CAPITOLO 1 LA CRONACA GIUDIZIARIA: PROFILI PROBLEMATICI 1. La cronaca giudiziaria nella Costituzione Il rapporto fra giustizia e informazione è oggetto di continui - e, a tratti, aspri contrasti, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Le diversità di approccio al tema in esame discendono, verosimilmente, dalla presenza di interessi eterogenei e contrapposti di rango costituzionale. Gli interessi costituzionalmente garantiti che vengono in considerazione sono almeno tre: l'interesse alla corretta amministrazione della giustizia, l'interesse all'informazione, scindibile in quello del cittadino ad essere informato e in quello della stampa e degli altri mezzi d'informazione ad avere e divulgare notizie relative ad un processo; infine, l'interesse di ogni persona a veder tutelate la sua dignità, la sua immagine, la sua riservatezza1. Un soddisfacente punto di equilibrio tra gli interessi sopra delineati appare di difficile rinvenimento, anche in considerazione del fatto che tanto la Costituzione, quanto le fonti sovranazionali non stabiliscono alcuna gerarchia tra i valori in gioco, rendendo necessario un indirizzo ermeneutico duttile ed articolato, basato sull'idea centrale del bilanciamento tra contrapposti interessi giuridici, necessariamente limitati in modo reciproco dalla loro stessa coesistenza2. Innanzitutto, al fine di ricercare il suddetto equilibrio, è necessario sforzarsi di formulare una definizione “costituzionalmente orientata” del diritto di cronaca: la cronaca è un'attività intellettuale, una forma di esplicazione del pensiero riconducibile al dettato dell'art. 21 Cost., come tale appartenente al sistema costituzionale dei diritti di libertà. 1 G. PISAPIA, - “Comunicazione e privacy”, Tavola rotonda sul tema “Giustizia e informazione: i diritti della persona” (Milano, 21 aprile 1994), in Aa.Vv. Giustizia e informazione: diritti della persona, The International Association of Lions Club, 1994, p. 23. 2 VESPA – VALENTINI - PANSA, Il diritto dell'informazione e dell'informatica, nota a sent. Trib. Roma 11 febbraio 1993, Giuffrè, p. 413 1 Il diritto di cronaca ha l’insostituibile funzione di raccogliere e diffondere le informazioni, in virtù del “rapporto privilegiato” che gli organi di informazione vantano con la realtà, allo scopo di consentire alla collettività un corretto e consapevole esercizio della sovranità che le è riconosciuta dall’art. 1 della Costituzione3. In particolare, la funzione della cronaca “giudiziaria”, che si occupa di dare conto delle vicende processuali che discendono da eventi criminosi, è quella di consentire ai consociati di formarsi una corretta opinione circa i fatti, le responsabilità penalmente rilevanti e l'operato degli organi giudiziari. La Corte costituzionale ha fornito una propria ricostruzione del diritto di cronaca, definendo la libertà di informazione come “la chiave della democrazia”, indispensabile per una consapevole valutazione dei comportamenti dei componenti della società ed, in particolare, di chi esercita funzioni pubbliche4. Un convincimento che la Consulta ha ribadito in una successiva pronuncia, definendo il ruolo svolto dalla stampa “uno strumento essenziale delle libertà di cronaca e d’informazione, cardini del regime di democrazia garantito nella Costituzione”5. Questa sorta di “funzione sociale”6 dell'informazione ne evidenzia il ruolo imprescindibile, in qualità di “watchodog”7 della democrazia. In tale prospettiva, appare ragionevole considerare il controllo popolare sul potere come un presupposto indefettibile dell’essenza stessa della democrazia; ne discende, quale logica conseguenza, che il vaglio sociale deve essere consentito non solo nei confronti del potere di governo e di quello legislativo, in rapporto ai quali è tradizionalmente concepito, ma, a maggior ragione, nei confronti del potere giudiziario.8 Non mancano, infatti, casi di iniziative giudiziarie coraggiose portate a termine grazie al sostegno della stampa; di contributi decisivi alle indagini riportati, suggeriti o A. TOMANELLI, Diritto di cronaca, in www.difesadellinformazione.com. Corte cost., 10 luglio 1974, n. 222; Corte cost. 15 giugno 1972, n. 105. Corte cost., 28 gennaio 1981, n. 1. O. FLAMMINII MINUTO, relazione al Convegno “ La segretezza delle indagini del pubblico ministero ed il diritto di cronaca e informazione della stampa”, Roma, 1998, p. 27 7 L FILIPPI, La sentenza Dupuis c. Francia: la stampa “watchdog” della democrazia tra esigenze di giustizia, presunzione di innocenza e privacy, in Cass. pen., 2008, p. 823 8 P. ONORATO, Potere giudiziario e opinione pubblica, in Giust. e inf., 1975, p. 457. 3 4 5 6 2 raccolti dagli organi di informazione; di insabbiamenti o di torbide manovre diversive smascherati da inchieste giornalistiche9. Il processo penale costituisce un momento topico della verifica e del controllo pubblico, sia individuale che collettivo, sui comportamenti degli altri componenti della società, e dei potenti in particolar modo10. Attraverso gli organi di informazione, la collettività può conoscere e controllare il modo in cui viene resa giustizia, e ciò le consente di accettare la res iudicata: l’insostituibilità della cronaca giudiziaria discende dalla considerazione che, in un ordinamento democratico moderno, è inconcepibile una giustizia segreta, e che questa forma di pubblicità “mediata” del processo - come vedremo più avanti - è sostanzialmente l’unico strumento che consente la cognizione dei fatti giudiziari ad un numero indeterminato di persone, impossibilitate a partecipare direttamente alle udienze dibattimentali. Nessun potere, infatti, può essere legibus solutus, e non essendo opportuno che quello giudiziario dipenda da altri poteri, sottoporlo al controllo dell'informazione significa sottoporlo al controllo della collettività nel cui nome viene esercitato, evitando altri tipi di subordinazione. La dottrina, dunque, riconduce il diritto di cronaca al diritto di manifestazione del pensiero, specificando altresì come, assieme al diritto di critica, ne costituisca una facoltà 11 . Nel momento in cui si attribuisce all’art. 21 Cost. il significato di una “garanzia della libertà di informare”, si realizza un salto qualitativo rispetto alla semplice libertà di manifestare il proprio pensiero, perché si caratterizza il dettato costituzionale non semplicemente in funzione dell’interesse di chi utilizza il mezzo di diffusione, ma altresì in funzione dell’utilità di un prevedibile destinatario della comunicazione; è una manifestazione del pensiero che diventa “veicolo di un messaggio immediato, strumento 9 A rilevarlo G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, Giuffrè, 1989, p. 20 10 C. DE MARTINO, Cronaca giudiziaria e presunzione di innocenza, in AA. Vv., Il diritto dell'informazione e dell'informatica, Giuffrè, p. 203. 11 A. PACE - F. PETRANGELI, Diritto di cronaca e diritto di critica, Cedam, 2004, p. 3 3 di coesione e di crescita della collettività”12. Si registrano, comunque, isolate voci di dissenso rispetto alla suddetta tesi, che configurano il diritto di cronaca come un diritto a sé stante, partendo dalla opinabile considerazione che l'art. 21 Cost. si riferisca alla “manifestazione del proprio pensiero, e non alla pura e semplice narrazione di un fatto”, che non presenterebbe quel connotato di “creatività” da taluni ritenuto essenziale per l'appartenenza alla categoria in esame13. Quest’ultima ricostruzione presta il fianco a rilevanti obiezioni di carattere generale; su tutte, quella che non può esistere un'esposizione pura e semplice di avvenimenti del tutto scevra di un minimo di valutazione e quindi di attività di pensiero strettamente intesa14, desumibile anche, semplicemente, dalla scelta dell'avvenimento su cui si intende scrivere. Da un punto di vista giuridico il pensiero è proprio di chi lo manifesta, anche se questi riporta il pensiero di un altro15: il diritto di cronaca trova la sua collocazione nell'art. 21 Cost., e va riconosciuto a chi narra fatti o esprime un pensiero utilizzando un mezzo tecnicamente idoneo ad informare una cerchia indeterminata di persone. Nelle pronunce della Corte costituzionale è pacifica la riconducibilità del diritto di cronaca nell'alveo dell'art. 21 Cost., e l'impraticabilità di una distinzione tra manifestazione del pensiero e esercizio del diritto di cronaca in senso stretto: “il principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero comprende logicamente la libertà di cronaca”16. La stessa Corte afferma l'esistenza di “un interesse generale, anch'esso indirettamente protetto dall'art. 21 Cost., all'informazione, il quale, in un regime di libera democrazia, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e 12 N. LIPARI, Libertà di informare o diritto ad essere informati?, in Diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 1978, p. 3. 13 V. PERCHIUNNO, Fondamento e legittimità costituzionale del divieto di pubblicazione di determinati atti del procedimento penale, in Archivio penale, 1967, p. 274 14 S. FOIS, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero,1957, p. 200 15 A. PACE-F. PETRANGELI, Diritto di cronaca, cit. p. 4 16 Corte cost., 10 febbraio 1981 n. 16 4 delle idee”17. Il diritto di cronaca si declina in due distinte componenti: una “attiva”, ossia il diritto di informare, l'altra “passiva”, cioè al diritto ad essere informati. L'interesse pubblico ad essere informati “precede” logicamente il diritto ad informare, tanto da configurare, secondo la dottrina più recente, un vero e proprio diritto soggettivo; la dottrina più risalente configurava, invece, il versante passivo della libertà di informazione solo come un mero interesse, non azionabile dagli aventi diritto e non tutelabile in sede giudiziaria. Questa dimensione “recettiva” della libertà di informazione presuppone che la circolazione delle notizie non sia rimessa alla libera disponibilità di chi le detiene18. Una volta collocato il diritto di cronaca in quello più ampio di manifestazione del pensiero, è necessario affrontare il conflitto tra cronaca e riservatezza, particolarmente in relazione allo strumento delle intercettazioni, che, della nostra dissertazione costituisce un imprescindibile àpeiron: la dignità umana è inviolabile, pertanto deve essere rispettata e tutelata; la dignità è divenuto il parametro per la valutazione della liceità del trattamento dei dati personali in ambito giornalistico di cui al Codice deontologico della stampa del 1998, che si propone di bilanciare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all'informazione e con la libertà di stampa. Per tale ragione, il diritto di cronaca deve essere contemperato con l'esigenza di tutelare beni inviolabili: “la tutela giurisdizionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile nell'esigenza che, attraverso l'esercizio di essi, non vengano sacrificati beni ugualmente garantiti dalla Costituzione”19. Stando al dettato dell'art. 21 Cost., l'unico limite apposto al diritto di cronaca sembrerebbe essere quello del buon costume, l’unico esplicitamente sancito dalla norma; la riflessione dottrinaria ne ha individuati di ulteriori, distinguendoli in limiti “esterni” e limiti “interni”. 17 Corte cost. n. 105 del 9 giugno 1972 18 F.M. GRIFANTINI, Cronaca giudiziaria e principi costituzionali, in G. GIOSTRA ( a cura di), Processo penale e informazione:proposte di riforma e materiali di studio, 2001, p. 61 19 Corte Cost. n. 19 del 16 marzo 1962 5 I limiti “esterni” emergono dal raffronto con altri interessi costituzionalmente garantiti20; quelli “interni” al diritto di cronaca sono stati fissati dalla corte di Cassazione, nella la c.d. “sentenza decalogo” sulla libertà di stampa, e quindi sul diritto di cronaca e critica.21 Con quella pronuncia, la Suprema Corte ha fissato i criteri cui i giornalisti devono uniformarsi per potersi configurare la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca rispetto al reato di diffamazione: verità, pertinenza e continenza. Il parametro della verità esprime la necessità della corrispondenza al vero tra i fatti accaduti e i fatti narrati. La giurisprudenza della Suprema Corte ne ha delineato in modo analitico il reale significato e la portata, ritenendo che la verità obiettiva dei fatti possa essere equiparata alla “veridicità” del fatto narrato22; con specifico riferimento alla cronaca giudiziaria si è affermato che “la verità storica può divergere da quella accertata in sede giudiziaria, dati i diversi strumenti e i diversi fini che caratterizzano i due accertamenti e i relativi giudizi” 23 . La pertinenza indica, invece, l'interesse dell'opinione pubblica alla divulgazione dei fatti narrati, mentre la continenza coincide con la correttezza nell'esposizione della notizia, in modo da evitare gratuite aggressioni all'altrui reputazione. In assenza anche di uno solo di questi requisiti il diritto “compresso” risorge in tutta la sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione del pensiero. La funzione delle c.d. exceptiones veritatis è ricavabile dalla natura giuridica delle stesse: infatti, come è stato evidenziato, almeno le prime due ipotesi sono qualificabili come scriminanti; su questo punto non sembra siano ammessi dubbi, d’altronde le scriminanti non sono altro che espressioni di un bilanciamento di interessi operato in concreto sulla base di categorie astratte modellate dal legislatore; se ciò è vero, non v’è chi non veda come la tutela dell’onore, “ceda il passo” alla libera manifestazione del 20 F. MANTOVANI, Mezzi di diffusione e tutela dei diritti umani, in Archivio giuridico, 1968, p. 376 21 Cass. Civ. Sez. I, 18 ottobre 1984,n. 5259, Granzotti, FI, 1984,I, 2711 22 Cass., 17 marzo 1980, Causarano, in Cass. Pen. 1981,186 - CONTRA: G. VASSALLI, Libertà di stampa e tutela penale dell'onore, in Arch. Pen., 1967, I, 31 23 Cass. Sez. III, 16 luglio 1981, Caprara, Rv 151080 6 pensiero, ed in particolare al diritto di essere informati24. Certamente individuare i confini del diritto di cronaca è un’operazione non semplice: si rischia da un lato di introdurre limiti non previsti dalla Costituzione, e dall’altro di assicurare tutela costituzionale ad espressioni del pensiero che non ne sono meritevoli25. Concentrandoci sui limiti esterni ci si interroga su quali beni di rango costituzionale vi siano ricompresi; in linea generale, in caso di antinomia tra interessi costituzionali collidenti, la loro composizione non può essere rimessa in modo arbitrario al legislatore ordinario. Non tutte le soluzioni individuabili sono legittime alla luce della Costituzione: ad esempio, mancando un'espressa relazione di subalternità, non è invocabile il sacrificio totale dell'uno rispetto all'altro. Tanto premesso, il legislatore ordinario supererebbe la soglia del costituzionalmente garantito se disponesse limitazioni del diritto di cronaca che non tornino a vantaggio del bene costituzionale antagonista.. L'eventuale incostituzionalità dei limiti posti, allora, non colpisce la limitazione in quanto tale, bensì l'eccessiva estensione oggettiva, soggettiva o temporale del limite stesso26. Negli ultimi tempi, stante il susseguirsi di processi penali di ampia risonanza mediatica, vanno consolidandosi istanze personalistiche a tutela della riservatezza: se elevarne la soglia di protezione finirebbe per escludere ogni forma di controllo della collettività sull'amministrazione della giustizia, d’altra parte un incondizionato esercizio della cronaca giudiziaria rischierebbe di porre nel nulla le altrettanto legittime prerogative del singolo; è evidente che la composizione di interessi antitetici risulta alquanto complessa.27 24 A. MANNA, Il diritto di cronaca, di critica, di denuncia e la diffamazione: “gli arresti giurisprudenziali”, in Cass. Pen. 2003,11, 3600 25 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale e informazione nell'ottica delle valutazioni costituzionali, in Giur. Cost. 1984, Giuffrè, p. 1282 26 G. GIOSTRA, Processo penale, cit. p. 104 27 C. CARINI, Segretezza e riservatezza delle indagini preliminari: per uno studio sistematico, 2008,Utet p. 51 7 Si tratta di una problematica oggi molto avvertita, che, come vedremo, presenta risvolti particolarmente delicati con riguardo alle intercettazioni telefoniche o di comunicazioni in genere, che operano come una “rete a strascico”28, nella quale restano impigliate informazioni di ogni tipo, anche prive di qualsiasi rilevanza processuale. Nel tentativo di evidenziare i limiti esterni, parte della dottrina ha sostenuto che il diritto di cronaca giudiziaria si collocherebbe in potenziale conflitto anche con il principio espresso dall'art. 27 Cost., per il quale sono vietate affermazioni anticipatorie di condanna, o, comunque, pregiudizievoli della posizione dell'indagato o dell'imputato 29. Una tesi che, per il riferimento all'art. 27 Cost., ha sollevato non poche obiezioni nella dottrina maggioritaria: difatti, per garantire la presunzione di innocenza dell'imputato, bisognerebbe estendere il divieto di pubblicazione degli atti alla fase dibattimentale che, come vedremo, è invece fondata sul principio di pubblicità, e solo in un ordinamento improntato ad una sostanziale presunzione di colpevolezza dell'accusato, la diffusione di notizie relative all'imputazione pregiudica il suo diritto a non essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva30. Questo orientamento è espresso, altresì, in una pronuncia della Suprema Corte risalente al 1980, in cui si afferma che il diritto di cronaca giudiziaria rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e di stampa, e consiste nel potere-dovere conferito al cronista di portare a conoscenza dei lettori rilevanti vicende della vita associata. Sul principio costituzionale di non colpevolezza sino alla definitiva condanna, prevale, dunque, l'interesse pubblico alla conoscenza di fatti di rilievo sociale, quali sono quelli relativi alla perpetrazione di reati e all'attività di polizia giudiziaria31. In altri termini, l'imputato non potrà invocare il “silenzio stampa” fino alla 28 G. GIOSTRA, in Aa. Vv., Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni – un problema cruciale per la civiltà e l'efficienza del processo e per le garanzie dei diritti (Atti del XIX convegno nazionale dell'Associazione, Milano, 5-7 ottobre 2007), Giuffrè , p. 98 29 M. MASSA, Sulla legittimità costituzionale degli art. 684 c.p. E 164 c.p.p., in Rivista italiana di diritto e procedura penale,1964, p. 308 - La tesi è sostenuta anche da FILIPPI ( v. pubblicazione alla nota precedente). 30 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale cit., p. 1280 31 Cass., sez. V, 18 dicembre 1980, Faustini, in Giust. Pen., 1982, II, 139 8 sentenza definitiva, adducendo il preteso rispetto dell'art. 27 Cost., poiché tale principio opera nel nostro ordinamento per altri scopi, più precisamente come regola di giudizio, e non coincide affatto con l'esigenza di tutelare la reputazione e la riservatezza dell'imputato32. Affinché l'informazione possa definirsi “corretta”, e conforme al dettato dell'art. 27 Cost e dell'art. 6 C.e.d.u., che esamineremo nei paragrafi successivi, deve escludersi in modo assoluto la possibilità per i mass media di indicare la persona sottoposta alle indagini quale responsabile dei fatti contestati; ma ciò attiene intuibilmente al quomodo della pubblicazione, e non all'an della pubblicabilità33. Alla luce di quanto esposto, è di palese evidenza l'importanza di rinvenire un criterio guida cui il legislatore deve uniformarsi nello stabilire limiti che implichino la minor restrizione possibile degli interessi coinvolti. Si tratta di individuare tendenzialmente il punto di equilibrio in cui, ad ogni maggiore espansione di un bene, si determini un sacrificio più che proporzionale del bene antagonista; il criterio guida è il c.d. principio di “utilità marginale” dei sacrifici34. Tale criterio, come vedremo nei paragrafi successivi, è pienamente conforme ai dettami della normativa comunitaria di riferimento, in particolare al c.d. “principio di stretta proporzionalità” sancito dalla Corte di Strasburgo35. 32 A.BEVERE - A.CERRI, Il diritto all'informazione e i diritti della persona: il conflitto della libertà di pensiero con l'onore, la riservatezza, la libertà personale,Cedam, 2006, p. 91 33 G. GIOSTRA, Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, cit. 34 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale ed informazione, cit. p. 1291 35 Corte eur. Diritti uomo, 7 giugno 2007, Dupuis C/ Francia 9 1.1 La tutela della riservatezza e il Codice della privacy In un celebre saggio del 189036, ancora oggi considerato un “classico”, S. Warren ed il futuro giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, L. Brandeis, teorizzavano, per primi, la necessità di reperire, nel sistema di common law, nuovi strumenti di tutela della vita privata, accanto a quelli tradizionalmente fondati sul diritto di proprietà, per giungere al riconoscimento di un vero e proprio diritto alla privacy, inteso come diritto “ad essere lasciati soli”37 . Il richiamo a tale concetto giuridico non costituiva una novità in senso assoluto, ma particolarmente significativo risultava il momento storico in cui l'opera veniva pubblicata: quello dei primi sviluppi dell'era tecnologica moderna, precisamente del microfono e della macchina fotografica istantanea38; di conseguenza era facile prevedere il rischio di numerose intrusioni dell'intimità domestica. E' interessante, tra l'altro, notare come, proprio negli Stati Uniti, a pochi decenni di distanza, prese inizio “l'era dell'elettronica”, che avrebbe esteso al di là dell'immaginabile le possibilità di intrusione nella vita privata39. L'esistenza di un interesse dell'individuo a sottrarsi al controllo della società, nelle sue diverse forme, appare destinato ad entrare in conflitto con altri non meno importanti interessi, quali, come visto, la libera diffusione delle idee e la libertà di cronaca da un lato, l'esercizio dei pubblici poteri, specie nel campo della repressione dei reati, dall'altro 40 . Il punto nodale di ogni discussione sui limiti esterni del diritto di cronaca ruota, dunque, intorno al concetto di diritto alla riservatezza o privacy: un valore che, come 36 37 38 39 40 S.D. WARREN, L. D. BRANDEIS, The right to Privacy, in Harvard L. Rev, 1890, p. 193 G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Giuffrè, 1983, p. 1 A. F. WESTIN, Privacy and freedom,I edizione, 1967, New York, p. 338 G. MARTINOTTI, La difesa della “privacy”, parte II, in Pol. Dir. , 1972, p. 63 G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, cit., p. 3 10 analizzeremo in modo dettagliato nel capitolo 3, attraverso l'utilizzo del mezzo intercettivo, rischia di subire rilevanti e durature violazioni. La dottrina si è divisa, per decenni, nell'elaborare una nozione univoca della “privacy”; alcuni autori la intendono come sinonimo di “vita privata”41, altri preferiscono utilizzare l’espressione inglese42, altri infine la traducono con la formula “privatezza”43. Qualsiasi sia la terminologia utilizzata, tale “diritto all'oblio” consiste “nella tutela delle situazioni e vicende di natura personale e familiare, dalla conoscenza e curiosità pubblica; situazioni e vicende che soltanto il protagonista può decidere di pubblicizzare ovvero difendere da ogni ingerenza – sia pure realizzata con mezzi leciti e non implicanti danni all'onore, alla reputazione o al decoro – che non trovi giustificazione nell'interesse pubblico alla divulgazione44.” In alcune pronunce, alquanto risalenti nel tempo, la Consulta aveva escluso il rilievo costituzionale della privacy, e, fondandosi su questo presupposto, ne aveva altresì escluso la natura di potenziale limite alla manifestazione del pensiero.45 Il codice Rocco, conformemente all'indirizzo della Corte, all'art. 164 vietava la divulgabilità di determinati atti o documenti di un procedimento penale, e non dei fatti in essa riferiti, tutelando così, più che la riservatezza delle persone interessate all'attività istruttoria, la riservatezza dell'attività istruttoria stessa, con una finalità esclusivamente “endoprocessuale” e non “extraprocessuale”46. Nella dottrina e nella giurisprudenza odierne 47, si afferma, invece, in modo apparentemente unanime, la riconducibilità della tutela della riservatezza nell'alveo dell'art. 2 Cost., tra i diritti inviolabili dell'uomo, come se si trattasse di una necessità addirittura biologica dell'uomo e di un aspetto inalienabile della persona umana48. 41 F. CARNELUTTI, Diritto alla vita privata, (contributo alla teoria della libertà di stampa), in Riv. Trim. di dir. Pubblico, 1955,5, p.. 54 42 G. ALPA, Privacy e statuto dell'informazione, in Riv. Dir. Civ., 1979, I, p. 71 43 UBERTIS-PALTRINIERI, Intercettazioni telefoniche e diritto umano alla privatezza nel processo penale, in Riv. It. Dir. e proc. pen., 1979, p. 606 44 Cass. Civ. , Sez. I, 25 marzo 2003, Lucchetti/Pitti Immagine s.r.l., 4366 45 Corte Cost. 4 marzo 1965, n. 25 46 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale ed informazione cit., p. 1260 47 Corte Cost. 10 febbraio 1981 48 A. CAUTADELLA, Riservatezza (diritto alla), in Enc. Giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, p.4 11 La riservatezza si caratterizza per essere uno tra i diritti di più complessa definizione: nel tentativo di configurarla i nostri giuristi hanno risentito, in modo netto, degli influssi della cultura giuridica anglosassone, delineandola così, quale diritto del singolo al controllo delle informazioni che lo riguardano, quindi dei dati personali, e delle c.d. “situazioni sensibili”. Si tratta di interessi di natura strettamente privatistica, in contrapposizione con la facoltà di manifestazione del pensiero propria del diritto di cronaca; il dato personale oggetto di tutela è un valore assoluto, il cui utilizzo abusivo prescinde dai limiti del diritto di informazione e l'interessato può liberamente disporne, consentendo al loro trattamento. Rispetto agli altri Paesi europei l'Italia si è occupata di regolamentare la privacy in tempi relativamente recenti: tale ritardo è motivato, innanzitutto, da una carenza del settore informatico nel nostro Paese, nonché da evidenti lacune di matrice politica ed amministrativa, basate su una vetusta convinzione di prematurità della questione. Solo alla fine degli anni ‘90 viene emanata la legge 675 del 31 dicembre 1996, rubricata “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”, chiaramente ispirata alla direttiva CE 94/96 sul trattamento dei dati personali e sulla libera circolazione degli stessi. L'art. 25 della suddetta direttiva afferma che “gli Stati membri sono tenuti ad operare affinché il trasferimento di dati personali verso paesi terzi possa avvenire solo se il paese terzo in questione garantisca un adeguato livello di tutela”. La disciplina della privacy, nata dall'esigenza di consentire la piena applicazione dell'accordo di Shengen del 1985, ha subito, nel tempo, vari interventi di riforma contrassegnati da una netta continuità di intenti: il 1° gennaio 2004 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003, denominato “Codice in materia di protezione dei dati personali”, che rappresenta uno dei primi tentativi europei di comporre in modo organico la miriade di disposizioni al riguardo, riunendo in un unico testo la legge n. 675 del 1996 e tutti gli altri decreti legislativi e regolamenti in materia. Si tratta di un testo ispirato alla necessità di introdurre nuove garanzie per i cittadini, articolato in tre distinte parti: la prima, destinata alle disposizioni generali 12 riordinate in una lettura costituzionalmente orientata; la seconda parte, c.d. “speciale”, dedicata a singoli, specifici settori come le notificazioni di atti giudiziari, i dati sui debitori insolventi; la terza, infine, relativa al tema delle tutele amministrative e giurisdizionali, con la previsione di specifiche sanzioni amministrative e penali, e la disciplina relativa all'Ufficio del Garante. La ratio sottesa al d.lgs n. 196/03 è quella di “codificare” il diritto del singolo sui propri dati personali, disciplinandone dettagliatamente il trattamento, la diffusione e la comunicazione: si tratta di un diritto assoluto, sancito esplicitamente nell'art. 1 del decreto in esame, e si estende a qualunque informazione relativa ad una persona, anche se non strettamente riservata. Relativamente al profilo della divulgazione, dunque, le fattispecie previste dal Codice sono “la diffusione” e “la comunicazione”: la prima consiste nel portare a conoscenza di soggetti indeterminati, in qualsiasi forma, i dati personali; la seconda presuppone che il dato sensibile sia portato a conoscenza di soggetti determinati o determinabili. Il Codice garantisce altresì che il trattamento dei dati personali si svolga nel pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità personale dell'interessato: si ribadisce in tal modo che, lo scopo della legge, non è quello di paralizzare il flusso di dati sensibili, bensì quello di evitare che lo stesso avvenga senza il consenso dell'avente diritto, o con modalità illecite. In base agli artt. 23 e 24 del Codice, il consenso deve essere preventivo, esplicito, libero e rilasciato per iscritto in modo da essere inequivocabile, escludendo così la configurabilità del silenzio quale forma di tacito consenso. La disciplina adottata dal legislatore italiano in materia, nel prevedere l'esplicita autorizzazione al trattamento dei dati, è estremamente rigorosa e, a tratti, iper-garantista; la mancanza del consenso implica, ovviamente, sanzioni penali ed amministrative. In realtà, il consenso come sopra descritto e delineato, non è sempre richiesto: è lo stesso Codice che, all'art. 24, teorizza il c.d. “principio di necessità”: si tratta di un principio generale dell'ordinamento che presiede all'adozione di tutte le misure 13 straordinarie da parte dell'autorità. Nella disciplina del Codice, in base questo principio, bisogna ridurre al minimo l'utilizzo di dati identificativi, facendo uso di forme anonime o che riconducano all'interessato solo in caso di necessità; il consenso deve essere richiesto “solo” quando sia effettivamente necessario: un consenso non indispensabile può comportare la revoca di un'autorizzazione che non avrebbe dovuto essere prestata. E' lo stesso Codice, dunque, con la norma sopra richiamata, a delineare i casi in cui il consenso non è richiesto: nell'ipotesi in cui il trattamento sia sotteso all'adempimento di un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria; quando è necessario per ottemperare obblighi derivanti da contratto, o qualora risulti necessario per la salvaguardia dell'incolumità fisica o della vita di un soggetto che non possa coscientemente manifestarlo. All'art. 4 il Codice specifica, dapprima “l'oggetto” del trattamento, riferendosi a nozioni quali “dato personale”, “dati identificativi”, “banca dati”; nozioni prima facie particolarmente ampie, con il conseguente rischio di ipertutela a danno della libertà di informazione. A circoscrivere il campo di applicazione della legge, sono intervenute alcune previsioni normative in deroga, che hanno escluso dal novero dei dati tutelati quelli provenienti da pubblici registri, elenchi, atti e documenti conoscibili a terzi. All'ampiezza della portata oggettiva, si aggiungeva la complessità insita nel meccanismo del trattamento: basato sul “principio della notificazione” al Garante, della volontà di acconsentire al trattamento, effettuato dai titolari delle Banche dati tramite raccomandata, cui faceva seguito, da ultimo, il rilascio dell'autorizzazione da parte dell'autorità; in altri termini, significava, per il Garante, autorizzare personalmente ogni singolo archivio personale. Anche sul punto si è registrato un intervento di semplificazione legislativa: si è innanzitutto escluso dalla complessa procedura sopra detta, il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per “fini esclusivamente personali”, riducendo sensibilmente l'alluvione di autorizzazioni inoltrate al Garante. 14 Si sono altresì introdotte deroghe, di carattere soggettivo, relative a determinate categorie di operatori, quali i giornalisti, i liberi professionisti, che, per motivi inerenti lo svolgimento della loro attività, sono frequentemente obbligati a ricorrere a queste informazioni. Alle categorie suddette si impone però il rispetto dei precetti stabiliti dai rispettivi codici deontologici nella materia in esame. Il Codice definisce in modo puntuale anche quali siano i soggetti che intervengono nella procedura descritta: “l'interessato”, la persona fisica o giuridica, cui si riferiscono i dati trattati; “il titolare” ivi intendendo la persona fisica o giuridica, la pubblica amministrazione, cui competono congiuntamente o disgiuntamente, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità e la sicurezza del trattamento ; “il responsabile”, “gli incaricati”, e, da ultimo, “il Garante”. L'ultima figura rappresenta un'autorità amministrativa indipendente, caratterizzata da una molteplicità di funzioni che spaziano dalla vigilanza e il controllo, alla regolazione, all'attività consultiva e di assistenza, fino a delineare funzioni paragiurisdizionali, in virtù della previsione del Codice di una facoltà in capo agli interessati: quella di adire, in via alternativa, l'Autorità giudiziaria ovvero il Garante stesso. Se il Garante accerta una violazione della normativa a tutela della privacy, può prescrivere al responsabile tutte le misure necessarie per rendere il trattamento conforme alla legge, o, in alternativa, può bloccare e vietare del tutto il trattamento illecito. Chiunque, pur essendovi tenuto, non osservi i provvedimenti del Garante, è punito con la reclusione fino a due anni, come stabilito dall'art. 170 del Codice della privacy. In particolare, con specifico riferimento alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, con una decisione del 16 ottobre 1997, il Garante ha precisato che: il giornalista ha il dovere di acquisire lecitamente i documenti relativi alla trascrizione di intercettazioni effettuate nel corso di una inchiesta giudiziaria; che la diffusione di intercettazioni telefoniche deve tener conto dei limiti del diritto di cronaca posti a tutela della riservatezza anche quando il fatto rivesta un interesse pubblico; che la notizia ed il 15 dato personale pubblicato senza il consenso dell’interessato devono rispettare il principio della essenzialità dell’informazione e che, pertanto, l’interessato ha diritto a che rimangano riservate quelle parti delle conversazioni intercettate che attengono a comportamenti strettamente personali non connessi alla vicenda giudiziaria o che possono riguardare la sfera della sua vita intima49. Ad avviso del Garante, inoltre, è inevitabile che il bilanciamento tra diritto di cronaca e privacy resti affidato, in prima battuta, al giornalista ed alla sua valutazione generale, compatibilmente col quadro normativo del Codice deontologico50. Agli artt. 167 e 168 il Codice descrive fattispecie penali specifiche a tutela della privacy: la prima prevede la punizione di coloro che procedono al trattamento dei dati personali al fine di trarre profitto o arrecare un danno, modulando la sanzione irrogata alla “sensibilità” dell'informazione trattata. La sanzione per le suddette violazioni, è subordinata al verificarsi di un danno, si tratta di una condizione obiettiva di punibilità; entrambe le fattispecie riportate, inoltre, “soccombono” a fronte di integrazione di più grave reato, come ad esempio violazione del segreto d'ufficio. Ne consegue che non costituisce reato una violazione della normativa sulla tutela dei dati personali che costituisca un vulnus minimo all'identità personale della persona offesa ed alla sua privacy, tale da non determinare un danno patrimoniale accertato. Se l'illecito trattamento è commesso con diffusione a mezzo stampa, la fattispecie di riferimento è quella prevista dall'art. 57 c.p., che dispone la corresponsabilità con l'autore dell'articolo, dell'editore e del direttore responsabile. A tal proposito la disciplina normativa sulla privacy riconosce l'esigenza di bilanciamento tra l'informazione e la riservatezza, richiamando esplicitamente il “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica”, emanato il 29 luglio 1998 con un atto del Garante della privacy. Come detto, il d.lgs. n. 196 del 2003, rinvia espressamente alle disposizioni del Codice deontologico dei giornalisti, che ne costituisce un allegato: ciò conferisce a 49 Decisione sul ricorso del 16/10/1997, doc. web. n. 40659, su www.garanteprivacy.it 50 Privacy e giornalismo, alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell'Ordine dei giornalisti, 6 maggio 2004, doc. web n. 1007634, su www.garanteprivacy.it 16 quest'ultimo la valenza di fonte normativa, alla quale devono adeguarsi tutti coloro che esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa; pertanto, il suo rispetto verrà garantito dai diversi organi pubblici ed ovviamente anche dall’Ordine per quanto riguarda le sanzioni disciplinari applicabili ai soli iscritti51. Il suddetto Codice prevede che il cronista, per raccogliere informazioni nell'esercizio della sua professione, dovrà preventivamente rendere nota agli interpellati la propria identità, la propria professione e lo scopo della sua indagine, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda assolutamente impossibile l'esercizio della funzione informativa. Rispettati i parametri ivi esposti, il cronista non è vincolato all'ottenimento del consenso al trattamento dati da parte dell'avente diritto, ed è autorizzato a conservare i dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento delle finalità della sua professione. I criteri che legittimano al pubblicazione di dati protetti sono: l'interesse pubblico che connota la notizia, l'omissione di riferimenti a soggetti estranei alla vicenda, l'essenzialità dell'informazione. Su quest'ultimo requisito il Codice deontologico dei giornalisti opera una subdistinzione in “originalità del fatto” e “qualità dei protagonisti”, la cui rilevanza sociale e pubblica consente l'ampliamento della sfera informativa. L'ambito di applicazione del Codice deontologico estende la propria portata a tutti coloro che, anche occasionalmente, esercitano attività pubblicistica; pertanto il trattamento “speciale” offerto dall'ordinamento è sotteso allo svolgimento di una funzione ritenuta essenziale, e non alla formale appartenenza ad una categoria. E' senz'altro agevole comprendere come l'informazione sull'attività giudiziaria comporti, quasi sempre, la diffusione di notizie relative a situazioni giuridiche soggettive 52 , e di conseguenza evidenti problematiche di contemperamento rispetto ad altri diritti di matrice costituzionale. 51 S. RODOTA', parere espresso sullo schema del codice di deontologia il 23 gennaio 1998, 52 S. MERZ, G. PERILLO, ( a cura di ), L'informazione sull'attività giudiziaria,Cedam, 1981, p. 13 17 In merito ai confini normativi alla espressione della libertà di stampa è opportuno menzionare una pronuncia della Suprema Corte, che qualifica un limite ulteriore proveniente proprio dalla specifica attività di autoregolamentazione professionale dei giornalisti, che si aggiunge a quelli tradizionali esaminati nel primo paragrafo53. La fattispecie concreta trae spunto dalla pubblicazione di un'informazione particolarmente “sensibile”, relativa alla sfera di salute di una minore di età che, nelle cronache televisive, era stata segnalata come affetta da grave patologia cardiaca; la suddetta informazione non era preceduta dal consenso dei genitori esercenti la potestà. Il Tribunale di prime cure aveva assolto gli autori dell'articolo dall'accusa di diffamazione di cui all'art. 595 c.p., condannandoli, però, per la violazione dell'art. 25 L. n. 675 del 1996 - trattamento illecito di dati personali – sull'assunto che, non essendo la bambina persona nota alle cronache, la notizia si presentava come lesiva delle regole imposte dal Codice deontologico dei giornalisti. La Corte d'Appello di Milano, investita della vicenda, aveva assolto i giornalisti dall'addebito, sostenendo che la successiva riforma della normativa sulla privacy, il d. lgs n. 171 del 1998, a differenza dell'art. 25 L. n. 675 del 1996, non richiamava più il Codice deontologico dei giornalisti; in tal modo aveva negato rilievo penale alle condotte perpetrate, e aveva derubricato il fatto contestato a mero illecito disciplinare. La medesima conclusione del giudice d’Appello poteva ricavarsi anche dal d.lgs. n. 196 del 2003 che, all’art. 139, consente al Garante di impedire la diffusione di informazioni in violazione del Codice deontologico dei giornalisti, ma in nessuna parte accenna all’integrazione della fattispecie penale nel detto caso. La Cassazione, adita dalle sole parti civili, annullando la sentenza impugnata, ed in piena conformità coi precetti comunitari, ha nettamente contraddetto il precedente orientamento, negando che il legislatore del 1998 avesse limitato la responsabilità penale del giornalista per illecito trattamento di dati personali, non potendosi leggere nelle modifiche legislative sopra enunciate una soppressione di questo diritto in favore di quello all'informazione. 53 Cass. Pen., Sez. III, 5 marzo 2008, Bonolis, n. 16145 18 La Suprema Corte, dunque, ha ravvisato nell’art. 137 del d. lgs n. 196/2003, laddove indica esplicitamente i limiti del diritto di informazione, una disposizione a contenuto normativo prevista dal Codice deontologico, riconducibile alla categoria delle “clausole generali” volte ad integrare la lettura delle norme penali. Come principio di ordine generale che regolamenta tutto il settore dell'informazione, la clausola generale dispone di efficacia cogente non solo per i destinatari dei precetti deontologici, ma anche per i giudici chiamati ad interpretare gli stessi nella valutazione delle condotte dei giornalisti. Il divieto deontologico, dunque, pur se non esplicitamente richiamato da altra fattispecie penale, è vincolante per il soggetto appartenente alla categoria di riferimento, e per il giudice che è chiamato ad applicarlo; l'eventuale violazione è suscettibile di ricorso di legittimità ai sensi dell'art. 606 lett. b) c.p.p. L’attuale impianto normativo in materia di privacy, seppure, come vedremo, in linea di massima conforme ai principi generali fissati, in materia, dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea, presenta alcune rilevanti lacune che consentono ed agevolano l’aggressione alla privacy di soggetti “deboli”. 19 1.2 Le fonti internazionali Il problema del bilanciamento tra diritto di cronaca giudiziaria e riservatezza deve essere, necessariamente, affrontato anche a livello di fonti internazionali, con particolare riguardo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed alle pronunce della Corte di Strasburgo. La pubblicazione di notizie relative a processi pendenti può creare difficoltà di contemperamento tra il diritto della stampa di informare il pubblico ed il diritto delle persone accusate di essere giudicate da un giudice terzo ed imparziale solo sulla base delle emergenze processuali, con diritto alla presunzione di innocenza, così come stabilito dall'art. 6 C.e.d.u. La norma in questione dispone che “la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa ed al pubblico durante tutto o una parte del processo, nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti nel processo, nella misura giudicata necessaria dal tribunale, quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia.” E' del resto evidente come, una pressione mediatica eccessiva, e soprattutto distorta al punto tale da generare nell'opinione pubblica l'aspettativa di una affermazione di responsabilità dell'accusato, possa determinare per quest'ultimo un clima processuale nettamente sfavorevole, mettendo a repentaglio l'assoluta indipendenza del giudice, e la stessa presunzione di innocenza codificata dall'art. 6 C.e.d.u.54 Di grande rilevanza in tal senso appare una vicenda processuale sottoposta nel 2003 all'attenzione della Corte europea dei diritti dell'uomo55: in un procedimento relativo 54 A. TAMIETTI, Processo e mass media nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in Dir. Pen. e processo, 2002, p. 378 55 Corte eur. dir. uomo, 16 settembre 1999, Buscemi c/ Italia. 