Al Presidente dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri
Di ……
oggetto: richiesta presa di posizione dell’Ordine su art. 92 D. Lgs. 196/2003
Caro Presidente
chiediamo che il Consiglio dell’Ordine si pronunci e, eventualmente, prenda tutte le
necessarie iniziative rispetto alla possibile vanificazione del segreto professionale determinato dalla
applicazione, ormai realizzatasi in almeno due sentenze, dell’art. 92 del D. Lgs. 196/2003.
Come tutti sappiamo, in base all’art. 10 del Codice Deontologico (CD) il segreto professionale
consiste nel dovere del medico di “mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui
venga a conoscenza nell’esercizio della professione”. Nel CD e nella tradizione medica, tuttora
riconosciuta dall’art. 200 del Codice di Procedura Penale, tale diritto/dovere si spinge a prevedere
che “il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze inerenti il segreto
professionale” (art. 10 CD). La prescrizione di tale comportamento risale all’antico e civile concetto
che ogni persona ha diritto a stare, per così dire, “dalla propria parte”, almeno quando sono in gioco
la sua vita, la sua salvezza (fisica, psichica o spirituale), la sua libertà. Tale diritto resterebbe sulla
carta se non si concretizzasse nella garanzia di potersi rivolgere liberamente, sinceramente e senza
conseguenze negative, a professionisti o “ministri del culto” che si pongono, secondo la felice
espressione di un avvocato bresciano, come l’estensione professionalmente avvertita dell’io
dell’interessato. Solo questa interpretazione può infatti spiegare la facoltà di non collaborare ad una
indagine penale in cui il magistrato ha certamente il diritto e il dovere di acquisire tutti i possibili
elementi utili a raggiungere le prove. E ciò non certo per sua curiosità ma a tutela della vittima oltre
che della giustizia. Ma, da sempre, il medico curante, viene percepito dalla persona che a lui si
rivolge, e anche dagli altri, come “di parte” e non come “imparziale” rispetto ad altri soggetti. Ed è
solo questa percezione che consente al paziente di “confidarsi”, come certamente non farebbe in
altre circostanze, senza timore di essere “tradito”. Il segreto professionale si configura perciò come
una fattispecie ben diversa dal segreto d’ufficio, citato all’art. 326 del Codice penale (CP). In base a
questo articolo, infatti, è perfettamente possibile trasferire qualsiasi informazione pertinente ad altri
impiegati della pubblica amministrazione, a loro volta obbligati al segreto, primi fra tutti i
magistrati. In questa trasmissione può essere irrilevante la volontà o l’interesse particolare
dell’individuo perché, al contrario, prevalgono l’interesse generale o l’equidistanza tra diversi
legittimi interessi. Il riconoscimento del segreto professionale ex art. 200 del CPP, dovrebbe
permettere, invece, unicamente a chi esercita le professioni sopra citate, di tutelare l’interesse della
persona anche quando è in conflitto con quello di altri o dello Stato, al punto da potersi rifiutare di
testimoniare in giudizio.
Purtroppo l’art. 92 del citato D. Lgs. 196/2003 sembra però aver annullato ogni distinzione tra
segreto professionale e segreto d’ufficio. Tale articolo prevede infatti la possibilità di accedere alla
cartella clinica, o all’acclusa scheda di dimissione ospedaliera, anche da parte di soggetti diversi
dall’interessato e dei suoi rappresentati legali, e anche contro la sua volontà, a fronte di una
documentata necessità di:
1. far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria di rango pari a quello dell’interessato
ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale
e inviolabile;
2. tutelare , in conformità alla disciplina sull’accesso agli atti amministrativi, una situazione
giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell’interessato.
In sostanza:
1. quello che viene confidato al medico non verrà da lui riferito nemmeno all’autorità
giudiziaria;
2. il medico però lo riporterà in cartella;
3. la cartella sarà accessibile, anche contro la volontà dell’interessato, proprio ai soggetti che
hanno interessi presumibilmente in conflitto con i suoi.
