capitolo 1

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CAPITOLO 1
LA CRONACA GIUDIZIARIA: PROFILI PROBLEMATICI
1. La cronaca giudiziaria nella Costituzione
Il rapporto fra giustizia e informazione è oggetto di continui - e, a tratti, aspri contrasti, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Le diversità di approccio al tema in esame discendono, verosimilmente, dalla
presenza di interessi eterogenei e contrapposti di rango costituzionale. Gli interessi
costituzionalmente garantiti che vengono in considerazione sono almeno tre: l'interesse
alla corretta amministrazione della giustizia, l'interesse all'informazione, scindibile in
quello del cittadino ad essere informato e in quello della stampa e degli altri mezzi
d'informazione ad avere e divulgare notizie relative ad un processo; infine, l'interesse di
ogni persona a veder tutelate la sua dignità, la sua immagine, la sua riservatezza1.
Un soddisfacente punto di equilibrio tra gli interessi sopra delineati appare di
difficile rinvenimento, anche in considerazione del fatto che tanto la Costituzione, quanto
le fonti sovranazionali non stabiliscono alcuna gerarchia tra i valori in gioco, rendendo
necessario un indirizzo ermeneutico duttile ed articolato, basato sull'idea centrale del
bilanciamento tra contrapposti interessi giuridici, necessariamente limitati in modo
reciproco dalla loro stessa coesistenza2.
Innanzitutto, al fine di ricercare il suddetto equilibrio, è necessario sforzarsi di
formulare una definizione “costituzionalmente orientata” del diritto di cronaca: la cronaca
è un'attività intellettuale, una forma di esplicazione del pensiero riconducibile al dettato
dell'art. 21 Cost., come tale appartenente al sistema costituzionale dei diritti di libertà.
1 G. PISAPIA, - “Comunicazione e privacy”, Tavola rotonda sul tema “Giustizia e informazione: i diritti
della persona” (Milano, 21 aprile 1994), in Aa.Vv. Giustizia e informazione: diritti della persona, The
International Association of Lions Club, 1994, p. 23.
2 VESPA – VALENTINI - PANSA, Il diritto dell'informazione e dell'informatica, nota a sent. Trib.
Roma 11 febbraio 1993, Giuffrè, p. 413
1
Il diritto di cronaca ha l’insostituibile funzione di raccogliere e diffondere le
informazioni, in virtù del “rapporto privilegiato” che gli organi di informazione vantano
con la realtà, allo scopo di consentire alla collettività un corretto e consapevole esercizio
della sovranità che le è riconosciuta dall’art. 1 della Costituzione3.
In particolare, la funzione della cronaca “giudiziaria”, che si occupa di dare conto
delle vicende processuali che discendono da eventi criminosi, è quella di consentire ai
consociati di formarsi una corretta opinione circa i fatti, le responsabilità penalmente
rilevanti e l'operato degli organi giudiziari.
La Corte costituzionale ha fornito una propria ricostruzione del diritto di cronaca,
definendo la libertà di informazione come “la chiave della democrazia”, indispensabile
per una consapevole valutazione dei comportamenti dei componenti della società ed, in
particolare, di chi esercita funzioni pubbliche4.
Un convincimento che la Consulta ha ribadito in una successiva pronuncia,
definendo il ruolo svolto dalla stampa “uno strumento essenziale delle libertà di cronaca e
d’informazione, cardini del regime di democrazia garantito nella Costituzione”5.
Questa sorta di “funzione sociale”6 dell'informazione ne evidenzia il ruolo
imprescindibile, in qualità di “watchodog”7 della democrazia.
In tale prospettiva, appare ragionevole considerare il controllo popolare sul potere
come un presupposto indefettibile dell’essenza stessa della democrazia; ne discende,
quale logica conseguenza, che il vaglio sociale deve essere consentito non solo nei
confronti del potere di governo e di quello legislativo, in rapporto ai quali è
tradizionalmente concepito, ma, a maggior ragione, nei confronti del potere giudiziario.8
Non mancano, infatti, casi di iniziative giudiziarie coraggiose portate a termine
grazie al sostegno della stampa; di contributi decisivi alle indagini riportati, suggeriti o
A. TOMANELLI, Diritto di cronaca, in www.difesadellinformazione.com.
Corte cost., 10 luglio 1974, n. 222; Corte cost. 15 giugno 1972, n. 105.
Corte cost., 28 gennaio 1981, n. 1.
O. FLAMMINII MINUTO, relazione al Convegno “ La segretezza delle indagini del pubblico
ministero ed il diritto di cronaca e informazione della stampa”, Roma, 1998, p. 27
7 L FILIPPI, La sentenza Dupuis c. Francia: la stampa “watchdog” della democrazia tra esigenze di
giustizia, presunzione di innocenza e privacy, in Cass. pen., 2008, p. 823
8 P. ONORATO, Potere giudiziario e opinione pubblica, in Giust. e inf., 1975, p. 457.
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raccolti dagli organi di informazione; di insabbiamenti o di torbide manovre diversive
smascherati da inchieste giornalistiche9.
Il processo penale costituisce un momento topico della verifica e del controllo
pubblico, sia individuale che collettivo, sui comportamenti degli altri componenti della
società, e dei potenti in particolar modo10.
Attraverso gli organi di informazione, la collettività può conoscere e controllare il
modo in cui viene resa giustizia, e ciò le consente
di accettare la res iudicata:
l’insostituibilità della cronaca giudiziaria discende dalla considerazione che, in un
ordinamento democratico moderno, è inconcepibile una giustizia segreta, e che questa
forma di pubblicità “mediata” del processo - come vedremo più avanti - è
sostanzialmente l’unico strumento che consente la cognizione dei fatti giudiziari ad un
numero indeterminato di persone, impossibilitate a partecipare direttamente alle udienze
dibattimentali.
Nessun potere, infatti, può essere legibus solutus, e non essendo opportuno che
quello giudiziario dipenda da altri poteri, sottoporlo al controllo dell'informazione
significa sottoporlo al controllo della collettività nel cui nome viene esercitato, evitando
altri tipi di subordinazione.
La dottrina, dunque, riconduce il diritto di cronaca al diritto di manifestazione del
pensiero, specificando altresì come, assieme al diritto di critica, ne costituisca una facoltà
11
.
Nel momento in cui si attribuisce all’art. 21 Cost. il significato di una “garanzia
della libertà di informare”, si realizza un salto qualitativo rispetto alla semplice libertà di
manifestare il proprio pensiero, perché si caratterizza il dettato costituzionale non
semplicemente in funzione dell’interesse di chi utilizza il mezzo di diffusione, ma altresì
in funzione dell’utilità di un prevedibile destinatario della comunicazione; è una
manifestazione del pensiero che diventa “veicolo di un messaggio immediato, strumento
9 A rilevarlo G. GIOSTRA, Processo penale e informazione, Giuffrè, 1989, p. 20
10 C. DE MARTINO, Cronaca giudiziaria e presunzione di innocenza, in AA. Vv., Il diritto
dell'informazione e dell'informatica, Giuffrè, p. 203.
11 A. PACE - F. PETRANGELI, Diritto di cronaca e diritto di critica, Cedam, 2004, p. 3
3
di coesione e di crescita della collettività”12.
Si registrano, comunque, isolate voci di dissenso rispetto alla suddetta tesi, che
configurano il diritto di cronaca come un diritto a sé stante, partendo dalla opinabile
considerazione che l'art. 21 Cost. si riferisca alla “manifestazione del proprio pensiero, e
non alla pura e semplice narrazione di un fatto”, che non presenterebbe quel connotato di
“creatività” da taluni ritenuto essenziale per l'appartenenza alla categoria in esame13.
Quest’ultima ricostruzione presta il fianco a rilevanti obiezioni di carattere
generale; su tutte, quella che non può esistere un'esposizione pura e semplice di
avvenimenti del tutto scevra di un minimo di valutazione e quindi di attività di pensiero
strettamente intesa14, desumibile anche, semplicemente, dalla scelta dell'avvenimento su
cui si intende scrivere.
Da un punto di vista giuridico il pensiero è proprio di chi lo manifesta, anche se
questi riporta il pensiero di un altro15: il diritto di cronaca trova la sua collocazione
nell'art. 21 Cost., e va riconosciuto a chi narra fatti o esprime un pensiero utilizzando un
mezzo tecnicamente idoneo ad informare una cerchia indeterminata di persone.
Nelle pronunce della Corte costituzionale è pacifica la riconducibilità del diritto di
cronaca nell'alveo dell'art. 21 Cost., e l'impraticabilità di una distinzione tra
manifestazione del pensiero e esercizio del diritto di cronaca in senso stretto: “il principio
costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero comprende logicamente la libertà
di cronaca”16.
La stessa Corte afferma l'esistenza di “un interesse generale, anch'esso
indirettamente protetto dall'art. 21 Cost., all'informazione, il quale, in un regime di libera
democrazia, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime,
assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e
12 N. LIPARI, Libertà di informare o diritto ad essere informati?, in Diritto delle radiodiffusioni e delle
telecomunicazioni, 1978, p. 3.
13 V. PERCHIUNNO, Fondamento e legittimità costituzionale del divieto di pubblicazione di determinati
atti del procedimento penale, in Archivio penale, 1967, p. 274
14 S. FOIS, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero,1957, p. 200
15 A. PACE-F. PETRANGELI, Diritto di cronaca, cit. p. 4
16 Corte cost., 10 febbraio 1981 n. 16
4
delle idee”17.
Il diritto di cronaca si declina in due distinte componenti: una “attiva”, ossia il
diritto di informare, l'altra “passiva”, cioè al diritto ad essere informati.
L'interesse pubblico ad essere informati “precede” logicamente il diritto ad
informare, tanto da configurare, secondo la dottrina più recente, un vero e proprio diritto
soggettivo; la dottrina più risalente configurava, invece, il versante passivo della libertà di
informazione solo come un mero interesse, non azionabile dagli aventi diritto e non
tutelabile in sede giudiziaria.
Questa dimensione “recettiva” della libertà di informazione presuppone che la
circolazione delle notizie non sia rimessa alla libera disponibilità di chi le detiene18.
Una volta collocato il diritto di cronaca in quello più ampio di manifestazione del
pensiero, è necessario affrontare il conflitto tra cronaca e riservatezza, particolarmente
in relazione allo strumento delle intercettazioni, che, della nostra dissertazione costituisce
un imprescindibile àpeiron: la dignità umana è inviolabile, pertanto deve essere rispettata
e tutelata; la dignità è divenuto il parametro per la valutazione della liceità del trattamento
dei dati personali in ambito giornalistico di cui al Codice deontologico della stampa del
1998, che si propone di bilanciare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei
cittadini all'informazione e con la libertà di stampa.
Per tale ragione, il diritto di cronaca deve essere contemperato con l'esigenza di
tutelare beni inviolabili: “la tutela giurisdizionale dei diritti ha sempre un limite
insuperabile nell'esigenza che, attraverso l'esercizio di essi, non vengano sacrificati beni
ugualmente garantiti dalla Costituzione”19.
Stando al dettato dell'art. 21 Cost., l'unico limite apposto al diritto di cronaca
sembrerebbe essere quello del buon costume, l’unico esplicitamente sancito dalla norma;
la riflessione dottrinaria ne ha individuati di ulteriori, distinguendoli in limiti “esterni” e
limiti “interni”.
17 Corte cost. n. 105 del 9 giugno 1972
18 F.M. GRIFANTINI, Cronaca giudiziaria e principi costituzionali, in G. GIOSTRA ( a cura di),
Processo penale e informazione:proposte di riforma e materiali di studio, 2001, p. 61
19 Corte Cost. n. 19 del 16 marzo 1962
5
I limiti “esterni” emergono dal raffronto con altri interessi costituzionalmente
garantiti20; quelli “interni” al diritto di cronaca sono stati fissati dalla corte di Cassazione,
nella la c.d. “sentenza decalogo” sulla libertà di stampa, e quindi sul diritto di cronaca e
critica.21
Con quella pronuncia, la Suprema Corte ha fissato i criteri cui i giornalisti devono
uniformarsi per potersi configurare la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca
rispetto al reato di diffamazione: verità, pertinenza e continenza.
Il parametro della verità esprime la necessità della corrispondenza al vero tra i
fatti accaduti e i fatti narrati.
La giurisprudenza della Suprema Corte ne ha delineato in modo analitico il reale
significato e la portata, ritenendo che la verità obiettiva dei fatti possa essere equiparata
alla “veridicità” del fatto narrato22; con specifico riferimento alla cronaca giudiziaria si è
affermato che “la verità storica può divergere da quella accertata in sede giudiziaria, dati i
diversi strumenti e i diversi fini che caratterizzano i due accertamenti e i relativi giudizi”
23
.
La pertinenza indica, invece, l'interesse dell'opinione pubblica alla divulgazione
dei fatti narrati, mentre la continenza coincide con la correttezza nell'esposizione della
notizia, in modo da evitare gratuite aggressioni all'altrui reputazione.
In assenza anche di uno solo di questi requisiti il diritto “compresso” risorge in
tutta la sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione del pensiero.
La funzione delle c.d. exceptiones veritatis è ricavabile dalla natura giuridica delle
stesse: infatti, come è stato evidenziato, almeno le prime due ipotesi sono qualificabili
come scriminanti; su questo punto non sembra siano ammessi dubbi, d’altronde le
scriminanti non sono altro che espressioni di un bilanciamento di interessi operato in
concreto sulla base di categorie astratte modellate dal legislatore; se ciò è vero, non v’è
chi non veda come la tutela dell’onore, “ceda il passo” alla libera manifestazione del
20 F. MANTOVANI, Mezzi di diffusione e tutela dei diritti umani, in Archivio giuridico, 1968, p. 376
21 Cass. Civ. Sez. I, 18 ottobre 1984,n. 5259, Granzotti, FI, 1984,I, 2711
22 Cass., 17 marzo 1980, Causarano, in Cass. Pen. 1981,186 - CONTRA: G. VASSALLI, Libertà di
stampa e tutela penale dell'onore, in Arch. Pen., 1967, I, 31
23 Cass. Sez. III, 16 luglio 1981, Caprara, Rv 151080
6
pensiero, ed in particolare al diritto di essere informati24.
Certamente individuare i confini del diritto di cronaca è un’operazione non
semplice: si rischia da un lato di introdurre limiti non previsti dalla Costituzione, e
dall’altro di assicurare tutela costituzionale ad espressioni del pensiero che non ne sono
meritevoli25.
Concentrandoci sui limiti esterni ci si interroga su quali beni di rango
costituzionale vi siano ricompresi; in linea generale, in caso di antinomia tra interessi
costituzionali collidenti, la loro composizione non può essere rimessa in modo arbitrario
al legislatore ordinario.
Non tutte le soluzioni individuabili sono legittime alla luce della Costituzione: ad
esempio, mancando un'espressa relazione di subalternità, non è invocabile il sacrificio
totale dell'uno rispetto all'altro.
Tanto premesso, il legislatore ordinario supererebbe la soglia del costituzionalmente
garantito se disponesse limitazioni del diritto di cronaca che non tornino a vantaggio del
bene costituzionale antagonista..
L'eventuale incostituzionalità dei limiti posti, allora, non colpisce la limitazione in
quanto tale, bensì l'eccessiva estensione oggettiva, soggettiva o temporale del limite
stesso26.
Negli ultimi tempi, stante il susseguirsi di processi penali di ampia risonanza
mediatica, vanno consolidandosi istanze personalistiche a tutela della riservatezza: se
elevarne la soglia di protezione finirebbe per escludere ogni forma di controllo della
collettività sull'amministrazione della giustizia, d’altra parte un incondizionato esercizio
della cronaca giudiziaria rischierebbe di porre nel nulla le altrettanto legittime prerogative
del singolo; è evidente che la composizione di interessi antitetici risulta alquanto
complessa.27
24 A. MANNA, Il diritto di cronaca, di critica, di denuncia e la diffamazione: “gli arresti
giurisprudenziali”, in Cass. Pen. 2003,11, 3600
25 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale e informazione nell'ottica delle valutazioni costituzionali,
in Giur. Cost. 1984, Giuffrè, p. 1282
26 G. GIOSTRA, Processo penale, cit. p. 104
27 C. CARINI, Segretezza e riservatezza delle indagini preliminari: per uno studio sistematico, 2008,Utet
p. 51
7
Si tratta di una problematica oggi molto avvertita, che, come vedremo, presenta
risvolti particolarmente delicati con riguardo alle intercettazioni telefoniche o di
comunicazioni in genere, che operano come una “rete a strascico”28, nella quale restano
impigliate informazioni di ogni tipo, anche prive di qualsiasi rilevanza processuale.
Nel tentativo di evidenziare i limiti esterni, parte della dottrina ha sostenuto che il
diritto di cronaca giudiziaria si collocherebbe in potenziale conflitto anche con il
principio espresso dall'art. 27 Cost., per il quale sono vietate affermazioni anticipatorie di
condanna, o, comunque, pregiudizievoli della posizione dell'indagato o dell'imputato 29.
Una tesi che, per il riferimento all'art. 27 Cost., ha sollevato non poche obiezioni
nella dottrina maggioritaria: difatti, per garantire la presunzione di innocenza
dell'imputato, bisognerebbe estendere il divieto di pubblicazione degli atti alla fase
dibattimentale che, come vedremo, è invece fondata sul principio di pubblicità, e solo in
un ordinamento improntato ad una sostanziale presunzione di colpevolezza dell'accusato,
la diffusione di notizie relative all'imputazione pregiudica il suo diritto a non essere
considerato colpevole sino alla condanna definitiva30.
Questo orientamento è espresso, altresì, in una pronuncia della Suprema Corte
risalente al 1980, in cui si afferma che il diritto di cronaca giudiziaria rientra nella più
vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e di stampa, e
consiste nel potere-dovere conferito al cronista di portare a conoscenza dei lettori
rilevanti vicende della vita associata. Sul principio costituzionale di non colpevolezza
sino alla definitiva condanna, prevale, dunque, l'interesse pubblico alla conoscenza di
fatti di rilievo sociale, quali sono quelli relativi alla perpetrazione di reati e all'attività di
polizia giudiziaria31.
In altri termini, l'imputato non potrà invocare il “silenzio stampa” fino alla
28 G. GIOSTRA, in Aa. Vv., Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni – un problema cruciale
per la civiltà e l'efficienza del processo e per le garanzie dei diritti (Atti del XIX convegno nazionale
dell'Associazione, Milano, 5-7 ottobre 2007), Giuffrè , p. 98
29 M. MASSA, Sulla legittimità costituzionale degli art. 684 c.p. E 164 c.p.p., in Rivista italiana di diritto
e procedura penale,1964, p. 308 - La tesi è sostenuta anche da FILIPPI ( v. pubblicazione alla nota
precedente).
30 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale cit., p. 1280
31 Cass., sez. V, 18 dicembre 1980, Faustini, in Giust. Pen., 1982, II, 139
8
sentenza definitiva, adducendo il preteso rispetto dell'art. 27 Cost., poiché tale principio
opera nel nostro ordinamento per altri scopi, più precisamente come regola di giudizio, e
non coincide affatto con l'esigenza di tutelare la reputazione e la riservatezza
dell'imputato32.
Affinché l'informazione possa definirsi “corretta”, e conforme al dettato dell'art.
27 Cost e dell'art. 6 C.e.d.u., che esamineremo nei paragrafi successivi, deve escludersi in
modo assoluto la possibilità per i mass media di indicare la persona sottoposta alle
indagini quale responsabile dei fatti contestati; ma ciò attiene intuibilmente al quomodo
della pubblicazione, e non all'an della pubblicabilità33.
Alla luce di quanto esposto, è di palese evidenza l'importanza di rinvenire un
criterio guida cui il legislatore deve uniformarsi nello stabilire limiti che implichino la
minor restrizione possibile degli interessi coinvolti.
Si tratta di individuare tendenzialmente il punto di equilibrio in cui, ad ogni
maggiore espansione di un bene, si determini un sacrificio più che proporzionale del bene
antagonista; il criterio guida è il c.d. principio di “utilità marginale” dei sacrifici34.
Tale criterio, come vedremo nei paragrafi successivi, è pienamente conforme ai
dettami della normativa comunitaria di riferimento, in particolare al c.d. “principio di
stretta proporzionalità” sancito dalla Corte di Strasburgo35.
32 A.BEVERE - A.CERRI, Il diritto all'informazione e i diritti della persona: il conflitto della libertà di
pensiero con l'onore, la riservatezza, la libertà personale,Cedam, 2006, p. 91
33 G. GIOSTRA, Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, cit.
34 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale ed informazione, cit. p. 1291
35 Corte eur. Diritti uomo, 7 giugno 2007, Dupuis C/ Francia
9
1.1 La tutela della riservatezza e il Codice della privacy
In un celebre saggio del 189036, ancora oggi considerato un “classico”, S. Warren
ed il futuro giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, L. Brandeis, teorizzavano, per
primi, la necessità di reperire, nel sistema di common law, nuovi strumenti di tutela della
vita privata, accanto a quelli tradizionalmente fondati sul diritto di proprietà, per giungere
al riconoscimento di un vero e proprio diritto alla privacy, inteso come diritto “ad essere
lasciati soli”37 .
Il richiamo a tale concetto giuridico non costituiva una novità in senso assoluto,
ma particolarmente significativo risultava il momento storico in cui l'opera veniva
pubblicata: quello dei primi sviluppi dell'era tecnologica moderna, precisamente del
microfono e della macchina fotografica istantanea38; di conseguenza era facile prevedere
il rischio di numerose intrusioni dell'intimità domestica.
E' interessante, tra l'altro, notare come, proprio negli Stati Uniti, a pochi decenni
di
distanza, prese inizio “l'era dell'elettronica”, che avrebbe esteso al di là
dell'immaginabile le possibilità di intrusione nella vita privata39.
L'esistenza di un interesse dell'individuo a sottrarsi al controllo della società, nelle
sue diverse forme, appare destinato ad entrare in conflitto con altri non meno importanti
interessi, quali, come visto, la libera diffusione delle idee e la libertà di cronaca da un
lato, l'esercizio dei pubblici poteri, specie nel campo della repressione dei reati, dall'altro
40
.
Il punto nodale di ogni discussione sui limiti esterni del diritto di cronaca ruota,
dunque, intorno al concetto di diritto alla riservatezza o privacy: un valore che, come
36
37
38
39
40
S.D. WARREN, L. D. BRANDEIS, The right to Privacy, in Harvard L. Rev, 1890, p. 193
G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, Giuffrè, 1983, p. 1
A. F. WESTIN, Privacy and freedom,I edizione, 1967, New York, p. 338
G. MARTINOTTI, La difesa della “privacy”, parte II, in Pol. Dir. , 1972, p. 63
G. ILLUMINATI, La disciplina processuale delle intercettazioni, cit., p. 3
10
analizzeremo in modo dettagliato nel capitolo 3,
attraverso l'utilizzo del mezzo
intercettivo, rischia di subire rilevanti e durature violazioni.
La dottrina si è divisa, per decenni, nell'elaborare una nozione univoca della
“privacy”; alcuni autori la intendono come sinonimo di “vita privata”41, altri preferiscono
utilizzare l’espressione inglese42, altri infine la traducono con la formula “privatezza”43.
Qualsiasi sia la terminologia utilizzata, tale “diritto all'oblio” consiste “nella tutela
delle situazioni e vicende di natura personale e familiare, dalla conoscenza e curiosità
pubblica; situazioni e vicende che soltanto il protagonista può decidere di pubblicizzare
ovvero difendere da ogni ingerenza – sia pure realizzata con mezzi leciti e non implicanti
danni all'onore, alla reputazione o al decoro – che non trovi giustificazione nell'interesse
pubblico alla divulgazione44.”
In alcune pronunce, alquanto risalenti nel tempo, la Consulta aveva escluso il
rilievo costituzionale della privacy, e, fondandosi su questo presupposto, ne aveva altresì
escluso la natura di potenziale limite alla manifestazione del pensiero.45
Il codice Rocco, conformemente all'indirizzo della Corte, all'art. 164 vietava la
divulgabilità di determinati atti o documenti di un procedimento penale, e non dei fatti in
essa riferiti, tutelando così, più che la riservatezza delle persone interessate all'attività
istruttoria, la riservatezza dell'attività istruttoria stessa, con una finalità esclusivamente
“endoprocessuale” e non “extraprocessuale”46.
Nella dottrina e nella giurisprudenza odierne 47, si afferma, invece, in modo
apparentemente unanime, la riconducibilità della tutela della riservatezza nell'alveo
dell'art. 2 Cost., tra i diritti inviolabili dell'uomo, come se si trattasse di una necessità
addirittura biologica dell'uomo e di un aspetto inalienabile della persona umana48.
41 F. CARNELUTTI, Diritto alla vita privata, (contributo alla teoria della libertà di stampa), in Riv.
Trim. di dir. Pubblico, 1955,5, p.. 54
42 G. ALPA, Privacy e statuto dell'informazione, in Riv. Dir. Civ., 1979, I, p. 71
43 UBERTIS-PALTRINIERI, Intercettazioni telefoniche e diritto umano alla privatezza nel processo
penale, in Riv. It. Dir. e proc. pen., 1979, p. 606
44 Cass. Civ. , Sez. I, 25 marzo 2003, Lucchetti/Pitti Immagine s.r.l., 4366
45 Corte Cost. 4 marzo 1965, n. 25
46 G. GIOSTRA, I rapporti tra giustizia penale ed informazione cit., p. 1260
47 Corte Cost. 10 febbraio 1981
48 A. CAUTADELLA, Riservatezza (diritto alla), in Enc. Giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991, p.4
11
La riservatezza si caratterizza per essere uno tra i diritti di più complessa
definizione: nel tentativo di configurarla i nostri giuristi hanno risentito, in modo netto,
degli influssi della cultura giuridica anglosassone, delineandola così, quale diritto del
singolo al controllo delle informazioni che lo riguardano, quindi dei dati personali, e
delle c.d. “situazioni sensibili”.
Si tratta di interessi di natura strettamente privatistica, in contrapposizione con la
facoltà di manifestazione del pensiero propria del diritto di cronaca; il dato personale
oggetto di tutela è un valore assoluto, il cui utilizzo abusivo prescinde dai limiti del diritto
di informazione e l'interessato può liberamente disporne, consentendo al loro trattamento.
Rispetto agli altri Paesi europei l'Italia si è occupata di regolamentare la privacy in
tempi relativamente recenti: tale ritardo è motivato, innanzitutto, da una carenza del
settore informatico nel nostro Paese, nonché da evidenti lacune di matrice politica ed
amministrativa, basate su una vetusta convinzione di prematurità della questione.
Solo alla fine degli anni ‘90 viene emanata la legge 675 del 31 dicembre 1996,
rubricata “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali”, chiaramente ispirata alla direttiva CE 94/96 sul trattamento dei dati personali
e sulla libera circolazione degli stessi.
L'art. 25 della suddetta direttiva afferma che “gli Stati membri sono tenuti ad
operare affinché il trasferimento di dati personali verso paesi terzi possa avvenire solo se
il paese terzo in questione garantisca un adeguato livello di tutela”.
La disciplina della privacy, nata dall'esigenza di consentire la piena applicazione
dell'accordo di Shengen del 1985, ha subito, nel tempo, vari interventi di riforma
contrassegnati da una netta continuità di intenti: il 1° gennaio 2004 è entrato in vigore il
decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003, denominato “Codice in materia di
protezione dei dati personali”, che rappresenta uno dei primi tentativi europei di
comporre in modo organico la miriade di disposizioni al riguardo, riunendo in un unico
testo la legge n. 675 del 1996 e tutti gli altri decreti legislativi e regolamenti in materia.
Si tratta di un testo ispirato alla necessità di introdurre nuove garanzie per i
cittadini, articolato in tre distinte parti: la prima, destinata alle disposizioni generali
12
riordinate in una lettura costituzionalmente orientata; la seconda parte, c.d. “speciale”,
dedicata a singoli, specifici settori come le notificazioni di atti giudiziari, i dati sui
debitori insolventi; la terza, infine, relativa al tema delle tutele amministrative e
giurisdizionali, con la previsione di specifiche sanzioni amministrative e penali, e la
disciplina relativa all'Ufficio del Garante.
La ratio sottesa al d.lgs n. 196/03 è quella di “codificare” il diritto del singolo sui
propri dati personali, disciplinandone dettagliatamente il trattamento, la diffusione e la
comunicazione: si tratta di un diritto assoluto, sancito esplicitamente nell'art. 1 del
decreto in esame, e si estende a qualunque informazione relativa ad una persona, anche se
non strettamente riservata.
Relativamente al profilo della divulgazione, dunque, le fattispecie previste dal
Codice sono “la diffusione” e “la comunicazione”: la prima consiste nel portare a
conoscenza di soggetti indeterminati, in qualsiasi forma, i dati personali; la seconda
presuppone che il dato sensibile sia portato a conoscenza di soggetti determinati o
determinabili.
Il Codice garantisce altresì che il trattamento dei dati personali si svolga nel pieno
rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità personale
dell'interessato: si ribadisce in tal modo che, lo scopo della legge, non è quello di
paralizzare il flusso di dati sensibili, bensì quello di evitare che lo stesso avvenga senza il
consenso dell'avente diritto, o con modalità illecite.
In base agli artt. 23 e 24 del Codice, il consenso deve essere preventivo, esplicito,
libero e rilasciato per iscritto in modo da essere inequivocabile, escludendo così la
configurabilità del silenzio quale forma di tacito consenso.
La disciplina adottata dal legislatore italiano in materia, nel prevedere l'esplicita
autorizzazione al trattamento dei dati, è estremamente rigorosa e, a tratti, iper-garantista;
la mancanza del consenso implica, ovviamente, sanzioni penali ed amministrative.
In realtà, il consenso come sopra descritto e delineato, non è sempre richiesto: è lo
stesso Codice che, all'art. 24, teorizza il c.d. “principio di necessità”: si tratta di un
principio generale dell'ordinamento che presiede all'adozione di tutte le misure
13
straordinarie da parte dell'autorità.
Nella disciplina del Codice, in base questo principio, bisogna ridurre al minimo
l'utilizzo di dati identificativi, facendo uso di forme anonime o che riconducano
all'interessato solo in caso di necessità; il consenso deve essere richiesto “solo” quando
sia effettivamente necessario: un consenso non indispensabile può comportare la revoca
di un'autorizzazione che non avrebbe dovuto essere prestata.
E' lo stesso Codice, dunque, con la norma sopra richiamata, a delineare i casi in
cui il consenso non è richiesto: nell'ipotesi in cui il trattamento sia sotteso
all'adempimento di un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa
comunitaria; quando è necessario per ottemperare obblighi derivanti da contratto, o
qualora risulti necessario per la salvaguardia dell'incolumità fisica o della vita di un
soggetto che non possa coscientemente manifestarlo.
All'art. 4 il Codice specifica, dapprima “l'oggetto” del trattamento, riferendosi a
nozioni quali “dato personale”, “dati identificativi”, “banca dati”; nozioni prima facie
particolarmente ampie, con il conseguente rischio di ipertutela a danno della libertà di
informazione.
A circoscrivere il campo di applicazione della legge, sono intervenute alcune
previsioni normative in deroga, che hanno escluso dal novero dei dati tutelati quelli
provenienti da pubblici registri, elenchi, atti e documenti conoscibili a terzi.
All'ampiezza della portata oggettiva, si aggiungeva la complessità insita nel
meccanismo del trattamento: basato sul “principio della notificazione” al Garante, della
volontà di acconsentire al trattamento, effettuato dai titolari delle Banche dati tramite
raccomandata, cui faceva seguito, da ultimo, il rilascio dell'autorizzazione da parte
dell'autorità; in altri termini, significava, per il Garante, autorizzare personalmente ogni
singolo archivio personale.
Anche sul punto si è registrato un intervento di semplificazione legislativa: si è
innanzitutto escluso dalla complessa procedura sopra detta,
il trattamento di dati
personali effettuato da persone fisiche per “fini esclusivamente personali”, riducendo
sensibilmente l'alluvione di autorizzazioni inoltrate al Garante.
14
Si sono altresì introdotte deroghe, di carattere soggettivo, relative a determinate
categorie di operatori, quali i giornalisti, i liberi professionisti, che, per motivi inerenti lo
svolgimento della loro attività, sono frequentemente obbligati a ricorrere a queste
informazioni.
Alle categorie suddette si impone però il rispetto dei precetti stabiliti dai rispettivi
codici deontologici nella materia in esame.
Il Codice definisce in modo puntuale anche quali siano i soggetti che
intervengono nella procedura descritta: “l'interessato”, la persona fisica o giuridica, cui si
riferiscono i dati trattati; “il titolare” ivi intendendo la persona fisica o giuridica, la
pubblica amministrazione, cui competono congiuntamente o disgiuntamente, le decisioni
in ordine alle finalità, alle modalità e la sicurezza del trattamento ; “il responsabile”, “gli
incaricati”, e, da ultimo, “il Garante”.
L'ultima figura rappresenta un'autorità amministrativa indipendente, caratterizzata
da una molteplicità di funzioni che spaziano dalla vigilanza e il controllo, alla
regolazione, all'attività consultiva e di assistenza, fino a delineare funzioni
paragiurisdizionali, in virtù della previsione del Codice di una facoltà in capo agli
interessati: quella di adire, in via alternativa, l'Autorità giudiziaria ovvero il Garante
stesso.
Se il Garante accerta una violazione della normativa a tutela della privacy, può
prescrivere al responsabile tutte le misure necessarie per rendere il trattamento conforme
alla legge, o, in alternativa, può bloccare e vietare del tutto il trattamento illecito.
Chiunque, pur essendovi tenuto, non osservi i provvedimenti del Garante, è punito
con la reclusione fino a due anni, come stabilito dall'art. 170 del Codice della privacy.
In particolare, con specifico riferimento alla pubblicazione delle intercettazioni
telefoniche, con una decisione del 16 ottobre 1997, il Garante ha precisato che: il
giornalista ha il dovere di acquisire lecitamente i documenti relativi alla trascrizione di
intercettazioni effettuate nel corso di una inchiesta giudiziaria; che la diffusione di
intercettazioni telefoniche deve tener conto dei limiti del diritto di cronaca posti a tutela
della riservatezza anche quando il fatto rivesta un interesse pubblico; che la notizia ed il
15
dato personale pubblicato senza il consenso dell’interessato devono rispettare il principio
della essenzialità dell’informazione e che, pertanto, l’interessato ha diritto a che
rimangano riservate quelle parti delle conversazioni intercettate che attengono a
comportamenti strettamente personali non connessi alla vicenda giudiziaria o che
possono riguardare la sfera della sua vita intima49.
Ad avviso del Garante, inoltre, è inevitabile che il bilanciamento tra diritto di
cronaca e privacy resti affidato, in prima battuta, al giornalista ed alla sua valutazione
generale, compatibilmente col quadro normativo del Codice deontologico50.
Agli artt. 167 e 168 il Codice descrive fattispecie penali specifiche a tutela della
privacy: la prima prevede la punizione di coloro che procedono al trattamento dei dati
personali al fine di trarre profitto o arrecare un danno, modulando la sanzione irrogata
alla “sensibilità” dell'informazione trattata. La sanzione per le suddette violazioni, è
subordinata al verificarsi di un danno, si tratta di una condizione obiettiva di punibilità;
entrambe le fattispecie riportate, inoltre, “soccombono” a fronte di integrazione di più
grave reato, come ad esempio violazione del segreto d'ufficio.
Ne consegue che non costituisce reato una violazione della normativa sulla tutela
dei dati personali che costituisca un vulnus minimo all'identità personale della persona
offesa ed alla sua privacy, tale da non determinare un danno patrimoniale accertato.
Se l'illecito trattamento è commesso con diffusione a mezzo stampa, la fattispecie
di riferimento è quella prevista dall'art. 57 c.p., che dispone la corresponsabilità con
l'autore dell'articolo, dell'editore e del direttore responsabile.
A tal proposito la disciplina normativa sulla privacy riconosce l'esigenza di
bilanciamento tra l'informazione e la riservatezza, richiamando esplicitamente il “Codice
deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività
giornalistica”, emanato il 29 luglio 1998 con un atto del Garante della privacy.
Come detto, il d.lgs. n. 196 del 2003, rinvia espressamente alle disposizioni del
Codice deontologico dei giornalisti, che ne costituisce un allegato: ciò conferisce a
49 Decisione sul ricorso del 16/10/1997, doc. web. n. 40659, su www.garanteprivacy.it
50 Privacy e giornalismo, alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell'Ordine dei giornalisti, 6 maggio
2004, doc. web n. 1007634, su www.garanteprivacy.it
16
quest'ultimo la valenza di fonte normativa, alla quale devono adeguarsi tutti coloro che
esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa; pertanto, il
suo rispetto verrà garantito dai diversi organi pubblici ed ovviamente anche dall’Ordine
per quanto riguarda le sanzioni disciplinari applicabili ai soli iscritti51.
Il suddetto Codice prevede che il cronista, per raccogliere informazioni
nell'esercizio della sua professione, dovrà preventivamente rendere nota agli interpellati
la propria identità, la propria professione e lo scopo della sua indagine, salvo che ciò
comporti rischi per la sua incolumità o renda assolutamente impossibile l'esercizio della
funzione informativa.
Rispettati i parametri ivi esposti, il cronista non è vincolato all'ottenimento del
consenso al trattamento dati da parte dell'avente diritto, ed è autorizzato a conservare i
dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento delle finalità della sua
professione.
I criteri che legittimano al pubblicazione di dati protetti sono: l'interesse pubblico
che connota la notizia, l'omissione di riferimenti a soggetti estranei alla vicenda,
l'essenzialità dell'informazione.
Su quest'ultimo requisito il Codice deontologico dei giornalisti opera una subdistinzione in “originalità del fatto” e “qualità dei protagonisti”, la cui rilevanza sociale e
pubblica consente l'ampliamento della sfera informativa.
L'ambito di applicazione del Codice deontologico estende la propria portata a tutti
coloro che, anche occasionalmente, esercitano attività pubblicistica; pertanto il
trattamento “speciale” offerto dall'ordinamento è sotteso allo svolgimento di una funzione
ritenuta essenziale, e non alla formale appartenenza ad una categoria.
E' senz'altro agevole comprendere come l'informazione sull'attività giudiziaria
comporti, quasi sempre, la diffusione di notizie relative a situazioni giuridiche soggettive
52
, e di conseguenza evidenti problematiche di contemperamento rispetto ad altri diritti di
matrice costituzionale.
51 S. RODOTA', parere espresso sullo schema del codice di deontologia il 23 gennaio 1998,
52 S. MERZ, G. PERILLO, ( a cura di ), L'informazione sull'attività giudiziaria,Cedam, 1981, p. 13
17
In merito ai confini normativi alla espressione della libertà di stampa è opportuno
menzionare una pronuncia della Suprema Corte, che qualifica un limite ulteriore
proveniente proprio dalla specifica attività di autoregolamentazione professionale dei
giornalisti, che si aggiunge a quelli tradizionali esaminati nel primo paragrafo53.
La fattispecie concreta trae spunto dalla pubblicazione di un'informazione
particolarmente “sensibile”, relativa alla sfera di salute di una minore di età che, nelle
cronache televisive, era stata segnalata come affetta da grave patologia cardiaca; la
suddetta informazione non era preceduta dal consenso dei genitori esercenti la potestà.
Il Tribunale di prime cure aveva assolto gli autori dell'articolo dall'accusa di
diffamazione di cui all'art. 595 c.p., condannandoli, però, per la violazione dell'art. 25 L.
n. 675 del 1996 - trattamento illecito di dati personali – sull'assunto che, non essendo la
bambina persona nota alle cronache, la notizia si presentava come lesiva delle regole
imposte dal Codice deontologico dei giornalisti.
La Corte d'Appello di Milano, investita della vicenda, aveva assolto i giornalisti
dall'addebito, sostenendo che la successiva riforma della normativa sulla privacy, il d. lgs
n. 171 del 1998, a differenza dell'art. 25 L. n. 675 del 1996, non richiamava più il Codice
deontologico dei giornalisti; in tal modo aveva negato rilievo penale alle condotte
perpetrate, e aveva derubricato il fatto contestato a mero illecito disciplinare.
La medesima conclusione del giudice d’Appello poteva ricavarsi anche dal d.lgs.
n. 196 del 2003 che, all’art. 139, consente al Garante di impedire la diffusione di
informazioni in violazione del Codice deontologico dei giornalisti, ma in nessuna parte
accenna all’integrazione della fattispecie penale nel detto caso.
La Cassazione, adita dalle sole parti civili, annullando la sentenza impugnata, ed
in piena conformità coi precetti comunitari, ha nettamente contraddetto il precedente
orientamento, negando che il legislatore del 1998 avesse limitato la responsabilità penale
del giornalista per illecito trattamento di dati personali, non potendosi leggere nelle
modifiche legislative sopra enunciate una soppressione di questo diritto in favore di
quello all'informazione.
53 Cass. Pen., Sez. III, 5 marzo 2008, Bonolis, n. 16145
18
La Suprema Corte, dunque, ha ravvisato nell’art. 137 del d. lgs n. 196/2003,
laddove indica esplicitamente i limiti del diritto di informazione, una disposizione a
contenuto normativo prevista dal Codice deontologico, riconducibile alla categoria delle
“clausole generali” volte ad integrare la lettura delle norme penali.
Come principio di ordine generale che regolamenta tutto il settore
dell'informazione, la clausola generale dispone di efficacia cogente non solo per i
destinatari dei precetti deontologici, ma anche per i giudici chiamati ad interpretare gli
stessi nella valutazione delle condotte dei giornalisti.
Il divieto deontologico, dunque, pur se non esplicitamente richiamato da altra
fattispecie penale, è vincolante per il soggetto appartenente alla categoria di riferimento, e
per il giudice che è chiamato ad applicarlo; l'eventuale violazione è suscettibile di ricorso
di legittimità ai sensi dell'art. 606 lett. b) c.p.p.
L’attuale impianto normativo in materia di privacy, seppure, come vedremo, in
linea di massima conforme ai principi generali fissati, in materia, dal Parlamento europeo
e dalla Commissione europea, presenta alcune rilevanti lacune che consentono ed
agevolano l’aggressione alla privacy di soggetti “deboli”.
19
1.2 Le fonti internazionali
Il problema del bilanciamento tra diritto di cronaca giudiziaria e riservatezza deve
essere, necessariamente, affrontato anche a livello di fonti internazionali, con particolare
riguardo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo ed alle pronunce della Corte di
Strasburgo.
La pubblicazione di notizie relative a processi pendenti può creare difficoltà di
contemperamento tra il diritto della stampa di informare il pubblico ed il diritto delle
persone accusate di essere giudicate da un giudice terzo ed imparziale solo sulla base
delle emergenze processuali, con diritto alla presunzione di innocenza, così come stabilito
dall'art. 6 C.e.d.u.
La norma in questione dispone che “la sentenza deve essere resa pubblicamente,
ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa ed al pubblico durante tutto
o una parte del processo, nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza
nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la
tutela della vita privata delle parti nel processo, nella misura giudicata necessaria dal
tribunale, quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi
della giustizia.”
E' del resto evidente come, una pressione mediatica eccessiva, e soprattutto
distorta al punto tale da generare nell'opinione pubblica l'aspettativa di una affermazione
di responsabilità dell'accusato, possa determinare per quest'ultimo un clima processuale
nettamente sfavorevole, mettendo a repentaglio l'assoluta indipendenza del giudice, e la
stessa presunzione di innocenza codificata dall'art. 6 C.e.d.u.54
Di grande rilevanza in tal senso appare una vicenda processuale sottoposta nel
2003 all'attenzione della Corte europea dei diritti dell'uomo55: in un procedimento relativo
54 A. TAMIETTI, Processo e mass media nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in Dir. Pen. e
processo, 2002, p. 378
55 Corte eur. dir. uomo, 16 settembre 1999, Buscemi c/ Italia.
20
all'affidamento di una bambina, i giudizi negativi espressi dal Tribunale minorile nei
pareri sulla vicenda, suscitarono una netta reazione del padre della minore che si scagliò
contro i Giudici designati, lanciando accuse di un atteggiamento persecutorio.
Il presidente del Tribunale scrisse una lettera aperta ad un quotidiano, prendendo
le distanze dalle accuse rivolte a sé ed ai suoi colleghi, rimarcando, inoltre, come tutto si
fosse svolto in modo regolare e nella piena legalità.