20 all'affidamento di una bambina, i giudizi negativi espressi dal Tribunale minorile nei pareri sulla vicenda, suscitarono una netta reazione del padre della minore che si scagliò contro i Giudici designati, lanciando accuse di un atteggiamento persecutorio. Il presidente del Tribunale scrisse una lettera aperta ad un quotidiano, prendendo le distanze dalle accuse rivolte a sé ed ai suoi colleghi, rimarcando, inoltre, come tutto si fosse svolto in modo regolare e nella piena legalità. La Corte europea fu investita della questione, in particolare, di valutare la compatibilità tra l'art. 6, par. 1 C.e.d.u. e la reazione “mediatica del giudice”: ravvisando una violazione del suddetto articolo, la Corte raccomandò ai paesi consociati che “la più grande discrezione si impone ai giudici chiamati a giudicare, che deve condurre a non utilizzare la stampa neppure in risposta a provocazioni, per tutelare l'esigenza superiore di giustizia e la natura elevata della funzione giudiziaria”. La decisione del Presidente del Tribunale dei minori di coinvolgere l'opinione pubblica in un procedimento ancora pendente risultava palesemente non compatibile con le esigenze di imparzialità di un tribunale56. In un'ulteriore pronuncia57, la Corte ravvisò una violazione di quanto stabilito dal par. 2, art. 6 C.e.d.u., integratasi per una conferenza stampa durante la quale due ufficiali della polizia francese avevano indicato il ricorrente quale istigatore di un brutale omicidio: ad avviso della Corte, la presunzione di innocenza deve ritenersi misconosciuta se una decisione giudiziaria relativa ad un prevenuto riflette il sentimento che egli è colpevole quando la sua colpevolezza non è ancora stata accertata, e la suddetta presunzione può ben essere lesa anche da autorità pubbliche che non siano magistrati: nel caso di specie, si trattava di due agenti di polizia giudiziaria. Parimenti la Convenzione europea tutela, all’art. 10, la libertà di informazione e l’attività dei media in relazione alla cronaca giudiziaria, garantendo la libertà di espressione quale diritto fondante di una società democratica, al quale è però necessario, così come visto per l’ordinamento nazionale, un adeguato bilanciamento, basato su 56 M. CHIAVARIO, I rapporti giustizia-media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in Il Foro italiano, 2000, p. 219 57 Corte eur. Dir. Uomo, 10 febbraio 1995, Allenet de Ribermont c/ Francia 21 un'attenta disamina, tanto delle singole circostanze concrete di ogni caso di specie, quanto dell'estensione e della natura degli obblighi che le diverse disposizioni costituzionali pongono a carico degli Stati firmatari58. L’idea di fondo della Convenzione è che nessun problema di limitazione si impone se gli organi di informazione riportano dati oggettivi sugli elementi forniti dagli organi giudiziari, sulle dichiarazioni dell’imputato e delle parti private, o sulle prove non più coperte dal segreto istruttorio. Ben diversamente va considerata la divulgazione di notizie ancora coperte da segreto, o una presa di posizione netta dei media sulla colpevolezza dell’individuo, che possono, come già detto, nuocere gravemente alla libertà di determinazione dell’organo giudicante; in tal caso, parafrasando il titolo di un noto romanzo di Garcìa Màrquez, si profilerebbe la “cronaca di una condanna annunciata”. Un fondamentale criterio-guida per i giudici “interni” è stato elaborato dalla Corte europea a seguito dell'introduzione, nell'ordinamento francese, di una norma fortemente limitativa della libertà di informazione59. Due noti giornalisti francesi erano stati condannati per aver pubblicato, nel 1996, un libro dal titolo “Les Oreille du Prèsident”, nel quale denunciavano l'esistenza di una fitta rete di intercettazioni illecite, perpetrate a danno di eminenti personaggi della società transalpina, tra il 1983 ed il 1986, da parte dei vertici dell'Eliseo. Nel 1993 venne aperto, nei confronti di un G.M., collaboratore personale del presidente Mitterand, un procedimento penale per le illecite captazioni; così, quando nel 1996 fu pubblicato il testo sopra indicato, questi denunciò i due autori, accusandoli di aver utilizzato materiale illegalmente sottratto dagli atti processuali, la cui pubblicazione minava il proprio diritto ad un equo processo. Il Tribunale di Parigi confermò le accuse, condannando i giornalisti responsabili al pagamento di una pena pecuniaria. Chiamata ad esprimersi sulla delicata questione dei rapporti tra giustizia ed informazione, la Corte, individuando in capo ai cittadini un vero e proprio “diritto ad 58 A. TAMIETTI,Processo e mass media, cit., p. 379 59 Corte eur. dir. uomo, 7 giugno 2007, Dupuis c/ Francia 22 essere informati sul processo penale” su fatti di interesse collettivo, 60 sottolineando come neppure il segreto istruttorio potesse essere posto quale limite legittimo al diritto dei giornalisti di pubblicare informazioni di carattere generale nel rispetto dell’etica professionale, ha escluso che la diffusione di notizie potesse avere un’influenza negativa sull’imputato e sulla sua presunzione di innocenza, in una vicenda “già ampiamente sottoposta all’attenzione mediatica, con una intensità tale da rendere superfluo il mantenimento del segreto istruttorio”. Con la pronuncia in esame la Corte ha, di fatto, ritenuto preminente l'interesse pubblico alla conoscenza di un affare di Stato, rispetto alla pretesa violazione del principio di non colpevolezza, anche in un caso di illecita acquisizione del materiale istruttorio. La Corte ha, così, aggiunto un ulteriore criterio ai tre tradizionali del legittimo esercizio del diritto di cronaca: una sorta di verifica “in negativo”, volta a riscontrare l’assenza di un’effettiva offesa agli interessi sostanziali di rilievo costituzionale ed europeo, in cui il bilanciamento tra il diritto alla libertà d’espressione e i valori contrapposti non può essere affidato ad astratte valutazioni di priorità, ma deve necessariamente essere effettuato considerando volta per volta le differenti sfumature del caso concreto. 61 La Convenzione, all’art. 8, tutela altresì il diritto alla riservatezza della persona: il processo penale, sottoposto a rilevanza mediatica, può violare tale diritto, interferendo con la vita privata della persona sottoposta alle indagini, sulla propria libertà di comunicazione, su quella di familiari e conoscenti. La giurisprudenza di Strasburgo lascia intendere al riguardo che ogni Stato in questo campo deve applicare un “principio di stretta proporzionalità”, limitando le ripercussioni sulla vita privata dell’imputato a quanto risulta inevitabile, essendo inerente alla natura stessa dei provvedimenti adottati nei suoi confronti in relazione alle accuse 60 A. BALSAMO, S. RECCHIONE, Il difficile bilanciamento tra libertà d’informazione e tutela del segreto istruttorio: la valorizzazione del parametro della concreta offensività nel nuovo orientamento della Corte europea, in Cass. Pen., 2007, Giuffrè, p. 4877 61 A. BALSAMO, S. RECCHIONE, Il difficile bilanciamento cit., p. 4878 23 che gli sono mosse62. A tal proposito va ricordata la pronuncia della Corte del 17 luglio 2003 nel caso Craxi c. Italia, in cui la Corte ha ritenuto che la pubblicazione sugli organi di informazione della trascrizione di alcune intercettazioni telefoniche, nel corso di un procedimento a carico di un noto uomo politico, violasse l’art. 8 C.e.d.u., in quanto le conversazioni riportate avevano una natura strettamente privata, senza connessione alcuna con il procedimento penale di riferimento. In una recente sentenza63, la Corte di Strasburgo ha fornito agli Stati membri una serie di linee guida, traducibili nel nucleo minimo di garanzie che condizionano la conformità del mezzo intercettivo rispetto ai precetti insiti nell'art. 8 C.e.d.u., sulla tutela della privacy e della corrispondenza. Tre i requisiti individuati dalla Corte, tra loro interconnessi: la previsione legislativa; il perseguimento di uno dei fini indicati dall'art. 8 C.e.d.u.; la necessità della misura. Nel definire il primo requisito la Corte ha elaborato una concezione “materiale” e non “formale” del termine “legge”, comprensiva sia del diritto scritto, che del diritto non scritto64: la normativa di riferimento deve essere accessibile e conoscibile dai cittadini, e deve presentarsi, inoltre, sufficientemente chiara circa l'ampiezza ed i limiti del potere di ingerenza dell'autorità giudiziaria nazionale. Le garanzie minime perché il primo profilo sia rispettato sono: l’individuazione della natura dei reati che possono dar luogo ad intercettazione; la definizione delle categorie di persone le cui utenze possono essere sottoposte ad intercettazione; la determinazione del limite di durata della captazione, della procedura di esame, utilizzo e conservazione del materiale intercettato, dei casi di distruzione del materiale acquisito; l’attribuzione ad un organo indipendente del potere di autorizzazione e verifica delle 62 A. TAMIETTI, Intercettazioni telefoniche e garanzie a tutela del diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza dell’imputato: la Corte europea interpreta estensivamente gli obblighi positivi dello Stato, in Cass. Pen., 2004, p. 236 63 Corte europea dir. Uomo, 10 febbraio 2009, Iordachi c/ Moldavia 64 A. BALSAMO, Intercettazioni: gli standards europei, la realtà italiana, le prospettive di riforma, in Cass. Pen., 2009, 10, 4023 24 intercettazioni. Tali indicazioni si coordinano con quelle relative al profilo teleologico, più precisamente alla verifica della c.d. “necessità democratica”65, ossia dell'esistenza dei parametri che giustificano l'ingerenza della pubblica autorità nelle comunicazioni private: la proporzionalità ed il controllo. Emergono immediatamente significativi punti di frizione tra gli standards sovranazionali e la disciplina normativa italiana: innanzitutto, la totale assenza di specificazione dei soggetti passivi delle intercettazioni, che finisce per ampliare in modo notevole l'ambito soggettivo del mezzo di ricerca della prova, fino a ricomprendere, non solo gli indagati, ma anche i testimoni ed un'indefinita molteplicità di soggetti estranei al procedimento penale, con conseguente aumento delle possibilità che vengano registrate conversazioni private e processualmente irrilevanti66. I requisiti della proporzionalità e del controllo, inoltre, non sembrano adeguatamente soddisfatti nel sistema di selezione delle conversazioni di rilevanza probatoria: il potere di “filtro” conferito al giudice, è, infatti, assai limitato, fondandosi su un parametro “a maglie larghe” come quello della manifesta irrilevanza. Inoltre, la mole, spesso enorme, del materiale raccolto attraverso le intercettazioni, unitamente alla ristrettezza del termine concesso alle parti per esaminarlo, ed alla limitata base conoscitiva del giudice, incentivano, di fatto, la prassi di procedere all'acquisizione “in blocco” delle conversazioni registrate67. Un ulteriore fattore di contrasto tra la disciplina interna e quella comunitaria è dato dalla insufficiente tutela dei terzi rispetto alla divulgazione del materiale captato: si tratta di un'inevitabile conseguenza della regolamentazione dettata dall'art. 268 c.p.p., che circoscrive ai difensori delle parti processuali la cerchia dei destinatari dell'avviso di avvenuto deposito delle intercettazioni presso la segreteria del pubblico ministero.68 Il deposito, come vedremo nei capitoli successivi, rappresenta il primo momento di “conoscibilità” dell'atto da parte dell'indagato, circostanza questa che comporta il venir 65 A. BALSAMO, Intercettazioni, cit., p. 2 66 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2007, p. 331 67 L. FILIPPI, Le intercettazioni di comunicazioni, Giuffrè, 1997, p. 141 68 A. BALSAMO, Intercettazioni, cit., p. 3 25 meno del segreto investigativo, consentendo la pubblicazione del “contenuto” delle conversazioni captate. Le incongruenze esaminate, unitamente ad altre quali, solo esemplificativamente, la totale inadeguatezza del rimedio della distruzione del materiale irrilevante, la mancanza di sanzioni dissuasive per l'illecita pubblicazione, rende la disciplina normativa vigente assolutamente inadeguata rispetto ai parametri europei, imponendo una complessiva riforma legislativa volta a conciliare il diritto interno con le indicazioni della Corte. Altre importanti fonti sovranazionali, oltre alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si sono occupate dei rapporti giustizia-informazione: in primo luogo, giova rammentare la raccomandazione Racc (03)13, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 10 luglio 2003, ed avente ad oggetto il tema relativo alla diffusione attraverso i media di informazioni relative a procedimenti penali. In essa si stabilisce che il pubblico deve essere posto in condizione di ricevere informazioni attraverso i media sull’attività dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia, ragion per cui è necessario consentire ai giornalisti, nel rispetto della presunzione di innocenza, di commentare liberamente il sistema della giustizia penale. Inoltre, nel contesto di procedimenti penali di pubblico interesse o che si sono guadagnati particolare attenzione del pubblico, l’autorità giudiziaria e i servizi di polizia “dovrebbero informare i media” sui loro atti essenziali, purché ciò non pregiudichi la segretezza delle investigazioni o le inchieste della polizia oppure ritardi o impedisca l’esito dei procedimenti69. La Raccomandazione delinea in diciotto punti i principi ispiratori dell’attività giornalistica in merito ai procedimenti penali, tentando un bilanciamento fra diritti di pari rango, quali il diritto di cronaca e il diritto alla privacy, entrambi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Relativamente alla tutela della privacy nel corso di procedimenti penali, in particolare rispetto a minori o persone vulnerabili quali vittime e testimoni, merita di 69 Raccomandazione REC (2003)13. 26 essere segnalato il principio 18, nel quale si cerca di regolamentare il flusso di informazioni giornalistiche successive all'esecuzione della sentenza, onde non compromettere il reinserimento nella società dei rei. Il principio in esame mira a tutelare soggetti sottoposti a procedimenti penali definiti con sentenza irrevocabile dalle frequenti aggressioni alla privacy ad opera dei mezzi di comunicazione di massa, perpetrata attraverso la periodica rievocazione di fatti risalenti nel tempo e ormai privi di interesse pubblico. Nel nostro ordinamento la pena svolge una funzione retributiva, ma, soprattutto, educativa: il concetto costituzionale di rieducazione va, quindi, inteso come solidaristica offerta di opportunità, cioè come creazione delle condizioni obiettive perché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale70. Il Comitato dei ministri, nel principio 18, ha precisato che, il diritto alla privacy delineato dall'art. 8 C.e.d.u., dovrebbe includere il diritto di protezione dell'identità delle persone dopo l'espiazione della pena irrogata, a meno che le stesse non abbiano espressamente consentito alla rivelazione, oppure i reati da loro commessi non siano nuovamente di oggettivo, pubblico interesse71. Nonostante l'impianto normativo delineato, sono estremamente frequenti casi di aggressione alla privacy di soggetti sottoposti a procedimenti penali da parte dei media, che spesso divulgano informazioni ormai del tutto prive di un interesse pubblico meritevole di tutela: si rende necessario a tal fine predeterminare - una volta per tutte e salve tassative eccezioni - il periodo di tempo oltre il quale un soggetto sottoposto a procedimento penale matura il diritto a non vedere più il proprio nome “accostato” alla vicenda processuale72. Va ricordato, da ultimo, quanto disposto in tema di privacy dall'art. 19 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, che, nel riconoscere ad ogni individuo la libertà 70 F. MANTOVANI, Diritto penale, 1992, Cedam, p. 755 71 Racc. (2003)13, riportata in nota da L. FILIPPI, La sentenza Duppuis,pag. 2978 72 M. SIMBULA, Diritto all'oblio, come gestire i dati sensibili dei condannati? In www.mediazionefacile.it 27 di espressione, sottolinea che tale esercizio comporta doveri e responsabilità speciali, e può essere sottoposto a talune restrizioni; è singolare che tra le ragioni che giustificano limiti alla libertà di espressione non compaiano la tutela della segretezza delle indagini e l'indipendenza del giudice nelle sue decisioni73. In conclusione, pur in mancanza di un’auspicabile “Carta dei rapporti fra giustizia e media”, realmente confacente e legislativamente adeguata alla problematica in questione, dalle fonti internazionali, e in particolar modo dalla giurisprudenza della Corte europea, si può trarre un insegnamento di carattere generale: pur nella giusta rivendicazione dell’importanza del ruolo che ciascuno deve svolgere - di informare, di indagare, di difendere, di giudicare - in un ambito che è comunque fatto di conoscenze, corresponsabilità e di impegni comuni, e pur nella legittima preoccupazione di salvaguardare, anche verso l’esterno, la funzionalità di quel ruolo, nessuno dovrebbe dimenticarsi dell’esistenza degli “altri” ruoli, più o meno complementari e più o meno antagonistici, né dei rischi che l’unilateralità dell’esaltazione del proprio può comportare 74 . 73 Raccomandazione REC (2003)13, riportata in nota da L. FILIPPI, La sentenza Duppuis, p. 2979 74 M. CHIAVARIO, I rapporti giustizia-media, cit., p. 220 28 2. La pubblicità nel processo penale Il concetto di pubblicità nel processo penale deve essere analizzato in una duplice ottica: quello della pubblicità “immediata” e quello della pubblicità “mediata”. Il primo riceve la propria teorizzazione storico-giuridica nell’opera di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”, in cui viene enunciato il seguente principio: “pubblici siano i giudizi, pubbliche le prove del reato, perché l’opinione pubblica, che è forse il solo cemento della società, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo dica, noi non siamo schiavi e siamo difesi”75. Per pubblicità immediata si intende, dunque, la possibilità per la collettività di assistere de visu et de audito alla fase dibattimentale; per moltissimo tempo la pubblicità immediata è stato un baluardo contro l'esercizio dell'arbitrio in via giurisdizionale76. Tuttavia, in tema di partecipazione popolare all’attività giudiziaria, una riflessione sociologica impone di valutare un dato essenziale: il cittadino entra in possesso delle informazioni di cronaca giudiziaria preferenzialmente e prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione di massa. L’espressione pubblicità “mediata” è riferibile proprio a quest’ultimo fenomeno: al caso in cui il cittadino, non presente in aula, acquisisca conoscenza dell’attività processuale attraverso il “diaframma di un medium”77. La diffusione delle notizie avviene, in particolare, nella forma della pubblicità mediata “tecnologica”, basata cioè sull’utilizzo di strumenti tanto più evoluti, quanto più si evolvono le tecniche e le tecnologie di circolazione delle notizie78. Dallo sviluppo di una tecnologia sempre più sofisticata discende la generale 75 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene,1764, ed. a cura di G.D.PISAPIA, 1964, p. 27 76 G. GIOSTRA, Processo, cit., p.. 13 77 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale: esperienze e problemi della pubblicità mediata “tecnologia”in Italia, in Foro italiano, 1998, p. 278. 78 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale, cit., p. 278 29 accelerazione dei meccanismi di trasmissione della notizia, che, ormai, è in grado di raggiungere l'utente in tempi brevissimi dal fatto, se non addirittura in tempo reale79. La pubblicità nel processo penale risponde, come analizzato nel paragrafo introduttivo, alla primaria esigenza di carattere sociale di consentire un controllo sull’operato del potere giudiziario: gli organi dello Stato, in uno Stato democraticamente organizzato, devono conferire pubblicità alla loro attività e ciò al fine di garantire continuità al processo di formazione dell’opinione e della volontà generale, che fungano da contrappeso all’esercizio del potere, in un’ottica di garanzia delle libertà80. Il controllo, così inquadrato nell’assetto democratico e sociale dello Stato, è irrinunciabile; in particolare, costituisce l’unica forma di verifica popolare su un’istituzione, quella giudiziaria, non rappresentativa, indipendente dal potere politico, e tuttavia chiamata a svolgere una pubblica funzione in nome del popolo81. L’interesse della collettività alla conoscenza dell’operato dell’apparato giudiziario si compone di una molteplicità di aspetti: il rispetto delle regole da parte degli organi dello Stato, le fasi ed il corso globale del sistema delle indagini; la tolleranza ed il rigore che si alternano o cristallizzano verso i settori della devianza; l’esigenza che le notizie siano riferite all’intero contenuto dei provvedimenti e allo stato dell’attività giudiziaria in corso al momento della pubblicazione82. L'interesse mediatico di una vicenda giudiziaria raggiunge il proprio apice nell'immediatezza del fatto che l'ha generata, dunque in una fase corrispondente alle indagini preliminari: ciò comporta la programmazione, nei vari palinsesti televisivi, di numerose rubriche di approfondimento della vicenda in questione, quasi in “sinergia” con gli organi inquirenti, nel tentativo di individuazione dei responsabili; in tal modo “dall'informazione sul processo si passa al processo celebrato sui mezzi di informazione” 79 GIOSTRA, Giornalismo giudiziario: un ambiguo protagonista della giustizia penale, in Critica del diritto, 1994, 1, p. 54 80 J. HABERMAS, Strukturwandel der Oeffentlichkeit, 1921, traduzione italiana Storia e critica dell’opinione pubblica, 2001, p. 248. 81 A. BEVERE, A. CERRI, Il diritto all’informazione e i diritti della persona: il conflitto della libertà di pensiero con l’onore, la riservatezza, l’identità personale, 2006, p. 91. - Vedi anche GIOSTRA, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007. 82 A. BEVERE, A. CERRI, Il diritto all’informazione, cit., p. 91. 83 G. GIOSTRA, Processo penale e mass media, cit., p. 112 30 . Il rapporto tra la magistratura e gli altri sistemi dei poteri sociali è suscettibile di determinare ingerenze nell’esercizio delle funzioni: essendo pienamente nelle potenzialità dell’informazione del processo, infatti, generare un dissenso popolare nei confronti del regime istituzionale, la comunicazione sull’operato giudiziario diviene un fattore di rischio segnatamente per la corretta conduzione delle dinamiche processuali. Sul punto, in dottrina è stato osservato come l’informazione sul processo determini una vera e propria interazione che incide sulle regole e sui contenuti del gioco processuale84. Anche a non voler giungere ad attribuire alla pubblicità del processo una funzione “educativa”, uno strumento pedagogico essenziale per insegnare ad obbedire alla legge85, resta irrinunciabile il suo ruolo di strumento per il controllo, da parte della collettività, della modo in cui la giustizia viene amministrata in suo nome. Tuttavia, nonostante questa imprescindibile funzione della cronaca giudiziaria in un ordinamento democratico, la questione delle ingerenze che essa può di fatto esercitare sulla funzione giurisdizionale rimane aperta: infatti, il tema dell’interesse primario al sereno svolgimento dei processi appare inevitabilmente legato ai limiti da porre alla pubblicità. Muovendo dalla premessa che il controllo sul modo di rendere giustizia sia la ragion d’essere dell’informazione giudiziaria, si può concludere che le esigenze istruttorie siano la ragione del suo limite86. Ne discende che l’intento di garantire il controllo sull’attività giudiziaria potrebbe nuocere proprio all’esercizio della stessa: non appare inverosimile che la pubblicità pregiudichi l’accertamento dei fatti; d’altra parte, però, non si può escludere che, in alcuni casi, la stessa non lo comprometta, bensì, lo agevoli. Quest’ultima riflessione rende estremamente difficile un adeguato contemperamento delle varie esigenze in gioco: una delle implicazioni generate dal 84 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere: il processo come spettacolo, Einaudi, 1994, p. 22. 85 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere, cit., p. 11, 12. 86 G. GIOSTRA, Processo penale, cit. p. 38. 31 richiamato bilanciamento di interessi riguarda il grado di “professionalità” della collettività che deve esercitare il controllo sull’attività giudiziaria; affinché l’opinione pubblica possa dirsi libera, cosciente e adeguata al giudizio che è chiamata a formulare, è necessario preliminarmente che la stessa possieda gli strumenti per porre in essere il vaglio di legalità sull’operato della magistratura. Ci si interroga, allora, su che tipo di conoscenza del processo possano garantire la stampa e la televisione: per ciò che riguarda la prima, sin dall’800 il crimine ha interessato i lettori e riempito le gazzette; il personaggio che domina è il trasgressore della legge, lo scenario principe è il processo87. L’informazione sulla base della quale la conoscenza si forma dovrebbe rispondere sempre ai requisiti di completezza, esaustività ed essere scevra da qualsiasi contaminazione interpretativa dei fatti e delle dinamiche processuali: “conoscenza” dunque, e non meramente notizia. L’una esprime un approccio sistematico e tecnico agli elementi fattuali e giudiziari, l’altra, priva della opportuna integrazione qualificata, non consente di giungere alla reale comprensione dei fatti oggetto di pubblicità. L’interesse della collettività si esplica nella informazione sull’applicazione materiale della giustizia; la problematica della comunicazione delle informazioni è legata inevitabilmente alla presenza del filtro di mediazione tra il cittadino e l’osservatore diretto della realtà processuale. Attraverso la forma della pubblicità mediata, il cittadino, solo di fronte al sistema sociale dell’informazione, diventa così “consumatore” delle notizie che gli vengono “vendute” al pari di ogni altra merce88. Una caratteristica implicita della pubblicità mediata è l'inevitabile esistenza di un “filtro” che si pone tra il cittadino ed il giornalista, immediato osservatore della realtà processuale. Il regime quasi pienamente monopolistico dei mezzi di comunicazione di massa e le necessità economico-pratiche dei giornalisti compromettono la realizzazione della finalità pubblica dell’informazione: quest’ultima risente, inesorabilmente, 87 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere, cit. , p. 23 88 D. PULITANO’, “Potere di informazione” e “giustizia”, Laterza, 1975, p. 148. 32 dell’organizzazione gerarchica delle redazioni e dell’applicazione, alle stesse, di una linea “politica dell'informazione” che incide nella scelta delle notizie. In particolare, è stato evidenziato, come è il risultato finale a rivelarsi viziato: da un’informazione piegata al potere e funzionale alla creazione del consenso, piuttosto che ad un confronto dialettico sull’esercizio del potere, il passo è breve89. Per quanto concerne specificatamente la diffusione delle notizie attraverso il mezzo televisivo, vi sono due forme in cui la stessa può avvenire: il reportage, inteso come sintesi commentata, e la trasmissione in diretta. In entrambi i casi la conoscenza generata nello spettatore è relativa, in quanto non consiste nella riproduzione integrale, e poco neutra, poiché è il risultato di un’elaborazione ad opera dell’addetto al montaggio: la tv sconvolge la realtà, anche quando la presenta come un documento;90 si pensi all'uso sapiente delle inquadrature, che possono enfatizzare più del dovuto il ruolo dell'imputato, insinuare dubbi o suggerire conclusioni affrettate. Il rilievo specifico da conferire alle notizie giudiziarie, conformandosi primariamente alla massimizzazione del profitto, spesso non risponde al criterio di corretta formazione dell’opinione pubblica. Un fenomeno che viene denominato “sopraffazione del messaggio rispetto al fatto”: la realtà presentata al lettore ha subito filtri, scomposizione in classifiche di importanza, inserimenti in categorie preferenziali, angolature, titoli e commenti, che la rendono sempre più distante dai fatti e segnano la sorte del pubblico mediato, destinato ad un ruolo ignorante e passivo91. La deviazione dell’obiettività dell’informazione ricevuta è già implicita nell’importanza della fonte dalla quale filtra e proviene; esiste difatti l’aggravante “dell’autorevolezza” che acquista il messaggio trasmesso da un mezzo egemonico quale è in effetti la televisione.92 Si potrebbe obbiettare che l'opinione pubblica non dovrebbe necessariamente essere considerata come un “parco di buoi” che crede ciecamente a tutto ciò che vede o 89 90 91 92 D. PULITANO’, Potere di informazione, cit., p. 147, ss. F. FERRAROTTI, Mass media e società di massa, Laterza, 1992, p. 59 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere, cit., p. 25 GIANARIA, MITTONE, cit., p. 60. 33 legge sui giornali93, nonostante le prevedibili difficoltà di comprensione del complesso linguaggio tecnico-giuridico. Purtroppo, però, è opinione condivisa che le trasmissioni che si occupano esclusivamente di cronaca giudiziaria sono più interessate a generare curiosità nello spettatore, alla ricerca dello share, che a scandagliare la verità. Un ulteriore, distinto, fattore di rischio in tema di pubblicità delle udienze penali attraverso i media è rappresentato dal fatto che la presenza di telecamere e di cineoperatori in aula possa pregiudicare la normale fisiologia dell’udienza e della decisione94. In dottrina, sul punto, esistono due distinte linee di pensiero: la prima si basa sulla premessa che “l’effetto perturbante sia in re ipsa”95, essendo l’utilizzo delle telecamere in aula destabilizzante per gli equilibri emotivi delle parti, dei testimoni e persino dei giudici 96 ; quest’ultima circostanza compromette la naturalezza e la spontaneità dei comportamenti in aula. Una seconda linea di pensiero ritiene che una conclusione siffatta vanifichi la previsione di cui all’articolo 147 d. lgs. 28 luglio 1989, n. 271 - norme di attuazione, di coordinamento, e transitorie del c.p.p. - quest’ultima disposizione consente al giudice di autorizzare la trasmissione radiofonica e televisiva del dibattimento, purché non ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza e della decisione97: la valutazione sulle possibilità di condizionamento delle telecamere nella fisiologia del processo va valutato nel caso concreto, secondo il rischio prevedibile. In termini di lesività, va segnalato che il minor impatto sembra essere assicurato dall’utilizzo della radio: l’ascolto radiofonico delle udienze sembrerebbe assolvere inoltre alla funzione di garantire la neutralità del messaggio. 93 G. CORRIAS LUCENTE, Diritto di cronaca, limiti e libertà, relazione presentata al Convegno sul tema del Giusto processo e della libertà di informazione, Torino 21 luglio 2008, in www.libertaegiustizia.it 94 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale, cit., pp. 63-64. 95 CORDERO, Procedura Penale, Giuffrè, 2006, p. 266. 96 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale, cit., p. 282. 97 G. ILLUMINATI, Quando le parti non sono d’accordo sulle riprese audiovisive del dibattimento, in Dir. penale e proc., 1996, p. 473. 34 In conclusione, la pubblicità del processo rappresenta una conquista civile irrinunciabile, in assenza della quale si genererebbe una involuzione democratica; bisogna, però, evitare che la pubblicità, sapientemente manipolata, possa procurare danni maggiori di qualsiasi segreto: l’esigenza primaria è garantire la pubblicità, ma, allo stesso tempo, “garantirsi dalla pubblicità malata”98. 98 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 27. 35 CAPITOLO 2 LA SEGRETEZZA DEGLI ATTI PROCESSUALI 1. Il “segreto” nel codice Rocco Dopo l'analisi del rapporto giustizia-informazione alla luce dei dettami costituzionali e della normativa di matrice europea, è opportuno ripercorrere sinteticamente le tappe che hanno preceduto la vigente disciplina in materia di “segretezza” degli atti processuali. Sul tema in esame, la dottrina italiana, traendo ispirazione da quella tedesca, ha operato una tripartizione tra: “sfera del confidenziale”, “sfera del privato” e, da ultimo, “sfera del segreto”, da cui discende la distinzione tra notizie confidenziali, notizie private e notizie segrete99. Nel nostro ordinamento ha sempre avuto, storicamente, prevalenza il segreto istruttorio, a discapito del diritto di cronaca 100; eloquente e, purtroppo, per certi versi attuale, una celebre affermazione di Cesare Beccaria: “il segreto è il più forte scudo della tirannia”101. Già nel processo inquisitorio medievale il segreto istruttorio veniva giustificato ora con l'esigenza di tutela del testimone, ora con la difesa della reputazione dell'imputato, ora con la necessità di assicurare speditezza e agilità al processo102. Un convincimento destinato a rivelarsi particolarmente “longevo”: l'editto del 26 marzo 1848, relativo alla libertà di stampa in cui si vietava, in modo perentorio, la “pubblicazione di istruttoria criminale”. 99 F. CAPRIOLI, Colloqui riservati e prova penale, Giappichelli, 2000, p. 17 100 L. FILIPPI, La sentenza Dupuis, cit. p. 154 101 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene,1764, ed. a cura di G.D.PISAPIA, 1964 p. 43 102 G. GIOSTRA, Processo penale, cit., p. 10 36 Analoga disposizione si rinveniva nel codice di procedura penale del 1913: l’art. 106 vietava la pubblicazione, anche per riassunto, di atti o documenti del procedimento o dell'istruzione, fino alla sentenza di proscioglimento o alla pubblica lettura in udienza, ed era, comunque, assolutamente vietata la pubblicazione di atti relativi ad un'istruzione chiusa per insufficienza di prove. La scelta appena citata era dettata dall'esigenza, chiaramente esposta nella Relazione al Re del 1914, di evitare che una stampa imprudente potesse vanificare la possibile ricerca di nuove prove a carico: decisivo “per dare vigore a questi provvedimenti” si era rivelato “il consenso dei più autorevoli rappresentanti della stampa nel deplorare gli abusi che continuamente si verificano con grave danno della giustizia103”. Pienamente in sintonia con l'ideologia fascista, la disposizione appena citata è stata ereditata dal codice Rocco del 1930: in particolare, dagli artt. 230 e 307, relativi al “segreto interno”, e l'art. 164, relativo al “segreto esterno”. Il primo consiste nel divieto di rivelazione di taluni atti processuali a soggetti qualificati quali difensori e parti, mentre il secondo implica il divieto di divulgare o di pubblicare atti relativi al processo. Sussisteva una sfumata ma significativa differenziazione tra obbligo del segreto e divieto di pubblicazione: l'obbligo del segreto, consistente nel divieto di rivelazione, implicava necessariamente l'obbligo della non pubblicazione, costituendo questa proprio una modalità di rivelazione. Gli atti segreti erano, pertanto, non pubblicabili, mentre gli atti pubblicabili non potevano essere segreti, ciò, quanto meno, relativamente agli stessi soggetti. Non necessariamente valeva il contrario: se è vero che ciò che era segreto non poteva essere pubblicato e ciò che era pubblicabile non poteva essere segreto, non è altrettanto vero che ciò che non poteva essere pubblicato dovesse essere necessariamente segreto, e, quindi, non essere comunicato a terzi”104. 103 L. MORTARA, U. ALOISI (a cura di), Spiegazione pratica del codice di procedura penale, libro I, Utet,1914, p.157 104 F. MANTOVANI, Appunti in tema di pubblicazione arbitraria di atti processuali, in Riv. It. di dir. e proc. penale, 1960, p.230 37 Nel codice del 1930 il divieto di rivelazione degli atti istruttori era figlio della volontà di celebrare un processo nel quale alla formazione ed all’acquisizione della prova partecipassero solo gli organi procedenti, con una sorta di extra omnes rispetto al resto della comunità105. Il divieto di rivelazione degli atti nel codice Rocco veniva disciplinato, come accennato, dagli artt. 230 e 307, relativi rispettivamente alla fase dell’istruttoria preliminare e alla istruttoria vera e propria, formale o sommaria che fosse. Destinatari della prima norma erano, innanzitutto, gli agenti di polizia giudiziaria o chiunque avesse compiuto o conosciuto per ragioni d’ufficio, gli atti di indagine, ivi comprendendo anche pubblico ministero e pretore. Ancora una volta l’obbligo del segreto era imposto a chiunque avesse avuto accesso all’attività istruttoria, “indipendentemente dal grado di immediatezza e dal titolo di acquisizione della conoscenza”. L’art. 307 cod. abr. estendeva l’obbligo del segreto a tutti i magistrati, cancellieri, periti ed interpreti, difensori e consulenti tecnici, e, più in generale, a tutti coloro che avessero compiuto atti istruttori o assistito ad essi. È significativo come la norma in esame, a differenza dell’art. 230 c.p.p. abr., disponesse l’esenzione dall’obbligo del segreto per le parti private ed i testimoni; l’indiziato era tenuto al segreto per quanto riguarda l’interrogatorio reso nel corso delle indagini di polizia giudiziaria, mentre poteva legittimamente rivelare la notizia e l’avvenuto interrogatorio reso nella fase istruttoria106. La ratio del segreto, così come disciplinato nel codice Rocco, era rappresentata dalla volontà di preservare la genuinità della prova, nonché della sua fonte, da qualsivoglia contaminazione esterna che potesse pregiudicare l’accertamento della verità nel processo; gli artt. 230 e 307 c.p.p. estendevano il divieto di rivelazione erga omnes, gli obbligati dovevano mantenere il segreto non solo nei confronti delle parti e dei terzi estranei al processo; ciò rende ben evidente quanto fosse esteso, sotto il profilo 105 A. TOSCHI, Voce Segreto (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p. 1098 106 G. GIOSTRA, Processo penale, cit., p. 152 38 soggettivo, l’obbligo del segreto107. Anche sotto il profilo oggettivo l’area di applicazione dell’art. 230 c.p.p. abr. risultava particolarmente estesa: era coperto da segreto tutto ciò che riguardava gli atti istruttori ed i loro risultati, ivi intendendo sia gli atti predisposti alla raccolta della prova, sia quelli relativi all’istruzione. Infine, per comprendere a pieno la reale portata del divieto di rivelazione nel codice Rocco, è necessario porre l’attenzione su un profilo ulteriore e particolarmente rilevante: il profilo cronologico. Il dies a quo, per espressa previsione normativa, decorreva dall’inizio della fase delle indagini. Ben più arduo risultava determinare, con esattezza, il dies ad quem: era necessario partire dalla ratio sottesa all’istituto dell’obbligo del segreto, ossia evitare inquinamenti ed interferenze nella fase di ricerca del materiale probatorio. Da tale assunto sarebbe dovuto discendere, logicamente, che il segreto non dovesse avere più ragione d’essere nel momento in cui gli atti venivano depositati, ai sensi dell’art. 372 c.p.p. abr.: se le parti potevano partecipare alla formazione di un atto, non vi era più motivo di imporre il segreto. La difficoltà maggiore consisteva nell’individuare il termine oltre il quale la rivelazione non fosse più penalmente significativa; non è difficile immaginare situazioni nelle quali permanesse un’esigenza di segretezza dell’attività istruttoria svolta pur dopo che le parti ne avessero preso conoscenza108, come, per esempio, nel caso in cui fossero ancora ignoti taluni correi dell’imputato. In un codice che vedeva nella segretezza della fase istruttoria il mezzo più confacente per un’efficace ricerca della verità, non poteva non trovare sede una rigida norma destinata a limitare l’esercizio del diritto di cronaca: l’art. 164 c.p.p. abr., che vietava la pubblicazione col mezzo della stampa o con altri mezzi di divulgazione, fatta da chiunque, in modo totale o parziale, anche per riassunto o a guisa d’informazione, del contenuto di qualsiasi documento e di ogni atto scritto o orale relativo all’istruzione 107 L. IANNONE, Sulla violazione del segreto istruttorio per l’affidamento dell’intero fascicolo al perito, in Riv. it.di diritto e proc. penale, 1975, p. 1088 108 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 175 39 formale o sommaria, fino a che del documento o dell’atto non fosse data lettura nel dibattimento a porte aperte. Strettamente connessa alla norma processuale, il codice penale stabiliva, all’art. 684, la pena dell’ammenda per chiunque pubblicasse atti o documenti non pubblicabili. La portata dell’art. 164 c.p.p. abr. può essere riassunta in un’unica proposizione: era vietata la pubblicazione del contenuto di atti o documenti relativi all’istruzione e al giudizio tenuto a porte chiuse109. I dubbi sorgevano quando si trattava di determinare quali fossero, nello specifico, gli atti coperti dal divieto di pubblicazione e quali parti di questi atti non fossero pubblicabili. Poiché la norma in esame faceva riferimento “solo” agli atti relativi all’istruzione formale o sommaria, doveva essere esclusa in radice l’estensione dell’operatività del divieto di pubblicazione alla fase delle indagini di polizia, e di conseguenza non poteva trovare applicazione la norma sostanziale di cui all’art. 684 c.p.: pertanto non poteva essere punito né chi pubblicasse atti di un procedimento penale di cui nessuna norma di legge vietava la pubblicazione, né chi pubblicasse atti non processuali di cui la legge vietava la pubblicazione110. Restava da capire se il divieto in esame colpisse esclusivamente il contenuto degli atti istruttori, o anche i fatti che in tutto o in parte ne costituivano il contenuto: anche in tal caso è necessario porre l'attenzione sul “soggetto”, che, ipoteticamente, si trovasse a pubblicare fatti relativi ad atti processuali. Partendo dal presupposto che la pubblicazione è una forma di rivelazione, e rammentando che gli artt. 230 e 307 c.p.p. abr. estendevano il relativo divieto ai “soli” soggetti ivi indicati, occorreva verificare se il soggetto cui ci riferiamo trovasse menzione nelle norme suddette: in questo caso si ritiene che il divieto di pubblicazione si estendesse anche ai “fatti” rappresentati in un atto processuale. Viceversa, se il soggetto, come nel caso esaminato di parti o testimoni, non era vincolato all’obbligo del segreto, la portata oggettiva dell’art. 164 c.p.p. risultava circoscritta al contenuto di atti e documenti, non anche ai fatti conoscibili e conosciuti 109 F.M. MOLINARI, il segreto investigativo, Giuffrè, 2003, p. 5 110 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 187 40 aliunde111. Riconosciuta l’ampia portata, tanto soggettiva quanto oggettiva, del dettato dell’art. 164 c.p.p., ci si deve interrogare sull’effettivo significato del termine “pubblicazione”: le più risalenti interpretazioni dottrinali lo consideravano quale sinonimo di “divulgazione a mezzo stampa”112. Tale interpretazione destava perplessità in ordine alla compatibilità degli artt. 164 c.p.p. e 684 c.p., con gli artt. 3 e 21 della Costituzione: vietare la “sola” pubblicazione a mezzo stampa implicava, necessariamente, la piena legittimità di ogni altra forma di diffusione tramite mezzi differenti; ma ciò significava introdurre una disparità di trattamento tra mezzi di comunicazione, a solo danno dell’attività di stampa. Con una prima pronuncia, la Corte costituzionale aveva rigettato l’eccezione di illegittimità sollevata con riguardo agli artt. 164 c.p.p. e 684 c.p., ritenendo che questi si riferissero a “chiunque pubblicasse atti istruttori”, ivi compresi i testimoni e le parti private che, come visto, potevano riferire privatamente notizie istruttorie in quanto esonerati dal segreto, ma incorrevano nella sanzione suddetta nel caso in cui facessero o concorressero a fare “pubblica divulgazione a mezzo stampa”. Inoltre, segnatamente al rispetto dell’art. 21 Cost., la Corte aveva reputato giustificati i limiti alla libertà di stampa quando vi fosse la necessità di salvaguardare esigenze fondamentali di giustizia113. A distanza di circa quindici anni, il Giudice delle leggi, sulla base di analoghe argomentazioni, aveva nuovamente rigettato la medesima questione di legittimità, ribadendo come “le rivelazioni a mezzo stampa fossero obiettivamente diverse, per i gravi effetti che ne derivano, da quelle eventuali di parti private e testimoni, che in virtù dell’art. 307 c.p.p. non avevano l’obbligo del segreto. La diversità obiettiva di situazioni giustificava, sul piano della ragionevolezza, la disciplina prevista dalle norme censurate114. 