Come tutto ciò possa riflettersi, in concreto, sullo “status” della coppia medico-paziente è
dimostrato da almeno due recenti pronunce della magistratura.
Nel primo caso il Consiglio di Stato, con decisione n. 6681/2006, ha confermato il diritto del marito
di una paziente in cura presso il Dipartimento Salute Mentale dell’ASL di Salerno ad ottenere copia
della cartella clinica della moglie (che rifiutava il consenso) per utilizzarla in una causa di
annullamento del matrimonio.
Nel secondo caso il TAR Calabria, con sentenza 1059 /2007, ha disposto l’esibizione dei verbali
della Commissione ex lege 104/1992 ad una collega della moglie del paziente che lo richiedeva per
verificare la legittimità del trasferimento da quest’ultima ottenuto.
In entrambi i casi viene, tra l’altro, citato l’art. 60 del decreto, che riguarda in generale l’accesso ai
dati sensibili ma senza alcun riferimento alla particolare situazione del segreto professionale. E ciò
a buon diritto, dato che l’art. 92 lo ricalca in pieno. In altre parole, il medico è attualmente, in tutto
e per tutto, considerato alla pari, per esempio, del Maitre d’Hotel o del Concierge, al corrente del
diabete o dei comportamenti sessuali a rischio dei loro clienti per motivi gastronomici o alberghieri.
E’, a nostro giudizio, evidente il cambiamento rispetto alla situazione giuridica ancora adombrata
sia dall’art. 200 del CPP sia da altre norme, come la legge 309/90 sugli stupefacenti (art 120), o la
legge 135/90 sull’infezione da HIV . In queste norme, infatti, gli atti medici sembrano ancora essere
considerati “di parte” e, quindi, la relativa documentazione sembra rimanere sostanzialmente
“proprietà” dell’interessato, a cui sembra garantita la totale confidenzialità. Nell’attuale versione del
D. Lgs. 196/2003, al contrario, la cartella clinica (che, per definizione, deve avere scopi
prevalentemente clinici) appare non più come la documentazione di atti medici volti alla cura del
singolo paziente ma come un atto pubblico utilizzabile da chiunque ne abbia interesse legittimo. Il
cambiamento ha particolare rilevanza per chi si occupa di patologie croniche evolutive o di
patologie del comportamento o che riconoscono determinati comportamenti come fattori di rischio.
Si immagini per esempio con quale tranquillità una persona con problemi mentali potrà rivolgersi
ad uno psichiatra dopo aver saputo della sentenza sopra citata. O come uno dei tanti mariti
insospettabili con comportamenti sessuali a rischio potrà chiedere di sottoporsi a controlli nel corso
di un ricovero sapendo che ciò potrà essere utilizzato dal coniuge per dimostrare la sua infedeltà. O
come potrà un professionista colpito da infarto dopo l’assunzione di una sostanza illegale fornire
una anamnesi veritiera al cardiologo dell’UCC evitando inutili approfondimenti.
A nostro giudizio tutto ciò non porta, in concreto, ad una maggior tutela dei legittimi diritti e
interessi di terzi ma solo a ritardi ed errori diagnostici, alla pericolosa autogestione di problemi che
dovrebbero e potrebbero essere affrontati con i propri medici di fiducia e alla trasformazione del
segreto professionale in un privilegio per i pochi che sanno come aggirare la norma. Non per nulla
anche in un regime autoritario come quello in cui fu emanato il codice Rocco, non solo non si mise
in discussione il segreto professionale nemmeno nel caso di “delitti contro la stirpe” (come allora
era considerato l’aborto) ma si garantiva addirittura la possibilità di accedere in anonimato ai
cosiddetti centri dermo-celtici.
Chiediamo pertanto che il nostro Ordine valuti l’opportunità di riaprire, in tutte le sedi, ordinistiche
e politiche, a livello nazionale e locale, il dibattito sulla possibile incongruità dell’attuale
legislazione con il corretto rapporto medico-paziente, anche promovendo iniziative in
collaborazione con altri Ordini e con il coivolgimento diretto dei cittadini.
Ringraziamo per l’attenzione e porgiamo cordiali saluti
Firma
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