La Corte europea fu investita della questione, in particolare, di valutare la
compatibilità tra l'art. 6, par. 1 C.e.d.u. e la reazione “mediatica del giudice”: ravvisando
una violazione del suddetto articolo, la Corte raccomandò ai paesi consociati che “la più
grande discrezione si impone ai giudici chiamati a giudicare, che deve condurre a non
utilizzare la stampa neppure in risposta a provocazioni, per tutelare l'esigenza superiore di
giustizia e la natura elevata della funzione giudiziaria”.
La decisione del Presidente del Tribunale dei minori di coinvolgere l'opinione
pubblica in un procedimento ancora pendente risultava palesemente non compatibile con
le esigenze di imparzialità di un tribunale56.
In un'ulteriore pronuncia57, la Corte ravvisò una violazione di quanto stabilito dal
par. 2, art. 6 C.e.d.u., integratasi per una conferenza stampa durante la quale due ufficiali
della polizia francese avevano indicato il ricorrente quale istigatore di un brutale
omicidio: ad avviso della Corte, la presunzione di innocenza deve ritenersi misconosciuta
se una decisione giudiziaria relativa ad un prevenuto riflette il sentimento che egli è
colpevole quando la sua colpevolezza non è ancora stata accertata, e la suddetta
presunzione può ben essere lesa anche da autorità pubbliche che non siano magistrati: nel
caso di specie, si trattava di due agenti di polizia giudiziaria.
Parimenti la Convenzione europea tutela, all’art. 10, la libertà di informazione e
l’attività dei media in relazione alla cronaca giudiziaria, garantendo la libertà di
espressione quale diritto fondante di una società democratica, al quale è però necessario,
così come visto per l’ordinamento nazionale, un adeguato bilanciamento, basato su
56 M. CHIAVARIO, I rapporti giustizia-media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, in Il Foro italiano, 2000, p. 219
57 Corte eur. Dir. Uomo, 10 febbraio 1995, Allenet de Ribermont c/ Francia
21
un'attenta disamina, tanto delle singole circostanze concrete di ogni caso di specie, quanto
dell'estensione e della natura degli obblighi che le diverse disposizioni costituzionali
pongono a carico degli Stati firmatari58.
L’idea di fondo della Convenzione è che nessun problema di limitazione si
impone se gli organi di informazione riportano dati oggettivi sugli elementi forniti dagli
organi giudiziari, sulle dichiarazioni dell’imputato e delle parti private, o sulle prove non
più coperte dal segreto istruttorio.
Ben diversamente va considerata la divulgazione di notizie ancora coperte da
segreto, o una presa di posizione netta dei media sulla colpevolezza dell’individuo, che
possono, come già detto, nuocere gravemente alla libertà di determinazione dell’organo
giudicante; in tal caso, parafrasando il titolo di un noto romanzo di Garcìa Màrquez, si
profilerebbe la “cronaca di una condanna annunciata”.
Un fondamentale criterio-guida per i giudici “interni” è stato elaborato dalla Corte
europea a seguito dell'introduzione, nell'ordinamento francese, di una norma fortemente
limitativa della libertà di informazione59.
Due noti giornalisti francesi erano stati condannati per aver pubblicato, nel 1996,
un libro dal titolo “Les Oreille du Prèsident”, nel quale denunciavano l'esistenza di una
fitta rete di intercettazioni illecite, perpetrate a danno di eminenti personaggi della società
transalpina, tra il 1983 ed il 1986, da parte dei vertici dell'Eliseo.
Nel 1993 venne aperto, nei confronti di un G.M., collaboratore personale del
presidente Mitterand, un procedimento penale per le illecite captazioni; così, quando nel
1996 fu pubblicato il testo sopra indicato, questi denunciò i due autori, accusandoli di
aver utilizzato materiale illegalmente sottratto dagli atti processuali, la cui pubblicazione
minava il proprio diritto ad un equo processo.
Il Tribunale di Parigi confermò le accuse, condannando i giornalisti responsabili al
pagamento di una pena pecuniaria.
Chiamata ad esprimersi sulla delicata questione dei rapporti tra giustizia ed
informazione, la Corte, individuando in capo ai cittadini un vero e proprio “diritto ad
58 A. TAMIETTI,Processo e mass media, cit., p. 379
59 Corte eur. dir. uomo, 7 giugno 2007, Dupuis c/ Francia
22
essere informati sul processo penale” su fatti di interesse collettivo, 60 sottolineando come
neppure il segreto istruttorio potesse essere posto quale limite legittimo al diritto dei
giornalisti di pubblicare informazioni di carattere generale nel rispetto dell’etica
professionale, ha escluso che la diffusione di notizie potesse avere un’influenza negativa
sull’imputato e sulla sua presunzione di innocenza, in una vicenda “già ampiamente
sottoposta all’attenzione mediatica, con una
intensità tale da rendere superfluo il
mantenimento del segreto istruttorio”.
Con la pronuncia in esame la Corte ha, di fatto, ritenuto preminente l'interesse
pubblico alla conoscenza di un affare di Stato, rispetto alla pretesa violazione del
principio di non colpevolezza, anche in un caso di illecita acquisizione del materiale
istruttorio.
La Corte ha, così, aggiunto un ulteriore criterio ai tre tradizionali del legittimo
esercizio del diritto di cronaca: una sorta di verifica “in negativo”, volta a riscontrare
l’assenza di un’effettiva offesa agli interessi sostanziali di rilievo costituzionale ed
europeo, in cui il bilanciamento tra il diritto alla libertà d’espressione e i valori
contrapposti non può essere affidato ad astratte valutazioni di priorità, ma deve
necessariamente essere effettuato considerando volta per volta le differenti sfumature del
caso concreto. 61
La Convenzione, all’art. 8, tutela altresì il diritto alla riservatezza della persona: il
processo penale, sottoposto a rilevanza mediatica, può violare tale diritto, interferendo
con la vita privata della persona sottoposta alle indagini, sulla propria libertà di
comunicazione, su quella di familiari e conoscenti.
La giurisprudenza di Strasburgo lascia intendere al riguardo che ogni Stato in
questo campo deve applicare un “principio di stretta proporzionalità”, limitando le
ripercussioni sulla vita privata dell’imputato a quanto risulta inevitabile, essendo inerente
alla natura stessa dei provvedimenti adottati nei suoi confronti in relazione alle accuse
60 A. BALSAMO, S. RECCHIONE, Il difficile bilanciamento tra libertà d’informazione e tutela del
segreto istruttorio: la valorizzazione del parametro della concreta offensività nel nuovo orientamento
della Corte europea, in Cass. Pen., 2007, Giuffrè, p. 4877
61 A. BALSAMO, S. RECCHIONE, Il difficile bilanciamento cit., p. 4878
23
che gli sono mosse62.
A tal proposito va ricordata la pronuncia della Corte del 17 luglio 2003 nel caso
Craxi c. Italia, in cui la Corte ha ritenuto che la pubblicazione sugli organi di
informazione della trascrizione di alcune intercettazioni telefoniche, nel corso di un
procedimento a carico di un noto uomo politico, violasse l’art. 8 C.e.d.u., in quanto le
conversazioni riportate avevano una natura strettamente privata, senza connessione
alcuna con il procedimento penale di riferimento.
In una recente sentenza63, la Corte di Strasburgo ha fornito agli Stati membri una
serie di linee guida, traducibili nel nucleo minimo di garanzie che condizionano la
conformità del mezzo intercettivo rispetto ai precetti insiti nell'art. 8 C.e.d.u., sulla tutela
della privacy e della corrispondenza.
Tre i requisiti individuati dalla Corte, tra loro interconnessi: la previsione
legislativa; il perseguimento di uno dei fini indicati dall'art. 8 C.e.d.u.; la necessità della
misura.
Nel definire il primo requisito la Corte ha elaborato una concezione “materiale” e
non “formale” del termine “legge”, comprensiva sia del diritto scritto, che del diritto non
scritto64: la normativa di riferimento deve essere accessibile e conoscibile dai cittadini, e
deve presentarsi, inoltre, sufficientemente chiara circa l'ampiezza ed i limiti del potere di
ingerenza dell'autorità giudiziaria nazionale.
Le garanzie minime perché il primo profilo sia rispettato sono: l’individuazione
della natura dei reati che possono dar luogo ad intercettazione; la definizione delle
categorie di persone le cui utenze possono essere sottoposte ad intercettazione; la
determinazione del limite di durata della captazione, della procedura di esame, utilizzo e
conservazione del materiale intercettato, dei casi di distruzione del materiale acquisito;
l’attribuzione ad un organo indipendente del potere di autorizzazione e verifica delle
62 A. TAMIETTI, Intercettazioni telefoniche e garanzie a tutela del diritto al rispetto della vita privata e
della corrispondenza dell’imputato: la Corte europea interpreta estensivamente gli obblighi positivi
dello Stato, in Cass. Pen., 2004, p. 236
63 Corte europea dir. Uomo, 10 febbraio 2009, Iordachi c/ Moldavia
64 A. BALSAMO, Intercettazioni: gli standards europei, la realtà italiana, le prospettive di riforma, in
Cass. Pen., 2009, 10, 4023
24
intercettazioni.
Tali indicazioni si coordinano con quelle relative al profilo teleologico, più
precisamente alla verifica della c.d. “necessità democratica”65, ossia dell'esistenza dei
parametri che giustificano l'ingerenza della pubblica autorità nelle comunicazioni private:
la proporzionalità ed il controllo.
Emergono immediatamente significativi punti di frizione tra gli standards
sovranazionali e la disciplina normativa italiana: innanzitutto, la totale assenza di
specificazione dei soggetti passivi delle intercettazioni, che finisce per ampliare in modo
notevole l'ambito soggettivo del mezzo di ricerca della prova, fino a ricomprendere, non
solo gli indagati, ma anche i testimoni ed un'indefinita molteplicità di soggetti estranei al
procedimento penale, con conseguente aumento delle possibilità che vengano registrate
conversazioni private e processualmente irrilevanti66.
I requisiti della proporzionalità e del controllo, inoltre, non sembrano
adeguatamente soddisfatti nel sistema di selezione delle conversazioni di rilevanza
probatoria: il potere di “filtro” conferito al giudice, è, infatti, assai limitato, fondandosi su
un parametro “a maglie larghe” come quello della manifesta irrilevanza.
Inoltre, la mole, spesso enorme, del materiale raccolto attraverso le intercettazioni,
unitamente alla ristrettezza del termine concesso alle parti per esaminarlo, ed alla limitata
base conoscitiva del giudice, incentivano, di fatto, la prassi di procedere all'acquisizione
“in blocco” delle conversazioni registrate67.
Un ulteriore fattore di contrasto tra la disciplina interna e quella comunitaria è
dato dalla insufficiente tutela dei terzi rispetto alla divulgazione del materiale captato: si
tratta di un'inevitabile conseguenza della regolamentazione dettata dall'art. 268 c.p.p., che
circoscrive ai difensori delle parti processuali la cerchia dei destinatari dell'avviso di
avvenuto deposito delle intercettazioni presso la segreteria del pubblico ministero.68
Il deposito, come vedremo nei capitoli successivi, rappresenta il primo momento
di “conoscibilità” dell'atto da parte dell'indagato, circostanza questa che comporta il venir
65 A. BALSAMO, Intercettazioni, cit., p. 2
66 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2007, p. 331
67 L. FILIPPI, Le intercettazioni di comunicazioni, Giuffrè, 1997, p. 141
68 A. BALSAMO, Intercettazioni, cit., p. 3
25
meno del segreto investigativo, consentendo la pubblicazione del “contenuto” delle
conversazioni captate.
Le incongruenze esaminate, unitamente ad altre quali, solo esemplificativamente,
la totale inadeguatezza del rimedio della distruzione del materiale irrilevante, la
mancanza di sanzioni dissuasive per l'illecita pubblicazione, rende la disciplina normativa
vigente assolutamente inadeguata rispetto ai parametri europei, imponendo una
complessiva riforma legislativa volta a conciliare il diritto interno con le indicazioni della
Corte.
Altre importanti fonti sovranazionali, oltre alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, si sono occupate dei rapporti giustizia-informazione: in primo luogo, giova
rammentare la raccomandazione Racc (03)13, adottata dal Comitato dei ministri del
Consiglio d'Europa il 10 luglio 2003, ed avente ad oggetto il tema relativo alla diffusione
attraverso i media di informazioni relative a procedimenti penali.
In essa si stabilisce che il pubblico deve essere posto in condizione di ricevere
informazioni attraverso i media sull’attività dell’autorità giudiziaria e delle forze di
polizia, ragion per cui è necessario consentire ai giornalisti, nel rispetto della presunzione
di innocenza, di commentare liberamente il sistema della giustizia penale.
Inoltre, nel contesto di procedimenti penali di pubblico interesse o che si sono
guadagnati particolare attenzione del pubblico, l’autorità giudiziaria e i servizi di polizia
“dovrebbero informare i media” sui loro atti essenziali, purché ciò non pregiudichi la
segretezza delle investigazioni o le inchieste della polizia oppure ritardi o impedisca
l’esito dei procedimenti69.
La Raccomandazione delinea in diciotto punti i principi ispiratori dell’attività
giornalistica in merito ai procedimenti penali, tentando un bilanciamento fra diritti di pari
rango, quali il diritto di cronaca e il diritto alla privacy, entrambi sanciti dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Relativamente alla tutela della privacy nel corso di procedimenti penali, in
particolare rispetto a minori o persone vulnerabili quali vittime e testimoni, merita di
69 Raccomandazione REC (2003)13.
26
essere segnalato il principio 18, nel quale si cerca di regolamentare il flusso di
informazioni giornalistiche successive all'esecuzione della sentenza, onde non
compromettere il reinserimento nella società dei rei.
Il principio in esame mira a tutelare soggetti sottoposti a procedimenti penali
definiti con sentenza irrevocabile dalle frequenti aggressioni alla privacy ad opera dei
mezzi di comunicazione di massa, perpetrata attraverso la periodica rievocazione di fatti
risalenti nel tempo e ormai privi di interesse pubblico.
Nel nostro ordinamento la pena svolge una funzione retributiva, ma, soprattutto,
educativa: il concetto costituzionale di rieducazione va, quindi, inteso come solidaristica
offerta di opportunità, cioè come creazione delle condizioni obiettive perché al soggetto
sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale70.
Il Comitato dei ministri, nel principio 18, ha precisato che, il diritto alla privacy
delineato dall'art. 8 C.e.d.u., dovrebbe includere il diritto di protezione dell'identità delle
persone dopo l'espiazione della pena irrogata, a meno che le stesse non abbiano
espressamente consentito alla rivelazione, oppure i reati da loro commessi non siano
nuovamente di oggettivo, pubblico interesse71.
Nonostante l'impianto normativo delineato, sono estremamente frequenti casi di
aggressione alla privacy di soggetti sottoposti a procedimenti penali da parte dei media,
che spesso divulgano informazioni ormai del tutto prive di un interesse pubblico
meritevole di tutela: si rende necessario a tal fine predeterminare - una volta per tutte e
salve tassative eccezioni - il periodo di tempo oltre il quale un soggetto sottoposto a
procedimento penale matura il diritto a non vedere più il proprio nome “accostato” alla
vicenda processuale72.
Va ricordato, da ultimo, quanto disposto in tema di privacy dall'art. 19 del Patto
Internazionale sui diritti civili e politici, che, nel riconoscere ad ogni individuo la libertà
70 F. MANTOVANI, Diritto penale, 1992, Cedam, p. 755
71 Racc. (2003)13, riportata in nota da L. FILIPPI, La sentenza Duppuis,pag. 2978
72 M. SIMBULA, Diritto all'oblio, come gestire i dati sensibili dei condannati? In
www.mediazionefacile.it
27
di espressione, sottolinea che tale esercizio comporta doveri e responsabilità speciali, e
può essere sottoposto a talune restrizioni; è singolare che tra le ragioni che giustificano
limiti alla libertà di espressione non compaiano la tutela della segretezza delle indagini e
l'indipendenza del giudice nelle sue decisioni73.
In conclusione, pur in mancanza di un’auspicabile “Carta dei rapporti fra giustizia
e media”, realmente confacente e legislativamente adeguata alla problematica in
questione, dalle fonti internazionali, e in particolar modo dalla giurisprudenza della Corte
europea, si può trarre un insegnamento di carattere generale: pur nella giusta
rivendicazione dell’importanza del ruolo che ciascuno deve svolgere - di informare, di
indagare, di difendere, di giudicare - in un ambito che è comunque fatto di conoscenze,
corresponsabilità e di impegni comuni,
e pur nella legittima preoccupazione di
salvaguardare, anche verso l’esterno, la funzionalità di quel ruolo, nessuno dovrebbe
dimenticarsi dell’esistenza degli “altri” ruoli, più o meno complementari e più o meno
antagonistici, né dei rischi che l’unilateralità dell’esaltazione del proprio può comportare
74
.
73 Raccomandazione REC (2003)13, riportata in nota da L. FILIPPI, La sentenza Duppuis, p. 2979
74 M. CHIAVARIO, I rapporti giustizia-media, cit., p. 220
28
2. La pubblicità nel processo penale
Il concetto di pubblicità nel processo penale deve essere analizzato in una duplice
ottica: quello della pubblicità “immediata” e quello della pubblicità “mediata”.
Il primo riceve la propria teorizzazione storico-giuridica nell’opera di Cesare
Beccaria “Dei delitti e delle pene”, in cui viene enunciato il seguente principio: “pubblici
siano i giudizi, pubbliche le prove del reato, perché l’opinione pubblica, che è forse il
solo cemento della società, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo
dica, noi non siamo schiavi e siamo difesi”75.
Per pubblicità immediata si intende, dunque, la possibilità per la collettività di
assistere de visu et de audito alla fase dibattimentale; per moltissimo tempo la pubblicità
immediata è stato un baluardo contro l'esercizio dell'arbitrio in via giurisdizionale76.
Tuttavia, in tema di partecipazione popolare all’attività giudiziaria, una riflessione
sociologica impone di valutare un dato essenziale: il cittadino entra in possesso delle
informazioni di cronaca giudiziaria preferenzialmente e prevalentemente attraverso i
mezzi di comunicazione di massa.
L’espressione pubblicità “mediata” è riferibile proprio a quest’ultimo fenomeno:
al caso in cui il cittadino, non presente in aula, acquisisca conoscenza dell’attività
processuale attraverso il “diaframma di un medium”77.
La diffusione delle notizie avviene, in particolare, nella forma della pubblicità
mediata “tecnologica”, basata cioè sull’utilizzo di strumenti tanto più evoluti, quanto più
si evolvono le tecniche e le tecnologie di circolazione delle notizie78.
Dallo sviluppo di una tecnologia sempre più sofisticata discende la generale
75 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene,1764, ed. a cura di G.D.PISAPIA, 1964, p. 27
76 G. GIOSTRA, Processo, cit., p.. 13
77 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale: esperienze e problemi della pubblicità mediata
“tecnologia”in Italia, in Foro italiano, 1998, p. 278.
78 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale, cit., p. 278
29
accelerazione dei meccanismi di trasmissione della notizia, che, ormai, è in grado di
raggiungere l'utente in tempi brevissimi dal fatto, se non addirittura in tempo reale79.
La pubblicità nel processo penale risponde, come analizzato nel paragrafo
introduttivo,
alla primaria esigenza di carattere sociale di consentire un controllo
sull’operato del potere giudiziario: gli organi dello Stato, in uno Stato democraticamente
organizzato, devono conferire pubblicità alla loro attività e ciò al fine di garantire
continuità al processo di formazione dell’opinione e della volontà generale, che fungano
da contrappeso all’esercizio del potere, in un’ottica di garanzia delle libertà80.
Il controllo, così inquadrato nell’assetto democratico e sociale dello Stato, è
irrinunciabile; in particolare, costituisce l’unica forma di verifica popolare su
un’istituzione, quella giudiziaria, non rappresentativa, indipendente dal potere politico, e
tuttavia chiamata a svolgere una pubblica funzione in nome del popolo81.
L’interesse della collettività alla conoscenza dell’operato dell’apparato giudiziario
si compone di una molteplicità di aspetti: il rispetto delle regole da parte degli organi
dello Stato, le fasi ed il corso globale del sistema delle indagini; la tolleranza ed il rigore
che si alternano o cristallizzano verso i settori della devianza; l’esigenza che le notizie
siano riferite all’intero contenuto dei provvedimenti e allo stato dell’attività giudiziaria in
corso al momento della pubblicazione82.
L'interesse mediatico di una vicenda giudiziaria raggiunge il proprio apice
nell'immediatezza del fatto che l'ha generata, dunque in una fase corrispondente alle
indagini preliminari: ciò comporta la programmazione, nei vari palinsesti televisivi, di
numerose rubriche di approfondimento della vicenda in questione, quasi in “sinergia” con
gli organi inquirenti, nel tentativo di individuazione dei responsabili; in tal modo
“dall'informazione sul processo si passa al processo celebrato sui mezzi di informazione”
79 GIOSTRA, Giornalismo giudiziario: un ambiguo protagonista della giustizia penale, in Critica del
diritto, 1994, 1, p. 54
80 J. HABERMAS, Strukturwandel der Oeffentlichkeit, 1921, traduzione italiana Storia e critica
dell’opinione pubblica, 2001, p. 248.
81 A. BEVERE, A. CERRI, Il diritto all’informazione e i diritti della persona: il conflitto della libertà di
pensiero con l’onore, la riservatezza, l’identità personale, 2006, p. 91. - Vedi anche GIOSTRA,
Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007.
82 A. BEVERE, A. CERRI, Il diritto all’informazione, cit., p. 91.
83 G. GIOSTRA, Processo penale e mass media, cit., p. 112
30
.
Il rapporto tra la magistratura e gli altri sistemi dei poteri sociali è suscettibile di
determinare ingerenze nell’esercizio delle funzioni: essendo pienamente nelle potenzialità
dell’informazione del processo, infatti, generare un dissenso popolare nei confronti del
regime istituzionale, la comunicazione sull’operato giudiziario diviene un fattore di
rischio segnatamente per la corretta conduzione delle dinamiche processuali.
Sul punto, in dottrina è stato osservato come l’informazione sul processo
determini una vera e propria interazione che incide sulle regole e sui contenuti del gioco
processuale84.
Anche a non voler giungere ad attribuire alla pubblicità del processo una funzione
“educativa”, uno strumento pedagogico essenziale per insegnare ad obbedire alla legge85,
resta irrinunciabile il suo ruolo di strumento per il controllo, da parte della collettività,
della modo in cui la giustizia viene amministrata in suo nome.
Tuttavia, nonostante questa imprescindibile funzione della cronaca giudiziaria in
un ordinamento democratico, la questione delle ingerenze che essa può di fatto esercitare
sulla funzione giurisdizionale rimane aperta: infatti, il tema dell’interesse primario al
sereno svolgimento dei processi appare inevitabilmente legato ai limiti da porre alla
pubblicità.
Muovendo dalla premessa che il controllo sul modo di rendere giustizia sia la
ragion d’essere dell’informazione giudiziaria, si può concludere che le esigenze
istruttorie siano la ragione del suo limite86.
Ne discende che l’intento di garantire il controllo sull’attività giudiziaria potrebbe
nuocere proprio all’esercizio della stessa: non appare inverosimile che la pubblicità
pregiudichi l’accertamento dei fatti; d’altra parte, però, non si può escludere che, in
alcuni casi, la stessa non lo comprometta, bensì, lo agevoli.
Quest’ultima
riflessione
rende
estremamente
difficile
un
adeguato
contemperamento delle varie esigenze in gioco: una delle implicazioni generate dal
84 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere: il processo come spettacolo, Einaudi, 1994, p. 22.
85 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere, cit., p. 11, 12.
86 G. GIOSTRA, Processo penale, cit. p. 38.
31
richiamato bilanciamento di interessi riguarda il grado di “professionalità” della
collettività che deve esercitare il controllo sull’attività giudiziaria; affinché l’opinione
pubblica possa dirsi libera, cosciente e adeguata al giudizio che è chiamata a formulare, è
necessario preliminarmente che la stessa possieda gli strumenti per porre in essere il
vaglio di legalità sull’operato della magistratura.
Ci si interroga, allora, su che tipo di conoscenza del processo possano garantire la
stampa e la televisione: per ciò che riguarda la prima, sin dall’800 il crimine ha
interessato i lettori e riempito le gazzette; il personaggio che domina è il trasgressore
della legge, lo scenario principe è il processo87.
L’informazione sulla base della quale la conoscenza si forma dovrebbe rispondere
sempre ai requisiti di completezza, esaustività ed essere scevra da qualsiasi
contaminazione interpretativa dei fatti e delle dinamiche processuali: “conoscenza”
dunque, e non meramente notizia. L’una esprime un approccio sistematico e tecnico agli
elementi fattuali e giudiziari, l’altra, priva della opportuna integrazione qualificata, non
consente di giungere alla reale comprensione dei fatti oggetto di pubblicità.
L’interesse della collettività si esplica nella informazione sull’applicazione
materiale della giustizia; la problematica della comunicazione delle informazioni è legata
inevitabilmente alla presenza del filtro di mediazione tra il cittadino e l’osservatore
diretto della realtà processuale.
Attraverso la forma della pubblicità mediata, il cittadino, solo di fronte al sistema
sociale dell’informazione, diventa così “consumatore” delle notizie che gli vengono
“vendute” al pari di ogni altra merce88.
Una caratteristica implicita della pubblicità mediata è l'inevitabile esistenza di un
“filtro” che si pone tra il cittadino ed il giornalista, immediato osservatore della realtà
processuale.
Il regime quasi pienamente monopolistico dei mezzi di comunicazione di massa e
le necessità economico-pratiche dei giornalisti compromettono la realizzazione della
finalità
pubblica
dell’informazione:
quest’ultima
risente,
inesorabilmente,
87 GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere, cit. , p. 23
88 D. PULITANO’, “Potere di informazione” e “giustizia”, Laterza, 1975, p. 148.
32
dell’organizzazione gerarchica delle redazioni e dell’applicazione, alle stesse, di una linea
“politica dell'informazione” che incide nella scelta delle notizie.
In particolare, è stato evidenziato, come è il risultato finale a rivelarsi viziato: da
un’informazione piegata al potere e funzionale alla creazione del consenso, piuttosto che
ad un confronto dialettico sull’esercizio del potere, il passo è breve89.
Per quanto concerne specificatamente la diffusione delle notizie attraverso il
mezzo televisivo, vi sono due forme in cui la stessa può avvenire: il reportage, inteso
come sintesi commentata, e la trasmissione in diretta.
In entrambi i casi la conoscenza generata nello spettatore è relativa, in quanto non
consiste nella riproduzione integrale, e poco neutra, poiché è il risultato di
un’elaborazione ad opera dell’addetto al montaggio: la tv sconvolge la realtà, anche
quando la presenta come un documento;90 si pensi all'uso sapiente delle inquadrature, che
possono enfatizzare più del dovuto il ruolo dell'imputato, insinuare dubbi o suggerire
conclusioni affrettate.
Il rilievo specifico da conferire alle notizie giudiziarie, conformandosi
primariamente alla massimizzazione del profitto, spesso non risponde al criterio di
corretta formazione dell’opinione pubblica. Un fenomeno che viene denominato
“sopraffazione del messaggio rispetto al fatto”: la realtà presentata al lettore ha subito
filtri, scomposizione in classifiche di importanza, inserimenti in categorie preferenziali,
angolature, titoli e commenti, che la rendono sempre più distante dai fatti e segnano la
sorte del pubblico mediato, destinato ad un ruolo ignorante e passivo91.
La deviazione dell’obiettività dell’informazione ricevuta è già implicita
nell’importanza della fonte dalla quale filtra e proviene; esiste difatti l’aggravante
“dell’autorevolezza” che acquista il messaggio trasmesso da un mezzo egemonico quale è
in effetti la televisione.92
Si potrebbe obbiettare che l'opinione pubblica non dovrebbe necessariamente
essere considerata come un “parco di buoi” che crede ciecamente a tutto ciò che vede o
89
90
91
92
D. PULITANO’, Potere di informazione, cit., p. 147, ss.
F. FERRAROTTI, Mass media e società di massa, Laterza, 1992, p. 59
GIANARIA, MITTONE, Giudici e telecamere, cit., p. 25
GIANARIA, MITTONE, cit., p. 60.
33
legge sui giornali93, nonostante le prevedibili difficoltà di comprensione del complesso
linguaggio tecnico-giuridico.
Purtroppo, però, è opinione condivisa che le trasmissioni che si occupano
esclusivamente di cronaca giudiziaria sono più interessate a generare curiosità nello
spettatore, alla ricerca dello share, che a scandagliare la verità.
Un ulteriore, distinto, fattore di rischio in tema di pubblicità delle udienze penali
attraverso i media è rappresentato dal fatto che la presenza di telecamere e di
cineoperatori in aula possa pregiudicare la normale fisiologia dell’udienza e della
decisione94.
In dottrina, sul punto, esistono due distinte linee di pensiero: la prima si basa sulla
premessa che “l’effetto perturbante sia in re ipsa”95, essendo l’utilizzo delle telecamere in
aula destabilizzante per gli equilibri emotivi delle parti, dei testimoni e persino dei giudici
96
; quest’ultima circostanza compromette la naturalezza e la spontaneità dei
comportamenti in aula.
Una seconda linea di pensiero ritiene che una conclusione siffatta vanifichi la
previsione di cui all’articolo 147 d. lgs. 28 luglio 1989, n. 271 - norme di attuazione, di
coordinamento, e transitorie del c.p.p. - quest’ultima disposizione consente al giudice di
autorizzare la trasmissione radiofonica e televisiva del dibattimento, purché non ne derivi
pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza e della decisione97: la
valutazione sulle possibilità di condizionamento delle telecamere nella fisiologia del
processo va valutato nel caso concreto, secondo il rischio prevedibile.
In termini di lesività, va segnalato che il minor impatto sembra essere assicurato
dall’utilizzo della radio: l’ascolto radiofonico delle udienze sembrerebbe assolvere inoltre
alla funzione di garantire la neutralità del messaggio.
93 G. CORRIAS LUCENTE, Diritto di cronaca, limiti e libertà, relazione presentata al Convegno sul
tema del Giusto processo e della libertà di informazione, Torino 21 luglio 2008, in
www.libertaegiustizia.it
94 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale, cit., pp. 63-64.
95 CORDERO, Procedura Penale, Giuffrè, 2006, p. 266.
96 G. DI CHIARA, Televisione e dibattimento penale, cit., p. 282.
97 G. ILLUMINATI, Quando le parti non sono d’accordo sulle riprese audiovisive del dibattimento, in
Dir. penale e proc., 1996, p. 473.
34
In conclusione, la pubblicità del processo rappresenta una conquista civile
irrinunciabile, in assenza della quale si genererebbe una involuzione democratica;
bisogna, però, evitare che la pubblicità, sapientemente manipolata, possa procurare danni
maggiori di qualsiasi segreto: l’esigenza primaria è garantire la pubblicità, ma, allo stesso
tempo, “garantirsi dalla pubblicità malata”98.
98 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 27.
35
CAPITOLO 2
LA SEGRETEZZA DEGLI ATTI PROCESSUALI
1. Il “segreto” nel codice Rocco
Dopo l'analisi del rapporto giustizia-informazione alla luce dei dettami
costituzionali e della normativa di matrice europea, è opportuno ripercorrere
sinteticamente le tappe che hanno preceduto la vigente disciplina in materia di
“segretezza” degli atti processuali.
Sul tema in esame, la dottrina italiana, traendo ispirazione da quella tedesca, ha
operato una tripartizione tra: “sfera del confidenziale”, “sfera del privato” e, da ultimo,
“sfera del segreto”, da cui discende la distinzione tra notizie confidenziali, notizie private
e notizie segrete99.
Nel nostro ordinamento ha sempre avuto, storicamente, prevalenza il segreto
istruttorio, a discapito del diritto di cronaca 100; eloquente e, purtroppo, per certi versi
attuale, una celebre affermazione di Cesare Beccaria: “il segreto è il più forte scudo della
tirannia”101.
Già nel processo inquisitorio medievale il segreto istruttorio veniva giustificato
ora con l'esigenza di tutela del testimone, ora con la difesa della reputazione
dell'imputato, ora con la necessità di assicurare speditezza e agilità al processo102.
Un convincimento destinato a rivelarsi particolarmente “longevo”: l'editto del 26
marzo 1848, relativo alla libertà di stampa in cui si vietava, in modo perentorio, la
“pubblicazione di istruttoria criminale”.
99 F. CAPRIOLI, Colloqui riservati e prova penale, Giappichelli, 2000, p. 17
100 L. FILIPPI, La sentenza Dupuis, cit. p. 154
101 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene,1764, ed. a cura di G.D.PISAPIA, 1964 p. 43
102 G. GIOSTRA, Processo penale, cit., p. 10
36
Analoga disposizione si rinveniva nel codice di procedura penale del 1913: l’art.
106 vietava la pubblicazione, anche per riassunto, di atti o documenti del procedimento o
dell'istruzione, fino alla sentenza di proscioglimento o alla pubblica lettura in udienza, ed
era, comunque, assolutamente vietata la pubblicazione di atti relativi ad un'istruzione
chiusa per insufficienza di prove.
La scelta appena citata era dettata dall'esigenza, chiaramente esposta nella
Relazione al Re del 1914, di evitare che una stampa imprudente potesse vanificare la
possibile ricerca di nuove prove a carico: decisivo “per dare vigore a questi
provvedimenti” si era rivelato “il consenso dei più autorevoli rappresentanti della stampa
nel deplorare gli abusi che continuamente si verificano con grave danno della
giustizia103”.
Pienamente in sintonia con l'ideologia fascista, la disposizione appena citata è
stata ereditata dal codice Rocco del 1930: in particolare, dagli artt. 230 e 307, relativi al
“segreto interno”, e l'art. 164, relativo al “segreto esterno”.
Il primo consiste nel divieto di rivelazione di taluni atti processuali a soggetti
qualificati quali difensori e parti, mentre il secondo implica il divieto di divulgare o di
pubblicare atti relativi al processo.
Sussisteva una sfumata ma significativa differenziazione tra obbligo del segreto e
divieto di pubblicazione: l'obbligo del segreto, consistente nel divieto di rivelazione,
implicava necessariamente l'obbligo della non pubblicazione, costituendo questa proprio
una modalità di rivelazione.
Gli atti segreti erano, pertanto, non pubblicabili, mentre gli atti pubblicabili non
potevano essere segreti, ciò, quanto meno, relativamente agli stessi soggetti. Non
necessariamente valeva il contrario: se è vero che ciò che era segreto non poteva essere
pubblicato e ciò che era pubblicabile non poteva essere segreto, non è altrettanto vero che
ciò che non poteva essere pubblicato dovesse essere necessariamente segreto, e, quindi,
non essere comunicato a terzi”104.
103 L. MORTARA, U. ALOISI (a cura di), Spiegazione pratica del codice di procedura penale, libro I,
Utet,1914, p.157
104 F. MANTOVANI, Appunti in tema di pubblicazione arbitraria di atti processuali, in Riv. It. di dir. e
proc. penale, 1960, p.230
37
Nel codice del 1930 il divieto di rivelazione degli atti istruttori era figlio della
volontà di celebrare un processo nel quale alla formazione ed all’acquisizione della prova
partecipassero solo gli organi procedenti, con una sorta di extra omnes rispetto al resto
della comunità105.
Il divieto di rivelazione degli atti nel codice Rocco veniva disciplinato, come
accennato, dagli artt. 230 e 307, relativi rispettivamente alla fase dell’istruttoria
preliminare e alla istruttoria vera e propria, formale o sommaria che fosse.
Destinatari della prima norma erano, innanzitutto, gli agenti di polizia giudiziaria
o chiunque avesse compiuto o conosciuto per ragioni d’ufficio, gli atti di indagine, ivi
comprendendo anche pubblico ministero e pretore.
Ancora una volta l’obbligo del segreto era imposto a chiunque avesse avuto
accesso all’attività istruttoria, “indipendentemente dal grado di immediatezza e dal titolo
di acquisizione della conoscenza”.
L’art. 307 cod. abr. estendeva l’obbligo del segreto a tutti i magistrati, cancellieri,
periti ed interpreti, difensori e consulenti tecnici, e, più in generale, a tutti coloro che
avessero compiuto atti istruttori o assistito ad essi.
È significativo come la norma in esame, a differenza dell’art. 230 c.p.p. abr.,
disponesse l’esenzione dall’obbligo del segreto per le parti private ed i testimoni;
l’indiziato era tenuto al segreto per quanto riguarda l’interrogatorio reso nel corso delle
indagini di polizia giudiziaria, mentre poteva legittimamente rivelare la notizia e
l’avvenuto interrogatorio reso nella fase istruttoria106.
La ratio del segreto, così come disciplinato nel codice Rocco, era rappresentata
dalla volontà di preservare la genuinità della prova, nonché della sua fonte, da
qualsivoglia contaminazione esterna che potesse pregiudicare l’accertamento della verità
nel processo; gli artt. 230 e 307 c.p.p. estendevano il divieto di rivelazione erga omnes,
gli obbligati dovevano mantenere il segreto non solo nei confronti delle parti e dei terzi
estranei al processo; ciò rende ben evidente quanto fosse esteso, sotto il profilo
105 A. TOSCHI, Voce Segreto (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p.
1098
106 G. GIOSTRA, Processo penale, cit., p. 152
38
soggettivo, l’obbligo del segreto107.
Anche sotto il profilo oggettivo l’area di applicazione dell’art. 230 c.p.p. abr.
risultava particolarmente estesa: era coperto da segreto tutto ciò che riguardava gli atti
istruttori ed i loro risultati, ivi intendendo sia gli atti predisposti alla raccolta della prova,
sia quelli relativi all’istruzione.
Infine, per comprendere a pieno la reale portata del divieto di rivelazione nel
codice Rocco, è necessario porre l’attenzione su un profilo ulteriore e particolarmente
rilevante: il profilo cronologico.
Il dies a quo, per espressa previsione normativa, decorreva dall’inizio della fase
delle indagini. Ben più arduo risultava determinare, con esattezza, il dies ad quem: era
necessario partire dalla ratio sottesa all’istituto dell’obbligo del segreto, ossia evitare
inquinamenti ed interferenze nella fase di ricerca del materiale probatorio. Da tale
assunto sarebbe dovuto discendere, logicamente, che il segreto non dovesse avere più
ragione d’essere nel momento in cui gli atti venivano depositati, ai sensi dell’art. 372
c.p.p. abr.: se le parti potevano partecipare alla formazione di un atto, non vi era più
motivo di imporre il segreto.
La difficoltà maggiore consisteva nell’individuare il termine oltre il quale la
rivelazione non fosse più penalmente significativa; non è difficile immaginare situazioni
nelle quali permanesse un’esigenza di segretezza dell’attività istruttoria svolta pur dopo
che le parti ne avessero preso conoscenza108, come, per esempio, nel caso in cui fossero
ancora ignoti taluni correi dell’imputato.
In un codice che vedeva nella segretezza della fase istruttoria il mezzo più
confacente per un’efficace ricerca della verità, non poteva non trovare sede una rigida
norma destinata a limitare l’esercizio del diritto di cronaca: l’art. 164 c.p.p. abr., che
vietava la pubblicazione col mezzo della stampa o con altri mezzi di divulgazione, fatta
da chiunque, in modo totale o parziale, anche per riassunto o a guisa d’informazione, del
contenuto di qualsiasi documento e di ogni atto scritto o orale relativo all’istruzione
107 L. IANNONE, Sulla violazione del segreto istruttorio per l’affidamento dell’intero fascicolo al perito,
in Riv. it.di diritto e proc. penale, 1975, p. 1088
108 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 175
39
formale o sommaria, fino a che del documento o dell’atto non fosse data lettura nel
dibattimento a porte aperte.
Strettamente connessa alla norma processuale, il codice penale stabiliva, all’art.
684, la pena dell’ammenda per chiunque pubblicasse atti o documenti non pubblicabili.
La portata dell’art. 164 c.p.p. abr. può essere riassunta in un’unica proposizione:
era vietata la pubblicazione del contenuto di atti o documenti relativi all’istruzione e al
giudizio tenuto a porte chiuse109.
I dubbi sorgevano quando si trattava di determinare quali fossero, nello specifico,
gli atti coperti dal divieto di pubblicazione e quali parti di questi atti non fossero
pubblicabili.
Poiché la norma in esame faceva riferimento “solo” agli atti relativi all’istruzione
formale o sommaria, doveva essere esclusa in radice l’estensione dell’operatività del
divieto di pubblicazione alla fase delle indagini di polizia, e di conseguenza non poteva
trovare applicazione la norma sostanziale di cui all’art. 684 c.p.: pertanto non poteva
essere punito né chi pubblicasse atti di un procedimento penale di cui nessuna norma di
legge vietava la pubblicazione, né chi pubblicasse atti non processuali di cui la legge
vietava la pubblicazione110.
Restava da capire se il divieto in esame colpisse esclusivamente il contenuto degli
atti istruttori, o anche i fatti che in tutto o in parte ne costituivano il contenuto: anche in
tal caso è necessario porre l'attenzione sul “soggetto”, che, ipoteticamente, si trovasse a
pubblicare fatti relativi ad atti processuali. Partendo dal presupposto che la pubblicazione
è una forma di rivelazione, e rammentando che gli artt. 230 e 307 c.p.p. abr. estendevano
il relativo divieto ai “soli” soggetti ivi indicati, occorreva verificare se il soggetto cui ci
riferiamo trovasse menzione nelle norme suddette: in questo caso si ritiene che il divieto
di pubblicazione si estendesse anche ai “fatti” rappresentati in un atto processuale.
Viceversa, se il soggetto, come nel caso esaminato di parti o testimoni, non era
vincolato all’obbligo del segreto, la portata oggettiva dell’art. 164 c.p.p. risultava
circoscritta al contenuto di atti e documenti, non anche ai fatti conoscibili e conosciuti
109 F.M. MOLINARI, il segreto investigativo, Giuffrè, 2003, p. 5
110 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 187
40
aliunde111.
Riconosciuta l’ampia portata, tanto soggettiva quanto oggettiva, del dettato
dell’art. 164 c.p.p., ci si deve interrogare sull’effettivo significato del termine
“pubblicazione”: le più risalenti interpretazioni dottrinali lo consideravano quale
sinonimo di “divulgazione a mezzo stampa”112.
Tale interpretazione destava perplessità in ordine alla compatibilità degli artt. 164
c.p.p. e 684 c.p., con gli artt. 3 e 21 della Costituzione: vietare la “sola” pubblicazione a
mezzo stampa implicava, necessariamente, la piena legittimità di ogni altra forma di
diffusione tramite mezzi differenti; ma ciò significava introdurre una disparità di
trattamento tra mezzi di comunicazione, a solo danno dell’attività di stampa.
Con una prima pronuncia, la Corte costituzionale aveva rigettato l’eccezione di
illegittimità sollevata con riguardo agli artt. 164 c.p.p. e 684 c.p., ritenendo che questi si
riferissero a “chiunque pubblicasse atti istruttori”, ivi compresi i testimoni e le parti
private che, come visto, potevano riferire privatamente notizie istruttorie in quanto
esonerati dal segreto, ma incorrevano nella sanzione suddetta nel caso in cui facessero o
concorressero a fare “pubblica divulgazione a mezzo stampa”.
Inoltre, segnatamente al rispetto dell’art. 21 Cost., la Corte aveva reputato
giustificati i limiti alla libertà di stampa quando vi fosse la necessità di salvaguardare
esigenze fondamentali di giustizia113.
A distanza di circa quindici anni, il Giudice delle leggi, sulla base di analoghe
argomentazioni, aveva nuovamente rigettato la medesima questione di legittimità,
ribadendo come “le rivelazioni a mezzo stampa fossero obiettivamente diverse, per i
gravi effetti che ne derivano, da quelle eventuali di parti private e testimoni, che in virtù
dell’art. 307 c.p.p. non avevano l’obbligo del segreto. La diversità obiettiva di situazioni
giustificava, sul piano della ragionevolezza, la disciplina prevista dalle norme
censurate114.
111 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 29
112 A. ANTONIONI, Tutela del processo e cronaca giudiziaria, in Archivio penale, 1963, p. 425
113 Corte Cost., 10 marzo 1966 n. 18
114 Corte Cost., 10 febbraio 1981 n. 18
41
Le due pronunce della Corte risultano ben poco incisive in punto di
contemperamento di interessi costituzionalmente garantiti, quasi come se il loro intento
non fosse ricercare dell’equilibrio tra cronaca e segreto, bensì sottrarre l’operato dei
giudici al controllo della pubblica opinione115.
Le norme esaminate conferivano al codice Rocco un’impronta marcatamente
limitativa del diritto di cronaca giudiziaria: in linea di principio, la stessa avrebbe dovuto
rimanere esclusa dal processo penale finché questo non fosse diventato pubblico116.