111 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 29 112 A. ANTONIONI, Tutela del processo e cronaca giudiziaria, in Archivio penale, 1963, p. 425 113 Corte Cost., 10 marzo 1966 n. 18 114 Corte Cost., 10 febbraio 1981 n. 18 41 Le due pronunce della Corte risultano ben poco incisive in punto di contemperamento di interessi costituzionalmente garantiti, quasi come se il loro intento non fosse ricercare dell’equilibrio tra cronaca e segreto, bensì sottrarre l’operato dei giudici al controllo della pubblica opinione115. Le norme esaminate conferivano al codice Rocco un’impronta marcatamente limitativa del diritto di cronaca giudiziaria: in linea di principio, la stessa avrebbe dovuto rimanere esclusa dal processo penale finché questo non fosse diventato pubblico116. Nel codice del 1930, dunque, il “segreto istruttorio”, antesignano del “segreto investigativo” del codice del 1989, presentava confini irragionevolmente estesi117. Si configurava una disciplina “in difficoltà di senso” 118, alla cui rigidità normativa si contrapponeva, però, una sempre più diffusa prassi contra legem119. Capitava sovente che per aggirare divieti siffatti, si arrivasse a plasmare una sorta di “circolo vizioso”, tra organi investigativi e determinati mass media, eletti dai primi quali interlocutori esclusivi, fruitori di illecite rivelazioni e beneficiari di sostanziale impunità; la conseguenza di tale prassi consolidata era, evidentemente, quella di rendere ancor più distorta e parcellizata l'informazione giudiziaria, con conseguente lesione del diritto dei consociati ad essere informati in modo adeguato. 115 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 202 116 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 231 117 C. F. GROSSO, Segretezza e informazione nel nuovo processo penale, Politica del diritto, 1990, p. 77 118 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 49 119 L. GRILLI, La pubblicazione degli atti ed il segreto professionale del giornalista”, in la giustizia penale,1990, p.566 42 2. Il “segreto” nel sistema processuale vigente Nel 1986, con l’approvazione della c.d. “delega bis” per il nuovo codice di procedura penale (dopo quella del 1974), iniziavano i lavori che avrebbero dovuto condurre all’elaborazione di un nuovo codice di rito, ispirato a criteri assolutamente nuovi rispetto al codice Rocco, anche in una materia particolarmente nevralgica, visti gli interessi costituzionalmente garantiti in gioco, come quella dei rapporti tra giustizia ed informazione. Già nel 1984 era stato approvato un dibattuto disegno di legge 120 relativo al segreto investigativo, le cui principali innovazioni riguardavano la tutela dell’immagine e della riservatezza dell’indiziato e dei minori eventualmente coinvolti nel procedimento. La legge delega del 1987 aveva previsto, in modo estremamente dettagliato, i criteri guida cui il nuovo codice avrebbe dovuto uniformarsi; anzi, a ben vedere, sembrava che il legislatore delegante non si fosse limitato a fissare le coordinate cui far riferimento per l’esercizio della delega legislativa, ma fosse andato oltre, indicando, seppur per grandi linee, le fattispecie del divieto di pubblicazione degli atti, con norme, talvolta, immediatamente precettive121. La ragione di questa scelta era palese: l'assoluta necessità di superare gli evidenti limiti del codice previgente, nel quale ad un’estensione notevole dell’area interessata, almeno potenzialmente, dall'obbligo del segreto faceva riscontro nella pratica un sostanziale depotenziamento della normativa, dovuta ad una disinvolta e costante disapplicazione, anche da parte della stessa magistratura, delle sue disposizioni122. Le indicazioni del delegante si proponevano, quale primo obiettivo, di ridimensionare la portata del divieto di pubblicazione, coordinandolo con l’obbligo del 120 Disegno di legge 2167 del 19 luglio 1984 121 G. GIOSTRA, Processo Penale, op. cit, p. 279 122 P.P. RIVELLO, Prevedibili incertezze della distinzione ex art. 114 tra l’atto ed il suo contenuto, in Riv. it. di diritto e procedura penale,1990, p. 1067 43 segreto. Furono dunque introdotte una disciplina diversificata in base al regime degli atti ed una chiara distinzione tra l’obbligo del segreto e il divieto di pubblicazione123. Le finalità perseguite dalla normativa in esame erano, sostanzialmente, due: tutelare la fase delle indagini preliminari e salvaguardare la corretta formazione ed assunzione delle prove. Sul primo versante, il legislatore delegato ha ritenuto di rafforzare in modo significativo la “segretezza interna”,124 ritenendo che la divulgazione delle informazioni relative al procedimento penale potesse arrecare nocumento alla fase investigativa. Meno significativo l'intervento posto in essere dal legislatore relativamente al secondo interesse da salvaguardare, quello alla tutela del convincimento del giudice dibattimentale: la “segretezza esterna” avrebbe dovuto perseguire il fine ultimo di evitare “contaminazioni mediatiche” dell'organo giudicante, salvaguardandone terzietà ed imparzialità dall'eventuale conoscenza indotta di atti d'indagine. In realtà il “rischio” di contaminazione per il giudice del dibattimento potrebbe essere ben più consistente, soprattutto nei procedimenti ad ampia rilevanza sociale, a causa di campagne mediatiche di sostegno ad una specifica tesi accusatoria. Non si dimentichi, poi, che la parte che intenda portare a conoscenza del giudice atti che in quella fase dovrebbe ignorare potrebbe ottenere il risultato cui aspira in via processuale, con un sapiente e smaliziato uso del suo diritto a sollevare questioni preliminari concernenti il contenuto del fascicolo del dibattimento, ex art. 491 comma 2 c.p.p. 125 La norma di riferimento, in tema di segretezza degli atti di indagine, è l’art. 329 c.p.p., rubricato “obbligo del segreto”: si tratta di una disposizione complessa, la cui esegesi richiede continui rinvii a quanto disposto da altre norme, processuali e sostanziali, e che nasconde tra le sue pieghe più di un’insidia. Il concetto di segretezza, come visto nel paragrafo precedente, indica una 123 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 281 124 G.D. PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale,Milano, Giuffrè, 1960, p. 42 e 152 125 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit, p. 333 44 preclusione alla conoscenza di terzi, più specificatamente esprime la relazione negativa che intercorre tra un fatto e la sua conoscibilità in forza di limiti preclusivi normativamente posti126. La nozione di segreto individua un rapporto che si sviluppa su due piani: sotto l'aspetto obiettivo, il segreto riflette la natura del legame con ciò che deve restare occulto, sotto il profilo soggettivo denota un collegamento sia con i soggetti che possono conoscere sia con quelli cui la conoscenza è inibita127. Nell’ambito processuale penale il “segreto processuale” si distingue in “segreto d'indagine” e “segreto probatorio”: il primo abbraccia il divieto di rivelare ed il divieto di pubblicare; il secondo concerne il divieto di svolgere accertamenti giudiziari in ordine a talune materie128. Il segreto d'indagine tende ad impedire che estranei vengano a conoscenza di determinati atti investigativi; il segreto probatorio costituisce invece un limite alla capacità cognitiva del giudice, impedendo determinati flussi di notizie. E' del tutto evidente come si tratti di istituti profondamente diversi tra loro, ma accomunati dalla costante di sacrificare determinati diritti o interessi in vista della tutela di altri valori ritenuti preminenti, da cui discende la necessità di operare un bilanciamento tra interessi contrapposti; il compito, tutt'altro che agevole, spetta al legislatore129. Questi dovrà dunque, nel pieno rispetto della cornice costituzionale, elaborare una soluzione che comporti un adeguato contemperamento tra due interessi confliggenti: quello della salvaguardia dell’efficacia investigativa e quello della libertà di informazione; la stessa Corte Costituzionale, con la storica pronuncia n. 19 del 1962 ha affermato che “la tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile nell'esigenza che, attraverso di essi, non vengano sacrificati beni, ugualmente garantiti dalla Costituzione”. 126 Ancora, G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 55 127 G. PALOZZI, N. G. SARACINO, voce “segreto”, tutela processuale del segreto”,in Aa.Vv., Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1992, p. 1 128 A. TOSCHI, voce “Segreto ( diritto processuale penale)”, in Aa.Vv., Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1989, pag. 1098 e ss 129 A. TOSCHI, voce “Segreto”, cit. p. 1099 45 Come già esaminato nel primo capitolo, il momento di maggior frizione tra le esigenze del procedimento e quelle dell’informazione è rappresentato dalla fase delle indagini preliminari; di conseguenza, il sistema di segretezza e di pubblicità degli atti processuali riflette, inevitabilmente, il nuovo significato processuale che l’attività inquirente assume nel sistema del 1988130. A rendere le indagini preliminari momento nevralgico nella disciplina del segreto è la vicinanza cronologica col – presunto – fatto delittuoso, che comporta, da un lato il diritto e l'interesse degli inquirenti alla circospezione ed al silenzio, dall'altro quello della collettività ad essere costantemente informata. Nel codice Rocco, ove l'istruzione era ritenuta una “metastasi inquisitoria,” 131 gli atti investigativi su cui incideva il divieto di pubblicazione assumevano nella fase dell’istruttoria valore probatorio, ragion per cui, anche se eccessivamente limitativa del diritto di cronaca, la scelta di fondo appariva coerente con il rito istruttorio. Nel nuovo codice, invece, le attività del pubblico ministero e della polizia giudiziaria sono “tendenzialmente” prive di significato processuale, per cui, a rigor di logica, la portata della segretezza nell’attuale sistema normativo dovrebbe risultare meno incisiva. La segretezza del processo, anche per l'imputato, è un canone tipico del sistema inquisitorio, mentre la pubblicità, come forma di controllo dell'opinione pubblica, dovrebbe caratterizzare il sistema accusatorio132. In realtà la conclusione suddetta è, quantomeno, discutibile: innanzitutto capita sovente che gli atti di indagine assurgano ad elemento probatorio, come in taluni riti alternativi - giudizio abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto – o, nel giudizio ordinario, come nel caso di atti irripetibili di cui agli artt. 431, 512 c.p.p., o nelle ipotesi di atti utilizzati per contestazioni ex art. 500, commi 4, 6, 7, c.p.p.. 130 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 284 131 F. CORDERO, Procedura penale, cit. p.. 348 132 D. SIRACUSANO, Diritto processuale penale, Giuffrè, 2006, p. 31 46 Ma, oltre quanto sopra, in una democrazia in cui, come detto nel capitolo che precede, la pubblicità è funzionale al controllo dell’opinione pubblica sull’amministrazione della giustizia, gli elementi di indagine, pur se processualmente irrilevanti, rientrano a pieno titolo nel raggio di azione di tale controllo, in quanto “capire perché non si svolge il processo non è meno importante di sapere come si svolge”133. In definitiva, un processo accusatorio, per essere tale, non deve bandire il segreto, piuttosto prevederlo solo laddove risulti necessario per evitare un probabile pregiudizio all'indagine. Il vero problema è un problema di misura: plasmare un regime di segretezza “assoluto” ed “indistinto” equivarrebbe “ad una notte, in cui tutte le vacche sono nere”134. Si tratta, come sempre, di individuare le tecniche legislative con cui, nel pieno rispetto del dettato costituzionale, disciplinare in modo adeguato la materia della segretezza degli atti. Due sembrano le soluzioni prospettabili: attribuire all'organo inquirente un potere di segretazione caso per caso; ovvero prestabilire, in modo tassativo, ciò che è segreto e ciò che è divulgabile. Come anticipato, il codice Rocco aveva optato per il criterio della “predeterminazione legale”; scelta sotto certi profili censurabile, in quanto potenzialmente produttiva di “segreti inutili” o di “pubblicità dannosa per le indagini”. L'attuale assetto normativo invece, tutela la riservatezza processuale attraverso un uso congiunto delle due soluzioni prospettate: opzione che permette di attenuare la rigidità del criterio della predeterminazione, evitando le potenziali criticità sopra indicate, e rimettendo al pubblico ministero il potere di decidere caso per caso. La scelta di fondo del legislatore del 1988 è stata quella di collegare e conciliare tra loro la normativa sull'obbligo del segreto e quella sul divieto di pubblicazione (artt. 329 e 114 c.p.p.), tenendo presente che quest'ultima si può ricostruire solo avendo come punto di riferimento la prima. I due articoli in esame pongono distinti obblighi omissivi, a violare il primo bastano dei sussurri sotto banco; altro è pubblicare, il verbo designa le 133 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 287 134 G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, Testo a fronte, traduzione Vincenzo Cicero, Bompiani, 1995, pag. 144 47 comunicazioni ad vulgum. L'uno è violabile una volta sola, l'altro è reiteratamente trasgredibile135. A differenza della pubblicazione, che presuppone la diffusione ad un numero imprecisato di persone, la rivelazione può riguardare anche uno o più soggetti determinati, bastano “bisbigli a quattr'occhi”136. Diversa, inoltre, è la capacità diffusiva del tipo di condotta: la confidenza privata da persona a persona del segreto di indagine resta circoscritta in un campo definito, o definibile; la pubblicazione delle medesime, invece, attraverso la stampa, la radio, la televisione, la cinematografia, la lettura o la narrazione in pubblico, è destinata a chiunque137. In termini di effettività della disciplina, poco è cambiato col passaggio al nuovo codice di rito; è rimasta intatta la ricorrente tentazione di risolvere il problema ampliando il segreto, mentre, invece di espanderlo, lo si sarebbe dovuto limitare a un ambito circoscritto, dai confini nitidamente tracciati, presidiati da sanzioni serie per chi li travalichi138. Degli aspetti relativi al divieto di pubblicazione, ed alle possibili intersezioni e incongruità tra le discipline normative, ci occuperemo diffusamente nel capitolo terzo, con particolare riferimento al divieto di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche. Possiamo sin da ora notare, però, come le norme suddette, al pari di quanto analizzato nel paragrafo che precede in riferimento agli artt. 307 e 164 del codice Rocco, disciplinino due profili ben distinti pur se coordinati: l'art. 329 c.p.p., rubricato “obbligo del segreto” delinea la “segretezza interna”; l'art. 114 c.p.p., relativo al “divieto di pubblicazione”, la “segretezza esterna”. La prima corrisponde al divieto di rivelazione inteso come limite alla conoscibilità di determinati atti o fatti da parte di determinati soggetti; la segretezza esterna indica, invece, il divieto di pubblicazione di atti, senza che, peraltro, questi debbano restare segreti anche per le parti. 135 F. CORDERO, Procedura, cit., p. 348 136 F. CORDERO, Procedura penale,cit., p. 352 137 F. M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 161 138 G. GIOSTRA, Cronaca giudiziaria:il proibizionismo non serve., in dir. Pen. e proc., 1998, p. 799 48 L'esistenza del segreto interno postula necessariamente quella del segreto esterno, al contrario può sussistere un segreto esterno senza un segreto interno; “nel vigente codice di rito la segretezza interna resta distinta da quella esterna e non vi è una sorta di equazione tra ciò che diviene conoscibile all'interno del procedimento e la sua divulgabilità: non vige un automatismo, pur riscontrandosi una tendenziale convergenza tra conoscibilità, rivelabilità e pubblicabilità degli atti di indagine, che non raggiunge, peraltro, la coincidenza tra regime di segretezza e quello – pur sempre distinto – di divulgazione”139. Ovviamente, disporre la segretezza dell'intera fase delle indagini preliminari comporterebbe un irragionevole e sproporzionato sacrificio del diritto di cronaca; allo stesso modo, però, consentire una pubblicità incontrollata equivarrebbe ad un vero e proprio “suicidio investigativo”. L'ambito oggettivo, soggettivo e temporale del segreto deve essere definito in modo da recare il minor danno possibile al diritto di cronaca, le cui limitazioni sono giustificabili solo se finalizzate a garantire la proporzione tra restrizione posta all'interesse-mezzo (diritto di cronaca) e l'interesse-scopo (tutela delle indagini)140. L'art. 329 c.p.p., in tal senso, statuisce che gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti da segreto; certamente l’obbligo al segreto implica una condotta di tipo omissivo, che consiste nel non rivelare le notizie riservate. La disposizione in esame, come vedremo diffusamente nei paragrafi successivi, stabilisce la cessazione dell’obbligo del segreto nel momento in cui l’indagato possa venire a conoscenza dell’atto; vieta la pubblicazione degli atti coperti dal segreto ed introduce, infine, la facoltà per il pubblico ministero di prorogare il divieto oltre il termine previsto per non pregiudicare lo svolgimento delle indagini. Nonostante l'assenza di una specifica aggettivazione, si ritiene, che la norma si riferisca ai “soli” atti di indagine preliminare. Tale convincimento scaturisce, oltre che dalla collocazione della norma in esame nel libro V del codice dedicato proprio alle 139 Cass. Sez. II, 24 settembre 1994, Leonelli, in Cass. Pen., 1996, p. 1181 140 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 109 49 indagini preliminari, dal suo tenore letterale: il comma 1 dispone che l'obbligo del segreto operi “non oltre la chiusura delle indagini preliminari”, escludendo, in tal modo, che il vincolo del segreto riguardi le eventuali indagini suppletive di cui all'art. 419 c.p.p. e le possibili indagini integrative di cui all'art. 430 c.p.p. La ratio sottesa alla disciplina dell'art. 329 c.p.p. è, come più volte chiarito, quella di tutelare l'attività d'indagine; la norma non è invece da ritenersi orientata alla salvaguardia dei diritti delle persone coinvolte nel procedimento penale141. La norma in esame, rispondendo ad una precisa direttiva sul punto, non ha più ad oggetto l’intera fase delle indagini preliminari, ma riguarda i singoli atti di indagine 142, per i quali garantisce “mosse coperte”143, affinché il pubblico ministero possa correttamente individuare gli elementi alla luce dei quali assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale. Quello che il legislatore, a differenza di quanto disponeva l’art. 307 del codice Rocco, non ha affatto precisato, è se con la dicitura “atti di indagine” l’art. 329 c.p.p. si riferisca all’atto inteso come “attività” o come “documento”. Da una lettura orientata al rispetto dei criteri di riferimento contenuti nella legge delega, e soprattutto alla maggiore sintonia con le altre disposizioni del codice, si ritiene che il legislatore abbia inteso imprimergli un duplice significato: atto di indagine come “comportamento umano”, il cui nucleo naturale è costituito dalla condotta volontaria del soggetto, ma anche “documento” idoneo a rappresentare il comportamento medesimo attraverso la scrittura, la fotografia, la cinematografia, la fonografia o altro mezzo adeguato”144. Tanto premesso, proseguendo l'analisi del profilo oggettivo dell'obbligo del segreto, si rende necessario verificare se “tutti” gli atti compiuti durante la fase delle indagini preliminari siano rilevanti al fine del segreto. 141 C. DE MARTINI, Cronaca giudiziaria e presunzione di innocenza, in Diritto dell'informazione e dell'informatica, 1997, p. 209 142 M. QUERQUI, Obbligo del segreto e divieto di pubblicazione di atti e immagini,in Dir. Pen. e processo, 2005, p. 1034 143 F. CORDERO, Procedura penale, cit. p. 348 144 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit. p. 166 50 Esistono atti, pur cronologicamente inquadrati nella fase delle indagini, che non perseguono il fine proprio dell’atto di indagine, cioè il reperimento di fonti di prova: tra questi la ricezione della notizia di reato (art. 330 c.p.p.), l’avviso di garanzia (art. 369 c.p.p.) - sulla cui natura, come vedremo, sono sorti molteplici contrasti in dottrina -, l’arresto in flagranza ( art. 380 c.p.p.), l’avviso dell’arresto ai familiari (art. 387 c.p.p.). Sulla natura dell'informazione di garanzia, come accennato, si riscontrano varie interpretazioni dottrinarie: alcuni ritengono che l'obbligo del segreto su tale atto venga meno “solo” nel momento in cui lo stesso venga a conoscenza del destinatario, e che quindi “nasca” come atto di indagine a tutti gli effetti145. Appare preferibile, e maggiormente coerente col dettato normativo, la tesi per cui l'informazione di garanzia, come pure gli inviti a comparire, sia qualificabile quale “atto a doppio titolo non segreto”,146 in quanto atto non di indagine e, comunque, destinato proprio ad esser conosciuto dall'indagato, dunque, avulso dalla previsione dell'art. 329 c.p.p. Parimenti esclusi dall’obbligo del segreto, e quindi liberamente divulgabili, dovrebbero essere gli atti del pubblico ministero conclusivi o tendenzialmente conclusivi delle indagini, come la richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di archiviazione. Questa interpretazione, pur se pienamente coerente con il tenore letterale della norma, si discosta in modo troppo marcato dall’input della legge delega, in cui si estende l’obbligo del segreto su “tutti” gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. Paradossalmente però, restando pedissequamente fedeli a quanto previsto in legge delega, dovrebbero rimanere esclusi dall’obbligo del segreto gli atti del giudice delle indagini preliminari - quali ad esempio un'ordinanza di custodia cautelare o l'autorizzazione per le intercettazioni di comunicazioni - ed anche le eventuali indagini difensive147. 145 G. NEPPI MODONA, Profili del nuovo codice di procedura penale, (a cura di Giovanni Conso e Vittorio Grevi), Cedam, 1996, p. 376 146 G. GIOSTRA, Cronaca giudiziaria:il proibizionismo non serve., in dir. penale e processo, 1998, p. 799 147 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p.. 301 51 Contrariamente alla tesi che esclude radicalmente la natura di segretezza dagli atti posti in essere dal giudice per le indagini preliminari, taluni autori ritengono che il segreto debba necessariamente sussistere rispetto ai provvedimenti giurisdizionali con cui il giudice autorizza il compimento di atti cui la difesa non ha il diritto di assistere, come, ad esempio, l'autorizzazione all'intercettazione di comunicazioni e conversazioni148. Riassumendo, sono dunque esclusi dall'obbligo del segreto: gli atti di indagine difensiva, gli atti posti in essere dalla persona offesa - come ad esempio la presentazione di una querela149 - e, infine, eventuali atti compiuti da soggetti estranei al procedimento, si pensi ad un'inchiesta giornalistica150. Si afferma in dottrina che oggetto del segreto sia “solo l'atto” del procedimento e la documentazione dello stesso, non anche il “fatto storico” conosciuto da un determinato soggetto; pertanto, la persona che ha partecipato al compimento di un atto di indagine non può rivelarne lo svolgimento – ad esempio le domande rivolte e le risposte date – ma sarebbe libera di riferire i fatti storici a sua conoscenza 151, salvo che il pubblico ministero eserciti il potere di segretazione di cui all'art. 391 quinquies, che analizzeremo più avanti. Anche la Suprema Corte ha ritenuto che l'obbligo alla segretezza non si estenda ai fatti storici direttamente percepiti, specificando come la locuzione “atto di indagine” debba essere intesa in senso restrittivo, ragion per cui serve una rigorosa interpretazione dell'ambito di operatività del segreto investigativo: l'atto di indagine non può automaticamente coincidere col fatto che ne costituisce l’oggetto152. In conclusione, per quanto concerne la delimitazione del profilo oggettivo della norma in questione, per individuare se un determinato atto rientri nell'obbligo del segreto, è necessario seguire una precisa progressione logica: innanzitutto, bisogna verificare che si tratti di un atto compiuto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria; verificare che l'atto in questione sia qualificabile come atto di indagine, secondo l'impostazione 148 P. VENTURA, S. ASTARITA, A. LOPS, .,in Aa.Vv., Codice di procedura penale ipertestuale. Commentario con banca dati di giurisprudenza e legislazione, (a cura di Alfredo Gaito), Utet, 2008, p. 1802 149 G. RUELLO, Segreto di indagine e diritto di cronaca, in La giustizia penale, 1991, p. 602 150 G. GIOSTRA, Processo Penale, op. cit, pag. 301 151 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2006, p. 402 152 Cass., Sez. II, 24 settembre 1994, Leonelli, in Cass. Pen., 1996, p. 1182 52 esposta in precedenza; infine, individuare il momento in cui esso è compiuto, in particolare quando è “conoscibile” da parte della difesa. Prima di passare all'esame della dimensione “cronologica” dell'obbligo del segreto, è opportuno vagliare quali siano i destinatari del dettato normativo, e quali le conseguenze sanzionatorie sottese alla sua violazione. Sotto il profilo soggettivo, la nuova normativa non determina particolari problematiche, infatti, rispetto alla previgente disciplina, non si individuano dettagliatamente tutti i soggetti vincolati dall'obbligo del segreto, ma si pone un più generale e cogente obbligo erga omnes153; su tale aspetto, il legislatore del 1988 ha “oggettivato la segretezza”154. Oggi, quindi, la norma opera in modo “oggettivo”: vengono delineati gli atti coperti dal segreto, e ne viene imposto a “tutti” il rispetto: chiunque sia a conoscenza di un atto vincolato dal segreto, ivi compresi naturalmente i giornalisti 155, è tenuto al riserbo a prescindere dalla qualifica soggettiva che riveste. Come esaminato nel paragrafo che precede, il codice Rocco, all'art. 307, escludeva espressamente l'estensione dell'obbligo del segreto all'indiziato, alla persona offesa ed ai testimoni; essi potevano porsi, perciò, come rivelare legittimamente la notizia processuale istruttoria, con intuibili, gravi pregiudizi all'efficacia delle indagini preliminari. La soluzione adottata dal legislatore del 1988 non appare esente da critiche e osservazioni. É infatti consentito ai soggetti sopra indicati di riferire liberamente notizie sul procedimento fino all'escussione prevista dall'art. 377 c.p.p.; da questo momento subentra l'obbligo del segreto. La disciplina esposta pregiudica gravemente il diritto dell'indagato di compiere indagini difensive, limitando la sua facoltà di acquisire notizie dalle persone informate sui fatti e tenute al segreto solo perchè preventivamente coinvolte in attività non 153 NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di Conso-Grevi, III ed., Cedam, 1993, p. 310 154 Relazione al progetto preliminare al C.p.p., p. 82 155 C. DE MARTINO, Cronaca giudiziaria, cit. , p. 209 53 accessibili. L'estensione all'indagato delle garanzie costituzionali della difesa porta ad escludere la legittimità di una disciplina che ne limiti la libertà espressiva o l'autonomia informativa156. La violazione dell'obbligo in esame comporta l'applicazione delle norme penali sostanziali di cui agli artt. 326 e 379 bis c.p.; il primo, rubricato “rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio”, configura un reato proprio, che punisce tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio che, rivelando o divulgando la notizia riservata, violano i loro doveri e cagionano un pregiudizio al buon funzionamento della pubblica amministrazione157. L'art. 379 bis c.p., invece descrive due distinte condotte illecite: la prima punisce chiunque riveli indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, apprese per aver partecipato o assistito all'atto; la seconda parte, introdotta dall'art. 11 legge n. 397 del 2000, punisce chi, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso di un procedimento penale, non osservi il divieto imposto dal p.m. ai sensi dell'art. 391 quinquies c.p.p. E' evidente l'inadeguatezza della tutela sostanziale alla nuova disciplina processuale: un obbligo così esteso dal punto di vista soggettivo come quello imposto dall'art. 329 c.p.p., ha possibilità di tenuta solo in presenza di una sanzione adeguata in caso di inosservanza, in caso contrario, purtroppo corrispondente alla realtà, l'art. 329 c.p.p. assume le vesti di una lex imperfecta, data la palese incongruenza tra quanto ivi disposto, ponendo in capo a “tutti” il divieto di rivelazione, e quanto previsto dall'art 326 c.p. che configura invece un reato proprio ricollegato alla qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Restano esclusi dalla categoria suddetta, pertanto, le parti del processo, i difensori e i consulenti tecnici. Lo scenario delineato presentava evidenti profili di criticità: “tutti” erano obbligati al segreto – art. 329 c.p.p. - ma solo “alcuni” erano penalmente perseguibili - art. 326 c.p. - a meno che non avessero concorso con un soggetto investito della qualifica 156 A. TOSCHI, Voce segreto,cit., p. 1112 157 L. CARLI, Indagini preliminari e segreto investigativo, in Riv. it. di diritto e procedura penale,, p. 789 54 richiesta. Come vedremo più avanti, solo nel 2000, con l'introduzione di due nuove fattispecie di reato dirette alla tutela della segretezza investigativa, il legislatore è intervenuto a colmare parzialmente questo paradossale vuoto di tutela. L'attuale segreto investigativo è, dunque, un segreto “specifico” che cade sul singolo atto; “eventuale”, perché correlato al compimento di determinati tipi di atti; e, normalmente, “limitato nel tempo”158. Esaminati il profilo oggettivo e soggettivo dell'obbligo al segreto, così come delineato dal nuovo codice di rito, si rende, infine, necessaria un'analisi della dimensione “cronologica” del segreto stesso. 158 E. LUPO, La pubblicabilità degli atti d'indagine preliminare: la Corte Costituzionale amplia i limiti legislativi, in La legislazione penale, 1995, p. 499 55 2.1 La durata del segreto Anche sotto il profilo della durata del segreto, la vigente disciplina risulta nettamente difforme rispetto a quella del codice Rocco. L'efficacia del segreto configura “una relazione di durata a termine” 159: come accennato, l'art. 329 c.p.p., al comma 1, dispone che l'obbligo del segreto sugli atti di indagine permanga finché l'imputato non ne possa avere conoscenza, e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Innanzitutto va rilevato come risulti assolutamente improprio parlare di “imputato”, posto che, tale status, si acquisisce con la chiusura delle indagini preliminari, che è proprio uno dei termini finali del segreto d'indagine, e se all'esito del procedimento dovesse intervenire una pronuncia di archiviazione, pur operando i limiti divulgativi di cui agli artt. 329 e 114 c.p.p., non vi sarà mai un imputato. Esistono, invero, casi in cui la locuzione “imputato” potrebbe risultare correttamente collocata nella fase delle indagini preliminari: ad esempio in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere, che determina la reviviscenza della qualità di imputato; o nei casi di richiesta di giudizio immediato, di presentazione per il giudizio direttissimo, o di richiesta del decreto penale di condanna, qualora il giudice restituisca gli atti al pubblico ministero: in tutti questi casi avremmo un imputato nel corso delle indagini preliminari. Al fine di evitare conseguenze difficilmente sostenibili, si ritiene che l'art. 329 comma 1 c.p.p., per ragioni di economia espositiva, allorché parli di imputato in luogo di persona sottoposta alle indagini, intenda, in realtà, riferirsi ad entrambe le figure160. Viene dunque stabilito un “doppio termine finale”, di cui il termine massimo, è 159 C. CARINI, Segretezza e riservatezza delle indagini preliminari: per uno studio sistematico, Margiacchi-Galeno, 2008, p. 79 160 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 304 56 dato dalla chiusura delle indagini preliminari: quando inizia il processo termina la ragione del segreto, proprio perché il processo accusatorio si caratterizza per la pubblicità dei suoi atti161. Più problematico risulta il parametro della “conoscenza degli atti da parte dell'imputato”: verosimilmente il legislatore, con questa locuzione, si riferisce alla conoscenza “legale” dell'atto segreto, ivi intendendo il momento in cui il soggetto sia messo nella condizione di conoscere l'atto stesso. Si parla, in tal caso, di “titolarità” della conoscenza in luogo “dell'effettività” della stessa; ragion per cui, per valutare l'operatività del segreto d'indagine, non si dovrà tener conto del momento in cui l'atto è stato compiuto, ma di quello in cui si realizza il diritto alla conoscenza per l'indagato, che è quasi sempre posteriore; ovviamente rimane sempre in vigore il termine finale riferito a tutti gli atti dell'indagine preliminare162. Il termine c.d. “intermedio” opera in relazione al singolo atto di indagine conoscibile, mentre il termine “finale” abbraccia tutti gli atti di indagine: il primo opera in via eventuale, dal momento che il verificarsi o meno della conoscibilità dipende dalle scelte del pubblico ministero; la chiusura delle indagini preliminari invece determina necessariamente la fine del segreto per tutti gli atti che in precedenza ne erano coperti163. E' necessario individuare da quale momento l'indagato ha la facoltà di conoscere gli atti dell'indagine, e quali siano gli atti in questione: a tal fine è possibile procedere ad una ripartizione in tre gruppi: al primo gruppo appartengono atti ai quali partecipi l'indagato ed atti compiuti con la presenza, anche, del solo difensore. Si tratta evidentemente di atti che, per la loro stessa natura, sono “conosciuti” ab origine, per cui nascono non segreti: appartengono a questa prima categoria, tra gli altri, l'applicazione di una misura coercitiva e l'interrogatorio. Quest'ultimo, in modo particolare, rappresenta “il momento clou” di caduta del segreto d'indagine poiché, come stabilito dall'art. 65 comma 1 c.p.p., l'autorità che procede all'interrogatorio deve, innanzitutto, esporre in forma chiara e precisa il fatto 161 L. GRILLI, La pubblicazione degli atti e il segreto del giornalista, in La giust. penale, 1990, p. 568 162 L. GRILLI, La pubblicazione, cit. p. 567 163 M. BONTEMPELLI, sub art. 329 c.p.p., in AA.VV. , Commento al codice di procedura penale, ( a cura di Piermaria Corso), La Tribuna, 2008, p.1535 57 attribuito all'interrogato, senza limitarsi ad indicazioni sommarie, ma con particolare attenzione al rilievo accusatorio ed alle risultanze investigative a carico relative alla condotta, all'evento, alle modalità di luogo e di tempo ed all'elemento psicologico. Devono essere, inoltre, contestati gli elementi di prova che sostengono l'accusa e le relative fonti, purché il venir meno della segretezza sotto questo profilo non pregiudichi la prosecuzione delle indagini164. Relativamente all'applicazione delle misure precautelari la Suprema Corte ha riconosciuto che “la diffusione della notizia dell'arresto di persona indagata non integra il reato di rivelazione del segreto d'ufficio perchè l'arresto, nel momento in cui viene eseguito, è conosciuto dall'indagato che lo subisce e quindi, ai sensi dell'art. 329 comma 1, non può essere coperto dal segreto”165. Appartengono al secondo gruppo gli atti compiuti senza la presenza dell'indagato e del difensore, pur avendo quest'ultimo “facoltà” di partecipare, con o senza preavviso: tra le ipotesi di atti che prevedono il previo avviso possiamo considerare, senza dovere di completezza, quella degli accertamenti tecnici non ripetibili di cui all'art. 360 c.p.p.; mentre, tra quelli caratterizzati dall'assenza del previo avviso, dobbiamo fare riferimento agli artt. 356 e 365 c.p.p. E' opinione diffusa in dottrina che il comma 1 dell'art. 329 c.p.p. minus dixit quam voluit, nel senso che, nonostante il tenore letterale sembri riferirsi alla sola ipotesi di conoscenza dell'indagato, si ritiene associabile la caduta del segreto anche alla conoscenza degli atti da parte del suo difensore. Un'interpretazione restrittiva determinerebbe il protrarsi del segreto ben oltre la fase delle indagini preliminari, anche perchè il deposito del fascicolo del p.m. è di regola previsto per consentirne la visione al difensore, e non all'indagato.166 Si tratta, come sopra detto, di quegli atti ai quali il difensore ha il diritto di partecipare, con o senza preavviso, in cui la caduta del segreto è legata alla conoscibilità da parte sua 167 . 164 C. CARINI, Segretezza, cit., p. 84 165 Cass. , Sez. II, 16.05.1985, XY, in Cass. Pen. 1996, p.3720 166 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 308 167 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit. p. 183 58 Sulla base di quanto esposto può verificarsi che: il difensore potrebbe aver concretamente presenziato al compimento dell'atto, oppure non avervi partecipato; nel primo caso il segreto viene meno al compimento dell'atto stesso, nel secondo caso invece il dies ad quem del divieto di pubblicazione consegue al deposito del verbale relativo all'atto compiuto168. Sul punto, la Suprema Corte ha chiarito che, in caso di mancata partecipazione del difensore al compimento dell'atto è necessario distinguere se l'atto sia “garantito” o “a sorpresa”: nel primo caso la conoscenza legale maturerebbe soltanto alla scadenza del termine di cinque giorni previsto dall'art. 366 c.p.p., o al momento dell'esame degli stessi; negli atti a sorpresa, invece, la conoscenza legale maturerebbe alla scadenza del termine di cinque giorni dalla notifica dell'avviso di deposito. Dunque, laddove sia prevista la partecipazione difensiva con diritto di preavviso, il segreto viene meno al compimento dell'atto, ben potendo il difensore presenziare; in buona sostanza il preavviso “concretizza la conoscibilità”, mette il difensore nella condizione di conoscere l'atto, possibilità che, a norma dell'art. 329 comma 1 c.p.p. è di per sé sufficiente a far cessare il segreto investigativo. Nel caso in cui, invece, non sia previsto il diritto al preavviso, è con la notifica dell'avviso di deposito che l'atto diventa conoscibile dal difensore e il segreto cessa, anche se questi decida di non esaminare il verbale depositato. Per gli atti appartenenti al primo gruppo ciò che rileva ai fini della cessazione dell'obbligo del segreto è l'effettiva conoscenza, per quelli del secondo gruppo, invece, la conoscibilità. Al terzo gruppo, infine, appartengono quegli atti di indagine al cui compimento non è prevista né la presenza dell'indagato, né quella del suo difensore, come nel caso di assunzione di sommarie informazioni, in cui bisogna, pacificamente, far riferimento al limite “massimo” di durata del segreto: quello della fine delle indagini preliminari. Che si sia verificata o meno la conoscenza intermedia, come detto, la conclusione delle indagini preliminari pone fine, in ogni caso, alla copertura del segreto; ovviamente, 168 F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 346 59 il termine in questione, potrà variare a seconda delle possibili determinazioni conclusive del pubblico ministero. Una prima ipotesi è quella in cui il pubblico ministero intenda procedere all'esercizio dell'azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio: in tal caso l'indagato ed il suo difensore, attraverso l'avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all'art. 415 bis c.p.p., sono messi in condizione di conoscere l'attività investigativa svolta. L'avviso suddetto è stato introdotto nel corpo del codice con la legge n. 479 del 1999; prima del suo inserimento, che ha di fatto anticipato il momento della caduta del segreto, il termine finale coincideva con quello della richiesta di rinvio a giudizio, e la possibilità per l'indagato di conoscere l'attività di indagine era posticipata alla fase dell'udienza preliminare ex art. 419 comma 2 c.p.p. L'ipotesi alternativa all'esercizio dell'azione penale è quella in cui il pubblico ministero proceda alla richiesta di archiviazione; a questo proposito si impone una distinzione: nel caso di archiviazione de plano si ritiene che il segreto venga meno al momento dell'emissione del decreto di archiviazione; viceversa, nel caso in cui il giudice non accolga la richiesta o subentri l'opposizione della persona offesa, il g.i.p. deve fissare l'udienza camerale, ed il segreto cessa col deposito degli atti presso la cancelleria del giudice. Un profilo interpretativo controverso attiene all'individuazione del termine della durata del segreto nei procedimenti penali contro ignoti o in quelli in cui vi siano più indagati. Nella prima ipotesi la mancanza di un indagato che possa maturare una legittima conoscenza degli atti d'indagine sembra comportare che la cessazione del segreto sia posticipata alla chiusura delle indagini preliminari, termine massimo previsto dall'art. 329 comma 1 c.p.p. Alcuni autori non condividono una soluzione siffatta, rilevando che, se il criterio che ispira la disciplina in esame è, come visto, quello della conoscenza “legale” degli atti, in luogo di quella effettiva, non vi è ragione di escludere l'operatività di tale disciplina 60 anche nei procedimenti a carico di ignoti169. Una obiezione che non appare persuasiva: in realtà, infatti, la conoscibilità è tale solo in quanto la si possa riferire a qualcuno che ne possa avere cognizione; nel nostro caso questo soggetto manca, rendendo, a nostro avviso, preferibile la tesi che identifica la cessazione dell'obbligo del segreto con la conclusione delle indagini preliminari. Ovviamente, se nel corso del procedimento si riesce ad identificare un indagato, è fuor di dubbio consentito a questi di prendere conoscenza degli atti attraverso l'esame dei verbali. Nel caso in cui, invece, vi siano più indagati, l'interrogativo da porsi è se la conoscibilità di un atto da parte di uno solo tra costoro comporti ope legis la cessazione dell'obbligo del segreto nei confronti degli altri. La tesi, a mio avviso, preferibile considera che, in assenza di “segretazione” dell'atto, il segreto viene meno nel momento in cui l'atto stesso divenga conoscibile anche da parte di uno solo degli indagati; ciò non vuol dire che il legislatore abbia ignorato il problema, piuttosto, ad una soluzione generalizzata ha preferito una scelta da demandare, caso per caso, al magistrato procedente, attraverso il meccanismo di cui al terzo comma dell'art. 329 c.p.p.170 L'analisi esegetica dell'art. 329 c.p.p. si completa con l’esame dei suoi ultimi due commi, che, seppur indirettamente, concorrono a determinare anche la durata del segreto esterno. La regola generale in ordine all’estensione temporale del segreto prevede due rilevanti deroghe: il conferimento in capo all'organo inquirente del potere di segretazione e desegretazione. 169 A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, X ed., 2007, p. 80 170 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 308 61 2.2 La desegretazione e la segretazione quali deroghe al regime ordinario del segreto I compilatori del nuovo codice di procedura penale ravvisarono la assoluta necessità, onde evitare un controproducente protrarsi del segreto o una sua prematura caducazione, di affidare al pubblico ministero il potere di valutare concretamente quando, in riferimento alle indagini in corso, la segretezza investigativa sia essenziale, o viceversa quando risulti superflua. Si prospetta così, nella normativa di riferimento, una sorta di “elasticizzazione” 171 del principio generale della segretezza degli atti, attraverso la previsione di possibili correttivi in grado di rendere più flessibile la disciplina legale. Il pubblico ministero è titolare di un potere di “desegretazione” e di “segretazione”; anche se questi due termini non dovrebbero essere usati anche per indicare il potere di revocare o disporre il divieto di pubblicazione, ma solo per intendere il potere di imporre l'obbligo del segreto e quello di esonerare da tale obbligo172. Viene demandato in capo all'organo dell'accusa il potere di ponderare la necessità di rendere conoscibile ciò che, per legge, non lo sarebbe, e, viceversa, di precludere la conoscenza di quanto sarebbe perfettamente conoscibile. E' evidente che, un siffatto potere deve essere necessariamente subordinato alla sussistenza di rigorosi presupposti legali, e all'esistenza di un adeguato controllo da parte di un organo terzo, per evitare che tali strumenti, anziché tutelare le indagini, rispondano alla tutela dell'indagante173. Gli istituti della desegretazione e della segretazione hanno, dunque, un medesimo presupposto: quello della “necessità” per la prosecuzione delle indagini; si tratta di una previsione assolutamente generica, ed invero l'obbligo di motivazione dei relativi decreti, non essendo questi impugnabili, non è funzionale ad alcun vaglio; ragion per cui costituiscono provvedimenti, di fatto, insindacabili. 