542 del 2009 citata accoglie
in pieno tale rinnovato approccio interpretativo
e sostiene che è orientamento giurisprudenziale
costante che, in tema di responsabilità dell’amministrazione scolastica ex art. 61 della legge n.
312 del 1980, sul danneggiato incombe l’onere
di provare soltanto che il danno è stato cagionato
al minore durante il tempo in cui lo stesso era
sottoposto alla vigilanza del personale scolastico,
il che é sufficiente a rendere operante la presunzione di colpa per inosservanza dell’obbligo di
sorveglianza, mentre spetta all’amministrazione
scolastica dimostrare di aver esercitato la sorveglianza sugli allievi con diligenza idonea ad impedire il fatto. La valutazione circa il raggiungimento o meno della prova liberatoria, da parte
di detta amministrazione, attiene al merito della
vicenda ed è, pertanto, insindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivata.
Più di recente la stessa giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di sottolineare che, nel
caso di danno cagionato dall’alunno a se stesso, la
responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che - quanto all’istituto scolastico
- l’accoglimento della domanda di iscrizione, con
la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità
dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della
prestazione scolastica in tutte le sue espressioni,
anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno
a se stesso; e che - quanto al precettore dipendente dell’istituto scolastico - tra insegnante e allievo
si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume,
nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed
educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva che,
nelle controversie instaurate per il risarcimento
del danno da autolesione nei confronti dell’istituto scolastico e dell’insegnante, è applicabile il
regime probatorio desumibile dall’art. 1218, sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si
è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato
da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (così Cassazione n. 5067 del 2010). E,
ancora, che sussiste responsabilità per “culpa in
vigilando” nei confronti di una maestra di scuola
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2048
materna per i danni subiti da un bambino lasciato incustodito mentre si trova in bagno. La particolare fascia d’età di questi bambini (da 3 a 6
anni) li rende inconsapevoli di valutare eventuali
“pericoli” e ciò, quindi, rende ancora più stringente l’obbligo di vigilanza da parte delle maestre
che, per non lasciarli incustoditi, possono anche
avvalersi di personale scolastico non docente. Il
ministero dell’Istruzione, in qualità di responsabile della condotta negligente dell’insegnante, è
tenuto, pertanto, al risarcimento dei danni subiti
dal minore (nella specie, la Corte ha confermato
la condanna al risarcimento inflitta al ministero
dell’Istruzione per i danni riportati da una bambina di tre anni che aveva subito un infortunio
mentre era andata in bagno. La piccola era stata
accompagnata dalla maestra ma, poi, era stata lasciata sola perché l’insegnante era dovuta tornare
in classe per occuparsi degli altri bambini) (così
Cassazione n. 9906 del 2010).
u  La responsabilità dell’insegnante per il
fatto illecito dei suoi allievi, previsto dall’art.
2048, secondo comma, c.c., si basa su una colpa
presunta, cioè sulla presunzione di negligente
adempimento dell’obbligo di sorveglianza degli
allievi, ed è quindi responsabilità personale per
colpa propria (presunta) e per fatto altrui. Detta
colpa, peraltro, quando si tratti di allievo minore,
può riguardare anche il danno che lo stesso allievo ha procurato a se stesso con la sua condotta,
in quanto l’obbligo di vigilanza dell’insegnante è
posto anche a tutela dei minori a lui affidati, fermo restando la dimostrazione di non aver potuto
impedire il fatto (8390/1995, rv 493506).
u  In tema di responsabilità dei genitori per
i danni cagionati dall’illecito del figlio minore,
ove manchi, da parte dei primi, la prova liberatoria di non avere potuto impedire il comportamento dannoso e cioè la dimostrazione di avere
impartito al minore l’educazione e l’istruzione
consone alle proprie condizioni familiari e sociali e di avere vigilato sulla sua condotta, così
da non potersi configurare a loro carico una
“culpa in educando” o “in vigilando”, i genitori
medesimi sono obbligati a risarcire i detti danni
nella stessa misura con cui tale obbligazione
graverebbe sull’autore materiale dell’illecito
e, quindi, nel caso sussistano le condizioni, anche al risarcimento dei danni non patrimoniali
(540/1997, rv 501864).
u  I maestri ed i precettori rispondono, ex art.
2048 c.c., sia dei danni arrecati, sia dei danni subiti dai minori loro affidati (6331/1998, rv 516766).
CODICE CIVILE
u  L’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il
fatto illecito dal suddetto commesso, può esser
ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle
modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai
sensi dell’art. 147 c.c. (7270/2001, rv 547081).
u  I genitori sono solidalmente responsabili
nei riguardi dei parenti della vittima di un
omicidio commesso dal loro figlio minorenne,
ancorché prossimo al compimento della maggiore età al momento del fatto. Tale responsabilità va ravvisata non in un difetto di vigilanza,
data l’età del figlio, ma nell’inadempimento
dei doveri di educazione e di formazione della
personalità del minore, in termini tali da consentirne l’equilibrato sviluppo psicoemotivo, la
capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli
altri e tutto ciò in cui si estrinseca la maturità
personale. Correttamente il giudice del merito
può desumere il grado di educazione dal comportamento del minore, quando esso manifesti
un fallimento educativo quanto alla capacità di
frenare i propri istinti o di incanalarli in modalità
espressive meno gravi e violente (18804/2009).
u  Va respinta l’azione proposta nei confronti della società organizzatrice di una festa
di ballo, da un soggetto, per le lesioni ricevute
a seguito di una caduta durante il corso della
festa, alla quale ha partecipato previo acquisto del relativo biglietto, mentre danzava, per
effetto del violento urto subito da un bambino
che correva incontrollato sulla pista da ballo,
dovendo escludersi la sussistenza nel caso “de
quo” delle ipotesi di responsabilità oggettiva
previste dal codice civile in tema di fatto illecito, ed in particolare quelle di cui agli art. 2051
e 2050, c.c., non potendosi evidentemente attribuire all’organizzazione di un ballo ricreativo
(si trattava di una festa) il carattere di attività
pericolosa, e nel caso in esame, non sussistendo
comunque un fatto od un’azione dannosa del
convenuto né il nesso eziologico di causalità
che lega il fatto al danno scaturito, e tantomeno, l’imputabilità soggettiva di chi si assume essere il responsabile dell’azione dannosa. Infatti
è evidente che l’azione dannosa nel caso di specie, sia da attribuire in via esclusiva al bambino
che, sfuggito al controllo di chi nell’occasione lo
aveva in custodia, ha urtato l’attore facendolo
cadere, ragione per cui alcuna responsabilità
può essere attribuita alla società convenuta
quale organizzatrice della manifestazione, in
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quanto ad essa non competeva certo il controllo
delle condotte dei minori che accedevano allo
stabilimento ove si svolgeva la manifestazione,
così come normalmente consentito nelle feste
che si tengono presso i locali aperti al pubblico,
anche se tali condotte avessero assunto carattere violento o comunque tale da essere fonte di
pericolo per i terzi, atteso che per tali soggetti,
giuridicamente irresponsabili, la legge prevede
un obbligo di sorveglianza a carico dei genitori
ex art. 2048, c.c., o comunque di chi ne ha la
contingente sorveglianza ex art. 2047, c.c. (Trib.
Bari 14 gennaio 2010).
u  Se il soggetto incapace, che cade sotto
l’obbligo di vigilanza della scuola, commette
l’atto dannoso (uno sgambetto), la scuola non
può andare esente da responsabilità “essendo
prevedibili azioni impulsive ed aggressive dei
giovanetti” (4206/2010).
u  Nel caso di danno cagionato dall’alunno
a se stesso, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che
- quanto all’istituto scolastico - l’accoglimento
della domanda di iscrizione, con la conseguente
ammissione dell’allievo alla scuola, determina
l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di
vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo
nel tempo in cui questi fruisce della prestazione
scolastica in tutte le sue espressioni, anche al
fine di evitare che l’allievo procuri danno a se
stesso; e che - quanto al precettore dipendente
dell’istituto scolastico - tra insegnante e allievo si
instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume,
nel quadro del complessivo obbligo di istruire
ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l’allievo si
procuri da solo un danno alla persona. Ne deriva
che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti
dell’istituto scolastico e dell’insegnante, è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art.
1218 c.c., sicché, mentre l’attore deve provare
che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe
l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è
stato determinato da causa non imputabile né
alla scuola né all’insegnante (5067/2010).
u  Posto che la responsabilità dell’istituto
scolastico e dell’insegnante in caso di danno
cagionato dall’alunno, anche a sé stesso, ha natura contrattuale, il Ministero dell’istruzione, in
quanto responsabile della condotta negligente
dell’insegnante, è tenuto al risarcimento dei
2049
danni subiti dal minore, salvo rivalsa nei casi di
dolo o colpa grave (9906/2010).
u  In tema di responsabilità dell’istituto scolastico dal momento dell’iscrizione dell’alunno
deriva, a carico dell’istituto, l’obbligazione di
vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo
nel tempo in cui questi fruisce della prestazione
scolastica in tutte le sue espressioni. Quindi,
anche l’obbligo di vigilare, predisponendo gli
accorgimenti necessari a seconda della conformazione dei luoghi, affinché nei locali scolastici
non si introducano terzi (persone o animali) che
possano arrecare danni agli alunni. Ne deriva
che, nelle controversie per il risarcimento del
danno da lesioni provocate dall’aggressione di
un cane incustodito, nei locali e pertinenze messi
a disposizione dalla scuola, l’attore deve provare
che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l’amministrazione
ha l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è
stato determinato da causa non imputabile, essendo stati predisposti gli accorgimenti idonei a
impedire l’accesso a terzi (3680/2011).
u  In materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad infortunio subito da
studente all’interno di struttura scolastica durante
le ore di educazione fisica nel corso di una partita
di calcio (o, come nella specie, di calcetto), ai fini
della configurabilità della responsabilità a carico
della scuola ex art. 2048 c.c. non è sufficiente il
solo fatto di aver incluso nel programma della
suddetta disciplina e fatto svolgere tra gli studenti una gara sportiva, ma è altresì necessario a)
che il danno sia conseguenza del fatto illecito di
un altro studente impegnato nella gara e b) che
la scuola non abbia predisposto tutte le misure
idonee a evitare il fatto (16261/2012).
2049. Responsabilità dei padroni
e dei committenti. – I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati
dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui
sono adibiti (1900, 2048).
L’articolo in commento contiene la prima di
una serie di norme qualificabili come eccezioni
alla regola generale in base alla quale elemento essenziale della responsabilità civile è quello
soggettivo. Infatti, in alcuni casi espressamente
previsti dalla legge, la responsabilità civile può
sussistere a prescindere da comportamenti dolosi
o colposi del soggetto: si tratta della cosiddetta
responsabilità oggettiva.
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2049
Qui il soggetto è piuttosto considerato responsabile in ragione del rischio che deve sostenere:
- chi svolge determinate attività (di solito pericolose);
- chi fa ausilio della collaborazione di altri
per lo svolgimento di una determinata attività;
- chi dispone di beni che potenzialmente possono arrecare danno ad altri.
In tali ipotesi sarà, in pratica, sufficiente dimostrare il nesso di causalità (oggettivo) che lega l’azione all’evento dannoso, senza necessità
di dover dimostrare né la colpa né il dolo.
Per quel che concerne l’onere della prova,
occorre precisare:
a) in ambito di responsabilità oggettiva
il danneggiato non è tenuto a dare prova della
colpa dell’altro soggetto, dovendosi limitare a
dimostrare di aver subito un danno e che questo sia stato prodotto da una causa riconducibile
ad un caso di responsabilità oggettiva; incombe,
piuttosto, in capo all’autore del danno provare la
sussistenza di una delle ipotesi liberatorie da responsabilità;
b) la prova liberatoria può essere:
- esclusa (come per il fatto illecito causato dai
dipendenti);
- ammessa per chi dimostra di aver fatto tutto il
possibile per evitare il danno o per caso fortuito.
Le figure tipiche di responsabilità oggettiva
sono:
a) responsabilità per danni provocati dai dipendenti. Padroni e committenti rispondono per
i danni cagionati dall’atto illecito dei loro dipendenti nell’esercizio dei compiti cui sono adibiti.
È forse l’ipotesi più grave di responsabilità oggettiva, posto che al soggetto su cui ricade non è
concessa prova liberatoria. Nel caso di specie la
responsabilità ricorre allorché:
- l’autore del danno sia lavoratore subordinato;
- l’autore del danno abbia procurato sofferenza a terzi a causa di un suo comportamento doloso o colposo;
- la condotta dolosa o colposa sia stata determinata nell’esercizio delle proprie funzioni
(esempio);
b) responsabilità per danni provocati da prodotti difettosi (D.Lgs. n. 206 del 2005). Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti
del suo prodotto (ossia ogni bene mobile, anche
se incorporato in altro bene mobile o immobile,
nonché l’elettricità).
CODICE CIVILE
Quando il produttore non è individuato, alla
stessa responsabilità soggiace il fornitore che abbia distribuito il prodotto nell’esercizio di un’attività commerciale, se ha omesso di comunicare
al danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla
richiesta, l’identità e il domicilio del produttore
o della persona che gli ha fornito il prodotto. La
richiesta deve essere fatta per iscritto e deve indicare il prodotto che ha cagionato il danno, il luogo e, con ragionevole approssimazione, la data
dell’acquisto; deve inoltre contenere l’offerta in
visione del prodotto, se ancora esistente.
Un prodotto è difettoso quando non offre la
sicurezza che ci si può legittimamente attendere
tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui:
- il modo in cui il prodotto è stato messo in
circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;
- l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in
relazione ad esso, si possono ragionevolmente
prevedere;
- il tempo in cui il prodotto è stato messo in
circolazione.
Un prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato in qualunque tempo messo in
commercio. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri
esemplari della medesima serie.
La responsabilità è esclusa:
- se il produttore non ha messo il prodotto in
circolazione;
- se il difetto che ha cagionato il danno non
esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione;
- se il produttore non ha fabbricato il prodotto
per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, nè lo ha fabbricato o distribuito nell’esercizio della sua attività professionale;
- se il difetto è dovuto alla conformità del
prodotto a una norma giuridica imperativa o a un
provvedimento vincolante;
- se lo stato delle conoscenze scientifiche e
tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso;
- nel caso del produttore o fornitore di una
parte componente o di una materia prima, se il
difetto è interamente dovuto alla concezione del
prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che la ha utilizzata.
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
Il danneggiato deve provare il difetto, il danno, e la connessione causale tra difetto e danno.
Il produttore deve provare i fatti che possono
escludere la responsabilità. Ai fini dell’esclusione da responsabilità è sufficiente dimostrare che,
tenuto conto delle circostanze, è probabile che il
difetto non esistesse ancora nel momento in cui il
prodotto è stato messo in circolazione.
Se più persone sono responsabili del medesimo danno, tutte sono obbligate in solido al risarcimento. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro gli altri nella misura determinata
dalle dimensioni del rischio riferibile a ciascuno,
dalla gravità delle eventuali colpe e dalla entità
delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio la ripartizione avviene in parti uguali. Nelle
ipotesi di concorso del fatto colposo del danneggiato il risarcimento si valuta secondo le disposizioni dell’articolo 1227. Il risarcimento non è
dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne
derivava e nondimeno vi si sia volontariamente
esposto. Nell’ipotesi di danno a cosa, la colpa
del detentore di questa è parificata alla colpa del
danneggiato.
È risarcibile:
- il danno cagionato dalla morte o da lesioni
personali;
- la distruzione o il deterioramento di una cosa
diversa dal prodotto difettoso, purché di tipo normalmente destinato all’uso o consumo privato e
così principalmente utilizzata dal danneggiato.
Il danno a cose è risarcibile solo nella misura
che ecceda la somma di 387 euro.
È nullo qualsiasi patto che escluda o limiti
preventivamente, nei confronti del danneggiato,
la responsabilità prevista dalla legge.
Il diritto al risarcimento si prescrive in tre
anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o
avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del
difetto e dell’identità del responsabile. Nel caso
di aggravamento del danno, la prescrizione non
comincia a decorrere prima del giorno in cui il
danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l’esercizio di un’azione giudiziaria.
Il diritto al risarcimento si estingue alla scadenza di dieci anni dal giorno in cui il produttore
o l’importatore nella Unione europea ha messo in
circolazione il prodotto che ha cagionato il danno. La decadenza è impedita solo dalla domanda
giudiziale, salvo che il processo si estingua, dalla
domanda di ammissione del credito in una proce-
2049
dura concorsuale o dal riconoscimento del diritto
da parte del responsabile. L’atto che impedisce la
decadenza nei confronti di uno dei responsabili
non ha effetto riguardo agli altri.
Tali disposizioni non si applicano ai danni
cagionati dagli incidenti nucleari previsti dalla
legge 31 dicembre 1962, n. 1860, e successive
modificazioni, nonché ai prodotti messi in circolazione prima del 30 luglio 1988.
c) responsabilità per danni provocati dall’esercizio di attività pericolose [➠2050];
d) responsabilità per danni provocati da cose
in custodia [➠2051];
e) responsabilità per danni provocati da animali [➠2052];
f) responsabilità per danni provocati da rovina di edifici [➠2053];
g) responsabilità per danni provocati dalla
circolazione dei veicoli [➠2054];
h) responsabilità per danni provocati da
incidenti dipendenti dall’impiego pacifico dell’energia nucleare (art. 15, L. n. 1860 del 1962):
“l’esercente di un impianto nucleare è responsabile […] di ogni danno alle persone o alle cose
causato da un incidente nucleare avvenuto nell’impianto nucleare o connesso con lo stesso”;
i) responsabilità per danni provocati all’ambiente (art. 311, D.Lgs. n. 152 del 2006): “Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di
legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza
o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza,
al risarcimento per equivalente patrimoniale nei
confronti dello Stato”;
l) responsabilità per danni provocati dal trattamento dei dati personali (art. 15, D.Lgs. n. 196 del
2003): “chiunque cagiona danno ad altri per effetto
del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche
nei casi di violazione delle regole inerenti le modalità di trattamento e requisiti dei dati personali.
Se un operaio, per negligenza, lascia cadere
un attrezzo da un’impalcatura ferendo un passante, sarà la ditta per cui lavora responsabile del
danno subìto da quest’ultimo.
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2049
u  La
responsabilità indiretta di cui all’art.
2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un
dipendente, postula l’esistenza di un rapporto
di lavoro ed un collegamento tra fatto dannoso del dipendente stesso e mansioni da questi
espletate, senza che sia, all’uopo, richiesta la
prova di un vero e proprio nesso di causalità,
risultando sufficiente, viceversa, l’esistenza di
un rapporto di cosiddetta “occasionalità necessaria”, da intendersi nel senso che l’incombenza
svolta abbia determinato una situazione tale da
agevolare e rendere possibile il fatto illecito e
l’evento dannoso, e ciò anche se il dipendente
abbia operato oltre i limiti delle sue competenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti,
purché sempre entro l’ambito delle proprie
mansioni (6970/2001, rv 546883).
u  La responsabilità extracontrattuale di cui
all’art. 2049 c.c., essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito e il proprio
datore di lavoro e sul collegamento dell’illecito
stesso con le mansioni svolte dal dipendente,
prescinde del tutto da una “culpa in eligendo
o in vigilando” del datore di lavoro ed è quindi
insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa, con la conseguenza che l’accertamento della non colpevolezza del datore di
lavoro compiuto dal giudice penale non vale ad
escluderla (8381/2001, rv 547593).
u  In tema di responsabilità della pubblica
amministrazione, per l’affermazione della responsabilità indiretta del ministero per il danno
arrecato dal fatto illecito di un agente di polizia
di Stato commesso ai sensi dell’articolo 2049 c.c.
è sufficiente che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra l’illecito stesso e il rapporto che
lega i due soggetti, nel senso che le mansioni
o le incombenze affidate al secondo abbiano
reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno, mentre rimane
irrilevante che tale comportamento si ponga in
modo autonomo nell’ambito dell’incarico ovvero abbia addirittura ecceduto i limiti di esso
(Trib. Milano 28 ottobre 2006).
u  In tema di responsabilità della pubblica
amministrazione il dolo dell’agente di polizia
nel compiere il fatto dannoso non esclude il
rapporto di occasionalità necessaria con le mansioni affidategli, da intendersi nel senso che l’illecito è stato reso possibile o comunque agevolato dal rapporto di lavoro con il ministero, che
pertanto ne risponde ai sensi dell’articolo 2049
del codice civile (Trib. Milano 28 ottobre 2006).
CODICE CIVILE
u  Nel caso che un dipendente della Pubblica Amministrazione abbia commesso un atto
illecito e si accerti che ciò è avvenuto in quanto
i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune
per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello
predetto (vigilando poi sull’applicazione delle
direttive medesime), vi è responsabilità diretta
della P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori (864/2008).
u  Una volta assodato che nella fattispecie
concreta la predetta emanazione rientrava tra
i compiti di chi aveva funzioni dirigenziali nella
struttura amministrativa, sussiste sia la riferibilità
di tale atto alla stessa P.A., sia l’esistenza di un
rapporto di causalità tra il comportamento omissivo di detti superiori e l’evento dannoso in base
al principio secondo cui “causa causae est causa
causati”, qualora nella fattispecie concreta, senza l’omissione in questione, non vi sarebbe stato
l’atto illecito del dipendente subordinato direttamente produttivo del danno (864/2008).
u  Ai fini della responsabilità indiretta del
datore di lavoro per il danno arrecato dal fatto
illecito del dipendente, a norma dell’art. 2049
c.c., il rapporto di “occasionalità necessaria” tra
l’illecito ed il rapporto datore di lavoro-dipendente sussiste anche qualora il dipendente abbia
ecceduto i limiti delle sue mansioni o incombenze, finanche trasgredendo gli ordini ricevuti,
sempre che egli abbia perseguito finalità coerenti con quelle in vista delle quali le mansioni o
incombenze gli furono affidate. La responsabilità
indiretta del committente di cui all’art 2049 c.c.
per il fatto dannoso commesso da un dipendente
postula l’esistenza di un nesso di “occasionalità
necessaria” tra l’illecito e il rapporto di lavoro che
vincola i due soggetti, nel senso che le mansioni
affidate al dipendente abbiano reso possibile o
comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo (6632/2008).
u  Ai fini della configurabilità della responsabilità indiretta del datore di lavoro ex art. 2049
c.c., non è necessario che fra le mansioni affidate e l’evento sussista un nesso di causalità, essendo invece sufficiente che ricorra un semplice
rapporto di occasionalità necessaria, nel senso
che l’incombenza affidata deve essere tale da
determinare una situazione che renda possibile,
o anche soltanto agevoli, la consumazione del
fatto illecito e, quindi, la produzione dell’evento dannoso, anche se il lavoratore abbia operato
oltre i limiti dell’incarico e contro la volontà del
committente o abbia agito con dolo, purché
nell’ambito delle sue mansioni (1530/2010).
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
u  L’art. 2049 c.c. è una fattispecie di responsabilità prevista a favore dei terzi (cioè, è
una norma che opera verso l’esterno), non operando, invece, nel rapporto interno tra committente e preposto nel caso di danno provocato
all’uno e/o all’altro (6528/2011).
u  Ai sensi dell’art. 2049 c.c., gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul datore
di lavoro ove tra l’illecito ed il rapporto di lavoro
sussista quel nesso di occasionalità necessaria
che si riscontra ogni qual volta le mansioni del
dipendente abbiano reso possibile o agevolato
la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli
agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico,
e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi
o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando una
condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore (21724/2012).
2050. Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose. – Chiunque
cagiona danno ad altri nello svolgimento di
un’attività pericolosa, per sua natura o per
la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al
risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno
(1681, 2054) (1) (2).