Nel codice del 1930, dunque, il “segreto istruttorio”, antesignano del “segreto
investigativo” del codice del 1989, presentava confini irragionevolmente estesi117. Si
configurava una disciplina “in difficoltà di senso” 118, alla cui rigidità normativa si
contrapponeva, però, una sempre più diffusa prassi contra legem119.
Capitava sovente che per aggirare divieti siffatti, si arrivasse a plasmare una sorta
di “circolo vizioso”, tra organi investigativi e determinati mass media, eletti dai primi
quali interlocutori esclusivi, fruitori di illecite rivelazioni e beneficiari di sostanziale
impunità; la conseguenza di tale prassi consolidata era, evidentemente, quella di rendere
ancor più distorta e parcellizata l'informazione giudiziaria, con conseguente lesione del
diritto dei consociati ad essere informati in modo adeguato.
115 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 202
116 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 231
117 C. F. GROSSO, Segretezza e informazione nel nuovo processo penale, Politica del diritto, 1990, p. 77
118 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 49
119 L. GRILLI, La pubblicazione degli atti ed il segreto professionale del giornalista”, in la giustizia
penale,1990, p.566
42
2. Il “segreto” nel sistema processuale vigente
Nel 1986, con l’approvazione della c.d. “delega bis” per il nuovo codice di
procedura penale (dopo quella del 1974), iniziavano i lavori che avrebbero dovuto
condurre all’elaborazione di un nuovo codice di rito, ispirato a criteri assolutamente
nuovi rispetto al codice Rocco, anche in una materia particolarmente nevralgica, visti gli
interessi costituzionalmente garantiti in gioco, come quella dei rapporti tra giustizia ed
informazione.
Già nel 1984 era stato approvato un dibattuto disegno di legge 120 relativo al
segreto investigativo, le cui principali innovazioni riguardavano la tutela dell’immagine e
della riservatezza dell’indiziato e dei minori eventualmente coinvolti nel procedimento.
La legge delega del 1987 aveva previsto, in modo estremamente dettagliato, i criteri
guida cui il nuovo codice avrebbe dovuto uniformarsi; anzi, a ben vedere, sembrava che
il legislatore delegante non si fosse limitato a fissare le coordinate cui far riferimento per
l’esercizio della delega legislativa, ma fosse andato oltre, indicando, seppur per grandi
linee, le fattispecie del divieto di pubblicazione degli atti, con norme, talvolta,
immediatamente precettive121.
La ragione di questa scelta era palese: l'assoluta necessità di superare gli evidenti
limiti del codice previgente, nel quale ad un’estensione notevole dell’area interessata,
almeno potenzialmente, dall'obbligo del segreto faceva riscontro nella pratica un
sostanziale depotenziamento della normativa, dovuta ad una disinvolta e costante
disapplicazione, anche da parte della stessa magistratura, delle sue disposizioni122.
Le indicazioni del delegante si proponevano, quale primo obiettivo, di
ridimensionare la portata del divieto di pubblicazione, coordinandolo con l’obbligo del
120 Disegno di legge 2167 del 19 luglio 1984
121 G. GIOSTRA, Processo Penale, op. cit, p. 279
122 P.P. RIVELLO, Prevedibili incertezze della distinzione ex art. 114 tra l’atto ed il suo contenuto, in Riv.
it. di diritto e procedura penale,1990, p. 1067
43
segreto.
Furono dunque introdotte una disciplina diversificata in base al regime degli atti
ed una chiara distinzione tra l’obbligo del segreto e il divieto di pubblicazione123.
Le finalità perseguite dalla normativa in esame erano, sostanzialmente, due:
tutelare la fase delle indagini preliminari e salvaguardare la corretta formazione ed
assunzione delle prove. Sul primo versante, il legislatore delegato ha ritenuto di
rafforzare in modo significativo la “segretezza interna”,124 ritenendo che la divulgazione
delle informazioni relative al procedimento penale potesse arrecare nocumento alla fase
investigativa.
Meno significativo l'intervento posto in essere dal legislatore relativamente al
secondo interesse da salvaguardare, quello alla tutela del convincimento del giudice
dibattimentale: la “segretezza esterna” avrebbe dovuto perseguire il fine ultimo di evitare
“contaminazioni mediatiche” dell'organo giudicante, salvaguardandone terzietà ed
imparzialità dall'eventuale conoscenza indotta di atti d'indagine.
In realtà il “rischio” di contaminazione per il giudice del dibattimento potrebbe
essere ben più consistente, soprattutto nei procedimenti ad ampia rilevanza sociale, a
causa di campagne mediatiche di sostegno ad una specifica tesi accusatoria.
Non si dimentichi, poi, che la parte che intenda portare a conoscenza del giudice
atti che in quella fase dovrebbe ignorare potrebbe ottenere il risultato cui aspira in via
processuale, con un sapiente e smaliziato uso del suo diritto a sollevare questioni
preliminari concernenti il contenuto del fascicolo del dibattimento, ex art. 491 comma 2
c.p.p. 125
La norma di riferimento, in tema di segretezza degli atti di indagine, è l’art. 329
c.p.p., rubricato “obbligo del segreto”: si tratta di una disposizione complessa, la cui
esegesi richiede continui rinvii a quanto disposto da altre norme, processuali e sostanziali,
e che nasconde tra le sue pieghe più di un’insidia.
Il concetto di segretezza, come visto nel paragrafo precedente, indica una
123 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 281
124 G.D. PISAPIA, Il segreto istruttorio nel processo penale,Milano, Giuffrè, 1960, p. 42 e 152
125 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit, p. 333
44
preclusione alla conoscenza di terzi, più specificatamente esprime la relazione negativa
che intercorre tra un fatto e la sua conoscibilità in forza di limiti preclusivi
normativamente posti126.
La nozione di segreto individua un rapporto che si sviluppa su due piani: sotto
l'aspetto obiettivo, il segreto riflette la natura del legame con ciò che deve restare occulto,
sotto il profilo soggettivo denota un collegamento sia con i soggetti che possono
conoscere sia con quelli cui la conoscenza è inibita127.
Nell’ambito processuale penale il “segreto processuale” si distingue in “segreto
d'indagine” e “segreto probatorio”: il primo abbraccia il divieto di rivelare ed il divieto di
pubblicare; il secondo concerne il divieto di svolgere accertamenti giudiziari in ordine a
talune materie128.
Il segreto d'indagine tende ad impedire che estranei vengano a conoscenza di
determinati atti investigativi; il segreto probatorio costituisce invece un limite alla
capacità cognitiva del giudice, impedendo determinati flussi di notizie.
E' del tutto evidente come si tratti di istituti profondamente diversi tra loro, ma
accomunati dalla costante di sacrificare determinati diritti o interessi in vista della tutela
di altri valori ritenuti preminenti, da cui discende la necessità di operare un bilanciamento
tra interessi contrapposti; il compito, tutt'altro che agevole, spetta al legislatore129.
Questi dovrà dunque, nel pieno rispetto della cornice costituzionale, elaborare una
soluzione che comporti un adeguato contemperamento tra due interessi confliggenti:
quello della salvaguardia dell’efficacia investigativa e quello della libertà di
informazione; la stessa Corte Costituzionale, con la storica pronuncia n. 19 del 1962 ha
affermato che “la tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile
nell'esigenza che, attraverso di essi, non vengano sacrificati beni, ugualmente garantiti
dalla Costituzione”.
126 Ancora, G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 55
127 G. PALOZZI, N. G. SARACINO, voce “segreto”, tutela processuale del segreto”,in Aa.Vv.,
Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1992, p. 1
128 A. TOSCHI, voce “Segreto ( diritto processuale penale)”, in Aa.Vv., Enciclopedia del diritto, Milano,
Giuffrè, 1989, pag. 1098 e ss
129 A. TOSCHI, voce “Segreto”, cit. p. 1099
45
Come già esaminato nel primo capitolo, il momento di maggior frizione tra le
esigenze del procedimento e quelle dell’informazione è rappresentato dalla fase delle
indagini preliminari; di conseguenza, il sistema di segretezza e di pubblicità degli atti
processuali riflette, inevitabilmente, il nuovo significato processuale che l’attività
inquirente assume nel sistema del 1988130.
A rendere le indagini preliminari momento nevralgico nella disciplina del segreto
è la vicinanza cronologica col – presunto – fatto delittuoso, che comporta, da un lato il
diritto e l'interesse degli inquirenti alla circospezione ed al silenzio, dall'altro quello della
collettività ad essere costantemente informata.
Nel codice Rocco, ove l'istruzione era ritenuta una “metastasi inquisitoria,” 131 gli
atti investigativi su cui incideva il divieto di pubblicazione assumevano nella fase
dell’istruttoria valore probatorio, ragion per cui, anche se eccessivamente limitativa del
diritto di cronaca, la scelta di fondo appariva coerente con il rito istruttorio.
Nel nuovo codice, invece, le attività del pubblico ministero e della polizia
giudiziaria sono “tendenzialmente” prive di significato processuale, per cui, a rigor di
logica, la portata della segretezza nell’attuale sistema normativo dovrebbe risultare meno
incisiva.
La segretezza del processo, anche per l'imputato, è un canone tipico del sistema
inquisitorio, mentre la pubblicità, come forma di controllo dell'opinione pubblica,
dovrebbe caratterizzare il sistema accusatorio132.
In realtà la conclusione suddetta è, quantomeno, discutibile: innanzitutto capita
sovente che gli atti di indagine assurgano ad elemento probatorio, come in taluni riti
alternativi - giudizio abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto – o, nel
giudizio ordinario, come nel caso di atti irripetibili di cui agli artt. 431, 512 c.p.p., o nelle
ipotesi di atti utilizzati per contestazioni ex art. 500, commi 4, 6, 7, c.p.p..
130 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 284
131 F. CORDERO, Procedura penale, cit. p.. 348
132 D. SIRACUSANO, Diritto processuale penale, Giuffrè, 2006, p. 31
46
Ma, oltre quanto sopra, in una democrazia in cui, come detto nel capitolo che
precede,
la
pubblicità
è
funzionale
al
controllo
dell’opinione
pubblica
sull’amministrazione della giustizia, gli elementi di indagine, pur se processualmente
irrilevanti, rientrano a pieno titolo nel raggio di azione di tale controllo, in quanto “capire
perché non si svolge il processo non è meno importante di sapere come si svolge”133.
In definitiva, un processo accusatorio, per essere tale, non deve bandire il segreto,
piuttosto prevederlo solo laddove risulti necessario per evitare un probabile pregiudizio
all'indagine. Il vero problema è un problema di misura: plasmare un regime di segretezza
“assoluto” ed “indistinto” equivarrebbe “ad una notte, in cui tutte le vacche sono nere”134.
Si tratta, come sempre, di individuare le tecniche legislative con cui, nel pieno
rispetto del dettato costituzionale, disciplinare in modo adeguato la materia della
segretezza degli atti. Due sembrano le soluzioni prospettabili: attribuire all'organo
inquirente un potere di segretazione caso per caso; ovvero prestabilire, in modo tassativo,
ciò che è segreto e ciò che è divulgabile.
Come anticipato, il codice Rocco aveva optato per il criterio della
“predeterminazione
legale”;
scelta
sotto
certi
profili
censurabile,
in
quanto
potenzialmente produttiva di “segreti inutili” o di “pubblicità dannosa per le indagini”.
L'attuale assetto normativo invece, tutela la riservatezza processuale attraverso un
uso congiunto delle due soluzioni prospettate: opzione che permette di attenuare la
rigidità del criterio della predeterminazione, evitando le potenziali criticità sopra indicate,
e rimettendo al pubblico ministero il potere di decidere caso per caso.
La scelta di fondo del legislatore del 1988 è stata quella di collegare e conciliare
tra loro la normativa sull'obbligo del segreto e quella sul divieto di pubblicazione
(artt. 329 e 114 c.p.p.), tenendo presente che quest'ultima si può ricostruire solo avendo
come punto di riferimento la prima.
I due articoli in esame pongono distinti obblighi omissivi, a violare il primo
bastano dei sussurri sotto banco; altro è pubblicare, il verbo designa le
133 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 287
134 G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, Testo a fronte, traduzione Vincenzo Cicero, Bompiani,
1995, pag. 144
47
comunicazioni ad vulgum. L'uno è violabile una volta sola, l'altro è reiteratamente
trasgredibile135.
A differenza della pubblicazione, che presuppone la diffusione ad un numero
imprecisato di persone, la rivelazione può riguardare anche uno o più soggetti
determinati, bastano “bisbigli a quattr'occhi”136.
Diversa, inoltre, è la capacità diffusiva del tipo di condotta: la confidenza privata
da persona a persona del segreto di indagine resta circoscritta in un campo definito, o
definibile; la pubblicazione delle medesime, invece, attraverso la stampa, la radio, la
televisione, la cinematografia, la lettura o la narrazione in pubblico, è destinata a
chiunque137.
In termini di effettività della disciplina, poco è cambiato col passaggio al nuovo
codice di rito; è rimasta intatta la ricorrente tentazione di risolvere il problema ampliando
il segreto, mentre, invece di espanderlo, lo si sarebbe dovuto limitare a un ambito
circoscritto, dai confini nitidamente tracciati, presidiati da sanzioni serie per chi li
travalichi138.
Degli aspetti relativi al divieto di pubblicazione, ed alle possibili intersezioni e
incongruità tra le discipline normative, ci occuperemo diffusamente nel capitolo terzo,
con particolare riferimento al divieto di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche.
Possiamo sin da ora notare, però, come le norme suddette, al pari di quanto
analizzato nel paragrafo che precede in riferimento agli artt. 307 e 164 del codice Rocco,
disciplinino due profili ben distinti pur se coordinati: l'art. 329 c.p.p., rubricato “obbligo
del segreto” delinea la “segretezza interna”; l'art. 114 c.p.p., relativo al “divieto di
pubblicazione”, la “segretezza esterna”.
La prima corrisponde al divieto di rivelazione inteso come limite alla conoscibilità
di determinati atti o fatti da parte di determinati soggetti; la segretezza esterna indica,
invece, il divieto di pubblicazione di atti, senza che, peraltro, questi debbano restare
segreti anche per le parti.
135 F. CORDERO, Procedura, cit., p. 348
136 F. CORDERO, Procedura penale,cit., p. 352
137 F. M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 161
138 G. GIOSTRA, Cronaca giudiziaria:il proibizionismo non serve., in dir. Pen. e proc., 1998, p. 799
48
L'esistenza del segreto interno postula necessariamente quella del segreto esterno,
al contrario può sussistere un segreto esterno senza un segreto interno; “nel vigente
codice di rito la segretezza interna resta distinta da quella esterna e non vi è una sorta di
equazione tra ciò che diviene conoscibile all'interno del procedimento e la sua
divulgabilità: non vige un automatismo, pur riscontrandosi una tendenziale convergenza
tra conoscibilità, rivelabilità e pubblicabilità degli atti di indagine, che non raggiunge,
peraltro, la coincidenza tra regime di segretezza e quello – pur sempre distinto – di
divulgazione”139.
Ovviamente, disporre la segretezza dell'intera fase delle indagini preliminari
comporterebbe un irragionevole e sproporzionato sacrificio del diritto di cronaca; allo
stesso modo, però, consentire una pubblicità incontrollata equivarrebbe ad un vero e
proprio “suicidio investigativo”.
L'ambito oggettivo, soggettivo e temporale del segreto deve essere definito in
modo da recare il minor danno possibile al diritto di cronaca, le cui limitazioni sono
giustificabili solo se finalizzate a garantire la proporzione tra restrizione posta
all'interesse-mezzo (diritto di cronaca) e l'interesse-scopo (tutela delle indagini)140.
L'art. 329 c.p.p., in tal senso, statuisce che gli atti di indagine compiuti dal
pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti da segreto; certamente
l’obbligo al segreto implica una condotta di tipo omissivo, che consiste nel non rivelare le
notizie riservate.
La disposizione in esame, come vedremo diffusamente nei paragrafi successivi,
stabilisce la cessazione dell’obbligo del segreto nel momento in cui l’indagato possa
venire a conoscenza dell’atto; vieta la pubblicazione degli atti coperti dal segreto ed
introduce, infine, la facoltà per il pubblico ministero di prorogare il divieto oltre il
termine previsto per non pregiudicare lo svolgimento delle indagini.
Nonostante l'assenza di una specifica aggettivazione, si ritiene, che la norma si
riferisca ai “soli” atti di indagine preliminare. Tale convincimento scaturisce, oltre che
dalla collocazione della norma in esame nel libro V del codice dedicato proprio alle
139 Cass. Sez. II, 24 settembre 1994, Leonelli, in Cass. Pen., 1996, p. 1181
140 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 109
49
indagini preliminari, dal suo tenore letterale: il comma 1 dispone che l'obbligo del segreto
operi “non oltre la chiusura delle indagini preliminari”, escludendo, in tal modo, che il
vincolo del segreto riguardi le eventuali indagini suppletive di cui all'art. 419 c.p.p. e le
possibili indagini integrative di cui all'art. 430 c.p.p.
La ratio sottesa alla disciplina dell'art. 329 c.p.p. è, come più volte chiarito, quella
di tutelare l'attività d'indagine; la norma non è invece da ritenersi orientata alla
salvaguardia dei diritti delle persone coinvolte nel procedimento penale141.
La norma in esame, rispondendo ad una precisa direttiva sul punto, non ha più ad
oggetto l’intera fase delle indagini preliminari, ma riguarda i singoli atti di indagine 142,
per i quali garantisce “mosse coperte”143, affinché il pubblico ministero possa
correttamente individuare gli elementi alla luce dei quali assumere le determinazioni
inerenti all'esercizio dell'azione penale.
Quello che il legislatore, a differenza di quanto disponeva l’art. 307 del codice
Rocco, non ha affatto precisato, è se con la dicitura “atti di indagine” l’art. 329 c.p.p. si
riferisca all’atto inteso come “attività” o come “documento”.
Da una lettura orientata al rispetto dei criteri di riferimento contenuti nella legge
delega, e soprattutto alla maggiore sintonia con le altre disposizioni del codice, si ritiene
che il legislatore abbia inteso imprimergli un duplice significato: atto di indagine come
“comportamento umano”, il cui nucleo naturale è costituito dalla condotta volontaria del
soggetto, ma anche “documento” idoneo a rappresentare il comportamento medesimo
attraverso la scrittura, la fotografia, la cinematografia, la fonografia o altro mezzo
adeguato”144.
Tanto premesso, proseguendo l'analisi del profilo oggettivo dell'obbligo del
segreto, si rende necessario verificare se “tutti” gli atti compiuti durante la fase delle
indagini preliminari siano rilevanti al fine del segreto.
141 C. DE MARTINI, Cronaca giudiziaria e presunzione di innocenza, in Diritto dell'informazione e
dell'informatica, 1997, p. 209
142 M. QUERQUI, Obbligo del segreto e divieto di pubblicazione di atti e immagini,in Dir. Pen. e
processo, 2005, p. 1034
143 F. CORDERO, Procedura penale, cit. p. 348
144 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit. p. 166
50
Esistono atti, pur cronologicamente inquadrati nella fase delle indagini, che non
perseguono il fine proprio dell’atto di indagine, cioè il reperimento di fonti di prova: tra
questi la ricezione della notizia di reato (art. 330 c.p.p.), l’avviso di garanzia (art. 369
c.p.p.) - sulla cui natura, come vedremo, sono sorti molteplici contrasti in dottrina -,
l’arresto in flagranza ( art. 380 c.p.p.), l’avviso dell’arresto ai familiari (art. 387 c.p.p.).
Sulla natura dell'informazione di garanzia, come accennato, si riscontrano varie
interpretazioni dottrinarie: alcuni ritengono che l'obbligo del segreto su tale atto venga
meno “solo” nel momento in cui lo stesso venga a conoscenza del destinatario, e che
quindi “nasca” come atto di indagine a tutti gli effetti145.
Appare preferibile, e maggiormente coerente col dettato normativo, la tesi per cui
l'informazione di garanzia, come pure gli inviti a comparire, sia qualificabile quale “atto a
doppio titolo non segreto”,146 in quanto atto non di indagine e, comunque, destinato
proprio ad esser conosciuto dall'indagato, dunque, avulso dalla previsione dell'art. 329
c.p.p.
Parimenti esclusi dall’obbligo del segreto,
e quindi liberamente divulgabili,
dovrebbero essere gli atti del pubblico ministero conclusivi o tendenzialmente conclusivi
delle indagini, come la richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto
penale di condanna, di archiviazione.
Questa interpretazione, pur se pienamente coerente con il tenore letterale della
norma, si discosta in modo troppo marcato dall’input della legge delega, in cui si estende
l’obbligo del segreto su “tutti” gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia
giudiziaria.
Paradossalmente però, restando pedissequamente fedeli a quanto previsto in legge
delega, dovrebbero rimanere esclusi dall’obbligo del segreto gli atti del giudice delle
indagini preliminari - quali ad esempio un'ordinanza di custodia cautelare o
l'autorizzazione per le intercettazioni di comunicazioni - ed anche le eventuali indagini
difensive147.
145 G. NEPPI MODONA, Profili del nuovo codice di procedura penale, (a cura di Giovanni Conso e
Vittorio Grevi), Cedam, 1996, p. 376
146 G. GIOSTRA, Cronaca giudiziaria:il proibizionismo non serve., in dir. penale e processo, 1998, p. 799
147 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p.. 301
51
Contrariamente alla tesi che esclude radicalmente la natura di segretezza dagli atti
posti in essere dal giudice per le indagini preliminari, taluni autori ritengono che il
segreto debba necessariamente sussistere rispetto ai provvedimenti giurisdizionali con cui
il giudice autorizza il compimento di atti cui la difesa non ha il diritto di assistere, come,
ad esempio, l'autorizzazione all'intercettazione di comunicazioni e conversazioni148.
Riassumendo, sono dunque esclusi dall'obbligo del segreto: gli atti di indagine
difensiva, gli atti posti in essere dalla persona offesa - come ad esempio la presentazione
di una querela149 - e, infine, eventuali atti compiuti da soggetti estranei al procedimento, si
pensi ad un'inchiesta giornalistica150.
Si afferma in dottrina che oggetto del segreto sia “solo l'atto” del procedimento e
la documentazione dello stesso, non anche il “fatto storico” conosciuto da un determinato
soggetto; pertanto, la persona che ha partecipato al compimento di un atto di indagine
non può rivelarne lo svolgimento – ad esempio le domande rivolte e le risposte date – ma
sarebbe libera di riferire i fatti storici a sua conoscenza 151, salvo che il pubblico ministero
eserciti il potere di segretazione di cui all'art. 391 quinquies, che analizzeremo più avanti.
Anche la Suprema Corte ha ritenuto che l'obbligo alla segretezza non si estenda
ai fatti storici direttamente percepiti, specificando come la locuzione “atto di indagine”
debba essere intesa in senso restrittivo, ragion per cui serve una rigorosa interpretazione
dell'ambito di operatività del segreto investigativo: l'atto di indagine non può
automaticamente coincidere col fatto che ne costituisce l’oggetto152.
In conclusione, per quanto concerne la delimitazione del profilo oggettivo della
norma in questione, per individuare se un determinato atto rientri nell'obbligo del segreto,
è necessario seguire una precisa progressione logica: innanzitutto, bisogna verificare che
si tratti di un atto compiuto dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria; verificare
che l'atto in questione sia qualificabile come atto di indagine, secondo l'impostazione
148 P. VENTURA, S. ASTARITA, A. LOPS, .,in Aa.Vv., Codice di procedura penale ipertestuale.
Commentario con banca dati di giurisprudenza e legislazione, (a cura di Alfredo Gaito), Utet, 2008,
p. 1802
149 G. RUELLO, Segreto di indagine e diritto di cronaca, in La giustizia penale, 1991, p. 602
150 G. GIOSTRA, Processo Penale, op. cit, pag. 301
151 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2006, p. 402
152 Cass., Sez. II, 24 settembre 1994, Leonelli, in Cass. Pen., 1996, p. 1182
52
esposta in precedenza; infine, individuare il momento in cui esso è compiuto, in
particolare quando è “conoscibile” da parte della difesa.
Prima di passare all'esame della dimensione “cronologica” dell'obbligo del
segreto, è opportuno vagliare quali siano i destinatari del dettato normativo, e quali le
conseguenze sanzionatorie sottese alla sua violazione.
Sotto il profilo soggettivo, la nuova normativa non determina particolari
problematiche, infatti, rispetto alla previgente disciplina, non si individuano
dettagliatamente tutti i soggetti vincolati dall'obbligo del segreto, ma si pone un più
generale e cogente obbligo erga omnes153; su tale aspetto, il legislatore del 1988 ha
“oggettivato la segretezza”154.
Oggi, quindi, la norma opera in modo “oggettivo”: vengono delineati gli atti
coperti dal segreto, e ne viene imposto a “tutti” il rispetto: chiunque sia a conoscenza di
un atto vincolato dal segreto, ivi compresi naturalmente i giornalisti 155, è tenuto al riserbo
a prescindere dalla qualifica soggettiva che riveste.
Come esaminato nel paragrafo che precede, il codice Rocco, all'art. 307,
escludeva espressamente l'estensione dell'obbligo del segreto all'indiziato, alla persona
offesa ed ai testimoni; essi potevano porsi, perciò, come rivelare legittimamente la notizia
processuale istruttoria, con intuibili, gravi pregiudizi all'efficacia delle indagini
preliminari.
La soluzione adottata dal legislatore del 1988 non appare esente da critiche e
osservazioni.
É infatti consentito ai soggetti sopra indicati di riferire liberamente notizie sul
procedimento fino all'escussione prevista dall'art. 377 c.p.p.; da questo momento subentra
l'obbligo del segreto.
La disciplina esposta pregiudica gravemente il diritto dell'indagato di compiere
indagini difensive, limitando la sua facoltà di acquisire notizie dalle persone informate
sui fatti e tenute al segreto solo perchè preventivamente coinvolte in attività non
153 NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in Profili del nuovo codice di
procedura penale, a cura di Conso-Grevi, III ed., Cedam, 1993, p. 310
154 Relazione al progetto preliminare al C.p.p., p. 82
155 C. DE MARTINO, Cronaca giudiziaria, cit. , p. 209
53
accessibili.
L'estensione all'indagato delle garanzie costituzionali della difesa porta ad
escludere la legittimità di una disciplina che ne limiti la libertà espressiva o l'autonomia
informativa156.
La violazione dell'obbligo in esame comporta l'applicazione delle norme penali
sostanziali di cui agli artt. 326 e 379 bis c.p.; il primo, rubricato “rivelazione ed
utilizzazione di segreti d'ufficio”, configura un reato proprio, che punisce tutti i pubblici
ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio che, rivelando o divulgando la notizia
riservata, violano i loro doveri e cagionano un pregiudizio al buon funzionamento della
pubblica amministrazione157.
L'art. 379 bis c.p., invece descrive due distinte condotte illecite: la prima punisce
chiunque riveli indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale,
apprese per aver partecipato o assistito all'atto; la seconda parte, introdotta dall'art. 11
legge n. 397 del 2000, punisce chi, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso di un
procedimento penale, non osservi il divieto imposto dal p.m. ai sensi dell'art. 391
quinquies c.p.p.
E' evidente l'inadeguatezza della tutela sostanziale alla nuova disciplina
processuale: un obbligo così esteso dal punto di vista soggettivo come quello imposto
dall'art. 329 c.p.p., ha possibilità di tenuta solo in presenza di una sanzione adeguata in
caso di inosservanza, in caso contrario, purtroppo corrispondente alla realtà, l'art. 329
c.p.p. assume le vesti di una lex imperfecta, data la palese incongruenza tra quanto ivi
disposto, ponendo in capo a “tutti” il divieto di rivelazione, e quanto previsto dall'art 326
c.p. che configura invece un reato proprio ricollegato alla qualifica di pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio. Restano esclusi dalla categoria suddetta, pertanto, le parti
del processo, i difensori e i consulenti tecnici.
Lo scenario delineato presentava evidenti profili di criticità: “tutti” erano obbligati
al segreto – art. 329 c.p.p. - ma solo “alcuni” erano penalmente perseguibili - art. 326
c.p. - a meno che non avessero concorso con un soggetto investito della qualifica
156 A. TOSCHI, Voce segreto,cit., p. 1112
157 L. CARLI, Indagini preliminari e segreto investigativo, in Riv. it. di diritto e procedura penale,, p. 789
54
richiesta.
Come vedremo più avanti, solo nel 2000, con l'introduzione di due nuove
fattispecie di reato dirette alla tutela della segretezza investigativa, il legislatore è
intervenuto a colmare parzialmente questo paradossale vuoto di tutela.
L'attuale segreto investigativo è, dunque, un segreto “specifico” che cade sul
singolo atto; “eventuale”, perché correlato al compimento di determinati tipi di atti; e,
normalmente, “limitato nel tempo”158.
Esaminati il profilo oggettivo e soggettivo dell'obbligo al segreto, così come
delineato dal nuovo codice di rito, si rende, infine, necessaria un'analisi della dimensione
“cronologica” del segreto stesso.
158 E. LUPO, La pubblicabilità degli atti d'indagine preliminare: la Corte Costituzionale amplia i limiti
legislativi, in La legislazione penale, 1995, p. 499
55
2.1 La durata del segreto
Anche sotto il profilo della durata del segreto, la vigente disciplina risulta
nettamente difforme rispetto a quella del codice Rocco.
L'efficacia del segreto configura “una relazione di durata a termine” 159: come
accennato, l'art. 329 c.p.p., al comma 1, dispone che l'obbligo del segreto sugli atti di
indagine permanga finché l'imputato non ne possa avere conoscenza, e comunque non
oltre la chiusura delle indagini preliminari.
Innanzitutto va rilevato come risulti assolutamente improprio parlare di
“imputato”,
posto che, tale status, si acquisisce con la chiusura delle indagini
preliminari, che è proprio uno dei termini finali del segreto d'indagine, e se all'esito del
procedimento dovesse intervenire una pronuncia di archiviazione, pur operando i limiti
divulgativi di cui agli artt. 329 e 114 c.p.p., non vi sarà mai un imputato.
Esistono, invero, casi in cui la locuzione “imputato” potrebbe risultare
correttamente collocata nella fase delle indagini preliminari: ad esempio in caso di revoca
della sentenza di non luogo a procedere, che determina la reviviscenza della qualità di
imputato; o nei casi di richiesta di giudizio immediato, di presentazione per il giudizio
direttissimo, o di richiesta del decreto penale di condanna, qualora il giudice restituisca
gli atti al pubblico ministero: in tutti questi casi avremmo un imputato nel corso delle
indagini preliminari.
Al fine di evitare conseguenze difficilmente sostenibili, si ritiene che l'art. 329
comma 1 c.p.p., per ragioni di economia espositiva, allorché parli di imputato in luogo di
persona sottoposta alle indagini, intenda, in realtà, riferirsi ad entrambe le figure160.
Viene dunque stabilito un “doppio termine finale”, di cui il termine massimo, è
159 C. CARINI, Segretezza e riservatezza delle indagini preliminari: per uno studio sistematico,
Margiacchi-Galeno, 2008, p. 79
160 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 304
56
dato dalla chiusura delle indagini preliminari: quando inizia il processo termina la ragione
del segreto, proprio perché il processo accusatorio si caratterizza per la pubblicità dei suoi
atti161.
Più problematico risulta il parametro della “conoscenza degli atti da parte
dell'imputato”: verosimilmente il legislatore, con questa locuzione, si riferisce alla
conoscenza “legale” dell'atto segreto, ivi intendendo il momento in cui il soggetto sia
messo nella condizione di conoscere l'atto stesso.
Si parla, in tal caso, di “titolarità” della conoscenza in luogo “dell'effettività” della
stessa; ragion per cui, per valutare l'operatività del segreto d'indagine, non si dovrà tener
conto del momento in cui l'atto è stato compiuto, ma di quello in cui si realizza il diritto
alla conoscenza per l'indagato, che è quasi sempre posteriore; ovviamente rimane sempre
in vigore il termine finale riferito a tutti gli atti dell'indagine preliminare162.
Il termine c.d. “intermedio” opera in relazione al singolo atto di indagine
conoscibile, mentre il termine “finale” abbraccia tutti gli atti di indagine: il primo opera
in via eventuale, dal momento che il verificarsi o meno della conoscibilità dipende dalle
scelte del pubblico ministero; la chiusura delle indagini preliminari invece determina
necessariamente la fine del segreto per tutti gli atti che in precedenza ne erano coperti163.
E' necessario individuare da quale momento l'indagato ha la facoltà di conoscere
gli atti dell'indagine, e quali siano gli atti in questione: a tal fine è possibile procedere ad
una ripartizione in tre gruppi: al primo gruppo appartengono atti ai quali partecipi
l'indagato ed atti compiuti con la presenza, anche, del solo difensore.
Si tratta evidentemente di atti che, per la loro stessa natura, sono “conosciuti” ab
origine, per cui nascono non segreti: appartengono a questa prima categoria, tra gli altri,
l'applicazione di una misura coercitiva e l'interrogatorio.
Quest'ultimo, in modo particolare, rappresenta “il momento clou” di caduta del
segreto d'indagine poiché, come stabilito dall'art. 65 comma 1 c.p.p., l'autorità che
procede all'interrogatorio deve, innanzitutto, esporre in forma chiara e precisa il fatto
161 L. GRILLI, La pubblicazione degli atti e il segreto del giornalista, in La giust. penale, 1990, p. 568
162 L. GRILLI, La pubblicazione, cit. p. 567
163 M. BONTEMPELLI, sub art. 329 c.p.p., in AA.VV. , Commento al codice di procedura penale,
( a cura di Piermaria Corso), La Tribuna, 2008, p.1535
57
attribuito all'interrogato, senza limitarsi ad indicazioni sommarie, ma con particolare
attenzione al rilievo accusatorio ed alle risultanze investigative a carico relative alla
condotta, all'evento, alle modalità di luogo e di tempo ed all'elemento psicologico.
Devono essere, inoltre, contestati gli elementi di prova che sostengono l'accusa e
le relative fonti, purché il venir meno della segretezza sotto questo profilo non
pregiudichi la prosecuzione delle indagini164.
Relativamente all'applicazione delle misure precautelari la Suprema Corte ha
riconosciuto che “la diffusione della notizia dell'arresto di persona indagata non integra il
reato di rivelazione del segreto d'ufficio perchè l'arresto, nel momento in cui viene
eseguito, è conosciuto dall'indagato che lo subisce e quindi, ai sensi dell'art. 329 comma
1, non può essere coperto dal segreto”165.
Appartengono al secondo gruppo gli atti compiuti senza la presenza dell'indagato
e del difensore, pur avendo quest'ultimo “facoltà” di partecipare, con o senza preavviso:
tra le ipotesi di atti che prevedono il previo avviso possiamo considerare, senza dovere di
completezza, quella degli accertamenti tecnici non ripetibili di cui all'art. 360 c.p.p.;
mentre, tra quelli caratterizzati dall'assenza del previo avviso, dobbiamo fare riferimento
agli artt. 356 e 365 c.p.p.
E' opinione diffusa in dottrina che il comma 1 dell'art. 329 c.p.p. minus dixit quam
voluit, nel senso che, nonostante il tenore letterale sembri riferirsi alla sola ipotesi di
conoscenza dell'indagato, si ritiene associabile la caduta del segreto anche alla
conoscenza degli atti da parte del suo difensore.
Un'interpretazione restrittiva determinerebbe il protrarsi del segreto ben oltre la
fase delle indagini preliminari, anche perchè il deposito del fascicolo del p.m. è di regola
previsto per consentirne la visione al difensore, e non all'indagato.166
Si tratta, come sopra detto, di quegli atti ai quali il difensore ha il diritto di partecipare,
con o senza preavviso, in cui la caduta del segreto è legata alla conoscibilità da parte sua
167
.
164 C. CARINI, Segretezza, cit., p. 84
165 Cass. , Sez. II, 16.05.1985, XY, in Cass. Pen. 1996, p.3720
166 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 308
167 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit. p. 183
58
Sulla base di quanto esposto può verificarsi che: il difensore potrebbe aver
concretamente presenziato al compimento dell'atto, oppure non avervi partecipato; nel
primo caso il segreto viene meno al compimento dell'atto stesso, nel secondo caso invece
il dies ad quem del divieto di pubblicazione consegue al deposito del verbale relativo
all'atto compiuto168.
Sul punto, la Suprema Corte ha chiarito che, in caso di mancata partecipazione del
difensore al compimento dell'atto è necessario distinguere se l'atto sia “garantito” o “a
sorpresa”: nel primo caso la conoscenza legale maturerebbe soltanto alla scadenza del
termine di cinque giorni previsto dall'art. 366 c.p.p., o al momento dell'esame degli stessi;
negli atti a sorpresa, invece, la conoscenza legale maturerebbe alla scadenza del termine
di cinque giorni dalla notifica dell'avviso di deposito.
Dunque, laddove sia prevista la partecipazione difensiva con diritto di preavviso,
il segreto viene meno al compimento dell'atto, ben potendo il difensore presenziare; in
buona sostanza il preavviso “concretizza la conoscibilità”, mette il difensore nella
condizione di conoscere l'atto, possibilità che, a norma dell'art. 329 comma 1 c.p.p. è di
per sé sufficiente a far cessare il segreto investigativo.
Nel caso in cui, invece, non sia previsto il diritto al preavviso, è con la notifica
dell'avviso di deposito che l'atto diventa conoscibile dal difensore e il segreto cessa,
anche se questi decida di non esaminare il verbale depositato.
Per gli atti appartenenti al primo gruppo ciò che rileva ai fini della cessazione
dell'obbligo del segreto è l'effettiva conoscenza, per quelli del secondo gruppo, invece, la
conoscibilità.
Al terzo gruppo, infine, appartengono quegli atti di indagine al cui compimento
non è prevista né la presenza dell'indagato, né quella del suo difensore, come nel caso di
assunzione di sommarie informazioni, in cui bisogna, pacificamente, far riferimento al
limite “massimo” di durata del segreto: quello della fine delle indagini preliminari.
Che si sia verificata o meno la conoscenza intermedia, come detto, la conclusione
delle indagini preliminari pone fine, in ogni caso, alla copertura del segreto; ovviamente,
168 F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 346
59
il termine in questione, potrà variare a seconda delle possibili determinazioni conclusive
del pubblico ministero.
Una prima ipotesi è quella in cui il pubblico ministero intenda procedere
all'esercizio dell'azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio: in tal caso l'indagato
ed il suo difensore, attraverso l'avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui
all'art. 415 bis c.p.p., sono messi in condizione di conoscere l'attività investigativa svolta.
L'avviso suddetto è stato introdotto nel corpo del codice con la legge n. 479 del
1999; prima del suo inserimento, che ha di fatto anticipato il momento della caduta del
segreto, il termine finale coincideva con quello della richiesta di rinvio a giudizio, e la
possibilità per l'indagato di conoscere l'attività di indagine era posticipata alla fase
dell'udienza preliminare ex art. 419 comma 2 c.p.p.
L'ipotesi alternativa all'esercizio dell'azione penale è quella in cui il pubblico
ministero proceda alla richiesta di archiviazione; a questo proposito si impone una
distinzione: nel caso di archiviazione de plano si ritiene che il segreto venga meno al
momento dell'emissione del decreto di archiviazione; viceversa, nel caso in cui il giudice
non accolga la richiesta o subentri l'opposizione della persona offesa, il g.i.p. deve fissare
l'udienza camerale, ed il segreto cessa col deposito degli atti presso la cancelleria del
giudice.
Un profilo interpretativo controverso attiene all'individuazione del termine della
durata del segreto nei procedimenti penali contro ignoti o in quelli in cui vi siano più
indagati.
Nella prima ipotesi la mancanza di un indagato che possa maturare una legittima
conoscenza degli atti d'indagine sembra comportare che la cessazione del segreto sia
posticipata alla chiusura delle indagini preliminari, termine massimo previsto dall'art. 329
comma 1 c.p.p.
Alcuni autori non condividono una soluzione siffatta, rilevando che, se il criterio
che ispira la disciplina in esame è, come visto, quello della conoscenza “legale” degli atti,
in luogo di quella effettiva, non vi è ragione di escludere l'operatività di tale disciplina
60
anche nei procedimenti a carico di ignoti169.
Una obiezione che non appare persuasiva: in realtà, infatti, la conoscibilità è tale
solo in quanto la si possa riferire a qualcuno che ne possa avere cognizione; nel nostro
caso questo soggetto manca, rendendo, a nostro avviso, preferibile la tesi che identifica la
cessazione dell'obbligo del segreto con la conclusione delle indagini preliminari.
Ovviamente, se nel corso del procedimento si riesce ad identificare un indagato, è
fuor di dubbio consentito a questi di prendere conoscenza degli atti attraverso l'esame dei
verbali.
Nel caso in cui, invece, vi siano più indagati, l'interrogativo da porsi è se la
conoscibilità di un atto da parte di uno solo tra costoro comporti ope legis la cessazione
dell'obbligo del segreto nei confronti degli altri.
La tesi, a mio avviso, preferibile considera che, in assenza di “segretazione”
dell'atto, il segreto viene meno nel momento in cui l'atto stesso divenga conoscibile anche
da parte di uno solo degli indagati; ciò non vuol dire che il legislatore abbia ignorato il
problema, piuttosto, ad una soluzione generalizzata ha preferito una scelta da demandare,
caso per caso, al magistrato procedente, attraverso il meccanismo di cui al terzo comma
dell'art. 329 c.p.p.170
L'analisi esegetica dell'art. 329 c.p.p. si completa con l’esame dei suoi ultimi due
commi, che, seppur indirettamente, concorrono a determinare anche la durata del segreto
esterno. La regola generale in ordine all’estensione temporale del segreto prevede due
rilevanti deroghe: il conferimento in capo all'organo inquirente del potere di segretazione
e desegretazione.
169 A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, X ed., 2007, p. 80
170 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 308
61
2.2 La desegretazione e la segretazione quali deroghe al regime ordinario del segreto
I compilatori del nuovo codice di procedura penale ravvisarono la assoluta
necessità, onde evitare un controproducente protrarsi del segreto o una sua prematura
caducazione, di affidare al pubblico ministero il potere di valutare concretamente quando,
in riferimento alle indagini in corso, la segretezza investigativa sia essenziale, o viceversa
quando risulti superflua.
Si prospetta così, nella normativa di riferimento, una sorta di “elasticizzazione” 171
del principio generale della segretezza degli atti, attraverso la previsione di possibili
correttivi in grado di rendere più flessibile la disciplina legale.
Il pubblico ministero è titolare di un potere di “desegretazione” e di
“segretazione”; anche se questi due termini non dovrebbero essere usati anche per
indicare il potere di revocare o disporre il divieto di pubblicazione, ma solo per intendere
il potere di imporre l'obbligo del segreto e quello di esonerare da tale obbligo172.
Viene demandato in capo all'organo dell'accusa il potere di ponderare la necessità
di rendere conoscibile ciò che, per legge, non lo sarebbe, e, viceversa, di precludere la
conoscenza di quanto sarebbe perfettamente conoscibile.
E' evidente che, un siffatto potere deve essere necessariamente subordinato alla
sussistenza di rigorosi presupposti legali, e all'esistenza di un adeguato controllo da parte
di un organo terzo, per evitare che tali strumenti, anziché tutelare le indagini, rispondano
alla tutela dell'indagante173.
Gli istituti della desegretazione e della segretazione hanno, dunque, un medesimo
presupposto: quello della “necessità” per la prosecuzione delle indagini; si tratta di una
previsione assolutamente generica, ed invero l'obbligo di motivazione dei relativi decreti,
non essendo questi impugnabili, non è funzionale ad alcun vaglio; ragion per cui
costituiscono provvedimenti, di fatto, insindacabili.
171 C.F. GROSSO, Segretezza e informazione, cit., p. 84
172 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 309
173 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 13
62
Vengono così attribuiti al pubblico ministero rilevanti poteri, forse opportuni, ma
disciplinati in maniera tale da lasciargli troppi spazi di manovra: l'assenza di qualsivoglia
forma di controllo non garantisce che la discrezionalità non si trasformi in abuso174.
Il rischio è che il pubblico ministero utilizzi sapientemente i meccanismi di
segretazione e desegretazione per far filtrare solo determinate notizie.
Un primo correttivo esegetico, per evitare che ciò avvenga, consiste nel
circoscrivere in termini rigorosi il concetto di “necessità” per la prosecuzione delle
indagini: il pubblico ministero dovrebbe poter disporre la segretazione ovvero la
desegretazione solo laddove tali strumenti si presentino indispensabili, in quanto unici ed
insostituibili, per garantire la corretta prosecuzione dell'indagine175.