171 C.F. GROSSO, Segretezza e informazione, cit., p. 84 172 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 309 173 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 13 62 Vengono così attribuiti al pubblico ministero rilevanti poteri, forse opportuni, ma disciplinati in maniera tale da lasciargli troppi spazi di manovra: l'assenza di qualsivoglia forma di controllo non garantisce che la discrezionalità non si trasformi in abuso174. Il rischio è che il pubblico ministero utilizzi sapientemente i meccanismi di segretazione e desegretazione per far filtrare solo determinate notizie. Un primo correttivo esegetico, per evitare che ciò avvenga, consiste nel circoscrivere in termini rigorosi il concetto di “necessità” per la prosecuzione delle indagini: il pubblico ministero dovrebbe poter disporre la segretazione ovvero la desegretazione solo laddove tali strumenti si presentino indispensabili, in quanto unici ed insostituibili, per garantire la corretta prosecuzione dell'indagine175. Va altresì rilevato come, stando al tenore letterale della norma, il potere del pubblico ministero sia quello di “consentire” la segretazione, quasi si tratti di una decisione sottesa ad un'istanza di terzi, evidentemente interessati; in realtà, come vedremo più avanti, in modo pressoché unanime, si ritiene che il verbo “consentire” debba essere letto nel senso di “disporre”. Esaminiamo ora i profili specifici dei due poteri in esame: l'art. 329 comma 2 c.p.p. permette al pubblico ministero, in deroga a quanto stabilito dall'art. 114 c.p.p., di consentire, con decreto motivato, la pubblicazione di atti ancora coperti dal segreto, “quando è necessario per la prosecuzione delle indagini”; ovviamente, propedeutica alla pubblicazione è la desegretazione dell'atto. Ancora una volta, come detto, è la tutela delle indagini il filo conduttore della disciplina in esame, ma, in questo caso, al perseguimento di un medesimo fine corrisponde un totale ribaltamento nei mezzi adottati per conseguirlo: la pubblicazione dell'atto. Proprio perché finalizzato alla tutela delle indagini, infatti, il segreto non può, in concreto, diventare di intralcio al loro svolgimento176. Preliminarmente, è necessario rilevare come la legge-delega non prevedesse 174 F. M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 190 175 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 314 176 P. CORSO, Indagini preliminari, in Aa.Vv., Manuale di procedura penale; Bologna, Monduzzi, 2008, p. 383 63 alcuna indicazione o disciplina relativa al potere in questione; parlare di semplice dimenticanza è poco verosimile, in considerazione del fatto che, nella medesima legge, è stata, invece, espressamente prevista la segretazione. La mancata previsione della desegretazione non significa che il Parlamento ignorasse la sua possibile utilità; pur in mancanza di una esplicita attribuzione del relativo potere al pubblico ministero, la pubblicazione di uno o più atti, in deroga al divieto previsto, sarebbe stata penalmente scriminata se determinata dalla necessità di proseguire le indagini, ossia adempiere un dovere177. L'ultima parte del secondo comma dell'art. 329 prevede il deposito, presso la segreteria del pubblico ministero, degli atti di cui è disposta la pubblicazione; ciò implica, inoltre, il diritto per il difensore dell'indagato di prenderne visione, ragion per cui, in virtù della nota regola generale, viene meno anche il segreto178. Il potere di desegretazione del pubblico ministero può essere esercitato “in deroga a quanto stabilito dall'art. 114 c.p.p.”, e, tanto sui “singoli atti”, quanto su “parte di essi”. Grazie a questa disposizione il pubblico ministero ha il potere di permettere, eccezionalmente, la pubblicazione, non solo del contenuto, ma dello stesso testo degli atti, siano o meno ancora segreti179 . Gli esempi prospettabili sono molteplici: la pubblicazione di un identikit, la necessità di rinvenire testimoni del fatto, e ancora, la pubblicazione della confessione dell'indagato, il contenuto di un esame testimoniale, l'annuncio dell'inquisito di future chiamate in correità; sarà compito del pubblico ministero procedere ad un analitico censimento degli organi di informazione per rendersi conto se gli sviluppi, o i mancati sviluppi investigativi, siano rapportabili alla avvenuta ovvero mancata o inadeguata pubblicazione dell'atto medesimo180. Nell'esercitare il potere di desegretazione, il pubblico ministero è vincolato dall'obbligo di motivazione; tale presupposto, evidentemente dettato dall'intento di contemperare gli interessi in gioco, risulta assolutamente inadeguato a garantire che il 177 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 317 178 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 192 179 A. TOSCHI, voce “segreto”,cit., p. 114 180 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 311 64 potere conferito all'organo inquirente non trasmodi in arbitrio, ragion per cui, il legislatore ha ritenuto di dover prevedere una qualche forma di controllo “diffuso” sulle scelte operate da quest'ultimo, soprattutto perchè, con una sapiente modulazione del flusso iniziale di informazioni sul procedimento, egli potrebbe condizionare, in modo spesso decisivo, l'orientamento dell'opinione pubblica181. Restano, in ogni caso, escluse dal potere di desegretazione le attività finalizzate alla ricerca della notitia criminis a seguito di denuncia anonima: relativamente a tali atti, gli agenti di polizia giudiziaria non sono sottoposti all'obbligo del segreto, che si riferisce solo al compimento di atti di indagine, ma sono tenuti al segreto, come qualunque impiegato dello Stato, ai sensi dell'art. 15 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, come sostituito dall'art. 28 l. 7 agosto 1990 n. 241182. Non si rilevano problematiche particolari, infine, per quanto concerne la durata della desegretazione, atteso che il segreto, una volta cessato con la disposta pubblicazione, non potrà essere ripristinato in alcun modo. Il secondo dei poteri in deroga al regime ordinari di segretezza degli atti investigativi è, come detto, quello di segretazione, di cui abbiamo già analizzato presupposti ed aspetti comuni al potere di desegretazione. L'ultimo comma dell'art. 329 c.p.p. attribuisce al pubblico ministero il potere di protrarre, con decreto motivato ed in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, la riservatezza su uno o più atti di indagine che, per natura o per legge, dovrebbero essere conosciuti dall'indagato, ovvero di impedire la divulgazione del contenuto di determinati atti o di notizie specifiche relative a determinate operazioni per cui non sussisterebbe più il divieto sancito dall'art. 114 c.p.p.183 La segretazione risponde all'esigenza di proteggere taluni elementi di prova dai rischi connessi al disvelamento dell'atto nei termini ordinari; dal termine “segretazione” vengono fatti discendere, in dottrina, due distinti poteri, entrambi propri dell'organo inquirente: il potere di protrarre l'obbligo del segreto e quello di disporre il divieto di 181 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 312 182 M. QUERQUI, Obbligo del segreto, cit., p. 1035 183 L. CARLI, Indagini preliminari, cit., p. 781 65 pubblicazione. E' lo stesso comma 3 dell'art. 329 c.p.p. ad indicare la necessità di distinguere le due realtà che in esso convivono184: da un lato, il potere di imporre l'obbligo del segreto su atti altrimenti rilevabili, il c.d. potere di segretazione in senso stretto, ìdi cui al comma 3 lett. a); dall’altro, il potere di vietare la pubblicazione del contenuto di atti non più segreti, di cui al comma 3 lett. b. Il presupposto del potere di segretazione è, come ribadito, analogo a quello della desegretazione, ossia la necessità per la salvaguardia delle indagini preliminari; ciò nonostante, il comma 3 lett. a) dell'art. 329 si rivela quanto mai criptico, prospettando situazioni che appaiono in sé senza senso, o addirittura inverosimili185. Il comma 3 lett. a) c.p.p. contempla due ipotesi ben distinte. La prima di esse prevede che il pubblico ministero possa disporre il segreto sui singoli atti, quando l'imputato lo consenta. Tralasciando di ribadire la pessima scelta terminologica del legislatore che impropriamente parla di imputato quando, come precedentemente chiarito, si dovrebbe riferire all'indagato, è la richiesta del consenso a suscitare molteplici perplessità. La valutazione sulla “necessità per la prosecuzione delle indagini” delinea un potere proprio esclusivamente del pubblico ministero, cui viene così affiancato un vero e proprio diritto di veto in capo alla persona sottoposta alle indagini. Appare quindi quantomeno singolare che il comma in esame richieda il consenso dell'indagato per l'esercizio del potere di segretazione; non si comprende perché l'indagato dovrebbe acconsentire che gli sia negata la conoscenza di atti dallo stesso conoscibili, e, inoltre, pacificamente divulgabili ex lege. Una spiegazione possibile, anche se facilmente criticabile, potrebbe essere che, manifestando il proprio consenso, l'indagato si impegnerebbe al silenzio sugli atti in questione; ma se così fosse, non si comprende perché la medesima norma non abbia previsto il consenso dell'indagato nei casi di desegretazione, ben più pregiudizievole dei 184 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 310 185 F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, II ed., Giuffrè, 1992, p. 398 66 propri interessi.186 Si è anche prospettata la possibilità che non vi sia soltanto il consenso, ma addirittura un'apposita richiesta dell'interessato affinché il pubblico ministero imponga il vincolo del segreto sull'atto. Si riportano, quale esempio, due noti casi di segretazione: quello relativo all'interrogatorio del Presidente del Consiglio da parte della Procura di Milano – su cui è stato imposto l'obbligo di segretezza - , e quello relativo alle indagini sulla c.d. “uno bianca”, sulle quali è stato disposto il silenzio stampa. Nel primo caso vi è stato, non soltanto il consenso, ma addirittura la richiesta dell'interessato affinché il p.m. apponesse il vincolo del segreto all'atto, e qui viene in considerazione l'art. 329 comma 3 lett. a), c.p.p.; nell'altro caso, invece, è stata utilizzata la disposizione di cui alla lettera b).187 Chiaramente, la richiesta pervenuta non esonera il pubblico ministero dal dover accertare che il segreto sia effettivamente necessario alle prosecuzione delle indagini. La seconda delle ipotesi desumibili dall'art. 329 comma 3 lett. a) c.p.p., ricorre nel caso in cui la conoscenza di un atto non più segreto possa ostacolare le indagini riguardanti altri soggetti: si tratta, evidentemente, di un requisito alternativo rispetto al consenso dell'imputato, ma che, come sempre, deve coesistere col presupposto della salvaguardia delle indagini. L'analisi esegetica del comma 3 lett. a), stante la sua complessa formulazione, richiede qualche sintetica considerazione conclusiva: come detto, con tale disposizione viene disciplinata la segretazione in senso stretto, traducibile nel potere per il pubblico ministero di imporre l'obbligo del segreto, ipotesi ben distinta da quella delineata della lett. b), che attiene, invece, al potere di imporre il divieto di pubblicazione. A tal proposito va ribadito come l'esercizio del potere di cui all'art. 329 comma 3 lett. a) implica l'indiretto esercizio della lett. b): pertanto, al pubblico ministero che intenda disporre il divieto di pubblicazione di un atto, conviene, allorché ne ricorrano i presupposti, esercitare quello di cui alla lettera a): il divieto di pubblicazione, infatti, 186 F. M. MOLINARI, Il segreto, . cit., p. 195 187 G. GIOSTRA, “Recenti casi di segretazione”, in Dir. penale e processo, 1995, p. 274 67 “scatterà” inevitabilmente e sarà rafforzato dal concorrente obbligo del segreto188. Nulla prevede il codice di rito in merito alla durata massima della segretazione; tale termine, tuttavia, si può agevolmente ricavare rilevando che, se il presupposto del decreto in deroga è la necessità di salvaguardare le indagini preliminari, l'efficacia del provvedimento non potrà oltrepassare la conclusione delle stesse. Esaminiamo ora, in modo più dettagliato, proprio l'imposizione del divieto di pubblicazione: il comma 3 lett. b) dell'art. 329 c.p.p., come sopra anticipato, prevede una seconda ipotesi di segretazione, che consente al pubblico ministero di impedire la pubblicazione del contenuto di singoli atti o di notizie su specifiche operazioni, non più coperte dal segreto. Tale potere va ad integrare una deroga a quanto disposto dell'art. 114 comma 7 c.p.p., norma che, come vedremo, consente la pubblicazione di atti non più coperti dal segreto. Con la disposizione in esame il legislatore si è discostato da quanto indicato nella legge delega, che prevedeva la possibilità per l'organo inquirente di decretare il divieto di pubblicazione nel corso delle indagini preliminari, ove si presentasse “la necessità di evitare un pregiudizio per lo svolgimento delle stesse”; ben più sintetica, invece, la formula adottata dal legislatore delegato, che si limita a richiamare la “necessità per la prosecuzione delle indagini”. A ben vedere, l'espressione fatta propria dal legislatore del 1989 è suscettibile di un'applicazione dilatata, non implicando l’esigenza, ai fini della sussistenza del presupposto, di dimostrare il nesso causale tra la pubblicazione di un determinato atto e il verificarsi di un determinato pregiudizio per le indagini, come richiesto dalla leggedelega. Emergono evidenti profili problematici relativamente all'applicazione della norma in esame: il nodo fondamentale riguarda l'efficacia del provvedimento “segretativo” e le modalità utilizzabili per portarlo a conoscenza degli interessati; ove sull'atto sia già stato imposto l'obbligo del segreto, a norma della lett. a), è del tutto inutile prescriverne la non 188 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 323 68 diffusione del contenuto, a ciò provvedendo già l'art. 114 comma 1 c.p.p.; ove, invece, l'obbligo non sia stato imposto, il divieto ha scarsissime possibilità di tenuta 189. Infatti, se il pubblico ministero dispone, immediatamente dopo il compimento di un atto, la sua segretazione, nessun meccanismo partecipativo del provvedimento appare concretamente realizzabile. Questo perché i soggetti venuti legittimamente a conoscenza dell'atto non sono più determinati o determinabili, dunque non è tecnicamente possibile esigere il loro silenzio, per l'impossibilità di assicurare loro la conoscenza legale all'obbligo del silenzio; d'altro canto è impensabile procedere alla pubblicazione del decreto del p.m. sulla Gazzetta ufficiale, perché la pubblicazione degli elementi che consentirebbero di individuare con certezza l'atto o gli atti oggetto del provvedimento rischierebbe comunque di pregiudicare le indagini190. Nel tentativo di ovviare a tali problematiche, nella prassi ci si è “spinti” fino alla segretazione dell'intera attività investigativa posta in essere in un determinato procedimento; è evidente come una soluzione siffatta sia in palese contrasto con il dettato normativo dell'art. 329 comma 3 lett. b) c.p.p., che non permette provvedimenti generalizzati. Anche in tema di durata massima del divieto di pubblicazione imposto con segretazione il legislatore si è discostato da quanto stabilito nella legge delega, che ne circoscriveva la durata al “tempo strettamente necessario” ad evitare il pregiudizio per le indagini, prevedendo altresì la pubblicabilità dell'atto al cessare dell'emergenza investigativa. Il legislatore delegato non ha dato seguito ad alcuna di queste indicazioni, omettendo nell'art. 329 comma 3 c.p.p. ogni riferimento tanto alla durata del divieto di pubblicazione, quanto alle modalità relative alla pubblicazione disposta. 189 F.M MOLINARI, Il segreto, cit., p. 197 190 A rilevarlo è G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 328 69 2.3 Gli interventi di riforma Quale premessa generale, è opportuno ricordare che, come visto nel paragrafo precedente, nella sua formulazione originaria, la densa cortina di segretezza posta a tutela della fase delle indagini preliminari muoveva dalla tendenziale inutilizzabilità del materiale ivi raccolto. Un principio su cui alcuni interventi della Corte costituzionale hanno radicalmente inciso, introducendo deroghe significative al regime di inutilizzabilità dell'atto di indagine nel processo: un prima pronuncia, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 195 comma 4 c.p.p., ha consentito che le informazioni segretamente acquisite dagli organi di polizia giudiziaria durante le indagini, potessero confluire nel dibattimento attraverso l'istituto della testimonianza indiretta191. Una seconda decisione censurava l'art. 513 comma 2 c.p.p., nella parte in cui non permetteva la lettura in pubblico dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato che, in un procedimento connesso o collegato, si fosse avvalso della facoltà di non rispondere192. Una terza sentenza, infine, ha modificato l'art. 500 c.p.p., consentendo l'utilizzo delle precedenti dichiarazioni testimoniali, non solo per saggiare la credibilità del teste escusso, ma anche quale elemento probatorio, purché sussistessero le condizioni tassativamente previste dalla norma medesima: la provata condotta illecita, l'accordo delle parti e, da ultimo, che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni fossero state assunte dal giudice ai sensi dell'art. 422 c.p.p. 193 E' doveroso sul punto anticipare brevemente, rimandando una trattazione più approfondita, come la legge 1° marzo 2001, n. 63 di attuazione della revisione costituzionale operata due anni prima, intervenendo proprio sull'art. 500 c.p.p. abbia inciso anche sulla portata dell'art. 114 comma 3 c.p.p. Nel testo originario del codice il contenuto degli atti di indagine utilizzati per le 191 Corte Cost., 31 gennaio 1992, n. 24, in Giur. Cost., 1992, p. 114 192 Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 254, in Giur. Cost., 1992, p. 1932 193 Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 255, in Giur. Cost., 1992, p. 1961 70 contestazioni era sempre pubblicabile; a seguito della modifica dell'art. 500 c.p.p., le dichiarazioni lette per le contestazioni possono essere utilizzate solo ai fini di valutare la credibilità del teste, senza acquisizione, se non in via del tutto eccezionale, al fascicolo del dibattimento. Ne consegue che, alla luce del quadro normativo quale si presenta dopo la modifica dell'art. 111 Cost. e l'introduzione delle norme sul giusto processo, le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni non possono essere pubblicate se non dopo la sentenza di secondo grado, al pari di tutti gli altri atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero194; in tale circostanza si sposta in avanti il dies ad quem, onde garantire la libertà di convincimento del giudice d'appello. E' di tutta evidenza come pronunce siffatte, abbiano inciso in modo significativo sulla disciplina relativa alla segretezza degli atti di indagine, a maggior ragione in virtù di radicali riforme che si sono susseguite in quel periodo: un primo, rilevante, intervento legislativo è dato dalla legge 7 agosto 1992 n. 365, che ha ampliato, tanto sotto il profilo qualitativo, quanto sotto quello quantitativo, le letture di atti raccolti nella fase di indagine. Come ogni intervento di riforma, anche quello in esame trova la propria matrice storico-giuridica in una situazione contingente: l'esigenza di fronteggiare la criminalità organizzata, e, in particolare, di arginare il fenomeno dell'intimidazione dei testimoni a carico. Allo stesso modo, come ogni situazione in cui le libertà democratiche vengono sacrificate a tutela della sicurezza, anche in questo caso si assiste ad una decisa regressione verso un sistema di tipo inquisitorio: l'eccezionalità del passaggio al dibattimento degli atti investigativi non era più tale. Il segreto investigativo, che a rigor di logica avrebbe dovuto scemare di pari passo alla modifica della natura delle indagini preliminari, continuava a mantenere invariata la sua natura, con evidenti ripercussioni sul diritto di difesa. Proprio in un'ottica di salvaguardia del diritto alla difesa, nel 1997, è stata 194 R. MENDOZA, sub art. 114 c.p.p., in LATTANZI-LUPO, codice di procedura penale, Giuffrè, 2008 p. 68 71 emanata la legge n. 267, che, pur se in modo indiretto, ha fortemente inciso sulla disciplina del segreto interno. Innanzitutto la legge suindicata ha riformato, del tutto, l'art. 513 c.p.p., per evitare che “incontrollate” dichiarazioni assunte dall'accusa nel corso delle indagini preliminari assumessero pieno valore probatorio in dibattimento; dopo di ché, al fine di garantire il rispetto del principio del contraddittorio su dichiarazioni testimoniali rese in indagine, ha notevolmente ampliato i casi di accesso dell'incidente probatorio. In tema di segretezza degli atti di indagine, la l. n. 267 del 1997 ha, inoltre, introdotto alcune aperture relative alla conoscenza degli atti stessi in favore della difesa: ad esempio, novellando gli art. 416 e 555 c.p.p., e introducendo, a riguardo, uno specifico caso di nullità della richiesta di rinvio a giudizio se non preceduta dalla notifica all'indagato dell'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio ai sensi dell'art. 375 c.p.p., con conseguente “sommaria enunciazione del fatto” così come risulta dalle indagini condotte sino a quel momento. In un intervento riformatore di più ampio raggio, nato sulla scorta della legge di revisione costituzionale n. 2 del 1999, si inserisce la n. legge 479 del 1999, nota come “legge Carotti”. Una novella di siffatta portata nasce dall'esigenza primaria di semplificare il sistema processuale, e, parimenti, di compensare la minor tutela dell'imputato, dovuta all'adozione di un modello processuale celere, mediante innovazioni per irrobustire il diritto di difesa, soprattutto nella fase preliminare195. Sullo specifico tema della segretezza degli atti di indagine, la novella del 1999 è intervenuta in modo disorganico, ponendo maggior attenzione alla tutela della riservatezza delle persone coinvolte nella vicenda processuale. Particolarmente interessante, in tal senso, un emendamento196 proposto in sede di commissione referente e poi non accolto, che prevedeva l'introduzione di un art. 329 bis c.p.p., che avrebbe imposto l'obbligo del segreto sul nome e l'immagine del pubblico ministero titolare delle indagini e del giudice per le indagini preliminari. 195 F. M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 136 196 Emendamento 17.0.3. a firma del Senatore Greco 72 Un ulteriore emendamento, anche questo non recepito, invece, “allo scopo di limitare quel diabolico circolo mediatico giudiziario che tanto danno arreca alla dignità della persona”, tendeva all'introduzione nell'art. 114 c.p.p., di un divieto per gli agenti di polizia giudiziaria di riferire pubblicamente sul contenuto degli atti compiuti e sui provvedimenti adottati197. Dopo vari interventi, ed un iter particolarmente complesso, il testo approvato introduceva una nuova rubrica e il comma 6 bis all'art. 114 c.p.p., come vedremo dettagliatamente nel capitolo relativo al divieto di pubblicazione degli atti. A distanza di poco più di un anno dall'emanazione della legge Carotti, è stata promulgata la l. n. 397 del 2000, che ha introdotto nel codice di rito la disciplina delle indagini difensive, fornendo importanti spunti di riflessione anche in tema di segretezza, nella consapevolezza che la conoscenza degli atti sia condizione necessaria per l'attivazione del diritto di difesa attraverso prove a discarico198. Ma le varie proposte sul punto non ebbero effettivo seguito: le uniche disposizioni in grado di incidere sulla disciplina del segreto investigativo, oggetto di un intervento concreto, sono stati gli artt. 366 e 391 quinquies c.p.p. La prima disposizione consente alla difesa di procedere all'esame delle cose sequestrate, conferendogli, altresì il diritto, se si tratta di documentazione, di estrarne copia. Parallelamente è previsto un potere di segretazione in capo al pubblico ministero che, per gravi motivi, può differire con decreto motivato impugnabile dinanzi al g.i.p. l’esercizio della facoltà concessa alla difesa, per un tempo massimo di trenta giorni. L'art 391 quinquies c.p.p. delinea la cosiddetta “segretazione della fonte dichiarativa”, conferendo all'organo dell'accusa il potere di vietare ai soggetti escussi a sommarie informazioni di comunicare i fatti e le circostanze oggetto d'indagine di cui siano venuti a conoscenza. La facoltà di segretazione in esame non è, ovviamente, illimitata, né da un punto 197 Emendamento 17.3. a firma del Senatore Scopelitti 198 N. TRIGGIANI, Il divieto di pubblicare, Percorsi di procedura penale, a cura di V. Perchinunno, cit. p. 860 73 di vista cronologico, in cui il divieto non può avere durata superiore a due mesi, né sotto il profilo dei presupposti applicativi, potendo essere esercitata “solo” se sussistono specifiche esigenze attinenti all'attività d'indagine. Nonostante la segretazione necessiti di un decreto motivato, una motivazione “solo sommaria”, o addirittura la totale mancanza di motivazioni, non incide sulla sua efficacia, non essendo contemplata nella disciplina alcuna forma di controllo da parte del giudice; tale decreto non è infatti neppure impugnabile199. La legge n. 397 del 2000 ha, inoltre, introdotto una nuova norma di diritto sostanziale: l'art. 379 bis c.p., che, nella prima parte delinea un reato proprio, prevedendo la pena della reclusione fino ad un anno per chiunque riveli indebitamente notizie segrete relative ad un procedimento penale in corso, apprese per aver partecipato o assistito al compimento dell'atto stesso; la seconda parte dell'articolo in esame stabilisce la medesima pena per chiunque, dopo aver rilasciato dichiarazioni in indagine, violi il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 391 quinquies c.p.p. La condotta integrante la fattispecie di reato di cui sopra consiste nel rivelare notizie segrete inerenti il procedimento, senza specificare i criteri di riferimento per cui ritenere una notizia “segreta” e rendendo quindi necessario far riferimento alla norma processuale, in particolare all'art. 329 c.p.p.. Questa norma, come visto in precedenza, esclude la segretezza di atti che non siano stati compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ragion per cui l'art. 379 bis c.p. non troverà applicazione nei confronti della persona sentita dal difensore in fase di indagini difensive ai sensi dell’art. 391-bis c.p.p., laddove questa riveli notizie relative a tale atto: quest’ultimo è sì un atto di indagine, ma del difensore200. Il secondo comma dell'art. 379 bis c.p., come accennato, delinea l'ipotesi in cui sia il pubblico ministero a disporre, con decreto motivato, ai soggetti escussi, il divieto di comunicare fatti e circostanze oggetto dell'indagine in corso, estendendo, sotto il profilo oggettivo, la sanzione penale alla comunicazione di qualsiasi notizia riferibile alle 199 F. BERNARDI, Il potere di segretazione del pubblico ministero, in Dir. Pen. e processo,2001, p. 219 200 M. RANZATTO, Rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale, in Aa. Vv., Processo penale, il nuovo ruolo del difensore, investigazioni private, difesa d'ufficio, patrocinio per i non abbienti, a cura di FILIPPI, Cedam, 2001, p. 492 74 indagini, non solo sull'atto cui si è assistito. L'intento della novella del 2000 è stato quello di rimediare alla lacuna normativa previgente: in precedenza, infatti, la persona informata sui fatti che, dopo essere stata escussa dagli organi inquirenti, avesse riferito ad altri il contenuto di tali dichiarazioni, non era penalmente perseguibile, ad eccezione della contravvenzione di cui all'art. 684 c.p. Alla luce di quanto esposto, si può affermare che, pur prestando il fianco a critiche, anche di rilevante entità, la scelta compiuta dal legislatore del 1988 appare apprezzabile, anche e soprattutto in considerazione della non trascurabile responsabilità dell'autorità giudiziaria. E' innegabile, infatti, come nel fenomeno delle “fughe di notizie”, che esamineremo in modo dettagliato nel capitolo successivo, il ruolo svolto da parte degli inquirenti assuma una rilevanza decisiva: dalla scelta di organi informativi conniventi cui fornire materiale non divulgabile, alla predisposizione di un vero e proprio meccanismo fatto di “soffiate” ed “indiscrezioni”, che, inevitabilmente, ledono tanto il pluralismo informativo, quanto, soprattutto, il fine di salvaguardia delle indagini e delle persone nei cui confronti queste siano esperite. Per tale ragione, qualsiasi norma sarà destinata a rimanere lettera morta finché permarrà questo istituzionalizzato reticolo sotterraneo tra uffici giudiziari ed organi di informazione e dunque chi è preposto alla repressione dei reati non li persegue, o addirittura li commette201. 201 G. GIOSTRA, Disinformazione giudiziaria, cause, effetti, rimedi, in Dir. Pen. e proc.,1995, p. 393 75 CAPITOLO 3 LA DISCIPLINA DEL DIVIETO DI PUBBLICAZIONE DELLE INTERCETTAZIONI 1. Intercettazioni e privacy: considerazioni introduttive “Nel nostro beato Paese chiunque controlla chiunque, comunque e dovunque gli piace, in barba alla giustizia, alla polizia, alla Costituzione, alla privacy dei cittadini ed allo Stato”: con tale enfasi Giuliano Vassalli descriveva, nel 1973, l'uso, a suo dire eccessivo ed indiscriminato delle intercettazioni202. Già negli anni ‘70, dunque, erano particolarmente avvertite le problematiche connesse a questo mezzo di ricerca della prova, assolutamente soddisfacente sul piano del risultato istruttorio, ma fortemente insidioso e lesivo della sfera personale dell'individuo. Nel corso degli anni, il notevole aumento del numero dei procedimenti penali sorti sulla base delle intercettazioni telefoniche ha prodotto, contestualmente, un accresciuto interesse dei media nei confronti delle stesse, tanto più a seguito del clamore suscitato da alcune vicende giudiziarie particolarmente rilevanti da un punto di vista mediatico. D'altro canto, i mezzi di comunicazione di massa svolgono un ruolo fondamentale perché consentono all'opinione pubblica di controllare l'amministrazione della giustizia, ma possono incorrere nella violazione dei diritti individuali di riservatezza e segretezza delle comunicazioni.203 Tra i Paesi democratici del mondo occidentale, l'Italia è uno dei pochi che affida a una norma di rango costituzionale (l’art. 15 Cost.) il compito di disciplinare il sistema delle intercettazioni, ed è uno dei pochissimi a prevedere una duplice riserva: di legge 204, 202 G. VASSALLI, Le intercettazioni, rispetto delle garanzie costituzionale e prospettive di riforma, in “Il Giorno”,15 marzo 1973 203 M.BERTOLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato, in Riv. it. di diritto e procedura penale, 2003, 4, p. 1071 204 L’art. 15 Cost. parla di garanzie previste dalla legge; è discusso se la formula coincida con quella 76 e giudiziaria (si parla di “atto motivato dell’autorità giudiziaria”), in modo da garantire il cittadino che vede affidata la tutela della riservatezza delle proprie conversazioni ad un organismo come la magistratura, costituzionalmente delegato alla tutela dei diritti fondamentali, e con l'unico vincolo di essere soggetta alla legge. A causa della sua marcata incisività, l’impiego di questo mezzo di ricerca della prova è subordinato a una serie di presupposti; già la legge-delega, alla direttiva n. 81, aveva analiticamente previsto i limiti e le modalità di attuazione delle intercettazioni. Il nostro codice di rito, tra gli artt. 266 e 271, prevede una dettagliata disciplina relativa ai presupposti, al procedimento di ammissione ed all'esecuzione delle intercettazioni: l'art. 266 c.p.p. ne fissa i limiti di ammissibilità, circoscrivendo la possibilità di farvi ricorso alle ipotesi in cui si perseguano determinate fattispecie di reato, individuate in parte secondo un criterio quantitativo, in parte secondo uno qualitativo. Il successivo art. 267 comma 1 c.p.p., dispone che è possibile ricorrere a tale istituto “solo” qualora risulti “assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini”, e sussistano al contempo gravi indizi di reità; al fine di vagliare la sussistenza di detti requisiti, il decreto di autorizzazione del g.i.p. deve essere motivato e la mancanza di uno dei presupposti determina l'inutilizzabilità delle risultanze. La prassi applicativa fa registrare, tuttavia, vistose deviazioni rispetto al modello delineato dal codice; il requisito dell'indispensabilità ai fini investigativi, in particolare, ha assunto una forma talmente elastica da aver ormai perso qualsiasi incidenza205. Questa circostanza, unitamente al costante sviluppo di strumenti informatici e di mezzi di captazione sempre più sofisticati, ha comportato, in particolare dall'inizio degli anni ‘90, un aumento vertiginoso del ricorso all'uso di intercettazioni. Il progresso tecnologico, come già accennato, ha prodotto conseguenze rilevanti anche dal punto di vista dell’informazione sulla giustizia penale, che, per l’apporto di una dell’art. 13 Cost. 205 PROFITI, in Filippi, Illuminati, Leo, Profiti, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni? Forum, a cura di Caputo, cit., p. 1216. - In senso conforme: Cass., Sez. I, 23 gennaio 2002, Orfei ; Cass., Sez. I, 11 luglio 2000, Nicchio Vedi però di recente le indicazioni più rigorose contenute in Cass., SEZ. VI, 23 marzo 2009 (ud. 12 febbraio 2008), n. 12722, Lombardi e al., con nota di G. GIOSTRA, Intercettazioni: un sacrosanto richiamo alla legalità e sciagurati propositi di riforma, in Quest. giust., 2009, n. 3. 77 strumentazione sempre più avanzata e per la contemporanea presenza di una pluralità di media, è in grado di raggiungere l’utente in tempi ridottissimi dal fatto, se non addirittura in tempo reale. Per questo motivo è necessario esaminare innanzitutto “cosa” sia pubblicabile delle conversazioni intercettate; successivamente occorre chiarire “quando” sia possibile procedere alla pubblicazione, e, infine, ricostruire quali principi costituzionali interagiscono in questa sorta di “triangolo” tra processo, cronaca e privacy. Innanzitutto, le trascrizioni delle intercettazioni, “depurate” delle parti irrilevanti e da quelle inutilizzabili – nella fase c.d. di stralcio - sono inserite nel fascicolo del dibattimento di cui all'art. 431 c.p.p., in quanto, per loro natura, atti irripetibili. Tuttavia, come vedremo dettagliatamente più avanti, la fase dello stralcio, in base al disposto dall'art. 329 c.p.p., potrebbe non essere più coperta dal segreto, con conseguente rischio di diffusione anche del contenuto di conversazioni irrilevanti ai fini investigativi. L'attuale legislazione è carente sul punto, non consentendo al p.m. di operare, ab origine, una selezione delle intercettazioni da immettere nel circuito processuale, allo scopo di escludere in radice quelle non pertinenti206. In un quadro siffatto è frequente che vengano riportati integralmente, sugli organi di stampa, i testi delle conversazioni intercettate, anche se il loro contenuto non ha attinenza con i fatti oggetto di accertamento processuale, e anche se sono coinvolti terzi inconsapevoli: è il fenomeno delle “intercettazioni a strascico”. Proprio la necessità di arginare una problematica in continua evoluzione, nel corso degli anni, ha costretto il legislatore a tentare di intervenire precipitosamente, ad inseguire i fatti denunciati dalle cronache giudiziarie, con un approccio emergenziale, sull’onda del ciclico riemergere di un non meglio specificato “allarme intercettazioni”, determinato dalla pubblicazione - o perfino dalla mancata pubblicazione - di stralci di conversazioni relativi a vicende giudiziarie che vedano coinvolti personaggi più o meno 206 V. GREVI, Intercettazioni, non sono d'accordo con D'Ambrosio, in Corriere della sera, 24 novembre 2007 78 noti207. Tutte le volte che si verifica una lesione della riservatezza di un individuo, in modo particolare allorquando la vicenda giudiziaria riguarda personaggi pubblici, affiorano polemiche che investono diversi aspetti relativi al mezzo intercettivo: dalla sussistenza dei presupposti agli eccessivi costi di captazione, fino soprattutto alle “fughe di notizie”. L'allarme per le libertà democratiche scatta appena un'inchiesta penale mette piede in un santuario della politica, dell'imprenditoria o della gerarchia ecclesiastica; la virulenza della polemica è direttamente proporzionale alla fondatezza dell'ipotesi accusatoria, mentre i decibel e la grossolanità dell'attacco alla magistratura sono inversamente proporzionali alla conoscenza del caso ed alla alfabetizzazione giuridica del Savonarola di turno208. Come vedremo diffusamente nel capitolo successivo, dagli anni ’90 si sono succeduti diversi tentativi di riforma, nessuno dei quali è mai approdato all’approvazione di entrambe le Camere; la delicatezza degli interessi in gioco, e la costante difficoltà di trovare fra loro un equo bilanciamento, hanno finora impedito che si approdasse ad una nuova normativa di riferimento. Il problema relativo al bilanciamento tra tutela della fase investigativa mediante il segreto, salvaguardia della cronaca giudiziaria e tutela della privacy, riceve, inevitabilmente influenzato dal diverso grado di protezione dei diritti individuali, un trattamento nettamente differente negli ordinamenti dei diversi Stati occidentali. In Paesi culturalmente e socialmente vicini al nostro, come la Spagna e la Francia, e persino in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le intercettazioni, nelle loro variegate forme, sono prevalentemente di competenza di autorità amministrative e di polizia, se non addirittura dei soli servizi di sicurezza. In Francia, in cui pari dell'Italia l'ingerenza dei media è rilevante, è frequente la violazione della normativa sul segreto; per porre un freno a tale situazione, si è estesa in 207 M. DI BITONTO, Lungo la strada per la riforma della disciplina delle intercettazioni, in Cass. Pen. 2009, 1, p. 10. 208 G. GIOSTRA, da “Il Sole 24 ore”, 20 ottobre 2008 79 modo assoluto la sfera del segreto sulle risultanze investigative, qualificando, inoltre, quale “ricettazione derivante da violazione del segreto istruttorio o professionale” la condotta di divulgazione da parte dei giornalisti di materiale istruttorio. Si tratta di una disciplina solo “apparentemente” rigorosa, poiché ad una previsione normativa tanto rigida non corrisponde una sanzione adeguata, tant'è che il divieto è frequentemente disatteso. Viceversa, nel Regno unito, pur non esistendo un divieto formale per gli investigatori di svelare gli elementi acquisiti, è prevista la reclusione fino a due anni per i responsabili del reato di “contemp of court”, integrato dalla pubblicazione di materiale che potrebbe condizionare un giudice popolare o pregiudicare un giusto processo. Anche in Germania, dove sono preventivamente predisposti canali di comunicazione ufficiale tra stampa e organi di giustizia, c.d. justizpressesprecher, sono previste pene severe per chi divulga senza autorizzazione atti della fase preliminare. Per addivenire ad un “globale” contemperamento tra diritto di cronaca e diritto alla riservatezza, i vari Paesi europei dovranno necessariamente uniformarsi alle indicazioni fornite dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che, come analizzato nel primo capitolo, ha sistematicamente condannato gli Stati laddove abbiano posto in essere misure coercitive contro la stampa. In particolare considerazione vanno tenute le indicazioni contenute nella citata pronuncia della Corte di Strasburgo, sul caso Dupuis c. Francia del 7 giugno 2007, che rappresenta un serio monito per il legislatore di fronte alla proposta di irrigidire le pene previste per i giornalisti. L'indicazione della Corte assume una specifica funzione di indirizzo per gli Stati membri dell’Unione europea, e, oggi specialmente, per il Parlamento italiano209. Nella pronuncia in esame, la Corte ha effettuato un bilanciamento tra la tutela della riservatezza e la tutela del diritto di cronaca, sostenendo che non è possibile determinare una “priorità astratta tra i due interessi a confronto”, ma che occorre valutare 209 V. GREVI, La libertà d’espressione piace (solo) all‘Europa, in “Corriere della sera”, 3 luglio 2007, p. 38. 80 le circostanze del caso concreto, soppesando l’effettiva lesività della divulgazione di atti e documenti coperti dal segreto istruttorio. Viene così tutelato il diritto di cronaca, riconoscendo un ruolo preminente al “criterio dell'interesse collettivo” che ne costituisce il fine ultimo. Proprio il ruolo fondamentale del diritto dei cittadini “ad essere informati” ha comportato, nella tradizione anglosassone, l'attribuzione agli organi di stampa della funzione sociale di “cani da guardia della democrazia”. Se una lezione può trarsi da questa succinta analisi comparatistica, è quella della impraticabilità di soluzioni radicali e della necessità di un bilanciamento tra le diverse esigenze, con una attenta considerazione dei fattori che possono accrescere l’effettività della disciplina normativa. Il legislatore italiano, nel disciplinare la materia delle intercettazioni e la loro successiva divulgazione sui mezzi di comunicazione, deve preventivamente rinvenire un punto di equilibrio tra la tutela della privacy, della riservatezza e della dignità delle persone, da un lato, ed il diritto di cronaca quale strumento di controllo sull'amministrazione della giustizia, dall’altro. La disciplina delle intercettazioni è vincolata a precise coordinate di rango costituzionale: l'art. 15 Cost. dichiara “inviolabili” la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, disponendo poi, al secondo comma, che la loro limitazione può avere luogo soltanto per “atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. La medesima sensibilità garantista si rinviene nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che, all'art. 8, tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, e in numerose pronunce della Corte di Strasburgo, che è arrivata a prevedere un obbligo positivo a carico degli Stati di adottare tutte quelle misure idonee per un'adeguata tutela dei diritti personali210. I Paesi che aderiscono alla C.e.d.u., dunque, non potranno passivamente limitarsi 210 Corte europea, 17 luglio 2003, Craxi c/ Italia, in Cass. Pen., 2004, 2, p. 679, con nota di TAMIETTI, Intercettazioni telefoniche e garanzie a tutela del diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza dell'imputato. 81 a rispettare il divieto di ingerenza, ma dovranno attivarsi per assicurare ai cittadini il godimento di un diritto fondamentale, indispensabile per garantire il principio di uguaglianza211. In Italia, la prima disciplina organica in materia di intercettazioni è stata introdotta dalla legge n. 98 del 1974 - “Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni” - ispirata dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 34 del 1973, con cui la Consulta ha rimarcato come l’art. 15 Cost., non si limiti a proclamare l’inviolabilità della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, ma enunci anche espressamente che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Il primo dei suddetti “sottoprincipi” , quello al diritto alla riservatezza delle comunicazioni, viene riconosciuto quale diritto inviolabile della persona, riconducibile nell'alveo dell'art. 2 Cost. La legislazione sulla riservatezza intende, appunto, proteggere il rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento all’identità personale ed al diritto alla protezione dei dati sensibili, come prescrive il decreto legislativo n. 196 del 2003. Con la sentenza del 1973, la Corte costituzionale ha ricondotto il diritto alla riservatezza alla tutela apportata dagli artt. 2 e 15 Cost., con riferimento all'ipotesi di “divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto di comunicazioni telefoniche non pertinenti al processo”. L'art. 15 Cost. va dunque inteso quale “estensione” della disposizione contenuta nell'art. 2 Cost., nella prospettiva di proteggere da arbitrarie limitazioni i diritti inviolabili dell'uomo. Inoltre la Consulta ha sottolineato la necessità che sussistano “effettive esigenze proprie dell’amministrazione della giustizia” per poter limitare la segretezza delle comunicazioni, e che vi siano, altresì, “fondati motivi” per ritenere che ne derivino 211 MANTOVANI, L’ “affaire Craxi” e la doppia pronuncia della Corte europea, in La legislazione penale, 2004, p. 99, 82 risultati positivi per le indagini. Le intercettazioni, infatti, non incidono sulla libertà di comunicazione, bensì, “solo” sul diritto alla segretezza delle stesse: il soggetto verso cui è disposto il provvedimento restrittivo non è impedito o limitato nelle sue comunicazioni, che, anzi, nell'interesse delle indagini dovrebbero essere quanto più libere possibile: ciò che viene fortemente menomata è la libertà di segretezza intesa come ius excludendi alios. Un aspetto particolarmente rilevante da approfondire è quello di individuare il fondamento costituzionale del mezzo di ricerca della prova de quo: dapprima la Corte Costituzionale212, ed in seguito la Cassazione213, lo hanno coerentemente rinvenuto nell'interesse pubblico all'accertamento dei reati fondato sull'art. 112 Cost. Affinché la menomazione della libertà di segretezza sia giustificata, in nome di un diritto costituzionalmente garantito, è necessario che la stessa risulti assolutamente funzionale alle indagini. Il rispetto del suddetto fondamento costituzionale, però, giustifica l'intercettazione in sé, e non anche la diffusione del suo contenuto, per la quale si deve rinvenire un diverso fondamento in Costituzione. Come evidenziato nel primo capitolo, la libertà di informazione trova la sua salvaguardia nell'alveo dell'art. 21 Cost., che garantisce la libera manifestazione del pensiero; è necessario, dunque, individuare il rapporto che intercorre tra questa norma e l'art. 15 Cost. Controversa è, infatti, la relazione intercorrente tra le due fattispecie: i costituzionalisti si dividono fra quanti ritengono le due previsioni “assolutamente indipendenti”214 e quanti le considerano “inscindibilmente legate”215. A sostegno della prima ricostruzione si è argomentato che, affinché si possa parlare di comunicazione, è “essenziale” il carattere di segretezza del pensiero trasmesso 216 . 