(1) L’obbligo della assicurazione da responsabilità
per danni da circolazione è attualmente disposto per
i veicoli a motore senza guida di rotaie dall’art. 193
del codice della strada e dall’art. 122 del D.L.vo 7 settembre 2005, n. 209; per i natanti dall’art. 123 stesso
D.L.vo; e per i ciclomotori e le macchine agricole dall’art. 237 del codice della strada).
(2) Per l’indennizzo dei danni, in quanto conseguenti all’esercizio di attività pericolose, è obbligatoria l’assicurazione per responsabilità civile in materia
di caccia (L. 11 febbraio 1992, n. 157), di circolazione
di veicoli a motore e di natanti, di gare e competizioni
sportive di veicoli a motore.
L’articolo in argomento postula la sussistenza di un nesso causale tra l’esercizio dell’attività
stessa e l’evento dannoso (esempio).
Di regola sono considerate pericolose quelle
attività così qualificate da specifiche norme destinate a prevenire sinistri e a tutelare l’incolumità pubblica, ovvero quelle per le quali la pericolosità trova riscontro nella natura delle cose e dei
mezzi adoperati; mentre non possono considerarsi tali quelle nelle quali la pericolosità insorga
per fatti estranei. Ricordiamo, a riguardo:
2050
- le attività di somministrazione di energia
elettrica;
- il trasporto di combustibili;
- la produzione di gas in bombole;
- l’attività costruttiva nel settore edilizio;
- l’organizzazione di una gara motociclistica
su circuito aperto al pubblico;
- l’esecuzione di lavori sulla strada pubblica
(così Cassazione n. 7298 del 2003);
- l’organizzazione di una gara sportiva di bob
(così Cassazione n. 3528 del 2009).
Anche in tema di responsabilità presunta per
l’esercizio di attività pericolosa, il danneggiato
ha il solo onere di provare l’esistenza del nesso causale tra l’attività pericolosa ed il danno subìto; incombendo invece sull’esercente l’attività
pericolosa l’onere di provare di avere adottato
tutte le misure idonee a prevenire il danno.
Per quanto concerne più specificamente la responsabilità della P.A. la Cassazione (sent. n. 3130
del 2008) ha avuto modo di sottolineare che:
- la discrezionalità e la conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario dei criteri e
dei mezzi con i quali l’amministrazione realizza
e mantiene un’opera pubblica trovano un limite
nell’obbligo dell’amministrazione medesima di
osservare, a tutela dell’incolumità dei cittadini
e dell’integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e di regolamento disciplinanti quelle attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, con la conseguenza
che l’inosservanza di dette disposizioni e norme
comporta la responsabilità dell’amministrazione
per i danni arrecati a terzi;
- non è rilevante, per escludere la responsabilità dei danni prodotti dall’opera pubblica, la
congruità di quest’opera rispetto al fine pubblico
che essa deve soddisfare, ma la lesione dei diritti
dei terzi che essa abbia eventualmente prodotto
per l’assenza degli accorgimenti tecnici idonei ad
impedirla.
Il produttore/venditore di tabacchi esercita
un’attività pericolosa, per la ragione che i tabacchi, avendo quale unica destinazione il consumo
mediante il fumo, contengono in sé, per loro stessa natura e per la loro composizione bio-chimica, una potenziale carica di nocività, potendo dal
fumo derivare danno alla salute e, in molti casi,
il peggiore dei mali, il cancro al polmone (così
Corte Appello Roma n. 1015 del 2005).
La produzione e la vendita di tabacchi lavorati costituiscono attività pericolose ai sensi del-
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2050
l’art. 2050 c.c., poiché i tabacchi, avendo come
unica destinazione il consumo mediante il fumo,
contengono in sé una potenziale carica di nocività per la salute umana; ne consegue che, ove il
danneggiato abbia proposto una domanda risarcitoria - ai sensi dell’art. 2043 c.c. - nei confronti
del produttore-venditore di tabacco, viola l’art.
112 c.p.c. ed incorre nel vizio di ultrapetizione
il giudice che sostituisca a tale domanda quella,
nuova e diversa, di cui all’art. 2050 c.c., la quale integra un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
(Nella specie, l’originaria domanda risarcitoria
era fondata sul carattere ingannevole delle diciture Light e Extra Light apposte sulla confezione di una marca di sigarette) (così Cassazione n.
26516 del 2009).
u  La nozione di attività pericolosa di cui
all’art. 2050 c.c. postula che l’attività presenti
di per sé una notevole potenzialità di danno a
terzi, mentre un’attività normalmente innocua
ove diventi pericolosa per la condotta di chi
la esercita, comporta soltanto la responsabilità secondo la regola generale dell’art. 2043
(13530/1992, rv 480073).
u  Non costituisce attività pericolosa, ai sensi
dell’art. 2050 c.c., la gestione di un impianto
sciistico (6113/2000, rv 536456).
u  Incorre in responsabilità civile la società erogatrice di energia elettrica nelle ipotesi in cui si
verifichino interruzioni o limitazioni di fornitura
oppure sbalzi di frequenza o di tensione: trattasi
di una responsabilità discendente dall’esercizio
di attività pericolosa superabile solo offrendo la
prova liberatoria di cui all’art. 2050 c.c. a nulla
rilevando eventuali clausole di esonero della
responsabilità non debitamente introdotte nel
negozio sottoscritto dalle parti (11193/2007).
u  Dei danni causati dall’esercizio di attività
pericolosa svolta da un ente collettivo, pubblico
o privato, risponde sia l’ente in quanto tale,
sia la persona preposta in concreto all’esercizio dell’attività pericolosa. Pertanto dei danni
causati ad un infermiere dall’esposizione alle
radiazioni emanate da un apparecchio radiografico rispondono in solido sia la Asl, sia il suo
direttore sanitario (1966/2009).
u  L’attività di organizzazione di una gara
sportiva connotata secondo esperienza da elevata possibilità di incidenti dannosi, non solo
per chi vi assiste, ma anche per gli atleti, è da
riguardare come esercizio di attività pericolosa
ai sensi dell’art. 2050 c.c., ancorché in rapporto
agli atleti nella misura in cui li esponga a conseguenze più gravi di quelle che possono essere
CODICE CIVILE
prodotte dagli stessi errori degli atleti impegnati nella gara (3528/2009).
u  L’attività bancaria non può essere considerata attività pericolosa, di per sé od in relazione
alla natura dei mezzi adoperati, nei termini di
cui all’art. 2050 c.c., come si è venuta storicamente formando e come viene normalmente interpretata. L’attività bancaria può indubbiamente
sollecitare (più di altre) iniziative e comportamenti illeciti da parte di terzi, anche pericolosi
per l’incolumità altrui. Né si può escludere che
in futuro -con il moltiplicarsi del numero e della
potenzialità dannosa degli illeciti- possano essere elaborate regole peculiari e più ampie di
imputazione della responsabilità, a tutela degli
utenti dei servizi bancari. Ma, allo stato attuale, l’esercizio dell’attività bancaria si considera
mera occasione dell’esposizione a pericolo del
patrimonio od anche dell’incolumità fisica della
clientela; non invece la causa prima ed originaria dei corrispondenti rischi (3350/2009).
u  Qualora siano stati dimostrati in fatto il
furto di identità e l’utilizzazione da parte del
reo di un documento altrui in nulla alterato o
modificato, da cui sia derivata l’emissione da
parte della banca di libretti d’assegno al reo
stesso, la riconoscibilità dell’abuso a carico dell’istituto di credito è da ritenersi in re ipsa, e
da presumersi fino a prova contraria. È a carico
della banca, quindi, e non del danneggiato,
l’onere di fornire la prova della scusabilità del
suo errore (per la somiglianza fra le due persone o per altra causa) (3350/2009).
u  Con riguardo all’esercizio di attività pericolosa, anche nell’ipotesi in cui l’esercente non
abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare
il danno, in tal modo realizzando una situazione
astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta, che
abbia i requisiti del caso fortuito e sia idonea secondo l’apprezzamento del giudice di merito
incensurabile in sede di legittimità in presenza di
congrua motivazione - a causare da sola l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e
l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto di
un terzo o del danneggiato stesso (25/2010).
u  Va respinta l’azione proposta nei confronti
della società organizzatrice di una festa di ballo,
da un soggetto, per le lesioni ricevute a seguito
di una caduta durante il corso della festa, alla
quale ha partecipato previo acquisto del relativo
biglietto, mentre danzava, per effetto del violento urto subito da un bambino che correva incontrollato sulla pista da ballo, dovendo escludersi
la sussistenza nel caso “de quo” delle ipotesi di
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responsabilità oggettiva previste dal codice civile
in tema di fatto illecito, ed in particolare quelle
di cui agli art. 2051 e 2050, c.c., non potendosi
evidentemente attribuire all’organizzazione
di un ballo ricreativo (si trattava di una festa)
il carattere di attività pericolosa, e nel caso in
esame, non sussistendo comunque un fatto od
un’azione dannosa del convenuto né il nesso
eziologico di causalità che lega il fatto al danno
scaturito, e tantomeno, l’imputabilità soggettiva
di chi si assume essere il responsabile dell’azione
dannosa. Infatti è evidente che l’azione dannosa
nel caso di specie, sia da attribuire in via esclusiva al bambino che, sfuggito al controllo di chi
nell’occasione lo aveva in custodia, ha urtato
l’attore facendolo cadere, ragione per cui alcuna
responsabilità può essere attribuita alla società
convenuta quale organizzatrice della manifestazione, in quanto ad essa non competeva certo
il controllo delle condotte dei minori che accedevano allo stabilimento ove si svolgeva la manifestazione, così come normalmente consentito
nelle feste che si tengono presso i locali aperti al
pubblico, anche se tali condotte avessero assunto carattere violento o comunque tale da essere
fonte di pericolo per i terzi, atteso che per tali
soggetti, giuridicamente irresponsabili, la legge
prevede un obbligo di sorveglianza a carico dei
genitori ex art. 2048, c.c., o comunque di chi ne
ha la contingente sorveglianza ex art. 2047, c.c.
(Trib. Bari 14 gennaio 2010).
u  L’attività svolta presso il maneggio va
qualificata come pericolosa ai sensi dell’art.
2050 c.c., quando riguardi danni conseguenti
a esercitazioni di un principiante o di allievi
giovanissimi e quindi non in grado di governare
le imprevedibili reazioni dell’animale. È quindi
applicabile la presunzione prevista dalla norma
di cui all’art. 2050 c.c., che prevede l’obbligo per
il gestore della attività pericolosa di risarcire il
danno a meno che non provi di aver adottato
tutte le misure idonee a evitare il danno non
essendo sufficiente come prova liberatoria la
considerazione che esiste un margine di rischio,
ineliminabile, che chi frequenta un maneggio,
accetta preventivamente (17216/2010).
u  La società dilettantistica di calcio è sottoposta alla responsabilità contrattuale con obblighi di vigilanza e protezione nei confronti dei
calciatori minorenni affidati alla sua custodia.
Detti obblighi certamente impongono l’adozione di tutte le misure precauzionali ed organizzative per scongiurare danni alla salute dei
piccoli atleti, ma non possono essere estesi sino
al punto da coprire i rischi tipici e normalmente
connessi all’attività sportiva praticata che, come
2051
tali, devono ritenersi, da un lato, accettati sia
dal minore che dai genitori all’atto dell’iscrizione alla società sportiva e, dall’altro, socialmente
adeguati secondo l’ordinamento giuridico nel
suo complesso, nel momento in cui quella attività sportiva viene consentita ed anzi agevolata
e promossa (Trib. Rovereto 6 agosto 2010).
2051. Danno cagionato da cosa in
custodia. – Ciascuno è responsabile del
danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito (1215,
1256, 1588, 1611, 2056).
L’articolo in commento e il successivo disciplinano, rispettivamente, la responsabilità a carico di chi ha in custodia una cosa e di chi ha in
uso un animale. Custodia e uso sono concetti che
vanno determinati in relazione alla effettiva possibilità di ricavarne una utilità, tant’è che custode
sarà, di regola, il proprietario, ma potrebbe essere anche il conduttore, se la cosa è stata concessa
in locazione, o l’usufruttuario, se la cosa è stata
concessa in usufrutto e via dicendo.
La responsabilità per danni cagionati da cosa
in custodia si evince:
- dall’essersi il danno verificato nell’ambito
del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa (come, ad esempio, nel caso di infiltrazioni di acqua
da un immobile ad un altro);
- dall’esistenza di un effettivo potere fisico di
un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di
vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da
impedire che produca danni a terzi.
In presenza di questi due elementi, la norma pone a carico del custode una presunzione iuris tantum
di colpa, che può essere vinta soltanto dalla prova
che il danno è derivato esclusivamente da caso fortuito, inteso nel senso più ampio, comprensivo del
fatto del terzo e della colpa del danneggiato.
Pertanto, mentre incombe sul danneggiato
l’onere di provare i due elementi sopra indicati sui
quali si basa la responsabilità, presunta del custode, quest’ultimo, ai fini della prova liberatoria, ha
l’onere di indicare e provare la causa del danno
estranea alla sua sfera di azione (caso fortuito, fatto del terzo, colpa del danneggiato), rimanendo a
suo carico la causa ignota. Il custode della cosa,
per liberarsi dalla presunzione di responsabilità
posta a suo carico, ha l’onere di provare l’esistenza
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del caso fortuito che consiste in un fattore estraneo
alla sua sfera soggettiva, dal carattere imprevedibile ed eccezionale, che può concretizzarsi anche
nel comportamento colposo del danneggiato, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa
custodita e l’evento dannoso che si è verificato. Si
è, anche, precisato che “una volta accertata la sussistenza del caso fortuito, e cioè una volta escluso
il nesso causale tra la cosa e l’evento dannoso, resta esclusa anche la responsabilità ex art. 2043 c.c.
(così Cassazione n. 22807 del 2009).
Oggetto di fervente lavoro ermeneutico ha assunto negli ultimi anni la questione della responsabilità della P.A. derivante da cattiva o assente
manutenzione delle strade. In particolare la Cassazione ha stabilito a riguardo alcuni consolidati
principi di diritto unanimemente condivisi dalla
dottrina. La presunzione di responsabilità per
danni da cosa in custodia, di cui all’articolo in
commento, non si applica agli enti pubblici per
danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni
qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non risulti possibile - all’esito di un
accertamento da svolgersi da parte del giudice di
merito in relazione al caso concreto - esercitare la
custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa.
L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione
generale e diretta delle stesso da parte di terzi, sotto tale profilo assumono, soltanto la funzione di
circostanze sintomatiche dell’impossibilità della
custodia. Alla stregua di tale principio, con particolare riguardo al demanio stradale, la ricorrenza
della custodia dev’essere esaminata non soltanto
con riguardo all’estensione della strada, ma anche
alle sue caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano,
agli strumenti che il progresso tecnologico appresta, in quanto tali caratteristiche assumono rilievo
condizionante anche delle aspettative degli utenti.
Ne deriva che, alla stregua di tale criterio, mentre
in relazione alle autostrade, attesa la loro natura
destinata alla percorrenza veloce in condizioni
di sicurezza, si deve concludere per la configurabilità del rapporto custodiale, in relazione alle
strade riconducibili al demanio comunale non è
possibile una simile, generalizzata, conclusione,
in quanto l’applicazione dei detti criteri non la
consente, ma comporta valutazioni ulteriormente
specifiche. In quest’ottica, per le strade comunali
- salvo il vaglio in concreto del giudice di merito circostanza eventualmente sintomatica della possibilità della custodia è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato il danno, si
CODICE CIVILE
trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso comune (così Cassazione n. 15383 del 2006).
Peraltro qualora non sia applicabile la disciplina
dell’articolo oggetto di trattazione, in quanto sia
accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia sul bene demaniale, l’ente pubblico
risponde dei danni subiti dall’utente, secondo la
regola generale dell’art. 2043, che non prevede
alcuna limitazione della responsabilità della P.A.
per comportamento colposo alle sole ipotesi di
esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. In tal
caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale (come, ad
esempio, della strada), che va considerata fatto di
per sé idoneo - in linea di principio - a configurare
il comportamento colposo della P.A., sulla quale
ricade conseguentemente l’onere della prova di
fatti impeditivi della propria responsabilità, quali
la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia. Infatti applicare l’art. 2043 in luogo dell’articolo in commento, si tradurrebbe in un
ingiustificato privilegio per la P.A. in quanto richiederebbe al danneggiato un quid pluris rispetto
a quanto previsto dalla norma, anche alla luce dei
principi generali cui è ispirato l’ordinamento teso
a favore di colui che ha subito la lesione in quanto
portatore di una situazione soggettiva rilevante.
In ogni caso, in relazione ai danni verificatisi nell’uso di un bene demaniale, tanto nell’ipotesi in
cui risulti in concreto configurabile una responsabilità oggettiva della P.A. ai sensi del presente articolo, quanto in quello in cui risulti invece
configurabile una responsabilità ai sensi dell’art.
2043, l’esistenza di un comportamento colposo
dell’utente danneggiato (sussistente anche quando egli abbia usato il bene senza la normale diligenza o con un affidamento soggettivo anomalo
sulle sue caratteristiche) esclude la responsabilità
della P.A., qualora si tratti di un comportamento
idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la
causa del danno ed il danno stesso, mentre in caso contrario esso integra un concorso di colpa ai
sensi del primo comma dell’art. 1227, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante (e, quindi, della P.A.) in proporzione
all’incidenza causale del comportamento stesso
(così Cassazione n. 15383 del 2006 e 5307 del
2007). Non sussiste, infatti, responsabilità per le
cose in custodia, qualora il danneggiato si astenga dal fornire qualsiasi prova circa la dinamica
dell’incidente e il nesso eziologico tra il danno e
la cosa e, inoltre, abbia fatto della cosa un uso im-
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proprio, cioè diverso rispetto a quello da ritenersi
riconducibile alla sua ordinaria destinazione (così
Cassazione n. 8106 del 2006).
Con sentenza n. 11511 del 2008, la Suprema
Corte ribadisce la nozione di “insidia” e “trabocchetto” in seno alla vetusta ed annosa questione
della responsabilità per cose in custodia. Il pedone
cade in una buca: la natura pubblica e l’estensione
del bene possono salvare il comune dalla predetta
responsabilità? I giudici di legittimità ribadiscono ancora una volta, in linea con la copiosa giurisprudenza in materia degli ultimi anni, che «la
situazione di pericolo occulto, qualificabile in termine di “insidia” e “trabocchetto”, ricorre quando
lo stato dei luoghi è caratterizzato dai concorrenti
requisiti della non visibilità oggettiva del pericolo
e della non prevedibilità soggettiva dello stesso,
a prescindere dal carattere demaniale del bene in
custodia e dall’estensione dello stesso».
La responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto al quale la si imputa sia in
grado di esplicare riguardo alla cosa stessa un
potere di sorveglianza, di modificarne lo stato
e di escludere che altri vi apporti modifiche. A
riguardo i giudici di legittimità hanno precisato
in tal senso:
a) che per le strade aperte al traffico l’ente
proprietario si trova in questa situazione una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato
a causa di una anomalia della strada stessa (e
l’onere probatorio di tale dimostrazione grava,
palesemente, sul danneggiato);
b) che è comunque configurabile la responsabilità dell’ente pubblico custode, salvo che quest’ultimo non dimostri di non avere potuto far
nulla per evitare il danno;
c) che l’ente proprietario non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si
determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa, atteso che
solo quest’ultima (al pari della eventuale colpa
esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al
verificarsi del fatto) integra il caso fortuito previsto dall’articolo in commento, quale scriminante
della responsabilità del custode (così Cassazione
n. 24529 del 2009).
La Suprema Corte, con sentenza n. 22882
del 2007, ha riconosciuto un onere di custodia in
capo al condominio, escludendo che per i danni
derivanti possa farsi genericamente riferimento
all’art. 2043 c.c. Si tratta, in pratica, di una responsabilità “qualificata”, derivante dalla fun-
2051
zione stessa assolta dal condominio. I danni che
i singoli condomini dovessero riportare a causa di
scelte avventate del condominio (nel caso di specie era stato aperto un cancello rimasto chiuso per
anni), devono essere risarciti se il condominio non
ha fornito un’adeguata prova liberatoria. La Corte esclude, altresì, che l’imprudenza del soggetto
danneggiato (per non avere prestato la necessaria
attenzione) possa sollevare dal risarcimento: solo
la prova del caso fortuito vale a liberare da responsabilità e la cooperazione colposa dell’infortunato potrà essere valutata eventualmente in sede di quantum ex art. 1227, comma 1 c.c.
Con sentenza n. 6267 del 2008 la Corte di Cassazione ha posto un’altra pietra miliare sul cammino della ricostruzione volta all’individuazione
delle fonti degli obblighi di garanzia poste a fondamento della responsabilità omissiva ex art. 40,
comma 2, c.p. In particolare i giudici di legittimità affrontano la problematica delle responsabilità
connesse alla posizione del responsabile di una
ditta appaltatrice di lavori stradali. Perché sussista una posizione di garanzia penalmente rilevante, tale da poter fondare la responsabilità ex art.
40, comma 2, c.p., occorre, infatti, che il soggetto
abbia un obbligo giuridico di impedire l’evento,
cosicché in relazione all’inosservanza di tale obbligo possa configurarsi a carico del titolare della
posizione di garanzia una responsabilità penale
e personale. Il tema dell’obbligo di garanzia, ed
in particolare l’individuazione delle fonti giuridiche di tale obbligo, è oggetto di annoso e non
sopito dibattito, nel cui ambito sono state ricostruite diverse elaborazioni teoriche. Pur nella
varietà delle opinioni espresse, tra teorie formali,
teorie funzionali e teorie miste, l’indirizzo prevalente nel pensiero giuridico italiano tende ad assumere un atteggiamento “eclettico”, cioè tenta
di conciliare gli opposti punti di vista. Orbene, in
linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità, il Supremo Collegio afferma che tra le fonti
dell’obbligo di garanzia, tali da poter fondare la
responsabilità omissiva ex art. 40, comma 2, c.p.,
rientrano, oltre che le norme di legge, anche le
fonti convenzionali, tra le quali è certamente da
ricomprendere il contratto, in virtù della clausola
di cui all’art. 1372 che fa del contratto legge tra
le parti. La fonte contrattuale, è bene precisare,
comprende sia i contratti atipici che si fondano
pur sempre sul consenso tra le parti, sia i contratti tipici, tra i quali vi è da ricomprendere anche
il contratto di appalto. Perché, però, l’obbligo di
garanzia possa dirsi effettivamente operante è
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2051
necessario, in ossequio al principio di personalità della responsabilità penale, che vi sia stata
la concreta assunzione da parte del garante dei
poteri-doveri impeditivi non solo giuridici, ma
anche fattuali dell’evento dannoso o pericoloso.
I principi suddetti hanno portato la Cassazione a
confermare la condanna per omicidio colposo nei
confronti del titolare di una ditta appaltatrice di
lavori stradali, per la morte di una giovane donna
seguita alla caduta da un ciclomotore cagionato
dalla presenza di tre buche sul manto stradale,
per aver omesso di approntare adeguata sorveglianza ed idonea segnalazione di emergenza
laddove si erano prodotte nella zona in questione
una serie di cedimenti del tratto stradale.
La norma di cui all’art. 2051, c.c., prevede
una responsabilità presunta in capo al custode
per i danni provocati dalla cosa che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Il fondamento della responsabilità prevista dall’articolo in
commento, dev’essere, dunque, individuato nel
dovere di custodia che grava sul soggetto che, a
qualsiasi titolo, ha un effettivo e non occasionale
potere fisico sulla cosa in relazione all’obbligo
di vigilare affinché la stessa non arrechi danni a
terzi. La norma anzidetta trova applicazione anche nel regime del condominio degli edifici dove
l’ente, in veste di custode dei beni e dei servizi
comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure
necessarie affinché le cose comuni non rechino
pregiudizio ad alcuno, rispondendo conseguentemente dei danni da queste cagionati sia a terzi che
agli stessi condomini. Ed infatti, ai sensi dell’art.