Va altresì rilevato come, stando al tenore letterale della norma, il potere del
pubblico ministero sia quello di “consentire” la segretazione, quasi si tratti di una
decisione sottesa ad un'istanza di terzi, evidentemente interessati;
in realtà, come
vedremo più avanti, in modo pressoché unanime, si ritiene che il verbo “consentire”
debba essere letto nel senso di “disporre”.
Esaminiamo ora i profili specifici dei due poteri in esame: l'art. 329 comma 2
c.p.p. permette al pubblico ministero, in deroga a quanto stabilito dall'art. 114 c.p.p., di
consentire, con decreto motivato, la pubblicazione di atti ancora coperti dal segreto,
“quando è necessario per la prosecuzione delle indagini”; ovviamente, propedeutica alla
pubblicazione è la desegretazione dell'atto.
Ancora una volta, come detto, è la tutela delle indagini il filo conduttore della
disciplina in esame, ma, in questo caso, al perseguimento di un medesimo fine
corrisponde un totale ribaltamento nei mezzi adottati per conseguirlo: la pubblicazione
dell'atto.
Proprio perché finalizzato alla tutela delle indagini, infatti, il segreto non può, in
concreto, diventare di intralcio al loro svolgimento176.
Preliminarmente, è necessario rilevare come la legge-delega non prevedesse
174 F. M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 190
175 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit. p. 314
176 P. CORSO, Indagini preliminari, in Aa.Vv., Manuale di procedura penale; Bologna, Monduzzi,
2008, p. 383
63
alcuna indicazione o disciplina relativa al potere in questione; parlare di semplice
dimenticanza è poco verosimile, in considerazione del fatto che, nella medesima legge, è
stata, invece, espressamente prevista la segretazione.
La mancata previsione della desegretazione non significa che il Parlamento
ignorasse la sua possibile utilità; pur in mancanza di una esplicita attribuzione del relativo
potere al pubblico ministero, la pubblicazione di uno o più atti, in deroga al divieto
previsto, sarebbe stata penalmente scriminata se determinata dalla necessità di proseguire
le indagini, ossia adempiere un dovere177.
L'ultima parte del secondo comma dell'art. 329 prevede il deposito, presso la
segreteria del pubblico ministero, degli atti di cui è disposta la pubblicazione;
ciò
implica, inoltre, il diritto per il difensore dell'indagato di prenderne visione, ragion per
cui, in virtù della nota regola generale, viene meno anche il segreto178.
Il potere di desegretazione del pubblico ministero può essere esercitato “in deroga
a quanto stabilito dall'art. 114 c.p.p.”, e, tanto sui “singoli atti”, quanto su “parte di essi”.
Grazie a questa disposizione il pubblico ministero ha il potere di permettere,
eccezionalmente, la pubblicazione, non solo del contenuto, ma dello stesso testo degli
atti, siano o meno ancora segreti179 .
Gli esempi prospettabili sono molteplici: la pubblicazione di un identikit, la
necessità di rinvenire testimoni del fatto, e ancora, la pubblicazione della confessione
dell'indagato, il contenuto di un esame testimoniale, l'annuncio dell'inquisito di future
chiamate in correità; sarà compito del pubblico ministero procedere ad un analitico
censimento degli organi di informazione per rendersi conto se gli sviluppi, o i mancati
sviluppi investigativi, siano rapportabili alla avvenuta ovvero mancata o inadeguata
pubblicazione dell'atto medesimo180.
Nell'esercitare il potere di desegretazione, il pubblico ministero è vincolato
dall'obbligo di motivazione; tale presupposto, evidentemente dettato dall'intento di
contemperare gli interessi in gioco, risulta assolutamente inadeguato a garantire che il
177 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 317
178 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 192
179 A. TOSCHI, voce “segreto”,cit., p. 114
180 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 311
64
potere conferito all'organo inquirente non trasmodi in arbitrio, ragion per cui, il
legislatore ha ritenuto di dover prevedere una qualche forma di controllo “diffuso” sulle
scelte operate da quest'ultimo, soprattutto perchè, con una sapiente modulazione del
flusso iniziale di informazioni sul procedimento, egli potrebbe condizionare, in modo
spesso decisivo, l'orientamento dell'opinione pubblica181.
Restano, in ogni caso, escluse dal potere di desegretazione le attività finalizzate
alla ricerca della notitia criminis a seguito di denuncia anonima: relativamente a tali atti,
gli agenti di polizia giudiziaria non sono sottoposti all'obbligo del segreto, che si riferisce
solo al compimento di atti di indagine, ma sono tenuti al segreto, come qualunque
impiegato dello Stato, ai sensi dell'art. 15 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, come sostituito
dall'art. 28 l. 7 agosto 1990 n. 241182.
Non si rilevano problematiche particolari, infine, per quanto concerne la durata
della desegretazione, atteso che il segreto, una volta cessato con la disposta
pubblicazione, non potrà essere ripristinato in alcun modo.
Il secondo dei poteri in deroga al regime ordinari di segretezza degli atti
investigativi è, come detto, quello di segretazione, di cui abbiamo già analizzato
presupposti ed aspetti comuni al potere di desegretazione.
L'ultimo comma dell'art. 329 c.p.p. attribuisce al pubblico ministero il potere di
protrarre, con decreto motivato ed in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini,
la riservatezza su uno o più atti di indagine che, per natura o per legge, dovrebbero essere
conosciuti dall'indagato, ovvero di impedire la divulgazione del contenuto di determinati
atti o di notizie specifiche relative a determinate operazioni per cui non sussisterebbe più
il divieto sancito dall'art. 114 c.p.p.183
La segretazione risponde all'esigenza di proteggere taluni elementi di prova dai
rischi connessi al disvelamento dell'atto nei termini ordinari; dal termine “segretazione”
vengono fatti discendere, in dottrina, due distinti poteri, entrambi propri dell'organo
inquirente: il potere di protrarre l'obbligo del segreto e quello di disporre il divieto di
181 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 312
182 M. QUERQUI, Obbligo del segreto, cit., p. 1035
183 L. CARLI, Indagini preliminari, cit., p. 781
65
pubblicazione.
E' lo stesso comma 3 dell'art. 329 c.p.p. ad indicare la necessità di distinguere le
due realtà che in esso convivono184: da un lato, il potere di imporre l'obbligo del segreto
su atti altrimenti rilevabili, il c.d. potere di segretazione in senso stretto, ìdi cui al comma
3 lett. a); dall’altro, il potere di vietare la pubblicazione del contenuto di atti non più
segreti, di cui al comma 3 lett. b.
Il presupposto del potere di segretazione è, come ribadito, analogo a quello della
desegretazione, ossia la necessità per la salvaguardia delle indagini preliminari; ciò
nonostante, il comma 3 lett. a) dell'art. 329 si rivela quanto mai criptico, prospettando
situazioni che appaiono in sé senza senso, o addirittura inverosimili185.
Il comma 3 lett. a) c.p.p. contempla due ipotesi ben distinte. La prima di esse
prevede che il pubblico ministero possa disporre il segreto sui singoli atti, quando
l'imputato lo consenta.
Tralasciando di ribadire la pessima scelta terminologica del legislatore che
impropriamente parla di imputato quando, come precedentemente chiarito, si dovrebbe
riferire all'indagato, è la richiesta del consenso a suscitare molteplici perplessità.
La valutazione sulla “necessità per la prosecuzione delle indagini” delinea un
potere proprio esclusivamente del pubblico ministero, cui viene così affiancato un vero e
proprio diritto di veto in capo alla persona sottoposta alle indagini.
Appare quindi quantomeno singolare che il comma in esame richieda il consenso
dell'indagato per l'esercizio del potere di segretazione; non si comprende perché
l'indagato dovrebbe acconsentire che gli sia negata la conoscenza di atti dallo stesso
conoscibili, e, inoltre, pacificamente divulgabili ex lege.
Una spiegazione possibile, anche se facilmente criticabile, potrebbe essere che,
manifestando il proprio consenso, l'indagato si impegnerebbe al silenzio sugli atti in
questione; ma se così fosse, non si comprende perché la medesima norma non abbia
previsto il consenso dell'indagato nei casi di desegretazione, ben più pregiudizievole dei
184 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 310
185 F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, II ed., Giuffrè, 1992, p. 398
66
propri interessi.186
Si è anche prospettata la possibilità che non vi sia soltanto il consenso, ma
addirittura un'apposita richiesta dell'interessato affinché il pubblico ministero imponga il
vincolo del segreto sull'atto.
Si riportano, quale esempio, due noti casi di segretazione: quello relativo
all'interrogatorio del Presidente del Consiglio da parte della Procura di Milano – su cui è
stato imposto l'obbligo di segretezza - , e quello relativo alle indagini sulla c.d. “uno
bianca”, sulle quali è stato disposto il silenzio stampa.
Nel primo caso vi è stato, non soltanto il consenso, ma addirittura la richiesta
dell'interessato affinché il p.m. apponesse il vincolo del segreto all'atto, e qui viene in
considerazione l'art. 329 comma 3 lett. a), c.p.p.; nell'altro caso, invece, è stata utilizzata
la disposizione di cui alla lettera b).187
Chiaramente, la richiesta pervenuta non esonera il pubblico ministero dal dover
accertare che il segreto sia effettivamente necessario alle prosecuzione delle indagini.
La seconda delle ipotesi desumibili dall'art. 329 comma 3 lett. a) c.p.p., ricorre nel
caso in cui la conoscenza di un atto non più segreto possa ostacolare le indagini
riguardanti altri soggetti: si tratta, evidentemente, di un requisito alternativo rispetto al
consenso dell'imputato, ma che, come sempre, deve coesistere col presupposto della
salvaguardia delle indagini.
L'analisi esegetica del comma 3 lett. a), stante la sua complessa formulazione,
richiede qualche sintetica considerazione conclusiva: come detto, con tale disposizione
viene disciplinata la segretazione in senso stretto, traducibile nel potere per il pubblico
ministero di imporre l'obbligo del segreto, ipotesi ben distinta da quella delineata della
lett. b), che attiene, invece, al potere di imporre il divieto di pubblicazione.
A tal proposito va ribadito come l'esercizio del potere di cui all'art. 329 comma 3
lett. a) implica l'indiretto esercizio della lett. b): pertanto, al pubblico ministero che
intenda disporre il divieto di pubblicazione di un atto, conviene, allorché ne ricorrano i
presupposti, esercitare quello di cui alla lettera a): il divieto di pubblicazione, infatti,
186 F. M. MOLINARI, Il segreto, . cit., p. 195
187 G. GIOSTRA, “Recenti casi di segretazione”, in Dir. penale e processo, 1995, p. 274
67
“scatterà” inevitabilmente e sarà rafforzato dal concorrente obbligo del segreto188.
Nulla prevede il codice di rito in merito alla durata massima della segretazione;
tale termine, tuttavia, si può agevolmente ricavare rilevando che, se il presupposto del
decreto in deroga è la necessità di salvaguardare le indagini preliminari, l'efficacia del
provvedimento non potrà oltrepassare la conclusione delle stesse.
Esaminiamo ora, in modo più dettagliato, proprio l'imposizione del divieto di
pubblicazione: il comma 3 lett. b) dell'art. 329 c.p.p., come sopra anticipato, prevede una
seconda ipotesi di segretazione, che consente al pubblico ministero di impedire la
pubblicazione del contenuto di singoli atti o di notizie su specifiche operazioni, non più
coperte dal segreto.
Tale potere va ad integrare una deroga a quanto disposto dell'art. 114 comma 7
c.p.p., norma che, come vedremo, consente la pubblicazione di atti non più coperti dal
segreto.
Con la disposizione in esame il legislatore si è discostato da quanto indicato nella
legge delega, che prevedeva la possibilità per l'organo inquirente di decretare il divieto di
pubblicazione nel corso delle indagini preliminari, ove si presentasse “la necessità di
evitare un pregiudizio per lo svolgimento delle stesse”; ben più sintetica, invece, la
formula adottata dal legislatore delegato, che si limita a richiamare la “necessità per la
prosecuzione delle indagini”.
A ben vedere, l'espressione fatta propria dal legislatore del 1989 è suscettibile di
un'applicazione dilatata, non implicando l’esigenza, ai fini della sussistenza del
presupposto, di dimostrare il nesso causale tra la pubblicazione di un determinato atto e il
verificarsi di un determinato pregiudizio per le indagini, come richiesto dalla leggedelega.
Emergono evidenti profili problematici relativamente all'applicazione della norma
in esame: il nodo fondamentale riguarda l'efficacia del provvedimento “segretativo” e le
modalità utilizzabili per portarlo a conoscenza degli interessati; ove sull'atto sia già stato
imposto l'obbligo del segreto, a norma della lett. a), è del tutto inutile prescriverne la non
188 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 323
68
diffusione del contenuto, a ciò provvedendo già l'art. 114 comma 1 c.p.p.; ove, invece,
l'obbligo non sia stato imposto, il divieto ha scarsissime possibilità di tenuta 189. Infatti, se
il pubblico ministero dispone, immediatamente dopo il compimento di un atto, la sua
segretazione, nessun meccanismo partecipativo del provvedimento appare concretamente
realizzabile.
Questo perché i soggetti venuti legittimamente a conoscenza dell'atto non sono
più determinati o determinabili, dunque non è tecnicamente possibile esigere il loro
silenzio, per l'impossibilità di assicurare loro la conoscenza legale all'obbligo del silenzio;
d'altro canto è impensabile procedere alla pubblicazione del decreto del p.m. sulla
Gazzetta ufficiale, perché la pubblicazione degli elementi che consentirebbero di
individuare con certezza l'atto o gli atti oggetto del provvedimento rischierebbe
comunque di pregiudicare le indagini190.
Nel tentativo di ovviare a tali problematiche, nella prassi ci si è “spinti” fino alla
segretazione dell'intera attività investigativa posta in essere in un determinato
procedimento; è evidente come una soluzione siffatta sia in palese contrasto con il dettato
normativo dell'art. 329 comma 3 lett. b) c.p.p., che non permette provvedimenti
generalizzati.
Anche in tema di durata massima del divieto di pubblicazione imposto con
segretazione il legislatore si è discostato da quanto stabilito nella legge delega, che ne
circoscriveva la durata al “tempo strettamente necessario” ad evitare il pregiudizio per le
indagini, prevedendo altresì la pubblicabilità dell'atto al cessare dell'emergenza
investigativa.
Il legislatore delegato non ha dato seguito ad alcuna di queste indicazioni,
omettendo nell'art. 329 comma 3 c.p.p. ogni riferimento tanto alla durata del divieto di
pubblicazione, quanto alle modalità relative alla pubblicazione disposta.
189 F.M MOLINARI, Il segreto, cit., p. 197
190 A rilevarlo è G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 328
69
2.3 Gli interventi di riforma
Quale premessa generale, è opportuno ricordare che, come visto nel paragrafo
precedente, nella sua formulazione originaria, la densa cortina di segretezza posta a tutela
della fase delle indagini preliminari muoveva dalla tendenziale inutilizzabilità del
materiale ivi raccolto.
Un principio su cui alcuni interventi della Corte costituzionale hanno radicalmente
inciso, introducendo deroghe significative al regime di inutilizzabilità dell'atto di
indagine nel processo: un prima pronuncia, dichiarando l'illegittimità costituzionale
dell'art. 195 comma 4 c.p.p., ha consentito che le informazioni segretamente acquisite
dagli organi di polizia giudiziaria durante le indagini, potessero confluire nel dibattimento
attraverso l'istituto della testimonianza indiretta191.
Una seconda decisione censurava l'art. 513 comma 2 c.p.p., nella parte in cui non
permetteva la lettura in pubblico dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato che, in
un procedimento connesso o collegato, si fosse avvalso della facoltà di non rispondere192.
Una terza sentenza, infine, ha modificato l'art. 500 c.p.p., consentendo l'utilizzo
delle precedenti dichiarazioni testimoniali, non solo per saggiare la credibilità del teste
escusso, ma anche quale elemento probatorio, purché sussistessero le condizioni
tassativamente previste dalla norma medesima: la provata condotta illecita, l'accordo
delle parti e, da ultimo, che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni fossero state
assunte dal giudice ai sensi dell'art. 422 c.p.p. 193
E' doveroso sul punto anticipare brevemente, rimandando una trattazione più
approfondita, come la legge 1° marzo 2001, n. 63 di attuazione della revisione
costituzionale operata due anni prima, intervenendo proprio sull'art. 500 c.p.p. abbia
inciso anche sulla portata dell'art. 114 comma 3 c.p.p.
Nel testo originario del codice il contenuto degli atti di indagine utilizzati per le
191 Corte Cost., 31 gennaio 1992, n. 24, in Giur. Cost., 1992, p. 114
192 Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 254, in Giur. Cost., 1992, p. 1932
193 Corte Cost., 3 giugno 1992, n. 255, in Giur. Cost., 1992, p. 1961
70
contestazioni era sempre pubblicabile; a seguito della modifica dell'art. 500 c.p.p., le
dichiarazioni lette per le contestazioni possono essere utilizzate solo ai fini di valutare la
credibilità del teste, senza acquisizione, se non in via del tutto eccezionale, al fascicolo
del dibattimento.
Ne consegue che, alla luce del quadro normativo quale si presenta dopo la
modifica dell'art. 111 Cost. e l'introduzione delle norme sul giusto processo, le
dichiarazioni utilizzate per le contestazioni non possono essere pubblicate se non dopo la
sentenza di secondo grado, al pari di tutti gli altri atti contenuti nel fascicolo del pubblico
ministero194; in tale circostanza si sposta in avanti il dies ad quem, onde garantire la
libertà di convincimento del giudice d'appello.
E' di tutta evidenza come pronunce siffatte, abbiano inciso in modo significativo
sulla disciplina relativa alla segretezza degli atti di indagine, a maggior ragione in virtù di
radicali riforme che si sono susseguite in quel periodo: un primo, rilevante, intervento
legislativo è dato dalla legge 7 agosto 1992 n. 365, che ha ampliato, tanto sotto il profilo
qualitativo, quanto sotto quello quantitativo, le letture di atti raccolti nella fase di
indagine.
Come ogni intervento di riforma, anche quello in esame trova la propria matrice
storico-giuridica in una situazione contingente: l'esigenza di fronteggiare la criminalità
organizzata, e, in particolare, di arginare il fenomeno dell'intimidazione dei testimoni a
carico.
Allo stesso modo, come ogni situazione in cui le libertà democratiche vengono
sacrificate a tutela della sicurezza, anche in questo caso si assiste ad una decisa
regressione verso un sistema di tipo inquisitorio: l'eccezionalità del passaggio al
dibattimento degli atti investigativi non era più tale.
Il segreto investigativo, che a rigor di logica avrebbe dovuto scemare di pari passo
alla modifica della natura delle indagini preliminari, continuava a mantenere invariata la
sua natura, con evidenti ripercussioni sul diritto di difesa.
Proprio in un'ottica di salvaguardia del diritto alla difesa, nel 1997, è stata
194 R. MENDOZA, sub art. 114 c.p.p., in LATTANZI-LUPO, codice di procedura penale, Giuffrè, 2008
p. 68
71
emanata la legge n. 267, che, pur se in modo indiretto, ha fortemente inciso sulla
disciplina del segreto interno.
Innanzitutto la legge suindicata ha riformato, del tutto, l'art. 513 c.p.p., per evitare
che “incontrollate” dichiarazioni assunte dall'accusa nel corso delle indagini preliminari
assumessero pieno valore probatorio in dibattimento; dopo di ché, al fine di garantire il
rispetto del principio del contraddittorio su dichiarazioni testimoniali rese in indagine, ha
notevolmente ampliato i casi di accesso dell'incidente probatorio.
In tema di segretezza degli atti di indagine, la l. n. 267 del 1997 ha, inoltre,
introdotto alcune aperture relative alla conoscenza degli atti stessi in favore della difesa:
ad esempio, novellando gli art. 416 e 555 c.p.p.,
e introducendo, a riguardo, uno
specifico caso di nullità della richiesta di rinvio a giudizio se non preceduta dalla notifica
all'indagato dell'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio ai sensi dell'art. 375
c.p.p., con conseguente “sommaria enunciazione del fatto” così come risulta dalle
indagini condotte sino a quel momento.
In un intervento riformatore di più ampio raggio, nato sulla scorta della legge di
revisione costituzionale n. 2 del 1999, si inserisce la n. legge 479 del 1999, nota come
“legge Carotti”.
Una novella di siffatta portata nasce dall'esigenza primaria di semplificare il
sistema processuale, e, parimenti, di compensare la minor tutela dell'imputato, dovuta
all'adozione di un modello processuale celere, mediante innovazioni per irrobustire il
diritto di difesa, soprattutto nella fase preliminare195.
Sullo specifico tema della segretezza degli atti di indagine, la novella del 1999 è
intervenuta in modo disorganico, ponendo maggior attenzione alla tutela della
riservatezza delle persone coinvolte nella vicenda processuale. Particolarmente
interessante, in tal senso, un emendamento196 proposto in sede di commissione referente e
poi non accolto, che prevedeva l'introduzione di un art. 329 bis c.p.p., che avrebbe
imposto l'obbligo del segreto sul nome e l'immagine del pubblico ministero titolare delle
indagini e del giudice per le indagini preliminari.
195 F. M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 136
196 Emendamento 17.0.3. a firma del Senatore Greco
72
Un ulteriore emendamento, anche questo non recepito, invece, “allo scopo di
limitare quel diabolico circolo mediatico giudiziario che tanto danno arreca alla dignità
della persona”, tendeva all'introduzione nell'art. 114 c.p.p., di un divieto per gli agenti di
polizia giudiziaria di riferire pubblicamente sul contenuto degli atti compiuti e sui
provvedimenti adottati197.
Dopo vari interventi, ed un iter particolarmente complesso, il testo approvato
introduceva una nuova rubrica e il comma 6 bis all'art. 114 c.p.p., come vedremo
dettagliatamente nel capitolo relativo al divieto di pubblicazione degli atti.
A distanza di poco più di un anno dall'emanazione della legge Carotti, è stata
promulgata la l. n. 397 del 2000, che ha introdotto nel codice di rito la disciplina delle
indagini difensive, fornendo importanti spunti di riflessione anche in tema di segretezza,
nella consapevolezza che la conoscenza degli atti sia condizione necessaria
per
l'attivazione del diritto di difesa attraverso prove a discarico198.
Ma le varie proposte sul punto non ebbero effettivo seguito: le uniche disposizioni
in grado di incidere sulla disciplina del segreto investigativo, oggetto di un intervento
concreto, sono stati gli artt. 366 e 391 quinquies c.p.p.
La prima disposizione consente alla difesa di procedere all'esame delle cose
sequestrate, conferendogli, altresì il diritto, se si tratta di documentazione, di estrarne
copia.
Parallelamente è previsto un potere di segretazione in capo al pubblico ministero
che, per gravi motivi, può differire con decreto motivato impugnabile dinanzi al g.i.p.
l’esercizio della facoltà concessa alla difesa, per un tempo massimo di trenta giorni.
L'art 391 quinquies c.p.p. delinea la cosiddetta “segretazione della fonte
dichiarativa”, conferendo all'organo dell'accusa il potere di vietare ai soggetti escussi a
sommarie informazioni di comunicare i fatti e le circostanze oggetto d'indagine di cui
siano venuti a conoscenza.
La facoltà di segretazione in esame non è, ovviamente, illimitata, né da un punto
197 Emendamento 17.3. a firma del Senatore Scopelitti
198 N. TRIGGIANI, Il divieto di pubblicare, Percorsi di procedura penale, a cura di V. Perchinunno, cit.
p. 860
73
di vista cronologico, in cui il divieto non può avere durata superiore a due mesi, né sotto
il profilo dei presupposti applicativi, potendo essere esercitata “solo” se sussistono
specifiche esigenze attinenti all'attività d'indagine.
Nonostante la segretazione necessiti di un decreto motivato, una motivazione
“solo sommaria”, o addirittura la totale mancanza di motivazioni, non incide sulla sua
efficacia, non essendo contemplata nella disciplina alcuna forma di controllo da parte del
giudice; tale decreto non è infatti neppure impugnabile199.
La legge n. 397 del 2000 ha, inoltre, introdotto una nuova norma di diritto
sostanziale: l'art. 379 bis c.p., che, nella prima parte delinea un reato proprio, prevedendo
la pena della reclusione fino ad un anno per chiunque riveli indebitamente notizie segrete
relative ad un procedimento penale in corso, apprese per aver partecipato o assistito al
compimento dell'atto stesso; la seconda parte dell'articolo in esame stabilisce la
medesima pena per chiunque, dopo aver rilasciato dichiarazioni in indagine, violi il
divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 391 quinquies c.p.p.
La condotta integrante la fattispecie di reato di cui sopra consiste nel rivelare
notizie segrete inerenti il procedimento, senza specificare i criteri di riferimento per cui
ritenere una notizia “segreta” e rendendo quindi necessario far riferimento alla norma
processuale, in particolare all'art. 329 c.p.p..
Questa norma, come visto in precedenza, esclude la segretezza di atti che non
siano stati compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ragion per cui l'art.
379 bis c.p. non troverà applicazione nei confronti della persona sentita dal difensore in
fase di indagini difensive ai sensi dell’art. 391-bis c.p.p., laddove questa riveli notizie
relative a tale atto: quest’ultimo è sì un atto di indagine, ma del difensore200.
Il secondo comma dell'art. 379 bis c.p., come accennato, delinea l'ipotesi in cui sia
il pubblico ministero a disporre, con decreto motivato, ai soggetti escussi, il divieto di
comunicare fatti e circostanze oggetto dell'indagine in corso, estendendo, sotto il profilo
oggettivo, la sanzione penale alla comunicazione di qualsiasi notizia riferibile alle
199 F. BERNARDI, Il potere di segretazione del pubblico ministero, in Dir. Pen. e processo,2001, p. 219
200 M. RANZATTO, Rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale, in Aa. Vv., Processo
penale, il nuovo ruolo del difensore, investigazioni private, difesa d'ufficio, patrocinio per i non
abbienti, a cura di FILIPPI, Cedam, 2001, p. 492
74
indagini, non solo sull'atto cui si è assistito.
L'intento della novella del 2000 è stato quello di rimediare alla lacuna normativa
previgente: in precedenza, infatti, la persona informata sui fatti che, dopo essere stata
escussa dagli organi inquirenti, avesse riferito ad altri il contenuto di tali dichiarazioni,
non era penalmente perseguibile, ad eccezione della contravvenzione di cui all'art. 684
c.p.
Alla luce di quanto esposto, si può affermare che, pur prestando il fianco a
critiche, anche di rilevante entità, la scelta compiuta dal legislatore del 1988 appare
apprezzabile, anche e soprattutto in considerazione della non trascurabile responsabilità
dell'autorità giudiziaria.
E' innegabile, infatti, come nel fenomeno delle “fughe di notizie”, che
esamineremo in modo dettagliato nel capitolo successivo, il ruolo svolto da parte degli
inquirenti assuma una rilevanza decisiva: dalla scelta di organi informativi conniventi cui
fornire materiale non divulgabile, alla predisposizione di un vero e proprio meccanismo
fatto di “soffiate” ed “indiscrezioni”, che, inevitabilmente, ledono tanto il pluralismo
informativo, quanto, soprattutto, il fine di salvaguardia delle indagini e delle persone nei
cui confronti queste siano esperite.
Per tale ragione, qualsiasi norma sarà destinata a rimanere lettera morta finché
permarrà questo istituzionalizzato reticolo sotterraneo tra uffici giudiziari ed organi di
informazione e dunque chi è preposto alla repressione dei reati non li persegue, o
addirittura li commette201.
201 G. GIOSTRA, Disinformazione giudiziaria, cause, effetti, rimedi, in Dir. Pen. e proc.,1995, p. 393
75
CAPITOLO 3
LA DISCIPLINA DEL DIVIETO DI PUBBLICAZIONE
DELLE INTERCETTAZIONI
1.
Intercettazioni e privacy: considerazioni introduttive
“Nel nostro beato Paese chiunque controlla chiunque, comunque e dovunque gli
piace, in barba alla giustizia, alla polizia, alla Costituzione, alla privacy dei cittadini ed
allo Stato”: con tale enfasi Giuliano Vassalli descriveva, nel 1973, l'uso, a suo dire
eccessivo ed indiscriminato delle intercettazioni202.
Già negli anni ‘70, dunque, erano particolarmente avvertite le problematiche
connesse a questo mezzo di ricerca della prova, assolutamente soddisfacente sul piano del
risultato istruttorio, ma fortemente insidioso e lesivo della sfera personale dell'individuo.
Nel corso degli anni, il notevole aumento del numero dei procedimenti penali sorti
sulla base delle intercettazioni telefoniche ha prodotto, contestualmente, un accresciuto
interesse dei media nei confronti delle stesse, tanto più a seguito del clamore suscitato da
alcune vicende giudiziarie particolarmente rilevanti da un punto di vista mediatico.
D'altro canto, i mezzi di comunicazione di massa svolgono un ruolo fondamentale perché
consentono all'opinione pubblica di controllare l'amministrazione della giustizia, ma
possono incorrere nella violazione dei diritti individuali di riservatezza e segretezza delle
comunicazioni.203
Tra i Paesi democratici del mondo occidentale, l'Italia è uno dei pochi che affida a
una norma di rango costituzionale (l’art. 15 Cost.) il compito di disciplinare il sistema
delle intercettazioni, ed è uno dei pochissimi a prevedere una duplice riserva: di legge 204,
202 G. VASSALLI, Le intercettazioni, rispetto delle garanzie costituzionale e prospettive di riforma, in “Il
Giorno”,15 marzo 1973
203 M.BERTOLINO, Privato e pubblico nella rappresentazione mediatica del reato, in Riv. it. di diritto e
procedura penale, 2003, 4, p. 1071
204 L’art. 15 Cost. parla di garanzie previste dalla legge; è discusso se la formula coincida con quella
76
e giudiziaria (si parla di “atto motivato dell’autorità giudiziaria”), in modo da garantire il
cittadino che vede affidata la tutela della riservatezza delle proprie conversazioni ad un
organismo come la magistratura, costituzionalmente delegato alla tutela dei diritti
fondamentali, e con l'unico vincolo di essere soggetta alla legge.
A causa della sua marcata incisività, l’impiego di questo mezzo di ricerca della
prova è subordinato a una serie di presupposti; già la legge-delega, alla direttiva n. 81,
aveva analiticamente previsto i limiti e le modalità di attuazione delle intercettazioni.
Il nostro codice di rito, tra gli artt. 266 e 271, prevede una dettagliata disciplina
relativa ai presupposti, al procedimento di ammissione
ed all'esecuzione delle
intercettazioni: l'art. 266 c.p.p. ne fissa i limiti di ammissibilità, circoscrivendo la
possibilità di farvi ricorso alle ipotesi in cui si perseguano determinate fattispecie di reato,
individuate in parte secondo un criterio quantitativo, in parte secondo uno qualitativo.
Il successivo art. 267 comma 1 c.p.p., dispone che è possibile ricorrere a tale
istituto “solo” qualora risulti “assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione
delle indagini”, e sussistano al contempo gravi indizi di reità; al fine di vagliare la
sussistenza di detti requisiti, il decreto di autorizzazione del g.i.p. deve essere motivato e
la mancanza di uno dei presupposti determina l'inutilizzabilità delle risultanze.
La prassi applicativa fa registrare, tuttavia, vistose deviazioni rispetto al modello
delineato dal codice; il requisito dell'indispensabilità ai fini investigativi, in particolare,
ha assunto una forma talmente elastica da aver ormai perso qualsiasi incidenza205.
Questa circostanza, unitamente al costante sviluppo di strumenti informatici e di
mezzi di captazione sempre più sofisticati, ha comportato, in particolare dall'inizio degli
anni ‘90, un aumento vertiginoso del ricorso all'uso di intercettazioni.
Il progresso tecnologico, come già accennato, ha prodotto conseguenze rilevanti
anche dal punto di vista dell’informazione sulla giustizia penale, che, per l’apporto di una
dell’art. 13 Cost.
205 PROFITI, in Filippi, Illuminati, Leo, Profiti, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?
Forum, a cura di Caputo, cit., p. 1216. - In senso conforme: Cass., Sez. I, 23 gennaio 2002, Orfei ;
Cass., Sez. I, 11 luglio 2000, Nicchio
Vedi però di recente le indicazioni più rigorose contenute in Cass., SEZ. VI, 23 marzo 2009 (ud. 12
febbraio 2008), n. 12722, Lombardi e al., con nota di G. GIOSTRA, Intercettazioni: un sacrosanto
richiamo alla legalità e sciagurati propositi di riforma, in Quest. giust., 2009, n. 3.
77
strumentazione sempre più avanzata e per la contemporanea presenza di una pluralità di
media, è in grado di raggiungere l’utente in tempi ridottissimi dal fatto, se non addirittura
in tempo reale.
Per questo motivo è necessario esaminare innanzitutto “cosa” sia pubblicabile
delle conversazioni intercettate; successivamente occorre chiarire “quando” sia possibile
procedere alla pubblicazione, e, infine, ricostruire quali principi costituzionali
interagiscono in questa sorta di “triangolo” tra processo, cronaca e privacy.
Innanzitutto, le trascrizioni delle intercettazioni, “depurate” delle parti irrilevanti e
da quelle inutilizzabili – nella fase c.d. di stralcio - sono inserite nel fascicolo del
dibattimento di cui all'art. 431 c.p.p., in quanto, per loro natura, atti irripetibili.
Tuttavia, come vedremo dettagliatamente più avanti, la fase dello stralcio, in base
al disposto dall'art. 329 c.p.p., potrebbe non essere più coperta dal segreto,
con
conseguente rischio di diffusione anche del contenuto di conversazioni irrilevanti ai fini
investigativi.
L'attuale legislazione è carente sul punto, non consentendo al p.m. di operare, ab
origine, una selezione delle intercettazioni da immettere nel circuito processuale, allo
scopo di escludere in radice quelle non pertinenti206.
In un quadro siffatto è frequente che vengano riportati integralmente, sugli organi
di stampa, i testi delle conversazioni intercettate, anche se il loro contenuto non ha
attinenza con i fatti oggetto di accertamento processuale, e anche se sono coinvolti terzi
inconsapevoli: è il fenomeno delle “intercettazioni a strascico”.
Proprio la necessità di arginare una problematica in continua evoluzione, nel
corso degli anni, ha costretto il legislatore a tentare di intervenire precipitosamente, ad
inseguire i fatti denunciati dalle cronache giudiziarie, con un approccio emergenziale,
sull’onda del ciclico riemergere di un non meglio specificato “allarme intercettazioni”,
determinato dalla pubblicazione - o perfino dalla mancata pubblicazione - di stralci di
conversazioni relativi a vicende giudiziarie che vedano coinvolti personaggi più o meno
206 V. GREVI, Intercettazioni, non sono d'accordo con D'Ambrosio, in Corriere della sera, 24 novembre
2007
78
noti207.
Tutte le volte che si verifica una lesione della riservatezza di un individuo, in
modo particolare allorquando la vicenda giudiziaria riguarda personaggi pubblici,
affiorano polemiche che investono diversi aspetti relativi al mezzo intercettivo: dalla
sussistenza dei presupposti agli eccessivi costi di captazione, fino soprattutto alle “fughe
di notizie”.
L'allarme per le libertà democratiche scatta appena un'inchiesta penale mette
piede in un santuario della politica, dell'imprenditoria o della gerarchia ecclesiastica; la
virulenza della polemica è direttamente proporzionale alla fondatezza dell'ipotesi
accusatoria, mentre i decibel e la grossolanità dell'attacco alla magistratura sono
inversamente proporzionali alla conoscenza del caso ed alla alfabetizzazione giuridica del
Savonarola di turno208.
Come vedremo diffusamente nel capitolo successivo, dagli anni ’90 si sono
succeduti diversi tentativi di riforma, nessuno dei quali è mai approdato all’approvazione
di entrambe le Camere; la delicatezza degli interessi in gioco, e la costante difficoltà di
trovare fra loro un equo bilanciamento, hanno finora impedito che si approdasse ad una
nuova normativa di riferimento.
Il problema relativo al bilanciamento tra tutela della fase investigativa mediante il
segreto, salvaguardia della cronaca giudiziaria e tutela della
privacy, riceve,
inevitabilmente influenzato dal diverso grado di protezione dei diritti individuali, un
trattamento nettamente differente negli ordinamenti dei diversi Stati occidentali.
In Paesi culturalmente e socialmente vicini al nostro, come la Spagna e la Francia,
e persino in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le intercettazioni, nelle loro variegate
forme, sono prevalentemente di competenza di autorità amministrative e di polizia, se
non addirittura dei soli servizi di sicurezza.
In Francia, in cui pari dell'Italia l'ingerenza dei media è rilevante, è frequente la
violazione della normativa sul segreto; per porre un freno a tale situazione, si è estesa in
207 M. DI BITONTO, Lungo la strada per la riforma della disciplina delle intercettazioni, in Cass. Pen.
2009, 1, p. 10.
208 G. GIOSTRA, da “Il Sole 24 ore”, 20 ottobre 2008
79
modo assoluto la sfera del segreto sulle risultanze investigative, qualificando, inoltre,
quale “ricettazione derivante da violazione del segreto istruttorio o professionale” la
condotta di divulgazione da parte dei giornalisti di materiale istruttorio.
Si tratta di una disciplina solo “apparentemente” rigorosa, poiché ad una
previsione normativa tanto rigida non corrisponde una sanzione adeguata, tant'è che il
divieto è frequentemente disatteso.
Viceversa, nel Regno unito, pur non esistendo un divieto formale per gli
investigatori di svelare gli elementi acquisiti, è prevista la reclusione fino a due anni per i
responsabili del reato di “contemp of court”, integrato dalla pubblicazione di materiale
che potrebbe condizionare un giudice popolare o pregiudicare un giusto processo.
Anche in Germania, dove sono preventivamente predisposti canali di
comunicazione ufficiale tra stampa e organi di giustizia, c.d. justizpressesprecher, sono
previste pene severe per chi divulga senza autorizzazione atti della fase preliminare.
Per addivenire ad un “globale” contemperamento tra diritto di cronaca e diritto
alla riservatezza, i vari Paesi europei dovranno necessariamente uniformarsi alle
indicazioni fornite dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che, come analizzato nel
primo capitolo, ha sistematicamente condannato gli Stati laddove abbiano posto in essere
misure coercitive contro la stampa.
In particolare considerazione vanno tenute le indicazioni contenute nella citata
pronuncia della Corte di Strasburgo, sul caso Dupuis c. Francia del 7 giugno 2007, che
rappresenta un serio monito per il legislatore di fronte alla proposta di irrigidire le pene
previste per i giornalisti.
L'indicazione della Corte assume una specifica funzione di indirizzo per gli Stati
membri dell’Unione europea, e, oggi specialmente, per il Parlamento italiano209.
Nella pronuncia in esame, la Corte ha effettuato un bilanciamento tra la tutela
della riservatezza e la tutela del diritto di cronaca, sostenendo che non è possibile
determinare una “priorità astratta tra i due interessi a confronto”, ma che occorre valutare
209 V. GREVI, La libertà d’espressione piace (solo) all‘Europa, in “Corriere della sera”, 3 luglio 2007,
p. 38.
80
le circostanze del caso concreto, soppesando l’effettiva lesività della divulgazione di atti e
documenti coperti dal segreto istruttorio.
Viene così tutelato il diritto di cronaca, riconoscendo un ruolo preminente al
“criterio dell'interesse collettivo” che ne costituisce il fine ultimo.
Proprio il ruolo fondamentale del diritto dei cittadini “ad essere informati” ha
comportato, nella tradizione anglosassone, l'attribuzione agli organi di stampa della
funzione sociale di “cani da guardia della democrazia”.
Se una lezione può trarsi da questa succinta analisi comparatistica, è quella della
impraticabilità di soluzioni radicali e della necessità di un bilanciamento tra le diverse
esigenze, con una attenta considerazione dei fattori che possono accrescere l’effettività
della disciplina normativa.
Il legislatore italiano, nel disciplinare la materia delle intercettazioni e la loro
successiva divulgazione sui mezzi di comunicazione, deve preventivamente rinvenire un
punto di equilibrio tra la tutela della privacy, della riservatezza e della dignità delle
persone, da un lato, ed il diritto di cronaca quale strumento di controllo
sull'amministrazione della giustizia, dall’altro.
La disciplina delle intercettazioni è vincolata a precise coordinate di rango
costituzionale: l'art. 15 Cost. dichiara “inviolabili” la libertà e la segretezza della
corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, disponendo poi, al secondo
comma, che la loro limitazione può avere luogo soltanto per “atto motivato dell’autorità
giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
La medesima sensibilità garantista si rinviene nella Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che, all'art. 8, tutela il
diritto al rispetto della vita privata e familiare, e in numerose pronunce della Corte di
Strasburgo, che è arrivata a prevedere un obbligo positivo a carico degli Stati di adottare
tutte quelle misure idonee per un'adeguata tutela dei diritti personali210.
I Paesi che aderiscono alla C.e.d.u., dunque, non potranno passivamente limitarsi
210 Corte europea, 17 luglio 2003, Craxi c/ Italia, in Cass. Pen., 2004, 2, p. 679, con nota di TAMIETTI,
Intercettazioni telefoniche e garanzie a tutela del diritto al rispetto della vita privata e della
corrispondenza dell'imputato.
81
a rispettare il divieto di ingerenza, ma dovranno attivarsi per assicurare ai cittadini il
godimento di un diritto fondamentale, indispensabile per garantire il principio di
uguaglianza211.
In Italia, la prima disciplina organica in materia di intercettazioni è stata introdotta
dalla legge n. 98 del 1974 - “Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle
comunicazioni” - ispirata dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 34 del 1973, con
cui la Consulta ha rimarcato come l’art. 15 Cost., non si limiti a proclamare l’inviolabilità
della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione,
ma enunci anche espressamente che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto
motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
Il primo dei suddetti “sottoprincipi” , quello al diritto alla riservatezza delle
comunicazioni, viene riconosciuto quale diritto inviolabile della persona, riconducibile
nell'alveo dell'art. 2 Cost.
La legislazione sulla riservatezza intende, appunto, proteggere il rispetto dei
diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con
particolare riferimento all’identità personale ed al diritto alla protezione dei dati sensibili,
come prescrive il decreto legislativo n. 196 del 2003.
Con la sentenza del 1973, la Corte costituzionale ha ricondotto il diritto alla
riservatezza alla tutela apportata dagli artt. 2 e 15 Cost., con riferimento all'ipotesi di
“divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto di comunicazioni telefoniche non
pertinenti al processo”.
L'art. 15 Cost. va dunque inteso quale “estensione” della disposizione contenuta
nell'art. 2 Cost., nella prospettiva di proteggere da arbitrarie limitazioni i diritti inviolabili
dell'uomo.
Inoltre la Consulta ha sottolineato la necessità che sussistano “effettive esigenze
proprie dell’amministrazione della giustizia” per poter limitare la segretezza delle
comunicazioni, e che vi siano, altresì, “fondati motivi” per ritenere che ne derivino
211 MANTOVANI, L’ “affaire Craxi” e la doppia pronuncia della Corte europea, in La legislazione
penale, 2004, p. 99,
82
risultati positivi per le indagini.
Le intercettazioni, infatti, non incidono sulla libertà di comunicazione, bensì,
“solo” sul diritto alla segretezza delle stesse: il soggetto verso cui è disposto il
provvedimento restrittivo non è impedito o limitato nelle sue comunicazioni, che, anzi,
nell'interesse delle indagini dovrebbero essere quanto più libere possibile: ciò che viene
fortemente menomata è la libertà di segretezza intesa come ius excludendi alios.
Un aspetto particolarmente rilevante da approfondire è quello di individuare il
fondamento costituzionale del mezzo di ricerca della prova de quo: dapprima la Corte
Costituzionale212, ed in seguito la Cassazione213, lo hanno coerentemente rinvenuto
nell'interesse pubblico all'accertamento dei reati fondato sull'art. 112 Cost.
Affinché la menomazione della libertà di segretezza sia giustificata, in nome di un
diritto costituzionalmente garantito, è necessario che la stessa risulti assolutamente
funzionale alle indagini.
Il rispetto del suddetto fondamento costituzionale, però, giustifica l'intercettazione
in sé, e non anche la diffusione del suo contenuto, per la quale si deve rinvenire un
diverso fondamento in Costituzione.
Come evidenziato nel primo capitolo, la libertà di informazione trova la sua
salvaguardia nell'alveo dell'art. 21 Cost., che garantisce la libera manifestazione del
pensiero; è necessario, dunque, individuare il rapporto che intercorre tra questa norma e
l'art. 15 Cost.