212 Corte Cost., sent. n. 336 del 1991 in Giur. Cost. 213 Cass., sez. V, 9 dicembre 2003, n. 46963, in Cass. Pen., 3, p. 913 214 A. PACE, Art. 15, in Branca, Commentario della Costituzione italiana, Bologna, 1977, p. 86 215 ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Giuffrè, 1958, p.45 216 MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, Cedam, 1976, p. 568 83 La tesi maggioritaria – che afferma la reciproca dipendenza tra le due previsioni costituzionali - muove, invece, dalla premessa che la segretezza non sia un requisito essenziale della comunicazione, ma oggetto di una distinta situazione giuridica: il rapporto intercorrente tra le fattispecie dell'art. 21 e dell'art. 15 Cost. è qualificabile in termini di “specialità della seconda rispetto alla prima”217. Aderendo a tale interpretazione si potrebbe sostenere che l'art. 15 Cost. “sottospecie” dell'art. 21 Cost. - vieti “l'ulteriore” diffusione di conversazioni segrete, benché contenute in atti processuali pubblici, la cui compressione può ritenersi consentita “solo” per fini processuali, e non anche per fini informativi. Potrebbe, inoltre, prospettarsi una lesione dell'art. 3 Cost., che assicura pari dignità sociale a tutti gli individui, qualora il contenuto delle intercettazioni divulgate fosse utilizzato per condurre una sorta di “campagna mediatica” contro l'imputato prima della sentenza218. Si è argomentato, in conformità con l'indirizzo proprio della corte di Cassazione219, che il diritto di cronaca non contrasti con il limite della pari dignità sociale, qualora, nella sua manifestazione, sia rispondente alle exceptio veritatis analizzate nel primo paragrafo: ossia che la notizia sia rispondente al vero, che sia rispettata la correttezza formale delle espressioni, e vi sia un attuale interesse pubblico alla divulgazione. Tuttavia, il disposto dell'art. 3 Cost. è da ritenersi un “valore assoluto”, non limitabile in alcun modo, al di fuori dei casi che trovano un fondamento costituzionale: l'unico soggetto abilitato a pronunciare espressioni “diffamanti” è il giudice in sede di condanna, e solo in quella sede.220 Non sembra dunque condivisibile l'interpretazione della Suprema Corte secondo cui la dignità sociale possa cedere rispetto al diritto di cronaca, allorché la notizia dal contenuto diffamatorio presenti profili di interesse pubblico all'informazione tali da 217 ESPOSITO, La libertà di manifestazione,cit., nt. 2 218 ESPOSITO, La libertà di manifestazione, cit., nt. 102 219 Cass., Sez. V, 16 dicembre 2004, S. , n. 4009 in Riv. Pen., 2005, 560 220 ESPOSITO, La libertà di manifestazione, cit., nt. 44 84 prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e giustificare l'esercizio del diritto di cronaca. Per concludere, aderendo alla tesi restrittiva, dovrebbe ritenersi vietata la pubblicazione di intercettazioni, tutte le volte che le stesse siano utilizzate al fine di esprimere direttamente o attraverso il riferimento a determinati fatti ritenuti spregevoli, valutazioni negative sulle persone221. Per i soggetti che rivestono cariche pubbliche, si potrebbe modulare in senso più ampio il limite dell'esercizio del diritto di cronaca, rispetto alla tutela della dignità sociale, posto che l'interesse pubblico all'informazione, in questo caso specifico, troverebbe un fondamento nella responsabilità politica diffusa di tali soggetti. Per molto tempo nell'ordinamento italiano il diritto alla riservatezza è stato considerato “sacrificabile”, destinato a capitolare di fronte al prevalente interesse all'accertamento giudiziale e all'esigenza di formazione della prova in seno al processo222. In tempi più recenti, invece, come detto, il progresso tecnologico e l'intensificarsi del ricorso al mezzo delle intercettazioni, hanno determinato una maggiore capacità intrusiva nella sfera privata della persona, e conseguentemente una maggiore sensibilità a questa tematica. L'attenzione riconosciuta al diritto alla protezione dei dati personali dei soggetti sottoposti a procedimento processualpenalistica” sul penale, ha contemperamento dato degli inizio ad interessi una in “riflessione gioco, cioè sull’individuazione dei limiti e delle modalità di una ragionevole compressione del diritto alla privacy, per soddisfare le finalità investigative e, finanche, informative. Proprio in considerazione dell'irrinunciabile tutela della privacy dal mezzo più subdolo e pericoloso nelle mani degli inquirenti223 viene sottolineata una tendenziale indifferenza del legislatore, sempre maggiormente attento alla salvaguardia di esigenze “endoprocessuali” a discapito della tutela dei soggetti, coinvolti nel procedimento o ad 221 ESPOSITO, La libertà di manifestazione, cit., nt.45 222 LETTIERI, Linee evolutive in materia di rapporti tra accertamento giudiziario e tutela dei dati sensibili, su appinter.csm.it/incontri/relaz/15693. 223 C. DI MARTINO, T. PROCACCIANTI, “Le intercettazioni telefoniche”, Cedam, 2001, pag. 2 85 esso estranei, rispetto alla divulgazione di notizie di carattere privato, processualmente irrilevanti224. Divulgazione il cui intento, nemmeno tanto nascosto, è solo quello di sollecitare la curiosità dell'opinione pubblica225. Per arginare tale fenomeno, la cronaca giudiziaria, oltre ai limiti illustrati nel primo capitolo, deve rispettare ulteriori vincoli, posti a tutela del processo e della riservatezza dall’art. 114 c.p.p., che fissa le regole per la pubblicazione degli atti processuali. Ciò in quanto l’attività informativa svolta dai mass media potrebbe comprimere il diritto della persona ad un equo processo, condizionare l’opinione pubblica, soprattutto nella fase delle indagini, o influire sulla corretta formazione del convincimento del giudice: il processo influenza la società. E viceversa. In un simile moto circolare si inseriscono, appunto, i mass media226. 224 G. GIOSTRA, Intercettazioni tra indagini e privacy. Primo, evitare soluzioni improvvisate, in Dir. e Giust., 2006, 31, p. 99 225 F. PIZZETTI, discorso illustrativo della Relazione annuale al Parlamento del 2006 del presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali,, del 7 luglio 2006, doc. web n. 1303712, su www.garanteprivacy.it. 226 G. GIOSTRA, Giornalismo giudiziario: un ambiguo protagonista della giustizia penale, in Critica del diritto, 1994, 1, p. 55 86 2. Il divieto di pubblicazione degli atti previsto dall'art. 114 c.p.p. L’istituto del divieto di pubblicazione era stato delineato dal codice del 1930 quale limite alla divulgazione di atti o notizie riguardanti fasi processuali non pubbliche, poiché si riteneva che la diffusione generalizzata di tali dati potesse compromettere la serenità del giudizio, il segreto sulle attività investigative e la riservatezza delle persone coinvolte. Nel capitolo che precede abbiamo analizzato le norme che il codice Rocco destinava alla disciplina dell'obbligo del segreto - l'art. 307 c.p.p. abr. - e del divieto di pubblicazione - l'art. 164 c.p.p. abr.: quest'ultima norma, però, più che rafforzare il segreto processuale, si limitava a regolare la forma della rivelazione, inibendo l’uso dei mezzi di divulgazione e vietando di pubblicare anche dati non ricompresi nel vincolo di segretezza. Il divieto era imposto con l’inizio della fase istruttoria, e di conseguenza era lecito divulgare denunce ed altre notizie di reato finché non intervenisse la comunicazione giudiziaria; si attenuava così il diritto alla riservatezza dei diretti interessati. La rigidità del divieto imposto nel codice Rocco in tema di divieto di pubblicazione, risultava ben evidenziata nella Relazione al progetto preliminare al codice del 1929: “è volontà dello Stato di far assolutamente cessare la riprovevole e pericolosa speculazione giornalistica sui procedimenti penali, la quale, rivelando ciò che interessa non venga propalato, mette sull'avviso i delinquenti e può frustrare l'azione dell'autorità, eccita nella popolazione un malsano interessamento per l'attività criminosa, fornisce esempi ed istruzioni ai male inclinati, nuoce agli imputati innocenti, crea artificiose correnti di opinione pubblica contrarie all'indipendenza ed all'obiettività del giudice e cagiona altri danni e pericoli che sarebbe superfluo enumerare”227. L'art. 164 c.p.p. abr. vietava, così, la pubblicazione del contenuto di atti e 227 Lavori preparatori del codice penale e di procedura penale, VIII, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1929, p.. 35 87 documenti relativi all'istruzione, ed al successivo giudizio tenuto a porte chiuse. L'entrata in vigore della Costituzione, e l'assurgere del diritto di cronaca al rango di valore primario, comprimibile solo per la tutela di interessi di pari grado, non poteva non imporre una graduale rimeditazione del ruolo dell'informazione. L'interesse di rango costituzionale ritenuto preminente era, comunque, quello al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, come ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 18 del 1966: la Consulta evidenziò come l'art. 164 c.p.p. abr. avesse una duplice finalità: quella di assicurare la serenità e la indipendenza del giudice, proteggendolo da ogni influenza esterna di stampa che potesse pregiudicare l’indirizzo delle indagini e le prime valutazioni delle risultanze, e quella di tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo. Si rendeva necessario definire l’estensione del controllo sociale sul processo, che un ordinamento democratico deve riconoscere228. Proprio al fine di conciliare il diritto di riservatezza dell'individuo ed il diritto di cronaca giudiziaria, il legislatore del 1988, preso atto della costante disapplicazione delle regole stabilite nel vecchio codice di rito, ha consentito la pubblicazione del “contenuto” degli atti di indagine, e dunque anche delle intercettazioni, circoscrivendo il più possibile il divieto di pubblicazione e facendolo cadere mano a mano che non ha più ragion d'essere, in relazione alle varie fasi del processo.229 Per quanto riguarda le indicazioni fornite dal legislatore delegante, il punto di riferimento è la direttiva n. 71 della legge-delega, che, come rimarcato, ha trovato esplicazione negli artt. 329 e 114 c.p.p.: le prime tre indicazioni concernono il segreto degli atti di indagine ed il divieto “assoluto” di pubblicazione che allo stesso si accompagna. Il quarto punto disciplina il divieto di pubblicazione di atti non coperti dal segreto, 228 V. TOSCHI, voce Segreto (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p. 1103. 229 Relazione al progetto di riforma del codice di procedura penale, pubblicato su Supplemento ordinario n. 2 alla “Gazzetta Ufficiale” n. 250 del 24 ottobre 1988, p. 49. 88 il divieto “relativo”; il quinto punto è dedicato alla tutela dei minori, mentre l'ultimo alle sanzioni previste per la violazione della normativa. Nella citata direttiva si avvertiva chiaramente la preoccupazione di realizzare l'auspicato ridimensionamento del divieto di pubblicazione: l'analiticità con cui il delegante ha previsto i casi di divieto lascia intendere che fosse precluso al delegato di introdurne di nuovi. Nel prologo dell'art. 2 legge-delega è stabilito che il nuovo codice “deve attuare i principi della Costituzione”, fra essi l'art. 21 Cost. occupa un posto di prim'ordine, pertanto le ipotesi di divieto indicate dal delegante sembrano rappresentare il tributo massimo che il delegato è “autorizzato” a pagare per la tutela di interessi processuali o extraprocessuali pregiudicati dalla libera divulgabilità delle informazioni relative al procedimento penale230. I compilatori del nuovo codice si sono, dunque, distaccati in modo netto dal previgente impianto normativo, seguendo un duplice principio ispiratore: se da un lato l’informazione è ancora intesa come un fattore limitante dell’autonomia e della serenità della funzione giudiziaria, dall’altro se ne valorizza il ruolo di strumento di controllo sociale. Si è così cercato di circoscrivere, per quanto possibile, il divieto, anche in considerazione del fatto che limiti troppo rigidi sono spesso inapplicabili e generano inevitabilmente il tentativo di aggirare il precetto. Vi è, tuttavia, un limite implicito alla pubblicità: quello oltre il quale la cronaca rischierebbe di frustrare l'azione della giustizia; non avrebbe senso, infatti, pregiudicare un'attività per garantirne il controllo231. Si deve, allora, riuscire a conciliare le esigenze dell'informazione con quelle del processo: rispetto alla previsione dell'art. 164 c.p.p. abr., che vietava sic et simpliciter la pubblicazione degli atti dell’intera fase delle indagini preliminari, il codice vigente, col 230 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 280 231 G. GIOSTRA, “Segreto investigativo, tutela della riservatezza, garanzie difensive.”in AA.VV., Le risposte penali all'illegalità, Tavola rotonda nell'ambito della Conferenza annuale della ricerca, Roma, 2 aprile 1998, Accademia nazionale dei Lincei, p. 33 89 “labirintico”232 art. 114, stabilisce che il divieto colpisce solo singole attività, che devono rimanere segrete fino a quando restano ignote all’indagato; si tratta di una previsione, sotto il profilo oggettivo, meno rigorosa della previgente. Vedremo più avanti come, invece, risulti ben più ampia la categoria dei destinatari del divieto: si tratta di un obbligo erga omnes, che si estende dunque ai testimoni e alle parti private, che erano esclusi dall'obbligo previsto dall'art. 307 c.p.p. abr. L'art. 114 c.p.p delimita i confini entro cui è consentito pubblicare atti acquisiti durante le indagini preliminari; nella fattispecie in esame rientra, inevitabilmente, la trascrizione di conversazioni o comunicazioni intercettate. Al primo comma, l'art. 114 c.p.p., vietando la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti coperti dal segreto o del loro contenuto, introduce un divieto “assoluto” di pubblicazione degli atti, individuati ai sensi dell'art. 329 c.p.p. Come precedentemente specificato, si parla in tal caso di “segretezza esterna”, corrispondente al divieto di rivelare notizie sul procedimento, al di fuori dell'ambito processuale, attraverso la previsione di un divieto di divulgazione a mezzo stampa233. Gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria restano, dunque, segreti fino a quando l’indagato non ne possa avere conoscenza e comunque fino alla chiusura delle indagini preliminari, e non possono essere diffusi con alcun mezzo - stampa, radio, televisione - neanche parzialmente o per riassunto. Il segreto cade con il deposito dei verbali delle intercettazioni presso la segreteria del pubblico ministero: da questo momento i difensori possono esaminare gli atti ed ascoltare le registrazioni. Il venir meno dell'obbligo del segreto su determinati atti non comporta però la loro libera pubblicabilità: il comma 2 dell’articolo 114 stabilisce infatti che gli atti non più coperti dal segreto non possono essere pubblicati, neanche parzialmente, fino alla conclusione delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare. Se il procedimento approda alla fase dibattimentale, il divieto di pubblicazione 232 F. CORDERO, sub art. 114 c.p.p., cit., p. 139 233 R. MENDOZA (a cura di), “Codice di procedura penale” Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. Il - Articolo 114 - Divieto di pubblicazione di atti, di LATTANZI e LUPO, Giuffrè,2008, p. 39. 90 degli atti inseriti nel fascicolo del pubblico ministero si protrae fino alla sentenza di appello, come stabilito dal comma 3 dell'art. 114 c.p.p. Prima dell'intervento della Corte costituzionale del 1995234, che in seguito esamineremo in modo più dettagliato, era prevista un'ulteriore ipotesi di divieto di pubblicazione, concernente gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento. Nel dichiarare l’illegittimità della norma, la Corte ha posto l’accento sul fatto che la ratio del divieto di divulgabilità degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, anche una volta cessato l’obbligo del segreto, è giustificata dall’esigenza che il giudice formi liberamente il suo convincimento sulla base di atti ad esso ignoti; ne consegue la sua totale inapplicabilità a quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, per definizione concernente atti che il giudice “deve” conoscere. Se invece, come delineato dal comma 5 dell'art. 114 c.p.p., non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può vietare la pubblicazione di atti o di parte di essi quando vi sia il rischio di offendere il buon costume, di pregiudicare l’interesse dello Stato oppure la riservatezza dei testimoni o delle parti private. Questa breve ricognizione dei contenuti dell'art. 114 c.p.p. si conclude con l’esame del suo comma 7, che consente la pubblicazione del “contenuto” di atti non coperti dal segreto: su questa distinzione si fonda la libertà di cronaca giudiziaria, un diritto costituzionale, che trova i suoi limiti negli interessi strettamente processuali del segreto, e al contempo costituisce un diritto dei cittadini conoscere l’operato della magistratura235. Abbiamo evidenziato come il codice vigente, al fine di tutelare la riservatezza della fase delle indagini preliminari, le fornisca una copertura che opera su due piani: all'obbligo del segreto, ai sensi dell’art. 329 c.p.p., associa il divieto di pubblicazione, ex art. 114 commi 1 e 2 c.p.p. Dunque, salvo l'esercizio del potere di segretazione e desegretazione da parte del pubblico ministero, si è stabilito che il divieto di pubblicazione dovesse tendenzialmente 234 Corte Cost., 24 febbraio 1995 n. 59, in Foro it., I, 834, Riv. it. Dir. e proc. pen.,1996,808 235 G. CORRIAS LUCENTE, L’informazione nella fase delle indagini preliminari, in Il Diritto dell’informazione e dell’informatica, Giuffrè, 2008, 4-5, p. 447. 91 “coincidere” con il segreto investigativo; tuttavia, pur se in modo meno rigido, e per la tutela di un interesse distinto rispetto alla salvaguardia delle indagini preliminari, si è previsto che il divieto in questione possa permanere anche dopo che l'obbligo del segreto sia venuto meno. Proprio da un attento confronto tra la “pubblicazione” - vietata dall'art. 114 c.p.p.e la “rivelazione” – di cui all’art. 329 c.p.p. - si possono ricavare le caratteristiche salienti della prima. La condotta interdetta dall'art. 114 c.p.p. è quella della “pubblicazione”: più precisamente la pubblicazione “con il mezzo della stampa o altro mezzo di diffusione”, evocando in tal modo, al pari di quanto esposto relativamente al segreto, un obbligo di tipo omissivo. Come già evidenziato, il segreto è violabile con un bisbiglio; il divieto di pubblicazione, invece, richiede che la modalità di trasmissione della notizia siano tali da consentirle un'elevata propagazione, in grado di raggiungere un numero indefinibile di persone. La pubblicazione, dunque, presuppone veicoli a destinatari indeterminati: stampa, radio, cinema, televisione, proclami, affissioni, bandi, conferenze, dibattiti, letture in pubblico, narrazione e così via; inoltre, contrariamente all'obbligo di tacere, il divieto di pubblicare è reiteratamente violabile; la notizia ripubblicata non costituisce mai uno sterile reprint, ma integra ogni volta una violazione della prescrizione236. In senso conforme, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che una prima, illecita pubblicazione non determini la cessazione del divieto, poiché con la successiva divulgazione viene dato maggiore risalto e diffusione all'atto originariamente non pubblicabile: le successive pubblicazioni, pertanto, sono da ritenersi punibili, pur se identiche, nel contenuto e nella forma, a quelle precedenti237. Relativamente ai soggetti tenuti al rispetto del divieto di pubblicazione, come accennato, valgono le medesime conclusioni formulate con riguardo ai soggetti vincolati al segreto: anche il divieto di pubblicazione, infatti, configura un obbligo erga omnes; 236 F. CORDERO, Procedura, cit., p. 352 237 Cass., Sez. I, 11 luglio 1994, Leonelli, Cassazione penale, 1996, pag. 2164 92 “tutti” sono tenuti ad osservare l'obbligo del segreto, parimenti “tutti” sono vincolati al divieto di pubblicazione. Nell'ambito del divieto di pubblicazione, peraltro, non emerge la “sfasatura” tra la disciplina processuale e quella penale, rimarcata riguardo l'obbligo del segreto: l'art. 114 c.p.p. trova il suo pendant sostanziale nella contravvenzione di cui all'art. 684 c.p., che presidia il divieto di pubblicazione, punendo chiunque lo violi. Procederemo ad un'analisi più approfondita dei profili sanzionatori nei paragrafi successivi; si rende però necessario, innanzitutto, l’esame delle due tipologie di divieto di pubblicazione sopra enunciate: il divieto assoluto e il divieto relativo. 93 2.1 Divieto assoluto di pubblicazione L’articolo 114 c.p.p. delinea un divieto di pubblicazione che si estrinseca in due differenti gradazioni: un divieto “assoluto”, posto al fine di impedire che l’indagato venga a conoscenza dello sviluppo delle indagini, in quanto ciò potrebbe compromettere il reperimento e l’acquisizione di elementi probatori; un divieto “relativo”, più attenuato, che riguarda gli atti, ma non il loro contenuto, funzionale ad impedire che il giudice dibattimentale subisca condizionamenti. La scelta operata dal legislatore è nel senso di un divieto assoluto di pubblicazione degli atti sino a quando siano coperti dal segreto, e di un successivo affievolimento di tale divieto anche a seconda delle fasi del procedimento238. Si profila così la più rilevante innovazione che il legislatore del 1988 ha introdotto nella materia de qua: il divieto di pubblicazione non costituisce un unicum, ma, al contrario, si atteggia diversamente a seconda della natura dell'atto su cui insiste. E' il segreto investigativo il discrimine tra assolutezza e relatività del divieto: il riferimento all'art. 329 c.p.p. è indispensabile per comprendere esattamente la portata dell'art. 114 c.p.p; quando sussiste il segreto, vige un divieto assoluto di pubblicazione, in seguito il divieto si affievolisce a relativo. Nel primo caso l'atto non può essere rivelato e ne è, ovviamente, proibita la pubblicazione, sia testuale che per contenuto; nel secondo caso, invece, l'atto è rivelabile e, pur rimanendone vietata la pubblicazione del testo, diviene lecita quella del contenuto. La contrapposizione tra “atto” e “contenuto” è la base su cui si fonda la distinzione tra divieto assoluto e divieto relativo: questo, come detto, rappresenta un 238 A. NASTASI, La disciplina penale del segreto, in Diritto e formazione, 2003, p. 101 94 elemento di novità del codice del 1988, motivato seguendo argomentazioni condivisibili, ma alla prova dei fatti, fallace e lacunoso. Alla nozione di “atto” corrisponde la riproduzione, in tutto o in parte, di un atto investigativo pubblicato integralmente. Più problematica risulta la definizione di “contenuto”, ivi intendendo qualsiasi riproduzione che consenta di ricavare informazioni circa il compimento di un determinato atto, senza che ciò implichi la sua riproduzione totale o parziale239. Per individuare le sopracitate falle dell'attuale sistema normativo, va rimarcato innanzitutto come, nel plasmare la vigente disciplina dei limiti del diritto di cronaca giudiziaria, si sia, nuovamente, posta l'attenzione “solo” sulla salvaguardia delle esigenze relative al procedimento, escludendo quelle connesse al diritto alla riservatezza delle persone coinvolte nel procedimento stesso240. Il comune denominatore su cui fondano i divieti previsti dall'art. 114 commi 1-3 c.p.p. è, dunque, di natura, esclusivamente, processuale: si vuole cioè assicurare il sereno svolgimento del processo, da una parte consentendo un'esaustiva individuazione dei mezzi di prova, dall'altra garantendo su di essi una corretta valutazione dell'organo giudicante; prescindendo per il momento dalle ipotesi specifiche delineate dai commi 4 – 6 bis della norma in esame, solo i due interessi ivi indicati appaiono idonei a restringere il diritto di cronaca. La tutela del primo interesse – il corretto svolgimento delle indagini preliminari esige, non solo uno sbarramento alla rivelazione di notizie relative ad atti investigativi, ma anche un rafforzamento, integrato dalla previsione del divieto “assoluto” di pubblicazione. Il divieto de quo ha connotati assai rigorosi: la norma interdice la pubblicazione, integrale o parziale, del testo e del contenuto dell'atto processuale “coperto da segreto”; in tal modo, come anticipato, il legislatore ha stabilito uno stretto collegamento tra obbligo 239 TOSCHI, voce Segreto (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p. 1112. 240 G. GIOSTRA, “L'opinione pubblica in tribunale e il tribunale dell'opinione pubblica” in Riti, tecniche, interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento, Atti del Convegno di Foggia, 5-6 maggio 2006, a cura di Marco Nicola Miletti, Giuffrè, 2006, p. 36 95 del segreto e divieto di pubblicazione. Per individuare quali siano gli atti “assolutamente” non pubblicabili, è necessario fare riferimento diretto all'art. 329 c.p.p., che disciplina l'istituto del segreto investigativo: come già anticipato, “atti coperti dal segreto” sono gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, finché la difesa non abbia la possibilità “legale” di conoscerli, o, in mancanza, fino al termine massimo di chiusura della indagini preliminari. Ma gli atti coperti da segreto non sono, però, solo quelli sopra riportati: dobbiamo considerare, infatti, la già analizzata previsione del comma 3, lett. a) dell'art. 329 c.p.p., che consente al pubblico ministero di imporre il segreto su singoli atti che, oltre a non poter essere rivelati, saranno altresì oggetto di divieto assoluto di pubblicazione. Nei casi indicati, come detto, il divieto di pubblicazione rafforza l'obbligo del segreto: non avrebbe alcun senso, del resto, vietare la rivelazione di un atto senza contestualmente inibirne la pubblicazione; in caso contrario si arriverebbe al paradosso per cui un atto segreto e non rivelabile potrebbe, però, essere divulgato e reso di dominio pubblico. Esiste un'ipotesi, quella delineata dall'art. 329 comma 3 lett. b) c.p.p., in cui il divieto di pubblicazione prescinde dal segreto: in tal caso, infatti, il pubblico ministero può imporre il divieto di pubblicare determinati atti o notizie relative a specifiche operazioni investigative. Eccezion fatta per quest'ultima ipotesi, il divieto assoluto di pubblicazione e il divieto di rivelare convergono su un medesimo oggetto: l'atto coperto da segreto, e non potrebbe essere altrimenti, avendo entrambi il fine sotteso di salvaguardare le indagini preliminari. Oltre all'identità dell'oggetto, i due divieti in esame convergono anche sotto il profilo temporale: si protraggono entrambi, infatti, sino al venir meno della segretezza interna. Il profilo cronologico del divieto assoluto di pubblicazione ricalca, dunque, quello del segreto, come esplicitamente sanciva in legge-delega, prendendo le distanze dal 96 previgente art. 164 c.p.p. abr., che riferiva il divieto di pubblicazione ad un'intera fase processuale, o, in alcuni casi, addirittura richiamava il termine proprio delle norme sugli archivi di stato: settanta anni dalla conclusione del processo. Il divieto assoluto di pubblicazione, pertanto, cessa con la “conoscibilità legale” dell'atto da parte del difensore o dell'indagato; in mancanza di essa, viene meno con la chiusura delle indagini preliminari. A rigor di logica, dunque, se dovessero risultare ignoti gli autori del reato, il divieto assoluto di pubblicazione dovrebbe operare per tutta la durata delle indagini preliminari; nel momento in cui dovesse essere individuata la persona sottoposta alle indagini, il divieto in parola si dovrebbe modellare in funzione del regime di conoscenza di ogni singolo atto241. Questa interpretazione del dies ad quem del divieto assoluto di pubblicazione nel procedimento contro ignoti, pur essendo coerente con la legge-delega, ha suscitato forti perplessità: essendo di due anni la proroga massima del termine ordinario delle indagini preliminari, sarebbe politicamente difficile accettare che, soprattutto nei casi di reati particolarmente gravi ed allarmanti, l'opinione pubblica debba essere tenuta all'oscuro di tutto per un lasso di tempo così ampio242. E' ipotizzabile l'esistenza di atti d'indagine per cui, il divieto di pubblicazione, anche relativamente al solo contenuto, abbia una durata indefinita, essendo correlati ad un determinato iter procedimentale: si pensi, ad esempio, alla denuncia ed alle sommarie informazioni testimoniali. Questi atti diventano conoscibili dall'indagato, e quindi pubblicabili, con la richiesta di rinvio a giudizio; se però, le indagini sfociano in una richiesta di archiviazione accolta de plano, la persona sottoposta alle indagini non ne avrà mai la conoscenza legale, e di conseguenza essi saranno indefinitamente oggetto di divieto assoluto di pubblicazione243. Un ulteriore profilo problematico riguarda la distinzione tra “atto” e “fatto”: i 241 V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, IV ed., CEDAM, 2006, p. 136 242 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 136 243 G. CONSO, V. GREVI, Prolegomeni a un commentario breve del nuovo codice di procedura penale,Cedam, 1990, p. 102 97 confini tra le due nozioni risultano incerti ed evanescenti, ma la loro specificazione è necessaria ai fini di una corretta collocazione nell'alveo del divieto “assoluto”. La nozione di “fatto”, ivi inteso quale fenomeno direttamente percepibile, non rientra nel divieto in questione: si ritiene quindi pubblicabile ciò che il giornalista osserva di persona244. La Suprema Corte in considerazione dell'indispensabilità di una rigorosa delimitazione dell'area di efficacia del divieto di pubblicazione, ha ritenuto che quest'ultimo concerna strettamente gli atti del procedimento ed il loro contenuto, senza potersi estendere oltre questo ambito. In caso contrario, un diritto costituzionalmente garantito qual è il diritto di cronaca, subirebbe un'ingiustificata compressione245. Nella medesima pronuncia la Suprema Corte, rilevando come l'atto di indagine non possa automaticamente coincidere con il fatto che ne costituisce l'oggetto, ha escluso dall'ambito del divieto di pubblicazione le notizie relative all'espletamento di attività che si sostanzino in fatti direttamente percepibili, sia per una casuale cognizione diretta del giornalista, sia per una conoscenza indiretta frutto di informazioni riferite dai terzi presenti al compimento dell'atto. Al contrario, non sarà mai pubblicabile il contenuto delle dichiarazioni rese dal soggetto informato sui fatti alle autorità preposte alle indagini. Quello che la Cassazione rileva, con la sentenza in esame, è che il parametro distintivo tra penalmente rilevante, a norma del 684 c.p., e lecito è costituito dalla fonte della conoscenza giornalistica: l'importante è che emerga con sufficiente chiarezza che la fonte di quanto pubblicato non sia “procedimentale”246 . In quest'ottica, va valutata anche la possibilità di pubblicare “l'informazione di garanzia”: si è precedentemente evidenziato come questo atto non rientra nella categoria degli atti di indagine intesa in senso restrittivo, e che, dunque, si tratterebbe di un atto che nasce senza il presidio del divieto assoluto di pubblicazione247. Indubbiamente, un'interpretazione siffatta appare sbilanciata a favore del diritto di 244 G. RUELLO, “Segreto d'indagine e diritto di cronaca” in La giustizia penale, 1991, p. 603 245 Cass. Sez. I, 11 luglio 1994, Leonelli, Arch. nuova proc. pen. 1994, p. 1179 246 R.ADORNO, “Sulla pubblicazione del contenuto di atti di indagine coperti dal segreto”, Cass. Pen. 1995, p. 2175 247 G. CONSO, V. GREVI, Prolegomeni, cit., p. 105 98 cronaca giudiziaria, sacrificando del tutto un ulteriore diritto costituzionalmente tutelato, quello alla riservatezza di chi è coinvolto nel procedimento penale. Un'ultima, breve annotazione, concerne i “documenti”, non menzionati dall'art. 114 c.p.p.: in dottrina, in modo pressoché unanime, si ritiene che essi siano esclusi dal divieto di pubblicazione, a differenza di quanto stabiliva l'art. 164 c.p.p. abr., che, invece, esplicitamente si riferiva, oltre che agli atti, a “qualsiasi documento”. Dalla diversa formulazione della norma si può evincere la voluntas legis di ridefinire in senso restrittivo l'oggetto del divieto248 . Si deve dunque ritenere che i documenti acquisiti al procedimento siano pubblicabili, a meno che non costituiscano l'oggetto – ad es. una perizia – o il risultato – ad es. un sequestro – di un atto non pubblicabile249. 248 L.B.C. CAMALDO, sub art. 114 c.p.p., in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, ( a cura di Piermaria Corso), La Tribuna, 2008, p. 509 249 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 300 99 2.2 Divieto relativo di pubblicazione La tutela del secondo interesse sotteso alla disciplina del divieto di pubblicazione, quello alla corretta formazione del convincimento del giudice dibattimentale, trova la sua esplicazione nel divieto relativo di pubblicazione. Lo scopo del legislatore del 1988 era, evidentemente, quello di modulare l'intensità del divieto, agendo sulla sua durata in relazione alla concreta funzione dell'atto: come emerge dalla Relazione al progetto preliminare, l'unico intento del divieto in esame è quello di garantire il corretto svolgimento del dibattimento; esula, invece, dalla ratio della norma la tutela dell'imputato dai mass media e dall'opinione pubblica250 . Il primo comma dell'art. 114 c.p.p., come esposto, riconduce tutta l'area coperta dal segreto investigativo a quella coperta dal divieto di pubblicazione; i commi successivi evidenziano come tale corrispondenza non sia affatto biunivoca, rientrando nell'area del non pubblicabile materie rispetto alle quali non esiste più l'obbligo del segreto251. Dunque, gli atti non più segreti, perché divenuti conoscibili dalla difesa, o perché concluse le indagini preliminari – art. 329 comma 1 c.p.p. - , o ancora perché desegretati – art. 329 comma 2 c.p.p. - cessano di essere sottoposti al divieto assoluto di pubblicazione, ma, ciò nonostante, non divengono automaticamente pubblicabili. Al venir meno del segreto, infatti, non corrisponde la libera ed incondizionata divulgabilità; rispetto ad essi permane un divieto “relativo” di pubblicazione. Dalla disposizione in esame emerge la differenza tra la materia coperta dal segreto e quella correlata al divieto di pubblicazione: l'attuazione della legge-delega ha comportato la predisposizione di una normativa operante su due piani, distinti ma connessi, dovendosi determinare da un lato, quello che è coperto dal segreto - ossia insuscettibile di rivelazione - e dall'altro ciò che deve costituire oggetto del divieto di pubblicazione; le due aree possono coincidere, in tutto o in parte, ma non si può dare per 250 Trib. Trieste, 28 luglio 1993, Rizzotti-Vlach c. Berti 251 P.P. RIVELLO, “Prevedibili incertezze della distinzione, cit., p. 1608 100 scontata a priori tale coincidenza252. Il divieto relativo dunque, inibisce la pubblicazione “dell'atto”, ma non quella del suo “contenuto”, mentre, secondo la previgente disciplina, caduto il segreto istruttorio continuava ad operare un divieto assoluto di pubblicazione; una disciplina così mitigata è il segno di un rilevante spostamento nella opportuna direzione, quella di un più ampio riconoscimento del diritto-dovere di informazione dell'opinione pubblica253. Proprio sulla distinzione tra pubblicazione dell'atto e pubblicazione del contenuto - entrambe inibite dal divieto assoluto, solo la prima vietata dal divieto relativo - si fonda la nuova disciplina del divieto di pubblicazione. Fondamentale è porre l'attenzione sui primi due commi dell'art. 114 c.p.p. Il primo vieta la pubblicazione, “anche parziale o per riassunto degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto”. Il secondo comma, invece, si limita a vietare “la pubblicazione anche parziale degli atti non più coperti dal segreto”, senza fare più alcun riferimento al riassunto o al contenuto dell'atto; il comma 7, per fugare ogni dubbio, sancisce espressamente che è “sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non più coperti dal segreto”, anche se il “sempre” è di troppo, e a smentirlo è l'art. 329 comma 3 lett. b)254. Più precisamente, allorché si intenda definire la nozione di “contenuto”, si fa riferimento a notizie di stampa, più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il contenuto di atti255. Sul punto si registra una fondamentale pronuncia della Suprema Corte256 risalente al 1994: a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, è netta la distinzione tra atto del procedimento e suo contenuto, espressioni correlate entrambe al divieto in forma assoluta e relativa. La pubblicazione del contenuto è consentita in linea generale per gli atti non coperti da segreto, salvo le limitazioni di cui all’art. 329 comma 3 lett. b), c.p.p; 252 M. CHIAVARIO, “La conoscibilità degli atti processuali, strumenti e limiti”, in La riforma del processo penale. Appunti sul nuovo codice, Giappichelli, 1990, p. 237 253 C.F. GROSSO, Segretezza, cit. , p. 82 254 F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 352 255 Relazione al progetto preliminare al C.p.p., p. 84 256 Cass. Pen., Sez. I, 11 luglio 1994, n. 10135, Arch. nuova proc. pen., 1994, p.821 101 contenuto dell’atto è quanto in esso si rappresenta, senza richiami testuali, sì che se ne divulgano informazioni senza una riproduzione totale o parziale dello stesso. Nel vigente codice di rito - prosegue la Corte - la segretezza interna resta distinta da quella esterna, e non vi è una equazione tra ciò che diviene conoscibile all’interno del procedimento e la sua divulgabilità: non vige un automatismo, pur riscontrandosi, in riferimento al rilievo costituzionale del diritto di cronaca e d’informazione in genere, una tendenziale convergenza fra conoscibilità, rivelabilità e pubblicabilità degli atti di indagine, che non raggiunge, peraltro, la coincidenza tra regime di segretezza e quello (pur sempre distinto) di divulgazione: la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale già sottolineava in proposito la necessità di distinguere tra segreto e divieto di pubblicazione. La ratio che presiede la disciplina è, come precisato, quella di assicurare il corretto, equilibrato e sereno giudizio del giudice del dibattimento - al di fuori di ogni pericolo di condizionamento da parte della stampa e dei mezzi di diffusione in genere o da parte della pubblica opinione - attuato con norme che gli consentano di venire a conoscenza degli atti di indagine nei limiti e secondo le regole previste dal codice di rito in un processo tipicamente accusatorio. Per altro verso, va chiaramente precisato che il divieto di pubblicazione di cui trattasi concerne strettamente gli atti del procedimento ed il loro contenuto: non può estendersi al di là di una rigorosa delimitazione di tale ambito di operatività, proprio per evitare una eccessiva compressione del diritto di libera manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelato, cui fanno capo il diritto di informazione e la libertà di opinione; sì che, ai fini della tutela apprestata dalla norma penale – l’art. 684 c.p. -, l’atto di indagine non può automaticamente coincidere col fatto che ne costituisce l’oggetto. L'idea guida sottesa alla disciplina del nuovo codice nasce dalla consapevolezza dei compilatori di non poter pretendere un sostanziale “silenzio stampa” fino alla celebrazione del dibattimento, per non creare una situazione analogia quella del codice del 1930, caratterizzata dalla generale disapplicazione delle norme. Allo stesso modo, un'eventuale estensione tout court della libertà di informazione, 102 avrebbe presentato profili di inevitabile attrito con l'impianto accusatorio del nuovo codice, basato sulla distinzione tra le fasi processuali e con l'elezione del dibattimento a sede naturale e, di norma, esclusiva per la formazione della prova. Quello che il legislatore del 1988 mirava ad evitare è che il giudice del dibattimento potesse acquisire una conoscenza “extraprocessuale” degli atti ad esso inibiti in sede processuale: la soluzione adottata è stata quella di anticipare la possibilità di pubblicare notizie inerenti al contenuto dell'atto rispetto alla divulgazione integrale dell'atto stesso. Il processo di stampo accusatorio, difatti, esige che il convincimento del giudice del dibattimento maturi solo ed esclusivamente nel corso del medesimo, con la necessità di scongiurare il rischio che attraverso i mass-media questi prenda cognizione delle risultanze investigative, e giunga al dibattimento con preconcetti maturati in sede non processuale. Il fine appare evidente: il giudice del dibattimento ben potrebbe essere influenzato dalla pubblicazione “testuale” di atti investigativi, mentre - si postula - notizie di stampa, più o meno generiche, e prive di riscontri documentali, non sarebbero in grado di inficiare il suo libero convincimento. Pur riconoscendo come fondamentale l'esigenza che si intende salvaguardare, la preoccupazione che ne è alla base ed il rimedio proposto peccano di una certa astrattezza ed ingenuità257: esistono, infatti, ulteriori e ben più rilevanti condizionamenti che il giudice può subire, specialmente in processi caratterizzati da un’ampia risonanza mediatica, dai mezzi di comunicazione. Soprattutto, come peraltro già rimarcato inizialmente, la parte che intendesse portare a conoscenza del giudice atti di indagine che questi dovrebbe ignorare, ben potrebbe utilizzare in modo strumentale il suo diritto a sollevare questioni preliminari relative al fascicolo per il dibattimento, come disposto dall'art. 491 comma 2 c.p.p. Alla parte basterebbe sostenere che un determinato atto inserito nel fascicolo del pubblico ministero debba confluire in quello del dibattimento per fare in modo che l'organo 257 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 331 103 giudicante ne venga a conoscenza. La speranza che il divieto possa effettivamente salvaguardare l'“igiene cognitiva”258 del giudice del dibattimento è, quantomeno, illusoria: i pregiudizi più pericolosi, infatti, non sono quelli che il giudicante può trarre dagli organi di stampa, ma quelli che ben potrebbero sorgere da privati colloqui tra questi ed il pubblico ministero. Passando all'analisi dell'oggetto del divieto relativo di pubblicazione, va preliminarmente rimarcato come il secondo ed il terzo comma dell'art. 114 c.p.p. non concernono i medesimi atti: il secondo comma nel vietare la pubblicazione di atti non più coperti da segreto si pone in continuazione logico-processuale con il comma 1, e si ricollega dunque alla regola posta dall'art. 329 comma 1 c.p.p. Il divieto di pubblicazione di cui al terzo comma, invece, riguarda gli atti del fascicolo del pubblico ministero: vi possono essere inseriti anche atti non posti in essere dal p.m. o dalla polizia giudiziaria, ad esempio il provvedimento con cui il g.i.p. autorizza l'intercettazione telefonica; come pure atti non propriamente qualificabili come atti di indagine, quale la richiesta di autorizzazione a disporre l'intercettazione di comunicazioni. Si tratta di una serie di atti che non sono mai stati coperti dal segreto, e pertanto liberamente divulgabili ai sensi dei primi due commi dell'art. 114 c.p.p.; divengono, invece, non pubblicabili a norma del terzo comma della disposizione in esame nel momento in cui viene formato il fascicolo del pubblico ministero ai sensi dell'art. 433 c.p.p. Non si esclude, peraltro, che tali atti possano essere stati già divulgati quando, con il passaggio alla fase dibattimentale, nasce il divieto di pubblicarli onde impedire al giudice del dibattimento di averne conoscenza259. Sul punto si registra un orientamento minoritario secondo cui anche gli atti mai coperti dal segreto, come quelli in esame, stante la continuità logica tra il secondo ed il terzo comma dell'art. 114 c.p.p., sarebbero soggetti sin da subito al divieto di pubblicazione testuale. 