1117, le tubazioni sono di proprietà comune fino
al punto di diramazione, esse assolvendo ad una
funzione comune fino all’ingresso nella singola
unità immobiliare privata, dove la conduttura è
predisposta al servizio esclusivo della porzione
di proprietà individuale. Pertanto, trattandosi di
beni di proprietà comune, il condominio può essere chiamato a rispondere ai sensi della norma
oggetto di commento, in presenza di infiltrazioni
dannose dovute a difettosità od omessa manutenzione o ristrutturazione delle condutture, gravando sullo stesso, in qualità di custode, l’obbligo di
mantenerle e conservarle in maniera tale da evitare la produzione di eventi dannosi. Ai fini del
riconoscimento della responsabilità del custode
non è necessario che la res sia intrinsecamente
pericolosa, ma è sufficiente, perché possa essere
riscontrato il rapporto di causalità fra la cosa ed
il danno, che la medesima res abbia una concre-
CODICE CIVILE
ta potenzialità dannosa per sua connaturale forza
dinamica o statica, ovvero, per effetto di concause umane o naturali (così Trib. Bari 14 gennaio
2010).
u  L’art. 2051 c.c. si riferisce al danno cagionato dalla cosa indipendentemente dal comportamento volontario di colui che se ne serve
e non è applicabile quando il danno è derivato
dalla cosa per effetto dell’azione su di essa esercitata dall’uomo (1321/1998, rv 512398).
u  L’art. 2051 c.c. non richiede necessariamente che la cosa sia suscettibile di produrre
danni per la sua natura, cioè per suo intrinseco
potere, in quanto, anche in relazione alle cose
prive di un proprio dinamismo, sussiste un dovere di custodia e controllo, allorquando il fortuito o l’effetto dell’uomo possano prevedibilmente intervenire, come causa esclusiva o come
concausa, nel processo obiettivo di produzione
dell’evento dannoso, eccitando lo sviluppo di
un agente, di un elemento o di un carattere che
conferiscono alla cosa l’idoneità al nocumento
(5796/1998, rv 516341).
u  In tema di responsabilità per danni da cosa
in custodia, il caso fortuito idoneo a superare
la presunzione di responsabilità del custode
può anche consistere nel comportamento del
danneggiato allorché questo abbia costituito la
causa esclusiva dell’evento dannoso (4616/1999,
rv 526141).
u  La responsabilità del custode ex art. 2051
c.c. è esclusa soltanto quando il danno sia eziologicamente riconducibile non alla cosa, ma al
fortuito senza che rilevi che questo sia costituito da un comportamento umano, nel fatto
cioè dello stesso danneggiato o di un terzo
(4757/1999, rv 526297).
u  La presunzione di colpa per i danni cagionati dalla cosa in custodia ex art. 2051 c.c.
ha base nell’esistenza di un effettivo potere
fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere
inerisce il dovere di custodire la cosa stessa in
modo da impedire che produca danni a terzi
(5885/1999, rv 527452).
u  Elemento indispensabile, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c.,
è la relazione diretta tra la cosa in custodia e
l’evento dannoso, intesa nel senso che la prima
abbia prodotto direttamente il secondo, e non
abbia, invece, costituito lo strumento mediante
il quale l’uomo abbia causato il danno con la sua
azione od omissione (1682/2000, rv 533878).
u  Per il risarcimento del danno cagionato da
cose in custodia, l’art. 2051 c.c., non richiedendo
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la prova dell’esistenza di una specifica, intrinseca
pericolosità della cosa in sé, non prevede, peraltro, un esonero, per il danneggiato, dall’onere di
dimostrare l’esistenza di un efficace nesso causale
tra la “res” e l’evento (10687/2001, rv 548752).
u  Poiché la responsabilità per le cose in
custodia si fonda non su un comportamento o
un’attività del custode, ma su una relazione tra
questi e la cosa dannosa e poiché il limite di tale
responsabilità risiede nell’intervento del caso
fortuito che attiene non al comportamento del
responsabile, ma alle modalità di causazione
del danno, si deve ritenere che rilevanza del
fortuito attiene al profilo causale, in quanto
suscettibile di una valutazione che consenta di
ricondurre all’elemento esterno, anziché alla
cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi (12219/2003).
u  Si ha responsabilità per i danni da cose
in custodia anche quando per lo stato in cui la
cosa si trova a essere mantenuta, chi ne fa uso
si procura un danno e a questo fine non vale
distinguere tra una pericolosità stabile o una
pericolosità occasionalmente indotta nella cosa
da fattori estranei o ancora dalla sola presenza
di elementi che rendono pericoloso l’uso della
cosa, che altrimenti non lo sarebbe (4739/2007).
u  Anche la P.A. incorre nella responsabilità
ex articolo 2051 c.c. per i danni cagionati da cose
in custodia. Si tratta di responsabilità oggettiva
essendo sufficiente, per la sua concreta configurabilità, che sussista il nesso causale tra la cosa
in custodia e il danno arrecato, per cui tale tipo
di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito
(Trib. Vallo della Lucania 6 luglio 2007).
u  Ove non sia applicabile la disciplina della
responsabilità ex articolo 2051 c.c., per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del
bene demaniale, la P.A. risponde dei danni subiti dall’utente, secondo la regola generale di
cui all’articolo 2043 c.c., che non prevede alcuna
limitazione della responsabilità della P.A. per
comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul
danneggiato l’onere della prova dell’anomalia
del bene demaniale, mentre sull’ente pubblico
graverà l’onere della prova dei fatti impeditivi
della propria responsabilità (Trib. Vallo della
Lucania 6 luglio 2007).
u  Sia in ipotesi di responsabilità oggettiva
della P.A. ex articolo 2051 c.c., sia in caso di responsabilità della stessa ex articolo 2043 c.c., il
comportamento colposo del danneggiato nell’uso di bene demaniale, esclude la responsabilità della P.A., se tale comportamento è idoneo
a interrompere il nesso causale tra la causa del
2051
danno e il danno stesso, integrando, altrimenti,
un concorso di colpa ai sensi dell’articolo 1227,
comma 1, c.c. con conseguente diminuzione
della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato (Trib. Vallo della Lucania 6 luglio 2007).
u  La prevedibilità dell’insidia in ragione
della conoscenza dello stato dei luoghi non
consente di attribuire l’evento lesivo al fatto del
danneggiato con conseguente esclusione della
responsabilità del custode ex art. 2051 c.c.; il
comportamento imprudente del danneggiato
potrà al più rilevare ai fini dell’applicazione
della regola di cui all’art. 1227 c.c. comma 1
(fattispecie relativa ad infortunio occorso ad un
condomino per effetto dell’insidia derivante da
beni comuni dell’edificio) (22882/2007).
u  La responsabilità prevista dall’art. 2051
c.c. per i danni cagionati da cose in custodia
presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un
soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il
potere di controllarla, di eliminare le situazioni
di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi
dal contatto con la cosa; detta norma non esonera il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di
dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione,
potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa
mentre resta a carico del custode offrire la prova
contraria alla presunzione “iuris tantum” della
sua responsabilità, mediante la dimostrazione
positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo
alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di
assoluta eccezionalità (858/2008).
u  In base al principio dell’onere della prova
spetta al danneggiato “dimostrare che il luogo
del sinistro fosse abitualmente frequentato da
animali selvatici con un numero eccessivo di
esemplari, tale da costituire un vero e proprio
pericolo per gli utenti della strada ovvero fosse
stato teatro di precedenti incidenti tali da allertare le autorità preposte, e da imporre all’ente
proprietario della strada l’obbligo di collocare
appositi cartelli di segnalazione stradale di
pericolo” sì da escludere i requisiti della forza
maggiore e/o del caso fortuito (27673/2008).
u  La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della
comunità nazionale ed internazionale” così che
la responsabilità del sinistro provocato da questi animali bradi è ascrivibile al soggetto che
esercita il potere di controllo e di custodia su
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di essi e sui luoghi in cui si è verificato l’evento
lesivo dei diritti altrui (27673/2008).
u  L’affidamento della manutenzione stradale alle imprese appaltatrici non esonera il
Comune al controllo e alla vigilanza, il quale
risponderebbe direttamente in caso d’inadempimento: infatti, il contratto d’appalto per la
manutenzione delle strade costituisce solamente lo strumento tecnico-giuridico per la realizzazione in concreto del compito istituzionale
del Comune di provvedere alla manutenzione,
gestione e pulizia delle strade di sua proprietà
ai sensi dell’art. 14 del Codice della strada. Nel
caso in questione, deve ritenersi che il rapporto
che si instaura tra il Comune e impresa non basta ad escludere la responsabilità del Comune
committente nei confronti degli utenti delle
singole strade ai sensi e per gli effetti dell’art.
2051 c.c. (1691/2009).
u  Nel caso di parcheggio di un’auto in un
piazzale gestito da ditta privata, si verte in tema
di contratto atipico per la cui disciplina occorre
far riferimento alle norme relative al deposito.
Ne consegue responsabilità del gestore nel caso
di furto del veicolo, senza che essa possa essere
esclusa dall’esposizione di un cartello affisso all’ingresso del parcheggio, con cui la ditta rappresenta
di non rispondere del furto totale o parziale delle
auto. Trattasi, infatti, in tale caso di una clausola
di esclusione della responsabilità di carattere vessatorio, perciò inefficace se non sia approvata
specificamente per iscritto (1957/2009).
u  Il gestore del locale notturno al di fuori
del quale avviene una rissa è responsabile per
gli eventuali danni cagionati a cose o persone.
Non è necessario che il danno si sia verificato
“nello sviluppo di un agente insito nella cosa” e
che il soggetto convenuto (il gestore del locale
notturno), per proprio ruolo nel rapporto con
la “cosa”, abbia l’obbligo di vigilare e di tenerla
sotto controllo per impedire eventuali danni ai
terzi; è invece sufficiente che sussista un nesso
deterministico tra la cosa e l’avvenuto danno,
nesso che in relazione alla particolare natura
del fatto dannoso (caduta con lesioni gravi
per l’urto di corpi contro un riparo inidoneo,
nel caso in esame la recinzione troppo bassa al
di fuori del locale non ha di fatto impedito la
caduta su strada del giovane) si qualifichi per
il determinismo causale delle regole codificate
nel codice penale. (8128/2009).
u  In tema di risarcimento del danno cagionato da cose in custodia, la fattispecie di cui
all’art. 2051 c.c. individua un’ipotesi di responsabilità oggettiva e non una presunzione di colpa, essendo sufficiente per l’applicazione della
CODICE CIVILE
stessa la sussistenza del rapporto di custodia
tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo
all’evento lesivo indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa, e,
perciò, trova applicazione anche nell’ipotesi di
cose inerti (11695/2009).
u  Il custode della cosa che ha creato il danno è il responsabile oggettivo dell’evento e si
libera solo quando fornisce la prova del caso
fortuito, autonomo o incidentale. Non conta se
l’oggetto che causò l’incidente sia pericoloso o
inerte (11695/2009).
u  In tema di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., ai fini della responsabilità
del custode per l’evento dannoso, è sufficiente
che il danneggiato provi il nesso causale con
la cosa custodita, indipendentemente dalla
pericolosità attuale o potenziale della stessa; il
dovere del custode di segnalare il pericolo connesso all’uso improprio della cosa da parte del
terzo o del danneggiato, si arresta soltanto al
caso in cui la pericolosità dell’anomala utilizzazione di essa, intesa come fattore causale esterno, sia talmente evidente ed immediatamente
apprezzabile da chiunque, da renderla del tutto
imprevedibile e perciò inevitabile (20415/2009).
u  Agli enti pubblici proprietari di strade
aperte al pubblico transito si applica, in linea
generale, l’art. 2051 c.c. in riferimento alle
situazioni di pericolo “immanentemente” connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, essendo configurabile il caso fortuito
in relazione a quelle occasioni di pericolo provocate dagli stessi utenti ovvero da una imprevedibile alterazione dello stato della cosa che
sfugga anche al controllo diligente e che non
possa essere rimossa o segnalata. La presenza
del segnale stradale “Caduta massi” sulla strada statale non esclude automaticamente dalle
responsabilità dell’ente custode della strada in
caso di frana. Tale segnale è, invece, sintomatico della consapevolezza nell’ente proprietario
della pericolosità della strada ed è quindi un
elemento rivelatore per il giudice: solo il caso
fortuito esonera il custode ex articolo 2051 c.c.
e non si può non tener conto dalla specifica pericolosità del tratto di strada, che impone una
particolare vigilanza (20754/2009).
u  L’ente proprietario della strada provinciale è responsabile dell’incidente determinato
dalla neve: a configurarla basta che il danneggiato provi che il sinistro è dipeso dall’asse
viario, poi spetta all’amministrazione, come
custode del bene, riuscire a dimostrare il caso
fortuito per liberarsi dall’onere del risarcimento
(24529/2009).
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u  In tema di responsabilità da cose in custodia, non può escludersi l’applicazione dell’art.
2051 c.c. nel caso di incidente su rete autostradale a causa di “velocità non particolarmente
moderata” pur in assenza di specifiche ragioni
che la impongano, tenuto conto che è consentito ai normali utenti tenere in autostrada una
velocità relativamente elevata (2360/2010).
u  La responsabilità per i danni cagionati
da cose in custodia ex art. 2051 c.c., prescinde
dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e ha
natura oggettiva necessitando solo un rapporto
eziologico tra la cosa ed il danno (Trib. Potenza
10 marzo 2010).
u  La responsabilità di cose in custodia ex
art. 2051 c.c. sussiste essenzialmente sulla base
di due presupposti: un’alterazione della cosa
che per le sue intrinseche caratteristiche determina la configurazione nel caso concreto della
c.d. insidia o trabocchetto, e l’imprevedibilità e
invisibilità di tale “alterazione” per il soggetto
che, in conseguenza di detta situazione di pericolo, subisce un danno (11592/2010).
u  Colui il quale intende far valere una responsabilità contrattuale o extracontrattuale
della Pubblica Amministrazione deve dimostrare che l’evento dannoso sia causalmente ricollegabile ad una insidia o trabocchetto, nascente
da situazioni di fatto creatrici di un pericolo per
l’utente della strada (20757/2010).
u  In tema di danno cagionato da cose in
custodia è indispensabile, per l’affermazione di
responsabilità del custode, che sia accertata la
sussistenza di un nesso di causalità tra la cosa
ed il danno patito dal terzo, dovendo, a tal fine,
ricorrere la duplice condizione che il fatto costituisca un antecedente necessario dell’evento,
nel senso che quest’ultimo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie di esso, e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato,
sul piano causale, dalla sopravvenienza di circostanze da sole idonee a determinare l’evento
(20757/2010).
u  La responsabilità resta esclusa in presenza
di caso fortuito, la cui prova grava sull’ente,
per effetto della presunzione iuris tantum, ovvero se l’utente danneggiato abbia tenuto un
comportamento colposo tale da interrompere il
nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso, potendosi eventualmente ritenere, ai
sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1 un concorso di
colpa idoneo a diminuire, in proporzione della
incidenza causale, la responsabilità della pubblica amministrazione, sempre che tale concorso sia stato dedotto e provato (21328/2010).
2051
u  La Regione ha l’obbligo di predisporre
tutte le misure idonee atte ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o a cose;
quindi, nell’ipotesi di danno provocato dalla
fauna selvatica ed il cui risarcimento non sia previsto da apposite norme, la Regione può essere
chiamata a rispondere in forza della disposizione
generale del “neminem laedere” (23095/2010).
u  Il Comune è responsabile per i danni subiti
da un passante che sia caduto a causa di un tombino sporgente rispetto al livello del marciapiede. Nè può essere imputato alla vittima di non
aver camminato sull’altro lato della via: senza la
recinzione dell’area interessata dai lavori né l’apposizione di segnali stradali il tombino instabile
costituisce un pericolo occulto e non prevedibile.
L’utente della strada, infatti, ha diritto di aspettarsi che la superficie del fondo sia regolare in
assenza di segnalazioni contrarie (23277/2010).
u  Chi proponga domanda di risarcimento
dei danni da cose in custodia, ai sensi dell’art.
2051 c.c., in relazione alle condizioni di una strada (nella specie, danni conseguenti alla caduta
da una motocicletta), ha l’onere di dimostrare
le anomale condizioni della sede stradale e la
loro oggettiva idoneità a provocare incidenti
del genere di quello che si è verificato (nella
specie, presenza di pietrisco sul fondo stradale).
È onere del custode convenuto in risarcimento,
invece, dimostrare in ipotesi l’inidoneità in concreto della situazione a provocare l’incidente, o
la colpa del danneggiato, od altri fatti idonei ad
interrompere il nesso causale fra le condizioni
del bene ed il danno (26751/2010).
u  La responsabilità per i danni cagionati
da cose in custodia viene esclusa dimostrando
il caso fortuito, che sussiste quando il fattore
causale estraneo al soggetto danneggiante riesca a interrompere il nesso tra la cosa custodita
e l’evento lesivo. In caso di piogge intense che
provochino la tracimazione delle acque, l’ente
preposto non è responsabile per i danni causati
se riesce a dimostrare di aver provveduto alla
manutenzione in modo scrupoloso, di avere
cioè adottato tutte le misure idonee ad evitare
il danno e che, nonostante ciò, l’evento lesivo si
sia verificato ugualmente (10720/2011).
u  La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i
danni cagionati da cose in custodia ha carattere oggettivo; perché essa possa, in concreto,
configurarsi è sufficiente che l’attore dimostri il verificarsi dell’evento dannoso e del suo
rapporto di causalità con il bene, salvo la prova
del fortuito, incombente sul custode. Allegata
e dimostrata la presenza sulla corsia di marcia
di un’autostrada di un animale di dimensioni
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2055
tali da intralciare la circolazione, non spetta
all’attore in responsabilità, sia nell’ambito della
tutela offerta dall’art. 2051 c.c., sia alla stregua
del principio generale del “neminem laedere”,
di cui all’art. 2043 c.c., provarne anche la specie,
la quale potrà semmai essere dedotta e dimostrata dal convenuto quale indice della ricorrenza di un caso fortuito (fattispecie relativa ad un
sinistro causato dalla presenza in autostrada di
una volpe) (11016/2011).
u  In base all’art. 2051 c.c. è onere del custode fornire la prova che l’evento si era verificato per caso fortuito o per fatto del terzo per
liberarsi della presunzione di responsabilità che
incombe su di esso (19131/2011).
u  Poiché la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall’art. 2051 cod.
civ., ha carattere oggettivo, essendo sufficiente,
per la sua configurazione, la dimostrazione da
parte dell’attore del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene
in custodia, una tale responsabilità non è di per
sé esclusa dal fatto volontario della vittima, salva
la valutazione della sua condotta ai sensi dell’art.
1227 cod. civ., consistente nella fruizione del
bene custodito, benché non conforme al suo uso
ordinario, quando non vi sia ragionevole modo
di attendersi una peculiare oggettiva pericolosità
dell’uso diverso, ma reso possibile dalla facile
accessibilità alla cosa medesima (1769/2012).
u  Gli obblighi di sorveglianza e di tutela
dell’Istituto scolastico sussistono solo allorché
l’allievo si trovi all’interno della struttura, mentre tutto quanto accade all’esterno, per esempio sui gradini di ingresso, può, ricorrendone le
condizioni, trovare ristoro attraverso l’attivazione della responsabilità del custode ai sensi
dell’art. 2051 codice civile (19160/2012).
u  In tema di responsabilità civile per danni
cagionati da cose in custodia, per aversi caso
fortuito occorre che il fattore causale estraneo
al soggetto danneggiato abbia un’efficacia di
tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa custodita e l’evento lesivo, ossia
che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento. (Nella specie, la S.C. ha affermato che una
pioggia di eccezionale intensità può costituire
caso fortuito in relazione ai danni riportati dai
proprietari di appartamenti inondati da acque
tracimate a causa di tale evento, a condizione
che l’ente preposto provi di aver provveduto
alla manutenzione del sistema di smaltimento
delle acque nella maniera più scrupolosa e che,
nonostante ciò, l’evento dannoso si è ugualmente determinato) (10898/2013).
CODICE CIVILE
2055. Responsabilità solidale. – Se
il fatto dannoso è imputabile a più persone,
tutte sono obbligate in solido (1294) al risarcimento del danno.
Colui che ha risarcito il danno ha regresso (1299) contro ciascuno degli altri, nella
misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate (12271).
Nel dubbio (20542), le singole colpe si
presumono uguali (12982).
Può accadere che l’evento dannoso sia la
conseguenza di un comportamento imputabile a
più di una persona ovvero dalla somma di diverse condotte, ciascuna imputabile ad una distinta
persona: in tutte e due le ipotesi i soggetti che
hanno concorso a provocare l’evento dannoso
sono obbligati al risarcimento in via solidale.
In questo modo il danneggiato potrà pretendere ed ottenere il risarcimento rivolgendosi ad
uno qualsiasi dei responsabili. Ovviamente a chi,
tra i corresponsabili, provvede a risarcire il danno, è concessa azione di regresso nei confronti
degli altri, secondo le norme sulla solidarietà
passiva (esempio n. 1).
Può anche accadere che l’evento dannoso sia
causato dalla somma di due condotte distinte,
l’una imputabile al responsabile, l’altra allo stesso danneggiato. In tal caso il risarcimento [1227
comma 1]:
- andrà diminuito in proporzione all’entità
della colpa di quest’ultimo e alle conseguenze
che ne sono derivate;
- non sarà dovuto relativamente a quei danni
che lo stesso danneggiato avrebbe potuto scongiurare se avesse usato la diligenza media.
Potrebbe verificarsi inoltre l’ipotesi in cui il danneggiato, comportandosi negligentemente, aggravi
ancora di più il danno (esempio n. 2): in questo caso
chi ha provocato il danno non sarà responsabile degli ulteriori danni che il danneggiato avrebbe potuto
evitare comportandosi in maniera diligente.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 24397 del 2007, pronunciandosi sul risarcimento del danno da occupazione appropriativa, hanno sancito i seguenti principi di diritto:
a) siccome nello schema dell’occupazione
espropriativa l’illecito si perfeziona con effetto
estintivo della proprietà privata al momento della
radicale ed irreversibile trasformazione del fon-
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do, se avvenuta in periodo di occupazione illegittima o alla scadenza dell’occupazione legittima,
tutta l’attività svolta nel corso dell’occupazione
da chiunque esplicata - per definizione illecita
- rende l’autore o gli autori responsabili del relativo risarcimento ai sensi del presente articolo
e dell’art. 2043 precedente: detta responsabilità
grava sempre e comunque anzitutto sull’ente che
ha consumato l’illecita apprensione e posto in
essere il mutamento del regime di appartenenza
dell’immobile;
b) il mero ricorso allo strumento della concessione traslativa con l’attribuzione al concessionario affidatario dell’opera, della titolarità di
poteri espropriativi, non può comportare indiscriminatamente l’esclusione di ogni responsabilità
al riguardo del concedente. Perché ciò avvenga
è infatti necessario, in osservanza al principio di
legalità dell’azione amministrativa, che l’attribuzione all’affidatario di detti poteri e l’accollo da
parte sua degli obblighi indennitari siano previsti
da una legge che espressamente li autorizzi: non
essendo altrimenti consentito alla p.a. disporne a
sua discrezione onde sollevarsi dalle responsabilità che il legislatore le attribuisce;
c) qualora l’amministrazione espropriante affidi ad altro soggetto, mediante una concessione,
la realizzazione di un’opera pubblica, e gli deleghi nello stesso tempo gli oneri concernenti la
procedura ablatoria, l’illecito in cui consiste l’occupazione appropriativa (per cui, a causa della
trasformazione irreversibile del suolo in mancanza del decreto di esproprio, si verifica comunque
la perdita della proprietà a danno del privato) è
ascrivibile anzitutto al soggetto che ne sia stato
autore materiale [c.p. 40, 41], pur senza essere
munito di un titolo che l’autorizzasse;
d) in caso di affidamento ad altro soggetto,
mediante concessione, della realizzazione di
opera pubblica, sussiste, altresì, una corresponsabilità solidale dell’Ente delegante, il quale con
il conferimento del mandato non si spoglia delle responsabilità relative allo svolgimento della
procedura espropriativi e rimane obbligato, in
presenza di tutti i presupposti, al relativo risarcimento ai sensi del combinato disposto dall’articolo in commento e dal citato art. 2043;
e) la responsabilità concorrente del delegante
si riferisce unicamente agli effetti dell’illegittima
occupazione ed (irreversibile) appropriazione definitiva del fondo privato, e non anche agli ulteriori danni causati dall’appaltatore-esecutore dei
lavori durante la materiale costruzione dell’ope-
2055
ra pubblica, non collegabili né all’esecuzione del
progetto né a direttive specifiche dell’amministrazione committente, ma a propri comportamenti materiali attuati in violazione del precetto
generale di cui al più volte citato art. 2043.