Controversa è, infatti, la relazione intercorrente tra le due fattispecie: i
costituzionalisti si dividono fra quanti ritengono le due previsioni “assolutamente
indipendenti”214 e quanti le considerano “inscindibilmente legate”215.
A sostegno della prima ricostruzione si è argomentato che, affinché si possa
parlare di comunicazione, è “essenziale” il carattere di segretezza del pensiero trasmesso
216
.
212 Corte Cost., sent. n. 336 del 1991 in Giur. Cost.
213 Cass., sez. V, 9 dicembre 2003, n. 46963, in Cass. Pen., 3, p. 913
214 A. PACE, Art. 15, in Branca, Commentario della Costituzione italiana, Bologna, 1977, p. 86
215 ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell'ordinamento italiano, Giuffrè, 1958, p.45
216 MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, Cedam, 1976, p. 568
83
La tesi maggioritaria – che afferma la reciproca dipendenza tra le due previsioni
costituzionali - muove, invece, dalla premessa che la segretezza non sia un requisito
essenziale della comunicazione, ma oggetto di una distinta situazione giuridica: il
rapporto intercorrente tra le fattispecie dell'art. 21 e dell'art. 15 Cost. è qualificabile in
termini di “specialità della seconda rispetto alla prima”217.
Aderendo a tale interpretazione si potrebbe sostenere che l'art. 15 Cost. “sottospecie” dell'art. 21 Cost. - vieti “l'ulteriore” diffusione di conversazioni segrete,
benché contenute in atti processuali pubblici, la cui compressione può ritenersi consentita
“solo” per fini processuali, e non anche per fini informativi.
Potrebbe, inoltre, prospettarsi una lesione dell'art. 3 Cost., che assicura pari
dignità sociale a tutti gli individui, qualora il contenuto delle intercettazioni divulgate
fosse utilizzato per condurre una sorta di “campagna mediatica” contro l'imputato prima
della sentenza218.
Si è argomentato, in conformità con l'indirizzo proprio della corte di
Cassazione219, che il diritto di cronaca non contrasti con il limite della pari dignità
sociale, qualora, nella sua manifestazione, sia rispondente alle exceptio veritatis
analizzate nel primo paragrafo: ossia che la notizia sia rispondente al vero, che sia
rispettata la correttezza formale delle espressioni, e vi sia un attuale interesse pubblico
alla divulgazione.
Tuttavia, il disposto dell'art. 3 Cost. è da ritenersi un “valore assoluto”, non
limitabile in alcun modo, al di fuori dei casi che trovano un fondamento costituzionale:
l'unico soggetto abilitato a pronunciare espressioni “diffamanti” è il giudice in sede di
condanna, e solo in quella sede.220
Non sembra dunque condivisibile l'interpretazione della Suprema Corte secondo
cui la dignità sociale possa cedere rispetto al diritto di cronaca, allorché la notizia dal
contenuto diffamatorio presenti profili di interesse pubblico all'informazione tali da
217 ESPOSITO, La libertà di manifestazione,cit., nt. 2
218 ESPOSITO, La libertà di manifestazione, cit., nt. 102
219 Cass., Sez. V, 16 dicembre 2004, S. , n. 4009 in Riv. Pen., 2005, 560
220 ESPOSITO, La libertà di manifestazione, cit., nt. 44
84
prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e giustificare l'esercizio del diritto di
cronaca.
Per concludere, aderendo alla tesi restrittiva, dovrebbe
ritenersi vietata la
pubblicazione di intercettazioni, tutte le volte che le stesse siano utilizzate al fine di
esprimere direttamente o attraverso il riferimento a determinati fatti ritenuti spregevoli,
valutazioni negative sulle persone221.
Per i soggetti che rivestono cariche pubbliche, si potrebbe modulare in senso più
ampio il limite dell'esercizio del diritto di cronaca, rispetto alla tutela della dignità
sociale,
posto che l'interesse pubblico all'informazione, in questo caso specifico,
troverebbe un fondamento nella responsabilità politica diffusa di tali soggetti.
Per molto tempo nell'ordinamento italiano il diritto alla riservatezza è stato
considerato “sacrificabile”, destinato a capitolare di fronte al prevalente interesse
all'accertamento giudiziale e all'esigenza di formazione della prova in seno al processo222.
In tempi più recenti, invece, come detto, il progresso tecnologico e l'intensificarsi
del ricorso al mezzo delle intercettazioni, hanno determinato una maggiore capacità
intrusiva nella sfera privata della persona, e conseguentemente una maggiore sensibilità a
questa tematica.
L'attenzione riconosciuta al diritto alla protezione dei dati personali dei soggetti
sottoposti
a
procedimento
processualpenalistica”
sul
penale,
ha
contemperamento
dato
degli
inizio
ad
interessi
una
in
“riflessione
gioco,
cioè
sull’individuazione dei limiti e delle modalità di una ragionevole compressione del diritto
alla privacy, per soddisfare le finalità investigative e, finanche, informative.
Proprio in considerazione dell'irrinunciabile tutela della privacy dal mezzo più
subdolo e pericoloso nelle mani degli inquirenti223 viene sottolineata una tendenziale
indifferenza del legislatore, sempre maggiormente attento alla salvaguardia di esigenze
“endoprocessuali” a discapito della tutela dei soggetti, coinvolti nel procedimento o ad
221 ESPOSITO, La libertà di manifestazione, cit., nt.45
222 LETTIERI, Linee evolutive in materia di rapporti tra accertamento giudiziario e tutela dei dati
sensibili, su appinter.csm.it/incontri/relaz/15693.
223 C. DI MARTINO, T. PROCACCIANTI, “Le intercettazioni telefoniche”, Cedam, 2001, pag. 2
85
esso estranei, rispetto alla divulgazione di notizie di carattere privato, processualmente
irrilevanti224. Divulgazione il cui intento, nemmeno tanto nascosto, è solo quello di
sollecitare la curiosità dell'opinione pubblica225.
Per arginare tale fenomeno, la cronaca giudiziaria, oltre ai limiti illustrati nel
primo capitolo, deve rispettare ulteriori vincoli, posti a tutela del processo e della
riservatezza dall’art. 114 c.p.p., che fissa le regole per la pubblicazione degli atti
processuali.
Ciò in quanto l’attività informativa svolta dai mass media potrebbe comprimere il
diritto della persona ad un equo processo, condizionare l’opinione pubblica, soprattutto
nella fase delle indagini, o influire sulla corretta formazione del convincimento del
giudice: il processo influenza la società. E viceversa. In un simile moto circolare si
inseriscono, appunto, i mass media226.
224 G. GIOSTRA, Intercettazioni tra indagini e privacy. Primo, evitare soluzioni improvvisate, in Dir. e
Giust., 2006, 31, p. 99
225 F. PIZZETTI, discorso illustrativo della Relazione annuale al Parlamento del 2006 del presidente
dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali,, del 7 luglio 2006, doc. web n. 1303712, su
www.garanteprivacy.it.
226 G. GIOSTRA, Giornalismo giudiziario: un ambiguo protagonista della giustizia penale, in Critica del
diritto, 1994, 1, p. 55
86
2. Il divieto di pubblicazione degli atti previsto dall'art. 114 c.p.p.
L’istituto del divieto di pubblicazione era stato delineato dal codice del 1930 quale
limite alla divulgazione di atti o notizie riguardanti fasi processuali non pubbliche, poiché
si riteneva che la diffusione generalizzata di tali dati potesse compromettere la serenità
del giudizio, il segreto sulle attività investigative e la riservatezza delle persone coinvolte.
Nel capitolo che precede abbiamo analizzato le norme che il codice Rocco
destinava alla disciplina dell'obbligo del segreto - l'art. 307 c.p.p. abr. - e del divieto di
pubblicazione - l'art. 164 c.p.p. abr.: quest'ultima norma, però, più che rafforzare il
segreto processuale, si limitava a regolare la forma della rivelazione, inibendo l’uso dei
mezzi di divulgazione e vietando di pubblicare anche dati non ricompresi nel vincolo di
segretezza.
Il divieto era imposto con l’inizio della fase istruttoria, e di conseguenza era lecito
divulgare denunce ed altre notizie di reato finché non intervenisse la comunicazione
giudiziaria; si attenuava così il diritto alla riservatezza dei diretti interessati.
La rigidità del divieto imposto nel codice Rocco in tema di divieto di
pubblicazione, risultava ben evidenziata nella Relazione al progetto preliminare al codice
del 1929: “è volontà dello Stato di far assolutamente cessare la riprovevole e pericolosa
speculazione giornalistica sui procedimenti penali, la quale, rivelando ciò che interessa
non venga propalato, mette sull'avviso i delinquenti e può frustrare l'azione dell'autorità,
eccita nella popolazione un malsano interessamento per l'attività criminosa, fornisce
esempi ed istruzioni ai male inclinati, nuoce agli imputati innocenti, crea artificiose
correnti di opinione pubblica contrarie all'indipendenza ed all'obiettività del giudice e
cagiona altri danni e pericoli che sarebbe superfluo enumerare”227.
L'art. 164 c.p.p. abr. vietava, così, la pubblicazione del contenuto di atti e
227 Lavori preparatori del codice penale e di procedura penale, VIII, Roma, Tipografia delle Mantellate,
1929, p.. 35
87
documenti relativi all'istruzione, ed al successivo giudizio tenuto a porte chiuse.
L'entrata in vigore della Costituzione, e l'assurgere del diritto di cronaca al rango
di valore primario, comprimibile solo per la tutela di interessi di pari grado, non poteva
non imporre una graduale rimeditazione del ruolo dell'informazione.
L'interesse di rango costituzionale ritenuto preminente era, comunque, quello al
corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, come ribadito dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 18 del 1966: la Consulta evidenziò come l'art. 164 c.p.p.
abr. avesse una duplice finalità: quella di assicurare la serenità e la indipendenza del
giudice, proteggendolo da ogni influenza esterna di stampa che potesse pregiudicare
l’indirizzo delle indagini e le prime valutazioni delle risultanze, e quella di tutelare, nella
fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti,
partecipano al processo.
Si rendeva necessario definire l’estensione del controllo sociale sul processo, che
un ordinamento democratico deve riconoscere228.
Proprio al fine di conciliare il diritto di riservatezza dell'individuo ed il diritto di
cronaca giudiziaria, il legislatore del 1988, preso atto della costante disapplicazione delle
regole stabilite nel vecchio codice di rito, ha consentito la pubblicazione del “contenuto”
degli atti di indagine, e dunque anche delle intercettazioni, circoscrivendo il più possibile
il divieto di pubblicazione e facendolo cadere mano a mano che non ha più ragion
d'essere, in relazione alle varie fasi del processo.229
Per quanto riguarda le indicazioni fornite dal legislatore delegante, il punto di
riferimento è la direttiva n. 71 della legge-delega, che, come rimarcato, ha trovato
esplicazione negli artt. 329 e 114 c.p.p.: le prime tre indicazioni concernono il segreto
degli atti di indagine ed il divieto “assoluto” di pubblicazione che allo stesso si
accompagna.
Il quarto punto disciplina il divieto di pubblicazione di atti non coperti dal segreto,
228 V. TOSCHI, voce Segreto (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989,
p. 1103.
229 Relazione al progetto di riforma del codice di procedura penale, pubblicato su Supplemento ordinario
n. 2 alla “Gazzetta Ufficiale” n. 250 del 24 ottobre 1988, p. 49.
88
il divieto “relativo”; il quinto punto è dedicato alla tutela dei minori, mentre l'ultimo alle
sanzioni previste per la violazione della normativa.
Nella citata direttiva si avvertiva chiaramente la preoccupazione di realizzare
l'auspicato ridimensionamento del divieto di pubblicazione: l'analiticità con cui il
delegante ha previsto i casi di divieto lascia intendere che fosse precluso al delegato di
introdurne di nuovi.
Nel prologo dell'art. 2 legge-delega è stabilito che il nuovo codice “deve attuare i
principi della Costituzione”, fra essi l'art. 21 Cost. occupa un posto di prim'ordine,
pertanto le ipotesi di divieto indicate dal delegante sembrano rappresentare il tributo
massimo che il delegato è “autorizzato” a pagare per la tutela di interessi processuali o
extraprocessuali pregiudicati dalla libera divulgabilità delle informazioni relative al
procedimento penale230.
I compilatori del nuovo codice si sono, dunque, distaccati in modo netto dal
previgente impianto normativo, seguendo un duplice principio ispiratore: se da un lato
l’informazione è ancora intesa come un fattore limitante dell’autonomia e della serenità
della funzione giudiziaria, dall’altro se ne valorizza il ruolo di strumento di controllo
sociale.
Si è così cercato di circoscrivere, per quanto possibile, il divieto, anche in
considerazione del fatto che limiti troppo rigidi sono spesso inapplicabili e generano
inevitabilmente il tentativo di aggirare il precetto.
Vi è, tuttavia, un limite implicito alla pubblicità: quello oltre il quale la cronaca
rischierebbe di frustrare l'azione della giustizia; non avrebbe senso, infatti, pregiudicare
un'attività per garantirne il controllo231.
Si deve, allora, riuscire a conciliare le esigenze dell'informazione con quelle del
processo: rispetto alla previsione dell'art. 164 c.p.p. abr., che vietava sic et simpliciter la
pubblicazione degli atti dell’intera fase delle indagini preliminari, il codice vigente, col
230 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 280
231 G. GIOSTRA, “Segreto investigativo, tutela della riservatezza, garanzie difensive.”in AA.VV., Le
risposte penali all'illegalità, Tavola rotonda nell'ambito della Conferenza annuale della ricerca, Roma, 2
aprile 1998, Accademia nazionale dei Lincei, p. 33
89
“labirintico”232 art. 114, stabilisce che il divieto colpisce solo singole attività, che devono
rimanere segrete fino a quando restano ignote all’indagato; si tratta di una previsione,
sotto il profilo oggettivo, meno rigorosa della previgente.
Vedremo più avanti come, invece, risulti ben più ampia la categoria dei destinatari
del divieto: si tratta di un obbligo erga omnes, che si estende dunque ai testimoni e alle
parti private, che erano esclusi dall'obbligo previsto dall'art. 307 c.p.p. abr.
L'art. 114 c.p.p delimita i confini entro cui è consentito pubblicare atti acquisiti
durante le indagini preliminari; nella fattispecie in esame rientra, inevitabilmente, la
trascrizione di conversazioni o comunicazioni intercettate.
Al primo comma, l'art. 114 c.p.p., vietando la pubblicazione, anche parziale o per
riassunto, degli atti coperti dal segreto o del loro contenuto, introduce un divieto
“assoluto” di pubblicazione degli atti, individuati ai sensi dell'art. 329 c.p.p.
Come precedentemente specificato, si parla in tal caso di “segretezza esterna”,
corrispondente al divieto di rivelare notizie sul procedimento, al di fuori dell'ambito
processuale, attraverso la previsione di un divieto di divulgazione a mezzo stampa233.
Gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria restano,
dunque, segreti fino a quando l’indagato non ne possa avere conoscenza e comunque
fino alla chiusura delle indagini preliminari, e non possono essere diffusi con alcun
mezzo - stampa, radio, televisione - neanche parzialmente o per riassunto.
Il segreto cade con il deposito dei verbali delle intercettazioni presso la segreteria
del pubblico ministero: da questo momento i difensori possono esaminare gli atti ed
ascoltare le registrazioni.
Il venir meno dell'obbligo del segreto su determinati atti non comporta però la
loro libera pubblicabilità: il comma 2 dell’articolo 114 stabilisce infatti che gli atti non
più coperti dal segreto non possono essere pubblicati, neanche parzialmente, fino alla
conclusione delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare.
Se il procedimento approda alla fase dibattimentale, il divieto di pubblicazione
232 F. CORDERO, sub art. 114 c.p.p., cit., p. 139
233 R. MENDOZA (a cura di), “Codice di procedura penale” Rassegna di giurisprudenza e di dottrina,
vol. Il - Articolo 114 - Divieto di pubblicazione di atti, di LATTANZI e LUPO, Giuffrè,2008, p. 39.
90
degli atti inseriti nel fascicolo del pubblico ministero si protrae fino alla sentenza di
appello, come stabilito dal comma 3 dell'art. 114 c.p.p.
Prima dell'intervento della Corte costituzionale del 1995234, che in seguito
esamineremo in modo più dettagliato, era prevista un'ulteriore ipotesi di divieto di
pubblicazione, concernente gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento.
Nel dichiarare l’illegittimità della norma, la Corte ha posto l’accento sul fatto che
la ratio del divieto di
divulgabilità degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico
ministero, anche una volta cessato l’obbligo del segreto, è giustificata dall’esigenza che il
giudice formi liberamente il suo convincimento sulla base di atti ad esso ignoti; ne
consegue la sua totale inapplicabilità a quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento,
per definizione concernente atti che il giudice “deve” conoscere.
Se invece, come delineato dal comma 5 dell'art. 114 c.p.p., non si procede al
dibattimento, il giudice, sentite le parti, può vietare la pubblicazione di atti o di parte di
essi quando vi sia il rischio di offendere il buon costume, di pregiudicare l’interesse dello
Stato oppure la riservatezza dei testimoni o delle parti private.
Questa breve ricognizione dei contenuti dell'art. 114 c.p.p. si conclude con
l’esame del suo comma 7, che consente la pubblicazione del “contenuto” di atti non
coperti dal segreto: su questa distinzione si fonda la libertà di cronaca giudiziaria, un
diritto costituzionale, che trova i suoi limiti negli interessi strettamente processuali del
segreto, e al contempo costituisce un diritto dei cittadini conoscere l’operato della
magistratura235.
Abbiamo evidenziato come il codice vigente, al fine di tutelare la riservatezza
della fase delle indagini preliminari, le fornisca una copertura che opera su due piani:
all'obbligo del segreto, ai sensi dell’art. 329 c.p.p., associa il divieto di pubblicazione, ex
art. 114 commi 1 e 2 c.p.p.
Dunque, salvo l'esercizio del potere di segretazione e desegretazione da parte del
pubblico ministero, si è stabilito che il divieto di pubblicazione dovesse tendenzialmente
234 Corte Cost., 24 febbraio 1995 n. 59, in Foro it., I, 834, Riv. it. Dir. e proc. pen.,1996,808
235 G. CORRIAS LUCENTE, L’informazione nella fase delle indagini preliminari, in Il Diritto
dell’informazione e dell’informatica, Giuffrè, 2008, 4-5, p. 447.
91
“coincidere” con il segreto investigativo; tuttavia, pur se in modo meno rigido, e per la
tutela di un interesse distinto rispetto alla salvaguardia delle indagini preliminari, si è
previsto che il divieto in questione possa permanere anche dopo che l'obbligo del segreto
sia venuto meno.
Proprio da un attento confronto tra la “pubblicazione” - vietata dall'art. 114 c.p.p.e la “rivelazione” – di cui all’art. 329 c.p.p. - si possono ricavare le caratteristiche salienti
della prima.
La condotta interdetta dall'art. 114 c.p.p. è quella della “pubblicazione”: più
precisamente la pubblicazione “con il mezzo della stampa o altro mezzo di diffusione”,
evocando in tal modo, al pari di quanto esposto relativamente al segreto, un obbligo di
tipo omissivo.
Come già evidenziato, il segreto è violabile con un bisbiglio; il divieto di
pubblicazione, invece, richiede che la modalità di trasmissione della notizia siano tali da
consentirle un'elevata propagazione, in grado di raggiungere un numero indefinibile di
persone.
La pubblicazione, dunque, presuppone veicoli a destinatari indeterminati: stampa,
radio, cinema, televisione, proclami, affissioni, bandi, conferenze, dibattiti, letture in
pubblico, narrazione e così via; inoltre, contrariamente all'obbligo di tacere, il divieto di
pubblicare è reiteratamente violabile; la notizia ripubblicata non costituisce mai uno
sterile reprint, ma integra ogni volta una violazione della prescrizione236.
In senso conforme, un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che una
prima, illecita pubblicazione non determini la cessazione del divieto, poiché con la
successiva divulgazione viene dato maggiore risalto e diffusione all'atto originariamente
non pubblicabile: le successive pubblicazioni, pertanto, sono da ritenersi punibili, pur se
identiche, nel contenuto e nella forma, a quelle precedenti237.
Relativamente ai soggetti tenuti al rispetto del divieto di pubblicazione, come
accennato, valgono le medesime conclusioni formulate con riguardo ai soggetti vincolati
al segreto: anche il divieto di pubblicazione, infatti, configura un obbligo erga omnes;
236 F. CORDERO, Procedura, cit., p. 352
237 Cass., Sez. I, 11 luglio 1994, Leonelli, Cassazione penale, 1996, pag. 2164
92
“tutti” sono tenuti ad osservare l'obbligo del segreto, parimenti “tutti” sono vincolati al
divieto di pubblicazione.
Nell'ambito del divieto di pubblicazione, peraltro, non emerge la “sfasatura” tra la
disciplina processuale e quella penale, rimarcata riguardo l'obbligo del segreto: l'art. 114
c.p.p. trova il suo pendant sostanziale nella contravvenzione di cui all'art. 684 c.p., che
presidia il divieto di pubblicazione, punendo chiunque lo violi.
Procederemo ad un'analisi più approfondita dei profili sanzionatori nei paragrafi
successivi; si rende però necessario, innanzitutto, l’esame delle due tipologie di divieto di
pubblicazione sopra enunciate: il divieto assoluto e il divieto relativo.
93
2.1 Divieto assoluto di pubblicazione
L’articolo 114 c.p.p. delinea un divieto di pubblicazione che si estrinseca in due
differenti gradazioni: un divieto “assoluto”, posto al fine di impedire che l’indagato venga
a conoscenza dello sviluppo delle indagini, in quanto ciò potrebbe compromettere il
reperimento e l’acquisizione di elementi probatori; un divieto “relativo”, più attenuato,
che riguarda gli atti, ma non il loro contenuto, funzionale ad impedire che il giudice
dibattimentale subisca condizionamenti.
La scelta operata dal legislatore è nel senso di un divieto assoluto di pubblicazione
degli atti sino a quando siano coperti dal segreto, e di un successivo affievolimento di tale
divieto anche a seconda delle fasi del procedimento238.
Si profila così la più rilevante innovazione che il legislatore del 1988 ha introdotto
nella materia de qua: il divieto di pubblicazione non costituisce un unicum, ma, al
contrario, si atteggia diversamente a seconda della natura dell'atto su cui insiste.
E' il segreto investigativo il discrimine tra assolutezza e relatività del divieto: il
riferimento all'art. 329 c.p.p. è indispensabile per comprendere esattamente la portata
dell'art. 114 c.p.p; quando sussiste il segreto, vige un divieto assoluto di pubblicazione, in
seguito il divieto si affievolisce a relativo.
Nel primo caso l'atto non può essere rivelato e ne è, ovviamente, proibita la
pubblicazione, sia testuale che per contenuto; nel secondo caso, invece, l'atto è rivelabile
e, pur rimanendone vietata la pubblicazione del testo, diviene lecita quella del contenuto.
La contrapposizione tra “atto” e “contenuto” è la base su cui si fonda la
distinzione tra divieto assoluto e divieto relativo: questo, come detto, rappresenta un
238 A. NASTASI, La disciplina penale del segreto, in Diritto e formazione, 2003, p. 101
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elemento di novità del codice del 1988, motivato seguendo argomentazioni condivisibili,
ma alla prova dei fatti, fallace e lacunoso.
Alla nozione di “atto” corrisponde la riproduzione, in tutto o in parte, di un atto
investigativo pubblicato integralmente.
Più problematica risulta la definizione di “contenuto”, ivi intendendo qualsiasi
riproduzione che consenta di ricavare informazioni circa il compimento di un determinato
atto, senza che ciò implichi la sua riproduzione totale o parziale239.
Per individuare le sopracitate falle dell'attuale sistema normativo, va rimarcato
innanzitutto come, nel plasmare la vigente disciplina dei limiti del diritto di cronaca
giudiziaria, si sia, nuovamente, posta l'attenzione “solo” sulla salvaguardia delle esigenze
relative al procedimento, escludendo quelle connesse al diritto alla riservatezza delle
persone coinvolte nel procedimento stesso240.
Il comune denominatore su cui fondano i divieti previsti dall'art. 114 commi 1-3
c.p.p. è, dunque, di natura, esclusivamente, processuale: si vuole cioè assicurare il sereno
svolgimento del processo, da una parte consentendo un'esaustiva individuazione dei
mezzi di prova, dall'altra garantendo su di essi una corretta valutazione dell'organo
giudicante; prescindendo per il momento dalle ipotesi specifiche delineate dai commi 4 –
6 bis della norma in esame, solo i due interessi ivi indicati appaiono idonei a restringere il
diritto di cronaca.
La tutela del primo interesse – il corretto svolgimento delle indagini preliminari esige, non solo uno sbarramento alla rivelazione di notizie relative ad atti investigativi,
ma anche un rafforzamento, integrato dalla previsione del divieto “assoluto” di
pubblicazione.
Il divieto de quo ha connotati assai rigorosi: la norma interdice la pubblicazione,
integrale o parziale, del testo e del contenuto dell'atto processuale “coperto da segreto”; in
tal modo, come anticipato, il legislatore ha stabilito uno stretto collegamento tra obbligo
239 TOSCHI, voce Segreto (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p. 1112.
240 G. GIOSTRA, “L'opinione pubblica in tribunale e il tribunale dell'opinione pubblica” in Riti,
tecniche, interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento, Atti del Convegno di Foggia, 5-6 maggio
2006, a cura di Marco Nicola Miletti, Giuffrè, 2006, p. 36
95
del segreto e divieto di pubblicazione.
Per individuare quali siano gli atti “assolutamente” non pubblicabili, è necessario
fare riferimento diretto all'art. 329 c.p.p., che disciplina l'istituto del segreto investigativo:
come già anticipato, “atti coperti dal segreto” sono gli atti di indagine compiuti dal
pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, finché la difesa non abbia la possibilità
“legale” di conoscerli, o, in mancanza, fino al termine massimo di chiusura della indagini
preliminari.
Ma gli atti coperti da segreto non sono, però, solo quelli sopra riportati: dobbiamo
considerare, infatti, la già analizzata previsione del comma 3, lett. a) dell'art. 329 c.p.p.,
che consente al pubblico ministero di imporre il segreto su singoli atti che, oltre a non
poter essere rivelati, saranno altresì oggetto di divieto assoluto di pubblicazione.
Nei casi indicati, come detto, il divieto di pubblicazione rafforza l'obbligo del
segreto: non avrebbe alcun senso, del resto, vietare la rivelazione di un atto senza
contestualmente inibirne la pubblicazione; in caso contrario si arriverebbe al paradosso
per cui un atto segreto e non rivelabile potrebbe, però, essere divulgato e reso di dominio
pubblico.
Esiste un'ipotesi, quella delineata dall'art. 329 comma 3 lett. b) c.p.p., in cui il
divieto di pubblicazione prescinde dal segreto: in tal caso, infatti, il pubblico ministero
può imporre il divieto di pubblicare determinati atti o notizie relative a specifiche
operazioni investigative.
Eccezion fatta per quest'ultima ipotesi, il divieto assoluto di pubblicazione e il
divieto di rivelare convergono su un medesimo oggetto: l'atto coperto da segreto, e non
potrebbe essere altrimenti, avendo entrambi il fine sotteso di salvaguardare le indagini
preliminari.
Oltre all'identità dell'oggetto, i due divieti in esame convergono anche sotto il
profilo temporale: si protraggono entrambi, infatti, sino al venir meno della segretezza
interna.
Il profilo cronologico del divieto assoluto di pubblicazione ricalca, dunque, quello
del segreto, come esplicitamente sanciva in legge-delega, prendendo le distanze dal
96
previgente art. 164 c.p.p. abr., che riferiva il divieto di pubblicazione ad un'intera fase
processuale, o, in alcuni casi, addirittura richiamava il termine proprio delle norme sugli
archivi di stato: settanta anni dalla conclusione del processo.
Il divieto assoluto di pubblicazione, pertanto, cessa con la “conoscibilità legale”
dell'atto da parte del difensore o dell'indagato; in mancanza di essa, viene meno con la
chiusura delle indagini preliminari.
A rigor di logica, dunque, se dovessero risultare ignoti gli autori del reato, il
divieto assoluto di pubblicazione dovrebbe operare per tutta la durata delle indagini
preliminari; nel momento in cui dovesse essere individuata la persona sottoposta alle
indagini, il divieto in parola si dovrebbe modellare in funzione del regime di conoscenza
di ogni singolo atto241.
Questa interpretazione del dies ad quem del divieto assoluto di pubblicazione nel
procedimento contro ignoti, pur essendo coerente con la legge-delega, ha suscitato forti
perplessità: essendo di due anni la proroga massima del termine ordinario delle indagini
preliminari, sarebbe politicamente difficile accettare che, soprattutto nei casi di reati
particolarmente gravi ed allarmanti, l'opinione pubblica debba essere tenuta all'oscuro di
tutto per un lasso di tempo così ampio242.
E' ipotizzabile l'esistenza di atti d'indagine per cui, il divieto di pubblicazione,
anche relativamente al solo contenuto, abbia una durata indefinita, essendo correlati ad un
determinato iter procedimentale: si pensi, ad esempio, alla denuncia ed alle sommarie
informazioni testimoniali.
Questi atti diventano conoscibili dall'indagato, e quindi pubblicabili, con la
richiesta di rinvio a giudizio; se
però, le indagini sfociano in una richiesta di
archiviazione accolta de plano, la persona sottoposta alle indagini non ne avrà mai la
conoscenza legale, e di conseguenza essi saranno indefinitamente oggetto di divieto
assoluto di pubblicazione243.
Un ulteriore profilo problematico riguarda la distinzione tra “atto” e “fatto”: i
241 V. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, IV ed., CEDAM, 2006, p. 136
242 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 136
243 G. CONSO, V. GREVI, Prolegomeni a un commentario breve del nuovo codice di procedura
penale,Cedam, 1990, p. 102
97
confini tra le due nozioni risultano incerti ed evanescenti, ma la loro specificazione è
necessaria ai fini di una corretta collocazione nell'alveo del divieto “assoluto”.
La nozione di “fatto”, ivi inteso quale fenomeno direttamente percepibile, non
rientra nel divieto in questione: si ritiene quindi pubblicabile ciò che il giornalista osserva
di persona244.
La Suprema Corte in considerazione dell'indispensabilità di una rigorosa
delimitazione dell'area di efficacia del divieto di pubblicazione, ha ritenuto che
quest'ultimo concerna strettamente gli atti del procedimento ed il loro contenuto, senza
potersi estendere oltre questo ambito. In caso contrario, un diritto costituzionalmente
garantito qual è il diritto di cronaca, subirebbe un'ingiustificata compressione245.
Nella medesima pronuncia la Suprema Corte, rilevando come l'atto di indagine
non possa automaticamente coincidere con il fatto che ne costituisce l'oggetto, ha escluso
dall'ambito del divieto di pubblicazione le notizie relative all'espletamento di attività che
si sostanzino in fatti direttamente percepibili, sia per una casuale cognizione diretta del
giornalista, sia per una conoscenza indiretta frutto di informazioni riferite dai terzi
presenti al compimento dell'atto. Al contrario, non sarà mai pubblicabile il contenuto
delle dichiarazioni rese dal soggetto informato sui fatti alle autorità preposte alle indagini.
Quello che la Cassazione rileva, con la sentenza in esame, è che il parametro
distintivo tra penalmente rilevante, a norma del 684 c.p., e lecito è costituito dalla fonte
della conoscenza giornalistica: l'importante è che emerga con sufficiente chiarezza che la
fonte di quanto pubblicato non sia “procedimentale”246 .
In quest'ottica, va valutata anche la possibilità di pubblicare “l'informazione di
garanzia”: si è precedentemente evidenziato come questo atto non rientra nella categoria
degli atti di indagine intesa in senso restrittivo, e che, dunque, si tratterebbe di un atto che
nasce senza il presidio del divieto assoluto di pubblicazione247.
Indubbiamente, un'interpretazione siffatta appare sbilanciata a favore del diritto di
244 G. RUELLO, “Segreto d'indagine e diritto di cronaca” in La giustizia penale, 1991, p. 603
245 Cass. Sez. I, 11 luglio 1994, Leonelli, Arch. nuova proc. pen. 1994, p. 1179
246 R.ADORNO, “Sulla pubblicazione del contenuto di atti di indagine coperti dal segreto”, Cass. Pen.
1995, p. 2175
247 G. CONSO, V. GREVI, Prolegomeni, cit., p. 105
98
cronaca giudiziaria, sacrificando del tutto un ulteriore diritto costituzionalmente tutelato,
quello alla riservatezza di chi è coinvolto nel procedimento penale.
Un'ultima, breve annotazione, concerne i “documenti”, non menzionati
dall'art. 114 c.p.p.: in dottrina, in modo pressoché unanime, si ritiene che essi siano
esclusi dal divieto di pubblicazione, a differenza di quanto stabiliva l'art. 164 c.p.p. abr.,
che, invece, esplicitamente si riferiva, oltre che agli atti, a “qualsiasi documento”.
Dalla diversa formulazione della norma si può evincere la voluntas legis di
ridefinire in senso restrittivo l'oggetto del divieto248 .
Si deve dunque ritenere che i documenti acquisiti al procedimento siano
pubblicabili, a meno che non costituiscano l'oggetto – ad es. una perizia – o il risultato –
ad es. un sequestro – di un atto non pubblicabile249.
248 L.B.C. CAMALDO, sub art. 114 c.p.p., in AA.VV., Commento al codice di procedura penale, ( a cura
di Piermaria Corso), La Tribuna, 2008, p. 509
249 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 300
99
2.2 Divieto relativo di pubblicazione
La tutela del secondo interesse sotteso alla disciplina del divieto di pubblicazione,
quello alla corretta formazione del convincimento del giudice dibattimentale, trova la sua
esplicazione nel divieto relativo di pubblicazione.
Lo scopo del legislatore del 1988 era, evidentemente, quello di modulare
l'intensità del divieto, agendo sulla sua durata in relazione alla concreta funzione dell'atto:
come emerge dalla Relazione al progetto preliminare, l'unico intento del divieto in esame
è quello di garantire il corretto svolgimento del dibattimento; esula, invece, dalla ratio
della norma la tutela dell'imputato dai mass media e dall'opinione pubblica250 .
Il primo comma dell'art. 114 c.p.p., come esposto, riconduce tutta l'area coperta
dal segreto investigativo a quella coperta dal divieto di pubblicazione; i commi successivi
evidenziano come tale corrispondenza non sia affatto biunivoca, rientrando nell'area del
non pubblicabile materie rispetto alle quali non esiste più l'obbligo del segreto251.
Dunque, gli atti non più segreti, perché divenuti conoscibili dalla difesa, o perché
concluse le indagini preliminari – art. 329 comma 1 c.p.p. - , o ancora perché desegretati
– art. 329 comma 2 c.p.p. - cessano di essere sottoposti al divieto assoluto di
pubblicazione, ma, ciò nonostante, non divengono automaticamente pubblicabili. Al venir
meno del segreto, infatti, non corrisponde la libera ed incondizionata divulgabilità;
rispetto ad essi permane un divieto “relativo” di pubblicazione.
Dalla disposizione in esame emerge la differenza tra la materia coperta dal segreto
e quella correlata al divieto di pubblicazione: l'attuazione della legge-delega ha
comportato la predisposizione di una normativa operante su due piani, distinti ma
connessi, dovendosi determinare da un lato, quello che è coperto dal segreto - ossia
insuscettibile di rivelazione - e dall'altro ciò che deve costituire oggetto del divieto di
pubblicazione; le due aree possono coincidere, in tutto o in parte, ma non si può dare per
250 Trib. Trieste, 28 luglio 1993, Rizzotti-Vlach c. Berti
251 P.P. RIVELLO, “Prevedibili incertezze della distinzione, cit., p. 1608
100
scontata a priori tale coincidenza252.
Il divieto relativo dunque, inibisce la pubblicazione “dell'atto”, ma non quella del
suo “contenuto”, mentre, secondo la previgente disciplina, caduto il segreto istruttorio
continuava ad operare un divieto assoluto di pubblicazione; una disciplina così mitigata è
il segno di un rilevante spostamento nella opportuna direzione, quella di un più ampio
riconoscimento del diritto-dovere di informazione dell'opinione pubblica253.
Proprio sulla distinzione tra pubblicazione dell'atto e pubblicazione del contenuto
- entrambe inibite dal divieto assoluto, solo la prima vietata dal divieto relativo - si fonda
la nuova disciplina del divieto di pubblicazione. Fondamentale è porre l'attenzione sui
primi due commi dell'art. 114 c.p.p. Il primo vieta la pubblicazione, “anche parziale o per
riassunto degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto”.
Il secondo comma, invece, si limita a vietare “la pubblicazione anche parziale
degli atti non più coperti dal segreto”, senza fare più alcun riferimento al riassunto o
al contenuto dell'atto; il comma 7, per fugare ogni dubbio, sancisce espressamente che
è “sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non più coperti dal segreto”,
anche se il “sempre” è di troppo, e a smentirlo è l'art. 329 comma 3 lett. b)254.
Più precisamente, allorché si intenda definire la nozione di “contenuto”, si fa
riferimento a notizie di stampa, più o meno generiche e prive di riscontri documentali
riguardanti il contenuto di atti255.
Sul punto si registra una fondamentale pronuncia della Suprema Corte256 risalente
al 1994: a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, è netta la
distinzione tra atto del procedimento e suo contenuto, espressioni correlate entrambe al
divieto in forma assoluta e relativa.
La pubblicazione del contenuto è consentita in linea generale per gli atti non
coperti da segreto, salvo le limitazioni di cui all’art. 329 comma 3 lett. b), c.p.p;
252 M. CHIAVARIO, “La conoscibilità degli atti processuali, strumenti e limiti”, in La riforma del
processo penale. Appunti sul nuovo codice, Giappichelli, 1990, p. 237
253 C.F. GROSSO, Segretezza, cit. , p. 82
254 F. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 352
255 Relazione al progetto preliminare al C.p.p., p. 84
256 Cass. Pen., Sez. I, 11 luglio 1994, n. 10135, Arch. nuova proc. pen., 1994, p.821
101
contenuto dell’atto è quanto in esso si rappresenta, senza richiami testuali, sì che se ne
divulgano informazioni senza una riproduzione totale o parziale dello stesso.
Nel vigente codice di rito - prosegue la Corte - la segretezza interna resta distinta
da quella esterna, e non vi è una equazione tra ciò che diviene conoscibile all’interno del
procedimento e la sua divulgabilità: non vige un automatismo, pur riscontrandosi, in
riferimento al rilievo costituzionale del diritto di cronaca e d’informazione in genere, una
tendenziale convergenza fra conoscibilità, rivelabilità e pubblicabilità degli atti di
indagine, che non raggiunge, peraltro, la coincidenza tra regime di segretezza e quello
(pur sempre distinto) di divulgazione: la Relazione al progetto preliminare del codice di
procedura penale già sottolineava in proposito la necessità di distinguere tra segreto e
divieto di pubblicazione.
La ratio che presiede la disciplina è, come precisato, quella di assicurare il
corretto, equilibrato e sereno giudizio del giudice del dibattimento - al di fuori di ogni
pericolo di condizionamento da parte della stampa e dei mezzi di diffusione in genere o
da parte della pubblica opinione - attuato con norme che gli consentano di venire a
conoscenza degli atti di indagine nei limiti e secondo le regole previste dal codice di rito
in un processo tipicamente accusatorio.
Per altro verso, va chiaramente precisato che il divieto di pubblicazione di cui
trattasi concerne strettamente gli atti del procedimento ed il loro contenuto: non può
estendersi al di là di una rigorosa delimitazione di tale ambito di operatività, proprio per
evitare una eccessiva compressione del diritto di libera manifestazione del pensiero
costituzionalmente tutelato, cui fanno capo il diritto di informazione e la libertà di
opinione; sì che, ai fini della tutela apprestata dalla norma penale – l’art. 684 c.p. -, l’atto
di indagine non può automaticamente coincidere col fatto che ne costituisce l’oggetto.
L'idea guida sottesa alla disciplina del nuovo codice nasce dalla consapevolezza
dei compilatori di non poter pretendere un sostanziale “silenzio stampa” fino alla
celebrazione del dibattimento, per non creare una situazione analogia quella del codice
del 1930, caratterizzata dalla generale disapplicazione delle norme.
Allo stesso modo, un'eventuale estensione tout court della libertà di informazione,
102
avrebbe presentato profili di inevitabile attrito con l'impianto accusatorio del nuovo
codice, basato sulla distinzione tra le fasi processuali e con l'elezione del dibattimento a
sede naturale e, di norma, esclusiva per la formazione della prova.
Quello che il legislatore del 1988 mirava ad evitare è che il giudice del
dibattimento potesse acquisire una conoscenza “extraprocessuale” degli atti ad esso
inibiti in sede processuale: la soluzione adottata è stata quella di anticipare la possibilità
di pubblicare notizie inerenti al contenuto dell'atto rispetto alla divulgazione integrale
dell'atto stesso.
Il processo di stampo accusatorio, difatti, esige che il convincimento del giudice
del dibattimento maturi solo ed esclusivamente nel corso del medesimo, con la necessità
di scongiurare il rischio che attraverso i mass-media questi prenda cognizione delle
risultanze investigative, e giunga al dibattimento con preconcetti maturati in sede non
processuale.
Il fine appare evidente: il giudice del dibattimento ben potrebbe essere influenzato
dalla pubblicazione “testuale” di atti investigativi, mentre - si postula - notizie di stampa,
più o meno generiche, e prive di riscontri documentali, non sarebbero in grado di inficiare
il suo libero convincimento.
Pur riconoscendo come fondamentale l'esigenza che si intende salvaguardare, la
preoccupazione che ne è alla base ed il rimedio proposto peccano di una certa astrattezza
ed ingenuità257: esistono, infatti, ulteriori e ben più rilevanti condizionamenti che il
giudice può subire, specialmente in processi caratterizzati da un’ampia risonanza
mediatica, dai mezzi di comunicazione.
Soprattutto, come peraltro già rimarcato inizialmente, la parte che intendesse
portare a conoscenza del giudice atti di indagine che questi dovrebbe ignorare, ben
potrebbe utilizzare in modo strumentale il suo diritto a sollevare questioni preliminari
relative al fascicolo per il dibattimento, come disposto dall'art. 491 comma 2 c.p.p. Alla
parte basterebbe sostenere che un determinato atto inserito nel fascicolo del pubblico
ministero debba confluire in quello del dibattimento per fare in modo che l'organo
257 G. GIOSTRA, Processo Penale, cit., p. 331
103
giudicante ne venga a conoscenza.
La speranza che il divieto possa effettivamente salvaguardare l'“igiene
cognitiva”258 del giudice del dibattimento è, quantomeno, illusoria: i pregiudizi più
pericolosi, infatti, non sono quelli che il giudicante può trarre dagli organi di stampa, ma
quelli che ben potrebbero sorgere da privati colloqui tra questi ed il pubblico ministero.
Passando all'analisi dell'oggetto del divieto relativo di pubblicazione, va
preliminarmente rimarcato come il secondo ed il terzo comma dell'art. 114 c.p.p. non
concernono i medesimi atti: il secondo comma nel vietare la pubblicazione di atti non più
coperti da segreto si pone in continuazione logico-processuale con il comma 1, e si
ricollega dunque alla regola posta dall'art. 329 comma 1 c.p.p.
Il divieto di pubblicazione di cui al terzo comma, invece, riguarda gli atti del
fascicolo del pubblico ministero: vi possono essere inseriti anche atti non posti in essere
dal p.m. o dalla polizia giudiziaria, ad esempio il provvedimento con cui il g.i.p. autorizza
l'intercettazione telefonica; come pure atti non propriamente qualificabili come atti di
indagine, quale la richiesta di autorizzazione a disporre l'intercettazione di
comunicazioni.
Si tratta di una serie di atti che non sono mai stati coperti dal segreto, e pertanto
liberamente divulgabili ai sensi dei primi due commi dell'art. 114 c.p.p.; divengono,
invece, non pubblicabili a norma del terzo comma della disposizione in esame nel
momento in cui viene formato il fascicolo del pubblico ministero ai sensi dell'art. 433
c.p.p.
Non si esclude, peraltro, che tali atti possano essere stati già divulgati quando, con
il passaggio alla fase dibattimentale, nasce il divieto di pubblicarli onde impedire al
giudice del dibattimento di averne conoscenza259.
Sul punto si registra un orientamento minoritario secondo cui anche gli atti mai
coperti dal segreto, come quelli in esame, stante la continuità logica tra il secondo ed il
terzo comma dell'art. 114 c.p.p., sarebbero soggetti sin da subito al divieto di
pubblicazione testuale.