258 G. GIOSTRA, voce “segreto: X) segreto processuale, cit., p. 17 259 G. GIOSTRA, Processo, cit., p. 337 104 Proprio queste ultime considerazioni ci introducono, da ultimo, al tema del profilo temporale del divieto relativo di pubblicazione: obiettivo di fondo, esplicitamente enunciato nella Relazione al progetto preliminare, è quello di circoscrivere il più possibile il divieto e di farlo cadere man mano che, in relazione allo svolgersi del processo, non ha più ragione d'essere. Innanzitutto è necessario identificare il dies a quo del divieto in questione: per gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria questo coincide col momento in cui l'atto non è più coperto dal segreto. Relativamente agli altri atti, compiuti dai medesimi organi o da organi differenti, il divieto diventa operativo solo con il passaggio alla fase dibattimentale, vale a dire con l'emissione del decreto che dispone il giudizio (art. 424 c.p.p.), anche in via immediata (art. 455 c.p.p.), oppure con la traduzione o la citazione in udienza dell'imputato nel giudizio direttissimo (art. 450 c.p.p.). Per quel che riguarda il dies ad quem, emerge un primo profilo problematico riguardo ai riti speciali, non specificamente considerati dall'art. 114 c.p.p.: la disciplina varia a seconda che si tratti di riti che escludono il dibattimento o di riti che lo anticipano. Per quanto concerne i primi, si registrano in dottrina due diverse interpretazioni: stando alla prima, il divieto relativo di pubblicazione dovrebbe perdurare sino alla conclusione del rito260; stando alla seconda tesi, invece, il divieto in questione è destinato a venire meno in un momento precedente, e cioè con la “richiesta” di giudizio abbreviato, di “patteggiamento”, di decreto penale di condanna. In questi casi, sarebbe privo di significato un prolungamento del divieto di pubblicazione diretto a garantire il convincimento del giudice, giacché quest'ultimo, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta dei suddetti riti speciali, non soltanto “può”, ma “deve” conoscere gli atti di indagine261. Nel caso in cui il patteggiamento sia richiesto nel corso del dibattimento ai sensi degli artt. 448 comma 1 e 563 comma 4 c.p.p, o di giudizio abbreviato “atipico” ex art. 452 c.p.p., sono prospettabili due distinte soluzioni: si può, in primis, ritenere che il 260 E.LUPO, “La pubblicabilità degli atti di indagine preliminare, cit., p. 505 261 G. GIOSTRA, Processo,cit., p. 342 105 divieto di pubblicazione non operi, in quanto il giudice del dibattimento può visionare entrambi i fascicoli processuali262. Un'interpretazione siffatta non prende però in considerazione che, pur se in casi limitati, le sentenze di giudizio abbreviato sono appellabili, come dispone l'art. 443 commi 1 e 3 c.p.p.; la piena pubblicabilità degli atti potrebbe pregiudicare l'appello. Per questa ragione, in alternativa, si potrebbe ritenere operante il comma 3 dell'art. 114 c.p.p., da cui discenderebbe la pubblicabilità degli atti solo a seguito dell'eventuale pronuncia della sentenza di secondo grado. Ciò sarebbe possibile solamente estendendo la portata della locuzione “se si procede al dibattimento” sancita dal comma in questione anche all'ipotesi di patteggiamento richiesto in apertura di udienza, o di conversione del giudizio direttissimo in abbreviato263. Apparentemente lacunosa appare poi la disciplina normativa nell'ipotesi in cui il pubblico ministero richieda al g.i.p. l'emissione di un decreto penale di condanna: se la richiesta viene accolta, in caso di opposizione da parte dell'imputato, cui segue la celebrazione del giudizio abbreviato o del patteggiamento, troverà applicazione il comma 2 dell'art. 114 c.p.p. Qualora, invece, l'imputato chieda espressamente la celebrazione del dibattimento, si procederà al giudizio immediato e, come vedremo, sarà applicabile l'art. 114 comma 3 c.p.p. In caso di rigetto della richiesta di decreto penale, gli atti vengono restituiti al pubblico ministero, come previsto dall'art. 459 comma 3 c.p.p.: la procedura in esame sembra implicare una forma anomala di regressione alla fase delle indagini preliminari, con conseguente applicazione dei commi 2 e 3 dell'art. 114 c.p.p, a seconda delle nuove determinazioni dell'organo dell'accusa. Opererà il secondo comma qualora si giunga in udienza preliminare e vi sia pronuncia della sentenza di non luogo a procedere; si applicherà, invece, il comma 3 se, 262 G. UBERTIS, “Segreto investigativo, divieto di pubblicazione e nuovo processo penale”, in Aa.Vv. Studi in memoria di P. Nuvolone, Giuffrè, vol. III, 1991, p. 522 263 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 220 106 nei casi previsti dall'art. 550 c.p.p., il pubblico ministero emetterà un decreto di citazione a giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica. In ordine ai riti speciali deflattivi dell'udienza preliminare, invece, il divieto di pubblicazione previsto dal comma 2 dell'art. 114 c.p.p. cessa con la richiesta di instaurazione del rito immediato o direttissimo, e si applicano le disposizioni dettate dal comma 3 per il procedimento ordinario. Infine, per quanto riguarda proprio il procedimento ordinario, l'art. 114 comma 2 c.p.p. prevede che il divieto perduri fino alla conclusione delle indagini preliminari, ovvero sino al termine dell'udienza preliminare; gli epiloghi implicitamente richiamati sono due: l'archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere. La ratio di questa disposizione è evidente, poiché, se si vuole preservare la neutralità psicologica del giudice del dibattimento, e non essendo possibile conoscere a priori i riferiti esiti, si vieta la pubblicazione di atti che potrebbero essere inseriti nel fascicolo del pubblico ministero, fintantoché non si abbia la certezza che non si procederà alla fase dibattimentale264. La pronuncia di archiviazione può, però, essere seguita da un provvedimento di riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p.) autorizzata dal giudice su richiesta del pubblico ministero, e motivata dall'esigenza di procedere a nuove investigazioni: se le ulteriori indagini si concludono con la richiesta di rinvio a giudizio dell'indagato, successivamente accolta, non si può escludere che una parte degli atti compiuti nel corso delle indagini iniziali sia già stata pubblicata; una tale evenienza comprometterebbe inevitabilmente lo scopo della segretezza esterna. Allo stesso modo, la sentenza di non luogo a procedere di cui all'art. 425 c.p.p. potrebbe essere impugnata a norma dell'art. 428 c.p.p., o revocata a norma dell'art. 434 c.p.p: all'impugnazione potrebbe così far seguito il rinvio a giudizio in un momento in cui, stando alla previsione normativa dell'art. 114 comma 2 c.p.p., il divieto di pubblicazione sarebbe già caduto, rendendo pubblicabili gli atti di indagine. Per ovviare a questa evenienza, la giurisprudenza di merito 265 ha suggerito di 264 D. SIRACUSANO, A. GALATI, G. TRANCHINA, E. ZAPPALA', cit., p. 253 265 Trib. Trieste, 28 luglio 1993, Rizzotti-Vlach c/Berti 107 estendere il divieto de quo fino alla pronuncia definitiva sull'impugnazione, eventualmente emessa in Cassazione, o ancora, fino a quando la pronuncia non sia più soggetta ad impugnazione. Ciò renderebbe applicabile la diversa disciplina contemplata dal comma 3 dell'art. 114 c.p.p, per gli atti inseriti nei fascicoli del pubblico ministero e del dibattimento, la cui formazione avviene a seguito dell'emissione del decreto che dispone il giudizio di cui all'art. 431 c.p.p.266 Nel caso in cui, invece, si proceda al dibattimento, la norma di riferimento è il comma 3 dell'art. 114, che dispone che gli atti confluiti nel fascicolo del pubblico ministero diventano pubblicabili “solo” dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado. Quello che la nuova disciplina intende rendere possibile è un controllo dell'opinione pubblica sull'operato dell'organo dell'accusa, senza che ciò si risolva in una violazione delle regole che disciplinano i controlli endoprocessuali: fino a quando, attraverso la rinnovazione in appello, è possibile l'utilizzazione di atti nel processo, è quantomeno opportuno che su questi permanga il divieto di pubblicazione, al fine di evitare l'elusione delle garanzie previste dal codice per il compimento delle attività dibattimentali267. In altri termini, potendosi ripetere in sede di appello l'istruzione dibattimentale ex art. 603 c.p.p. si tende ad impedire che il giudice dell'impugnazione possa essere influenzato dalla pubblicazione di atti noti solo alle parti. La previsione di un limite temporale siffatto, non tiene però conto dell'eventualità che la corte di Cassazione annulli un provvedimento impugnato e disponga un rinvio al giudice di merito268. Inoltre, gli atti integrativi di indagine che il pubblico ministero può compiere ai sensi dell'art. 430 c.p.p. - tendenzialmente destinati a non rientrare in alcuno dei fascicoli 266 G. UBERTIS, “Segreto investigativo, divieto di pubblicazione e nuovo processo penale”, in Aa.Vv. Studi in memoria di P. Nuvolone,Giuffrè, vol. III, 1991, p. 517 267 Relazione al progetto preliminare, cit., p.. 49 268 G. UBERTIS, sub art. 114 e 115 c.p.p., in Aa.Vv. Commentario al nuovo codice di procedura penale, a cura di E.AMODIO e O. DOMINIONI, Giuffrè, 1989 108 processuali – diventano non divulgabili quando, utilizzati per sostenere una richiesta rivolta al giudice del dibattimento e da questi accolta, vengano inseriti nel fascicolo del pubblico ministero: il divieto di pubblicazione, cioè, “scatta” solo quando dovrebbe cessare, vale a dire quando il giudice ha preso conoscenza degli atti in questione, e li ha positivamente apprezzati269. E' invece sempre consentita la pubblicazione di atti del fascicolo del pubblico ministero che siano stati utilizzati ai fini delle contestazioni di cui all'art. 500 c.p.p.: si tratta, infatti, di atti di cui il giudice ha preso cognizione durante la fase dibattimentale. In realtà lo strumento della contestazione non consente la lettura integrale e l'allegazione dell'atto, potendo la parte interessata solo dare lettura della singola dichiarazione ivi utilizzata, per cui anche la pubblicazione dovrebbe essere ristretta entro i medesimi confini, mentre, inopportunamente, la disposizione normativa estende la pubblicabilità all'intero atto. Gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento sono, invece, pubblicabili sin dal momento della formazione del fascicolo medesimo, ai sensi dell'art. 431 c.p.p.; giova ricordare che, come esaminato precedentemente, nella sua formulazione originaria l'art. 114 comma 3 c.p.p. posticipava la pubblicabilità degli atti in questione al momento successivo all'emissione della sentenza. Prima che la Consulta intervenisse con la già citata sentenza n. 59 del 1995, la norma si prestava ad obiezioni metodologiche e strutturali: innanzitutto il legislatore delegato aveva plasmato di sua iniziativa un'ipotesi di divieto non prevista nella “analitica” direttiva 71 della legge-delega. Inoltre, il divieto in questione appariva assolutamente ingiustificato ed illogico: se la ratio dei commi 2 e 3 dell'art. 114 c.p.p. è quella di evitare che il giudice conosca aliunde atti di cui, in sede processuale, non può avere conoscenza, il divieto di pubblicare atti del fascicolo del dibattimento non ha alcun senso, in quanto investe atti di cui il giudice può, anzi deve, avere conoscenza processuale. La Corte costituzionale fu investita della questione di legittimità in un processo 269 G. GIOSTRA, Processo, cit., p. 346 109 riguardante un caso di arbitraria pubblicazione di atti di un procedimento penale: era stato, infatti, pubblicato il testo integrale di alcune intercettazioni telefoniche inserite nel fascicolo del dibattimento, relative ad un processo per concussione pendente presso il Tribunale di Siracusa. La pubblicazione era avvenuta in un momento antecedente rispetto alla sentenza di primo grado, per cui si profilava la violazione dell'art. 114 comma 3 c.p.p. e gli autori della pubblicazione erano indagati per il reato di cui all'art. 684 c.p. Nonostante la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari preferì, preliminarmente, verificare la legittimità costituzionale della disciplina, dubitando che fosse conforme al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., per la distinzione operata tra pubblicazione del contenuto degli atti non coperti dal segreto - sempre consentita dal comma 7 dell'art. 114 c.p.p - e la pubblicazione, anche parziale, del testo dell'atto - vietata nei limiti di cui ai commi 2 e 3 della disposizione medesima. Il giudice a quo ravvisava, altresì, una violazione del diritto di cronaca, tutelato dell'art. 21 Cost., ed infine, un eccesso di delega, poiché il divieto in esame sembrava esorbitare dai criteri direttivi della legge delega, determinando così una violazione dell'art. 76 Cost.270 I giudici della Consulta focalizzarono la loro attenzione su due diversi profili: il rapporto tra la norma in esame e la legge delega, da un lato, e l'illogicità interna della medesima, dall’altro271. Secondo la Corte, l'intenzione del legislatore delegante, era quella di consentire il divieto di pubblicazione con riferimento ai soli atti che funzionalmente rientrassero nella fase delle indagini preliminari, atti che, peraltro, rimangono nella sfera di controllo del p.m., nell'omonimo fascicolo272. La Corte evidenziò, inoltre, l'assoluta illogicità della soluzione adottata dal 270 F.M. MOLINARI, cit., p. 108 271 S.CAVINI, E' incostituzionale il divieto di pubblicare gli atti del fascicolo del dibattimento, in Cass. pen., 1995, p. 2450 272 M. CERESA GASTALDO, Processo penale e cronaca giudiziaria, costituzionalmente illegittimo il divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo del dibattimento, in Giur. Cost.le, 1995, p. 2123 110 legislatore delegato, sottolineando che gli atti del fascicolo del dibattimento non solo sono già conosciuti dal giudice, ma frequentemente sono compiuti proprio da questi. Tanto le premesse, quanto le argomentazioni della Consulta a sostegno della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma appaiono pienamente condivisibili. Tuttavia, i giudici costituzionali non sembrano aver valorizzato un altro, rilevante interesse coinvolto nella disciplina in esame. Inoltre, pur non essendovi dubbi sul fatto che una libera informazione è il primo passo per consentire all'opinione pubblica un effettivo controllo sul modo in cui è amministrata la giustizia, è pur vero che particolarmente gravi possono essere le conseguenze di un'informazione distorta e parcellizzata. Il problema, dunque, non sarebbe quello di sottrarre spazio al segreto, bensì quello di garantire una conoscenza globale, organica e critica del fenomeno processuale: in questa differente prospettiva d'analisi, sembra discutibile la scelta della Corte costituzionale di consentire, di fatto, la pubblicazione di atti che non siano stati ancora vagliati in dibattimento273. Infine, pur in assenza di un'esplicita previsione normativa sul punto, si ritiene che gli atti propri della fase dibattimentale siano immediatamente pubblicabili, come si desume dall'art. 471 comma 1 c.p.p. e dai lavori preparatori, in cui si ricollega alla regola generale della pubblicità dell'udienza dibattimentale. Nel caso in cui, invece, si proceda a dibattimento a porte chiuse il divieto di pubblicazione è stabilito per i soli atti dibattimentali; quanto agli atti anteriori, però, il comma 4 dell'art. 114 c.p.p. prevede che il giudice, sentite le parti, possa disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per la contestazione, divieto che cesserà quando saranno trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato (70 anni) o il minor termine di 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, qualora vi sia l'autorizzazione del Ministro della Giustizia274. In assenza di dibattimento potrebbero comunque porsi esigenze di riservatezza, 273 F.M. MOLINARI, cit., p. 302 274 L.GRILLI, “La pubblicazione degli atti e il segreto professionale del giornalista, in La giustizia penale, Roma, 1990, p. 571 111 qualora la pubblicazione degli atti possa offendere il buon costume o pregiudicare la riservatezza dei testimoni e delle parti private: in questi casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o parti di essi. 112 2.3 I Profili sanzionatori Passiamo ora ad analizzare quali sono gli strumenti sanzionatori apprestati dal legislatore nelle ipotesi in cui il divieto di pubblicazione sia violato. L’inosservanza del divieto previsto all’articolo 114 c.p.p. integra due diverse fattispecie di reato, a seconda che si tratti di atti coperti dal segreto, oppure di atti non più coperti dal segreto ma non ancora pubblicabili: la legge delega n. 81 del 1987, con la direttiva n. 71, ha dunque previsto sanzioni distinte per la violazione del segreto e del divieto di pubblicazione. La rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale integra, come analizzato nel capitolo secondo, la fattispecie prevista e punita dall’art. 379 bis c.p., che sanziona “chiunque” riveli indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per aver partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso. Il secondo caso concerne, invece, il reato di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”: questo reato contravvenzionale, delineato dall’art. 684 c.p., si configura allorché le intercettazioni o gli altri atti investigativi non siano più segreti. L’apparato sanzionatorio adottato è estremamente blando, ed inoltre, prevedendo la pena alternativa dell’arresto – fino a trenta giorni – o dell’ammenda – da 51 a 258 euro – per l’imputato è possibile chiedere di essere ammesso all’oblazione; il legislatore del 1988 ha scartato la soluzione di procedere all’inasprimento delle blande pene previste, ritenendosi sfornito della relativa investitura275. La norma in esame punisce “chiunque” pubblichi atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o a guisa d’informazione; anche se, stante la sanzione irrisoria, la norma penale 275 G.P. VOENA, “Atti”, in Aa.Vv., Compendio di procedura penale, ( a cura di Giovanni Conso e Vittorio Grevi), 2009, Cedam, p. 179 113 verosimilmente cederà di fronte alla prospettiva dei possibili ricavi dell’eventuale scoop giornalistico realizzato276. Se però, la medesima condotta descritta è posta in essere da impiegati dello Stato, o persone esercenti una professione che richieda una speciale abilitazione statale, integra anche un illecito disciplinare, delineato dall’art. 115 c.p.p. Nella categoria dei possibili soggetti attivi dell’illecito in questione sono compresi i giornalisti, i magistrati, gli agenti di polizia giudiziaria, gli avvocati, i professionisti in genere, i periti e i consulenti tecnici, mentre è il pubblico ministero il soggetto deputato ad informare il competente organo disciplinare dell’eventuale illecito realizzato. Per quello che riguarda i magistrati, il comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale di categoria ha adottato un codice deontologico, che, all’art. 6, in ordine ai rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, stabilisce: “nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio. Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati”. La sanzione disciplinare, di norma, concorre con quella penale; esistono tuttavia ipotesi, come quella in cui la segretazione di intercettazioni sia successiva alla loro pubblicazione, in cui si applica esclusivamente la prima. L’art 326 c.p. delinea, invece, un reato proprio a carico di pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio allorché rivelino, o agevolino in qualunque modo, la conoscenza di notizie che devono rimanere segrete, violando i doveri inerenti le proprie funzioni, o abusando della propria qualità; la pena stabilita dal comma 1 della norma in questione va da sei mesi a tre anni. È da ritenere responsabile, però, non solo il soggetto obbligato al segreto per 276 F.M. MOLINARI, cit., p. 225 114 conto dell’ufficio, ma anche chi riesca a conoscere un segreto d’ufficio di cui non era il depositario, sfruttando la sua posizione all’interno della pubblica amministrazione; occorre precisare peraltro che il dovere d’ufficio per i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio viene meno solo quando la notizia è diventata di dominio pubblico e non quando il segreto trapela in un ambito limitato277. Quello che non convince delle previsioni sanzionatorie delineate a tutela del divieto di pubblicazione, oltre all’esiguità delle norme ad essa designate ed alle pene in concreto irrogabili, è la ratio sottesa all’intera disciplina: si tutela solo il buon andamento della pubblica amministrazione, senza apprestare alcuna salvaguardia a soggetti, le cui conversazioni, lecitamente intercettate nel corso di un procedimento penale, vengano diffuse pubblicamente attraverso gli organi di stampa. In questi casi, inoltre, è molto difficile risalire al soggetto autore della rivelazione, l’unico punibile, mentre il soggetto “estraneo” giornalista - che non è tenuto a rivelare le sue fonti, ex art. 200 c.p.p. - non può essere punito per il solo fatto di aver ricevuto una notizia coperta da segreto. In realtà, le indagini sulle fughe di notizie non portano quasi mai ad individuare i responsabili; anzi, a volte, la diffusione è essenziale per puntellare l’inchiesta, fa acquisire notorietà alla Procura e l’armamentario sanzionatorio è tale da non scoraggiare la pubblicazione di quanto “recapitato” od “ottenuto” dagli organi di informazione278. In tal modo, dalla concreta difficoltà di individuare l’autore della rivelazione vietata, discende, quasi automaticamente, la sostanziale impunità del giornalista che ha pubblicato la notizia ricevuta, anche a titolo di concorrente morale, per l’impossibilità di dimostrare un rapporto di confidenza con la fonte rimasta ignota. Per superare queste difficoltà, è stato proposto di abolire il reato di cui all’articolo 684 c.p., e la sua troppo esigua sanzione, per trasformare il giornalista in testimone: egli, infatti, quando è persona sottoposta a indagini, ha la facoltà di non rispondere e non può 277 V. PLANTAMURA, Moderne tecnologie, riservatezza e sistema penale: quali equilibri?, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2006, 3, p. 430. 278 G. SPANGHER, Linee guida per una riforma delle intercettazioni telefoniche, in Dir. Pen. e proc., 2008, 10, p. 1209: 115 essere obbligato a testimoniare, se non ha mai ammesso la sua responsabilità su quei fatti; di solito, il giornalista si limita a non rispondere, altrimenti dichiara di aver ricevuto l’informazione per piego anonimo, e in tali casi, è solo teorica la possibilità, per il pubblico ministero, di procedere per false informazioni o per falsa testimonianza279. Va esaminata, da ultimo, l’ipotesi secondo cui il giornalista che pubblica un’intercettazione lecitamente compiuta dall’autorità giudiziaria procedente, ma illecitamente rivelatagli ex art. 326 comma 1 c.p., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 621 c.p., che punisce con la reclusione fino a tre anni chiunque, senza causa, rivela il contenuto che debba rimanere segreto di atti e documenti altrui, di cui sia venuto abusivamente a conoscenza, qualora dal fatto derivi nocumento. La conoscenza del contenuto delle intercettazioni da parte del giornalista, pur non costituendo di per sé reato, è sicuramente indebita, perché avviene senza che vi sia un titolo valido a conseguire la conoscenza del contenuto di determinati atti e documenti, e che esista o sia ragionevolmente presumibile una volontà dell’avente diritto contraria al conseguimento di questa conoscenza280. Tra l’altro, in tal caso, il giornalista non potrebbe invocare a suo favore la giusta causa di rivelazione, in quanto il diritto di informare ed essere informati non è assoluto né incompatibile con quello di segretezza delle comunicazioni. Il delitto in questione può operare anche quando, sulle intercettazioni, venga meno il segreto: venuto meno il segreto d’ufficio, si può applicare la nozione più ampia di segreto “semplice” o “privato”, di cui all’art. 621 c.p. il cui contenuto però deve riferirsi ad un interesse giuridicamente apprezzabile, perché si possa applicare la norma in esame; tuttavia, il concetto di segreto “privato” sconfina in quello di riservatezza e quindi il bene giuridico tutelato ha contorni piuttosto sfocati281. 279 P. DAVIGO, Dell’intercettazione, su MicroMega, 2006, 2, p. 113. 280 VIGNA-DUBOLINO, voce Segreto (reati in materia di), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p. 1084. 281 PLANTAMURA, Moderne tecnologie, cit., p. 433. 116 3. Le falle del sistema La disciplina sinora esaminata si presta a rilievi critici, da cui discende l’auspicio, per ora rimasto tale, di un’adeguata rilettura dell’intero sistema normativo in questione, volto a razionalizzare la materia de qua ed armonizzarla con i diritti costituzionali in gioco. Il primo aspetto censurabile nella fisionomia elaborata dal legislatore del 1988 attiene alla distinzione tra “atto” e “contenuto”, fondamentale, come abbiamo visto, per la comprensione e l’applicazione della disciplina posta dall’art. 114 c.p.p. Nel corso dei lavori preparatori282, la distinzione suddetta aveva lo scopo precipuo di consentire l’esercizio del diritto di cronaca in seno ai procedimenti penali, senza però pregiudicare la corretta formazione del convincimento del giudice. L’“arma” del giornalista è rappresentata dall’ultimo comma dell’art. 114 c.p.p., ma si tratta di un’arma pericolosa: la norma – nella sua semplicità lessicale – appare chiara, ma cela grosse problematiche sul piano pratico-operativo: è la stessa scelta del legislatore di contrapporre atto e contenuto, ad apparire criticabile, in quanto abbastanza “farisaica”283. Dunque, i compilatori del codice hanno modellato un regime di pubblicazione sulla base di una bipartizione tra pubblicazione dell’atto, vietata, e pubblicazione del contenuto, consentita. Non vi è, tanto in dottrina quanto nel panorama giurisprudenziale, univocità di vedute circa il significato da attribuire al concetto di “contenuto” dell’atto: secondo un’interpretazione restrittiva, la notizia è pubblicabile solo se non vi figurino riferimenti a sede – lo specifico processo – e fonte – determinati testimoni, periti, consulenti, ecc.284 La dottrina maggioritaria, invece, ritiene che il divieto relativo inibisca la pubblicazione “virgolettata” dell’atto, ma non anche la pubblicazione e la rivelazione 282 Relazione al progetto preliminare, cit., p. 49 283 G. RUELLO, “Segreto d’indagine e diritto di cronaca, cit., p. 602 284 F. CORDERO, sub artt. 114 e 115 c.p.p., cit., p. 142 117 delle informazioni che se ne possono ricavare 285. Secondo la disciplina vigente, pubblicare il contenuto di un atto significa divulgare informazioni sullo stesso, senza riprodurlo integralmente o parzialmente: il legislatore, quando vieta la pubblicazione di un atto, pur consentendo quella del suo contenuto, vuole evitare che la notizia processuale acquisti il crisma dell’ufficialità286. La scelta dei compilatori, oltre ad essere poco chiara, risulta anche facilmente aggirabile: il giornalista, infatti, attraverso l’uso sapiente di tecniche narrative ben potrà eludere la portata del divieto. Del resto, proprio la inopportuna scelta lessicale ha comportato costanti oscillazioni giurisprudenziali circa l’individuazione del criterio distintivo necessario per distinguere la legittima pubblicazione del contenuto dell’atto dall’illegittima pubblicazione dell’atto stesso. Si può sostenere che questi due termini vadano a costituire una sorta di endiadi normativa: stanno lì ad indicare che si può pubblicare un compendio di ciò che è riportato nell'atto non più segreto; è consentito, cioè, il riassunto dell'atto se abbiamo riguardo all'oggetto; il legislatore, presumibilmente, intendeva riferirsi alla stessa cosa, tanto è vero che stanno insieme nel primo comma e cadono insieme nel secondo287 . La sensazione diffusa in dottrina è che sia mancato il coraggio di operare una scelta perentoria: il legislatore sembra aver preferito nascondersi dietro una bipartizione che riafferma il divieto di pubblicazione, svuotandolo, però, di contenuto; sarebbe stato senza dubbio più coerente disporre la libera pubblicabilità degli atti al venir meno del segreto, in modo da legittimare pienamente il diritto di cronaca, essenziale ai fini del controllo pubblico sull’amministrazione della giustizia288. Sulla medesima lunghezza d’onda si registra la proposta di rimodellare l’art. 114 c.p.p., sopprimendo del tutto la distinzione tra atto e contenuto, e prevedendo, per gli atti coperti da segreto un divieto di pubblicazione che venga meno al cessare del segreto 285 E. LUPO, sub artt. 114, cit., p. 43 286 G. GIOSTRA, Processo, cit. , p. 349 287 G. GIOSTRA, Atti del XIX convegno nazionale dell'Associazione, (Milano, 5-7 ottobre 2007), Giuffrè , p. 44 288 L. GRILLI, “La pubblicazione degli atti, cit., p. 570 118 stesso; il divieto in parola, dunque, diventerebbe funzionale alla tutela di un unico valore: l’efficacia dell’attività di indagine289. Un ulteriore difetto “congenito” della disciplina in materia è rappresentato dall’assoluta carenza di tutela della privacy, tanto degli imputati, rispetto a notizie estranee ai fatti costituenti oggetto dell’imputazione, quando di soggetti terzi, occasionalmente coinvolti nell’intercettazione. Teoricamente, solo le conversazioni rilevanti sono destinate, se lecitamente eseguite, ad essere pubblicate, nei limiti e secondo le modalità previste dalla legge; tuttavia, prima dell’udienza di stralcio, deputata alla depurazione da ciò che non è rilevante ai fini probatori, cade il segreto investigativo, e conseguentemente aumenta, in modo potenzialmente indeterminato, il numero di persone autorizzate a conoscere il materiale captato. Permane però il divieto di estrarre copia e pubblicare integralmente gli atti, ma, a questo punto, diventa praticamente impossibile individuare i responsabili di un’eventuale violazione.290 La disciplina vigente, dunque, non si preoccupa della riservatezza dei soggetti coinvolti, ma tutti i limiti alla rivelabilità ed alla pubblicabilità degli atti sono commisurati esclusivamente alle esigenze endoprocedimentali. Inoltre, stante l’ampiezza dell’area del segreto, è estremamente arduo garantirne un’efficace tutela, a causa di arbitrarie ed intempestive rivelazioni ad organi di informazione con la complicità di pubblici ufficiali, con la quasi certezza, per questi, di non essere identificati291. Accade sovente che un rilevante numero di soggetti difficilmente identificabili acceda ad atti segreti per necessità proprie dell’attività di indagine, e, più o meno disinteressatamente, riveli informazioni riservate, tanto da far parlare addirittura di “desuetudine” con riguardo alle norme che presidiano la segretezza investigativa, a causa 289 AA.VV. Processo penale e informazione:proposte di riforma e materiali di studio,( coordinatore Glauco Giostra), Università degli Studi di Macerata, 2001, p. 51 290 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, in Filippi, Illuminati, Leo, Profiti, Questione giustizia, 2006, 6, p. 1220 291 F. ROBERTI, Rafforzare il segreto d’indagine, atti riservati comprimono cronaca, in “Ddl Alfano, se lo conosci lo eviti”, collana “I Quaderni dell’UNCI”, p. 140, su www.unionecronisti.it, 119 della loro generalizzata disapplicazione292. Quindi, le possibilità che un’intercettazione venga divulgata sono numerosissime e il titolare dell’indagine non ha alcuna possibilità non solo di impedire che ciò accada, ma neppure di controllare efficacemente, allo stato attuale della normativa, “chi” viene a conoscenza di quegli atti: è il fenomeno delle “fughe di notizie”, in cui all’indiscrezione la porta venga aperta dall’interno, per consegnarla in fidate mani293. Le difficoltà di mantenere la riservatezza sulle intercettazioni compiute si manifestano già al momento della formazione dei brogliacci redatti dalla polizia giudiziaria, e contenenti sintesi e passi del materiale intercettato, su cui lo stesso agente di polizia giudiziaria appone un primo giudizio di rilevanza, prima della consegna al pubblico ministero, che chiede al giudice per le indagini preliminari la trascrizione dei nastri ad opera di periti, indicando le telefonate, a suo avviso, rilevanti294. Successivamente, le registrazioni e i relativi verbali, compresi i brogliacci, devono essere depositati, entro cinque giorni dal loro compimento, a disposizione delle parti e dei difensori. Sulla base delle indicazioni di questi ultimi e del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari decide quali conversazioni siano rilevanti e legittime, e ne dispone la trascrizione con acquisizione al fascicolo del dibattimento, ordinando invece, su richiesta di parte – art. 269 comma 2 c.p.p. - lo stralcio e la distruzione di quelle irrilevanti, e, anche d’ufficio – art. 271 comma 3 c.p.p. – di quelle illegittime. Nella prassi, il deposito avviene il più delle volte dopo la conclusione delle indagini, quando, cioè, anche il divieto di pubblicazione integrale viene meno; di solito il pubblico ministero chiede l’acquisizione di tutto il materiale, indipendentemente dalla sua rilevanza, mentre la difesa si disinteressa dello stralcio, specie se le conversazioni irrilevanti riguardano terze persone, col risultato che non resta nessuna protezione per la privacy, anche nei casi in cui dovrebbe essere garantita295. 292 G. GIOSTRA, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, p. 57 293 L. SCIASCIA, citato da Glauco Giostra, in Processo penale e mass media, cit., p. 88 294 P. DAVIGO, Dell’intercettazione, su MicroMega, 2006, 2, p. 113 295 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, in Filippi, Illuminati, Leo, Profiti, Questione giustizia, 2006, 6, p. 1220 120 A tal proposito, come sopra accennato, l’art. 268 comma 5 c.p.p. consente che il deposito delle intercettazioni sia ritardato fino alla chiusura delle indagini preliminari, mentre l’acquisizione si verifica in un momento successivo. Col deposito dell’intera documentazione ivi raccolta, si facoltizzano le parti ad estrarne copia; dunque, le conversazioni irrilevanti, che avrebbero dovuto costituire oggetto di preventivo stralcio, rimangono nel fascicolo fino all’udienza preliminare, ed anche oltre. La conseguenza, estremamente pregiudizievole, è che i verbali di intercettazioni vengono così equiparati ad altri atti investigativi, e, al pari di essi, assoggettati a copia, anche se destinati, ab origine, alla distruzione, seppellendone i risultati quanto prima, e definitivamente nell'oblio296. Questa prassi, che ha prodotto l’effetto negativo di rendere possibile la divulgazione di conversazioni irrilevanti o, addirittura, illegittime, è stata denunciata dall’allora Ministro della Giustizia, on. Flick, in un parere approvato dal Consiglio superiore della magistratura, con delibera del 2 luglio 1997297. Potrebbe essere utile un preventivo filtro delle intercettazioni, onde escludere quelle riguardanti soggetti terzi, ma in tal modo si menomerebbe il diritto della difesa di interloquire su quali trascrizioni debbano ritenersi rilevanti ai fini probatori. Gli stessi magistrati, in un comunicato della ANM, hanno segnalato, in modo perentorio, la necessità di un intervento normativo diretto a garantire la riservatezza delle persone coinvolte con riferimento a notizie e informazioni non rilevanti per le indagini, prevedendo un’udienza filtro per la selezione da parte del giudice delle intercettazioni rilevanti per il processo, la segretazione e la conservazione in un archivio riservato di quelle non rilevanti delle quali deve essere vietata la pubblicazione e la diffusione, proprio al fine di trovare un giusto punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela della riservatezza, il diritto di cronaca e la repressione dei reati298. Difatti, quando i verbali vengono depositati, tutte le intercettazioni, anche quelle 296 C. CESARI, Su captazioni e dossiers illeciti, un intervento non risolutivo, in Giur. Cost., 2009, 4, 3537 297 Progetto di legge 2773/1996 298 Comunicato A.n.m. del 26 giugno 2008, in www.corriere.it/politica 121 illegittime o irrilevanti, perdono il connotato di segretezza e quindi, a norma del comma 7 dell’art. 114 c.p.p., possono essere liberamente pubblicate. Inoltre, come sopra accennato, capita sovente che pubblico ministero e difensori non indichino quali intercettazioni siano a loro avviso irrilevanti e quindi da stralciare, con la conseguenza che il giudice per le indagini preliminari sarà vincolato a disporre la trascrizione di tutte le intercettazioni raccolte. La scelta di non procedere a selezione discende, per lo più, dall’oneroso impegno di verifica preliminare che essa richiederebbe, specie nei casi di conversazioni particolarmente lunghe e copiose: il pubblico ministero si limita così a chiedere l’acquisizione di tutto il materiale, e la difesa si adegua, rinviando ogni possibile valutazione alla fase dibattimentale. Il pericolo che le dichiarazioni che dovevano essere eliminate finiscano per divenire pubbliche è concreto, anche se il rilascio di copie, ai sensi dell’art. 116 comma 3 c.p.p., non fa venir meno il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p. Sulla base di tutte le considerazioni effettuate, appare pienamente condivisibile l’ineludibile necessità di un attento intervento normativo relativamente al regime di divulgabilità degli atti di indagine, e delle intercettazioni in particolare. L'impostazione del codice vigente non è riuscita a scongiurare il pericolo della pubblicazione di conversazioni private finite in quella che è stata definita “idrovora fonica” che tutto indistintamente inghiotte, anche ciò che non è processualmente rilevante 299 . 299 G. GIOSTRA, “I mali della libertà si curano solo con più libertà”, in I quaderni dell'Unci – DDL Alfano: se lo conosci lo eviti, p. 102 122 CAPITOLO 4 LE PROSPETTIVE DI RIFORMA 1. Un mosaico eterogeneo di interventi correttivi A distanza di neppure dieci anni dall'entrata in vigore del nuovo codice, si avvertiva già forte l'esigenza di intervenire in materia di intercettazioni, in particolar modo nella prospettiva della tutela del diritto alla privacy. A peggiorare la situazione ha contribuito, in modo sostanziale, l'utilizzo distorto dell'informazione che, come precedentemente evidenziato, antepone sistematicamente l'obiettivo audience rispetto a quello di formare un'opinione pubblica consapevole e di consentire ai consociati il controllo sull'amministrazione della giustizia. Recentemente, intervenendo sul tema in questione, il Garante della privacy ha messo in guardia sul rischio di trasformare il processo in una “soap opera”, alterando la misurata rappresentazione della realtà processuale300. Il rapporto tra giustizia ed informazione è, ormai, inficiato da una vera patologia, alla cui origine troviamo, senza dubbio, la prassi consolidata di travalicare tutti i limiti imposti dalla normativa in materia: operazione decisamente facilitata dal fatto che, come rimarcato in precedenza, la distinzione tra atto e contenuto, cardine della disciplina codicistica, è “accademica, e sfiora l'ipocrisia”301. Dal 1996 ad oggi, in tutte e quattro le legislature che si sono susseguite, si sono registrati tentativi di intervenire a tutela della privacy dei soggetti intercettati; progetti di riforma dettati, tutti, dall'esigenza di porre un freno a quel fiume carsico di informazioni che affiora sui mezzi di comunicazione, indipendentemente dalla rilevanza processuale 300 Relazione Garante delle Comunicazioni, citata da F. GIANARIA, A MITTONE, Per contrastare gli eccessi dell'informazione non possono bastare i richiami delle Authority, in Guida al Diritto de Il Sole 24 ore, 2008, n. 31, p. 232 301 F. GIANARIA, A MITTONE, Per contrastare gli eccessi, cit., p. 12 123 degli atti divulgati302. Le prime proposte di modifica della normativa in materia di intercettazioni telefoniche, tutte di iniziativa parlamentare 303 presentate nel corso della XIII legislatura, erano sorte dietro la spinta propulsiva della polemica suscitata dalla pubblicazione di numerose intercettazioni, anche relative a soggetti estranei a qualsivoglia vicenda processuale. L'obiettivo comune era quello di introdurre maggiori garanzie a tutela della privacy, senza però svilire un mezzo di ricerca della prova che, sul piano del risultato istruttorio, non aveva eguali. Dei vari progetti presentati in Commissione giustizia alla Camera, dopo un lungo lavoro di mediazione ed elaborazione, venne redatto un testo unificato, noto come “disegno di legge Flick”, dal nome del Ministro della giustizia in carica, che poneva al centro la tutela della privacy, intervenendo, però, più che sul divieto di pubblicazione, sulla disciplina generale delle intercettazioni. Bisognava innanzitutto definire ambiti più rigorosi per il ricorso alla captazione di conversazioni, stabilendo garanzie invalicabili per la tutela della riservatezza dell'indagato e dei terzi intercettati: occorreva, cioè, disciplinare un “segreto delle intercettazioni”, senza però pregiudicare il diritto alla difesa. Furono così ridotte le fattispecie di reato per cui era consentito disporre le intercettazioni, ammesse solo per reati non colposi con pena edittale massima superiore a sei anni. Venne elaborato un complesso meccanismo procedurale, finalizzato ad imporre un filtro preventivo alla diffusione della conoscenza del contenuto delle intercettazioni irrilevanti ai fini di giustizia, ma spesso di straordinaria potenzialità invasiva304. Allo scopo di sottrarre alla pubblicità, ed ai connessi pericoli di divulgazione, anche illecita, la documentazione delle intercettazioni non pertinenti, fu prevista 302 T. PADOVANI, Informazione e giustizia penale: dolenti note, in Dir. pen. e proc., 2008, p. 689 303 Ddl nn.: 111/96, ( On. Saraceni ) ; 595/96 ( On. Soda ) ; 3461/96 ( On. Pisanu ) 304 MELILLO, Le intercettazioni tra diritto alla riservatezza ed efficienza delle indagini, in Cass. Pen., 2007,12, p.1935 124 l'istituzione di un archivio riservato, in cui conservare, sino alla sentenza definitiva, la documentazione non acquisita al fascicolo del dibattimento. L'accesso all'archivio doveva essere consentito solo al giudice, agli ausiliari da questi autorizzati, ed ai difensori nei casi previsti dalla legge; in tal modo si riconosceva implicitamente che, tra le maggiori cause dell'eccessiva divulgazione, vi era, senza dubbio, l'elevato numero di soggetti “indistinti” che potevano avere accesso alle conversazioni captate. Fu, inoltre, affrontata la delicatissima problematica relativa alla distruzione delle conversazioni intercettate: si propose, a tal riguardo, la codificazione del principio già enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui la distruzione dei documenti, richiesta dal pubblico ministero e anche contestualmente all’archiviazione, è disposta dal giudice all’esito di procedura camerale305. Il problema sotteso alla distruzione del materiale intercettato è che, trattandosi di un fatto irreversibile, è uno strumento particolarmente delicato: un’intercettazione ritenuta irrilevante in un determinato momento potrebbe divenire rilevante nel prosieguo, per fatti sopravvenuti oppure per una diversa valutazione del giudice. Era stata introdotta, anche in questo caso, una formula più forte e rigorosa: la distruzione veniva consentita “solo” qualora l’irrilevanza fosse assolutamente e manifestamente palese, non suscettibile di modificazione, pure in un quadro probatorio in evoluzione. Era previsto, infine, un inasprimento del regime sanzionatorio con riferimento alla rivelazione e divulgazione di intercettazioni che dovevano rimanere segrete, con l'introduzione del reato di “rivelazione di comunicazioni o conversazioni intercettate nel procedimento penale” (art. 617 septies c.p.) - punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Il testo, nonostante la lunga mediazione svolta in sede di Comitato ristretto, non venne approvato all'unanimità306 e, dopo essere stato trasmesso al Senato ed assegnato in 305 Corte costituzionale, sentenza n. 463 del 15 dicembre 1994 306 Si espressero in senso contrario Forza Italia ed Alleanza Nazionale. 