1. Marco, alla guida dell’auto del fratello
Franco, se produce colposamente un danno ad un
terzo, è tenuto a risarcirlo in via solidale con quest’ultimo.
2. Si pensi al proprietario di un appartamento
sito all’ultimo piano di una palazzina il cui tetto
è stato rovinato da lavori effettuati per installare
delle antenne, che non fa nulla per evitare che
le infiltrazioni di acqua si ripercuotano anche sul
resto degli appartamenti.
u  Per la responsabilità solidale prevista dall’art. 2055 c.c., non è necessario che più persone
concorrano nell’unica azione o omissione, ma
basta, nel caso di pluralità di azioni o omissioni,
pur se autonome e temporalmente distinte,
che ciascuna di esse abbia concorso in maniera causalmente efficiente a produrre l’evento
(814/1997, rv 502063).
u  Qualora l’unico evento dannoso sia imputabile a più responsabili, compete alla scelta del
danneggiato agire contro uno o più dei soggetti responsabili (11985/1998, rv 521123).
u  È ravvisabile la responsabilità solidale se
l’unico evento dannoso è imputabile a più persone che abbiano concorso in modo efficiente a
produrre l’evento, a nulla rilevando che le azioni
o le omissioni di ciascuna persona costituiscano
distinti ed autonomi fatti illeciti o violazione di
norme giuridiche diverse. Può pertanto essere
pronunciata la condanna in via solidale quando
più debitori siano tenuti per la medesima prestazione, a nulla rilevando in contrario la diversità della fonte dalla quale le obbligazioni derivano e la diversa natura delle rispettive azioni
ed omissioni (1415/1999, rv 523406).
u  In contrapposizione all’art. 2043 c.c.,
che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla
commissione di un “fatto” doloso o colposo, il
successivo art. 2055 c.c. considera, ai fini della
solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”, sicché, mentre la prima norma si riferisce
all’azione del soggetto che cagiona l’evento,
la seconda riguarda la posizione di quello che
subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la
solidarietà. Ne consegue che l’unicità del fatto
dannoso richiesta dal ricordato art. 2055 c.c.
per la legittima predicabilità di una responsa-
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2056
bilità solidale tra gli autori dell’illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo
al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale
forma di responsabilità pur se il fatto dannoso
sia derivato da più azioni od omissioni, dolose
o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed
anche diversi, sempreché le singole azioni od
omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno, e senza che, con
tale principio, contrasti la disposizione dell’art.
187 c.p., capoverso la quale, con lo statuire per
i condannati per uno stesso reato l’obbligo in
solido al risarcimento del danno, non esclude
ipotesi diverse di responsabilità solidale di soggetti che non siano colpiti da alcuna condanna
o che siano colpiti da condanna per reati diversi
o che siano taluni colpiti da condanna e altri no
(7507/2001, rv 547207).
u  Ai sensi del combinato disposto degli artt.
2043 e 2055 c.c., chi subisce un danno ingiusto
per fatto colposo imputabile a più persone ha
diritto al risarcimento integrale del danno (ex
art. 2043 c.c.) nei confronti di ognuno di loro
(ex art. 2055 c.c., in tema di responsabilità solidale) (12731/2010).
2056. Valutazione dei danni. – Il
risarcimento dovuto al danneggiato si deve
determinare secondo le disposizioni degli
articoli 1223, 1226 e 1227.
Il lucro cessante è valutato dal giudice
con equo apprezzamento delle circostanze
del caso (1226).
Per il risarcimento del danno conseguente da
illecito trovano applicazione, salvo eccezioni, le
stesse norme prestabilite per il risarcimento del
danno conseguente all’inadempimento delle obbligazioni. La liquidazione, fatta dal giudice,
comprenderà, dunque, sia la perdita effettivamente subìta (danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto conseguenza
immediata e diretta del fatto illecito (esempio).
In particolare:
- il lucro cessante sarà valutato dall’autorità
giudiziaria con equo apprezzamento delle circostanze del caso [1223];
- se il danno non può essere dimostrato nel
suo esatto ammontare, l’autorità giudiziaria
provvede alla sua liquidazione in base a valutazione equitativa [1226], ipotesi, questa, che ricorre soprattutto se il danno è di natura non patrimoniale;
CODICE CIVILE
- in caso di concorso di colpa del danneggiato
la somma da risarcire verrà diminuita in proporzione all’entità della colpa e delle conseguenze
scaturite; essendo, invece, esclusa la risarcibilità
dei maggiori danni ricollegabili al mancato uso,
da parte del medesimo danneggiato, dell’ordinaria diligenza.
La giurisprudenza ci ricorda che la liquidazione del danno patrimoniale da riduzione della
capacità di lavoro e di guadagno non può costituire un’automatica conseguenza dell’accertata
esistenza di lesioni personali, ma esige che sia
verificata la attuale o prevedibile incidenza dei
postumi sulla capacità di lavoro, anche generica,
della vittima. Ne consegue che quando detti postumi sono di lieve entità o, comunque, manchino elementi concreti dai quali desumere una incidenza della lesione sulla attività di lavoro attuale
o futura del soggetto leso, vanno escluse l’esistenza e la risarcibilità di qualsiasi danno da riduzione della capacità lavorativa, mentre va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello
del danno alla salute) idoneo a cogliere, nella sua
totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica (così Cassazione n.
4493 del 2011).
Nel danno emergente possono essere ricomprese le spese ospedaliere o le cure mediche necessarie a seguito dei danni cagionati alla persona. Nel lucro cessante possono essere ricompresi
i mancati guadagni conseguenti a forme di invalidità permanente a seguito dei danni cagionati
alla persona.
u  In tema di responsabilità per fatto illecito,
il principio della proporzionale riduzione del
risarcimento del danno, in ragione dell’entità
percentuale del contributo causale del comportamento del danneggiato (art. 1227, primo
comma, c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c.), trova
applicazione anche nel caso in cui questo ultimo
sia soggetto incapace (1442/1983, rv 426270).
u  Ai fini del risarcimento del danno da fatto
illecito, che è rivolto a reintegrare compiutamente il patrimonio del danneggiato, il giudice
del merito è libero di scegliere di volta in volta
il criterio più idoneo a far coincidere in concreto
l’entità della riparazione pecuniaria con il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato
stesso (2986/1984, rv 435027).
u  Il potere discrezionale, conferito al giudice dall’art. 1226 c.c., di liquidare il danno in
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via equitativa è subordinato alla condizione che
sia impossibile o molto difficile provare il danno
nel suo preciso ammontare; l’esercizio concreto,
in senso positivo o negativo, del detto potere
e l’accertamento dell’esistenza del presupposto
costituito dalla impossibilità o rilevante difficoltà della prova non sono suscettibili di sindacato
in sede di legittimità, se la relativa decisione sia
sorretta da motivazione immune da vizi logici e
da errori di diritto (4619/1985, rv 442081).
u  Nella liquidazione del danno non patrimoniale ai prossimi congiunti della vittima il
giudice di merito deve considerare i parametri
individuati dalla Suprema corte in materia di
danno morale parentale in relazione ai valori
costituzionali della persona e della integrità
familiare che la perdita del congiunto compromette in modo definitivo. In questo contesto, se
il fattore della convivenza esalta maggiormente
il vincolo della vita in comune, la comunione di
affetti e di solidarietà ben può sussistere anche
nel caso di una scelta di vita autonoma del figlio
medico, essendo i vincoli spirituali altrettanto
stretti e degni di tutela. Nella liquidazione del
danno futuro di natura patrimoniale permanente il giudicante deve ispirarsi a quella equità
circostanziata di cui parla l’articolo 2057 c.c. che
bene si integra con l’articolo 2056 c.c., con riferimento alla considerazione delle condizioni delle
parti lese e della natura del danno da privazione
di una solidarietà economica (14845/2007).
u  In tema di immissioni sonore intollerabili,
il danno alla salute conseguente deve essere
specificamente allegato e provato. Al fine, non
basta produrre un certificato medico attestante
un generico stato d’ansia, non essendo questo di
per sé risarcibile. A fortiori se ivi manchi l’affermazione positiva del nesso causale avvincente il
detto stato e le immissioni sonore (25820/2009).
u  In tema di obbligazione risarcitoria da
fatto illecito extracontrattuale, gli interessi
compensativi dovuti per il danno da ritardo non
possono essere calcolati dalla data dell’illecito
sulla somma liquidata per capitale e rivalutata
sino al momento della decisione, dovendo,
invece, essere computati o con riferimento ai
singoli momenti riguardo ai quali la somma
equivalente al bene perduto si incrementa
nominalmente, per effetto dei prescelti indici
medi di rivalutazione monetaria, ovvero anche
in base ad un indice medio, tenuto conto che
la liquidazione del danno da ritardo rientra pur
sempre nello schema liquidatorio di cui all’art.
2056 c.c., in cui è ricompresa la valutazione
equitativa del danno stesso ex art. 1226 c.c.
(5671/2010).
2056
u  Inerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno
evento, all’ambito dei fatti costitutivi della
domanda di risarcimento danni, esso dev’essere
allegato dal soggetto leso e non può certo essere individuato ed introdotto d’ufficio da parte
del giudice e ciò nemmeno attraverso il potere
di liquidazione equitativa del danno, di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere concerne
la quantificazione del danno e non l’individuazione del danno (10957/2010).
u  In tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, in quanto
incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento
risarcitorio, sotto l’aspetto strettamente patrimoniale, allorché, pur determinando una
c.d. micropermanente sul piano strettamente
biologico, eventualmente provochino negative
ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura,
precludendola o rendendola di più difficile
conseguimento, in relazione all’età, al sesso del
danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza
particolare (21012/2010).
u  In materia di risarcimento del danno la
liquidazione mirata a ristorare il nocumento
accusato dal danneggiato deve essere integrale,
dovendo tener conto delle perdite cagionate alla
vittima del fatto illecito, nonché alle sofferenze
morali e future che il destinatario dell’azione
lesiva si veda costretto a subire ovvero è presumibile che subisca o che possa subire in seguito.
Il danno morale soggettivo può essere liquidato
in aggiunta al danno biologico, per avvertite
esigenze di personalizzazione del risarcimento.
Allo stesso modo, è possibile dichiarare il diritto
al risarcimento del danno non patrimoniale al di
là del decretato risarcimento del danno morale
e ciò tutte le volte che la parte lesa fornisca in
giudizio la prova di avere perduto la possibilità
di conseguire un risultato sperato, che si sarebbe
verosimilmente verificato se non vi fosse stata la
verificazione del fatto illecito (11609/2011).
u  Le Tabelle per la liquidazione del danno
non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento
ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226
c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti
circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione, per le lesioni
di lieve entità conseguenti alla circolazione. I
relativi parametri sono conseguentemente da
prendersi a riferimento da parte del giudice di
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2057
merito ai fini della liquidazione del danno non
patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro
e verifica di quella, di inferiore ammontare, cui
sia diversamente pervenuto, incongrua essendo
la motivazione che non dia conto delle ragioni
della preferenza assegnata ad una liquidazione
che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui
si perviene mediante l’adozione dei parametri
esibiti dalle dette tabelle di Milano. Vanno ristorati anche i c.d. aspetti relazionali propri del
danno da perdita del rapporto parentale o del
c.d. danno esistenziale, sicchè è necessario verificare se i parametri recati dalle tabelle tengano
conto (anche) dell’alterazione/cambiamento
della personalità del soggetto che si estrinsechi
in uno svolgimento dell’esistenza, e cioè in (radicali) cambiamenti di vita, dovendo in caso contrario procedersi alla c.d. “personalizzazione”,
riconsiderando i parametri recati dalle tabelle
in ragione (anche) di siffatto profilo, al fine di
debitamente garantire l’integralità del ricorso
spettante al danneggiato (in applicazione del
suesposto principio, la Corte ha cassato la decisione dei giudici del merito che, nel disporre
il risarcimento del danno non patrimoniale in
favore della una vittima di un sinistro stradale,
avevano preso a riferimento le Tabelle elaborate
dal Tribunale di Brescia, senza peraltro prevedere una personalizzazione di tale danno, alla
luce delle gravi conseguenti esistenziali riportate
dalla vittima in seguito al sinistro) (14402/2011).
u  Ai fine della liquidazione del danno non
patrimoniale, pur essendo consentito ai giudici
di merito di assumere come parametri di riferimento le tabelle utilizzate nei vari tribunali
della Repubblica tuttavia - poiché si tratta del
ricorso ad un criterio che è comunque equitativo e che trova il proprio fondamento normativo
negli artt. 1226 e 2056 c.c. - essi sono tenuti a
dare conto del criterio utilizzato, esplicitando in
ogni caso quale sia il sistema seguito e provvedendo poi alla necessaria personalizzazione in
riferimento al caso concreto (8557/2012).
u  Nella liquidazione del danno per lucro cessante da invalidità permanente il giudice deve
ricorrere ai coefficienti tabellari adeguandoli ai
valori correnti e adattandoli al caso concreto,
oltre a tener conto della svalutazione monetaria (8985/2012).
2057. Danni permanenti. – Quando
il danno alle persone ha carattere permanente la liquidazione può essere fatta dal giudice, tenuto conto delle condizioni delle parti
CODICE CIVILE
e della natura del danno, sotto forma di una
rendita vitalizia (1872 ss.). In tal caso il giudice dispone le opportune cautele.
In relazione al danno alla persona, disciplinato dall’articolo in commento, occorre puntualizzare che:
a) l’invalidità permanente - ossia la definitiva
inettitudine a valersi delle proprie capacità psicofisiche e, dunque, a conseguire lo stesso reddito
che il danneggiato avrebbe potuto realizzare se
l’evento dannoso non si fosse verificato - presuppone che la liquidazione possa essere effettuata
dal giudice (tenendo conto delle condizioni delle
parti e della natura del danno e disponendo altresì
le dovute cautele) sotto forma di rendita vitalizia;
b) nell’ambito di tale tipologia di danno, dottrina e giurisprudenza, ne hanno “tipizzato” alcune come, ad esempio:
- il danno alla vita di relazione: consistente
nell’impossibilità o nella difficoltà di reintegrarsi
nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello
normale. Esso costituisce una componente del
danno patrimoniale e concreta non una generica menomazione, bensì un nocumento che tocca aspetti specifici della personalità umana, variabili a seconda dell’età, del sesso, dell’attività
esercitata e delle condizioni ambientali in cui la
vittima vive ad opera;
- il danno estetico: ovvero la compromissione dell’integrità fisionomica della persona. Esso
costituisce, necessariamente, un danno biologico (danno-evento) ed, eventualmente, un danno
patrimoniale (danno-conseguenza), se il danneggiato dimostri che la perduta integrità estetica ha
causato una riduzione del reddito. La valutazione del c.d. danno estetico deve essere effettuata
nell’ambito della generale valutazione del danno
biologico, ma ai fini di una corretta liquidazione del danno biologico, il giudice di merito deve
procedere alla cd personalizzazione dei criteri
tabellari dovendo adeguatamente valutare e motivare in merito alle ripercussioni fisiche e psichiche che il pregiudizio subito dal danneggiato
ha provocato sulla propria sfera personale (così
Cassazione n. 9549/2009);
- il danno biologico: che consiste nella menomazione dell’integrità psicofisica della persona
in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul
valore-uomo in tutta la sua concreta dimensione,
che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle
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funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza
non solo economica ma anche biologica, sociale,
culturale ed estetica.
u  Il danno alla salute, per quanto normalmente si risolva in un peggioramento della
qualità della vita, presuppone pur sempre una
lesione dell’integrità psicofisica, di cui quel peggioramento è solo conseguenza. Non è dunque
in sé risarcibile la minore godibilità della vita,
ma solo il diritto alla salute, costituente il bene
giuridicamente tutelato dall’art. 32 Cost. In
difetto di una lesione dell’integrità psicofisica
del soggetto, che sia conseguita alle sofferenze indotte dalla perdita del congiunto, non è
configurabile un danno biologico risarcibile
per gli stretti congiunti della persona deceduta
(10629/1998, rv 520100).
u  Tra lesione della salute e diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo. Ne consegue che in presenza
di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in egual
misura la capacità di produrre reddito, ma il
soggetto leso ha sempre l’onere di allegare e
provare, anche mediante presunzioni, che l’invalidità permanente abbia inciso sulla capacità
di guadagno (12757/1999, rv 531239).
u  In tema di risarcimento del danno alla vita
di relazione, qualora sia stata liquidata equitativamente una somma globale, con riferimento
sia alla parte di danno già maturata, sia a quella
futura, tenendosi conto, per quest’ultima parte,
degli interessi a scalare corrispondenti all’erogazione anticipata, gli interessi compensativi
sull’intera somma globale liquidata, decorrono
pur sempre dalla data del fatto illecito produttivo del danno (6321/2000, rv 536557).
u  Nella valutazione del danno biologico il quale si riferisce alla salute come bene in sé,
indipendentemente dalla capacità del danneggiato di produrre reddito ed a prescindere da
questo - costituisce valido criterio di liquidazione equitativa quello che assume a parametro il
cosiddetto punto d’invalidità, determinato sulla
base del valore medio del punto di invalidità
calcolato sulla media dei precedenti giudiziari
aumentabile fino al cinquanta per cento al fine
di consentire al giudice di rapportare la liquidazione alle accertate peculiarità della fattispecie concreta (età del danneggiato, entità e
natura della menomazione, epoca dell’evento
lesivo ecc.). La scelta del giudice di merito di liquidare il danno alla salute con il criterio sopra
2058
esposto non è censurabile in sede di legittimità
se sorretta da congrua motivazione in ordine
all’adeguamento del valore medio del punto,
risultante dai dati acquisiti nella giurisprudenza
di merito, alle particolarità della singola fattispecie (6396/2001, rv 546514).
u  In tema di liquidazione del danno alla persona, è da considerarsi irrilevante il rifiuto del
danneggiato di sottoporsi ad intervento chirurgico al fine di diminuire l’entità del danno, atteso che non può essere configurato alcun obbligo
a suo carico di sottoporsi all’intervento stesso,
non essendo quel rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto
dall’art. 1227 c.c. (6502/2001, rv 546565).
u  Qualora, al momento della liquidazione
del danno biologico, la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, la
valutazione va riferita al danno effettivamente
prodotto dal sinistro. L’ammontare del danno
biologico, che gli eredi del defunto richiedono
“iure successionis”, va calcolato con riferimento
alla durata effettiva della vita del danneggiato.
Nella valutazione del danno non patrimoniale
va, comunque, tenuto conto che, nei primi tempi,
il patema d’animo è più intenso che nei periodo
successivi (2106/2008).
u  In tema di risarcimento del danno alla persona, i postumi di carattere estetico, in quanto
incidenti in modo negativo sulla vita di relazione, possono ricevere un autonomo trattamento
risarcitorio, sotto l’aspetto strettamente patrimoniale, allorché, pur determinando una
c.d. micropermanente sul piano strettamente
biologico, eventualmente provochino negative
ripercussioni non soltanto su un’attività lavorativa già svolta, ma anche su un’attività futura,
precludendola o rendendola di più difficile
conseguimento, in relazione all’età, al sesso del
danneggiato ed ad ogni altra utile circostanza
particolare (21012/2010).
2058. Risarcimento in forma specifica. – Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in
tutto o in parte possibile.
Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se
la reintegrazione in forma specifica risulta
eccessivamente onerosa per il debitore.
Per la responsabilità extracontrattuale è ammesso:
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2059
- un risarcimento in forma specifica, consistente nel ripristino della situazione precedente
all’evento dannoso (esempio), sempreché sia in
tutto o in parte possibile e che non risulti eccessivamente oneroso per il responsabile;
- un risarcimento per equivalente, consistente
nel pagamento di una somma di denaro (si rinvia al commento sub art. 2056) corrispondente al
danno subìto.
Rifacimento di una cosa distrutta o eliminazione di una cosa fatta illecitamente.
u  La condanna al risarcimento del danno
mediante reintegrazione in forma specifica può
essere pronunciata con l’ordine di eliminazione
di quanto illecitamente fatto, che risulti identificato come fonte esclusiva di un danno attuale
destinato a protrarsi nel tempo (9278/1993, rv
483845).
u  In tema di disposizione del secondo comma dell’art. 2058 c.c., in virtù della quale, anche
se il danneggiato abbia chiesto, quando possibile, la “reintegrazione in forma specifica”, il
giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per “equivalente” ove la reintegrazione
in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, la differenza fra la “riparazione in forma specifica” ed il risarcimento per
“equivalente” consiste nel fatto che, nel primo,
la somma dovuta è calcolata sui costi occorrenti
per la riparazione, e, nel secondo, è riferita alla
differenza fra il bene integro (e cioè nel suo
stato originario) ed il bene leso o danneggiato
(5993/1997, rv 505706).
u  Nel caso di un sinistro stradale ove la morte dell’infortunato sopraggiunga solo mezz’ora
dopo l’incidente, il danno per morte va preso in
considerazione quale peculiare voce o aspetto
dei danni non patrimoniali subiti direttamente
dai parenti, fra i quali danni rientrano anche
quelli conseguenti alla perdita del rapporto
parentale; al dolore da essi risentito in proprio,
di riflesso, per la consapevolezza del male che
il proprio congiunto ebbe a subire, e così via. Si
tratta di danni che i congiunti possono far valere iure proprio, quale parte dei danni non patrimoniali da essi personalmente subiti, non di
danni spettanti iure ha ereditario (25264/2010).
u  In caso di riduzione dell’importo da liquidare agli eredi a titolo di risarcimento per
i danni non patrimoniali subiti a seguito della
perdita di un congiunto il giudice è tenuto a
fornire adeguata motivazione (25264/2010).
CODICE CIVILE
2059. Danni non patrimoniali. – Il
danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge (892
c.p.c.; 1852, 187, 189 c.p.).
Con la storica decisione dell’11 novembre
2008, n. 26972 (di contenuto identico ad altre
tre sentenze, tutte depositate contestualmente:
26973, 26974 e 26975) le Sezioni Unite della
Cassazione, oltre a comporre i precedenti contrasti sulla risarcibilità del c.d. danno esistenziale,
hanno profondamente riesaminato i presupposti
ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all’articolo in commento
La sentenza ha innanzitutto ribadito che il
danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due
gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista
in modo espresso (ad es., nel caso in cui il fatto
illecito integri gli estremi di un reato); e quella
in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non
essendo espressamente prevista da una norma di
legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una
interpretazione costituzionalmente orientata del
presente articolo, per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione.