258 G. GIOSTRA, voce “segreto: X) segreto processuale, cit., p. 17
259 G. GIOSTRA, Processo, cit., p. 337
104
Proprio queste ultime considerazioni ci introducono, da ultimo, al tema del profilo
temporale del divieto relativo di pubblicazione: obiettivo di fondo, esplicitamente
enunciato nella Relazione al progetto preliminare, è quello di circoscrivere il più
possibile il divieto e di farlo cadere man mano che, in relazione allo svolgersi del
processo, non ha più ragione d'essere.
Innanzitutto è necessario identificare il dies a quo del divieto in questione: per gli
atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria questo coincide col
momento in cui l'atto non è più coperto dal segreto.
Relativamente agli altri atti, compiuti dai medesimi organi o da organi differenti,
il divieto diventa operativo solo con il passaggio alla fase dibattimentale, vale a dire con
l'emissione del decreto che dispone il giudizio (art. 424 c.p.p.), anche in via immediata
(art. 455 c.p.p.), oppure con la traduzione o la citazione in udienza dell'imputato nel
giudizio direttissimo (art. 450 c.p.p.).
Per quel che riguarda il dies ad quem, emerge un primo profilo problematico
riguardo ai riti speciali, non specificamente considerati dall'art. 114 c.p.p.: la disciplina
varia a seconda che si tratti di riti che escludono il dibattimento o di riti che lo anticipano.
Per quanto concerne i primi, si registrano in dottrina due diverse interpretazioni:
stando alla prima, il divieto relativo di pubblicazione dovrebbe perdurare sino alla
conclusione del rito260; stando alla seconda tesi, invece, il divieto in questione è destinato
a venire meno in un momento precedente, e cioè con la “richiesta” di giudizio abbreviato,
di “patteggiamento”, di decreto penale di condanna.
In questi casi, sarebbe privo di significato un prolungamento del divieto di
pubblicazione diretto a garantire il convincimento del giudice, giacché quest'ultimo,
chiamato a pronunciarsi sulla richiesta dei suddetti riti speciali, non soltanto “può”, ma
“deve” conoscere gli atti di indagine261.
Nel caso in cui il patteggiamento sia richiesto nel corso del dibattimento ai sensi
degli artt. 448 comma 1 e 563 comma 4 c.p.p, o di giudizio abbreviato “atipico” ex art.
452 c.p.p., sono prospettabili due distinte soluzioni: si può, in primis, ritenere che il
260 E.LUPO, “La pubblicabilità degli atti di indagine preliminare, cit., p. 505
261 G. GIOSTRA, Processo,cit., p. 342
105
divieto di pubblicazione non operi, in quanto il giudice del dibattimento può visionare
entrambi i fascicoli processuali262.
Un'interpretazione siffatta non prende però in considerazione che, pur se in casi
limitati, le sentenze di giudizio abbreviato sono appellabili, come dispone l'art. 443
commi 1 e 3 c.p.p.; la piena pubblicabilità degli atti potrebbe pregiudicare l'appello.
Per questa ragione, in alternativa, si potrebbe ritenere operante il comma 3 dell'art.
114 c.p.p., da cui discenderebbe la pubblicabilità degli atti solo a seguito dell'eventuale
pronuncia della sentenza di secondo grado.
Ciò sarebbe possibile solamente estendendo la portata della locuzione “se si
procede al dibattimento” sancita dal comma in questione anche all'ipotesi di
patteggiamento richiesto in apertura di udienza, o di conversione del giudizio direttissimo
in abbreviato263.
Apparentemente lacunosa appare poi la disciplina normativa nell'ipotesi in cui il
pubblico ministero richieda al g.i.p. l'emissione di un decreto penale di condanna: se la
richiesta viene accolta, in caso di opposizione da parte dell'imputato, cui segue la
celebrazione del giudizio abbreviato o del patteggiamento, troverà applicazione il comma
2 dell'art. 114 c.p.p.
Qualora, invece, l'imputato chieda espressamente la celebrazione del dibattimento,
si procederà al giudizio immediato e, come vedremo, sarà applicabile l'art. 114 comma 3
c.p.p.
In caso di rigetto della richiesta di decreto penale, gli atti vengono restituiti al
pubblico ministero, come previsto dall'art. 459 comma 3 c.p.p.: la procedura in esame
sembra implicare una forma anomala di regressione alla fase delle indagini preliminari,
con conseguente applicazione dei commi 2 e 3 dell'art. 114 c.p.p, a seconda delle nuove
determinazioni dell'organo dell'accusa.
Opererà il secondo comma qualora si giunga in udienza preliminare e vi sia
pronuncia della sentenza di non luogo a procedere; si applicherà, invece, il comma 3 se,
262 G. UBERTIS, “Segreto investigativo, divieto di pubblicazione e nuovo processo penale”, in Aa.Vv.
Studi in memoria di P. Nuvolone, Giuffrè, vol. III, 1991, p. 522
263 F.M. MOLINARI, Il segreto, cit., p. 220
106
nei casi previsti dall'art. 550 c.p.p., il pubblico ministero emetterà un decreto di citazione
a giudizio dinanzi al tribunale in composizione monocratica.
In ordine ai riti speciali deflattivi dell'udienza preliminare, invece, il divieto di
pubblicazione previsto dal comma 2 dell'art. 114 c.p.p. cessa con la richiesta di
instaurazione del rito immediato o direttissimo, e si applicano le disposizioni dettate dal
comma 3 per il procedimento ordinario.
Infine, per quanto riguarda proprio il procedimento ordinario, l'art. 114 comma 2
c.p.p. prevede che il divieto perduri fino alla conclusione delle indagini preliminari,
ovvero sino al termine dell'udienza preliminare; gli epiloghi implicitamente richiamati
sono due: l'archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere.
La ratio di questa disposizione è evidente, poiché, se si vuole preservare la
neutralità psicologica del giudice del dibattimento, e non essendo possibile conoscere a
priori i riferiti esiti, si vieta la pubblicazione di atti che potrebbero essere inseriti nel
fascicolo del pubblico ministero, fintantoché non si abbia la certezza che non si procederà
alla fase dibattimentale264.
La pronuncia di archiviazione può, però, essere seguita da un provvedimento di
riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p.) autorizzata dal giudice su richiesta del pubblico
ministero, e motivata dall'esigenza di procedere a nuove investigazioni: se le ulteriori
indagini si concludono con la richiesta di rinvio a giudizio dell'indagato, successivamente
accolta, non si può escludere che una parte degli atti compiuti nel corso delle indagini
iniziali sia già stata pubblicata; una tale evenienza comprometterebbe inevitabilmente lo
scopo della segretezza esterna.
Allo stesso modo, la sentenza di non luogo a procedere di cui all'art. 425 c.p.p.
potrebbe essere impugnata a norma dell'art. 428 c.p.p., o revocata a norma dell'art. 434
c.p.p: all'impugnazione potrebbe così far seguito il rinvio a giudizio in un momento in
cui, stando alla previsione normativa dell'art. 114 comma 2 c.p.p., il divieto di
pubblicazione sarebbe già caduto, rendendo pubblicabili gli atti di indagine.
Per ovviare a questa evenienza, la giurisprudenza di merito 265 ha suggerito di
264 D. SIRACUSANO, A. GALATI, G. TRANCHINA, E. ZAPPALA', cit., p. 253
265 Trib. Trieste, 28 luglio 1993, Rizzotti-Vlach c/Berti
107
estendere il divieto de quo fino alla pronuncia definitiva sull'impugnazione,
eventualmente emessa in Cassazione, o ancora, fino a quando la pronuncia non sia più
soggetta ad impugnazione.
Ciò renderebbe applicabile la diversa disciplina contemplata dal comma 3 dell'art.
114 c.p.p, per gli atti inseriti nei fascicoli del pubblico ministero e del dibattimento, la cui
formazione avviene a seguito dell'emissione del decreto che dispone il giudizio di cui
all'art. 431 c.p.p.266
Nel caso in cui, invece, si proceda al dibattimento, la norma di riferimento è il
comma 3 dell'art. 114, che dispone che gli atti confluiti nel fascicolo del pubblico
ministero diventano pubblicabili “solo” dopo la pronuncia della sentenza di secondo
grado.
Quello che la nuova disciplina intende rendere possibile è un controllo
dell'opinione pubblica sull'operato dell'organo dell'accusa, senza che ciò si risolva in una
violazione delle regole che disciplinano i controlli endoprocessuali: fino a quando,
attraverso la rinnovazione in appello, è possibile l'utilizzazione di atti nel processo, è
quantomeno opportuno che su questi permanga il divieto di pubblicazione, al fine di
evitare l'elusione delle garanzie previste dal codice per il compimento delle attività
dibattimentali267.
In altri termini, potendosi ripetere in sede di appello l'istruzione dibattimentale ex
art. 603 c.p.p. si tende ad impedire che il giudice dell'impugnazione possa essere
influenzato dalla pubblicazione di atti noti solo alle parti.
La previsione di un limite temporale siffatto, non tiene però conto dell'eventualità
che la corte di Cassazione annulli un provvedimento impugnato e disponga un rinvio al
giudice di merito268.
Inoltre, gli atti integrativi di indagine che il pubblico ministero può compiere ai
sensi dell'art. 430 c.p.p. - tendenzialmente destinati a non rientrare in alcuno dei fascicoli
266 G. UBERTIS, “Segreto investigativo, divieto di pubblicazione e nuovo processo penale”, in Aa.Vv.
Studi in memoria di P. Nuvolone,Giuffrè, vol. III, 1991, p. 517
267 Relazione al progetto preliminare, cit., p.. 49
268 G. UBERTIS, sub art. 114 e 115 c.p.p., in Aa.Vv. Commentario al nuovo codice di procedura penale, a
cura di E.AMODIO e O. DOMINIONI, Giuffrè, 1989
108
processuali – diventano non divulgabili quando, utilizzati per sostenere una richiesta
rivolta al giudice del dibattimento e da questi accolta, vengano inseriti nel fascicolo del
pubblico ministero: il divieto di pubblicazione, cioè, “scatta” solo quando dovrebbe
cessare, vale a dire quando il giudice ha preso conoscenza degli atti in questione, e li ha
positivamente apprezzati269.
E' invece sempre consentita la pubblicazione di atti del fascicolo del pubblico
ministero che siano stati utilizzati ai fini delle contestazioni di cui all'art. 500 c.p.p.: si
tratta, infatti, di atti di cui il giudice ha preso cognizione durante la fase dibattimentale.
In realtà lo strumento della contestazione non consente la lettura integrale e
l'allegazione dell'atto, potendo la parte interessata solo dare lettura della singola
dichiarazione ivi utilizzata, per cui anche la pubblicazione dovrebbe essere ristretta entro
i medesimi confini, mentre, inopportunamente, la disposizione normativa estende la
pubblicabilità all'intero atto.
Gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento sono, invece, pubblicabili sin dal
momento della formazione del fascicolo medesimo, ai sensi dell'art. 431 c.p.p.; giova
ricordare che, come esaminato precedentemente, nella sua formulazione originaria l'art.
114 comma 3 c.p.p. posticipava la pubblicabilità degli atti in questione al momento
successivo all'emissione della sentenza.
Prima che la Consulta intervenisse con la già citata sentenza n. 59 del 1995, la
norma si prestava ad obiezioni metodologiche e strutturali: innanzitutto il legislatore
delegato aveva plasmato di sua iniziativa un'ipotesi di divieto non prevista nella
“analitica” direttiva 71 della legge-delega.
Inoltre, il divieto in questione appariva assolutamente ingiustificato ed illogico: se
la ratio dei commi 2 e 3 dell'art. 114 c.p.p. è quella di evitare che il giudice conosca
aliunde atti di cui, in sede processuale, non può avere conoscenza, il divieto di pubblicare
atti del fascicolo del dibattimento non ha alcun senso, in quanto investe atti di cui il
giudice può, anzi deve, avere conoscenza processuale.
La Corte costituzionale fu investita della questione di legittimità in un processo
269 G. GIOSTRA, Processo, cit., p. 346
109
riguardante un caso di arbitraria pubblicazione di atti di un procedimento penale: era
stato, infatti, pubblicato il testo integrale di alcune intercettazioni telefoniche inserite nel
fascicolo del dibattimento, relative ad un processo per concussione pendente presso il
Tribunale di Siracusa.
La pubblicazione era avvenuta in un momento antecedente rispetto alla sentenza
di primo grado, per cui si profilava la violazione dell'art. 114 comma 3 c.p.p. e gli autori
della pubblicazione erano indagati per il reato di cui all'art. 684 c.p.
Nonostante la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, il giudice per le
indagini preliminari preferì, preliminarmente, verificare la legittimità costituzionale della
disciplina, dubitando che fosse conforme al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3
Cost., per la distinzione operata tra pubblicazione del contenuto degli atti non coperti dal
segreto - sempre consentita dal comma 7 dell'art. 114 c.p.p - e la pubblicazione, anche
parziale, del testo dell'atto - vietata nei limiti di cui ai commi 2 e 3 della disposizione
medesima.
Il giudice a quo ravvisava, altresì, una violazione del diritto di cronaca, tutelato
dell'art. 21 Cost., ed infine, un eccesso di delega, poiché il divieto in esame sembrava
esorbitare dai criteri direttivi della legge delega, determinando così una violazione
dell'art. 76 Cost.270
I giudici della Consulta focalizzarono la loro attenzione su due diversi profili: il
rapporto tra la norma in esame e la legge delega, da un lato, e l'illogicità interna della
medesima, dall’altro271.
Secondo la Corte, l'intenzione del legislatore delegante, era quella di consentire il
divieto di pubblicazione con riferimento ai soli atti che funzionalmente rientrassero nella
fase delle indagini preliminari, atti che, peraltro, rimangono nella sfera di controllo del
p.m., nell'omonimo fascicolo272.
La Corte evidenziò, inoltre, l'assoluta illogicità della soluzione adottata dal
270 F.M. MOLINARI, cit., p. 108
271 S.CAVINI, E' incostituzionale il divieto di pubblicare gli atti del fascicolo del dibattimento, in Cass.
pen., 1995, p. 2450
272 M. CERESA GASTALDO, Processo penale e cronaca giudiziaria, costituzionalmente illegittimo il
divieto di pubblicazione degli atti del fascicolo del dibattimento, in Giur. Cost.le, 1995, p. 2123
110
legislatore delegato, sottolineando che gli atti del fascicolo del dibattimento non solo
sono già conosciuti dal giudice, ma frequentemente sono compiuti proprio da questi.
Tanto le premesse, quanto le argomentazioni della Consulta a sostegno della
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma appaiono pienamente condivisibili.
Tuttavia, i giudici costituzionali non sembrano aver valorizzato un altro, rilevante
interesse coinvolto nella disciplina in esame.
Inoltre, pur non essendovi dubbi sul fatto che una libera informazione è il primo
passo per consentire all'opinione pubblica un effettivo controllo sul modo in cui è
amministrata la giustizia, è pur vero che particolarmente gravi possono essere le
conseguenze di un'informazione distorta e parcellizzata.
Il problema, dunque, non sarebbe quello di sottrarre spazio al segreto, bensì quello
di garantire una conoscenza globale, organica e critica del fenomeno processuale: in
questa differente prospettiva d'analisi, sembra discutibile la scelta della Corte
costituzionale di consentire, di fatto, la pubblicazione di atti che non siano stati ancora
vagliati in dibattimento273.
Infine, pur in assenza di un'esplicita previsione normativa sul punto, si ritiene che
gli atti propri della fase dibattimentale siano immediatamente pubblicabili, come si
desume dall'art. 471 comma 1 c.p.p. e dai lavori preparatori, in cui si ricollega alla regola
generale della pubblicità dell'udienza dibattimentale.
Nel caso in cui, invece, si proceda a dibattimento a porte chiuse il divieto di
pubblicazione è stabilito per i soli atti dibattimentali; quanto agli atti anteriori, però, il
comma 4 dell'art. 114 c.p.p. prevede che il giudice, sentite le parti, possa disporre il
divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per la
contestazione, divieto che cesserà quando saranno trascorsi i termini stabiliti dalla legge
sugli archivi di Stato (70 anni) o il minor termine di 10 anni dal passaggio in giudicato
della sentenza, qualora vi sia l'autorizzazione del Ministro della Giustizia274.
In assenza di dibattimento potrebbero comunque porsi esigenze di riservatezza,
273 F.M. MOLINARI, cit., p. 302
274 L.GRILLI, “La pubblicazione degli atti e il segreto professionale del giornalista, in La giustizia
penale, Roma, 1990, p. 571
111
qualora la pubblicazione degli atti possa offendere il buon costume o pregiudicare la
riservatezza dei testimoni e delle parti private: in questi casi il giudice, sentite le parti,
può disporre il divieto di pubblicazione di atti o parti di essi.
112
2.3 I Profili sanzionatori
Passiamo ora ad analizzare quali sono gli strumenti sanzionatori apprestati dal
legislatore nelle ipotesi in cui il divieto di pubblicazione sia violato.
L’inosservanza del divieto previsto all’articolo 114 c.p.p. integra due diverse
fattispecie di reato, a seconda che si tratti di atti coperti dal segreto, oppure di atti non più
coperti dal segreto ma non ancora pubblicabili: la legge delega n. 81 del 1987, con la
direttiva n. 71, ha dunque previsto sanzioni distinte per la violazione del segreto e del
divieto di pubblicazione.
La rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale integra, come
analizzato nel capitolo secondo, la fattispecie prevista e punita dall’art. 379 bis c.p., che
sanziona “chiunque” riveli indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento
penale, da lui apprese per aver partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso.
Il secondo caso concerne, invece, il reato di “pubblicazione arbitraria di atti di un
procedimento penale”: questo reato contravvenzionale, delineato dall’art. 684 c.p., si
configura allorché le intercettazioni o gli altri atti investigativi non siano più segreti.
L’apparato sanzionatorio adottato è estremamente blando, ed inoltre, prevedendo
la pena alternativa dell’arresto – fino a trenta giorni – o dell’ammenda – da 51 a 258 euro
– per l’imputato è possibile chiedere di essere ammesso all’oblazione; il legislatore del
1988 ha scartato la soluzione di procedere all’inasprimento delle blande pene previste,
ritenendosi sfornito della relativa investitura275.
La norma in esame punisce “chiunque” pubblichi atti o documenti di un
procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, anche parziale, per
riassunto o a guisa d’informazione; anche se, stante la sanzione irrisoria, la norma penale
275 G.P. VOENA, “Atti”, in Aa.Vv., Compendio di procedura penale, ( a cura di Giovanni Conso e
Vittorio Grevi), 2009, Cedam, p. 179
113
verosimilmente cederà di fronte alla prospettiva dei possibili ricavi dell’eventuale scoop
giornalistico realizzato276.
Se però, la medesima condotta descritta è posta in essere da impiegati dello Stato,
o persone esercenti una professione che richieda una speciale abilitazione statale, integra
anche un illecito disciplinare, delineato dall’art. 115 c.p.p.
Nella categoria dei possibili soggetti attivi dell’illecito in questione sono compresi
i giornalisti, i magistrati, gli agenti di polizia giudiziaria, gli avvocati, i professionisti in
genere, i periti e i consulenti tecnici, mentre è il pubblico ministero il soggetto deputato
ad informare il competente organo disciplinare dell’eventuale illecito realizzato.
Per
quello
che
riguarda
i
magistrati,
il
comitato
direttivo
centrale
dell’Associazione nazionale di categoria ha adottato un codice deontologico, che, all’art.
6, in ordine ai rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa,
stabilisce: “nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato
non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio. Quando non è
tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio
e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta
informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e
la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi
personali riservati o privilegiati”.
La sanzione disciplinare, di norma, concorre con quella penale; esistono tuttavia
ipotesi, come quella in cui la segretazione di intercettazioni sia successiva alla loro
pubblicazione, in cui si applica esclusivamente la prima.
L’art 326 c.p. delinea, invece, un reato proprio a carico di pubblici ufficiali ed
incaricati di pubblico servizio allorché rivelino, o agevolino in qualunque modo, la
conoscenza di notizie che devono rimanere segrete, violando i doveri inerenti le proprie
funzioni, o abusando della propria qualità; la pena stabilita dal comma 1 della norma in
questione va da sei mesi a tre anni.
È da ritenere responsabile, però, non solo il soggetto obbligato al segreto per
276 F.M. MOLINARI, cit., p. 225
114
conto dell’ufficio, ma anche chi riesca a conoscere un segreto d’ufficio di cui non era il
depositario, sfruttando la sua posizione all’interno della pubblica amministrazione;
occorre precisare peraltro che il dovere d’ufficio per i pubblici ufficiali e gli incaricati di
pubblico servizio viene meno solo quando la notizia è diventata di dominio pubblico e
non quando il segreto trapela in un ambito limitato277.
Quello che non convince delle previsioni sanzionatorie delineate a tutela del
divieto di pubblicazione, oltre all’esiguità delle norme ad essa designate ed alle pene in
concreto irrogabili, è la ratio sottesa all’intera disciplina: si tutela solo il buon andamento
della pubblica amministrazione, senza apprestare alcuna salvaguardia a soggetti, le cui
conversazioni, lecitamente intercettate nel corso di un procedimento penale, vengano
diffuse pubblicamente attraverso gli organi di stampa.
In questi casi, inoltre, è molto difficile risalire al soggetto autore della rivelazione,
l’unico punibile, mentre il soggetto “estraneo” giornalista - che non è tenuto a rivelare le
sue fonti, ex art. 200 c.p.p. - non può essere punito per il solo fatto di aver ricevuto una
notizia coperta da segreto.
In realtà, le indagini sulle fughe di notizie non portano quasi mai ad individuare i
responsabili; anzi, a volte, la diffusione è essenziale per puntellare l’inchiesta, fa
acquisire notorietà alla Procura e l’armamentario sanzionatorio è tale da non scoraggiare
la pubblicazione di quanto “recapitato” od “ottenuto” dagli organi di informazione278.
In tal modo, dalla concreta difficoltà di individuare l’autore della rivelazione
vietata, discende, quasi automaticamente, la sostanziale impunità del giornalista che ha
pubblicato la notizia ricevuta, anche a titolo di concorrente morale, per l’impossibilità di
dimostrare un rapporto di confidenza con la fonte rimasta ignota.
Per superare queste difficoltà, è stato proposto di abolire il reato di cui all’articolo
684 c.p., e la sua troppo esigua sanzione, per trasformare il giornalista in testimone: egli,
infatti, quando è persona sottoposta a indagini, ha la facoltà di non rispondere e non può
277 V. PLANTAMURA, Moderne tecnologie, riservatezza e sistema penale: quali equilibri?, in Diritto
dell’informazione e dell’informatica, 2006, 3, p. 430.
278 G. SPANGHER, Linee guida per una riforma delle intercettazioni telefoniche, in Dir. Pen. e proc.,
2008, 10, p. 1209:
115
essere obbligato a testimoniare, se non ha mai ammesso la sua responsabilità su quei fatti;
di solito, il giornalista si limita a non rispondere, altrimenti dichiara di aver ricevuto
l’informazione per piego anonimo, e in tali casi, è solo teorica la possibilità, per il
pubblico ministero, di procedere per false informazioni o per falsa testimonianza279.
Va esaminata, da ultimo, l’ipotesi secondo cui il giornalista che pubblica
un’intercettazione lecitamente compiuta dall’autorità giudiziaria procedente, ma
illecitamente rivelatagli ex art. 326 comma 1 c.p., integra la fattispecie di reato di cui
all’art. 621 c.p., che punisce con la reclusione fino a tre anni chiunque, senza causa,
rivela il contenuto che debba rimanere segreto di atti e documenti altrui, di cui sia venuto
abusivamente a conoscenza, qualora dal fatto derivi nocumento.
La conoscenza del contenuto delle intercettazioni da parte del giornalista, pur non
costituendo di per sé reato, è sicuramente indebita, perché avviene senza che vi sia un
titolo valido a conseguire la conoscenza del contenuto di determinati atti e documenti, e
che esista o sia ragionevolmente presumibile una volontà dell’avente diritto contraria al
conseguimento di questa conoscenza280.
Tra l’altro, in tal caso, il giornalista non potrebbe invocare a suo favore la giusta
causa di rivelazione, in quanto il diritto di informare ed essere informati non è assoluto né
incompatibile con quello di segretezza delle comunicazioni.
Il delitto in questione può operare anche quando, sulle intercettazioni, venga meno
il segreto: venuto meno il segreto d’ufficio, si può applicare la nozione più ampia di
segreto “semplice” o “privato”, di cui all’art. 621 c.p. il cui contenuto però deve riferirsi
ad un interesse giuridicamente apprezzabile, perché si possa applicare la norma in esame;
tuttavia, il concetto di segreto “privato” sconfina in quello di riservatezza e quindi il bene
giuridico tutelato ha contorni piuttosto sfocati281.
279 P. DAVIGO, Dell’intercettazione, su MicroMega, 2006, 2, p. 113.
280 VIGNA-DUBOLINO, voce Segreto (reati in materia di), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1989, p.
1084.
281 PLANTAMURA, Moderne tecnologie, cit., p. 433.
116
3. Le falle del sistema
La disciplina sinora esaminata si presta a rilievi critici, da cui discende l’auspicio,
per ora rimasto tale, di un’adeguata rilettura dell’intero sistema normativo in questione,
volto a razionalizzare la materia de qua ed armonizzarla con i diritti costituzionali in
gioco.
Il primo aspetto censurabile nella fisionomia elaborata dal legislatore del 1988
attiene alla distinzione tra “atto” e “contenuto”, fondamentale, come abbiamo visto, per la
comprensione e l’applicazione della disciplina posta dall’art. 114 c.p.p.
Nel corso dei lavori preparatori282, la distinzione suddetta aveva lo scopo precipuo
di consentire l’esercizio del diritto di cronaca in seno ai procedimenti penali, senza però
pregiudicare la corretta formazione del convincimento del giudice.
L’“arma” del giornalista è rappresentata dall’ultimo comma dell’art. 114 c.p.p.,
ma si tratta di un’arma pericolosa: la norma – nella sua semplicità lessicale – appare
chiara, ma cela grosse problematiche sul piano pratico-operativo: è la stessa scelta del
legislatore di contrapporre atto e contenuto, ad apparire criticabile, in quanto abbastanza
“farisaica”283.
Dunque, i compilatori del codice hanno modellato un regime di pubblicazione
sulla base di una bipartizione tra pubblicazione dell’atto, vietata, e pubblicazione del
contenuto, consentita.
Non vi è, tanto in dottrina quanto nel panorama giurisprudenziale, univocità di
vedute circa il significato da attribuire al concetto di “contenuto” dell’atto: secondo
un’interpretazione restrittiva, la notizia è pubblicabile solo se non vi figurino riferimenti a
sede – lo specifico processo – e fonte – determinati testimoni, periti, consulenti, ecc.284
La dottrina maggioritaria, invece, ritiene che il divieto relativo inibisca la
pubblicazione “virgolettata” dell’atto, ma non anche la pubblicazione e la rivelazione
282 Relazione al progetto preliminare, cit., p. 49
283 G. RUELLO, “Segreto d’indagine e diritto di cronaca, cit., p. 602
284 F. CORDERO, sub artt. 114 e 115 c.p.p., cit., p. 142
117
delle informazioni che se ne possono ricavare 285. Secondo la disciplina vigente,
pubblicare il contenuto di un atto significa divulgare informazioni sullo stesso, senza
riprodurlo integralmente o parzialmente: il legislatore, quando vieta la pubblicazione di
un atto, pur consentendo quella del suo contenuto, vuole evitare che la notizia
processuale acquisti il crisma dell’ufficialità286.
La scelta dei compilatori, oltre ad essere poco chiara, risulta anche facilmente
aggirabile: il giornalista, infatti, attraverso l’uso sapiente di tecniche narrative ben potrà
eludere la portata del divieto.
Del resto, proprio la inopportuna scelta lessicale ha comportato costanti
oscillazioni giurisprudenziali circa l’individuazione del criterio distintivo necessario per
distinguere
la
legittima
pubblicazione
del
contenuto
dell’atto
dall’illegittima
pubblicazione dell’atto stesso.
Si può sostenere che questi due termini vadano a costituire una sorta di endiadi
normativa: stanno lì ad indicare che si può pubblicare un compendio di ciò che è riportato
nell'atto non più segreto; è consentito, cioè, il riassunto dell'atto se abbiamo riguardo
all'oggetto; il legislatore, presumibilmente, intendeva riferirsi alla stessa cosa, tanto è
vero che stanno insieme nel primo comma e cadono insieme nel secondo287 .
La sensazione diffusa in dottrina è che sia mancato il coraggio di operare una
scelta perentoria: il legislatore sembra aver preferito nascondersi dietro una bipartizione
che riafferma il divieto di pubblicazione, svuotandolo, però, di contenuto; sarebbe stato
senza dubbio più coerente disporre la libera pubblicabilità degli atti al venir meno del
segreto, in modo da legittimare pienamente il diritto di cronaca, essenziale ai fini del
controllo pubblico sull’amministrazione della giustizia288.
Sulla medesima lunghezza d’onda si registra la proposta di rimodellare l’art. 114
c.p.p., sopprimendo del tutto la distinzione tra atto e contenuto, e prevedendo, per gli atti
coperti da segreto un divieto di pubblicazione che venga meno al cessare del segreto
285 E. LUPO, sub artt. 114, cit., p. 43
286 G. GIOSTRA, Processo, cit. , p. 349
287 G. GIOSTRA, Atti del XIX convegno nazionale dell'Associazione, (Milano, 5-7 ottobre 2007), Giuffrè
, p. 44
288 L. GRILLI, “La pubblicazione degli atti, cit., p. 570
118
stesso; il divieto in parola, dunque, diventerebbe funzionale alla tutela di un unico valore:
l’efficacia dell’attività di indagine289.
Un ulteriore difetto “congenito” della disciplina in materia è rappresentato
dall’assoluta carenza di tutela della privacy, tanto degli imputati, rispetto a notizie
estranee ai fatti costituenti oggetto dell’imputazione, quando di soggetti terzi,
occasionalmente coinvolti nell’intercettazione.
Teoricamente, solo le conversazioni rilevanti sono destinate, se lecitamente
eseguite, ad essere pubblicate, nei limiti e secondo le modalità previste dalla legge;
tuttavia, prima dell’udienza di stralcio, deputata alla depurazione da ciò che non è
rilevante ai fini probatori, cade il segreto investigativo, e conseguentemente aumenta, in
modo potenzialmente indeterminato, il numero di persone autorizzate a conoscere il
materiale captato.
Permane però il divieto di estrarre copia e pubblicare integralmente gli atti, ma, a
questo punto, diventa praticamente impossibile individuare i responsabili di un’eventuale
violazione.290
La disciplina vigente, dunque, non si preoccupa della riservatezza dei soggetti
coinvolti, ma tutti i limiti alla rivelabilità ed alla pubblicabilità degli atti sono
commisurati esclusivamente alle esigenze endoprocedimentali. Inoltre, stante l’ampiezza
dell’area del segreto, è estremamente arduo garantirne un’efficace tutela, a causa di
arbitrarie ed intempestive rivelazioni ad organi di informazione con la complicità di
pubblici ufficiali, con la quasi certezza, per questi, di non essere identificati291.
Accade sovente che un rilevante numero di soggetti difficilmente identificabili
acceda ad atti segreti per necessità proprie dell’attività di indagine, e, più o meno
disinteressatamente, riveli informazioni riservate, tanto da far parlare addirittura di
“desuetudine” con riguardo alle norme che presidiano la segretezza investigativa, a causa
289 AA.VV. Processo penale e informazione:proposte di riforma e materiali di studio,( coordinatore
Glauco Giostra), Università degli Studi di Macerata, 2001, p. 51
290 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, in Filippi, Illuminati, Leo,
Profiti, Questione giustizia, 2006, 6, p. 1220
291 F. ROBERTI, Rafforzare il segreto d’indagine, atti riservati comprimono cronaca, in “Ddl Alfano, se
lo conosci lo eviti”, collana “I Quaderni dell’UNCI”, p. 140, su www.unionecronisti.it,
119
della loro generalizzata disapplicazione292.
Quindi, le possibilità che un’intercettazione venga divulgata sono numerosissime
e il titolare dell’indagine non ha alcuna possibilità non solo di impedire che ciò accada,
ma neppure di controllare efficacemente, allo stato attuale della normativa, “chi” viene a
conoscenza di quegli atti: è il fenomeno delle “fughe di notizie”, in cui all’indiscrezione
la porta venga aperta dall’interno, per consegnarla in fidate mani293.
Le difficoltà di mantenere la riservatezza sulle intercettazioni compiute si
manifestano già al momento della formazione dei brogliacci redatti dalla polizia
giudiziaria, e contenenti sintesi e passi del materiale intercettato, su cui lo stesso agente di
polizia giudiziaria appone un primo giudizio di rilevanza, prima della consegna al
pubblico ministero, che chiede al giudice per le indagini preliminari la trascrizione dei
nastri ad opera di periti, indicando le telefonate, a suo avviso, rilevanti294.
Successivamente, le registrazioni e i relativi verbali, compresi i brogliacci, devono
essere depositati, entro cinque giorni dal loro compimento, a disposizione delle parti e dei
difensori.
Sulla base delle indicazioni di questi ultimi e del pubblico ministero, il giudice per
le indagini preliminari decide quali conversazioni siano rilevanti e legittime, e ne dispone
la trascrizione con acquisizione al fascicolo del dibattimento, ordinando invece, su
richiesta di parte – art. 269 comma 2 c.p.p. - lo stralcio e la distruzione di quelle
irrilevanti, e, anche d’ufficio – art. 271 comma 3 c.p.p. – di quelle illegittime.
Nella prassi, il deposito avviene il più delle volte dopo la conclusione delle
indagini, quando, cioè, anche il divieto di pubblicazione integrale viene meno; di solito il
pubblico ministero chiede l’acquisizione di tutto il materiale, indipendentemente dalla
sua rilevanza, mentre la difesa si disinteressa dello stralcio, specie se le conversazioni
irrilevanti riguardano terze persone, col risultato che non resta nessuna protezione per la
privacy, anche nei casi in cui dovrebbe essere garantita295.
292 G. GIOSTRA, Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007, p. 57
293 L. SCIASCIA, citato da Glauco Giostra, in Processo penale e mass media, cit., p. 88
294 P. DAVIGO, Dell’intercettazione, su MicroMega, 2006, 2, p. 113
295 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, in Filippi, Illuminati, Leo,
Profiti, Questione giustizia, 2006, 6, p. 1220
120
A tal proposito, come sopra accennato, l’art. 268 comma 5 c.p.p. consente che il
deposito delle intercettazioni sia ritardato fino alla chiusura delle indagini preliminari,
mentre l’acquisizione si verifica in un momento successivo.
Col deposito dell’intera documentazione ivi raccolta, si facoltizzano le parti ad
estrarne copia; dunque, le conversazioni irrilevanti, che avrebbero dovuto costituire
oggetto di preventivo stralcio, rimangono nel fascicolo fino all’udienza preliminare, ed
anche oltre.
La conseguenza, estremamente pregiudizievole, è che i verbali di intercettazioni
vengono così equiparati ad altri atti investigativi, e, al pari di essi, assoggettati a copia,
anche se destinati, ab origine, alla distruzione, seppellendone i risultati quanto prima, e
definitivamente nell'oblio296.
Questa prassi, che ha prodotto l’effetto negativo di rendere possibile la
divulgazione di conversazioni irrilevanti o, addirittura, illegittime, è stata denunciata
dall’allora Ministro della Giustizia, on. Flick, in un parere approvato dal Consiglio
superiore della magistratura, con delibera del 2 luglio 1997297.
Potrebbe essere utile un preventivo filtro delle intercettazioni, onde escludere
quelle riguardanti soggetti terzi, ma in tal modo si menomerebbe il diritto della difesa di
interloquire su quali trascrizioni debbano ritenersi rilevanti ai fini probatori.
Gli stessi magistrati, in un comunicato della ANM, hanno segnalato, in modo
perentorio, la necessità di un intervento normativo diretto a garantire la riservatezza delle
persone coinvolte con riferimento a notizie e informazioni non rilevanti per le indagini,
prevedendo un’udienza filtro per la selezione da parte del giudice delle intercettazioni
rilevanti per il processo, la segretazione e la conservazione in un archivio riservato di
quelle non rilevanti delle quali deve essere vietata la pubblicazione e la diffusione,
proprio al fine di trovare un giusto punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela della
riservatezza, il diritto di cronaca e la repressione dei reati298.
Difatti, quando i verbali vengono depositati, tutte le intercettazioni, anche quelle
296 C. CESARI, Su captazioni e dossiers illeciti, un intervento non risolutivo, in Giur. Cost., 2009, 4, 3537
297 Progetto di legge 2773/1996
298 Comunicato A.n.m. del 26 giugno 2008, in www.corriere.it/politica
121
illegittime o irrilevanti, perdono il connotato di segretezza e quindi, a norma del comma 7
dell’art. 114 c.p.p., possono essere liberamente pubblicate.
Inoltre, come sopra accennato, capita sovente che pubblico ministero e difensori
non indichino quali intercettazioni siano a loro avviso irrilevanti e quindi da stralciare,
con la conseguenza che il giudice per le indagini preliminari sarà vincolato a disporre la
trascrizione di tutte le intercettazioni raccolte.
La scelta di non procedere a selezione discende, per lo più, dall’oneroso impegno
di verifica preliminare che essa richiederebbe, specie nei casi di conversazioni
particolarmente lunghe e copiose: il pubblico ministero si limita così a chiedere
l’acquisizione di tutto il materiale, e la difesa si adegua, rinviando ogni possibile
valutazione alla fase dibattimentale.
Il pericolo che le dichiarazioni che dovevano essere eliminate finiscano per
divenire pubbliche è concreto, anche se il rilascio di copie, ai sensi dell’art. 116 comma 3
c.p.p., non fa venir meno il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p.
Sulla base di tutte le considerazioni effettuate, appare pienamente condivisibile
l’ineludibile necessità di un attento intervento normativo relativamente al regime di
divulgabilità degli atti di indagine, e delle intercettazioni in particolare.
L'impostazione del codice vigente non è riuscita a scongiurare il pericolo della
pubblicazione di conversazioni private finite in quella che è stata definita “idrovora
fonica” che tutto indistintamente inghiotte, anche ciò che non è processualmente rilevante
299
.
299 G. GIOSTRA, “I mali della libertà si curano solo con più libertà”, in I quaderni dell'Unci – DDL
Alfano: se lo conosci lo eviti, p. 102
122
CAPITOLO 4
LE PROSPETTIVE DI RIFORMA
1. Un mosaico eterogeneo di interventi correttivi
A distanza di neppure dieci anni dall'entrata in vigore del nuovo codice, si
avvertiva già forte l'esigenza di intervenire in materia di intercettazioni, in particolar
modo nella prospettiva della tutela del diritto alla privacy.
A peggiorare la situazione ha contribuito, in modo sostanziale, l'utilizzo distorto
dell'informazione che, come precedentemente evidenziato, antepone sistematicamente
l'obiettivo audience rispetto a quello di formare un'opinione pubblica consapevole e di
consentire ai consociati il controllo sull'amministrazione della giustizia.
Recentemente, intervenendo sul tema in questione, il Garante della privacy ha
messo in guardia sul rischio di trasformare il processo in una “soap opera”, alterando la
misurata rappresentazione della realtà processuale300.
Il rapporto tra giustizia ed informazione è, ormai, inficiato da una vera patologia,
alla cui origine troviamo, senza dubbio, la prassi consolidata di travalicare tutti i limiti
imposti dalla normativa in materia: operazione decisamente facilitata dal fatto che, come
rimarcato in precedenza, la distinzione tra atto e contenuto, cardine della disciplina
codicistica, è “accademica, e sfiora l'ipocrisia”301.
Dal 1996 ad oggi, in tutte e quattro le legislature che si sono susseguite, si sono
registrati tentativi di intervenire a tutela della privacy dei soggetti intercettati; progetti di
riforma dettati, tutti, dall'esigenza di porre un freno a quel fiume carsico di informazioni
che affiora sui mezzi di comunicazione, indipendentemente dalla rilevanza processuale
300 Relazione Garante delle Comunicazioni, citata da F. GIANARIA, A MITTONE, Per contrastare gli
eccessi dell'informazione non possono bastare i richiami delle Authority, in Guida al Diritto de Il Sole
24 ore, 2008, n. 31, p. 232
301 F. GIANARIA, A MITTONE, Per contrastare gli eccessi, cit., p. 12
123
degli atti divulgati302.
Le prime proposte di modifica della normativa in materia di intercettazioni
telefoniche, tutte di iniziativa parlamentare 303 presentate nel corso della XIII legislatura,
erano sorte dietro la spinta propulsiva della polemica suscitata dalla pubblicazione di
numerose intercettazioni, anche
relative a soggetti estranei a qualsivoglia vicenda
processuale.
L'obiettivo comune era quello di introdurre maggiori garanzie a tutela della
privacy, senza però svilire un mezzo di ricerca della prova che, sul piano del risultato
istruttorio, non aveva eguali.
Dei vari progetti presentati in Commissione giustizia alla Camera, dopo un lungo
lavoro di mediazione ed elaborazione, venne redatto un testo unificato, noto come
“disegno di legge Flick”, dal nome del Ministro della giustizia in carica, che poneva al
centro la tutela della privacy, intervenendo, però, più che sul divieto di pubblicazione,
sulla disciplina generale delle intercettazioni.
Bisognava innanzitutto definire ambiti più rigorosi per il ricorso alla captazione di
conversazioni, stabilendo garanzie invalicabili per la tutela della riservatezza
dell'indagato e dei terzi intercettati: occorreva, cioè, disciplinare un “segreto delle
intercettazioni”, senza però pregiudicare il diritto alla difesa.
Furono così ridotte le fattispecie di reato per cui era consentito disporre le
intercettazioni, ammesse solo per reati non colposi con pena edittale massima superiore a
sei anni.
Venne elaborato un complesso meccanismo procedurale, finalizzato ad imporre un
filtro preventivo alla diffusione della conoscenza del contenuto delle intercettazioni
irrilevanti ai fini di giustizia, ma spesso di straordinaria potenzialità invasiva304.
Allo scopo di sottrarre alla pubblicità, ed ai connessi pericoli di divulgazione,
anche illecita, la documentazione delle intercettazioni non pertinenti,
fu prevista
302 T. PADOVANI, Informazione e giustizia penale: dolenti note, in Dir. pen. e proc., 2008, p. 689
303 Ddl nn.: 111/96, ( On. Saraceni ) ; 595/96 ( On. Soda ) ; 3461/96 ( On. Pisanu )
304 MELILLO, Le intercettazioni tra diritto alla riservatezza ed efficienza delle indagini, in Cass. Pen.,
2007,12, p.1935
124
l'istituzione di un archivio riservato, in cui conservare, sino alla sentenza definitiva, la
documentazione non acquisita al fascicolo del dibattimento.
L'accesso all'archivio doveva essere consentito solo al giudice, agli ausiliari da
questi autorizzati, ed ai difensori nei casi previsti dalla legge; in tal modo si riconosceva
implicitamente che, tra le maggiori cause dell'eccessiva divulgazione, vi era, senza
dubbio, l'elevato numero di soggetti “indistinti” che potevano avere accesso alle
conversazioni captate.
Fu, inoltre, affrontata la delicatissima problematica relativa alla distruzione delle
conversazioni intercettate: si propose, a tal riguardo, la codificazione del principio già
enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui la distruzione dei documenti,
richiesta dal pubblico ministero e anche contestualmente all’archiviazione, è disposta dal
giudice all’esito di procedura camerale305.
Il problema sotteso alla distruzione del materiale intercettato è che, trattandosi di
un fatto irreversibile, è uno strumento particolarmente delicato: un’intercettazione
ritenuta irrilevante in un determinato momento potrebbe divenire rilevante nel prosieguo,
per fatti sopravvenuti oppure per una diversa valutazione del giudice.
Era stata introdotta, anche in questo caso, una formula più forte e rigorosa: la
distruzione veniva consentita “solo” qualora l’irrilevanza fosse assolutamente e
manifestamente palese, non suscettibile di modificazione, pure in un quadro probatorio
in evoluzione.
Era previsto, infine, un inasprimento del regime sanzionatorio con riferimento alla
rivelazione e divulgazione di intercettazioni che dovevano rimanere segrete, con
l'introduzione del reato di “rivelazione di comunicazioni o conversazioni intercettate nel
procedimento penale” (art. 617 septies c.p.) - punito con la reclusione da sei mesi a
quattro anni.