125 sede referente alla Commissione giustizia, fu definitivamente accantonato. Nel 2005, al termine di una estate rovente per le polemiche suscitate dalla pubblicazione di intercettazioni relative allo scandalo per le scalate bancarie di Unipol e Antonveneta, che avevano coinvolto eminenti uomini politici e manager, il Governo intervenne con l'obiettivo di assicurare la tutela del diritto di privacy ai soggetti intercettati, attuando i principi del “giusto processo” sanciti dall'art. 111 Cost. Il comma 3 dell'art. 11 Cost. dispone, infatti, che la persona accusata di un reato debba essere informata “riservatamente” nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; l’avverbio “riservatamente” mal si concilia con un sistema in cui, sovente, capita che un cittadino sia informato di un suo coinvolgimento in un’inchiesta penale prima dai mass-media che dall'autorità giudiziaria. Il Governo presentò dapprima un decreto legge, ma il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, non rilevando il requisito dell'urgenza, indicò la via ordinaria del disegno di legge, manifestando, altresì, la propria perplessità in ordine alla previsione di misure coercitive per i giornalisti che si fossero resi responsabili di illegittime pubblicazioni. Assecondando le indicazioni presidenziali, nel settembre 2005 il Consiglio dei ministri varò il d.d.l. n. 3612, assegnandolo alla Commissione giustizia del Senato in sede referente. Il provvedimento, sottoscritto dal Guardasigilli, on. Roberto Castelli, disciplinava in modo più rigoroso il divieto di pubblicazione degli atti delle intercettazioni, assicurandone un uso esclusivamente endoprocessuale e sanzionando, in modo severo, la divulgazione del materiale captato. Nella normativa vigente, le intercettazioni relative all'indagato o a terzi estranei al procedimento sono fondate sui medesimi presupposti e sottoposte alle stesse limitazioni; il d.d.l. governativo n. 3612 si proponeva di introdurre, invece, una disciplina diversificata, a seconda del soggetto sottoposto ad intercettazione. Si intendeva delineare un “doppio binario” per cui, le intercettazioni avrebbero potuto essere disposte “solo” nei confronti della persona sottoposta ad indagini, e “solo” 126 nel caso in cui a suo carico sussistessero gravi indizi di colpevolezza. Era stato, inoltre, previsto l'obbligo per il pubblico ministero di avvisare, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, le persone non indagate del deposito di atti relativi ad intercettazioni che le riguardassero: si trattava di un inedito strumento processuale, volto ad offrire migliore tutela al diritto alla riservatezza dei cittadini non indagati che avevano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione e che, per tale ragione, risultassero indicati nei verbali di esecuzione delle operazioni e coinvolti nelle registrazioni307. Altro profilo interessante era rappresentato dalle previsioni in materia di “stralcio” delle conversazioni; abbiamo già esaminato come, nella disciplina vigente, per ragioni di economia processuale, spesso la stralcio non venga affatto operato, e al giudice dell'udienza preliminare giungano tutte le intercettazioni eseguite. La disciplina delineata dal d.d.l. n. 3612, onde rimuovere la suddetta prassi ormai consolidata, aveva previsto la fissazione, da parte del giudice per le indagini preliminari, di un'apposita udienza camerale, finalizzata all’acquisizione delle sole conversazioni rilevanti, con conseguente distruzione del materiale stralciato. Tale previsione aveva suscitato comprensibili perplessità da parte del Consiglio superiore della magistratura, che, in un parere sul c.d. “d.d.l. Castelli”, aveva rimarcato come l’apertura del contraddittorio sull’acquisizione delle conversazioni in una fase del procedimento in cui l’imputazione era ancora fluida non sembrava in concreto mettere le parti in condizione di esercitare efficacemente il diritto di difesa. Lo stesso giudice per le indagini preliminari, chiamato a selezionare le trascrizioni da inserire nel fascicolo per il dibattimento, ovvero da stralciare, non poteva, in assenza dell’intero fascicolo del pubblico ministero, possedere l’adeguato bagaglio conoscitivo. Sul punto in esame, in un precedente progetto di legge, 308 pur sottolineandosi l'esigenza di un'udienza camerale di selezione del materiale rilevante, si preferiva, per 307 Parere reso dal CSM sul disegno di legge n. 3612 del 2005, concernente “Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore” con delibera del 9 febbraio 2006, www.csm.itlcircolarilo60209_6.pdf. 308 Progetto di legge . 6079 presentato dall'On. Pisapia 127 quello stralciato, la “segretazione” alla “distruzione”, al fine di evitare la totale dispersione di quanto raccolto. Anche il d.d.l. n. 3612 prevedeva l'introduzione di un “archivio riservato”, in cui custodire i verbali relativi alle intercettazioni, i brogliacci d'ascolto ed i supporti informatici. L'archivio in questione doveva essere istituito presso l'ufficio del pubblico ministero, e per il materiale ivi conservato era stabilito un divieto di allegazione, anche parziale, al fascicolo dello stesso pubblico ministero. Anche su questo punto l’organo di autogoverno della magistratura aveva mosso alcuni rilievi critici: tale disposizione, pur se orientata a ridurre i rischi di diffusione di notizie e di contenuti delle attività di intercettazione, appariva “eccessivamente condizionata dall’attualità”; il divieto generale di allegazione anche al fascicolo del pubblico ministero avrebbe certamente causato gravi difficoltà operative per il magistrato e di incertezze interpretative con riferimento, ad esempio, agli atti urgenti ed ai provvedimenti interlocutori che presuppongono l’esame e l’utilizzo dei risultati delle intercettazioni e che avrebbero potuto richiedere l’inoltro di questi al giudice delle indagini preliminari ed ai successivi giudici di controllo309. Riguardo al regime di segretezza degli atti, ed al correlato divieto di pubblicazione, il testo in esame interveniva direttamente sull'art. 114 comma 2 c.p.p.: veniva ampliato l'oggetto del divieto di pubblicazione, fino a ricomprendervi anche il “riassunto o il contenuto” degli atti di indagine, equiparando, in tal modo, la disciplina tra gli atti coperti e quelli non più coperti da segreto. Ne discendeva, ope legis, l'abrogazione del comma 7 dell'art. 114 c.p.p., e l'introduzione di una norma che sanciva espressamente il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni di cui fosse stata ordinata la distruzione. Con un intervento siffatto si operava un “drastico” sbilanciamento della disciplina a favore della tutela della privacy con conseguente, totale, sacrificio dell'altro diritto 309 Parere reso dal CSM sul disegno di legge n. 3612 del 2005, cit. 128 costituzionalmente tutelato, quello all’informazione su fatti di pubblico rilievo. Si prevedeva, infine, un rilevante “giro di vite” in caso di violazione delle norme descritte: se per la pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale, sanzionata dall’art. 684 c.p., si disponeva, semplicemente, l’innalzamento della pena pecuniaria, per la rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, di cui all'art. 326 c.p., invece, si proponeva l'introduzione di una circostanza aggravante “nel caso in cui l’oggetto materiale della rivelazione avesse riguardato intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni o il contenuto di queste”, con la pena della reclusione da uno a quattro anni. La fine della legislatura impedì al disegno di legge esaminato persino il vaglio in sede referente, ma lo stesso, come vedremo, ha costituito il nucleo essenziale di altri, successivi tentativi di riforma. L'anno 2006 ha costituito, ad avviso di molti, l'annus horribilis, per la materia delle intercettazioni, a causa della pubblicazione di numerose conversazioni relative ad importanti inchieste giudiziarie: su tutte, lo scandalo Telecom, ed il c.d. caso “Calciopoli”. Anche l'attenzione dell'opinione pubblica era, ormai, concentrata sullo “scandalo intercettazioni”; i vari tentativi di tutela approntati dai governi che si sono succeduti non si sono soffermati a riflettere sulle ripercussioni che queste riforme avrebbero potuto avere sul piano del segreto processuale e della cronaca giudiziaria. Una delle principali caratteristiche di una democrazia dovrebbe essere, infatti, la possibilità per i cittadini di essere informati: solo un'adeguata conoscenza e consapevolezza degli eventi che accadono, consentono di prendere compiutamente parte alla vita pubblica del Paese, diventando parte di quel soggetto delicatissimo ed essenziale di una moderna democrazia che è la pubblica opinione310. E' pur vero, come precedentemente rimarcato, che al giorno d'oggi più che di informazione sembra doversi parlare di gossip, destinato a soddisfare una pulsione 310 E.MAURO, Informazione e qualità della democrazia, in Questione giustizia, 2008, p. 129 129 voyeuristica.311 Per tali ragioni, nel 2006, il Garante per la privacy, prof. Francesco Pizzetti, è intervenuto a tutela della riservatezza, dignità ed identità personale degli individui, nonché del diritto fondamentale alla protezione dei relativi dati personali 312. Un intervento la cui esigenza è stata avvertita d’ufficio - senza che l’Authority fosse stata raggiunta da ricorsi o segnalazioni di parte 313 - a seguito, in particolare, dalla diffusione sulla stampa delle intercettazioni telefoniche acquisite nella vicenda Telecom, da cui è emerso che migliaia di cittadini, tra cui parlamentari, imprenditori e professionisti, dei quali un quotidiano aveva già cominciato a pubblicare i nomi, erano stati intercettati e spiati illegalmente. Col suo intervento, il Garante ha, innanzitutto, prescritto ai mass-media il pieno rispetto dei principi affermati dal Codice della privacy e dall'allegato Codice deontologico dei giornalisti; dopo di che, ha sottolineato l’inadeguatezza del meccanismo previsto dalla legge per acquisire, agli atti processuali, le sole conversazioni rilevanti per il procedimento penale. Oltre al richiamo agli organi di stampa, il Garante invitò anche il CSM ad attivarsi, nell’ambito delle sue specifiche competenze, per migliorare le garanzie a tutela della riservatezza delle informazioni processuali, riconoscendo che la pubblicazione indiscriminata delle intercettazioni investe anche la responsabilità degli operatori della giustizia: giudici, avvocati, polizia giudiziaria, cancellieri, ecc. Il presidente Pizzetti chiese, altresì, al Parlamento di introdurre la possibilità per il Garante di comminare sanzioni amministrative di carattere pecuniario in caso di violazione dei principi deontologici. In realtà, il primo intervento normativo posto in essere dal Governo fu l'adozione di un provvedimento d'urgenza: il decreto-legge n. 259 del 22 settembre 2006, convertito 311 D. STASIO, Come si prepara un regime, in Quest .giust., 2008, p. 123 312 Prescrizione del Garante, Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della persona, Gazzetta Ufficiale n. 147 del 27-6-2006, doc. web n. 1299615, su www.garanteprivacy.it. 313 G.CORRJAS LUCENTE , Le recenti prescrizioni del Garante sulla pubblicazione di atti e di procedimenti penali e la cronaca giudiziaria. Rigide interferenze tra privacy e libertà di informazione, in Il Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2007, 3, p. 593. 130 con modificazioni dalla legge n. 281 del 20 novembre 2006. Il provvedimento in questione riguardava esclusivamente le intercettazioni “illegali”, categoria che copre ipotesi diversissime : dalle quelle poste in essere dal pm senza provvedimento del gip; a quelle compiute dalla pg senza richiesta pm; fino a quelle realizzate da terzi tout-court, e così via. In tal modo si introducevano nel codice di rito nuove misure, che verranno in parte riprese in occasione dell’elaborazione da parte del Governo di un disegno di legge per una riforma più organica delle intercettazioni telefoniche. Il legislatore si è espresso impropriamente, parlando di intercettazioni “illegali”: poiché l’illegalità è una categoria non giuridica, e, nell’accezione comune, ricomprende sia l’attività “illecita”, sia quella “semplicemente illegittima”; se il decreto-legge avesse avuto ad oggetto gli atti “illegalmente” formati o acquisiti, avrebbe dovuto riguardare non tanto l’attività illecita emersa nel “caso Telecom”, ma più genericamente quella illegale, cioè contraria alla legge. Ma per questo tipo di intercettazioni, l’art. 271 c.p.p. già prevede la sanzione dell’inutilizzabilità e la conseguente distruzione, salvo che costituisca corpo del reato: si deve, dunque, ritenere che il legislatore aveva scritto qualcosa di diverso da ciò che intendeva dire: ha scritto “illegale” ma intendeva “illecito”, e ciò è indice di sciattezza legislativa314. La legge n. 281 del 2006, modificando il comma 2 dell'art. 240 c.p.p, ha stabilito che i documenti riguardanti intercettazioni illegali, o documenti relativi ad informazioni raccolte illegalmente, non possano essere utilizzati a “fini processuali”, e che il pubblico ministero deve disporne l’immediata segretazione e la custodia in luogo protetto; degli atti in questione è vietato estrarre copia, in qualunque forma ed in qualunque fase del procedimento. Nella sua formulazione originaria, il provvedimento d’urgenza prevedeva anche l’inutilizzabilità a “fini investigativi”, ma tale inciso è stato soppresso in occasione 314 FILIPPI, Distruzione dei documenti e illecita divulgazione di intercettazioni: lacune ed occasioni perse di una legge nata già vecchia, in Dir. pen. e proc., 2007, 2, p. 153 131 dell’approvazione della legge di conversione315. Sempre secondo il testo originario del decreto, il giudice per le indagini preliminari poteva disporre “1’immediata distruzione” degli atti relativi ad intercettazioni illegali, ed in particolare, dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti, nonché dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Le operazioni di distruzione avrebbero dovuto essere documentate in un apposito verbale, del quale sarebbe stata sempre consentita la lettura nel corso del dibattimento: si tratta di innovazioni “dirompenti” rispetto a una tradizione che non era ancora riuscita a distaccarsi del tutto da vecchi retaggi inquisitori316. Abbiamo in precedenza evidenziato come, la previsione della “distruzione” susciti, tanto nella dottrina, quanto nei pareri del CSM, rilevanti perplessità, dovute alla definitiva dispersione della prova; la disposizione risulta, comunque, giustificata, al fine di evitare, per il futuro, l’imbarbarimento del costume sociale, rendendo infruttuoso l’illecito procacciamento, il traffico e la detenzione di notizie riservate317. Entro quarantotto ore dall’acquisizione dei documenti, il pubblico ministero deve chiedere al giudice di disporne l’immediata distruzione: il termine stabilito appariva eccessivamente ristretto, perché il pubblico ministero, nel frattempo, avrebbe dovuto ricercare ed acquisire elementi di prova sulla natura illegale della documentazione, da precisare nel verbale di distruzione. Come anticipato, la legge di conversione del decreto ha, parzialmente, modificato la previsione dell'immediata ed inaudita distruzione, in cui si radicava la principale ragione d’urgenza dell’intervento normativo per decreto-legge 318: si è introdotta 315 Sulla utilizzabilità come notizia di reato, v. C. GABRIELLII, Captazioni illecite come notizia di reato: dai ripensamenti del legislatore alle prime risposte della giurisprudenza, in Cass. pen., 2007, n. 4, p. 1302 316 FRIGO, Rispetto delle garanzie per gli atti irripetibili, in Guida al diritto,2006, 39, p. 43 317 FILIPPI, Distruzione dei documenti , cit., p. 154 318 FRIGO, Rispetto delle garanzie, cit. p.. 44 Rilievi critici in GIOSTRA, Quale utilizzabilità per le intercettazioni abusive, cit. p. 349 132 un’udienza camerale, che il giudice deve tenere entro dieci giorni dalla richiesta del pubblico ministero, alla presenza delle parti interessate, le quali possono nominare un difensore di fiducia. Solo dopo aver sentito le parti comparse, il giudice può disporre la distruzione dei documenti e la verbalizzazione della stessa, senza alcun riferimento al contenuto dei documenti distrutti. Nell'ipotesi in cui i documenti, segretati dal pubblico ministero, siano ugualmente pubblicati, viene introdotta un'apposita sanzione pecuniaria: all’autore della pubblicazione, al direttore responsabile ed all’editore, in solido fra loro, può essere richiesta una somma di denaro determinata in ragione di 50 centesimi di Euro per ogni copia stampata, ovvero da 50.000 ad 1.000.000 di euro, secondo l’entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico; in ogni caso, l’entità della riparazione non può essere inferiore a 10.000 euro. Nell’aprile 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte illegittima la norma che impone la distruzione dei documenti e delle intercettazioni ritenute illegali. Il rinnovato articolo 240 c.p.p. è apparso censurabile in due punti: i commi 4 e 5, nella parte in cui non prevedono l’applicazione delle stesse regole fissate per l’incidente probatorio - art. 401 commi 1 e 2 c.p.p. - durante l’udienza per la distruzione dei documenti; il comma 6, nella parte in cui non specifica che il divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti, supporti e atti nella redazione del verbale di distruzione non si estende alle circostanze inerenti la formazione, l’acquisizione e la raccolta degli stessi documenti, supporti e atti. Il dibattito politico è proseguito, costante, anche nel corso della XV legislatura, fino a sfociare nella presentazione di proposte di inchiesta parlamentare: il 4 luglio 2006, la Commissione giustizia del Senato ha deliberato un’indagine conoscitiva sul fenomeno delle intercettazioni telefoniche. Obiettivi dell'indagine erano l'analisi e l'approfondimento di alcune tematiche particolarmente problematiche: tra cui i rischi per la privacy, il fenomeno delle fughe di notizie, le violazioni di pubblici ufficiali o avvocati, e, soprattutto, il ruolo, i diritti e le responsabilità dei mass media. 133 Nel documento conclusivo dell'indagine, presentato circa cinque mesi dopo, sono stati così evidenziati i vari profili di criticità in materia di intercettazioni. Innanzitutto, nonostante, come già analizzato, l'ordinamento italiano sia quello che nel mondo occidentale assicura ai consociati il più articolato sistema di garanzie dei diritti fondamentali, l'esperienza quotidiana ha dimostrato come tali garanzie non risultino adeguate. Il primo passo da compiere dovrebbe essere quello di rendere effettivamente, e finalmente, operante la normativa relativa al deposito, la selezione, lo stralcio e la distruzione delle intercettazioni acquisite. La responsabilità della selezione, oltre che sull'autorità giudiziaria, deve ricadere, ovviamente in modo diverso, anche sui giornalisti, che non possono pubblicare tutto ciò che entra nel loro patrimonio cognitivo, ma sono chiamati a valutarne previamente l’utilità ai fini informativi, ed a tutelare la dignità di terzi estranei, coinvolti nelle comunicazioni intercettate, così come disposto dal Codice deontologico di categoria, ispirato al concetto di “autodisciplina”. Il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva precisa, altresì, che sarebbe opportuno specificare in modo più dettagliato i poteri del Garante, anche in considerazione della citata richiesta del Presidente Pizzetti di essere legittimato all'applicazione di sanzioni pecuniarie, diversificate e graduate in base alla gravità della violazione. Il Garante stesso ha, però, sottolineato come i destinatari naturali dell'eventuale sanzione pecuniaria, gli editori delle varie testate giornalistiche, a fronte della minacciata sanzione potrebbero incidere in modo eccessivo sulla libertà professionale dei giornalisti. Riguardo alle sanzioni penali, invece, il Garante ha manifestato la sua totale contrarietà in una democrazia in cui, la libertà di stampa, è un bene essenziale. Nel corso dell'audizione dinanzi alla Commissione parlamentare, i rappresentanti della stampa hanno espressamente respinto ogni addebito, rilevando come, le responsabilità per eventuali fughe di notizie, andrebbero ricercate aliunde, in quanto il passaggio ai media è solo il punto terminale di itinerario che coinvolge magistrati, agenti 134 di polizia giudiziaria, avvocati e cancellieri. A conclusione dell’indagine conoscitiva, la Commissione giustizia, al fine di limitare i rischi di fughe di notizie, ha proposto di costituire una task force tecnica presso le Procure, in grado di intervenire a livello di prevenzione, controllo e accertamento delle violazioni consumate e di adottare una serie di misure per limitare i rischi di fughe di notizie, restringendo le possibilità di accesso ai dati riservati. Tutto ciò premesso, la reazione della politica non può essere, in maniera semplicistica, quella di sottrarsi al controllo sociale che l'opinione pubblica ha il diritto di assicurare, e soprattutto è importante che il metodo dell'intervento legislativo sia la scelta di soluzioni ponderate, senza cedere alla tentazione di ricorrere a soluzioni di emergenza, predisponendo un regime di opacità e silenzio dell'informazione su fatti e vicende giudiziarie319. Se certamente, lo sforzo di elaborare una disciplina rinnovata delle intercettazioni è, quantomeno, apprezzabile, non va dimenticato che questo intervento richiede una precisione chirurgica per agire su eccessi e devianze senza scalfire, più dello stretto necessario, il diritto di cronaca320. Alla luce di questi obiettivi, nei paragrafi successivi si procederà ad un'analisi approfondita dei due più recenti progetti legislativi di riforma: il disegno di legge 1638 del 2007, c.d. “d.d.l. Mastella”, e, da ultimo, il disegno di legge 1415 del 2008, noto come “d.d.l. Alfano”. 319 N. ROSSI, Giustizia e informazione: poteri infedeli, poteri nemici?, in Questione giustizia, 2008, Giuffrè, p. 116 320 G. GIOSTRA, Intercettazioni e informazione, in Cass. pen., 2006, p. 2752 135 2. Il disegno di legge Mastella Il 17 aprile del 2007 veniva approvato alla Camera il disegno di legge n. 1638 di iniziativa del Guardasigilli, on. Clemente Mastella, “in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali, e di pubblicità degli atti di indagine”. Il più rilevante limite della disciplina previgente non consisteva tanto nella presunta inadeguatezza nel tutelare il processo di formazione del convincimento giudiziale, quanto, piuttosto, nel palese disinteresse del legislatore nei confronti di un tema estremamente delicato: la tutela dei soggetti, coinvolti o meno nel procedimento, la cui privacy poteva essere lesa dalla pubblicazione di notizie private e processualmente irrilevanti. Un'informazione che, come ampiamente rimarcato, privilegi costantemente la logica dei profitti alla propria funzione sociale non ha nulla a che vedere con il nobile diritto-dovere di informare321. E' opportuno procedere, dapprima, ad un'analisi esegetica dei vari interventi di riforma posti in essere dal d.d.l. 1638, per poi soffermarsi sui profili di criticità che lo stesso ha palesemente manifestato. Attraverso la sostanziale modifica dell'articolo 114 c.p.p., si stabiliva il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, di tutti gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. In tal modo, si consentiva, esclusivamente, la pubblicazione del “contenuto”, relativamente ad atti non più coperti dal segreto; sul punto, però, per quanto riguarda 321 G.GIOSTRA, Intercettazioni fra indagini e privacy. Primo, evitare soluzioni improvvisate, in Dir. e giust., 2006, 31, p. 99 136 specificatamente le intercettazioni telefoniche, si delineava un divieto di pubblicazione più stringente, esteso anche al contenuto stesso, come sancito dal nuovo comma 2 bis dell'art. 114 c.p.p. Si introduceva, inoltre, un comma 2 ter, in cui veniva stabilito un divieto assoluto di pubblicazione - parziale, per riassunto o per contenuto - dei provvedimenti emessi in materia di misure cautelari, consentendone tuttavia la pubblicazione, soltanto nel contenuto, dopo che l’indagato o il suo difensore ne abbiano avuto conoscenza. Il comma 3 dell’art. 114 c.p.p., doveva essere adeguato alla citata pronuncia n. 59 del 1995 della Corte costituzionale, che ne aveva dichiarato l’illegittimità, nella parte in cui vietava la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado. Pertanto, la nuova formulazione del comma 3 impone il divieto di pubblicazione, anche parziale, ai soli atti del fascicolo del pubblico ministero, fino alla pronuncia della sentenza di appello; confermando, invece, la facoltà di pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni ex art. 500 c.p.p. Il disegno di legge n. 1638 ha delineato un complesso procedimento finalizzato alla selezione delle notizie “rilevanti” destinando le altre ad essere custodite in un apposito archivio segreto: venivano così introdotti nel codice di rito alcuni articoli aggiuntivi - dal 268-bis al 268-sexies - che avrebbero dovuto sostituire i commi da 4 a 8 dell’attuale art. 268 c.p.p. Queste disposizioni disciplinavano l’esecuzione delle operazioni relative alle intercettazioni, ivi compresa la procedura di selezione, che si prevedeva avvenisse “già” al momento del deposito, da parte del pubblico ministero, dei verbali e delle registrazioni presso la segreteria. Si prevedeva una sorta di “doppio filtro”: il primo spettava al pubblico ministero al momento del deposito; il secondo, ovviamente, al giudice per le indagini preliminari, che doveva decidere sulla loro acquisizione e successiva trascrizione. L’esperienza ha dimostrato l'inadeguatezza dell’udienza stralcio, in punto di tutela della riservatezza, poiché questa udienza viene condotta con prevalente attenzione agli 137 interessi delle parti, che spesso non contemplano il contenimento della diffusione dei dati acquisiti322. La ratio sottesa alla suddetta scelta era da leggersi in termini di economia processuale, trattandosi di una procedura senza dubbio più snella, ma che, al tempo stesso, ha suscitato talune perplessità in merito al rispetto del diritto di difesa. Anche il Consiglio superiore della magistratura, in un articolato parere, ha rilevato come, la nuova formulazione dell'art. 268 comma 6 c.p.p. - l'art. 268-bis, comma 5 individuasse il parametro in base al quale il giudice deve decidere sull’acquisizione delle conversazioni intercettate nel criterio della “rilevanza”, mentre, l'originaria disposizione, parlava di “non manifesta irrilevanza”. La stessa modifica era introdotta dall’art. 268-quater, con riferimento all’acquisizione dei risultati dell’intercettazione, in un momento anteriore alla chiusura delle indagini preliminari. Soprattutto con riferimento a questa seconda ipotesi, la disciplina in esame presentava profili meritevoli di approfondimento, potendo risultare problematica la prognosi - richiesta sia al pubblico ministero sia alla difesa - in ordine alla rilevanza, nella prospettiva del giudizio, di una determinata conversazione323. Tutti gli atti relativi a conversazioni irrilevanti, dovevano, invece, confluire in un archivio riservato; da notare, quindi, che il criterio di selezione era definito in positivo, nel senso che dovevano essere individuate specificamente le conversazioni rilevanti, mentre, de residuo, tutte le altre dovevano essere custodite nell’apposito archivio. All'esito di queste operazioni si doveva dare immediato avviso ai difensori delle parti, ai quali spettava la facoltà, entro il termine stabilito, di esaminare gli atti depositati, e quelli destinati nell’archivio riservato, di ascoltare le registrazioni, di indicare al giudice le conversazioni non depositate delle quali volessero chiedere l’acquisizione, enunciando le ragioni della loro rilevanza, e, viceversa, di quelle depositate ma ritenute irrilevanti o 322 LEO, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1218. 323 CSM, Parere sul disegno di legge governativo n. 1638 del 2006 concernente: Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti di indagine. Deliberazione del 21 dicembre 2006, su http://www.csm.it/pages/pareri2006.html 138 inutilizzabili. Alla scadenza del termine stabilito per l'esercizio del diritto di difesa sopra descritto, il giudice per le indagini preliminare disponeva con ordinanza l’acquisizione delle conversazioni da lui ritenute rilevanti ed utilizzabili, anche tra quelle custodite nell’archivio riservato, con l'attribuzione, in tal caso, di uno specifico potere di “rivalutazione della rilevanza”, previsto, dall’art. 495 comma 4 c.p.p.. L’archivio riservato doveva essere istituito presso gli uffici della Procura della Repubblica, sotto la responsabilità, direzione e sorveglianza del Procuratore, ovvero di un suo delegato, con modalità tali da assicurare la segretezza della documentazione in esso contenuta. Quest'ultima previsione risultava particolarmente rilevante: si individuava, finalmente, un soggetto responsabile, con la funzione specifica di evitare fughe di notizie e che, eventualmente, ne rispondesse; uno dei maggiori profili di criticità del sistema vigente, infatti, è proprio l’impossibilità di identificare gli “illegittimi rivelatori” delle conversazioni ivi custodite. Solo un numero, estremamente ristretto e predefinito di soggetti, cioè il giudice, i difensori, nei casi stabiliti dalla legge, e gli ausiliari autorizzati dal procuratore della Repubblica, potevano accedere all'archivio, previa annotazione in un apposito, dettagliato, registro. Si prevedeva altresì che le attività di stampa, e di trasmissione dei dati relativi alle intercettazioni su supporto informatico, cartaceo o telematico, dovevano essere autorizzate dal pubblico ministero. L’intento della previsione suddetta era, senz'altro, meritorio, ma si deve osservare che nessuna cautela era invece adottata nella fase più delicata che è quella della registrazione negli appositi centri distrettuali, per i quali non è previsto analogo monitoraggio324. Per quanto riguarda gli atti non acquisiti, custoditi nell’archivio riservato, era previsto che fossero sempre coperti da un apposito segreto, distinto da quello di cui 324 FILIPPI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. l227 139 all'art. 329 c.p.p.: mentre quest’ultimo tutela il corretto andamento delle attività investigative, il “nuovo” art. 329-bis, negli intendimenti del progetto di riforma, avrebbe dovuto salvaguardare la privacy dei soggetti intercettati, anche oltre il termine delle indagini preliminari, coprendo la documentazione per tutto il periodo di permanenza nell’archivio. Sulla scorta di quanto previsto nel 2005 dal c.d. “d.d.l. Castelli”, dunque, anche il disegno di legge Mastella si faceva carico di tutelare la privacy dei terzi: il nuovo art. 268-sexies disponeva che fosse dato avviso anche alle persone non indagate, tramite raccomandata, dell'avvenuto deposito di atti relativi alle intercettazioni che le riguardassero, con facoltà, per gli stessi di chiederne, in seguito, la distruzione. L’avviso in questione non doveva essere inviato se si procedeva per i reati indicati all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, e all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., ovvero se le conversazioni intercettate erano state acquisite al procedimento, e dagli atti di indagine risultasse che l’utenza era stata “comunque utilizzata da persone indagate”. In quest’ultimo caso, però, l’omissione dell’avviso risulta quantomeno incomprensibile: bisognerebbe tenere presente, infatti, che le persone avvisate potrebbero non coincidere con quelle che fanno effettivamente uso dell’utenza, mente restano comunque esclusi gli interlocutori delle conversazioni, se sono terzi estranei.325 Parallelamente alle disposizioni processuali poste in essere a salvaguardia della privacy, si era delineato un imponente intervento di modifica ed innovazione della fattispecie penali e delle relative sanzioni. Innanzitutto, veniva sostituito l’art. 379-bis c.p., con una disposizione specifica per la “rivelazione illecita di segreti inerenti ad un procedimento penale”, punendo, con la reclusione da sei mesi a tre anni, chiunque rivelasse indebitamente notizie inerenti ad atti del procedimento penale coperti da segreto o ne agevolasse la conoscenza in qualsiasi modo. La prima, rilevante, conseguenza di questa modifica era il netto ampliamento della sfera dei soggetti punibili, estesa fino a ricomprendere tutti coloro che fossero 325 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1222 140 venuti a conoscenza della notizia “in ragione del proprio ufficio, servizio o qualità”, ivi compresi i difensori ed i loro collaboratori. Veniva introdotta una nuova fattispecie, delineata dall'art. 617-septies c.p., che sanzionava “l’accesso abusivo ad atti del procedimento penale” con la pena della reclusione da uno a tre anni. La norma intendeva punire, chiunque, prendesse illecitamente cognizione “diretta” di atti del procedimento penale coperti da segreto, escludendo, invece, la responsabilità di chi si fosse limitato a riceverli senza concorrere nell’accesso illecito ai luoghi ove gli stessi vengono custoditi. Il CSM, nel parere espresso sul disegno di legge Mastella, auspicava una riformulazione, di tale norma, poiché, dal tenore letterale del testo, si palesava il rischio che potessero risultare “coinvolti nella vicenda anche soggetti, al di fuori delle ipotesi di concorso nel reato, che si limitassero a ricevere il materiale coperto dal segreto, da parte di quello che dovrebbe essere l’autore materiale della sottrazione di informazioni sensibili”326. Si procedeva, altresì, all'introduzione di altre due fattispecie penali al fine di punire la detenzione di documentazione inerente intercettazioni illegali: l'art. 617-octies c.p. sanzionava, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chiunque, avendo consapevolezza dell’illecita formazione, acquisizione o raccolta, illecitamente detenesse documenti contenenti dati inerenti a conversazioni e comunicazioni telefoniche, informatiche o telematiche, illecitamente formati o acquisiti, ovvero documenti redatti attraverso la raccolta illecita di informazioni. L’art. 617-novies c.p., invece, prevedeva il reato di “rivelazione del contenuto di documenti redatti attraverso la raccolta illecita di informazioni”, sanzionato con la reclusione da sei mesi a quattro anni, con un’aggravante specifica per il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio. Veniva modificato il testo dell’art. 684 c.p., in base al quale doveva essere punito chiunque pubblicasse, in tutto o in parte, anche per riassunto o nel contenuto, atti o 326 CSM, Parere sul disegno di legge governativo n. 1638, cit. 141 documenti di un procedimento penale, di cui fosse vietata la pubblicazione. Particolarmente interessante risultava, da ultimo, una sanzione “speciale”, inserita nel Codice della privacy: l’art. 164-bis, che prevedeva una nuova sanzione amministrativa irrogabile dal Garante in caso di diffusione o comunicazione dei dati per finalità giornalistiche, realizzata in violazione delle regole generali del trattamento dati, di quelle che riguardano specificamente il giornalismo o del Codice di deontologia. Tale disposizione raccoglieva, finalmente, l’appello lanciato dal Presidente Pizzetti, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato il 13 luglio 2006, di fornire al Garante poteri adeguati al compito da svolgere. Alla sanzione pecuniaria, originariamente prevista dal d.d.l. Mastella, era stata sostituita, dopo le modifiche introdotte dalla Camera, quella amministrativa della pubblicazione, per intero o per estratto, della decisione che accertava la violazione, ovvero di una dichiarazione riassuntiva della medesima violazione, nella testata attraverso la quale fosse stata commessa nonché, ove ritenuto necessario, anche in altre testate. Procediamo ora ad una rapida analisi dei profili apprezzabili e delle criticità evidenziati dallo stesso provvedimento. Si rileva, innanzitutto, come l'intervento normativo esaminato meritasse un “complessivo apprezzamento”, poiché, al di là della evidente necessità di un'attenta messa a punto, costituiva un serio tentativo di porre mano ad una materia situata al crocevia di esigenze difficilmente componibili, come la tutela del processo, la garanzia dell'informazione giudiziaria e la salvaguardia della dignità delle persone coinvolte327. Il disegno di legge conteneva novità interessanti: si pensi, in particolare, alle norme per razionalizzare e responsabilizzare i centri di intercettazione ed all'istituzione di un archivio riservato: si scandiva, così, con maggior cura il procedimento di “dialisi giudiziaria” delle notizie rilevanti da quelle irrilevanti, imponendo su queste ultime un obbligo di segreto penalmente sanzionato, vietandone e punendone la pubblicazione328. 327 G.GIOSTRA, Intercettazioni e informazione, in Cass. Pen., 2006, 09, 2752 328 G.GIOSTRA, Intercettazioni e informazione, cit. , 2753 142 In tali termini, una limitazione alla divulgazione di atti irrilevanti, o addirittura illegittimi, pur suscitando l'immediata reazione di una “certa” stampa, maggiormente orientata alla ricerca di notizie “commercialmente rilevanti” piuttosto che “processualmente rilevanti”, meriterebbe piena approvazione, e sarebbe indubbiamente conforme al dettato normativo dell'art. 21 Cost. Molte delle disposizioni previste dal d.d.l. n. 1638 erano state “calibrate” sulle patologie della prassi, così come l'innalzamento delle sanzioni per il reato di arbitraria pubblicazione di atti del procedimento penale andava inteso come misura necessaria per dissuadere efficacemente la testata giornalistica da una divulgazione oggi troppo disinvolta329. Il rischio era che, anziché limitarsi a disporre la non pubblicabilità del materiale irrilevante, ci si spingesse oltre, delineando strumenti limitativi del diritto di cronaca giudiziaria che travalicassero il “costituzionalmente consentito”; tentazione cui il disegno governativo Mastella, non ha saputo resistere. La lettura “politica” dell'opportunità di un intervento limitativo della libertà di informazione e la piena condivisione dell'inasprimento del regime sanzionatorio hanno così suscitato, inevitabilmente, rilevanti obiezioni tanto nella dottrina, quanto nei rappresentanti della stampa. Passiamo, dunque, ad analizzare i numerosi profili di criticità, e di dubbia legittimità costituzionale, manifestati dall'intervento di riforma in esame. Va innanzitutto evidenziato come, se una notevole lacuna dell'assetto originario del codice discendeva dalla mancata definizione della distinzione tra “atto” e “contenuto”, con la revisione normativa in esame la questione veniva ulteriormente complicata, con la previsione di un'ulteriore bipartizione: quella tra “riassunto” e “contenuto”. Nel testo approvato alla Camera, infatti, si distingue tra “pubblicazione del riassunto”, vietata dal nuovo comma 2, e “pubblicazione del contenuto”, sempre 329 Sen. MANTOVANO, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007 143 consentita dal comma 7 dell'art. 114 c.p.p., salvo quanto previsto dai commi 2-bis e 2ter.330 Non veniva assolutamente precisata l'effettiva linea di demarcazione tra riassunto e contenuto: restava evidentemente all'abilità dell'interprete l'arduo compito di trovare un significato di “contenuto dell'atto” che avesse una portata semantica inferiore a quella della locuzione “riassunto dell'atto”331. Si potrebbe attribuire alla nozione di “riassunto” il significato di una sintetica, ma esaustiva, esposizione di quanto riportato nell’atto; mentre l’espressione “contenuto” potrebbe identificare l’attività con cui si rende noto che è stata svolta una certa attività investigativa, senza però indicarne i risultati332. Nella previsione normativa, dunque, l’ambito del divieto risultava nettamente ampliato rispetto a quello attualmente vigente: sia perché vi si facevano rientrare tutti gli atti, e non solo quelli di indagine, precludendone la pubblicazione per riassunto, oggi consentita; sia perché, con riferimento alle intercettazioni, il comma 2-bis impediva in modo assoluto qualsiasi pubblicazione sino all’eventuale dibattimento. Una previsione siffatta, in considerazione dei tempi del procedimento penale nel nostro Paese, significava rendere il processo penale “un fatto privato” fra l’imputato, il difensore, il pubblico ministero, il giudice e la vittima, trasferendolo in un luogo inaccessibile, al riparo dal controllo dell’opinione pubblica333. Altrettanto incomprensibile appariva la scelta del legislatore di prevedere, per le sole intercettazioni, un divieto di pubblicazione più rigoroso rispetto agli altri atti di indagine: se un distinguo andava fatto, avrebbe dovuto condurre a soluzioni invertite, consentire cioè un maggiore “tasso di pubblicabilità” delle intercettazioni, perché queste, a differenza di altri atti di indagine, finiscono nel fascicolo del dibattimento334. La nuova disciplina normativa proposta dal disegno di legge Mastella sembrava 330 G. GIOSTRA, Comma per comma, la mappa delle perplessità, in Guida al diritto, 2007, 44, p. 117 331 G. GIOSTRA, Dal progetto sulle intercettazioni un pericolo al diritto di cronaca, in Guida al diritto, 2007, 38, p. 14 332 G. GIOSTRA, Comma per comma, cit., p. 118 333 PISTORELLI, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007 334 G.GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit. 144 cedere alla tentazione di spegnere i riflettori mediatici sull'attività giudiziaria, con interventi esplicitamente favorevoli ad un giro di vite alla cronaca giudiziaria335. Il drastico irrigidimento dei divieti di pubblicazione delineato dal provvedimento in esame lo ha portato a meritarsi appellativi ben poco lusinghieri, quali quello di: “black out informativo”,336 o addirittura di “garrota normativa per la cronaca giudiziaria”337. Infatti, cessato il divieto di pubblicazione, l'opinione pubblica dovrebbe accontentarsi di un'informazione “svogliata” e “fuorviata”: svogliata, perchè, probabilmente, nel frattempo la vicenda giudiziale non susciterebbe più l'interesse dei media; fuorviata, perché i paletti imposti al diritto di cronaca potrebbero costringere gli organi di informazione a fornire un'immagine falsata di quella fase cruciale del processo che è l'indagine. Prevedere che il diritto di cronaca venga “differito” a quando il tumultuoso andamento delle indagini si sarà placato, e si procederà al dibattimento, significa svuotarlo di ogni significato; in realtà si è ben consapevoli che un'informazione differita di anni è un “cane da guardia” che non morde, e che, al più, abbaia inascoltato. Se è vero che il fatto esiste ove ne venga pubblicata la notizia, e che la notizia si pubblica qualora abbia una sua rilevante attualità, allora differire la possibilità di pubblicare una certa vicenda giudiziaria, significa, spesso, rinunciare di fatto a riferirne: insomma, si scrive “pubblicabile dopo”, ma si legge “pubblicato mai”338. Con il disegno di legge Mastella, sostanzialmente, riaffiorava una disciplina “proibizionistica” assimilabile a quella dettata dal codice Rocco, che imponeva il silenzio stampa già con l’avvio delle indagini. In questo modo, però, anziché bloccare il “mercato nero” della notizia processuale, lo si favoriva, determinando una degenerazione del costume giudiziario e giornalistico, i cui postumi culturali sono ancora oggi ben visibili e preoccupanti339. 335 A. CAPUTO, a cura di Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?,in Questione giustizia, 2006, p. 1221 336 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni? in Filippi, Illuminati, Leo, Profiti, Forum, a cura di Caputo, p. 1235. 