La decisione è quindi passata ad esaminare il
contenuto della nozione di danno non patrimoniale, stabilendo che quest’ultimo costituisce una
categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno
della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva. È, pertanto, scorretto e non conforme
al dettato normativo pretendere di distinguere
il c.d. “danno morale soggettivo”, inteso quale
sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è
che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice
deve tenere conto nella liquidazione dell’unico
ed unitario danno non patrimoniale, e non un
pregiudizio a sé stante. Invero la Suprema Corte
ha recentemente ribadito con sent. n. 18641 del
2011 (ma v. anche, in non dissimili termini, la
precedente sentenza n. 5770 del 2010) come il
profilo morale del danno non patrimoniale, sorretto da una propria specifica ratio, viva di vita
propria ed autonoma, escludendo altresì a chiare
lettere di poterne predicare l’auspicata scomparsa “per assorbimento” all’interno del più ampio
e omnicomprensivo contenitore del danno biologico tabellato. Tanto è vero che le tabelle elabo-
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
rate dal Tribunale di Milano a partire dal 2009,
che la sentenza n. 12408/2011 ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto
il territorio nazionale, non hanno mai cancellato
la fattispecie del danno morale intesa come voce
integrante la più ampia categoria del danno non
patrimoniale; tali tabelle, infatti, propongono la
liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente alla lesione permanente dell’integrità psicofisica suscettibile di accertamento medico legale e del danno non patrimoniale
conseguente alle medesime lesioni in termini di
dolore, sofferenza soggettiva in via di presunzione in riferimento a un dato tipo di lesione, vale
a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi
in passato liquidati a titolo di danno biologico
standard, personalizzazione del danno biologico,
danno morale. Il risarcimento del danno morale può essere escluso quando risulti con assoluta
certezza, in base a specifiche acquisizioni medico- legali risultanti da un’apposita consulenza, la
totale e assoluta incapacità di percepire il dolore
da parte del neonato, cioè il suo permanente e
irreversibile stato totalmente vegetativo.
Da questo principio è stato tratto il corollario
che non è ammissibile nel nostro ordinamento un
danno definito “esistenziale”, inteso quale perdita
del fare areddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un
diritto della persona costituzionalmente garantito,
costituisce né più né meno che un ordinario danno
non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059
c.c., e che non può essere liquidato separatamente
solo perché diversamente denominato.
Ciò però non implica un assoluto rifiuto della
Suprema Corte in ordine al danno esistenziale,
il quale benché non potrà più essere considerato
come voce autonoma di danno non patrimoniale
potrà, comunque, essere risarcito in virtù di una
valutazione che il giudice dovrà compiere caso
per caso; all’uopo la cassazione si è lasciata andare in qualche esempio rivelatore di quali danni,
da domani, potranno e non potranno più essere risarciti: ha, difatti, condiviso l’orientamento delle
sentenze “gemelle” in ordine al risarcimento del
danno da perdita o compromissione del rapporto
parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto, ovvero del danno
conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome e alla riservatezza. Destino diametralmente opposto avranno
i pregiudizi, le ansie, il diritto alla qualità della
vita, lo stato di benessere. Secondo gli “ermel-
2059
lini” il risarcimento del danno alla persona dovrà, in ogni caso, essere integrale, nel senso che
“dovrà ristorare integralmente il pregiudizio, ma
non oltre”. Come detto sarà, quindi, compito del
giudice, da ora in poi, accertare l’effettiva sussistenza del pregiudizio allegato, “individuando
quali ripercussioni negative sul valore- uomo si
siano verificate e provvedendo alla loro integrale
riparazione”, e tenendo a mente che “potranno
costituire solo voci del danno biologico nel suo
aspetto dinamico … i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita,
conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica”.
Da ciò le Sezioni Unite hanno tratto spunto
per negare la risarcibilità dei danni non patrimoniali c.d. “bagatellari”, ossia quelli futili od irrisori, ovvero causati da condotte prive del requisito della gravità, ed hanno al riguardo avvertito
che la liquidazione, specie nei giudizi decisi dal
giudice di pace secondo equità, di danni non patrimoniali non gravi o causati da offese non serie,
è censurabile in sede di gravame per violazione
di un principio informatore della materia.
La sentenza si completa con due importanti
precisazioni in tema di responsabilità contrattuale e prova del danno.
Per quanto riguarda la responsabilità contrattuale, è stato precisato che anche dall’inadempimento di una obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale, che sarà risarcibile
nei limiti ed alle condizioni sopra indicate (nei casi
espressamente previsti dalla legge, ovvero quando
l’inadempimento abbia leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione). In
tema di prova del danno, è stato ammesso che essa possa essere fornita anche per presunzioni semplici, fermo restando però l’onere del danneggiato
di indicare gli elementi di fatto dai quali desumere
l’esistenza e l’entità del pregiudizio.
Tale assetto interpretativo - osservano le Sezioni Unite - permette di superare anche la limitazione alla tradizionale figura del cd. “danno
morale soggettivo transeunte”, nata dal combinato disposto dell’articolo in commento e dell’art.
185 c.p. a cui il primo rinvia, ed intesa in termini
di patema d’animo transeunte (cioè passeggero)
derivante da reato. La figura, recepita per lungo
tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l’uno
né l’altro articolo parlano di danno morale, e tantomeno lo ritengono rilevante solo se transitorio,
ed era carente anche sul piano della adeguatezza
della tutela, poiché la sofferenza morale cagiona-
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2059
ta dal reato non è necessariamente “transeunte”,
ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per
lungo tempo. Nell’ottica di un’interpretazione
unitaria e di ampio respiro del danno non patrimoniale, “la formula danno morale non può più
individuare una autonoma sottocategoria di danno, ma semmai descrivere, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio,
costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata
dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della
quantificazione del risarcimento”.
Detto altrimenti, nell’ambito della categoria
generale del “danno non patrimoniale”, non emergono distinte sottocategorie, “ma si concretizzano
soltanto specifici casi determinati dalla legge, al
massimo livello costituito dalla Costituzione, di
riparazione del danno non patrimoniale”. È solo a
fini descrittivi che, in dette ipotesi, ad esempio, nel
caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.),
si impiega un nome, parlando di danno biologico.
Ed è ancora a fini soltanto descrittivi che, nel caso
di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30
Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno
da perdita del rapporto parentale.
La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti
dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad
un processo evolutivo, deve ritenersi consentito
all’interprete rinvenire nel complessivo sistema
costituzionale indici che siano idonei a valutare
se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”.
Il danno esistenziale, in particolare, si afferma
sullo scenario giurisprudenziale come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (in passato risarcito nell’ambito dell’art. 2043
in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di
lesione dell’integrità psicofisica, e dal c.d. danno
morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato), in quanto non
attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla
sfera del fare non reddituale del soggetto. Tale
figura di danno nasce dal dichiarato intento di
ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di
natura non patrimoniale incidenti sulla persona,
svincolandola dai limiti dell’articolo in oggetto,
e seguendo la via, inaugurata per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043, inte-
CODICE CIVILE
so come norma regolatrice del risarcimento non
solo del danno patrimoniale, ma anche di quello
non patrimoniale concernente la persona. Con la
nozione di danno esistenziale si intende il “non
poter più fare ciò che si faceva prima”, il danno
cioè da peggioramento della qualità della vita, il
danno da lesione del “diritto ad essere felici” (come un tempo).
La giurisprudenza, nell’accogliere tale nozione di danno, ha nel tempo ricondotto le lesioni
più variegate alla categoria del danno esistenziale. Ciò è accaduto in tema di danno tanatologico,
con riferimento ad una sentenza della Cassazione del 2001 che definì esistenziale la sofferenza
psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche
(e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ma che era rimasta lucida durante l’agonia, e riconobbe il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La
decisione non conforta, però, la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di
morte immediata o intervenuta a breve distanza
dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita, e lo ammette per
la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, ed a questo
lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di
riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve
intervallo. Viene qui in considerazione il tema
della risarcibilità della sofferenza psichica, di
massima intensità anche se di durata contenuta,
nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve
tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile
di degenerare in danno biologico, in ragione del
limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte,
non può che essere risarcita come danno morale,
nella sua nuova più ampia accezione.
Le Sezioni Unite paiono abbracciare una nozione di danno esistenziale molto vicina, fino ad
esserne assorbita, a quella di danno morale soggettivo (inteso, però, secondo la nuova concezione). Così, in presenza di reato, il pregiudizio del
non poter più fare (ma la corte sposa, infatti, la
nozione di “sofferenza morale del non poter più
fare”) sarà risarcibile, accertata l’ingiustizia ex
art. 2043, in presenza anche solo di un interesse giuridicamente rilevante, non necessariamente
di rango costituzionale, considerata la copertura
legislativa (art. 185 c.p.), che assicura l’indice di
rilevanza dell’interesse leso. In assenza di reato,
invece, e al di fuori dei casi determinati dalla leg-
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ge, pregiudizi di tipo esistenziale saranno risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto
inviolabile della persona. Ad esempio, pregiudizi
attinenti alla sfera della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica e quindi non “etichettabili” come danno biologico; pregiudizi legati
alla libertà sessuale nel rapporto di coniugio ecc.
Al danno biologico va infatti riconosciuta
portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal
D.Lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende
la lesione temporanea o permanente dell’integrità
psico-fisica della persona, Suscettibile di valutazione medico- legale, che esplica un’incidenza
negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti
dinamico- relazionali della vita del danneggiato,
indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile
di essere adottata in via generale, anche in campi
diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui
è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul
punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e
condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi, come detto, i pregiudizi attinenti agli “aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato”.
Vero è che - a poco più di un mese dalla pronuncia delle Sezioni Unite sul danno esistenziale
(Cass. 26972/2008 cit.) in cui ne hanno “bandito
l’esistenza e di conseguenza la risarcibilità” - gli
effetti di tale epocale svolta “esistenziale” sono
già evidenti. L’esempio di come le voci di danno
stiano mutando le loro forme è chiaramente rintracciabile nella sentenza n. 29191 del 12 dicembre 2008. Infatti, il restringimento del danno esistenziale ha portato ad un ampliamento del danno
morale che sta assumendo dimensioni abnormi
rispetto a quelle circoscritte degli ultimi anni.
“Il danno morale non deve essere quantificato in
relazione al danno biologico, ossia non deve essere valutato come danno pro quota del biologico, perché il valore dell’integrità morale non può
essere considerato una quota minore del danno
alla salute. Deve esserci la necessità di escludere,
per il giudice di merito, la liquidazione del danno
mediante criteri di tipo automatico”. È sempre
necessaria la personalizzazione del danno che va
effettuata calcolando la componente della capacità lavorativa e del danno “psichico”. Affermano
inoltre i giudici di legittimità che la morte della
vittima per cause indipendenti dalla lesione originaria, incide sulla valutazione del danno biolo-
2059
gico futuro, che resta tale nella sua integrità sino
al tempo del decesso, come debito di valore. Di
conseguenza si evidenzia che “la riduzione non
opera sulla determinazione del danno biologico
statico, ma solo sulla determinazione del danno
biologico globale, considerato ai valori attuali al
tempo della decisione in relazione alla estinzione
del danno futuro a seguito della vita”.
Sono così evidenti gli effetti che ha provocato
la pronuncia delle Sezioni Unite del novembre
2008: è già iniziata una concreta espansione verso una maggiore autonomia ed indipendenza del
danno morale la cui liquidazione non può effettuarsi mediante criteri automatici, quali ad esempio le tabelle alle quali i giudici hanno fatto da
sempre riferimento, mentre emerge la necessaria
personalizzazione del danno in relazione sia al
danno biologico che al danno morale.
Nel solco tracciato dalle sezioni unite novembrine si inserisce Cassazione n. 469 del 2009 a
conferma del nuovo volto e “dimensionamento”
del danno non patrimoniale. Questa volta, nel mirino, sono i c.d. “danni riflessi” o “da rimbalzo”,
sub specie di danno morale subito iure proprio
dai genitori di un bambino paraplegico, a seguito
delle lesioni gravissime riportate da quest’ultimo
durante il parto. La Corte non ha dubbi nell’approvarne il riconoscimento e non manca di rinviare alle conclusioni raggiunte dalle recenti Sezioni Unite n. 26972 del 2008. Il danno morale
richiesto iure proprio dai genitori deve essere comunque risarcito - tuona la Corte - come danno
non patrimoniale, nell’ampia accezione di danno
“senza etichette” così come ridisegnato dal Supremo Consesso di legittimità. Il relativo risarcimento dovrà essere liquidato integralmente, secondo equità ed adeguatamente parametrato alla
incidenza della lesione sofferta: tanto più elevato
quanto maggiore è la lesione che determina la
doverosità dell’assistenza familiare ed “un sacrificio totale ed amorevole verso il macroleso”.
Successivamente, con sentenza a Sezioni
Unite n. 557 del 2009, la Corte di Cassazione affronta il tema della risarcibilità del danno biologico iure proprio per perdita di un congiunto,
uniformandosi a quanto da esse già statuito nella
più volte citata sentenza 11 novembre 2008, n.
26972 in tema di danno non patrimoniale ed esistenziale. Nel confermare la sentenza impugnata, il Supremo Consesso di legittimità enuncia
il principio secondo cui, ai fini del risarcimento
del danno biologico iure proprio per perdita di un
congiunto, occorre provare la sussistenza in con-
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creto di tale danno, non essendo sufficiente allegare la menomazione del tessuto familiare quale
danno esistenziale, inteso come peggioramento
oggettivo delle condizioni di vita in conseguenza
di un fatto ingiusto che ha provocato la lesione
di un diritto costituzionalmente garantito: danno
che è in re ipsa, non necessita di prova e può essere liquidato in via equitativa. Secondo una rilettura costituzionalmente orientata dell’articolo
in commento che riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità che
vede l’art. 2043 demandato alla cura dei danni
patrimoniali e l’articolo oggetto di trattazione a
quella dei danni non patrimoniali, la sofferenza
per la perdita di un congiunto è pertanto risarcibile se viene provato in concreto un danno biologico inteso come menomazione alla integrità
psico-fisica, ovvero nell’ambito del danno morale in ragione della giovane età della vittima e del
ruolo di riferimento familiare per i congiunti con
conseguente incremento del relativo ristoro. E,
invero, nel confermare la sentenza impugnata, le
Sezioni Unite aderiscono e condividono il ragionamento seguito dalla corte di merito la quale,
pur negando l’esistenza di un danno biologico iure proprio per perdita di un congiunto poiché in
concreto non provato, ha ritenuto che effettivamente “nella specie, la perdita sofferta appariva
di particolare gravità, sia per il coniuge - in relazione alla giovane età della vittima ed alla centralità del ruolo che essa veniva ad occupare nella
compagine familiare in ragione della poliedricità
del suo impegno di moglie, madre e lavoratrice
- che per i figli, privati della madre in un’età in
cui la madre costituisce la figura genitoriale di
primario rilievo sotto il profilo affettivo”. Sulla
base di tali considerazioni la corte di merito ha
pertanto elevato il risarcimento per “il danno morale per la perdita della congiunta” riassorbendo
correttamente il “danno da perdita del rapporto
parentale” nel danno morale, secondo un principio aderente a quanto stabilito dalle sezioni unite
con le sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975
del 2008, con le quali è stato negato che il c.d.
“danno esistenziale” costituisca un’autonoma categoria di danno e tutti i danni non patrimoniali
sono stati ricondotti nell’ambito della previsione
dell’articolo in commento, ivi compreso il “danno da perdita del rapporto parentale”.
Ma la Suprema Corte fa di più. Con sentenza n. 24435 del 19 novembre 2009 afferma che
in tema di danno dovuto ai parenti della vittima,
non è necessaria la prova specifica della sua sus-
CODICE CIVILE
sistenza, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine
farsi ricorso anche a presunzione. La prova del
danno morale è, infatti, correttamente desunta
dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla
base dello stretto vincolo familiare, di eventuale
coabitazione e, comunque, di frequentazione, che
essi avevano avuto, quando ancora la vittima era
in vita. La morte di un giovane figlio e fratello,
provocato da colpa di terzi, condannati per il reato di omicidio colposo, costituisce indubbiamente
grave sofferenza per genitori e fratelli, sui quali
incide in modo consistente la perdita del congiunto. Anche per gli zii, pertanto, sia pure in misura
minore, deve riconoscersi la sussistenza di dolore e sofferenza per la scomparsa di un nipote in
giovane età, a loro legato da vincoli di affetto. La
liquidazione del danno non patrimoniale - cosiddetto danno morale - non avendo la funzione di
reintegrazione patrimoniale mediante la corresponsione di un equivalente pecuniario del bene
perduto, non può essere effettuata che con valutazione equitativa, rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Essa però deve ispirarsi alla
considerazione di tutte le concrete circostanze
individuali, in modo da adeguare l’indennizzo al
caso particolare e da renderlo il più possibile rispondente a criteri di equità e deve, comunque, rispettare l’esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare
dell’indennizzo. L’intensità del vincolo familiare
può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la ritenuta prova dell’esistenza del danno morale, in assenza di elementi
contrari, e, inoltre, l’accertata mancanza di convivenza del soggetto danneggiato con il congiunto
deceduto può rappresentare un idoneo elemento
indiziario da cui desumere un più ridotto danno
morale, con derivante influenza di tale circostanza esclusivamente sulla liquidazione dello stesso.
Ricordiamo, per dovere di cronaca, che non
più di due anni prima le Sezioni Unite civili della
Cassazione con sentenza 24 marzo 2006, n. 6572
avevano provveduto a sancire la sussistenza del
danno esistenziale nel novero dei danni non patrimoniali tracciando le coordinate affinché il suo
risarcimento potesse avere ingresso nel processo.
Il danno esistenziale, in questo caso derivante da
demansionamento, veniva definito come pregiudizio incidente «sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti
relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la
sua quotidianità e privandolo di occasioni per la
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espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». Altrettanto precisa e consapevole era la distinzione tra danno esistenziale
e danno morale: «Il danno esistenziale si fonda
sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle
che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso». Per quel che concerne
gli aspetti «gestionali» del danno esistenziale nel
processo, i giudici di legittimità affermavano in
quella sede che il danno esistenziale - o meglio i
fatti in cui esso si compendia - va sempre e ineluttabilmente allegato dal danneggiato. Se manca
l’allegazione, il giudice non potrà dunque ritenere
verificati fatti tali da integrare danno esistenziale.
Tra l’altro la mancanza di allegazione non potrà
trovare supplenza nell’intervento del giudice neppure nel caso in cui l’illecito ovvero, come nel
caso di demansionamento, l’inadempimento contrattuale determinino usualmente pregiudizi esistenziali. In pratica il danno esistenziale «necessità imprescindibilmente di precise indicazioni
che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione
delle sue abitudini di vita». Il danno esistenziale - del quale, nella sentenza delle Sezioni Unite,
emergeva evidente la natura «consequenziale»
- doveva essere poi oggetto di prova: essa doveva essere fornita mediante testimonianza ovvero
con altri mezzi istruttori con cui dimostrare nel
processo il concreto cambiamento che l’illecito
aveva portato in senso peggiorativo nella qualità
di vita del danneggiante. Ed infatti, aggiungeva
la pronuncia, «se è vero che la stessa categoria
del danno esistenziale si fonda sulla natura non
meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale...
all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti
i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla
prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro». Ben possibile, inoltre, il
ricorso le presunzioni: «Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo
rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la
prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella
gerarchia delle prove, cui giudice può far ricorso
anche in via esclusiva... per la formazione del suo
convincimento». Ancora oggi la giurisprudenza
pare volersi riagganciare ai principi emersi dalla
2059
sentenza del 2006 e lo fa, ad esempio, con Cass.,
sez. lav., n. 17084 del 2011, laddove ribadisce
che “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale,
biologico o esistenziale, che asseritamente ne
deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti
i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle
caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre
il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di
natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul fare
areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a
scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro
precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui
dalla complessiva valutazione di precisi elementi
dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro
dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione
professionale, eventuali reazioni poste in essere
nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta
lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi
dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il
cui artificioso isolamento si risolverebbe in una
lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente
risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a
quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza,
delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.
Invero, a voler tracciare una linea di confine
tra i pronunciamenti del 2006 e quelli successivi
alle sezioni unite del novembre 2008 sul medesimo tema del demansionamento e della dequalificazione, la Cassazione, con sent. n. 29832 del
2009 sostiene che il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo
automaticamente in tutti i casi di inadempimento
datoriale - non può prescindere da una specifica
allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio,
sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio
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medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione
dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (che, a seguito di Cass.
26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra
il presupposto della sua “serietà”, nel danno non
patrimoniale, da intendere come ogni pregiudizio
di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul fare
areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a
scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro
precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui
dalla complessiva valutazione di precisi elementi
dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro
dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione
professionale, eventuali reazioni poste in essere
nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta
lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi
dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il
cui artificioso isolamento si risolverebbe in una
lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente
risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a
quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza,
delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
Direttamente collegata alla problematica del
danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale è la questione del danno provocato
dal fumo di sigaretta. La Cassazione - inaugurando un nuovo orientamento giurisprudenziale che
apre una breccia per la risarcibilità del danno da
fumo - sostiene, infatti che, in tema di danni da
fumo è risarcibile il danno “iure proprio” subito
dai prossimi congiunti per la definitiva perdita del
rapporto parentale. In particolare, l’interesse al
risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, per la definitiva perdita del
rapporto parentale si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca
solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito
della peculiare formazione sociale costituita dalla
famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2,
CODICE CIVILE
29 e 30 Cost., esso si colloca nell’area del danno
non patrimoniale di cui all’articolo in commento,
in raccordo con le suindicate norme della costituzione e si distingue sia dall’interesse al “bene
salute” (protetto dall’art. 32 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse, all’integrità morale (protetto dall’art.
2 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del
danno morale soggettivo). Nella situazione della
perdita del rapporto parentale, normalmente vi è
la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale,
la cui prova può essere anche fondata su presunzioni, che non siano adeguatamente contrastate da
altre prove contrarie (così Cassazione n. 22884
del 2007). La stessa corte ha poi sottolineato che,
in materia di responsabilità civile, il consumatore
che, lamentando di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole (nella specie,
relativa ad una marca di sigarette con la dicitura
Light ed Extra Light), agisca per il risarcimento
del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., non assolve
in modo adeguato all’onere della prova esistente
a suo carico limitandosi a dimostrare il solo carattere ingannevole della pubblicità, ma è tenuto
a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la
pubblicità, la quale si concreta nella prevedibilità
che dalla diffusione di quel messaggio sarebbero
derivate le lamentate conseguenze dannose (così
Cassazione n. 26516 del 2009).
Questione sempre più stringente è poi quella
dell’insolita fattispecie di immissione intollerabile che va sotto il nome di “fumo passivo”. È noto che le Sezioni Unite con sent. 26972 del 2008
hanno riesaminato approfonditamente i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non
patrimoniale” di cui all’articolo in commento e,
con particolare riferimento al profilo che qui interessa, hanno chiarito che esso si atteggia come
un danno- conseguenza, per il quale è richiesto
che il danneggiato fornisca prova dell’esistenza
della lesione subita, non già come una tipologia
di danno- evento, risarcibile in re ipsa, cioè a prescindere da prove sull’effettiva sofferenza patita.
La terza sezione della Cassazione, con sentenza
n. 7875 del 2009, ribadendo implicitamente detto
principio, ha ritenuto assolto - ai fini del riconoscimento di un diritto al risarcimento del danno
non patrimoniale a chi lamenti l’immissione di
fumo passivo nella propria abitazione deducendo,
quale conseguenza della lamentata propagazione,
di aver dovuto modificare le proprie abitudini domestiche - l’onere probatorio richiesto dalla nor-
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ma, laddove ha affermato che “la sentenza impugnata ha descritto le conseguenze delle lamentate
immissioni sul modo di vivere la casa dei danneggiati e questo individua ciò che può essere liquidato come danno non patrimoniale”. Con tale
pronuncia sono state, altresì, confermate le deduzioni logico- giuridiche effettuate dai giudici di
merito con riguardo alla risarcibilità del danno
non patrimoniale in conseguenza di immissioni
da fumo passivo di sigarette, che abbiano compromesso il diritto al normale svolgimento della
vita familiare dei danneggiati, annoverando tale
diritto fra quelli costituzionalmente tutelati e suscettibili della protezione garantita dall’articolo
in oggetto (la questione riguardava una famiglia che si era rivolta al giudice lamentando la
presenza di immissioni di fumo da sigarette nel
proprio appartamento provenienti dal bar sottostante). Ne discende, pertanto, che i giudici di legittimità, seppur toccando incidentalmente l’argomento, abbiano inteso ribadire l’orientamento
giurisprudenziale introdotto dalle Sezioni Unite
in tema di danno non patrimoniale, dando l’abbrivio ad una nuova campagna anti-tabacco tesa
a dar maggior risalto ad un problema molto discusso ma raramente affrontato in campo giuridico, la cui portata lesiva sembrerebbe rivelarsi
ben più ampia che in passato.