Il testo, nonostante la lunga mediazione svolta in sede di Comitato ristretto, non
venne approvato all'unanimità306 e, dopo essere stato trasmesso al Senato ed assegnato in
305 Corte costituzionale, sentenza n. 463 del 15 dicembre 1994
306 Si espressero in senso contrario Forza Italia ed Alleanza Nazionale.
125
sede referente alla Commissione giustizia, fu definitivamente accantonato.
Nel 2005, al termine di una estate rovente per le polemiche suscitate dalla
pubblicazione di intercettazioni relative allo scandalo per le scalate bancarie di Unipol e
Antonveneta, che avevano coinvolto eminenti uomini politici e manager, il Governo
intervenne con l'obiettivo di assicurare la tutela del diritto di privacy ai soggetti
intercettati, attuando i principi del “giusto processo” sanciti dall'art. 111 Cost.
Il comma 3 dell'art. 11 Cost. dispone, infatti, che la persona accusata di un reato
debba essere informata “riservatamente” nel più breve tempo possibile della natura e dei
motivi dell’accusa elevata a suo carico; l’avverbio “riservatamente” mal si concilia con
un sistema in cui, sovente, capita che un cittadino sia informato di un suo coinvolgimento
in un’inchiesta penale prima dai mass-media che dall'autorità giudiziaria.
Il Governo presentò dapprima un decreto legge, ma il Presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi, non rilevando il requisito dell'urgenza, indicò la via ordinaria del
disegno di legge, manifestando, altresì, la propria perplessità in ordine alla previsione di
misure coercitive per i giornalisti che si fossero resi responsabili di illegittime
pubblicazioni.
Assecondando le indicazioni presidenziali, nel settembre 2005 il Consiglio dei
ministri varò il d.d.l. n. 3612, assegnandolo alla Commissione giustizia del Senato in sede
referente.
Il provvedimento, sottoscritto dal Guardasigilli, on. Roberto Castelli, disciplinava
in modo più rigoroso il divieto di pubblicazione degli atti delle intercettazioni,
assicurandone un uso esclusivamente endoprocessuale e sanzionando, in modo severo, la
divulgazione del materiale captato.
Nella normativa vigente, le intercettazioni relative all'indagato o a terzi estranei al
procedimento sono fondate sui medesimi presupposti e sottoposte alle stesse limitazioni;
il d.d.l. governativo n. 3612 si proponeva di introdurre, invece, una disciplina
diversificata, a seconda del soggetto sottoposto ad intercettazione.
Si intendeva delineare un “doppio binario” per cui, le intercettazioni avrebbero
potuto essere disposte “solo” nei confronti della persona sottoposta ad indagini, e “solo”
126
nel caso in cui a suo carico sussistessero gravi indizi di colpevolezza.
Era stato, inoltre, previsto l'obbligo per il pubblico ministero di avvisare, tramite
raccomandata con ricevuta di ritorno, le persone non indagate del deposito di atti relativi
ad intercettazioni che le riguardassero: si trattava di un inedito strumento processuale,
volto ad offrire migliore tutela al diritto alla riservatezza dei cittadini non indagati che
avevano avuto contatti con soggetti sottoposti ad intercettazione e che, per tale ragione,
risultassero indicati nei verbali di esecuzione delle operazioni e coinvolti nelle
registrazioni307.
Altro profilo interessante era rappresentato dalle previsioni in materia di “stralcio”
delle conversazioni; abbiamo già esaminato come, nella disciplina vigente, per ragioni di
economia processuale, spesso la stralcio non venga affatto operato, e al giudice
dell'udienza preliminare giungano tutte le intercettazioni eseguite.
La disciplina delineata dal d.d.l. n. 3612, onde rimuovere la suddetta prassi ormai
consolidata, aveva previsto la fissazione, da parte del giudice per le indagini preliminari,
di un'apposita udienza camerale, finalizzata all’acquisizione delle sole conversazioni
rilevanti, con conseguente distruzione del materiale stralciato.
Tale previsione aveva suscitato comprensibili perplessità da parte del Consiglio
superiore della magistratura, che, in un parere sul c.d. “d.d.l. Castelli”, aveva rimarcato
come l’apertura del contraddittorio sull’acquisizione delle conversazioni in una fase del
procedimento in cui l’imputazione era ancora fluida non sembrava in concreto mettere le
parti in condizione di esercitare efficacemente il diritto di difesa.
Lo stesso giudice per le indagini preliminari, chiamato a selezionare le trascrizioni
da inserire nel fascicolo per il dibattimento, ovvero da stralciare, non poteva, in assenza
dell’intero fascicolo del pubblico ministero, possedere l’adeguato bagaglio conoscitivo.
Sul punto in esame, in un precedente progetto di legge, 308 pur sottolineandosi
l'esigenza di un'udienza camerale di selezione del materiale rilevante, si preferiva, per
307 Parere reso dal CSM sul disegno di legge n. 3612 del 2005, concernente “Disposizioni in materia di
intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti del fascicolo del pubblico ministero e
del difensore” con delibera del 9 febbraio 2006, www.csm.itlcircolarilo60209_6.pdf.
308 Progetto di legge . 6079 presentato dall'On. Pisapia
127
quello stralciato, la “segretazione” alla “distruzione”,
al fine di evitare la totale
dispersione di quanto raccolto.
Anche il d.d.l. n. 3612 prevedeva l'introduzione di un “archivio riservato”, in cui
custodire i verbali relativi alle intercettazioni, i brogliacci d'ascolto ed i supporti
informatici.
L'archivio in questione doveva essere istituito presso l'ufficio del pubblico
ministero, e per il materiale ivi conservato era stabilito un divieto di allegazione, anche
parziale, al fascicolo dello stesso pubblico ministero.
Anche su questo punto l’organo di autogoverno della magistratura aveva mosso
alcuni rilievi critici: tale disposizione, pur se orientata a ridurre i rischi di diffusione di
notizie e di contenuti delle attività di intercettazione, appariva “eccessivamente
condizionata dall’attualità”; il divieto generale di allegazione anche al fascicolo del
pubblico ministero avrebbe certamente causato gravi difficoltà operative per il magistrato
e di incertezze interpretative con riferimento, ad esempio, agli atti urgenti ed ai
provvedimenti interlocutori che presuppongono l’esame e l’utilizzo dei risultati delle
intercettazioni e che avrebbero potuto richiedere l’inoltro di questi al giudice delle
indagini preliminari ed ai successivi giudici di controllo309.
Riguardo al regime di segretezza degli atti, ed al correlato divieto di
pubblicazione, il testo in esame interveniva direttamente sull'art. 114 comma 2 c.p.p.:
veniva ampliato l'oggetto del divieto di pubblicazione, fino a ricomprendervi anche il
“riassunto o il contenuto” degli atti di indagine, equiparando, in tal modo, la disciplina tra
gli atti coperti e quelli non più coperti da segreto.
Ne discendeva, ope legis, l'abrogazione del comma 7 dell'art. 114 c.p.p., e
l'introduzione di una norma che sanciva espressamente il divieto di pubblicazione, anche
parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a
conversazioni di cui fosse stata ordinata la distruzione.
Con un intervento siffatto si operava un “drastico” sbilanciamento della disciplina
a favore della tutela della privacy con conseguente, totale, sacrificio dell'altro diritto
309 Parere reso dal CSM sul disegno di legge n. 3612 del 2005, cit.
128
costituzionalmente tutelato, quello all’informazione su fatti di pubblico rilievo.
Si prevedeva, infine, un rilevante “giro di vite” in caso di violazione delle norme
descritte: se per la pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale,
sanzionata dall’art. 684 c.p., si disponeva, semplicemente, l’innalzamento della pena
pecuniaria, per la rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, di cui all'art. 326 c.p.,
invece, si proponeva l'introduzione di una circostanza aggravante “nel caso in cui
l’oggetto materiale della rivelazione avesse riguardato intercettazioni di comunicazioni o
di conversazioni o il contenuto di queste”, con la pena della reclusione da uno a quattro
anni.
La fine della legislatura impedì al disegno di legge esaminato persino il vaglio in
sede referente, ma lo stesso, come vedremo, ha costituito il nucleo essenziale di altri,
successivi tentativi di riforma.
L'anno 2006 ha costituito, ad avviso di molti, l'annus horribilis, per la materia
delle intercettazioni, a causa della pubblicazione di numerose conversazioni relative ad
importanti inchieste giudiziarie: su tutte, lo scandalo Telecom, ed il c.d. caso
“Calciopoli”.
Anche l'attenzione dell'opinione pubblica era, ormai, concentrata sullo “scandalo
intercettazioni”; i vari tentativi di tutela approntati dai governi che si sono succeduti non
si sono soffermati a riflettere sulle ripercussioni che queste riforme avrebbero potuto
avere sul piano del segreto processuale e della cronaca giudiziaria.
Una delle principali caratteristiche di una democrazia dovrebbe essere, infatti, la
possibilità per i cittadini di essere informati: solo un'adeguata conoscenza e
consapevolezza degli eventi che accadono, consentono di prendere compiutamente parte
alla vita pubblica del Paese, diventando parte di quel soggetto delicatissimo ed essenziale
di una moderna democrazia che è la pubblica opinione310.
E' pur vero, come precedentemente rimarcato, che al giorno d'oggi più che di
informazione sembra doversi parlare di gossip, destinato a soddisfare una pulsione
310 E.MAURO, Informazione e qualità della democrazia, in Questione giustizia, 2008, p. 129
129
voyeuristica.311
Per tali ragioni, nel 2006, il Garante per la privacy, prof. Francesco Pizzetti, è
intervenuto a tutela della riservatezza, dignità ed identità personale degli individui,
nonché del diritto fondamentale alla protezione dei relativi dati personali 312. Un
intervento la cui esigenza è stata avvertita d’ufficio - senza che l’Authority fosse stata
raggiunta da ricorsi o segnalazioni di parte 313 - a seguito, in particolare, dalla diffusione
sulla stampa delle intercettazioni telefoniche acquisite nella vicenda Telecom, da cui è
emerso che migliaia di cittadini, tra cui parlamentari, imprenditori e professionisti, dei
quali un quotidiano aveva già cominciato a pubblicare i nomi, erano stati intercettati e
spiati illegalmente.
Col suo intervento, il Garante ha, innanzitutto, prescritto ai mass-media il pieno
rispetto dei principi affermati dal Codice della privacy e dall'allegato Codice
deontologico dei giornalisti; dopo di che, ha sottolineato l’inadeguatezza del meccanismo
previsto dalla legge per acquisire, agli atti processuali, le sole conversazioni rilevanti per
il procedimento penale.
Oltre al richiamo agli organi di stampa, il Garante invitò anche il CSM ad
attivarsi, nell’ambito delle sue specifiche competenze, per migliorare le garanzie a tutela
della riservatezza delle informazioni processuali, riconoscendo che la pubblicazione
indiscriminata delle intercettazioni investe anche la responsabilità degli operatori della
giustizia: giudici, avvocati, polizia giudiziaria, cancellieri, ecc.
Il presidente Pizzetti chiese, altresì, al Parlamento di introdurre la possibilità per il
Garante di comminare sanzioni amministrative di carattere pecuniario in caso di
violazione dei principi deontologici.
In realtà, il primo intervento normativo posto in essere dal Governo fu l'adozione
di un provvedimento d'urgenza: il decreto-legge n. 259 del 22 settembre 2006, convertito
311 D. STASIO, Come si prepara un regime, in Quest .giust., 2008, p. 123
312 Prescrizione del Garante, Pubblicazione di intercettazioni telefoniche e dignità della persona, Gazzetta
Ufficiale n. 147 del 27-6-2006, doc. web n. 1299615, su www.garanteprivacy.it.
313 G.CORRJAS LUCENTE , Le recenti prescrizioni del Garante sulla pubblicazione di atti e di
procedimenti penali e la cronaca giudiziaria. Rigide interferenze tra privacy e libertà di informazione,
in Il Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2007, 3, p. 593.
130
con modificazioni dalla legge n. 281 del 20 novembre 2006.
Il provvedimento in questione riguardava esclusivamente le intercettazioni
“illegali”, categoria che copre ipotesi diversissime : dalle quelle poste in essere dal pm
senza provvedimento del gip; a quelle compiute dalla pg senza richiesta pm; fino a
quelle realizzate da terzi tout-court, e così via.
In tal modo si introducevano nel codice di rito nuove misure, che verranno in
parte riprese in occasione dell’elaborazione da parte del Governo di un disegno di legge
per una riforma più organica delle intercettazioni telefoniche.
Il legislatore si è espresso impropriamente, parlando di intercettazioni “illegali”:
poiché l’illegalità è una categoria non giuridica, e, nell’accezione comune, ricomprende
sia l’attività “illecita”, sia quella “semplicemente illegittima”; se il decreto-legge avesse
avuto ad oggetto gli atti “illegalmente” formati o acquisiti, avrebbe dovuto riguardare non
tanto l’attività illecita emersa nel “caso Telecom”, ma più genericamente quella illegale,
cioè contraria alla legge.
Ma per questo tipo di intercettazioni, l’art. 271 c.p.p. già prevede la sanzione
dell’inutilizzabilità e la conseguente distruzione, salvo che costituisca corpo del reato: si
deve, dunque, ritenere che il legislatore aveva scritto qualcosa di diverso da ciò che
intendeva dire: ha scritto “illegale” ma intendeva “illecito”, e ciò è indice di sciattezza
legislativa314.
La legge n. 281 del 2006, modificando il comma 2 dell'art. 240 c.p.p, ha stabilito
che i documenti riguardanti intercettazioni illegali, o documenti relativi ad informazioni
raccolte illegalmente, non possano essere utilizzati a “fini processuali”, e che il pubblico
ministero deve disporne l’immediata segretazione e la custodia in luogo protetto; degli
atti in questione è vietato estrarre copia, in qualunque forma ed in qualunque fase del
procedimento.
Nella sua formulazione originaria, il provvedimento d’urgenza prevedeva anche
l’inutilizzabilità a “fini investigativi”, ma tale inciso è stato soppresso in occasione
314 FILIPPI, Distruzione dei documenti e illecita divulgazione di intercettazioni: lacune ed occasioni
perse di una legge nata già vecchia, in Dir. pen. e proc., 2007, 2, p. 153
131
dell’approvazione della legge di conversione315.
Sempre secondo il testo originario del decreto, il giudice per le indagini
preliminari poteva disporre “1’immediata distruzione” degli atti relativi ad intercettazioni
illegali, ed in particolare, dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e
contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico,
illegalmente formati o acquisiti, nonché dei documenti formati attraverso la raccolta
illegale di informazioni.
Le operazioni di distruzione avrebbero dovuto essere documentate in un apposito
verbale, del quale sarebbe stata sempre consentita la lettura nel corso del dibattimento: si
tratta di innovazioni “dirompenti” rispetto a una tradizione che non era ancora riuscita a
distaccarsi del tutto da vecchi retaggi inquisitori316.
Abbiamo in precedenza evidenziato come, la previsione della “distruzione”
susciti, tanto nella dottrina, quanto nei pareri del CSM, rilevanti perplessità, dovute alla
definitiva dispersione della prova; la disposizione risulta, comunque, giustificata, al fine
di evitare, per il futuro, l’imbarbarimento del costume sociale, rendendo infruttuoso
l’illecito procacciamento, il traffico e la detenzione di notizie riservate317.
Entro quarantotto ore dall’acquisizione dei documenti, il pubblico ministero deve
chiedere al giudice di disporne l’immediata distruzione: il termine stabilito appariva
eccessivamente ristretto, perché il pubblico ministero, nel frattempo, avrebbe dovuto
ricercare ed acquisire elementi di prova sulla natura illegale della documentazione, da
precisare nel verbale di distruzione.
Come anticipato, la legge di conversione del decreto ha, parzialmente, modificato
la previsione dell'immediata ed inaudita distruzione, in cui si radicava la principale
ragione d’urgenza dell’intervento normativo per decreto-legge 318: si è introdotta
315 Sulla utilizzabilità come notizia di reato, v. C. GABRIELLII, Captazioni illecite come notizia di reato:
dai ripensamenti del legislatore alle prime risposte della giurisprudenza, in Cass. pen., 2007, n. 4,
p. 1302
316 FRIGO, Rispetto delle garanzie per gli atti irripetibili, in Guida al diritto,2006, 39, p. 43
317 FILIPPI, Distruzione dei documenti , cit., p. 154
318 FRIGO, Rispetto delle garanzie, cit. p.. 44
Rilievi critici in GIOSTRA, Quale utilizzabilità per le intercettazioni abusive, cit. p. 349
132
un’udienza camerale, che il giudice deve tenere entro dieci giorni dalla richiesta del
pubblico ministero, alla presenza delle parti interessate, le quali possono nominare un
difensore di fiducia. Solo dopo aver sentito le parti comparse, il giudice può disporre la
distruzione dei documenti e la verbalizzazione della stessa, senza alcun riferimento al
contenuto dei documenti distrutti.
Nell'ipotesi in cui i documenti, segretati dal pubblico ministero, siano ugualmente
pubblicati,
viene
introdotta
un'apposita
sanzione
pecuniaria:
all’autore
della
pubblicazione, al direttore responsabile ed all’editore, in solido fra loro, può essere
richiesta una somma di denaro determinata in ragione di 50 centesimi di Euro per ogni
copia stampata, ovvero da 50.000 ad 1.000.000 di euro, secondo l’entità del bacino di
utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico; in
ogni caso, l’entità della riparazione non può essere inferiore a 10.000 euro.
Nell’aprile 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato in parte illegittima la norma
che impone la distruzione dei documenti e delle intercettazioni ritenute illegali.
Il rinnovato articolo 240 c.p.p. è apparso censurabile in due punti: i commi 4 e 5,
nella parte in cui non prevedono l’applicazione delle stesse regole fissate per l’incidente
probatorio - art. 401 commi 1 e 2 c.p.p. - durante l’udienza per la distruzione dei
documenti; il comma 6, nella parte in cui non specifica che il divieto di fare riferimento
al contenuto dei documenti, supporti e atti nella redazione del verbale di distruzione non
si estende alle circostanze inerenti la formazione, l’acquisizione e la raccolta degli stessi
documenti, supporti e atti.
Il dibattito politico è proseguito, costante, anche nel corso della XV legislatura,
fino a sfociare nella presentazione di proposte di inchiesta parlamentare: il 4 luglio 2006,
la Commissione giustizia del Senato ha deliberato un’indagine conoscitiva sul fenomeno
delle intercettazioni telefoniche.
Obiettivi dell'indagine erano l'analisi e l'approfondimento di alcune tematiche
particolarmente problematiche: tra cui i rischi per la privacy, il fenomeno delle fughe di
notizie, le violazioni di pubblici ufficiali o avvocati, e, soprattutto, il ruolo, i diritti e le
responsabilità dei mass media.
133
Nel documento conclusivo dell'indagine, presentato circa cinque mesi dopo, sono
stati così evidenziati i vari profili di criticità in materia di intercettazioni.
Innanzitutto, nonostante, come già analizzato, l'ordinamento italiano sia quello
che nel mondo occidentale assicura ai consociati il più articolato sistema di garanzie dei
diritti fondamentali, l'esperienza quotidiana ha dimostrato come tali garanzie non
risultino adeguate.
Il primo passo da compiere dovrebbe essere quello di rendere effettivamente, e
finalmente, operante la normativa relativa al deposito, la selezione, lo stralcio e la
distruzione delle intercettazioni acquisite.
La responsabilità della selezione, oltre che sull'autorità giudiziaria, deve ricadere,
ovviamente in modo diverso, anche sui giornalisti, che non possono pubblicare tutto ciò
che entra nel loro patrimonio cognitivo, ma sono chiamati a valutarne previamente
l’utilità ai fini informativi, ed a tutelare la dignità di terzi estranei, coinvolti nelle
comunicazioni intercettate, così come disposto dal Codice deontologico di categoria,
ispirato al concetto di “autodisciplina”.
Il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva precisa, altresì, che sarebbe
opportuno specificare in modo più dettagliato i poteri del Garante, anche in
considerazione della citata richiesta del Presidente Pizzetti di essere legittimato
all'applicazione di sanzioni pecuniarie, diversificate e graduate in base alla gravità della
violazione.
Il Garante stesso ha, però, sottolineato come i destinatari naturali dell'eventuale
sanzione pecuniaria, gli editori delle varie testate giornalistiche, a fronte della minacciata
sanzione potrebbero incidere in modo eccessivo sulla libertà professionale dei giornalisti.
Riguardo alle sanzioni penali, invece, il Garante ha manifestato la sua totale
contrarietà in una democrazia in cui, la libertà di stampa, è un bene essenziale.
Nel corso dell'audizione dinanzi alla Commissione parlamentare, i rappresentanti
della stampa hanno espressamente respinto ogni addebito, rilevando come, le
responsabilità per eventuali fughe di notizie, andrebbero ricercate aliunde, in quanto il
passaggio ai media è solo il punto terminale di itinerario che coinvolge magistrati, agenti
134
di polizia giudiziaria, avvocati e cancellieri.
A conclusione dell’indagine conoscitiva, la Commissione giustizia, al fine di
limitare i rischi di fughe di notizie, ha proposto di costituire una task force tecnica presso
le Procure, in grado di intervenire a livello di prevenzione, controllo e accertamento delle
violazioni consumate e di adottare una serie di misure per limitare i rischi di fughe di
notizie, restringendo le possibilità di accesso ai dati riservati.
Tutto ciò premesso, la reazione della politica non può essere, in maniera
semplicistica, quella di sottrarsi al controllo sociale che l'opinione pubblica ha il diritto di
assicurare, e soprattutto è importante che il metodo dell'intervento legislativo sia la scelta
di soluzioni ponderate, senza cedere alla tentazione di ricorrere a soluzioni di emergenza,
predisponendo un regime di opacità e silenzio dell'informazione su fatti e vicende
giudiziarie319.
Se certamente, lo sforzo di elaborare una disciplina rinnovata delle intercettazioni
è, quantomeno, apprezzabile, non va dimenticato che questo intervento richiede una
precisione chirurgica per agire su eccessi e devianze senza scalfire, più dello stretto
necessario, il diritto di cronaca320.
Alla luce di questi obiettivi, nei paragrafi successivi si procederà ad un'analisi
approfondita dei due più recenti progetti legislativi di riforma: il disegno di legge 1638
del 2007, c.d. “d.d.l. Mastella”, e, da ultimo, il disegno di legge 1415 del 2008, noto
come “d.d.l. Alfano”.
319 N. ROSSI, Giustizia e informazione: poteri infedeli, poteri nemici?, in Questione giustizia, 2008,
Giuffrè, p. 116
320 G. GIOSTRA, Intercettazioni e informazione, in Cass. pen., 2006, p. 2752
135
2. Il disegno di legge Mastella
Il 17 aprile del 2007 veniva approvato alla Camera il disegno di legge n. 1638 di
iniziativa del Guardasigilli, on. Clemente Mastella, “in materia di intercettazioni
telefoniche ed ambientali, e di pubblicità degli atti di indagine”.
Il più rilevante limite della disciplina previgente non consisteva tanto nella
presunta inadeguatezza nel tutelare il processo di formazione del convincimento
giudiziale, quanto, piuttosto, nel palese disinteresse del legislatore nei confronti di un
tema estremamente delicato: la tutela dei soggetti, coinvolti o meno nel procedimento, la
cui privacy poteva essere lesa dalla pubblicazione di notizie private e processualmente
irrilevanti.
Un'informazione che, come ampiamente rimarcato, privilegi costantemente la
logica dei profitti alla propria funzione sociale non ha nulla a che vedere con il nobile
diritto-dovere di informare321.
E' opportuno procedere, dapprima, ad un'analisi esegetica dei vari interventi di
riforma posti in essere dal d.d.l. 1638, per poi soffermarsi sui profili di criticità che lo
stesso ha palesemente manifestato.
Attraverso la sostanziale modifica dell'articolo 114 c.p.p., si stabiliva il divieto di
pubblicazione, anche parziale o per riassunto, di tutti gli atti contenuti nel fascicolo del
pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti da segreto,
fino alla conclusione delle indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza
preliminare.
In tal modo, si consentiva, esclusivamente, la pubblicazione del “contenuto”,
relativamente ad atti non più coperti dal segreto; sul punto, però, per quanto riguarda
321 G.GIOSTRA, Intercettazioni fra indagini e privacy. Primo, evitare soluzioni improvvisate, in Dir. e
giust., 2006, 31, p. 99
136
specificatamente le intercettazioni telefoniche, si delineava un divieto di pubblicazione
più stringente, esteso anche al contenuto stesso, come sancito dal nuovo comma 2 bis
dell'art. 114 c.p.p.
Si introduceva, inoltre, un comma 2 ter, in cui veniva stabilito un divieto assoluto
di pubblicazione - parziale, per riassunto o per contenuto - dei provvedimenti emessi in
materia di misure cautelari, consentendone tuttavia la pubblicazione, soltanto nel
contenuto, dopo che l’indagato o il suo difensore ne abbiano avuto conoscenza.
Il comma 3 dell’art. 114 c.p.p., doveva essere adeguato alla citata pronuncia n. 59
del 1995 della Corte costituzionale, che ne aveva dichiarato l’illegittimità, nella parte in
cui vietava la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento,
fino alla pronuncia della sentenza di primo grado.
Pertanto, la nuova formulazione del comma 3 impone il divieto di pubblicazione,
anche parziale, ai soli atti del fascicolo del pubblico ministero, fino alla pronuncia della
sentenza di appello; confermando, invece, la facoltà di pubblicazione degli atti utilizzati
per le contestazioni ex art. 500 c.p.p.
Il disegno di legge n. 1638 ha delineato un complesso procedimento finalizzato
alla selezione delle notizie “rilevanti” destinando le altre ad essere custodite in un
apposito archivio segreto: venivano così introdotti nel codice di rito alcuni articoli
aggiuntivi - dal 268-bis al 268-sexies - che avrebbero dovuto sostituire i commi da 4 a 8
dell’attuale art. 268 c.p.p.
Queste disposizioni disciplinavano l’esecuzione delle operazioni relative alle
intercettazioni, ivi compresa la procedura di selezione, che si prevedeva avvenisse “già”
al momento del deposito, da parte del pubblico ministero, dei verbali e delle registrazioni
presso la segreteria. Si prevedeva una sorta di “doppio filtro”: il primo spettava al
pubblico ministero al momento del deposito; il secondo, ovviamente, al giudice per le
indagini preliminari, che doveva decidere sulla loro acquisizione e successiva
trascrizione.
L’esperienza ha dimostrato l'inadeguatezza dell’udienza stralcio, in punto di tutela
della riservatezza, poiché questa udienza viene condotta con prevalente attenzione agli
137
interessi delle parti, che spesso non contemplano il contenimento della diffusione dei dati
acquisiti322.
La ratio sottesa alla suddetta scelta era da leggersi in termini di economia
processuale, trattandosi di una procedura senza dubbio più snella, ma che, al tempo
stesso, ha suscitato talune perplessità in merito al rispetto del diritto di difesa.
Anche il Consiglio superiore della magistratura, in un articolato parere, ha rilevato
come, la nuova formulazione dell'art. 268 comma 6 c.p.p. - l'art. 268-bis, comma 5 individuasse il parametro in base al quale il giudice deve decidere sull’acquisizione delle
conversazioni intercettate nel criterio della “rilevanza”, mentre, l'originaria disposizione,
parlava di “non manifesta irrilevanza”.
La stessa modifica era introdotta dall’art. 268-quater, con riferimento
all’acquisizione dei risultati dell’intercettazione, in un momento anteriore alla chiusura
delle indagini preliminari.
Soprattutto con riferimento a questa seconda ipotesi, la disciplina in esame
presentava profili meritevoli di approfondimento, potendo risultare problematica la
prognosi - richiesta sia al pubblico ministero sia alla difesa - in ordine alla rilevanza,
nella prospettiva del giudizio, di una determinata conversazione323.
Tutti gli atti relativi a conversazioni irrilevanti, dovevano, invece, confluire in un
archivio riservato; da notare, quindi, che il criterio di selezione era definito in positivo,
nel senso che dovevano essere individuate specificamente le conversazioni rilevanti,
mentre, de residuo, tutte le altre dovevano essere custodite nell’apposito archivio.
All'esito di queste operazioni si doveva dare immediato avviso ai difensori delle
parti, ai quali spettava la facoltà, entro il termine stabilito, di esaminare gli atti depositati,
e quelli destinati nell’archivio riservato, di ascoltare le registrazioni, di indicare al giudice
le conversazioni non depositate delle quali volessero chiedere l’acquisizione, enunciando
le ragioni della loro rilevanza, e, viceversa, di quelle depositate ma ritenute irrilevanti o
322 LEO, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1218.
323 CSM, Parere sul disegno di legge governativo n. 1638 del 2006 concernente: Disposizioni in materia
di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità degli atti di indagine. Deliberazione del 21
dicembre 2006, su http://www.csm.it/pages/pareri2006.html
138
inutilizzabili.
Alla scadenza del termine stabilito per l'esercizio del diritto di difesa sopra
descritto, il giudice per le indagini preliminare disponeva con ordinanza l’acquisizione
delle conversazioni da lui ritenute rilevanti ed utilizzabili, anche tra quelle custodite
nell’archivio riservato, con l'attribuzione, in tal caso, di uno specifico potere di
“rivalutazione della rilevanza”, previsto, dall’art. 495 comma 4 c.p.p..
L’archivio riservato doveva essere istituito presso gli uffici della Procura della
Repubblica, sotto la responsabilità, direzione e sorveglianza del Procuratore, ovvero di un
suo delegato, con modalità tali da assicurare la segretezza della documentazione in esso
contenuta.
Quest'ultima previsione risultava particolarmente rilevante: si individuava,
finalmente, un soggetto responsabile, con la funzione specifica di evitare fughe di notizie
e che, eventualmente, ne rispondesse; uno dei maggiori profili di criticità del sistema
vigente, infatti, è proprio l’impossibilità di identificare gli “illegittimi rivelatori” delle
conversazioni ivi custodite.
Solo un numero, estremamente ristretto e predefinito di soggetti, cioè il giudice, i
difensori, nei casi stabiliti dalla legge, e gli ausiliari autorizzati dal procuratore della
Repubblica, potevano accedere all'archivio, previa annotazione in un apposito,
dettagliato, registro.
Si prevedeva altresì che le attività di stampa, e di trasmissione dei dati relativi alle
intercettazioni su supporto informatico, cartaceo o telematico, dovevano essere
autorizzate dal pubblico ministero.
L’intento della previsione suddetta era, senz'altro, meritorio, ma si deve osservare
che nessuna cautela era invece adottata nella fase più delicata che è quella della
registrazione negli appositi centri distrettuali, per i quali non è previsto analogo
monitoraggio324.
Per quanto riguarda gli atti non acquisiti, custoditi nell’archivio riservato, era
previsto che fossero sempre coperti da un apposito segreto, distinto da quello di cui
324 FILIPPI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. l227
139
all'art. 329 c.p.p.: mentre quest’ultimo tutela il corretto andamento delle attività
investigative, il “nuovo” art. 329-bis, negli intendimenti del progetto di riforma, avrebbe
dovuto salvaguardare la privacy dei soggetti intercettati, anche oltre il termine delle
indagini preliminari, coprendo la documentazione per tutto il periodo di permanenza
nell’archivio.
Sulla scorta di quanto previsto nel 2005 dal c.d. “d.d.l. Castelli”, dunque, anche il
disegno di legge Mastella si faceva carico di tutelare la privacy dei terzi: il nuovo art.
268-sexies disponeva che fosse dato avviso anche alle persone non indagate, tramite
raccomandata, dell'avvenuto deposito di atti relativi alle intercettazioni che le
riguardassero, con facoltà, per gli stessi di chiederne, in seguito, la distruzione.
L’avviso in questione non doveva essere inviato se si procedeva per i reati indicati
all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, e all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., ovvero se le
conversazioni intercettate erano state acquisite al procedimento, e dagli atti di indagine
risultasse che l’utenza era stata “comunque utilizzata da persone indagate”.
In quest’ultimo caso, però, l’omissione dell’avviso risulta quantomeno
incomprensibile: bisognerebbe tenere presente, infatti, che le persone avvisate potrebbero
non coincidere con quelle che fanno effettivamente uso dell’utenza, mente restano
comunque esclusi gli interlocutori delle conversazioni, se sono terzi estranei.325
Parallelamente alle disposizioni processuali poste in essere a salvaguardia della
privacy, si era delineato un imponente intervento di modifica ed innovazione della
fattispecie penali e delle relative sanzioni.
Innanzitutto, veniva sostituito l’art. 379-bis c.p., con una disposizione specifica
per la “rivelazione illecita di segreti inerenti ad un procedimento penale”, punendo, con la
reclusione da sei mesi a tre anni, chiunque rivelasse indebitamente notizie inerenti ad atti
del procedimento penale coperti da segreto o ne agevolasse la conoscenza in qualsiasi
modo.
La prima, rilevante, conseguenza di questa modifica era il netto ampliamento
della sfera dei soggetti punibili, estesa fino a ricomprendere tutti coloro che fossero
325 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1222
140
venuti a conoscenza della notizia “in ragione del proprio ufficio, servizio o qualità”, ivi
compresi i difensori ed i loro collaboratori.
Veniva introdotta una nuova fattispecie, delineata dall'art. 617-septies c.p., che
sanzionava “l’accesso abusivo ad atti del procedimento penale” con la pena della
reclusione da uno a tre anni.
La norma intendeva punire, chiunque, prendesse illecitamente
cognizione
“diretta” di atti del procedimento penale coperti da segreto, escludendo, invece, la
responsabilità di chi si fosse limitato a riceverli senza concorrere nell’accesso illecito ai
luoghi ove gli stessi vengono custoditi.
Il CSM, nel parere espresso sul disegno di legge Mastella, auspicava una
riformulazione, di tale norma, poiché, dal tenore letterale del testo, si palesava il rischio
che potessero risultare “coinvolti nella vicenda anche soggetti, al di fuori delle ipotesi di
concorso nel reato, che si limitassero a ricevere il materiale coperto dal segreto, da parte
di quello che dovrebbe essere l’autore materiale della sottrazione di informazioni
sensibili”326.
Si procedeva, altresì, all'introduzione di altre due fattispecie penali al fine di
punire la detenzione di documentazione inerente intercettazioni illegali: l'art. 617-octies
c.p. sanzionava, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chiunque, avendo
consapevolezza dell’illecita formazione, acquisizione o raccolta, illecitamente detenesse
documenti contenenti dati inerenti a conversazioni e comunicazioni telefoniche,
informatiche o telematiche, illecitamente formati o acquisiti, ovvero documenti redatti
attraverso la raccolta illecita di informazioni.
L’art. 617-novies c.p., invece, prevedeva il reato di “rivelazione del contenuto di
documenti redatti attraverso la raccolta illecita di informazioni”, sanzionato con la
reclusione da sei mesi a quattro anni, con un’aggravante specifica per il pubblico ufficiale
e l’incaricato di pubblico servizio.
Veniva modificato il testo dell’art. 684 c.p., in base al quale doveva essere punito
chiunque pubblicasse, in tutto o in parte, anche per riassunto o nel contenuto, atti o
326 CSM, Parere sul disegno di legge governativo n. 1638, cit.
141
documenti di un procedimento penale, di cui fosse vietata la pubblicazione.
Particolarmente interessante risultava, da ultimo, una
sanzione “speciale”,
inserita nel Codice della privacy: l’art. 164-bis, che prevedeva una nuova sanzione
amministrativa irrogabile dal Garante in caso di diffusione o comunicazione dei dati per
finalità giornalistiche, realizzata in violazione delle regole generali del trattamento dati,
di quelle che riguardano specificamente il giornalismo o del Codice di deontologia.
Tale disposizione raccoglieva, finalmente, l’appello lanciato dal Presidente
Pizzetti, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato il 13
luglio 2006, di fornire al Garante poteri adeguati al compito da svolgere.
Alla sanzione pecuniaria, originariamente prevista dal d.d.l. Mastella, era stata
sostituita, dopo le modifiche introdotte dalla Camera, quella amministrativa della
pubblicazione, per intero o per estratto, della decisione che accertava la violazione,
ovvero di una dichiarazione riassuntiva della medesima violazione, nella testata
attraverso la quale fosse stata commessa nonché, ove ritenuto necessario, anche in altre
testate.
Procediamo ora ad una rapida analisi dei profili apprezzabili e delle criticità
evidenziati dallo stesso provvedimento.
Si rileva, innanzitutto, come l'intervento normativo esaminato meritasse un
“complessivo apprezzamento”, poiché, al di là della evidente necessità di un'attenta
messa a punto, costituiva un serio tentativo di porre mano ad una materia situata al
crocevia di esigenze difficilmente componibili, come la tutela del processo, la garanzia
dell'informazione giudiziaria e la salvaguardia della dignità delle persone coinvolte327.
Il disegno di legge conteneva novità interessanti: si pensi, in particolare, alle
norme per razionalizzare e responsabilizzare i centri di intercettazione ed all'istituzione di
un archivio riservato: si scandiva, così, con maggior cura il procedimento di “dialisi
giudiziaria” delle notizie rilevanti da quelle irrilevanti, imponendo su queste ultime un
obbligo di segreto penalmente sanzionato, vietandone e punendone la pubblicazione328.
327 G.GIOSTRA, Intercettazioni e informazione, in Cass. Pen., 2006, 09, 2752
328 G.GIOSTRA, Intercettazioni e informazione, cit. , 2753
142
In tali termini, una limitazione alla divulgazione di atti irrilevanti, o addirittura
illegittimi, pur suscitando l'immediata reazione di una “certa” stampa, maggiormente
orientata alla ricerca di notizie “commercialmente rilevanti”
piuttosto che
“processualmente rilevanti”, meriterebbe piena approvazione, e sarebbe indubbiamente
conforme al dettato normativo dell'art. 21 Cost.
Molte delle disposizioni previste dal d.d.l. n. 1638 erano state “calibrate” sulle
patologie della prassi, così come l'innalzamento delle sanzioni per il reato di arbitraria
pubblicazione di atti del procedimento penale andava inteso come misura necessaria per
dissuadere efficacemente la testata giornalistica da una divulgazione oggi troppo
disinvolta329.
Il rischio era che, anziché limitarsi a disporre la non pubblicabilità del materiale
irrilevante, ci si spingesse oltre, delineando strumenti limitativi del diritto di cronaca
giudiziaria che travalicassero il “costituzionalmente consentito”; tentazione cui il disegno
governativo Mastella, non ha saputo resistere.
La lettura “politica” dell'opportunità di un intervento limitativo della libertà di
informazione e la piena condivisione dell'inasprimento del regime sanzionatorio hanno
così suscitato, inevitabilmente, rilevanti obiezioni tanto nella dottrina, quanto nei
rappresentanti della stampa.
Passiamo, dunque, ad analizzare i numerosi profili di criticità, e di dubbia
legittimità costituzionale, manifestati dall'intervento di riforma in esame.
Va innanzitutto evidenziato come, se una notevole lacuna dell'assetto originario
del codice discendeva dalla mancata definizione della distinzione tra “atto” e
“contenuto”, con la revisione normativa in esame la questione veniva ulteriormente
complicata, con la previsione di un'ulteriore bipartizione:
quella tra “riassunto” e
“contenuto”.
Nel testo approvato alla Camera, infatti, si distingue tra “pubblicazione del
riassunto”, vietata dal nuovo comma 2, e
“pubblicazione del contenuto”, sempre
329 Sen. MANTOVANO, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre
2007
143
consentita dal comma 7 dell'art. 114 c.p.p., salvo quanto previsto dai commi 2-bis e 2ter.330
Non veniva assolutamente precisata l'effettiva linea di demarcazione tra riassunto
e contenuto: restava evidentemente all'abilità dell'interprete l'arduo compito di trovare un
significato di “contenuto dell'atto” che avesse una portata semantica inferiore a quella
della locuzione “riassunto dell'atto”331.
Si potrebbe attribuire alla nozione di “riassunto” il significato di una sintetica, ma
esaustiva, esposizione di quanto riportato nell’atto; mentre l’espressione “contenuto”
potrebbe identificare l’attività con cui si rende noto che è stata svolta una certa attività
investigativa, senza però indicarne i risultati332.
Nella previsione normativa, dunque, l’ambito del divieto risultava nettamente
ampliato rispetto a quello attualmente vigente: sia perché vi si facevano rientrare tutti gli
atti, e non solo quelli di indagine, precludendone la pubblicazione per riassunto, oggi
consentita; sia perché, con riferimento alle intercettazioni, il comma 2-bis impediva in
modo assoluto qualsiasi pubblicazione sino all’eventuale dibattimento.
Una previsione siffatta, in considerazione dei tempi del procedimento penale nel
nostro Paese, significava rendere il processo penale “un fatto privato” fra l’imputato, il
difensore, il pubblico ministero, il giudice e la vittima, trasferendolo in un luogo
inaccessibile, al riparo dal controllo dell’opinione pubblica333.
Altrettanto incomprensibile appariva la scelta del legislatore di prevedere, per le
sole intercettazioni, un divieto di pubblicazione più rigoroso rispetto agli altri atti di
indagine: se un distinguo andava fatto, avrebbe dovuto condurre a soluzioni invertite,
consentire cioè un maggiore “tasso di pubblicabilità” delle intercettazioni, perché queste,
a differenza di altri atti di indagine, finiscono nel fascicolo del dibattimento334.
La nuova disciplina normativa proposta dal disegno di legge Mastella sembrava
330 G. GIOSTRA, Comma per comma, la mappa delle perplessità, in Guida al diritto, 2007, 44, p. 117
331 G. GIOSTRA, Dal progetto sulle intercettazioni un pericolo al diritto di cronaca, in Guida al diritto,
2007, 38, p. 14
332 G. GIOSTRA, Comma per comma, cit., p. 118
333 PISTORELLI, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007
334 G.GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit.
144
cedere alla tentazione di spegnere i riflettori mediatici sull'attività giudiziaria, con
interventi esplicitamente favorevoli ad un giro di vite alla cronaca giudiziaria335.
Il drastico irrigidimento dei divieti di pubblicazione delineato dal provvedimento
in esame lo ha portato a meritarsi appellativi ben poco lusinghieri, quali quello di: “black
out informativo”,336 o addirittura di “garrota normativa per la cronaca giudiziaria”337.
Infatti, cessato il divieto di pubblicazione, l'opinione pubblica dovrebbe
accontentarsi di un'informazione “svogliata” e “fuorviata”: svogliata, perchè,
probabilmente, nel frattempo la vicenda giudiziale non susciterebbe più l'interesse dei
media; fuorviata, perché i paletti imposti al diritto di cronaca potrebbero costringere gli
organi di informazione a fornire un'immagine falsata di quella fase cruciale del processo
che è l'indagine.
Prevedere che il diritto di cronaca venga “differito” a quando il tumultuoso
andamento delle indagini si sarà placato, e si procederà al dibattimento, significa
svuotarlo di ogni significato; in realtà si è ben consapevoli che un'informazione differita
di anni è un “cane da guardia” che non morde, e che, al più, abbaia inascoltato.
Se è vero che il fatto esiste ove ne venga pubblicata la notizia, e che la notizia si
pubblica qualora abbia una sua rilevante attualità, allora differire la possibilità di
pubblicare una certa vicenda giudiziaria, significa, spesso, rinunciare di fatto a riferirne:
insomma, si scrive “pubblicabile dopo”, ma si legge “pubblicato mai”338.
Con il disegno di legge Mastella, sostanzialmente, riaffiorava una disciplina
“proibizionistica” assimilabile a quella dettata dal codice Rocco, che imponeva il silenzio
stampa già con l’avvio delle indagini.
In questo modo, però, anziché bloccare il “mercato nero” della notizia
processuale, lo si favoriva, determinando una degenerazione del costume giudiziario e
giornalistico, i cui postumi culturali sono ancora oggi ben visibili e preoccupanti339.
335 A. CAPUTO, a cura di Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?,in Questione giustizia,
2006, p. 1221
336 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni? in Filippi, Illuminati, Leo,
Profiti, Forum, a cura di Caputo, p. 1235.
337 G. GIOSTRA, Dal progetto sulle intercettazioni, cit. p.13
338 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007
339 G. ILLUMINATI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit., p. 1236
145
Le aspre critiche della dottrina, e l’annuncio di una giornata di sciopero da parte
della Federazione nazionale della stampa alimentavano la speranza che, nel corso
dell'esame al Senato, il legislatore potesse tornare sui suoi passi, vietando certamente con
il massimo rigore la pubblicazione di atti coperti dal segreto investigativo e di
intercettazioni irrilevanti ai fini del processo,
ma lasciando che fossero sempre
pubblicabili le notizie - e le conversazioni - non più segrete e processualmente
rilevanti340.