337 G. GIOSTRA, Dal progetto sulle intercettazioni, cit. p.13 338 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007 339 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1236 145 Le aspre critiche della dottrina, e l’annuncio di una giornata di sciopero da parte della Federazione nazionale della stampa alimentavano la speranza che, nel corso dell'esame al Senato, il legislatore potesse tornare sui suoi passi, vietando certamente con il massimo rigore la pubblicazione di atti coperti dal segreto investigativo e di intercettazioni irrilevanti ai fini del processo, ma lasciando che fossero sempre pubblicabili le notizie - e le conversazioni - non più segrete e processualmente rilevanti340. Molte altre “ombre” del progetto di riforma sono state evidenziate dalla dottrina, a cominciare dai dubbi sull'adeguatezza dei termini massimi di durata per le operazioni di captazione e per la conservazione dei tabulati telefonici; così come poco convincente risultava la congruità dell'inasprimento sanzionatorio delineato dall'art. 684 c.p.341 Sono state, altresì evidenziate sia, in generale, la “sconcertante sciatteria lessicale” del d.d.l., frutto troppo spesso dell'influenza del linguaggio giornalistico, sia, nello specifico, l'incomprensibile necessità di distinguere normativamente intercettazioni “illecite” ed “illegittime”342. Nel complesso, va rimarcato come, il d.d.l. n. 1638, pur avendo l'innegabile merito di aver affrontato un tema particolarmente spinoso, quale il contemperamento del diritto di cronaca giudiziaria con gli altri interessi di pari rango, presentasse alcuni aspetti di “ipotutela” e altri di “ipertutela”.343 Tra i profili di ipertutela, indubbiamente, si collocava la scelta di inibire, anche dopo la caduta del segreto, la pubblicazione dell'atto, consentendo solo quella del suo contenuto: il sacrificio imposto al diritto di cronaca, per proteggere la verginità cognitiva del giudice, appariva sproporzionato rispetto al risultato desiderato, a maggior ragione tenendo presenti le altre possibili contaminazioni esterne, nonché i meccanismi procedurali, esposti in precedenza, per portare a conoscenza del giudice atti del fascicolo del p.m. Relativamente all'ipotutela, l'aspetto più grave riguarda la mancanza, nel progetto 340 FILIPPI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit. p. 1222 341 V. GREVI, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007 342 F. CAPRIOLI, XIX Convegno nazionale, cit. 343 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit. 146 di legge, di una disciplina per le notizie irrilevanti ai fini dell'accertamento penale: notizie, non solo concernenti soggetti terzi, bensì anche l'indagato e la persona offesa, che hanno diritto a non vederle pubblicate344. La normativa esaminata era di dubbia legittimità costituzionale sotto un ulteriore profilo: vi è, infatti, una domanda costituzionalmente ineludibile: a tutela di cosa si predispongono nuovi limiti al diritto di cronaca?345 Tanto la giurisprudenza della Corte costituzionale, quanto quella della Corte di Strasburgo, ci insegnano come tali limiti siano legittimi a condizione che siano posti a tutela di un bene di pari rango costituzionale: nel caso del d.d.l. n. 1638 si fa fatica a comprendere quale sia questo interesse antagonista. Non poteva trattarsi dell'interesse alla corretta formazione del convincimento giudiziale, in quanto i risultati delle intercettazioni, ove rilevanti e trascritti, confluiscono nel fascicolo del dibattimento. Non poteva essere neppure l'interesse alla salvaguardia della riservatezza di terzi a non veder pubblicate notizie su circostanze estranee alle indagini, in quanto, a tal fine, erano stati correttamente predisposti il meccanismo di selezione a “doppio filtro” e la conservazione nell'archivio riservato. Stessa cosa dicasi relativamente all'interesse alla privacy per la pubblicazione di notizie processualmente rilevanti, perché tale interesse è pacificamente ritenuto cedevole rispetto al diritto di cronaca in funzione di controllo sull'operato della magistratura. Come già evidenziato, poi, in nessun caso può essere posto quale diritto antagonista alla libertà di informazione, la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27 Cost., anche perchè ciò equivarrebbe – a voler essere coerenti - a dover sancire il totale silenzio stampa sul processo sino alla sentenza definitiva. Si ricordava persuasivamente, nel corso del dibattito, come il diritto di cronaca non fosse una materia in cui esibirsi in spericolati espedienti verbali. Se il Parlamento vuole battere la strada, incostituzionale ed antidemocratica, di un oscuramento mediatico del fenomeno giurisdizionale sino al momento del giudizio dibattimentale - vale a dire, in 344 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit. 345 G.GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit. 147 Italia, un oscuramento pluriennale – abbia il coraggio di farlo senza infingimenti e se ne assuma la responsabilità politica. Altrimenti lasci sostanzialmente immutato l'art. 114 c.p.p, poiché le avvertite e condivisibili esigenze di segretezza, vi troveranno rassicurante tutela346. Il testo normativo, oggetto di tutte le critiche esposte, il 10 giugno del 2007 iniziò il suo, breve, iter al Senato. In Commissione giustizia a Palazzo Madama347, il Relatore, on. Felice Casson, manifestò, innanzitutto, rilevanti perplessità sull’inasprimento delle sanzioni previste per i giornalisti, ritenendo la fase della pubblicazione “l’ultimo anello della catena”, dichiarando, invece, la necessità di intervenire in maniera più rigida sulle fasi precedenti, quando le intercettazioni sono sotto il controllo della polizia giudiziaria e degli uffici giudiziari. A tale riguardo, pur tenendo conto delle indicazioni positive emerse dal testo licenziato dalla Camera, il relatore sottolineò che si rendeva necessaria una disciplina più stringente, che non poteva non tenere in considerazione la citata sentenza “Dupuis” della Corte di Strasburgo del 7 giugno 2007, con la quale la Francia era stata condannata per violazione dell’articolo 10 C.e.d.u. sulla libertà di informazione. Sulla scorta della relazione esposta, vennero cancellate alcune delle modifiche introdotte all’art. 114 c.p.p.: in particolare, al comma 2, venne soppresso il riferimento agli “atti non più coperti da segreto”; per gli atti coperti dal segreto si stabiliva, invece, che il divieto di pubblicazione di cui al comma 1 dell’art. 114, cessasse nel momento in cui ne avessero avuto conoscenza l’imputato o il difensore. Infine, con la modifica al comma 7, era introdotto il divieto di pubblicazione anche parziale o per riassunto della documentazione relativa alle intercettazioni di cui sia stata ordinata la distruzione. Sotto questo punto di vista, quindi, fu sostanzialmente ripristinato il sistema attualmente vigente. La fine anticipata della legislatura, durante l'esame del testo al Senato, ne 346 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit. 347 SENATO DELLA REPUBBLICA, XV legislatura, 2 Comm., Resoconto somm. n. 87 del 20/6/2007 148 comportò il definitivo accantonamento, lasciando di fatto inalterata, una materia alla ricerca di una regolamentazione organica e, finalmente, intellegibile. 149 3. De Iure condendo : il disegno di legge Alfano A distanza di oltre dieci anni dal primo tentativo di riforma, il d.d.l. Flick del 1996, la materia delle intercettazioni non ha ancora trovato una regolamentazione costituzionalmente adeguata al rispetto dei molteplici interessi in gioco. Indubbiamente, i progetti di legge esaminati sinora presentavano profili meritevoli di attenzione, tali da consentire al legislatore in carica di ripartire dalle convergenze trovate, in particolare col disegno di legge Mastella. Il 30 giugno del 2008, il Guardasigilli, on. Alfano, ha presentato alla Camera un disegno di legge, il n. 1415, recante norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali. E' opportuno premettere, per chiarezza espositiva, che, il testo approvato al Senato in data 10 giugno 2010, ed attualmente in discussione alla Camera, diverge, in parte, da quello originariamente presentato, ed è identificato quale d.d.l. 1611/09. Lo scopo del progetto di legge, illustrato nella relazione introduttiva, dovrebbe essere quello, “consueto”, di “contemperare le esigenze investigative con il diritto alla riservatezza dei soggetti estranei alle indagini, e degli stessi indagati, con riferimento al contenuto di conversazioni telefoniche intercettate, di contenuto strettamente personale ed assolutamente irrilevante ai fini investigativi”. L'obiettivo ultimo, sotteso alla riforma in esame, è quello di promuovere nel medio-lungo periodo, un “circolo virtuoso” tra operatori giudiziari e stampa, tale da garantire la libera espressione della libertà di cronaca senza che ciò si traduca in un'indebita interferenza nella vita privata dei cittadini sottoposti ad intercettazione348. Il provvedimento si snoda lungo tre fondamentali linee di intervento: maggiori restrizioni per le intercettazioni, sia con riferimento ai presupposti, sia con riferimento 348 Relazione introduttiva d.d.l. n. 1415, Analisi dell'impatto della regolamentazione. CAMERA dei DEPUTATI, Atti parlamentari, XV legisl., Disegni di legge e relazioni, AC 1414, pag. 12 150 alle modalità di acquisizione ed utilizzo; rigidi divieti in ordine alla pubblicazione di notizie concernenti le indagini preliminari, con un sensibile aggravamento delle pene previste in caso di violazione degli stessi; introduzione di una nuova ipotesi di responsabilità amministrativa a carico degli editori che abbiano violato l'art. 684 c.p. pubblicando arbitrariamente atti di un procedimento penale349. Perfettamente condivisibile appare, dunque, la “ragione morale” della riforma, che la rende urgente ed assolutamente improcrastinabile: non necessariamente, però, alle buone intenzioni corrispondono scelte normative condivisibili350. Prima di addentrarci in considerazioni critiche generali sul disegno di legge in questione, il cui percorso, come vedremo, è assimilabile ad una “via crucis” del diritto di cronaca giudiziaria, esaminiamo, le principali modifiche dallo stesso introdotte. Innanzitutto, l'art. 1 del disegno di legge ha radicalmente modificato l'art. 114 c.p.p., delineando un divieto “assoluto” di pubblicazione, degli atti relativi alle indagini preliminari e di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero e del difensore, anche quando sia cessato il segreto istruttorio, fino alla conclusione delle indagini preliminari, o dell'udienza preliminare ove prevista. A differenza della normativa in vigore, dunque, il divieto si applica non solo agli “atti o parte di essi”, ma anche, indistintamente, al loro “riassunto e contenuto”, forme di rappresentazione che, secondo il legislatore, consentirebbero di eludere la previsione dell'attuale comma 2 dell'art. 114 c.p.p. Sul punto in esame, si profila un interessante raffronto tra quanto previsto dal d.d.l. Mastella e l'attuale progetto normativo: il primo vietava la pubblicazione parziale o per riassunto degli atti di indagine preliminare, con la previsione di un regime particolarmente stringente per le intercettazioni telefoniche, che non potevano essere pubblicate in alcuna forma fino al termine delle indagini o dell'udienza preliminare. Il disegno di legge Alfano, invece, estende il regime del divieto, previsto dal d.d.l. 349 A. BRIGNONE, Apprezzabile tutela della privacy, ingiustificata restrizione cronaca, 2009, pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.. 49 350 V. MAFFEO, La riforma in itinere delle intercettazioni, tra tutela della privacy ed esigenze dell'accertamento, in Dir. pen. e processo, 2009, p. 510 151 Mastella per le sole intercettazioni a tutti gli atti di indagine, senza distinzione alcuna. La disposizione in esame, di fatto, scardinerebbe l'equivalenza tra atti conosciuti dall'indagato ed atti non più segreti: qualsiasi atto di indagine resterebbe segreto, anche se ormai entrato nella disponibilità della parte351, e per questo sarebbe coperto dal divieto di pubblicazione, anche parziale, salvo la possibilità di pubblicarne il riassunto. Il 17 febbraio 2009, il CSM ha espresso parere contrario alla modifica del comma 2 dell'art. 114 c.p.p., in quanto ciò comporterebbe equiparare “il regime relativo agli atti coperti da segreto, con quello di atti non più segreti: una parte significativa della fase delle indagini preliminari risulterebbe sottoposta ad un regime indifferenziato di divieto di pubblicazione degli atti, anche per riassunto, con evidente compressione dei valori riconducibili all'art. 21 Cost.” 352 Anche in dottrina la disposizione in esame ha generato rilevanti perplessità in punto di legittimità costituzionale: alcune delle soluzioni adottate dal disegno di legge sembrano, infatti, confliggere fortemente con i principi da tempo affermati in sede giurisdizionale e dottrinale sul tema del “diritto di cronaca”, così da mettere a rischio la costituzionalità delle soluzioni adottate tanto sotto il profilo della loro irragionevolezza, quanto sotto il profilo del difetto di proporzionalità tra fini perseguiti e mezzi impiegati353. Il legislatore, nel contemperare gli interessi attinenti all'attività istruttoria ed alla riservatezza dei privati cittadini, con questa norma rischia di oscurare, fino ad annullarlo, il contrapposto interesse all'informazione sullo svolgimento dei processi. Del resto, come ripetutamente rimarcato, l'interesse a conoscere, ed eventualmente controllare, l'andamento dei procedimenti penali non può riguardare solo la fase dibattimentale pubblica del processo, ma anche quella delle indagini preliminari, ovviamente fatte salve le esigenze di segretezza per garantire l'efficacia delle stesse. Tuttavia, quando il segreto cade, non c'è ragione perché sia imposto il silenzio 351 A. GALIMBERTI, Tanti progetti, un solo disegno: il silenzio al giornalismo, 2009, su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti. 352 CSM, Parere su d.d.l. 1414 del 2008. deliberazione del 17.02.09, www.csm.it/circolari/090217P.pdf 353 C.F. GROSSO, CHELI, parere pro veritate inviato alla Commissione giustizia della Camera sul d.d.l. 1415 152 totale, si tratti di intercettazioni o di qualunque altro atto di indagine. Il CSM ha, invece, condiviso la portata del nuovo comma 7 dell'art. 114 c.p.p., che stabilisce, in ogni caso, quindi anche dopo la conclusione delle indagini o dell'udienza preliminare, il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti e dei contenuti relativi ad conversazioni di cui è stata ordinata la distruzione. Dopo l'esame in Commissione, il comma 7 è stato ulteriormente modificato in conformità con una proposta dell'opposizione: è stato, così, aggiunto il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta l'espunzione ai sensi dell'art. 268 comma 7-bis c.p.p. Attraverso le rilevanti modifiche apportate all'art. 268 c.p.p., il d.d.l. Alfano è intervenuto riguardo alle modalità di esecuzione delle operazioni di intercettazione, agli impianti tecnici utilizzabili, alla conservazione ed alla selezione delle intercettazioni. Il nuovo comma 3 dell'art. 268 c.p.p. stabilisce che, presso ogni distretto di Corte d'Appello, siano realizzati dei “centri di intercettazione”, dotati di impianti per la captazione delle conversazioni; le operazioni di ascolto devono essere compiute presso la competente Procura della Repubblica, o, previa autorizzazione del p.m., presso i servizi di polizia giudiziaria delegati alle indagini. Il CSM ha espresso la sua piena condivisione sia sulla distinzione in due fasi distinte delle operazioni di “registrazione” e di “ascolto”, sia sulle modalità organizzative delineate354. Più precisamente, si evidenzia in dottrina, si tratta di ben cinque distinti segmenti: captazione, registrazione, ascolto, trasferimento su supporto informatico e verbalizzazione355. L'attività di ascolto, in realtà, non è mai menzionata dalla disciplina codicistica vigente, probabilmente per gli evidenti limiti tecnologici che, nel 1988, impedivano di scindere fase dell'ascolto da quella della registrazione. 354 CSM, Parere su d.d.l. 1415 del 2008, cit. 355 G. AMATO, Scelta coerente con le finalità della disciplina di garanzia, in Guida al diritto, 2008, 40, p. 58. 153 Tuttavia, il mutato scenario tecnologico, che consente la distinzione tra le due fasi suddette, non si pone in conflitto con i limiti alla esternalizzazione delle operazioni di intercettazione posti dal comma 3 del vigente art. 268 c.p.p.356 I poteri di gestione, vigilanza, controllo ed ispezione sui centri di intercettazione e sui punti d'ascolto, è attribuita ai procuratori generali presso la Corte d'appello, ed ai procuratori della Repubblica territorialmente competenti: si delinea così un quadro gerarchico definito, per garantire maggiore sicurezza e prevenire fughe di notizie. Relativamente alle operazioni di conservazione del materiale, sulla stregua di tutti i precedenti interventi analizzati, anche il d.d.l. 1415 ha previsto l'istituzione, presso l'ufficio del pubblico ministero che ha richiesto l'intercettazione, di un archivio riservato. Rispetto al d.d.l. Mastella, nel testo in esame si prevede il divieto di allegazione, anche parziale, delle intercettazioni al fascicolo delle indagini, onde prevenire la divulgazione verso l'esterno del materiale intercettatato o del suo contenuto. Anche sul punto il CSM, constatando come si tratti di una “disposizione diretta a tutelare con la massima attenzione possibile il prodotto dell'attività di intercettazione”, ha espresso il proprio parere favorevole357. Come nel d.d.l. Mastella è prevista la designazione di un funzionario responsabile, al fine di evitare che, in caso di divulgazione illecita del materiale, ci si possa ancora rifugiare in una generica “responsabilità collettiva del sistema”. Il nuovo comma 1 dell'art. 268 c.p.p. conferma che delle operazioni di intercettazione è redatto apposito verbale, con un contenuto nettamente più ampio di quello precedentemente previsto, in particolare l'annotazione cronologica per ogni singola conversazione intercettata, dei riferimenti temporali della comunicazione, la sommaria trascrizione del contenuto e i nominativi di chi ha provveduto all'annotazione. Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni i verbali e le registrazioni devono essere trasmessi al pubblico ministero, e depositati in segreteria, per un tempo non inferiore a cinque giorni. 356 L.PISTORELLI, Le Sezioni Unite di fronte alle sfide della modernità: le pratiche di “remotizzazione” delle intercettazioni, in Cass. pen., 2009, 1, p. 30-48. 357 CSM, Parere su d.d.l. 1415 del 2008, cit. 154 I difensori delle parti, preventivamente avvisati, possono prendere visione degli atti e dei verbali ed ascoltare le registrazioni; ciò che non è più consentito, è la possibilità di estrarne copia, per prevenire divulgazioni illegittime. Ovviamente, una tale preclusione, traducibile in una lesione del diritto di difesa, ha suscitato le feroci critiche del Consiglio nazionale forense, rendendo necessario un adeguamento della “apprezzabile” ratio della norma con le esigenze proprie della difesa, soprattutto in caso di emissione di un provvedimento cautelare. Sul punto si registra una recente pronuncia della Corte costituzionale, che ha riconosciuto l'esigenza di salvaguardare la suddetta prerogativa difensiva, sancendo l'illegittimità costituzionale dell'art. 268 c.p.p., nella parte in cui “non prevede che, dopo la notificazione o l'esecuzione dell'ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni intercettate, utilizzate ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate358. Come precedentemente accennato, il d.d.l. 1415, aggiungendo due nuovi commi all'art. 268 c.p.p., è intervenuto anche nella procedura di acquisizione e selezione del materiale intercettato: il comma 6-bis vieta lo stralcio di registrazioni e verbali prima del deposito in segreteria. Il comma 6-ter dispone che, scaduto il termine per il deposito, il pubblico ministero trasmetta immediatamente i verbali e le registrazioni in tribunale, e non più al giudice delle indagini preliminari, che fissa la data dell'udienza camerale per la acquisizione delle conversazioni che non appaiano “manifestamente irrilevanti”. Lo stesso tribunale, procede d'ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione. La soluzione proposta è simile a quella prospettata dal d.d.l. Mastella: anche quella era basata su un “doppio filtro”, ma il “secondo” potere di scelta era affidato al giudice per le indagini preliminari. 358 Corte Cost., sent. 10 ottobre 2008, n. 336, con commento di L. KALB, Solo l’ascolto del “captato” assicura un pieno diritto di difesa, in Guida al diritto, 2008, 43, p. 59 155 Il nuovo comma 7 dell'art. 268 c.p.p. stabilisce che il tribunale, qualora lo ritenga necessario ai fini della decisione, dispone la trascrizione integrale delle conversazioni acquisite, da inserire nel fascicolo del dibattimento; in questo caso, i difensori, possono liberamente estrarne copia. Le registrazioni custodite nell'archivio riservato devono essere conservate fino alla sentenza definitiva, e successivamente distrutte con verbalizzazione delle operazioni. Nonostante tale previsione, è facoltà degli “interessati” di presentare, a tutela della propria privacy, istanza di immediata distruzione al tribunale che ha autorizzato o convalidato l'intercettazione. Il quadro normativo così delineato va completato con il riferimento all'art. 329 bis c.p.p., che introduce uno specifico obbligo del segreto per le intercettazioni. La norma in questione prevede che i verbali, le registrazioni e i supporti relativi alle conversazioni custoditi nell'archivio riservato, siano sempre coperti da segreto. Originariamente, il d.d.l. Alfano prevedeva l'interpolazione dell'art. 329 c.p.p., con l'estensione dell'obbligo del segreto, non agli atti di indagine, ma, ben più genericamente “all'attività di indagine”. Parallelamente si modificava l'art. 329 comma 2, sulla procedura di desegretazione, disponendo che, qualora fosse necessario per la prosecuzione delle indagini, il p.m. potesse chiedere al giudice l'autorizzazione alla “pubblicazione di singoli atti o di parti di essi” e che, in tal caso, gli atti pubblicati fossero depositati presso la segreteria dello stesso p.m. In linea teorica, una simile scelta meriterebbe apprezzamento, ove la si consideri come un tentativo di estendere la giurisdizione di garanzia alla fase delle indagini preliminari. Resta comunque il fatto che una simile previsione impegnerebbe il giudice in valutazioni che attengono la strategia difensiva, poiché la decisione sul segreto di atti o porzioni di attività, è una leva di cui oggi il pubblico ministero dispone per migliorare l'efficacia delle indagini359. L'intervento di riforma presenta significative novità in tema di sanzioni penali: in 359 V. MAFFEO, La riforma in itinere, cit., p. 511 156 risposta alla blanda disciplina sanzionatoria prevista nel codice, che si sostanzia nella “stucchevole prassi dei versamenti per oblazione”, una sorta di tassa che i giornalisti pagano quando sussiste l'occasione di sfruttare informazioni riservate, il d.d.l. inasprisce notevolmente le pene, incidendo tanto sugli artt. 684 e 379 bis c.p., quanto sull'art. 115 c.p.p. Più specificatamente, l'art. 379 bis c.p. prevede pene severe, da uno a cinque anni di reclusione, per i pubblici ufficiali che rivelino illecitamente il contenuto di atti o documentazione del procedimento penale coperti da segreto; se il delitto è colposo, la reclusione è fino ad un anno. La norma in esame appronta una tutela penale fondata sull'accesso “qualificato” ad atti del procedimento penale, in termini di specialità rispetto all'art. 326 c.p., che invece riguarda più in generale la rivelazione e l'utilizzazione dei segreti d'ufficio. Il CSM ha espresso una valutazione positiva della fattispecie così delineata, in quanto diretta a rafforzare la tutela della segretezza delle indagini, che costituisce condizione indispensabile per la buona riuscita delle investigazioni, e, al contempo, tutela la dignità delle persone che, a diverso titolo, sono in esse coinvolte. Al contempo, però, il CSM ha criticato l'introduzione della rilevanza penale della condotta suddetta in caso di “colpa”: una previsione siffatta non tiene conto delle note condizioni di lavoro dei magistrati e del personale amministrativo, determinate da carenze d'organico e strutture inidonee360. Si interviene poi a riformulare l'art. 684 c.p.: pur senza mutarne la natura contravvenzionale, si prevede un sensibile innalzamento delle pene per la pubblicazione di atti di un procedimento penale, o in caso di violazione dei divieti di cui all'art. 114 comma 6-ter, introducendo altresì un'aggravante specifica nell'ipotesi in cui la pubblicazione riguardai intercettazioni, con la pena da uno a tre anni. Nella sua formulazione originaria era previsto l'arresto fino a sei mesi, “e” un'ammenda, non più alternativa, bensì congiunta alla pena detentiva, precludendo così la possibilità di estinguere il reato con la richiesta di oblazione. 360 CSM, Parere su d.d.l. 1415 del 2008, cit. 157 Le polemiche suscitate dalla previsione suesposta hanno spinto il Governo ad una vistosa retromarcia, ripristinando così il precedente massimo edittale di pena, trenta giorni di arresto, e soprattutto l'alternatività tra pena detentiva e pecuniaria. Allo stesso modo, l'Esecutivo ha drasticamente ridotto la pena “aggravata” per la pubblicazione di intercettazioni: non più da uno a tre anni di arresto, ma un massimo di trenta giorni oltre il limite edittale previsto. Se la condotta di cui sopra è posta in essere da impiegati dello Stato o altri enti pubblici, ovvero da persone esercenti una professione per cui sia richiesta un'apposita abilitazione, si configura anche l'illecito disciplinare di cui all'art. 115 c.p.p. Il comma 2 della disposizione in esame stabilisce a carico della procura procedente, un obbligo di informazione all'organo detentore del potere disciplinare, che potrà disporre la sospensione cautelare sino a tre mesi. Sul punto è stato evidenziato come la sanzione non sarebbe applicabile ai giornalisti, in osservanza dell'art. 58 legge n. 69 del 1963, sull'ordinamento professionale, che impedisce al competente organo l'adozione di qualsiasi provvedimento prima della conclusione del processo. Il CSM ha giudicato non condivisibile la misura in esame, in quanto “appare avulso dal sistema processuale introdurre previsioni inerenti ai procedimenti disciplinari riguardanti diverse categorie professionali nel corpo del codice di procedura penale, cui spetta l'univoca ed esclusiva disciplina del procedimento penale”. Inoltre, col chiaro intento di reprimere ogni abuso, il d.d.l. Alfano ha introdotto nel d.lgs n. 231 del 2001 una specifica forma di responsabilità amministrativa degli enti in relazione alla violazione dell'art. 684 c.p. La sanzione correlata prevede una pena pecuniaria da 250 a 300 quote: ciò significa che, nelle ipotesi più gravi, le aziende potrebbero essere tenute a versare circa 465.000 euro361. L'entità della sanzione pecuniaria ipotizzata rischia di interferire fortemente sui rapporti tra editore e direttore del giornale, determinando l'imposizione, o addirittura la 361 F. ABBRUZZO, con il ddl intercettazioni tramutato in legge,cronaca giudiziaria destinata a scomparire, in Guida al diritto, 2008, 40, p. 107 158 precostituzione, da parte della proprietà di limitazioni o vincoli per il direttore stesso, tali da indebolire fortemente, se non annullare, la sua autonomia nella conduzione del giornale362. Inoltre, la disposizione in esame non sembra sottrarsi a profili di incostituzionalità: la responsabilità a carico degli editori per le scelte dei direttori e dei giornalisti configura una forma di responsabilità oggettiva, di per sé incostituzionale, salvo che la responsabilità dell'editore stesso sia ancorata ad una specifica colpa a lui riferibile363. L'art. 617 c.p.p è stato riformulato, prevedendo la reclusione da uno a tre anni, per chiunque pubblichi intercettazioni di cui sia stata ordinata la distruzione, ovvero che riguardino fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, e di cui sia stata pertanto disposta l'espunzione. Il provvedimento di riforma in esame, infine, introduce anche alcune modifiche all'art. 8 legge n. 47 del 1948, c.d. legge sulla stampa, relativamente al procedimento di rettifica di informazioni ritenute non veritiere o lesive della reputazione degli interessati, diffuse attraverso trasmissioni radiofoniche, televisive, siti internet e stampa non periodica. Per i primi tre mezzi di divulgazione, la rettifica va effettuata entro quarantotto ore dalla data di ricezione della richiesta. Per la stampa: l'autore dell'articolo, o i direttori responsabili, provvedono a proprie spese, alla pubblicazione su almeno due quotidiani a tiratura nazionale, indicati dalla persone lese nella loro richiesta di rettifica, delle dichiarazioni o delle rettifiche di questi ultimi, con idonea collocazione e caratteristica grafica, entro sette giorni dalla richiesta. Sono approntate, infine, modifiche al codice della privacy, in particolare sul profilo dei poteri sanzionatori del Garante, cui è consentito di imporre, a tutela della riservatezza, la pubblicazione o la diffusione in una o più testate, della decisione con cui si è accertata una violazione. 362 C.F. GROSSO, CHELI, parere pro veritate , cit. p. 19 363 C. MALINCONICO, A rischio il diritto di cronaca, se passassero le nuove norme, 2009, pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti,p. 121 159 Il disegno di legge, sin dall'inizio, ha raccolto pesanti critiche e suscitato allarmi da parte dei più disparati settori degli operatori di giustizia e dell'informazione, a causa delle scelte discutibili che vi sono contenute364. Nel d.d.l. n. 1638 del 2006, di iniziativa del ministro Mastella, complessivamente un buon testo, c'era una norma che ridisegnava i limiti della cronaca giudiziaria: una norma pessima, per contenuti e fattura. Nel d.d.l. n. 1415 del 2008, noto come d.d.l. Alfano, complessivamente un testo assai opinabile, c'è una norma che ridisegna i limiti della cronaca giudiziaria: una norma pessima, per contenuti e fattura, che di quella “mastelliana” porta avanti, “affinandone i difetti”, il proposito politico365. Infatti, il d.d.l. Alfano, come visto, introduce limiti alla cronaca giudiziaria ben più rigorosi di quelli previsti dalla disciplina tutt'oggi vigente; il che, tradotto nella prassi, significherebbe calare una “saracinesca giornalistica” sull'intera fase delle indagini preliminari.366 In altri termini, se il disegno dovesse diventar legge, si determinerebbe uno spazio, temporalmente molto ampio, durante il quale la pubblica opinione non potrebbe saper nulla, assolutamente nulla, dell'attività di contrasto alla criminalità, della gestione delle indagini, dell'attività degli organi di stato e tantomeno delle condotte delle persone cui il reato è attribuito367. Lo scopo “dichiarato” della riforma, si è già evidenziato, dovrebbe essere quello di scongiurare gratuiti e grossolani attentati alla privacy dei cittadini, soprattutto se estranei al procedimento368. Il sospetto, però, è che la buona causa invocata per giustificare l'intervento novellistico – scongiurare “gratuite” offese alla privacy – sia soltanto una maschera maldestramente indossata nel tentativo di celare assai meno apprezzabili propositi369. 364 V. GREVI, La giusta disponibilità di Alfano sul decreto intercettazioni, in Il Corriere della sera, 7 luglio 2009, p. 36 365 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 101 366 V. GREVI, Sos per la cronaca giudiziaria, in Il Corriere della sera, 16 febbraio 2009, p. 22 367 G. ALTIERI, Non si potrebbe scrivere nulla anche in presenza di un arresto, 2009,pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.35 368 Relazione del Ministro Alfano, Camera dei deputati, 30 giugno 1008, dal sito www.cameradeputati.it 369 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit., p. 102 160 Da qui il tentativo di rimandare la pubblicazione di tutti gli atti di indagine ad un momento in cui, si presume, il precario e tumultuoso andamento delle indagini si sarà placato. Abbiamo già chiarito come una cronaca differita nel tempo, sia, di fatto, svuotata di ogni significato e funzione. Prescindendo per un istante dai molteplici dubbi di legittimità costituzionale di un disegno di legge che, in caso di approvazione costituirebbe l'eclissi del diritto di cronaca giudiziaria, risulta, quantomeno poco verosimile che un sistema tanto restrittivo trovi effettivamente riscontro ed applicazione nella prassi. Il rischio è che si possa favorire la formazione di canali privilegiati di notizie, con una grave degenerazione del costume giudiziario e giornalistico: si infittirebbe la trama delle indiscrezioni, accorti cronisti potrebbero eludere i divieti ricorrendo a velate formule del tipo “da ambienti bene informati si è appreso che” e così via. Il risultato, dunque, potrebbe essere non un'informazione che divulghi un minor numero di notizie, bensì un'informazione giudiziaria che, fatalmente, fornisca notizie meno trasparenti e meno attendibili370 . La sensibile estensione del divieto di pubblicazione anche agli atti non più coperti da segreto, farebbe tornare indietro di molti anni, all'epoca di vigenza del codice Rocco, e bisognerebbe invece far tesoro di quella fallimentare esperienza371. Ma l'aspetto più preoccupante, se la riforma dovesse essere approvata, è che la cronaca risulterebbe quasi completamente estromessa dalle vicende giudiziarie, con un gravissimo danno per il diritto dell'opinione pubblica ad essere informata su fatti di rilevanza penale, e sul modo in cui operano i poteri pubblici 372, con conseguente, grave, “pericolo per la tenuta dell'ordine democratico”373. La cronaca giudiziaria è un servizio pubblico, che consente ai cittadini di 370 Ancora, G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit., p. 102 371 V. GREVI, Sos per la cronaca giudiziaria, cit. p. 22 372 C. BONINI, Si cerca di chiudere i conti con i poteri di controllo, 2009, pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.43 373 E. FORTUNA, Giusto limitare le intercettazioni, ma non imbavagliare la stampa, 2009, pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p. 99 161 conoscere chi, e per quale motivo, abbia eventualmente agito contro le leggi, e soprattutto di “valutare la reazione dello Stato, la correttezza dell'esercizio della funzione giudiziaria e dell'amministrazione della giustizia374. Giurisdizione ed informazione operano oggi un reciproco controllo: ogni giorno i mezzi di informazione passano sotto la lente di ingrandimento procedure e decisioni dei magistrati, rivelandone ritardi, manchevolezze ed errori, mentre, pubblici ministeri e giudici perseguono e sanzionano eccessi, distorsioni ed abusi dell'informazione che ledono beni essenziali del cittadino, primi tra tutti quelli dell'onore e della reputazione375. Queste considerazioni inducono a ritenere la soluzione normativa prospettata inaccettabile sul piano dei principi costituzionali, ispirati al criterio della proporzionalità e della necessità delle reciproche limitazioni. La nuova disciplina, che praticamente impone un black out dell'informazione sino alle soglie del dibattimento, appare costituzionalmente indifendibile, culturalmente regressiva e destinata all'ineffettività376. Le stesse considerazioni, ampiamente sviluppate nel paragrafo precedente, relative alla necessità di rinvenire per il d.d.l. Mastella l'interesse costituzionalmente garantito e antagonista col diritto di cronaca, possono essere, sinteticamente ribadite per il d.d.l. n. 1415. L'interesse salvaguardato dal d.d.l. Alfano non si può certamente ricercare nella volontà di proteggere il libero convincimento del giudice da condizionamenti mediatici: paradossalmente, infatti, con la riforma in esame si allenterebbe la rigida morsa del divieto di pubblicazione di atti di indagine con l'avvio della fase dibattimentale, proprio quando il rischio condizionamento si fa concreto ed attuale. Allo stesso modo, l'interesse antagonista non può rinvenirsi nell'intento di evitare la diffusione di notizie processualmente irrilevanti, in quanto, per tale esigenza, è appositamente delineato un sofisticato meccanismo di selezione delle conversazioni 374 L. DEL BOCA, L'informazione è essenziale alla difesa delle istituzioni, 2009,pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.73 375 N. ROSSI, Giustizia e informazione:poteri infedeli, poteri nemici?, in Questione giustizia, 2008, Giuffrè, p. 113 376 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 103 162 rilevanti. Neanche la tutela della privacy potrebbe giustificare una siffatta compressione del diritto di cronaca, posto che, come evidenziato, tanto la Corte Costituzionale, quanto la Corte di Strasburgo, lo abbiano considerato “cedevole” rispetto alla pubblica trasparenza dell'informazione giudiziaria. A tal proposito, si evidenzia come il d.d.l. Alfano sia in palese contrasto con le indicazioni fornite dalla Corte europea nella sentenza Dupuis: d'altronde, volgendo lo sguardo alle tradizionali democrazie europee, non vi sono altri tentativi così severi di tacitare la stampa in un ambito cruciale come quello della giustizia penale377. Dopo oltre sette mesi di attesa nei cassetti della Commissione giustizia di Montecitorio, il d.d.l. n. 1415, presentato alla Camera il 30 giugno 2008, ha ricevuto, nel febbraio 2009, un'improvvisa accelerazione del suo itinerario, venendo approvato quale testo base dalla suddetta commissione in sede referente, anche sulla scorta di vari emendamenti, giungendo, infine, all'esame dell'assemblea il 23 febbraio 2009. Nel nuovo provvedimento è stato presentato un maxiemendamento sostitutivo di 23 articoli rispetto al testo presentato in Commissione giustizia, su cui il Governo ha posto ed ottenuto la fiducia della Camera. Le modifiche apportate, recependo sia le indicazioni introdotte durante l'esame in sede referente, sia gli emendamenti approvati dal Comitato dei nove, hanno “lievemente” ammorbidito le previsioni relative al divieto di pubblicazione, e le sanzioni connesse alla loro violazione, ma senza placare le proteste dei giornalisti e degli editori. Fermo restando il divieto di pubblicazione degli atti coperti da segreto, il punto di riferimento cronologico per tutti gli altri documenti diventa la conclusione delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare: fino a quel momento, degli atti non più coperti da segreto è consentita la sola pubblicazione per riassunto, salvo che per le intercettazioni che non possono essere pubblicate, né integralmente, né per riassunto, né per contenuto. Il rischio del carcere per i giornalisti che violano i nuovi divieti di pubblicazione 377 A. KONIG, Ddl viola i principi di libertà di stampa, Italia fuori da democrazia europea, 2009,pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.43 163 permane “solo” per l'ipotesi di divulgazione di materiale del quale sia ordinata la distruzione, in quanto irrilevante o espunto dal procedimento, perchè concernente fatti, circostanze o persone estranee alle indagini. Dopo l'approvazione da parte della Camera dei deputati, il 12 giugno 2009 il provvedimento è approdato Commissione giustizia del Senato, in sede referente. Il 10 giugno 2010, in un clima estremamente teso, contrassegnato dalla dura reprimenda del Sen. Li Gotti ( Idv ), e dall'uscita dall'aula di tutti i senatori del PD, il Governo ha ottenuto la fiducia sul d.d.l. Alfano, con 164 voti favorevoli e 25 contrari, dopodiché il testo, con le modifiche apportate, è tornato alla Camera, ma non è stato ancora oggetto di esame e votazione. Prima di arenarsi per le violente proteste politiche e dei rappresentanti della stampa, al testo in esame era stato attribuito lo “sprezzante” appellativo di “legge bavaglio”, dell'informazione; la si descriveva come una legge “illiberale posta a salvaguardia della casta di governo, teorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza”,378 o ancora “tentativo liberticida della stampa”379, finalizzata a “difendere la privacy del potere”380. Non si sta sostenendo che l'auspicata riduzione dell'area del divieto di pubblicazione ci metta di per sé al riparo dal rischio che la cronaca giudiziaria possa essere talvolta approssimativa, scandalistica, servile, lacunosa, allarmistica. Ma ciò che bisogna avere sempre chiaro è che sarebbe nefasto pensare di migliorare l'esercizio del diritto di cronaca imponendogli ulteriori restrizioni. L'unico serio antidoto ad una informazione inadeguata, o peggio manipolatrice, è un'informazione libera e plurale; occorre garantire il pluralismo delle faziosità. Perché i mali della libertà di stampa – e ce ne sono di gravi – si curano soltanto per via omeopatica: con incrementi ulteriori della stessa libertà381. “La sola cosa più importante del rendere giustizia, è il vedere come il giudice la rende”382. 378 E. MAURO, Il perchè di una pagina bianca, da www.repubblica.it 379 E. SCALFARI, Lo spettro del bavaglio e della deflazione, da www.repubblica.it 380 R. SAVIANO, Legge bavaglio, ecco perchè fermarla, da www.repubblica.it 381 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 107 382 F. CORDERO, Procedura penale, cit. p. 1138 164 Da questa premessa si sarebbe dovuto muovere il legislatore nei vari tentativi di riforma sin qui evidenziati; invece, purtroppo, “è andato lungo”, 383 e non ha saputo resistere ad uno slancio emotivo, tipico di questa democrazia emozionale in cui viviamo. E così, in un decennio caratterizzato da numerosi casi di cronaca giudiziaria che hanno riempito pagine di giornali e palinsesti televisivi, si è avvertita, sempre più forte in politica, l'esigenza di apprestare tutela al diritto ad “essere lasciati soli”, al diritto alla privacy. Quello che il legislatore non ha saputo, o in alcuni casi non ha voluto, affrontare nei “necessari” progetti di riforma, è il delicato problema del bilanciamento tra interessi garantiti, propendendo invece per un tendenziale sacrificio del diritto di cronaca, a beneficio, rispettivamente, delle esigenze processuali e del diritto alla riservatezza. Quello che il legislatore ha, invece, “dimenticato” è che esistono delle “istruzioni per l'uso”, fornite dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Strasburgo, a cui attenersi. In tempi recentissimi, il “polverone mediatico” prodotto dallo scandalo “P4”, e dalle intercettazioni di numerose conversazioni tra esponenti politici e imprenditori, con la mediazione del lobbista Luigi Bisignani, arrestato dalla Procura di Napoli il 15 giugno 2011, ha, inesorabilmente, riportato a galla la mai sopita crociata del Governo in carica contro le intercettazioni, e soprattutto contro la loro pubblicazione. Così, il giorno successivo alla Relazione del Garante in Parlamento, in cui il Prof. Pizzetti, intervenendo sulla “pornografia del dolore” in riferimento ad un certo sciacallaggio mediatico sulle vicende di Avetrana e Brembate, pur stigmatizzando duramente taluni eccessi, ha raccomandato al legislatore di “evitare risposte d'impeto, che potrebbero danneggiare la struttura democratica della Società”, si è registrato un brusco “ritorno di fiamma” per la legge bavaglio. Infatti, il 24 giugno 2011, prima il ministro degli Esteri Franco Frattini, poi il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, hanno evidenziato la necessità di tornare sulla strada intrapresa col d.d.l. n. 1415 del 2008. La sensazione diffusa è che si voglia approfittare - sulla scia emotiva di alcune 383 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007 165 clamorose vicende che hanno visto i mass media gremirsi di verbali di intercettazioni telefoniche - per “sterilizzare la funzione della cronaca giudiziaria”384. Non si nega la necessità di intervenire sulla disciplina della divulgabilità degli atti; ma per farlo, sarebbe necessario e sufficiente prevedere che le conversazioni intercettate restino segrete, non già fino al deposito, ma fino a quando il giudice non abbia selezionato in contraddittorio quelle rilevanti. Dopodichè, basterebbe precisare che le irrilevanti rimangono coperte dal segreto per estendere automaticamente anche ad esse il divieto di pubblicazione di cui all'art. 114 comma 1 c.p.p., che appunto concerne gli atti coperti dal segreto, prevedendo altresì la soppressione dei commi 2 e 3385. Si delineerebbe così, una scelta chiara e costituzionalmente ineccepibile, spazzando via, in un settore delicatissimo come quello del diritto di cronaca, tutte quelle zone grigie di “semisegretezza”, in cui prosperano l'arbitrio e le connivenze386 . 384 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007 385 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 102 386 G. 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