La Cassazione ha avuto occasione di soffermarsi sul danno derivante da lesione all’integrità
della sfera sessuale della persona e lo ha fatto
con sent. n. 19092 del 2009, ritenendo risarcibile il pregiudizio derivante dalla impossibilità
e/o seria difficoltà di praticare rapporti sessuali
a seguito di un errato intervento chirurgico. In
tal senso, ai fini della prova della sussistenza del
nesso causale tra condotta negligente ed imperita ed evento dannoso, si deve escludere che la
situazione clinica del paziente all’atto dell’intervento possa costituire una concausa in relazione ai danni subiti dal soggetto leso e ciò anche
in considerazione della circostanza che deve attendibilmente ritenersi che il campo operatorio
al momento dell’intervento chirurgico sia privo
di complicazioni locali (nella specie, accertata la
sussistenza di un nesso causale tra l’intervento
chirurgico di isterectomia eseguito su una donna
e la successiva insorgenza di una fistola vescicovaginale con conseguente compromissione della
integrità psico-fisica della stessa, la Corte di legittimità ha riconosciuto il diritto al risarcimento
del danno sia in favore della danneggiata sia in
favore del coniuge in ragione del pregiudizio su-
2059
bito dalla coppia a causa della sopravvenuta impossibilità di praticare rapporti sessuali a seguito
dell’errato intervento chirurgico).
Anche la preoccupazione per il proprio stato
di salute può essere risarcita. Lo afferma la Cassazione con sentenza n. 11059 del 2009, confermando la condanna dell’ICMESA s.p.a. di Seveso al risarcimento del danno patito dalle persone
residenti in prossimità dell’impianto produttivo
della predetta società dal quale, in data 10 luglio
1976, era fuoriuscita una nube tossica composta
da diossina. Nel caso di specie, era stato dimostrato dagli attori, sia per fatto notorio che documentalmente, il danno non patrimoniale, ravvisato
dai giudici nel patema d’animo indotto in ognuno
dalla preoccupazione per il proprio stato di salute. Gli attori, infatti, in quanto soggetti a rischio,
erano stati sottoposti a ripetuti controlli sanitari,
sia nell’immediatezza dell’evento sia successivamente, per parecchi anni, almeno fino al 1984.
Considerato che il reato di disastro ambientale
ha carattere plurioffensivo, in quanto incidente
sia sul bene pubblico immateriale ed unitario dell’ambiente che sulla sfera individuale dei singoli
soggetti che si trovano in concreta relazione con i
luoghi interessati dall’evento dannoso in ragione
della loro residenza o frequentazione abituale, è
risarcibile il danno derivato ai soggetti che si siano trovati in particolare relazione con l’ambiente
inquinato da sostanze altamente tossiche.
La giurisprudenza amministrativa ci ricorda
che l’articolo in commento - anche nell’ambito
dei rapporti di lavoro - consente la risarcibilità
dei pregiudizi di tipo esistenziale non solo quando l’illecito costituisca reato o comporti la violazione di un diritto inviolabile della persona, ma
in ogni caso in cui sia ravvisabile la lesione di un
bene costituzionalmente protetto (come accade
nel caso del diritto del magistrato all’esercizio
delle sue funzioni). Di tali pregiudizi conosce il
giudice amministrativo, nelle materie devolute
alla sua giurisdizione esclusiva. Anche con riferimento ai rapporti di pubblico impiego, il danno
non patrimoniale è risarcibile quando l’illecito
e la lesione riguardino beni costituzionalmente
protetti, tra cui rientrano le prerogative dei magistrati e del loro status nell’esercizio delle loro
funzioni; per la liquidazione del danno si può tenere conto della incidenza dell’illecito sul sereno svolgimento delle funzioni da parte del magistrato e delle conseguenze di tipo esistenziale
derivanti dal mancato conferimento di un incarico previsto dalla legge. Va accolta, pertanto, la
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domanda di risarcimento del danno non patrimoniale subito da un magistrato per l’attribuzione
dell’incarico al quale aveva diritto ad altro soggetto, ove si possano ragionevolmente ritenere
effettivamente verificati e provati gli stress e i
patemi d’animo conseguenti allo scavalcamento
(nella specie disposto con un atto discostatosi dal
giudicato), e allo svolgimento dell’incarico da
parte del collega all’interno del medesimo ufficio
(così Consiglio di Stato n. 1899 del 2009).
Il Tribunale di Torino (sent. 17 marzo 2009),
nel procedere alla valutazione del danno non patrimoniale patito da una persona rimasta ferita in
seguito ad un sinistro stradale, si è posto il problema della liquidazione del danno morale.
Il giudice ha richiamato la pronuncia delle
Sezioni Unite n. 26972/2008 con la quale è stata
fornita un’ampia definizione del danno biologico,
comprensivo della sofferenza interiore. Il Tribunale, tuttavia, ha osservato che il legislatore (con il
Codice delle Assicurazioni) ha indicato una diversa definizione del danno biologico (ai sensi dell’art. 138, infatti, il danno biologico è la “lesione
temporanea o permanente all’integrità psico-fisica
della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle
attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”). Per tale ragione il danno
morale (provato in via presuntiva) è stato liquidato
con un’ulteriore somma rispetto a quella risultante
dalle tabelle di legge (nella specie con il 25% di
quanto riconosciuto a titolo di danno biologico).
In altri termini la definizione che del danno
biologico danno gli art. 138 e 139 del Codice
delle assicurazioni (“lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona
suscettibile di accertamento medico legale ...”) è
evidentemente più ristretta rispetto al danno non
patrimoniale cui fanno riferimento le Sezioni
Unite. Infatti, nell’ambito di quest’ultima nozione di danno rientra la sofferenza fisica e morale;
mentre è innegabile che l’accertamento medico
legale dell’entità della lesione psico-fisica (cioè
del danno biologico tradizionalmente inteso) viene effettuato con considerazione solo marginale
della sofferenza fisica e del tutto prescindendo
dalla sofferenza psichica. In altri termini: non pare che in ogni caso in cui esista una lesione fisica o psichica in essa sia compresa (quale “parte”
di un “insieme” più grande) la sofferenza insita
in tale lesione. O, quantomeno, gli attuali crite-
CODICE CIVILE
ri medico-legali per la valutazione della lesione
non sono adeguati a tener conto di tale sofferenza. Costituisce dato di comune esperienza il fatto
che alcune lesioni, che comportano esiti permanenti di entità minima, si accompagnino a sofferenze fisiche - senza valutare quelle psicologiche
- molto intense; e che non vi sia quindi necessaria correlazione fra entità della menomazione
psico-fisica (percentualmente indicata) ed entità
della sofferenza. La valutazione della sofferenza
deve allora essere adeguatamente “recuperata”
dal giudice, in fase di liquidazione del danno, attraverso diversi sistemi: ad esempio aumentando
il valore del punto-base; o attraverso un aumento percentuale dell’importo liquidato a titolo di
danno biologico (operazioni che, in pratica, realizzano il medesimo risultato); ma anche, ove necessario, ristorando la sofferenza mediante valutazione equitativa del tutto svincolata dall’entità
monetaria riconosciuta a titolo di danno biologico. Tutto ciò a condizione che tali valutazioni
siano supportate da adeguata istruttoria e motivazione in punto di esistenza ed entità del pregiudizio che si va a liquidare. Non pare infatti che il significato ultimo delle indicazioni contenute nella
più volta citata sentenza delle Sezioni Unite vada
colto nel divieto di “liquidazione in percentuale”
(del “morale” rispetto al “biologico”), quanto nel
divieto di liquidazioni automatiche e immotivate. Ciò posto, va osservato che qualora la lesione
biologica (intesa in senso tradizionale) non superi il limite del 9%, la valutazione e liquidazione
del danno da sofferenza mediante un aumento del
valore punto non è praticabile, poiché tale valore
è fissato dalla legge. E non è evidentemente sostenibile che i valori siano stati fissati dal legislatore già tenendo conto della sofferenza; poiché il
consolidato orientamento della giurisprudenza di
merito e di legittimità (all’epoca di emanazione
dell’art. 139 codice delle assicurazioni, e del suo
“antecedente” normativo, cioè della L. 57/2001)
era nel senso che la sofferenza dovesse essere ristorata “a parte” attraverso il riconoscimento del
danno morale. Ogni diversa interpretazione presterebbe il fianco a censure di illegittimità costituzionale, in quanto precluderebbe, nei casi rientranti nella previsione dell’art. 139 del Codice
assicurazioni, l’integrale ristoro del danno alla
persona. D’altra parte non è plausibile, a fronte di definizioni normative del danno biologico
identiche (tali sono quelle dell’art. 138 comma
2 e dell’art. 139 comma 2 Codice assicurazioni),
che si ritenga escluso da tale nozione il danno da
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sofferenza per le lesioni macropermanenti (liquidandolo mediante uno dei sistemi sopra indicati)
e lo si ritenga invece incluso per le micropermanenti. Né la più volte citata sentenza delle Sezioni Unite definisce il danno non patrimoniale in
modo diverso a seconda dell’entità della lesione;
al contrario, lo definisce in termini unitari e comprensivi, sempre, del danno da sofferenza fisica e
psichica (la cui entità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno,
ma solo della quantificazione del risarcimento).
Alla luce di tali considerazioni si ritiene che,
anche nel caso di lesioni micropermanenti, possa
(non già debba) esistere un pregiudizio “da sofferenza”, non incluso nella liquidazione effettuata
mediante i criteri dettati dall’art. 139 Codice assicurazioni. Tale pregiudizio consiste nel patimento
interiore (temporaneo o no) causato dall’illecito:
sia per il turbamento e per i disagi che esso ha in
concreto comportato, sia per le privazioni cui ha
costretto la vittima. E la sua dimostrazione potrà
essere data mediante prova documentale, testimoniale o presuntiva, assumendo proprio quest’ultima particolare rilievo, e potendo anzi costituire
anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice (chiaramente in questo senso il par. 4.10 della citata sentenza delle Sezioni
Unite del 2008). Con riferimento al caso di specie il Tribunale di Torino sostiene che è possibile
ritenere provato un danno “da sofferenza” consistente per un verso nei patimenti che normalmente
si accompagnano a una lesione dell’integrità fisica di entità medio- bassa, ma con lunga durata (9
mesi) della malattia temporanea e necessità di deambulare con tutori. Va poi considerato il disagio
derivante dal non poter attendere per lungo tempo
alla propria attività lavorativa; il dispiacere nel veder “sfumare” l’occasione di costituire una società
edile con altri soggetti; la sofferenza e il senso di
inadeguatezza dovuti al fatto che la propria famiglia, durante il periodo di malattia, dovette essere
mantenuta dalla madre dell’attore. Tali sofferenze
sono strettamente legate alla lesione fisica (pur essendo del tutto al di fuori di essa e non riducibili
a mere proiezioni o riflessi del danno biologico);
appare pertanto congruo un criterio di liquidazione - necessariamente equitativa - rapportata al pregiudizio biologico subito dall’attore.
Di portata analoga risulta la posizione della
Corte di legittimità che, con sentenza n. 16448
del 2009, ha affermato che il danno morale può
essere liquidato in misura pari ad una frazione di
quanto riconosciuto a titolo di danno biologico.
2059
Il risultato così raggiunto, tuttavia, deve essere
“personalizzato” tenendo conto della particolarità
del caso concreto e della reale entità del danno.
La Corte ha altresì precisato che nel compiere la
sopra descritta operazione non può giungersi a
liquidazioni “puramente simboliche o irrisorie”.
Nella specie il danno morale era stato liquidato
con una somma pari al 50% di quanto risarcito a
titolo di danno biologico da invalidità permanente. L’unica possibile forma di liquidazione - per
ogni danno che sia privo, come quello biologico
e quello morale, delle caratteristiche della patrimonialità - è quella equitativa. Infatti, una precisa
quantificazione pecuniaria è possibile in quanto
esistano dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso
ammontare, fermo restando il dovere del giudice
di dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e del percorso logico che lo ha condotto a
quel determinato risultato. In particolare la liquidazione del danno biologico può essere effettuata dal giudice, con ricorso al metodo equitativo,
anche attraverso l’applicazione di criteri predeterminati e standardizzati, e può essere legittimamente effettuata dal giudice sulla base delle stesse
“tabelle” utilizzate per la liquidazione del danno
biologico, portando, in questo caso, alla quantificazione del danno morale in misura pari ad una
frazione di quanto dovuto dal danneggiante a titolo di danno biologico, purché il risultato, in tal
modo raggiunto, venga poi “personalizzato”, tenendo conto della particolarità del caso concreto
e della reale entità del danno, con la conseguenza
che non può giungersi a liquidazioni puramente
simboliche o irrisorie (v. Cassazione n. 11039 del
2006 e n. 18178 del 2007).
Vi è danno biologico, in ambito lavoristico,
quando la lesione della integrità psico-fisica sia
“suscettibile di valutazione medico legale” (art.
13 del D.Lgs. n. 38 del 2000). Il giudice non può
pertanto, nel quantificare il pregiudizio subito dal
lavoratore per lavoro straordinario usurante, limitarsi al criterio dell’equità, individuando una
somma in modo apodittico, ma deve giungere
alla determinazione mediante una valutazione
medico legale. Tale valutazione può anche essere
effettuata dal giudice stesso a condizione che si
basi comunque su un fondamento medico legale
(così Cassazione n. 5437 del 2011).
La Suprema Corte ci ricorda inoltre che nella
nozione di danno biologico - che è danno alla salu-
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te, valore della persona umana inviolabile a norma
dell’art. 32 Cost., tutelato ai sensi dell’articolo in
commento - rientrano tutte le ipotesi di danno “non
reddituale”, compresi i danni alla vita di relazione e
i danni da riduzione della capacità lavorativa generica. Sebbene il danno non patrimoniale costituisca
una categoria unitaria, le cui diverse sottocategorie
hanno una funzione solo descrittiva, al giudice di
merito è tuttavia consentito risarcire conseguenze
pregiudizievoli molto diverse, laddove l’invalidità
temporanea venga liquidata come danno biologico
alla vita di relazione anche nel suo aspetto ludico
considerata l’età del bambino, e l’invalidità permanente come danno biologico nel suo aspetto di limitazione di vita socio-lavorativa futura (così Cassazione n. 9708 del 2012).
a) L’abuso sessuale patito da un minore crea
indubbiamente un danno anche ai suoi genitori,
il quale danno può essere di natura patrimoniale,
allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della
vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati dall’illecito. Ai prossimi congiunti della vittima di un reato spetta
“iure proprio” il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega
il prossimo congiunto alla vittima, non essendo
ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto
né il disposto di cui all’articolo 1223 c.c. né quello di cui all’articolo 185 c.p., in quanto anche tale
danno trova causa diretta ed immediata nel fatto
illecito. L’attribuzione della legittimazione “iure
proprio” si fonda anche e soprattutto sul riconoscimento dei “diritti della famiglia” previsto dall’articolo 29 Cost., il quale riconoscimento deve
essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito
esclusivo di quel nucleo, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa
dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando
così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo
anche a gratificazioni e reciproci diritti (così Cassazione n. 38952 del 2007).
b) Quali tipi di danni possono essere risarciti
al turista che non abbia potuto godere appieno
del viaggio organizzato a causa dell’inadempimento o inesatto inadempimento delle prestazioni derivanti dal contratto turistico? A chi può
rivolgersi il turista danneggiato per il ristoro dei
danni patiti? La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24044 del 2009, chiarisce i quesiti su espo-
CODICE CIVILE
sti, ripercorrendo fedelmente il dato normativo
rilevante a riguardo e riallacciandosi all’orientamento della giurisprudenza prevalente. Ebbene,
osserva la Corte, il soggetto tenuto a risarcire a
danni allo “sfortunato” turista è l’organizzatore
del viaggio, anche qualora il danno sia stato materialmente cagionato da prestatori di servizi turistici presenti nel luogo di vacanza, in ossequio a
quanto stabilito Direttiva CEE 90/314, regolarmente recepita nel nostro paese, in ultimo trasfusa nel D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo).
Occorre in ogni caso verificare che i prestatori
del servizio turistico abbiano agito come rappresentanti del tour operator, ciò è sufficiente per far
scattare la responsabilità di quest’ultimo il quale
potrà poi agire in rivalsa nei loro confronti. I giudici di legittimità non esitano ad affermare che
il fenomeno rappresentativo nella fattispecie può
essere ricostruito anche facendo ricorso al principio generale dell’apparentia iuris, ossia dell’affidamento incolpevole. La Corte, poi, chiarisce
che dall’inadempimento dell’organizzatore può
derivare sia un danno patrimoniale che non patrimoniale. In realtà, il c.d. danno da vacanza
rovinata è un tipo di danno non patrimoniale e
si sostanzia in un pregiudizio consistente nel disagio e nell’afflizione subita dal turista, per non
avere potuto godere appieno della vacanza come
occasione di svago e riposo, distinguendosi in tal
guisa dal danno morale soggettivo, ossia dalla
sofferenza transitoria, dal turbamento transeunte
seguita alla commissione di un fatto illecito. Non
ha rilievo, sostiene la Corte, che il danno non patrimoniale sia dipeso da un inadempimento contrattuale. Ed infatti, come la Corte ha avuto modo
di chiarire a sezioni unite (cfr. Cassazione S.U. n.
26972 del 2008), l’articolo in commento, riletto
alla luce dei principi costituzionali, consente il
risarcimento dei danni non patrimoniali anche
nel caso di responsabilità contrattuale. In altri
termini, la lesione di un diritto inviolabile della
persona, costituzionalmente rilevante, determina
l’obbligo di risarcire l’eventuale danno non patrimoniale arrecato, quale che sia la fonte della
responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.
c) Durante una partita di pallacanestro, un
giovane cestista, nel tentativo di recuperare la
palla, non riusciva a frenare la propria corsa ed
andava ad urtare contro una porta a vetri posta
in prossimità del campo da gioco. Il Tribunale
di Milano, con sent. 30 gennaio 2009, accertata
la responsabilità dei convenuti, li ha condannati
al risarcimento del danno patrimoniale e non pa-
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trimoniale subito dal ragazzo. Il giudice, quindi,
dopo aver liquidato il danno alla salute, ha preso
in considerazione il danno non patrimoniale “diverso dal biologico” consistente nella particolare sofferenza cagionata al giovane atleta da un
evento che, “all’improvviso e forzatamente”, lo
allontanava per mesi dalla normale pratica agonistica e dagli studi intrapresi, caricandolo di ansie
e comprensibili patemi. Tale danno è comprensivo non solo della sofferenza transeunte (ovvero
del danno morale) ma anche “di ogni altro pregiudizio connesso alla forzosa compressione che
l´infortunio ha cagionato allo sviluppo del suo
impegno nell’attività sportiva praticata” (ovvero,
rileviamo, un danno di tipo esistenziale). Sotto
il profilo del danno non patrimoniale, diverso
dal biologico, va tenuto conto della particolare sofferenza cagionata al giovane atleta da un
evento tanto serio e cruento, che all´improvviso
e forzatamente lo allontanava per mesi dalla normale pratica agonistica e dagli studi intrapresi,
caricandolo di ansie e comprensibili patemi. Si
stima equo liquidare per tale voce di danno non
patrimoniale, comprensivo della sofferenza transeunte e di ogni altro pregiudizio connesso alla
forzosa compressione che l´infortunio ha cagionato allo sviluppo del suo impegno nell’attività
sportiva praticata, la somma di complessivi euro
6.000 al valore attuale.
d) Un uomo acquista un immobile e versa
l’intera somma pattuita. I venditori, tuttavia, non
rispettano le clausole contrattuali e rendono disponibile l’appartamento solo tre mesi dopo la
data prevista per la consegna. Il Tribunale accerta l’inadempimento contrattuale dei venditori e
li condanna al risarcimento del danno derivante dal mancato utilizzo dell’immobile quantificato in via equitativa in euro 2.100 nonché
al pagamento delle spese condominiali sostenute
dall’acquirente in tale lasso di tempo. Il giudice
accoglie, altresì, la domanda volta al risarcimento del danno esistenziale patito dall’acquirente
il quale non ha potuto godere dell’appartamento
per ben tre mesi. Nel caso di specie è stato violato il diritto dell’attore a vivere con la compagna
(la quale era incinta) nella casa appena acquistata
ove auspicava di veder nascere e crescere la figlia. Il danno esistenziale così accertato è stato
liquidato, in via equitativa, con la somma di euro
3.000 (così Trib. Roma 30 luglio 2009).
e) È risarcibile non solo il danno morale, ma
anche il danno esistenziale patito dalla parte offesa (così Cassazione penale n. 36276 del 2010).
2059
u  La valutazione del danno morale sfugge,
in virtù del suo contenuto etico, ad una precisa
quantificazione ed è, pertanto, di natura essenzialmente equitativa; tuttavia, il giudice di
merito, al cui prudente criterio essa è rimessa, deve rispettare l’esigenza di una razionale
correlazione tra l’entità oggettiva del danno
(specie se reiterato nel tempo) e l’equivalente
pecuniario, in modo che questo, tenuto conto
del potere di acquisto della moneta, mantenga
la sua connessione con l’entità e la natura del
danno da risarcire, così che non rappresenti un
mero simulacro o una parvenza di risarcimento.
Ne consegue che è censurabile l’esercizio del
potere equitativo del giudice di merito ogni
volta che la liquidazione del danno morale
appaia manifestamente simbolica o per nulla
correlata con le premesse di fatto in ordine alla
natura ed all’entità del danno dallo stesso giudice accertate (4671/1996, rv 497714).
u  Il danno morale non è risarcibile quando
la responsabilità dell’autore dell’illecito sia stata
affermata non in seguito ad un accertamento
concreto, ma in base ad una presunzione legale
di responsabilità (9598/1998, rv 519161).
u  Il danno patrimoniale, che per il combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 185 c.p.,
è risarcibile nel caso in cui derivi da un fatto
illecito costituente reato e consistente in un turbamento ingiusto dello stato d’animo o in uno
squilibrio o riduzione delle capacità intellettive
della vittima, comprende anche le sofferenze
fisiche e morali da questa sopportate in stato di
incoscienza (7075/2001, rv 546937).
u  Ai fini del risarcimento del danno da fatto
illecito, il danno non patrimoniale, quale sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto
leso, deve considerarsi verificato nel momento
stesso in cui l’evento dannoso si realizza (o,
nel caso di diffamazione, nel momento in cui
la parte lesa ne viene a conoscenza), pur dovendosi tener conto della natura istantanea o
permanente dell’illecito, o della sua reiterazione. Ne consegue che la liquidazione del danno
deve effettuarsi con riferimento al momento
dell’evento dannoso ed alle caratteristiche
indicate, mentre non incidono su di essa fatti
ed avvenimenti successivi, quale la morte del
soggetto leso (10980/2001, rv 548928).
u  In tema di risarcimento del danno ogniqualvolta si verifichi la lesione di un interesse
costituzionalmente protetto, il pregiudizio
consequenziale integrante il danno morale
soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche
se il fatto non sia configurabile come reato.