Molte altre “ombre” del progetto di riforma sono state evidenziate dalla dottrina, a
cominciare dai dubbi sull'adeguatezza dei termini massimi di durata per le operazioni di
captazione e per la conservazione dei tabulati telefonici; così come poco convincente
risultava la congruità dell'inasprimento sanzionatorio delineato dall'art. 684 c.p.341
Sono state, altresì evidenziate sia, in generale, la “sconcertante sciatteria lessicale”
del d.d.l., frutto troppo spesso dell'influenza del linguaggio giornalistico, sia, nello
specifico, l'incomprensibile necessità di distinguere normativamente intercettazioni
“illecite” ed “illegittime”342.
Nel complesso, va rimarcato come, il d.d.l. n. 1638, pur avendo l'innegabile
merito di aver affrontato un tema particolarmente spinoso, quale il contemperamento del
diritto di cronaca giudiziaria con gli altri interessi di pari rango, presentasse alcuni aspetti
di “ipotutela” e altri di “ipertutela”.343
Tra i profili di ipertutela, indubbiamente, si collocava la scelta di inibire, anche
dopo la caduta del segreto, la pubblicazione dell'atto, consentendo solo quella del suo
contenuto: il sacrificio imposto al diritto di cronaca, per proteggere la verginità cognitiva
del giudice, appariva sproporzionato rispetto al risultato desiderato, a maggior ragione
tenendo presenti le altre possibili contaminazioni esterne, nonché i meccanismi
procedurali, esposti in precedenza, per portare a conoscenza del giudice atti del fascicolo
del p.m.
Relativamente all'ipotutela, l'aspetto più grave riguarda la mancanza, nel progetto
340 FILIPPI, Quale riforma per la disciplina delle intercettazioni?, cit. p. 1222
341 V. GREVI, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007
342 F. CAPRIOLI, XIX Convegno nazionale, cit.
343 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit.
146
di legge, di una disciplina per le notizie irrilevanti ai fini dell'accertamento penale:
notizie, non solo concernenti soggetti terzi, bensì anche l'indagato e la persona offesa, che
hanno diritto a non vederle pubblicate344.
La normativa esaminata era di dubbia legittimità costituzionale sotto un ulteriore
profilo: vi è, infatti, una domanda costituzionalmente ineludibile: a tutela di cosa si
predispongono nuovi limiti al diritto di cronaca?345
Tanto la giurisprudenza della Corte costituzionale, quanto quella della Corte di
Strasburgo, ci insegnano come tali limiti siano legittimi a condizione che siano posti a
tutela di un bene di pari rango costituzionale: nel caso del d.d.l. n. 1638 si fa fatica a
comprendere quale sia questo interesse antagonista.
Non poteva trattarsi dell'interesse alla corretta formazione del convincimento
giudiziale, in quanto i risultati delle intercettazioni, ove rilevanti e trascritti, confluiscono
nel fascicolo del dibattimento.
Non poteva essere neppure l'interesse alla salvaguardia della riservatezza di terzi a
non veder pubblicate notizie su circostanze estranee alle indagini, in quanto, a tal fine,
erano stati correttamente predisposti il meccanismo di selezione a “doppio filtro” e la
conservazione nell'archivio riservato.
Stessa cosa dicasi relativamente all'interesse alla privacy per la pubblicazione di
notizie processualmente rilevanti, perché tale interesse è pacificamente ritenuto cedevole
rispetto al diritto di cronaca in funzione di controllo sull'operato della magistratura.
Come già evidenziato, poi, in nessun caso può essere posto quale diritto
antagonista alla libertà di informazione, la presunzione di non colpevolezza di cui all'art.
27 Cost., anche perchè ciò equivarrebbe – a voler essere coerenti - a dover sancire il
totale silenzio stampa sul processo sino alla sentenza definitiva.
Si ricordava persuasivamente, nel corso del dibattito, come il diritto di cronaca
non fosse una materia in cui esibirsi in spericolati espedienti verbali. Se il Parlamento
vuole battere la strada, incostituzionale ed antidemocratica, di un oscuramento mediatico
del fenomeno giurisdizionale sino al momento del giudizio dibattimentale - vale a dire, in
344 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit.
345 G.GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit.
147
Italia, un oscuramento pluriennale – abbia il coraggio di farlo senza infingimenti e se ne
assuma la responsabilità politica. Altrimenti lasci sostanzialmente immutato l'art. 114
c.p.p, poiché le avvertite e condivisibili esigenze di segretezza, vi troveranno rassicurante
tutela346.
Il testo normativo, oggetto di tutte le critiche esposte, il 10 giugno del 2007 iniziò
il suo, breve, iter al Senato.
In Commissione giustizia a Palazzo Madama347, il Relatore, on. Felice Casson,
manifestò, innanzitutto, rilevanti perplessità sull’inasprimento delle sanzioni previste per
i giornalisti, ritenendo la fase della pubblicazione “l’ultimo anello della catena”,
dichiarando, invece, la necessità di intervenire in maniera più rigida sulle fasi precedenti,
quando le intercettazioni sono sotto il controllo della polizia giudiziaria e degli uffici
giudiziari.
A tale riguardo, pur tenendo conto delle indicazioni positive emerse dal testo
licenziato dalla Camera, il relatore sottolineò che si rendeva necessaria una disciplina più
stringente, che non poteva non tenere in considerazione la citata sentenza “Dupuis” della
Corte di Strasburgo del 7 giugno 2007, con la quale la Francia era stata condannata per
violazione dell’articolo 10 C.e.d.u. sulla libertà di informazione.
Sulla scorta della relazione esposta, vennero cancellate alcune delle modifiche
introdotte all’art. 114 c.p.p.: in particolare, al comma 2, venne soppresso il riferimento
agli “atti non più coperti da segreto”; per gli atti coperti dal segreto si stabiliva, invece,
che il divieto di pubblicazione di cui al comma 1 dell’art. 114, cessasse nel momento in
cui ne avessero avuto conoscenza l’imputato o il difensore.
Infine, con la modifica al comma 7, era introdotto il divieto di pubblicazione
anche parziale o per riassunto della documentazione relativa alle intercettazioni di cui sia
stata ordinata la distruzione.
Sotto questo punto di vista, quindi, fu sostanzialmente ripristinato il sistema
attualmente vigente.
La fine anticipata della legislatura, durante l'esame del testo al Senato, ne
346 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale, cit.
347 SENATO DELLA REPUBBLICA, XV legislatura, 2 Comm., Resoconto somm. n. 87 del 20/6/2007
148
comportò il definitivo accantonamento, lasciando di fatto inalterata, una materia alla
ricerca di una regolamentazione organica e, finalmente, intellegibile.
149
3. De Iure condendo : il disegno di legge Alfano
A distanza di oltre dieci anni dal primo tentativo di riforma, il d.d.l. Flick del
1996, la materia delle intercettazioni non ha ancora trovato una regolamentazione
costituzionalmente adeguata al rispetto dei molteplici interessi in gioco.
Indubbiamente,
i progetti di legge esaminati
sinora
presentavano
profili
meritevoli di attenzione, tali da consentire al legislatore in carica di ripartire dalle
convergenze trovate, in particolare col disegno di legge Mastella.
Il 30 giugno del 2008, il Guardasigilli, on. Alfano, ha presentato alla Camera un
disegno di legge, il n. 1415, recante norme in materia di intercettazioni telefoniche,
telematiche ed ambientali.
E' opportuno premettere, per chiarezza espositiva, che, il
testo approvato al
Senato in data 10 giugno 2010, ed attualmente in discussione alla Camera, diverge, in
parte, da quello originariamente presentato, ed è identificato quale d.d.l. 1611/09.
Lo scopo del progetto di legge, illustrato nella relazione introduttiva, dovrebbe
essere quello, “consueto”, di “contemperare le esigenze investigative con il diritto alla
riservatezza dei soggetti estranei alle indagini, e degli stessi indagati, con riferimento al
contenuto di conversazioni telefoniche intercettate, di contenuto strettamente personale
ed assolutamente irrilevante ai fini investigativi”.
L'obiettivo ultimo, sotteso alla riforma in esame, è quello di promuovere nel
medio-lungo periodo, un “circolo virtuoso” tra operatori giudiziari e stampa, tale da
garantire la libera espressione della libertà di cronaca senza che ciò si traduca in
un'indebita interferenza nella vita privata dei cittadini sottoposti ad intercettazione348.
Il provvedimento si snoda lungo tre fondamentali linee di intervento: maggiori
restrizioni per le intercettazioni, sia con riferimento ai presupposti, sia con riferimento
348 Relazione introduttiva d.d.l. n. 1415, Analisi dell'impatto della regolamentazione. CAMERA dei
DEPUTATI, Atti parlamentari, XV legisl., Disegni di legge e relazioni, AC 1414, pag. 12
150
alle modalità di acquisizione ed utilizzo; rigidi divieti in ordine alla pubblicazione di
notizie concernenti le indagini preliminari, con un sensibile aggravamento delle pene
previste in caso di violazione degli stessi; introduzione di una nuova ipotesi di
responsabilità amministrativa a carico degli editori che abbiano violato l'art. 684 c.p.
pubblicando arbitrariamente atti di un procedimento penale349.
Perfettamente condivisibile appare, dunque, la “ragione morale” della riforma, che
la rende urgente ed assolutamente improcrastinabile: non necessariamente, però, alle
buone intenzioni corrispondono scelte normative condivisibili350.
Prima di addentrarci in considerazioni critiche generali sul disegno di legge in
questione, il cui percorso, come vedremo, è assimilabile ad una “via crucis” del diritto di
cronaca giudiziaria, esaminiamo, le principali modifiche dallo stesso introdotte.
Innanzitutto, l'art. 1 del disegno di legge ha radicalmente modificato l'art. 114
c.p.p., delineando un divieto “assoluto” di pubblicazione, degli atti relativi alle indagini
preliminari e di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero e del difensore,
anche quando sia cessato il segreto istruttorio, fino alla conclusione delle indagini
preliminari, o dell'udienza preliminare ove prevista.
A differenza della normativa in vigore, dunque, il divieto si applica non solo agli
“atti o parte di essi”, ma anche, indistintamente, al loro “riassunto e contenuto”, forme di
rappresentazione che, secondo il legislatore, consentirebbero di eludere la previsione
dell'attuale comma 2 dell'art. 114 c.p.p.
Sul punto in esame, si profila un interessante raffronto tra quanto previsto dal
d.d.l. Mastella e l'attuale progetto normativo: il primo vietava la pubblicazione parziale o
per riassunto degli atti di indagine preliminare, con la previsione di un regime
particolarmente stringente per le intercettazioni telefoniche, che non potevano essere
pubblicate in alcuna forma fino al termine delle indagini o dell'udienza preliminare.
Il disegno di legge Alfano, invece, estende il regime del divieto, previsto dal d.d.l.
349 A. BRIGNONE, Apprezzabile tutela della privacy, ingiustificata restrizione cronaca, 2009, pubblicato
su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.. 49
350 V. MAFFEO, La riforma in itinere delle intercettazioni, tra tutela della privacy ed esigenze
dell'accertamento, in Dir. pen. e processo, 2009, p. 510
151
Mastella per le sole intercettazioni a tutti gli atti di indagine, senza distinzione alcuna.
La disposizione in esame, di fatto, scardinerebbe l'equivalenza tra atti conosciuti
dall'indagato ed atti non più segreti: qualsiasi atto di indagine resterebbe segreto, anche se
ormai entrato nella disponibilità della parte351, e per questo sarebbe coperto dal divieto di
pubblicazione, anche parziale, salvo la possibilità di pubblicarne il riassunto.
Il 17 febbraio 2009, il CSM ha espresso parere contrario alla modifica del comma
2 dell'art. 114 c.p.p., in quanto ciò comporterebbe equiparare “il regime relativo agli atti
coperti da segreto, con quello di atti non più segreti: una parte significativa della fase
delle indagini preliminari risulterebbe sottoposta ad un regime indifferenziato di divieto
di pubblicazione degli atti, anche per riassunto, con evidente compressione dei valori
riconducibili all'art. 21 Cost.” 352
Anche in dottrina la disposizione in esame ha generato rilevanti perplessità in
punto di legittimità costituzionale: alcune delle soluzioni adottate dal disegno di legge
sembrano, infatti, confliggere fortemente con i principi da tempo affermati in sede
giurisdizionale e dottrinale sul tema del “diritto di cronaca”, così da mettere a rischio la
costituzionalità delle soluzioni adottate tanto sotto il profilo della loro irragionevolezza,
quanto sotto il profilo del difetto di proporzionalità tra fini perseguiti e mezzi
impiegati353.
Il legislatore, nel contemperare gli interessi attinenti all'attività istruttoria ed alla
riservatezza dei privati cittadini, con questa norma rischia di oscurare, fino ad annullarlo,
il contrapposto interesse all'informazione sullo svolgimento dei processi.
Del
resto,
come
ripetutamente
rimarcato,
l'interesse
a
conoscere,
ed
eventualmente controllare, l'andamento dei procedimenti penali non può riguardare solo
la fase dibattimentale pubblica del processo, ma anche quella delle indagini preliminari,
ovviamente fatte salve le esigenze di segretezza per garantire l'efficacia delle stesse.
Tuttavia, quando il segreto cade, non c'è ragione perché sia imposto il silenzio
351 A. GALIMBERTI, Tanti progetti, un solo disegno: il silenzio al giornalismo, 2009, su www.odg.it, in
Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti.
352 CSM, Parere su d.d.l. 1414 del 2008. deliberazione del 17.02.09, www.csm.it/circolari/090217P.pdf
353 C.F. GROSSO, CHELI, parere pro veritate inviato alla Commissione giustizia della Camera sul d.d.l.
1415
152
totale, si tratti di intercettazioni o di qualunque altro atto di indagine.
Il CSM ha, invece, condiviso la portata del nuovo comma 7 dell'art. 114 c.p.p.,
che stabilisce, in ogni caso, quindi anche dopo la conclusione delle indagini o
dell'udienza preliminare, il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli
atti e dei contenuti relativi ad conversazioni di cui è stata ordinata la distruzione.
Dopo l'esame in Commissione, il comma 7 è stato ulteriormente modificato in
conformità con una proposta dell'opposizione: è stato, così, aggiunto il divieto di
pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei
contenuti relativi a conversazioni riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle
indagini, di cui sia stata disposta l'espunzione ai sensi dell'art. 268 comma 7-bis c.p.p.
Attraverso le rilevanti modifiche apportate all'art. 268 c.p.p., il d.d.l. Alfano è
intervenuto riguardo alle modalità di esecuzione delle operazioni di intercettazione, agli
impianti tecnici utilizzabili, alla conservazione ed alla selezione delle intercettazioni.
Il nuovo comma 3 dell'art. 268 c.p.p. stabilisce che, presso ogni distretto di Corte
d'Appello, siano realizzati dei “centri di intercettazione”, dotati di impianti per la
captazione delle conversazioni; le operazioni di ascolto devono essere compiute presso la
competente Procura della Repubblica, o, previa autorizzazione del p.m., presso i servizi
di polizia giudiziaria delegati alle indagini.
Il CSM ha espresso la sua piena condivisione sia sulla distinzione in due fasi
distinte delle operazioni di “registrazione” e di “ascolto”, sia sulle modalità organizzative
delineate354.
Più precisamente, si evidenzia in dottrina, si tratta di ben cinque distinti segmenti:
captazione,
registrazione,
ascolto,
trasferimento
su
supporto
informatico
e
verbalizzazione355.
L'attività di ascolto, in realtà, non è mai menzionata dalla disciplina codicistica
vigente, probabilmente per gli evidenti limiti tecnologici che, nel 1988, impedivano di
scindere fase dell'ascolto da quella della registrazione.
354 CSM, Parere su d.d.l. 1415 del 2008, cit.
355 G. AMATO, Scelta coerente con le finalità della disciplina di garanzia, in Guida al diritto, 2008, 40,
p. 58.
153
Tuttavia, il mutato scenario tecnologico, che consente la distinzione tra le due fasi
suddette, non si pone in conflitto con i limiti alla esternalizzazione delle operazioni di
intercettazione posti dal comma 3 del vigente art. 268 c.p.p.356
I poteri di gestione, vigilanza, controllo ed ispezione sui centri di intercettazione e
sui punti d'ascolto, è attribuita ai procuratori generali presso la Corte d'appello, ed ai
procuratori della Repubblica territorialmente competenti: si delinea così un quadro
gerarchico definito, per garantire maggiore sicurezza e prevenire fughe di notizie.
Relativamente alle operazioni di conservazione del materiale, sulla stregua di tutti
i precedenti interventi analizzati, anche il d.d.l. 1415 ha previsto l'istituzione, presso
l'ufficio del pubblico ministero che ha richiesto l'intercettazione, di un archivio riservato.
Rispetto al d.d.l. Mastella, nel testo in esame si prevede il divieto di allegazione,
anche parziale, delle intercettazioni al fascicolo delle indagini, onde prevenire la
divulgazione verso l'esterno del materiale intercettatato o del suo contenuto.
Anche sul punto il CSM, constatando come si tratti di una “disposizione diretta a
tutelare con la massima attenzione possibile il prodotto dell'attività di intercettazione”, ha
espresso il proprio parere favorevole357.
Come nel d.d.l. Mastella è prevista la designazione di un funzionario responsabile,
al fine di evitare che, in caso di divulgazione illecita del materiale, ci si possa ancora
rifugiare in una generica “responsabilità collettiva del sistema”.
Il nuovo comma 1 dell'art. 268 c.p.p. conferma che delle operazioni di
intercettazione è redatto apposito verbale, con un contenuto nettamente più ampio di
quello precedentemente previsto, in particolare l'annotazione cronologica per ogni singola
conversazione intercettata, dei riferimenti temporali della comunicazione, la sommaria
trascrizione del contenuto e i nominativi di chi ha provveduto all'annotazione.
Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni i verbali e le registrazioni
devono essere trasmessi al pubblico ministero, e depositati in segreteria, per un tempo
non inferiore a cinque giorni.
356 L.PISTORELLI, Le Sezioni Unite di fronte alle sfide della modernità: le pratiche di “remotizzazione”
delle intercettazioni, in Cass. pen., 2009, 1, p. 30-48.
357 CSM, Parere su d.d.l. 1415 del 2008, cit.
154
I difensori delle parti, preventivamente avvisati, possono prendere visione degli
atti e dei verbali ed ascoltare le registrazioni; ciò che non è più consentito, è la possibilità
di estrarne copia, per prevenire divulgazioni illegittime.
Ovviamente, una tale preclusione, traducibile in una lesione del diritto di difesa,
ha suscitato le feroci critiche del Consiglio nazionale forense, rendendo necessario un
adeguamento della “apprezzabile” ratio della norma con le esigenze proprie della difesa,
soprattutto in caso di emissione di un provvedimento cautelare.
Sul punto si registra una recente pronuncia della Corte costituzionale, che ha
riconosciuto l'esigenza di salvaguardare la suddetta prerogativa difensiva, sancendo
l'illegittimità costituzionale dell'art. 268 c.p.p., nella parte in cui “non prevede che, dopo
la notificazione o l'esecuzione dell'ordinanza che dispone una misura cautelare personale,
il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di
conversazioni intercettate, utilizzate ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare,
anche se non depositate358.
Come precedentemente accennato, il d.d.l. 1415, aggiungendo due nuovi commi
all'art. 268 c.p.p., è intervenuto anche nella procedura di acquisizione e selezione del
materiale intercettato: il comma 6-bis vieta lo stralcio di registrazioni e verbali prima del
deposito in segreteria.
Il comma 6-ter dispone che, scaduto il termine per il deposito, il pubblico
ministero trasmetta immediatamente i verbali e le registrazioni in tribunale, e non più al
giudice delle indagini preliminari, che fissa la data dell'udienza camerale per la
acquisizione delle conversazioni che non appaiano “manifestamente irrilevanti”.
Lo stesso tribunale, procede d'ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali
di cui è vietata l'utilizzazione.
La soluzione proposta è simile a quella prospettata dal d.d.l. Mastella: anche
quella era basata su un “doppio filtro”, ma il “secondo” potere di scelta era affidato al
giudice per le indagini preliminari.
358 Corte Cost., sent. 10 ottobre 2008, n. 336, con commento di L. KALB, Solo l’ascolto del “captato”
assicura un pieno diritto di difesa, in Guida al diritto, 2008, 43, p. 59
155
Il nuovo comma 7 dell'art. 268 c.p.p. stabilisce che il tribunale, qualora lo ritenga
necessario ai fini della decisione, dispone la trascrizione integrale delle conversazioni
acquisite, da inserire nel fascicolo del dibattimento; in questo caso, i difensori, possono
liberamente estrarne copia.
Le registrazioni custodite nell'archivio riservato devono essere conservate fino
alla sentenza definitiva, e successivamente distrutte con verbalizzazione delle operazioni.
Nonostante tale previsione, è facoltà degli “interessati” di presentare, a tutela della
propria privacy,
istanza di immediata distruzione al tribunale che ha autorizzato o
convalidato l'intercettazione.
Il quadro normativo così delineato va completato con il riferimento all'art. 329 bis
c.p.p., che introduce uno specifico obbligo del segreto per le intercettazioni.
La norma in questione prevede che i verbali, le registrazioni e i supporti relativi
alle conversazioni custoditi nell'archivio riservato, siano sempre coperti da segreto.
Originariamente, il d.d.l. Alfano prevedeva l'interpolazione dell'art. 329 c.p.p.,
con l'estensione dell'obbligo del segreto,
non agli atti di indagine, ma,
ben più
genericamente “all'attività di indagine”.
Parallelamente si modificava l'art. 329 comma 2, sulla procedura di
desegretazione, disponendo che, qualora fosse necessario per la prosecuzione delle
indagini, il p.m.
potesse chiedere al giudice l'autorizzazione alla “pubblicazione di
singoli atti o di parti di essi” e che, in tal caso, gli atti pubblicati fossero depositati presso
la segreteria dello stesso p.m.
In linea teorica, una simile scelta meriterebbe apprezzamento, ove la si consideri
come un tentativo di estendere la giurisdizione di garanzia alla fase delle indagini
preliminari. Resta comunque il fatto che una simile previsione impegnerebbe il giudice in
valutazioni che attengono la strategia difensiva, poiché la decisione sul segreto di atti o
porzioni di attività, è una leva di cui oggi il pubblico ministero dispone per migliorare
l'efficacia delle indagini359.
L'intervento di riforma presenta significative novità in tema di sanzioni penali: in
359 V. MAFFEO, La riforma in itinere, cit., p. 511
156
risposta alla blanda disciplina sanzionatoria prevista nel codice, che si sostanzia nella
“stucchevole prassi dei versamenti per oblazione”, una sorta di tassa che i giornalisti
pagano quando sussiste l'occasione di sfruttare informazioni riservate, il d.d.l. inasprisce
notevolmente le pene, incidendo tanto sugli artt. 684 e 379 bis c.p., quanto sull'art. 115
c.p.p.
Più specificatamente, l'art. 379 bis c.p. prevede pene severe, da uno a cinque anni
di reclusione, per i pubblici ufficiali che rivelino illecitamente il contenuto di atti o
documentazione del procedimento penale coperti da segreto; se il delitto è colposo, la
reclusione è fino ad un anno.
La norma in esame appronta una tutela penale fondata sull'accesso “qualificato”
ad atti del procedimento penale, in termini di specialità rispetto all'art. 326 c.p., che
invece riguarda più in generale la rivelazione e l'utilizzazione dei segreti d'ufficio.
Il CSM ha espresso una valutazione positiva della fattispecie così delineata, in
quanto diretta a rafforzare la tutela della segretezza delle indagini, che costituisce
condizione indispensabile per la buona riuscita delle investigazioni, e, al contempo, tutela
la dignità delle persone che, a diverso titolo, sono in esse coinvolte.
Al contempo, però, il CSM ha criticato l'introduzione della rilevanza penale della
condotta suddetta in caso di “colpa”: una previsione siffatta non tiene conto delle note
condizioni di lavoro dei magistrati e del personale amministrativo, determinate da
carenze d'organico e strutture inidonee360.
Si interviene poi a riformulare l'art. 684 c.p.: pur senza mutarne la natura
contravvenzionale, si prevede un sensibile innalzamento delle pene per la pubblicazione
di atti di un procedimento penale, o in caso di violazione dei divieti di cui all'art. 114
comma 6-ter, introducendo altresì un'aggravante specifica nell'ipotesi in cui la
pubblicazione riguardai intercettazioni, con la pena da uno a tre anni.
Nella sua formulazione originaria era previsto l'arresto fino a sei mesi, “e”
un'ammenda, non più alternativa, bensì congiunta alla pena detentiva, precludendo così la
possibilità di estinguere il reato con la richiesta di oblazione.
360 CSM, Parere su d.d.l. 1415 del 2008, cit.
157
Le polemiche suscitate dalla previsione suesposta hanno spinto il Governo ad una
vistosa retromarcia, ripristinando così il precedente massimo edittale di pena, trenta
giorni di arresto, e soprattutto l'alternatività tra pena detentiva e pecuniaria.
Allo stesso modo, l'Esecutivo ha drasticamente ridotto la pena “aggravata” per la
pubblicazione di intercettazioni: non più da uno a tre anni di arresto, ma un massimo di
trenta giorni oltre il limite edittale previsto.
Se la condotta di cui sopra è posta in essere da impiegati dello Stato o altri enti
pubblici, ovvero da persone esercenti una professione per cui sia richiesta un'apposita
abilitazione, si configura anche l'illecito disciplinare di cui all'art. 115 c.p.p.
Il comma 2 della disposizione in esame stabilisce a carico della procura
procedente, un obbligo di informazione all'organo detentore del potere disciplinare, che
potrà disporre la sospensione cautelare sino a tre mesi.
Sul punto è stato evidenziato come la sanzione non sarebbe applicabile ai
giornalisti, in osservanza dell'art. 58 legge n. 69 del 1963, sull'ordinamento professionale,
che impedisce al competente organo l'adozione di qualsiasi provvedimento prima della
conclusione del processo.
Il CSM ha giudicato non condivisibile la misura in esame, in quanto “appare
avulso dal sistema processuale introdurre previsioni inerenti ai procedimenti disciplinari
riguardanti diverse categorie professionali nel corpo del codice di procedura penale, cui
spetta l'univoca ed esclusiva disciplina del procedimento penale”.
Inoltre, col chiaro intento di reprimere ogni abuso, il d.d.l. Alfano ha introdotto
nel d.lgs n. 231 del 2001 una specifica forma di responsabilità amministrativa degli enti
in relazione alla violazione dell'art. 684 c.p.
La sanzione correlata prevede una pena pecuniaria da 250 a 300 quote: ciò
significa che, nelle ipotesi più gravi, le aziende potrebbero essere tenute a versare circa
465.000 euro361.
L'entità della sanzione pecuniaria ipotizzata rischia di interferire fortemente sui
rapporti tra editore e direttore del giornale, determinando l'imposizione, o addirittura la
361 F. ABBRUZZO, con il ddl intercettazioni tramutato in legge,cronaca giudiziaria destinata a
scomparire, in Guida al diritto, 2008, 40, p. 107
158
precostituzione, da parte della proprietà di limitazioni o vincoli per il direttore stesso, tali
da indebolire fortemente, se non annullare, la sua autonomia nella conduzione del
giornale362.
Inoltre, la disposizione in esame non sembra sottrarsi a profili di
incostituzionalità: la responsabilità a carico degli editori per le scelte dei direttori e dei
giornalisti configura una forma di responsabilità oggettiva, di per sé incostituzionale,
salvo che la responsabilità dell'editore stesso sia ancorata ad una specifica colpa a lui
riferibile363.
L'art. 617 c.p.p è stato riformulato, prevedendo la reclusione da uno a tre anni, per
chiunque pubblichi intercettazioni di cui sia stata ordinata la distruzione, ovvero che
riguardino fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, e di cui sia stata pertanto
disposta l'espunzione.
Il provvedimento di riforma in esame, infine, introduce anche alcune modifiche
all'art. 8 legge n. 47 del 1948, c.d. legge sulla stampa, relativamente al procedimento di
rettifica di informazioni ritenute non veritiere o lesive della reputazione degli interessati,
diffuse attraverso trasmissioni radiofoniche, televisive, siti internet e stampa non
periodica.
Per i primi tre mezzi di divulgazione, la rettifica va effettuata entro quarantotto
ore dalla data di ricezione della richiesta.
Per la stampa: l'autore dell'articolo, o i direttori responsabili, provvedono a proprie
spese, alla pubblicazione su almeno due quotidiani a tiratura nazionale, indicati dalla
persone lese nella loro richiesta di rettifica, delle dichiarazioni o delle rettifiche di questi
ultimi, con idonea collocazione e caratteristica grafica, entro sette giorni dalla richiesta.
Sono approntate, infine, modifiche al codice della privacy, in particolare sul
profilo dei poteri sanzionatori del Garante, cui è consentito di imporre, a tutela della
riservatezza, la pubblicazione o la diffusione in una o più testate, della decisione con cui
si è accertata una violazione.
362 C.F. GROSSO, CHELI, parere pro veritate , cit. p. 19
363 C. MALINCONICO, A rischio il diritto di cronaca, se passassero le nuove norme, 2009, pubblicato su
www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti,p. 121
159
Il disegno di legge, sin dall'inizio, ha raccolto pesanti critiche e suscitato allarmi
da parte dei più disparati settori degli operatori di giustizia e dell'informazione, a causa
delle scelte discutibili che vi sono contenute364.
Nel d.d.l. n. 1638 del 2006, di iniziativa del ministro Mastella, complessivamente
un buon testo, c'era una norma che ridisegnava i limiti della cronaca giudiziaria: una
norma pessima, per contenuti e fattura. Nel d.d.l. n. 1415 del 2008, noto come d.d.l.
Alfano, complessivamente un testo assai opinabile, c'è una norma che ridisegna i limiti
della cronaca giudiziaria: una norma pessima, per contenuti e fattura, che di quella
“mastelliana” porta avanti, “affinandone i difetti”, il proposito politico365.
Infatti, il d.d.l. Alfano, come visto, introduce limiti alla cronaca giudiziaria ben
più rigorosi di quelli previsti dalla disciplina tutt'oggi vigente; il che, tradotto nella prassi,
significherebbe calare una “saracinesca giornalistica” sull'intera fase delle indagini
preliminari.366
In altri termini, se il disegno dovesse diventar legge, si determinerebbe uno
spazio, temporalmente molto ampio, durante il quale la pubblica opinione non potrebbe
saper nulla, assolutamente nulla, dell'attività di contrasto alla criminalità, della gestione
delle indagini, dell'attività degli organi di stato e tantomeno delle condotte delle persone
cui il reato è attribuito367.
Lo scopo “dichiarato” della riforma, si è già evidenziato, dovrebbe essere quello
di scongiurare gratuiti e grossolani attentati alla privacy dei cittadini, soprattutto se
estranei al procedimento368.
Il sospetto, però, è che la buona causa invocata per giustificare l'intervento
novellistico – scongiurare “gratuite” offese alla privacy – sia soltanto una maschera
maldestramente indossata nel tentativo di celare assai meno apprezzabili propositi369.
364 V. GREVI, La giusta disponibilità di Alfano sul decreto intercettazioni, in Il Corriere della sera, 7
luglio 2009, p. 36
365 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 101
366 V. GREVI, Sos per la cronaca giudiziaria, in Il Corriere della sera, 16 febbraio 2009, p. 22
367 G. ALTIERI, Non si potrebbe scrivere nulla anche in presenza di un arresto, 2009,pubblicato su
www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.35
368 Relazione del Ministro Alfano, Camera dei deputati, 30 giugno 1008, dal sito www.cameradeputati.it
369 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit., p. 102
160
Da qui il tentativo di rimandare la pubblicazione di tutti gli atti di indagine ad un
momento in cui, si presume, il precario e tumultuoso andamento delle indagini si sarà
placato.
Abbiamo già chiarito come una cronaca differita nel tempo, sia, di fatto, svuotata
di ogni significato e funzione.
Prescindendo per un istante dai molteplici dubbi di legittimità costituzionale di un
disegno di legge che, in caso di approvazione costituirebbe l'eclissi del diritto di cronaca
giudiziaria, risulta, quantomeno poco verosimile che un sistema tanto restrittivo trovi
effettivamente riscontro ed applicazione nella prassi.
Il rischio è che si possa favorire la formazione di canali privilegiati di notizie, con
una grave degenerazione del costume giudiziario e giornalistico: si infittirebbe la trama
delle indiscrezioni, accorti cronisti potrebbero eludere i divieti ricorrendo a velate
formule del tipo “da ambienti bene informati si è appreso che” e così via. Il risultato,
dunque, potrebbe essere non un'informazione che divulghi un minor numero di notizie,
bensì un'informazione giudiziaria che, fatalmente, fornisca notizie meno trasparenti e
meno attendibili370 .
La sensibile estensione del divieto di pubblicazione anche agli atti non più coperti
da segreto, farebbe tornare indietro di molti anni, all'epoca di vigenza del codice Rocco, e
bisognerebbe invece far tesoro di quella fallimentare esperienza371.
Ma l'aspetto più preoccupante, se la riforma dovesse essere approvata, è che la
cronaca risulterebbe quasi completamente estromessa dalle vicende giudiziarie, con un
gravissimo danno per il diritto dell'opinione pubblica ad essere informata su fatti di
rilevanza penale, e sul modo in cui operano i poteri pubblici 372, con conseguente, grave,
“pericolo per la tenuta dell'ordine democratico”373.
La cronaca giudiziaria è un servizio pubblico, che consente ai cittadini di
370 Ancora, G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit., p. 102
371 V. GREVI, Sos per la cronaca giudiziaria, cit. p. 22
372 C. BONINI, Si cerca di chiudere i conti con i poteri di controllo, 2009, pubblicato su www.odg.it, in
Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.43
373 E. FORTUNA, Giusto limitare le intercettazioni, ma non imbavagliare la stampa, 2009, pubblicato su
www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p. 99
161
conoscere chi, e per quale motivo, abbia eventualmente agito contro le leggi, e soprattutto
di “valutare la reazione dello Stato, la correttezza dell'esercizio della funzione giudiziaria
e dell'amministrazione della giustizia374.
Giurisdizione ed informazione operano oggi un reciproco controllo: ogni giorno i
mezzi di informazione passano sotto la lente di ingrandimento procedure e decisioni dei
magistrati, rivelandone ritardi, manchevolezze ed errori, mentre, pubblici ministeri e
giudici perseguono e sanzionano eccessi, distorsioni ed abusi dell'informazione che
ledono beni essenziali del cittadino, primi tra tutti quelli dell'onore e della reputazione375.
Queste considerazioni inducono a ritenere la soluzione normativa prospettata
inaccettabile sul piano dei principi costituzionali, ispirati al criterio della proporzionalità
e della necessità delle reciproche limitazioni.
La nuova disciplina, che praticamente impone un black out dell'informazione sino
alle soglie del dibattimento, appare costituzionalmente indifendibile, culturalmente
regressiva e destinata all'ineffettività376.
Le stesse considerazioni, ampiamente sviluppate nel paragrafo precedente,
relative alla necessità di rinvenire per il d.d.l. Mastella l'interesse costituzionalmente
garantito e antagonista col diritto di cronaca, possono essere, sinteticamente ribadite per il
d.d.l. n. 1415.
L'interesse salvaguardato dal d.d.l. Alfano non si può certamente ricercare nella
volontà di proteggere il libero convincimento del giudice da condizionamenti mediatici:
paradossalmente, infatti, con la riforma in esame si allenterebbe la rigida morsa del
divieto di pubblicazione di atti di indagine con l'avvio della fase dibattimentale, proprio
quando il rischio condizionamento si fa concreto ed attuale.
Allo stesso modo, l'interesse antagonista non può rinvenirsi nell'intento di evitare
la diffusione di notizie processualmente irrilevanti, in quanto, per tale esigenza, è
appositamente delineato un sofisticato meccanismo di selezione delle conversazioni
374 L. DEL BOCA, L'informazione è essenziale alla difesa delle istituzioni, 2009,pubblicato su
www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.73
375 N. ROSSI, Giustizia e informazione:poteri infedeli, poteri nemici?, in Questione giustizia, 2008,
Giuffrè, p. 113
376 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 103
162
rilevanti.
Neanche la tutela della privacy potrebbe giustificare una siffatta compressione del
diritto di cronaca, posto che, come evidenziato, tanto la Corte Costituzionale, quanto la
Corte di Strasburgo, lo abbiano considerato “cedevole” rispetto alla pubblica trasparenza
dell'informazione giudiziaria.
A tal proposito, si evidenzia come il d.d.l. Alfano sia in palese contrasto con le
indicazioni fornite dalla Corte europea nella sentenza Dupuis: d'altronde, volgendo lo
sguardo alle tradizionali democrazie europee, non vi sono altri tentativi così severi di
tacitare la stampa in un ambito cruciale come quello della giustizia penale377.
Dopo oltre sette mesi di attesa nei cassetti della Commissione giustizia di
Montecitorio, il d.d.l. n. 1415, presentato alla Camera il 30 giugno 2008, ha ricevuto, nel
febbraio 2009, un'improvvisa accelerazione del suo itinerario, venendo approvato quale
testo base dalla suddetta commissione in sede referente, anche sulla scorta di vari
emendamenti, giungendo, infine, all'esame dell'assemblea il 23 febbraio 2009.
Nel nuovo provvedimento è stato presentato un maxiemendamento sostitutivo di
23 articoli rispetto al testo presentato in Commissione giustizia, su cui il Governo ha
posto ed ottenuto la fiducia della Camera.
Le modifiche apportate, recependo sia le indicazioni introdotte durante l'esame in
sede referente, sia gli emendamenti approvati dal Comitato dei nove, hanno “lievemente”
ammorbidito le previsioni relative al divieto di pubblicazione, e le sanzioni connesse alla
loro violazione, ma senza placare le proteste dei giornalisti e degli editori.
Fermo restando il divieto di pubblicazione degli atti coperti da segreto, il punto di
riferimento cronologico per tutti gli altri documenti diventa la conclusione delle indagini
preliminari o dell'udienza preliminare: fino a quel momento, degli atti non più coperti da
segreto è consentita la sola pubblicazione per riassunto, salvo che per le intercettazioni
che non possono essere pubblicate, né integralmente, né per riassunto, né per contenuto.
Il rischio del carcere per i giornalisti che violano i nuovi divieti di pubblicazione
377 A. KONIG, Ddl viola i principi di libertà di stampa, Italia fuori da democrazia europea,
2009,pubblicato su www.odg.it, in Ddl Alfano: se lo conosci lo eviti, p.43
163
permane “solo” per l'ipotesi di divulgazione di materiale del quale sia ordinata la
distruzione, in quanto irrilevante o espunto dal procedimento, perchè concernente fatti,
circostanze o persone estranee alle indagini.
Dopo l'approvazione da parte della Camera dei deputati, il 12 giugno 2009 il
provvedimento è approdato Commissione giustizia del Senato, in sede referente.
Il 10 giugno 2010, in un clima estremamente teso, contrassegnato dalla dura
reprimenda del Sen. Li Gotti ( Idv ), e dall'uscita dall'aula di tutti i senatori del PD, il
Governo ha ottenuto la fiducia sul d.d.l. Alfano, con 164 voti favorevoli e 25 contrari,
dopodiché il testo, con le modifiche apportate, è tornato alla Camera, ma non è stato
ancora oggetto di esame e votazione.
Prima di arenarsi per le violente proteste politiche e dei rappresentanti della
stampa, al testo in esame era stato attribuito lo “sprezzante” appellativo di “legge
bavaglio”, dell'informazione;
la si descriveva come una legge “illiberale posta a
salvaguardia della casta di governo, teorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i
giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza”,378 o ancora “tentativo liberticida della
stampa”379, finalizzata a “difendere la privacy del potere”380.
Non si sta sostenendo che l'auspicata riduzione dell'area del divieto di
pubblicazione ci metta di per sé al riparo dal rischio che la cronaca giudiziaria possa
essere talvolta approssimativa, scandalistica, servile, lacunosa, allarmistica. Ma ciò che
bisogna avere sempre chiaro è che sarebbe nefasto pensare di migliorare l'esercizio del
diritto di cronaca imponendogli ulteriori restrizioni.
L'unico serio antidoto ad una informazione inadeguata, o peggio manipolatrice, è
un'informazione libera e plurale; occorre garantire il pluralismo delle faziosità.
Perché i mali della libertà di stampa – e ce ne sono di gravi – si curano soltanto
per via omeopatica: con incrementi ulteriori della stessa libertà381.
“La sola cosa più importante del rendere giustizia, è il vedere come il giudice la rende”382.
378 E. MAURO, Il perchè di una pagina bianca, da www.repubblica.it
379 E. SCALFARI, Lo spettro del bavaglio e della deflazione, da www.repubblica.it
380 R. SAVIANO, Legge bavaglio, ecco perchè fermarla, da www.repubblica.it
381 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 107
382 F. CORDERO, Procedura penale, cit. p. 1138
164
Da questa premessa si sarebbe dovuto muovere il legislatore nei vari tentativi di
riforma sin qui evidenziati; invece, purtroppo, “è andato lungo”, 383 e non ha saputo
resistere ad uno slancio emotivo, tipico di questa democrazia emozionale in cui viviamo.
E così, in un decennio caratterizzato da numerosi casi di cronaca giudiziaria che
hanno riempito pagine di giornali e palinsesti televisivi, si è avvertita, sempre più forte in
politica, l'esigenza di apprestare tutela al diritto ad “essere lasciati soli”, al diritto alla
privacy.
Quello che il legislatore non ha saputo, o in alcuni casi non ha voluto, affrontare
nei “necessari” progetti di riforma, è il delicato problema del bilanciamento tra interessi
garantiti, propendendo invece per un tendenziale sacrificio del diritto di cronaca, a
beneficio, rispettivamente, delle esigenze processuali e del diritto alla riservatezza.
Quello che il legislatore ha, invece, “dimenticato” è che esistono delle “istruzioni
per l'uso”, fornite dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Strasburgo, a cui attenersi.
In tempi recentissimi, il “polverone mediatico” prodotto dallo scandalo “P4”, e
dalle intercettazioni di numerose conversazioni tra esponenti politici e imprenditori, con
la mediazione del lobbista Luigi Bisignani, arrestato dalla Procura di Napoli il 15 giugno
2011, ha, inesorabilmente, riportato a galla la mai sopita crociata del Governo in carica
contro le intercettazioni, e soprattutto contro la loro pubblicazione.
Così, il giorno successivo alla Relazione del Garante in Parlamento, in cui il Prof.
Pizzetti, intervenendo sulla “pornografia del dolore” in riferimento ad un certo
sciacallaggio mediatico sulle vicende di Avetrana e Brembate, pur stigmatizzando
duramente taluni eccessi, ha raccomandato al legislatore di “evitare risposte d'impeto, che
potrebbero danneggiare la struttura democratica della Società”, si è registrato un brusco
“ritorno di fiamma” per la legge bavaglio.
Infatti, il 24 giugno 2011, prima il ministro degli Esteri Franco Frattini, poi il
Ministro della Giustizia Angelino Alfano, hanno evidenziato la necessità di tornare sulla
strada intrapresa col d.d.l. n. 1415 del 2008.
La sensazione diffusa è che si voglia approfittare - sulla scia emotiva di alcune
383 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007
165
clamorose vicende che hanno visto i mass media gremirsi di verbali di intercettazioni
telefoniche - per “sterilizzare la funzione della cronaca giudiziaria”384.
Non si nega la necessità di intervenire sulla disciplina della divulgabilità degli atti;
ma per farlo, sarebbe necessario e sufficiente prevedere che le conversazioni intercettate
restino segrete, non già fino al deposito, ma fino a quando il giudice non abbia
selezionato in contraddittorio quelle rilevanti. Dopodichè, basterebbe precisare che le
irrilevanti rimangono coperte dal segreto per estendere automaticamente anche ad esse il
divieto di pubblicazione di cui all'art. 114 comma 1 c.p.p., che appunto concerne gli atti
coperti dal segreto, prevedendo altresì la soppressione dei commi 2 e 3385.
Si delineerebbe così, una scelta chiara e costituzionalmente ineccepibile,
spazzando via, in un settore delicatissimo come quello del diritto di cronaca, tutte quelle
zone grigie di “semisegretezza”, in cui prosperano l'arbitrio e le connivenze386 .
384 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007
385 G. GIOSTRA, I mali della libertà, cit. p. 102
386 G. GIOSTRA, XIX Convegno nazionale tra gli studiosi del processo penale, Milano 5-7 ottobre 2007
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