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2059
Nella liquidazione equitativa dei pregiudizi
ulteriori, il giudice non potrà non tener conto
di quanto già eventualmente riconosciuto per
il risarcimento del danno morale soggettivo, in
relazione alla funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona (8827/2003).
u  Il riconoscimento dei diritti della famiglia,
di cui all’articolo 29 Cost., va inteso non già
come tutela delle estrinsecazioni della persona
nell’ambito esclusivo di quel nucleo, ma nel più
ampio senso di modalità di realizzazione della
vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori
e dei sentimenti che il rapporto parentale ispira,
generando bisogni e doveri, ma dando anche
luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni
e significati. Allorché un fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto,
provocando una rimarchevole dilatazione dei
bisogni e dei doveri e una determinante riduzione, se non un annullamento, delle positività che
dal rapporto parentale derivano, il danno non
patrimoniale consistente nello sconvolgimento
delle abitudini di vita in relazione all’esigenza
di provvedere perennemente ai bisogni del familiare deve senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela ulteriore apprestata dall’articolo 2059 c.c. in caso di lesione di un interesse
costituzionalmente protetto (8827/2003).
u  Il danno derivante da morte di un congiunto, incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell’atto illecito e i superstiti,
non è riconoscibile se non attraverso elementi
indiziari e presuntivi, che, opportunamente
valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del
giudice (15019/2005).
u  Il riconoscimento dei diritti della famiglia
va inteso non, restrittivamente, come tutela
delle estrinsecazioni della persona nell’ambito
esclusivo di quel nucleo, con una proiezione
di carattere meramente interno, ma nel più
ampio senso di modalità di realizzazione della
vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori
e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando
luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni
e significati. Allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto,
provocando una rimarchevole dilatazione dei
bisogni e dei doveri e un determinante riduzione, se non annullamento, delle positività che
dal rapporto parentale derivano, il danno non
patrimoniale consistente nello sconvolgimento
delle abitudini di vita del coniuge in relazione
all’esigenza di provvedere agli straordinari bi-
CODICE CIVILE
sogni dell’altro coniuge, sopravvissuto a lesioni
seriamente invalidanti, deve senz’altro trovare
ristoro nell’ambito della tutela apprestata dall’articolo 2059 c.c. in caso di lesione di un interesse della persona costituzionalmente protetto
(20324/2005).
u  Il danno non patrimoniale è, diversamente
dal danno patrimoniale ex articolo 2043 c.c.,
danno scaturente dall’evento dannoso di carattere tipico, che si compendia nella triplice accezione del danno morale soggettivo, quale mero
dolore o patema d’animo interiore; del danno
biologico, consistente nella lesione all’integrità
psicofisica accertabile in sede medico-legale; del
cosiddetto danno esistenziale, quale pregiudizio
che determina una modifica peggiorativa della
personalità da cui consegue uno sconvolgimento
delle abitudini di vita, con alterazione del modo
di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno
del nucleo familiare, conseguente all’ingiusta
violazione di valori essenziali costituzionalmente
tutelati della persona (9861/2007).
u  In tema di responsabilità aquiliana, il danno non patrimoniale deve essere risarcito non
solo nei casi di lesione di situazioni soggettive
costituzionalmente protette, ma anche nei casi
di situazioni legislativamente protette come
figure tipiche di danno non patrimoniale, rientranti nell’ambito di una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del codice
civile. Non appare riconducibile tuttavia né
all’una né all’altra categoria di danni non patrimoniali risarcibili la perdita, a seguito di un
fatto illecito (incidente stradale), di un cavallo
indicato dalla parte come animale di affezione,
in quanto essa non è qualificabile come fattispecie di danno esistenziale consequenziale alla
lesione di un interesse della persona umana alla
conservazione di una sfera di integrità affettiva
costituzionalmente tutelata, né tanto meno può
essere sufficiente a tal fine la deduzione di un
danno in re ipsa, con il generico riferimento alla
perdita della qualità della vita (14846/2007).
u  Ineriscono alla sfera della famiglia, costituzionalmente protetta, i pregiudizi alla realizzazione personale derivanti dalla perdita del
prossimo congiunto, in conseguenza di un fatto
illecito altrui. La distruzione del nucleo familiare, la impossibilità dei superstiti di esplicare
la propria personalità nei rapporti con il congiunto, la perdita delle attività sociali e culturali
costituiscono delle privazioni e modifiche delle
abitudini della vita, in senso negativo che rientrano nelle dimensioni costitutive del danno da
perdita parentale. Il parente che intende indica-
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re la dimensione esistenziale e non patrimoniale
di tale danno, unitamente alle perdite di ordine
morale soggettivo, ed alle perdite psicofisiche
della propria salute, deve allegare e provare le
diverse situazioni di danno, in modo da evitare
qualsiasi possibile duplicazione (20987/2007).
u  La prova, anche del danno parentale-esistenziale, è a carico di chi ne chiede il risarcimento, e il giudice deve decidere iuxta allegata et
provata, secondo le prove, anche in via presuntiva, dedotte dalla parte. La esistenza del danno
parentale, qualunque sia il profilo dedotto (come
danno diretto di ordine psichico, o come patema
d’animo proprio del danno morale, o come autonomo danno esistenziale, ma ancorato a posizioni soggettive costituzionalmente protette) deve
essere provato come danno conseguenza (nella
specie di un illecito sanitario da cui è derivata la
morte di una giovanissima paziente ricoverata e
non debitamente curata) (20987/2007).
u  Una lettura costituzionalmente orientata
delle norme processuali in materia di intervento
adesivo autonomo, deve consentire la legittimazione a partecipare al processo già pendente tra altri soggetti, acquisendo, per effetto del
processo stesso, la qualità di parte. I soggetti
che intervengono debbono peraltro accettare il
processo nello stato in cui si trova, operando nei
loro confronti le preclusioni connesse funzionalmente alle fasi di sviluppo del procedimento. La
preclusione non opera in relazione all’attività
assertiva del volontario interveniente nei cui
confronti non è operante il divieto di produrre
domande nuove, divieto che vincola le parti
originarie (20987/2007).
u  Nel bipolarismo risarcitorio (danni patrimoniali e danni non patrimoniali) previsto
dalla legge, al di là della questione puramente
nominalistica, non è possibile creare nuove categorie di danni, ma solo adottare per chiarezza
del percorso liquidatorio, voci o profili di danno,
con contenuto descrittivo (ed in questo senso ed
a questo fine può essere utilizzata anche la locuzione danno esistenziale, accanto a quella di
danno morale e danno biologico), tenendo conto che da una parte deve essere liquidato tutto
il danno, non lasciando privi di risarcimento profili di detto danno, ma che dall’altra deve essere
evitata la duplicazione dello stesso, che urta contro la natura e funzione puramente risarcitoria
della responsabilità aquiliana (22884/2007).
u  Allorché si chieda, in sede di responsabilità
aquiliana, il risarcimento di “tutti i danni”, la
domanda investe sia il danno patrimoniale che
quello non patrimoniale. In tema di risarcimento
dei danni da responsabilità civile, la domanda di
2059
risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non
patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività esprime la volontà di riferirsi ad
ogni possibile voce di danno, con la conseguenza
che solo nel caso in cui nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, l’eventuale
domanda proposta in appello per una voce non
già indicata in primo grado, costituisce domanda
nuova, come tale inammissibile (22884/2007).
u  Il danno morale subiettivo, sofferto per
un danno alla persona, rientra a pieno titolo
nella lettura costituzionalmente orientata del
danno non patrimoniale e dell’articolo 2059 c.c.
La responsabilità per danno non patrimoniale
può essere imputata, così come avviene in caso
di danno patrimoniale, a titolo di responsabilità
oggettiva. Alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex articolo 2059 c.c. non ostano né la
mancanza di un accertamento in concreto della
colpa dell’autore del danno, tutte le volte in cui
essa venga ritenuta sussistente in base ad una
presunzione di legge, quale quella di cui all’articolo 2050 c.c., né l’impossibilità di qualificare il
fatto dannoso in termini di reato (25187/2007).
u  Ai fini della risarcibilità del danno morale,
alla stregua del combinato disposto degli artt.
2059 c.c. e 185 c.p., non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del
danno, se essa, come nel caso di cui all’art. 2054
c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una
presunzione di legge e, se ricorrendo la colpa, il
fatto sarebbe qualificabile come reato. Pertanto, l’orientamento che ammette la risarcibilità
del danno morale pure nel caso in cui la responsabilità sia ritenuta su basi presuntive si può ora
considerare diritto vivente (3532/2008).
u  L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga l’autore al risarcimento dei danni
non patrimoniali sia ai sensi dell’art. 10 c.c.,
sia ai sensi dell’art. 29 legge n. 675 n. 1996, ove la fattispecie configuri anche violazione
del diritto alla riservatezza, sia in virtù della
protezione costituzionale dei diritti inviolabili
della persona, di cui all’art. 2 Cost.: protezione
costituzionale che di per sé integra fattispecie
prevista dalla legge (al suo massimo livello di
espressione) di risarcibilità dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c. L’illecita
pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al
risarcimento dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico che la vittima
abbia risentito dalla pubblicazione e di cui abbia fornito la prova (12433/2008).
u  Qualora non possano essere dimostrate
specifiche voci di danno patrimoniale, la parte
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2059
lesa può far valere il diritto al pagamento di
una somma corrispondente al compenso che
avrebbe presumibilmente richiesto per dare
il suo consenso alla pubblicazione: somma da
determinarsi in via equitativa, con riferimento
al vantaggio economico conseguito dall’autore
dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione, tenendo conto, in particolare, dei criteri
enunciati dall’art. 128, 2º comma, della legge
n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto di
autore (12433/2008).
u  In tema di risarcimento del danno dovuto
all’interruzione della fornitura di energia elettrica, non è ipotizzabile un danno alle relazioni
sociali quale conseguenza della revoca degli inviti per una festa che prevedeva oltre cento ospiti;
il disagio e il dispiacere per la mancata serata in
compagnia non costituiscono danno non patrimoniale o esistenziale giuridicamente rilevante,
ma attengono alla sfera pregiuridica dei rapporti
di rilievo meramente sociale (29211/2008).
u  Il diritto al risarcimento da fatto illecito
concretatosi in un evento mortale va riconosciuto anche al convivente more uxorio del defunto
stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e
materiale. A tal scopo non sono sufficienti né
le dichiarazioni rese dagli interessati a fine di
formazione di un atto di notorietà né le indicazioni fornite dalla coppia alla pubblica amministrazione per fini anagrafici (23725/2008).
u  In relazione al ritardo nell’erogazione
dell’indennizzo a favore di soggetti danneggiati da trasfusioni o vaccinazioni obbligatorie
(art. 1 della legge n. 210 del 1992) non è configurabile il danno non patrimoniale risarcibile ai
sensi dell’art. 2059 c.c., posto che quest’ultimo
riguarda le ipotesi in cui sia leso un valore inerente la persona, il quale, nella specie, risulta
già tutelato mediante l’erogazione dell’indennizzo stesso (26883/2008).
u  L’ingiusta prospettazione di una bocciatura rappresenta una delle peggiori evenienze
per uno studente. Pertanto la minaccia di una
bocciatura da parte di un insegnante può ingenerare forti timori, incidendo sulla libertà
morale dei ragazzi (36700/2008).
u  Il contratto avente ad oggetto utenze telefoniche deve essere inquadrato nello schema
giuridico del contratto di somministrazione,
rientrante nella categoria dei cosiddetti “contratti per adesione”, nei quali il creditore che
agisca per il pagamento o il risarcimento dei
danni ha esclusivamente l’onere di allegazione
CODICE CIVILE
dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento e di provare il pregiudizio subito, mentre è la parte inadempiente a dover provare
l’insussistenza dell’inadempimento mediante la
prova positiva dell’assolvimento degli obblighi
su di lui gravanti (Trib. Montepulciano 20 febbraio 2009).
u  Per l’accertamento dell’effettiva perdita
della capacità lavorativa per le lesioni subite a
seguito di incidente stradale, occorre una valutazione complessiva da parte del giudice, il quale
non può ridurre la percentuale d’invalidità sul rilievo che l’infortunato ha un titolo di studio che
consente lo svolgimento di un impiego sedentario, ma deve apprezzare in concreto l’attività
lavorativa per verificare quanto la lesione incida
sulle chances di mobilità lavorativa (1969/2009).
u  Ai fini della liquidazione del danno non
patrimoniale conseguito alla morte del congiunto a seguito di commissione di un fatto
astrattamente configurabile come reato - comprensivo di qualunque pregiudizio derivante
dalla lesione di interessi inerenti la persona
meritevoli di tutela in base all’ordinamento
secondo quanto statuito dalle sezioni unite con
sentenza n. 26972 del 2008 - non può non tenersi conto della presumibile durata nel tempo
del pregiudizio provocato ai congiunti dalla
perdita del rapporto parentale, benché non sia
inibito al giudice di ritenere che tale pregiudizio
sarebbe andato progressivamente scemando,
fino anche ad annullarsi dopo un adeguato lasso di tempo, e di considerare dunque irrilevante
che, al momento della morte, l’aspettativa di
vita del defunto fosse inferiore, a causa delle
infermità dalle quali egli era affetto, a quella
media considerata dalle tabelle in uso presso i
vari uffici giudiziari (3357/2009).
u  In tema di risarcimento danni per investimento sulle strisce pedonali, il concorso colposo
può essere ravvisato solo ove il pedone abbia
tenuto una condotta assolutamente imprevedibile e del tutto straordinaria, non ipotizzatale
nel caso di semplice attraversamento “frettoloso ed a testa bassa” (20949/2009).
u  In tema di c.d. “danno da nascita indesiderata”, sussiste la responsabilità dell’Azienda sanitaria da cui dipende l’ospedale che ha
effettuato gli esami strumentali a verificare il
regolare evolversi di una gestazione, allorquando, a causa dell’intempestiva diagnosi di gravi
malformazioni del feto, ai genitori sia stato negato il diritto di decidere per l’interruzione della gravidanza, attesa la sussistenza di un grave
turbamento psichico degli stessi che si traduce
in una malattia dell’anima (13/2010).
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
u  In tema di c.d. “danno da nascita indesiderata”, è da escludere la responsabilità
professionale del medico che abbia prescritto
tempestivamente gli esami da effettuare, ma le
cui prescrizioni siano rimaste disattese da parte
della struttura ospedaliera (13/2010).
u  La “nascita indesiderata” determina una
radicale trasformazione delle prospettive di vita
dei genitori, i quali si trovavano esposti a dover
misurare (non i propri specifici “valori costituzionalmente protetti”, ma) la propria vita quotidiana, l’esistenza concreta, con le prevalenti
esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici
che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta
procreativa, allora finiscono per consistere proprio nei “rovesciamenti forzati dell’agenda” di
cui parte della dottrina discorre nel prospettare
la definizione del danno esistenziale (13/2010).
u  La fattispecie della “nascita indesiderata”
sembra costituire un caso paradigmatico di lesione di un interesse che non determina un prevalente danno morale o biologico, peraltro sempre
possibile, ma impone al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute
come in quelle più importanti, una vita diversa e
peggiore (quanto si voglia nobilitata dalla dedizione al congiunto svantaggiato, ma peggiore,
tanto che nessuno si augurerebbe di avere un
figlio senza gambe piuttosto che con) di quella
che avrebbe altrimenti condotto (13/2010).
u  In tema di “danno da nascita indesiderata”,
qualora l’imperizia del medico impedisca alla
donna di esercitare il proprio diritto all’aborto, e
ciò determini un danno alla salute della madre, è
ipotizzatane che da tale danno derivi un danno
alla salute anche del marito (13/2010).
u  Il danno esistenziale va risarcito a condizione che lo stesso venga debitamente provato.
Per danno esistenziale deve intendersi ogni
pregiudizio (di natura non meramente emotiva
ed interiore, ma oggettivamente accertabile)
provocato sul fare areddittuale del soggetto,
che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse
quanto all’espressione e realizzazione della sua
personalità nel mondo esterno e lo stesso va
dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento (ivi compresa la prova per
presunzioni) (Trib. Varese 12 aprile 2010).
u  Il danno morale è il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva
cagionata dal fatto lesivo in sé considerato. Deve
essere convalidata la giurisprudenza antecedente
alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 nella
parte in cui si affermava che il danno biologico
2059
ed il danno morale hanno natura diversa e non
si identificano in alcun modo in quanto il primo
consiste nella lesione dell’integrità psicofisica
mentre il secondo è costituito dalla lesione dell’integrità morale (Trib. Varese 12 aprile 2010).
u  È compito del giudice fornire una adeguata motivazione in merito alla prova della
sofferenza soggettiva patita dal danneggiato
ed in merito all’adeguamento dei valori al caso
concreto (Trib. Varese 12 aprile 2010).
u  In caso di danni connessi alle prestazioni
di medici operanti all’interno della struttura
sanitaria, incombe sulla vittima che agisce in
giudizio l’onere di provare la stipulazione del
contratto e l’inadempimento del professionista,
mentre incombe sulla struttura l’onere di provare che la prestazione sia stata eseguita in modo
idoneo e che gli esiti letali siano dipesi da evento imprevisto ed imprevedibile (1524/2010).
u  Il diniego illegittimo rivolto all’assicurato - da parte della Cassa previdenziale di
appartenenza, di ricongiunzione dei periodi assicurativi, costituisce una forma di ‘imperizia’,
e quindi di colpa, che come tale genera profili
di responsabilità non patrimoniale risarcibili in
capo al professionista interessato (3023/2010).
u  Per effetto della lettura evolutiva dell’art.
2059 c.c. fornita dalla più recente giurisprudenza
della Corte di Legittimità, il danno non patrimoniale deve ritenersi risarcibile non solo nei casi
contemplati da apposita previsione di legge ma
anche in caso di lesione dei valori fondamentali
della persona tutelati dalle disposizioni immediatamente precettive della Carta Costituzionale. Si
è in questo modo aderito ad un approccio ermeneutico che legge in senso elastico la tipicità del
danno non patrimoniale risarcibile, consentendo
il ristoro del danno in caso di lesione di valori
costituzionali primari, oltretutto non confinabili
ad un numerus clausus in quanto ricavabili, in
forza della clausola aperta di cui all’art. 2 della
Costituzione, in base ad un criterio dinamico che
consente di apprezzare l’emersione, nella realtà
sociale, di nuovi interessi aventi rango costituzionale in quanto attinenti a posizioni inviolabili
della persona (3397/2010).
u  L’ampliamento della categoria del danno
non patrimoniale, categoria unitaria non scindibile in sottocategorie strutturalmente autonome, è tuttavia compensata, dall’introduzione
di un limite ontologico e di un onere probatorio. Quanto al primo, in quadro interpretativo
attento al contemperamento tra i principi costituzionali di solidarietà e di tolleranza, il risarcimento del danno non patrimoniale costituzionalmente qualificato è stato ammesso nei soli
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2059
casi in cui la lesione del diritto costituzionale sia
qualificata dalla serietà dell’offesa e dalla gravità delle conseguenze nella sfera personale.
Quanto al secondo aspetto la Cassazione, superando la teoria del danno evento, esige che il
danneggiato fornisca la prova, oltre dell’evento
dato dalla sussistenza di una lesione del diritto
costituzionalmente primario che superi la soglia
della tollerabilità, anche della ricorrenza di significative ripercussioni pregiudizievoli sotto il
profilo del danno conseguenza (3397/2010).
u  Anche a ritenere sussistente l’incisione dei
valori di cui agli artt. 2, 4 e 41 Cost., il Collegio
reputa che il semplice ritardo, che la condotta
amministrativa ha cagionato, nell’inizio di
un’attività economica (nella specie di rivendita
di giornali) non evidenzi una lesione grave dei
diritti primari della persona tale da ripercuotersi, oltre la soglia della tollerabilità, sulla qualità
della vita e sulla sfera esistenziale (3397/2010).
u  Il semplice ritardo, nell’inizio di un’attività
economica (nella specie di rivendita di giornali),
cagionato dalla condotta amministrativa non
costituisce un fatto idoneo in quanto tale, in
assenza dell’introduzione di ulteriori sostegni
probatori, a far presumere il fatto ignoto della
sussistenza di danni non patrimoniali qualificati
sotto il profilo delle ripercussioni gravi sulla sfera personale ed esistenziale (3397/2010).
u  La categoria del danno non patrimoniale
ex art. 2059 c.c. ha natura onnicomprensiva;
pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione
di diritti inviolabili della persona (es.: diritto
alla salute), costituisce pur sempre un’ipotesi
di danno conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza
materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente
danneggiante. Devono dirsi tendenzialmente
escluse ipotesi in cui il ristoro del danno non
patrimoniale (anche sotto la specie di danno
biologico da usura psico-fisica) possa essere in
concreto ristorato a prescindere dalla sua concreta allegazione e prova (4553/2010).
u  Nel caso in cui il lavoratore sia stato adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale (senza, peraltro, aver
goduto di alcun riposo compensativo), laddove
il medesimo lavoratore richieda, in relazione
alle indicate modalità della prestazione, il risarcimento del danno non patrimoniale per usura
psicofisica, ovvero per la lesione del diritto alla
salute o del diritto alla libera esplicazione delle
attività realizzatrici della persona umana, questi è tenuto, comunque, ad allegare e provare
CODICE CIVILE
in termini reali, sia nell’an che nel quantum, il
pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei
suoi caratteri naturalistici nonché nella sua
dipendenza causale dalla violazione dei diritti
patrimoniali di cui all’art. 36, Cost. (4553/2010).
u  Nel contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso”, sottoscritto
dall’utente sulla base di una articolata proposta
contrattuale, spesso basata su un depliant illustrativo, l’organizzatore o il venditore assumono
specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo,
riguardo a modalità di viaggio, sistemazione
alberghiera, livello dei servizi etc., che vanno
“esattamente” adempiuti; pertanto ove la prestazione non sia esattamente realizzata, sulla
base di un criterio medio di diligenza ex. art.
1176 1° comma c.c. (da valutarsi in sede di fase di
merito), si configura responsabilità contrattuale,
tranne nel caso in cui organizzatore o venditore
non forniscano adeguata prova di un inadempimento ad essi non imputabile (5189/2010).
u  Nel contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso”, organizzatore e venditore devono provare: o il caso fortuito
(o la forza maggiore), o l’esclusiva responsabilità del consumatore, oppure l’esclusiva responsabilità di soggetto-terzo, quali eventi successivi
alla stipula del “pacchetto” (5189/2010).
u  Quando in seguito alla vaccinazione il figlio contrae la poliomielite, non solo il piccolo
ha diritto al risarcimento del danno - biologico,
morale e patrimoniale - ma anche i genitori
(singolarmente) devono essere indennizzati in
rapporto alla vita di relazione e al dovere di
assistenza continua e solidale al minore per il
resto della sua vita dolorosa (5190/2010).
u  In caso di immissioni acustiche valutate
come obiettivamente intollerabili, sussiste il
danno alla salute laddove l’attore dimostri un
nesso tra i rumori ed i disturbi patiti, ma non si
configura alcun danno morale. Il superamento
della soglia delle immissioni acustiche, infatti,
non costituisce di per sé reato, bensì illecito
amministrativo. Né ai fini del riconoscimento di
un tale danno può invocarsi l’art. 32 della Costituzione (5564/2010).
u  Il risarcimento del danno morale si può
configurare in caso di violazione ingiusta di un
valore inerente la persona e costituzionalmente
garantito. Ma alcun risarcimento è ammissibile
allorché l’attore non richieda, con la domanda
introduttiva del giudizio, alcun tipo di risarcimento del danno non patrimoniale (5564/2010).
u  Il danno cosiddetto “tanatologico” o da
morte avvenuta a breve distanza di tempo da
lesioni personali, deve essere ricondotto nella
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dimensione dei danni morali e concorre alla liquidazione degli stessi da configurare in modo
unitario ed onnicomprensivo, procedendosi alla
personalizzazione della somma complessiva che
tenga conto, perciò, anche della suddetta voce
di danno, ove i danneggiati ne abbiano fatto
specifica e motivata richiesta e sempre che le
circostanze del caso concreto nel giustifichino
la rilevanza (8360/2010).
u  Quando la lesione del diritto all’immagine è stata arrecata dalla pubblicazione di fotografie che non si dovevano pubblicare perché
la persona fotografata non era d’accordo per la
pubblicazione, il fatto che l’interesse della persona che è stato leso sia rappresentato proprio
dal particolare aspetto del diritto all’immagine
rappresentato dal tener riservata la rappresentazione fotografica e ad escluderne la fruibilità
da parte di terzi, e, dunque, la conseguente
certezza che la persona non avrebbe commercializzato la rappresentazione fotografica, non
è di per sé ostativo a che quella persona possa
allegare l’esistenza di un danno rappresentato
dall’utilità che avrebbe potuto conseguire se chi
ha utilizzato indebitamente le fotografie avesse dovuto pagare il suo consenso. Appartenendo la scelta della pubblicazione delle fotografie
esclusivamente alla persona fotografata ed essendo scelta suscettibile di ripensamento nel
tempo, se del caso anche in dipendenza delle
vicende della professione od anche soltanto
dell’evoluzione dei tempi, ad escludere che
si configuri come danno conseguenza il non
aver ottenuto l’utilità che sarebbe derivata dal
prezzo del consenso non sarebbe potuta valere
la scelta fatta al momento dell’utilizzazione di
non volere la pubblicazione delle foto. Ritenere
altrimenti, sarebbe contrario alla stessa logica
di una situazione personalissima come quella
del diritto all’immagine, che non si cristallizza
nell’atteggiarsi della volontà del soggetto in un
dato momento, ma, proprio per la sua natura,
dev’essere a lui garantita anche nella possibilità
ch’egli nel tempo possa mutare convincimento
ed indirizzarsi altrimenti (10957/2010).
u  Inerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno
evento, all’ambito dei fatti costitutivi della
domanda di risarcimento danni, esso dev’essere allegato dal soggetto leso e non può certo
essere individuato ed introdotto d’ufficio da
parte del giudice e ciò nemmeno attraverso il
potere di liquidazione equitativa del danno,
di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere
2059
concerne la quantificazione del danno e non
l’individuazione del danno (10957/2010).
u  Il potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa presuppone l’impossibilità o la rilevante difficoltà di precisare il
danno nel suo esatto ammontare: l’onere della
prova di siffatta difficoltà incombe comunque all’attore che, diversamente, dovrebbe dimostrare
l’effettivo danno. Così nel caso del risarcimento
del danno dovuto al mancato godimento del diritto di usufrutto di un terreno è corretto procedere ad una liquidazione equitativa tenuto conto
della difficoltà di quantificare il danno sia per la
limitata estensione del terreno sia per la variabilità della resa delle coltivazioni (12613/2010).
u  Il professionista sanitario ha l’obbligo di
fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento
chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve
sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un
modulo non generico, dal quale sia possibile
desumere con certezza l’ottenimento in modo
esaustivo da parte del paziente di dette informazioni (15698/2010).
u  In caso di incidente stradale il risarcimento che ne deriva è sì unico, ma deve essere onnicomprensivo di tutte le sofferenze morali patite
dal soggetto leso onde evitare inutili duplicazioni delle varie poste di danno eventualmente
derivate dall’incidente stesso (19816/2010).
u  La parte danneggiata da un comportamento illecito che oggettivamente presenti gli
estremi del reato ha diritto al risarcimento dei
danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059
c.c., i quali debbono essere liquidati in unica
somma, da determinarsi tenendo conto di tutti
gli aspetti che il danno non patrimoniale assume
nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche;
danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.) (19816/2010).
u  Va riconosciuto il danno biologico, subito
dalle persone a seguito dei rumori emessi da un
locale sottostante l’abitazione dei danneggiati,
quale lesione dell’inviolabile diritto della persona alla salute. Tuttavia non rappresenta una situazione tale da richiedere la chiusura anticipata
del locale essendo sufficiente limitare e ridurre i
rumori e gli schiamazzi notturni (19851/2010).
u  Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente
reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno non patrimoniale, concretamente accertato in relazione ad una particolare
situazione affettiva con la vittima, non essendo
ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto
anche tale danno trova causa immediata e di-
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retta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio
contro il responsabile. La liquidazione di tale
danno non può che avvenire in via equitativa,
con una valutazione complessiva del danno non
patrimoniale, potendosi ricorrere a presunzioni sulla base di elementi obiettivi, forniti dal
danneggiato quali le abitudini di vita, la consistenza del nucleo familiare e la compromissione
delle esigenze familiari (20667/2010).
u  Alla luce di consolidata giurisprudenza
di questa Corte, secondo la quale ai prossimi
congiunti di persona che abbia subito, a causa
del fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno
non patrimoniale, concretamente accertato
in relazione ad una particolare situazione
affettiva con la vittima, non essendo ostativo
il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche
tale danno trova causa immediata e diretta nel
fatto dannoso, con conseguente legittimazione
del congiunto ad agire “iure proprio” contro il
responsabile (Cass. 9556 del 2002). La liquidazione di tale danno non può che avvenire in via
equitativa, con una valutazione complessiva del
danno non patrimoniale, potendosi ricorrere a
presunzioni sulla base di elementi obiettivi, forniti dal danneggiato quali le abitudini di vita,
la consistenza del nucleo familiare e la compromissione delle esigenze familiari (20667/2010).
u  Nel caso di un sinistro stradale ove la morte dell’infortunato sopraggiunga solo mezz’ora
dopo l’incidente, il danno per morte va preso in
considerazione quale peculiare voce o aspetto
dei danni non patrimoniali subiti direttamente
dai parenti, fra i quali danni rientrano anche
quelli conseguenti alla perdita del rapporto
parentale; al dolore da essi risentito in proprio,
di riflesso, per la consapevolezza del male che
il proprio congiunto ebbe a subire, e così via. Si
tratta di danni che i congiunti possono far valere iure proprio, quale parte dei danni non patrimoniali da essi personalmente subiti, non di
danni spettanti iure ha ereditario (25264/2010).
u  In caso di riduzione dell’importo da liquidare agli eredi a titolo di risarcimento per
i danni non patrimoniali subiti a seguito della
perdita di un congiunto il giudice è tenuto a
fornire adeguata motivazione (25264/2010).
u  Il danno non patrimoniale è risarcibile
nei soli casi previsti dalla legge, e cioè, secondo
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 del Cc: a) quando il fatto
illecito sia astrattamente configurabile come
reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente
CODICE CIVILE
dalla lesione di qualsiasi interesse della persona
tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di
rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una
delle fattispecie in cui la legge espressamente
consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad
esempio, nel caso di illecito trattamento dei
dati personali o di violazione delle norme che
vietano la discriminazione razziale); in tal caso
la vittima avrà diritto al risarcimento del danno
non patrimoniale scaturente dalla lesione dei
soli interessi della persona che il legislatore ha
inteso tutelare attraverso la norma attributiva
del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza o a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia
violato in modo grave diritti inviolabili della
persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, e con la precisazione, in tale ultimo caso,
che la rilevanza costituzionale deve riguardare
l’interesse leso e non il pregiudizio in conseguenza sofferto, e che la risarcibilità del danno
non patrimoniale presuppone, altresì, che la
lesione sia grave e che il danno non sia futile. In
tal caso, inoltre, la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente
dalla lesione di tali interessi, che, al contrario
delle prime due ipotesi, non sono individuati ex
ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (4427/2011).
u  Una volta ravvisata la responsabilità di un
soggetto per i danni derivati dalla lesione di un
diritto inviolabile della persona, qual è la salute,
la risarcibilità di un tipo di pregiudizio non patrimoniale che sia conseguenza della lesione di
quel diritto non può essere affermata o esclusa
in riferimento a una qualificazione che concerna
il comportamento dell’autore della condotta, in
quanto il danno risarcibile va individuato sul
piano degli effetti e non delle modalità della
lesione dell’interesse protetto (6749/2011).
u  Non ha diritto al risarcimento del danno
non patrimoniale conseguente alla perdita del
proprio tempo libero l’avvocato che “perde”
quattro ore per farsi riattivare la linea adsl a
causa delle informazioni sbagliate fornite dall’operatore telefonico. Nella specie, va riconosciuto solo il diritto al risarcimento dei danni
subiti per l’illegittima sospensione delle linee
telefoniche urbane e per le errate informazioni
ricevute. Il diritto al tempo libero, infatti, non
costituisce un diritto fondamentale dell’uomo
e, nella sola prospettiva costituzionale, non integra un diritto costituzionalmente protetto, e
ciò per la semplice ragione che il suo esercizio è
rimesso alla esclusiva autodeterminazione della
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persona, che è libera di scegliere tra l’impegno
instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a
realizzare il suo tempo libero da lavoro e da
ogni occupazione (9422/2011).
u  In presenza di una liquidazione del danno morale che sia stata espressamente estesa
anche ai profili relazionali, nei termini propri
del danno c.d. esistenziale é da escludersi la
possibilità che, in aggiunta a quanto a titolo
di danno morale già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare al (diverso)
titolo di danno esistenziale; così come deve del
pari dirsi nell’ipotesi di liquidazione del danno
biologico effettuata avendosi riguardo anche
a siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato. Laddove tali
aspetti relazionali (del tutto ovvero secondo i
profili peculiarmente connotanti il c.d. danno
esistenziale) non siano stati invece presi in considerazione, dal relativo ristoro non può invero
prescindersi (10527/2011).
u  In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, il giudice nel procedere alla quantificazione ed alla liquidazione deve evitare duplicazioni risarcitorie, mediante l’attribuzione
di somme separate e diverse in relazione alle
diverse voci (sofferenza morale, danno alla salute, danno estetico, ecc), ma deve comunque
tenere conto dei diversi aspetti in cui il danno si
atteggia nel caso concreto (11609/2011).
u  Il mobbing si realizza quando è riconoscibile una azione aggressiva cosciente e volontaria, protratta nel tempo, finalizzata a mettere
uno o più lavoratori in una condizione di forte
disagio col fine dell’espulsione dal contesto
lavorativo o della sottomissione al potere direttivo. Occorre pertanto che la condotta del datore di lavoro si concretizzi in sistematici e reiterati comportamenti ostili da cui può derivare
l’effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico del
lavoratore (nel caso di specie la S.C. ha escluso
che possano essere ricondotti ad una azione di
mobbing alcuni episodi, comunque marginali
ed isolati, riconducibili ad un comportamento
scorretto del datore di lavoro ma non connotati
da un carattere persecutorio nei confronti del
dipendente) (12048/2011).
u  Il danno non patrimoniale da lesione
della salute costituisce una categoria ampia ed
omnicomprensiva, nella cui liquidazione può e
deve tenersi conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare
il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi
diversi a pregiudizi identici, di talché si ritiene,
in via di principio, inammissibile, in quanto duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzio-
2059
ne del risarcimento sia per il danno biologico,
sia per il danno morale, inteso quale sofferenza
soggettiva, come pure la liquidazione del danno
biologico separatamente da quello c.d. estetico,
da quello alla vita di relazione e da quello esistenziale (14263/2011).
u  La responsabilità del medico in ordine al
danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della
professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della specifica
attività esercitata; tale diligenza non è quella del
buon padre di famiglia ma quella del debitore
qualificato ai sensi dell’art. 1176, secondo comma
c.c. che comporta il rispetto degli accorgimenti e
delle regole tecniche obbiettivamente connesse all’esercizio della professione e ricomprende
pertanto anche la perizia; la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di
cui all’art. 2236, secondo comma c.c. non ricorre
con riferimento ai danni causati per negligenza
o imperizia ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la preparazione media o non
ancora sufficientemente studiati dalla scienza
medica; quanto all’onere probatorio, spetta al
medico provare che il caso era di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità
di esecuzione inidonee ovvero a questi spetta
provare che l’intervento era di facile esecuzione
e al medico che l’insuccesso non è dipeso da suo
difetto di diligenza (2334/2011).
u  In tema di responsabilità contrattuale
della struttura sanitaria e di responsabilità
professionale da contatto sociale del medico,
ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore,
paziente danneggiato, deve limitarsi a provare
l’esistenza del contratto (o il contatto sociale)
e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore,
astrattamente idoneo a provocare il danno
lamentato, rimanendo a carico del debitore
dimostrare o che tale inadempimento non vi
è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è
stato eziologicamente rilevante (2334/2011).
u  Il risarcimento del danno alla persona deve
essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre; il danno
non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione
di interessi inerenti la persona non connotati
da rilevanza economica, costituisce categoria
unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie; il riferimento a determinati tipi di
pregiudizio, in vario modo denominati (danno
morale, danno biologico, danno da perdita del
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2059
rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno; é compito del giudice
accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio
allegato, a prescindere dal nome attribuitogli,
individuando quali ripercussioni negative sul
valore-uomo si siano verificate e provvedendo
alla loro integrale riparazione (11609/2011).
u  Il “danno biologico”, comporta che tale
figura - che ha avuto espresso riconoscimento
normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e
139, recante il Codice delle assicurazioni private
- va individuata nella lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona
suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della
vita del danneggiato, indipendentemente da
eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, con una definizione suscettiva di generale
applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai
definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (11609/2011).
u  Poiché l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno
non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione
da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di
previsioni normative (come l’art. 139 del codice
delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve
entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati
in quelli tabellari elaborati presso il tribunale
di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto (12408/2011).
u  Il danno non patrimoniale da lesione
della salute costituisce una categoria ampia ed
omnicomprensiva, nella cui liquidazione può e
deve tenersi conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare
il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi
diversi a pregiudizi identici, di talché si ritiene,
in via di principio, inammissibile, in quanto duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione del risarcimento sia per il danno biologico,
sia per il danno morale, inteso quale sofferenza
soggettiva, come pure la liquidazione del danno
biologico separatamente da quello c.d. estetico,
da quello alla vita di relazione e da quello esistenziale (14263/2011).
u  Le Tabelle per la liquidazione del danno
non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento
ai fini della liquidazione equitativa ex art. 1226
CODICE CIVILE
c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti
circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione, per le lesioni
di lieve entità conseguenti alla circolazione. I
relativi parametri sono conseguentemente da
prendersi a riferimento da parte del giudice di
merito ai fini della liquidazione del danno non
patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro
e verifica di quella, di inferiore ammontare, cui
sia diversamente pervenuto, incongrua essendo
la motivazione che non dia conto delle ragioni
della preferenza assegnata ad una liquidazione
che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui
si perviene mediante l’adozione dei parametri
esibiti dalle dette tabelle di Milano. Vanno ristorati anche i c.d. aspetti relazionali propri del
danno da perdita del rapporto parentale o del
c.d. danno esistenziale, sicché è necessario verificare se i parametri recati dalle tabelle tengano
conto (anche) dell’alterazione/cambiamento
della personalità del soggetto che si estrinsechi
in uno svolgimento dell’esistenza, e cioè in (radicali) cambiamenti di vita, dovendo in caso contrario procedersi alla c.d. “personalizzazione”,
riconsiderando i parametri recati dalle tabelle
in ragione (anche) di siffatto profilo, al fine di
debitamente garantire l’integralità del ricorso
spettante al danneggiato (in applicazione del
suesposto principio, la Corte ha cassato la decisione dei giudici del merito che, nel disporre
il risarcimento del danno non patrimoniale in
favore della una vittima di un sinistro stradale,
avevano preso a riferimento le Tabelle elaborate
dal Tribunale di Brescia, senza peraltro prevedere una personalizzazione di tale danno, alla
luce delle gravi conseguenti esistenziali riportate
dalla vittima in seguito al sinistro) (14402/2011).
u  In tema di risarcimento del danno non
patrimoniale derivante da demansionamento
e dequalificazione, il riconoscimento del diritto
del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre
automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una
specifica allegazione, nel ricorso introduttivo
del giudizio, dall’esistenza di un pregiudizio (di
natura non meramente emotiva ed interiore,
ma oggettivamente accertabile) provocato
sul fare reddituale del soggetto, che alteri le
sue abitudini e gli assetti relazionali propri,
inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non
si pone quale conseguenza automatica di ogni
comportamento illegittimo rientrante nella
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R.D. 16 marzo 1942, n. 262
suindicata categoria, cosicché non è sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non
solo di allegare il demansionamento ma anche
di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno
non patrimoniale e del nesso di causalità con
l’inadempimento datoriale (24718/2011).
u  La liquidazione del danno morale operata mediante il meccanismo semplificativo del
riferimento ad una mera frazione di quanto
liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico non consente di cogliere quale sia stato
il punto di riferimento dai giudici di merito in
concreto preso in considerazione ai fini della
debita personalizzazione della liquidazione del
danno morale ai cui fini, per potersi considerare congrua ed adeguata risposta satisfattiva
alla lesione della dignità umana, è necessario
che possa evincersi in quali termini si sia tenuto
conto della gravità del fatto, delle condizioni
soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato
d’animo (2228/2012).
u  La valenza costituzionale del diritto inciso costituisce presupposto di risarcibilità del
danno non patrimoniale solo quando la legge
ordinaria non la contempli essa stessa. Il che
non accade quando il fatto costituisca reato ed
il risarcimento del danno non patrimoniale sia
dunque direttamente previsto dagli artt. 2059
c.c., e 185 c.p.c. (3718/2012).
u  In caso di morte che segua le lesioni dopo
breve tempo, la sofferenza patita dalla vittima
durante l’agonia è autonomamente risarcibile,
non come danno biologico, ma come danno
morale, inteso come sofferenza della vittima
che lucidamente assiste allo spegnersi della
propria vita, sempre che sofferenza psichica vi
sia stata e, dunque, che la vittima sia stata in
condizioni tali da percepire il proprio stato (il
che va escluso in caso di coma immediatamente
conseguito all’evento dannoso) (6273/2012).
u  In caso di lesione dell’integrità fisica con
esito letale, un danno biologico risarcibile in
capo al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è
configurabile qualora la morte sia intervenuta
dopo un apprezzabile lasso di tempo, sì da
potersi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica
del soggetto leso, mentre non è configurabile
quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall’evento, giacché essa non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di
un bene giuridico diverso, e cioè del bene della
vita (6273/2012).
2059
u  Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di danno esistenziale,
inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa
si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla
lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato,
essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.,
interpretato in modo conforme a Costituzione,
con la conseguenza che la liquidazione di una
ulteriore posta di danno comporterebbe una
duplicazione risarcitoria; ove nel danno esistenziale si intendesse includere pregiudizi non
lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che
simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del
divieto di cui all’art. 2059 c.c. (6930/2012).
u  Va riconosciuto il danno biologico terminale subito dalla vittima, ponendo in rilievo che
la quantificazione in via equitativa va operata in
relazione al pregiudizio sofferto, le cui caratteristiche peculiari consistono nel fatto che si tratta
di un danno alla salute che, sebbene temporaneo, è massimo nella sua identità ed intensità.
La quantificazione equitativa va operata avendo
presenti sia il criterio equitativo puro sia il criterio di liquidazione tabellare, purché essi criteri
siano dal giudice adeguatamente personalizzati,
ovvero adeguati al caso concreto (7499/2012).
u  Quando il fatto illecito integra gli estremi
di un reato spetta alla vittima il risarcimento del
danno non patrimoniale nella sua più ampia
accezione, ivi compreso il danno morale inteso
quale sofferenza fisica soggettiva causata dal
reato, che si trasmette agli eredi. Tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo
(circostanze delle quali occorre tener conto
in sede di liquidazione, ma irrilevante ai fini
della risarcibilità) e può sussistere sia da solo
sia unitamente ad. altri tipi di pregiudizi non
patrimoniali (come quelli derivanti da lesioni
personali e, come in questo caso, dalla morte di
un congiunto) (7499/2012).
u  In tema di danno biologico, la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice
aspetto dell’invalidità temporanea e di quella
permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il
decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi.
Ne consegue che il danno biologico di natura
permanente deve essere determinato soltanto
dalla cessazione di quello temporaneo, giacché
altrimenti la contemporanea liquidazione di
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2059
entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (10303/2012).
u  Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, la cui liquidazione non è però
ostativa a che il giudice tenga conto di tutti i
pregiudizi concretamente patiti dalla vittima,
ivi compresi gli eventuali ulteriori danni patrimoniali derivanti dalla riduzione della capacità
lavorativa generica, allorquando la cifra di invalidità, che sia venuta ad investire il danneggiato, non consenta, per la sua entità, l’esercizio di
attività lavorativa da parte del soggetto leso e
dagli atti sia infatti emersa la prova della lesione della capacità generica di attendere ad altri
lavori, confacenti alle attitudini e condizioni
personali ed ambientali dell’infortunato, idonei
alla produzione di fonti di reddito (908/2013).
u  Il “tempo libero” non costituisce, di per
sè, un diritto fondamentale della persona tutelato a livello costituzionale e sovranazionale, e
ciò per la semplice ragione che il suo esercizio
è rimesso alla esclusiva autodeterminazione
della persona, che è libera di scegliere tra del
2012l’impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il proprio tempo
libero da lavoro e da ogni occupazione, con la
conseguenza che non può essere fonte di un
obbligo risarcitorio in relazione al danno non
patrimoniale (21725/2012).
u  Nel nostro ordinamento non esiste l’autonoma categoria del danno “esistenziale”, in
quanto, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi che scaturiscono dalla lesione di interessi di
rango costituzionale della persona, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai
sensi dell’art. 2059 cod. civ., con la conseguenza
che la liquidazione di una ulteriore voce di
danno si risolverebbe in una non consentita duplicazione risarcitoria; ove, invece, si intendesse
includere nella categoria i pregiudizi non lesivi
di diritti inviolabili della persona, tale categoria
sarebbe illegittima, stante la non risarcibilità di
simili pregiudizi in base al menzionato art. 2059
c.c. (3290/2013).
u  Il danno biologico, il danno morale ed il
danno alla vita di relazione rispondono a pro-
CODICE CIVILE
spettive diverse di valutazione del medesimo
evento lesivo, in quanto un determinato evento
può causare, nella persona della vittima come
in quelle dei familiari, un danno alla salute medicalmente accertabile, un dolore interiore ed
un’alterazione della vita quotidiana. Ciò non significa che il giudice di merito sia tenuto, in via
automatica, alla liquidazione separata di tutte
queste singole poste di danno, ma si traduce
nell’obbligo di tenere presente i diversi aspetti
della fattispecie dannosa, evitando duplicazioni
ma anche “vuoti” risarcitori; quanto al danno
da lesione del rapporto parentale, il giudice
dovrà accertare, con onere della prova a carico
dei familiari, se a seguito del fatto lesivo si sia
determinato nei superstiti uno sconvolgimento
delle normali abitudini tale da imporre scelte di
vita radicalmente diverse (19402/2013).
u  Il danno biologico, quello morale e quello
dinamico-relazionale altrimenti definibile “esistenziale”, costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili. Tuttavia, pur non essendo ammissibile, nel
nostro ordinamento, l’autonoma categoria di
“danno esistenziale”, quel che rileva, ai fini risarcitori, è che, ove si siano verificati pregiudizi
scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da
fatti-reato, essi non siano stati già oggetto di
apprezzamento e di liquidazione da parte del
giudice del merito, a nulla rilevando che quest’ultimo li liquidi sotto la voce di danno non
patrimoniale oppure li faccia rientrare secondo
la tradizione passata sotto la etichetta “danno
esistenziale” (23147/2013).
u  Il danno esistenziale non costituisce un’autonoma voce di danno risarcibile, ma costituisce
un aspetto della più ampia categoria del danno non patrimoniale. Di tale danno quindi va
tenuto conto, nel determinare la somma complessivamente spettante a titolo di risarcimento
dei danni non patrimoniali, a cui va apportato
un congruo aumento, in misura da determinare
con riguardo alle peculiarità del caso concreto
(25409/2013).
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