Sulle fonti del diritto dell`economia in proSpettiva Storica di Antonio

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Sulle fonti del diritto dell’economia
in prospettiva storica
di Antonio Padoa-Schioppa
1. In queste pagine dedicate a Piergaetano Marchetti – un giurista e uno studioso di alto profilo, un amico vero sin dagli anni ormai lontani dell’infanzia – vorrei prospettare alcune valutazioni di ordine generale sul sistema delle
fonti storiche del diritto commerciale. Lo storico a mio parere non ha veste
per dare lezioni né tanto meno per diagnosticare il futuro, anche se qualche
storico queste tentazioni le ha avute. Ma la storia aiuta a capire la realtà passata
e presente; e capire il presente è la condizione per agire bene e quindi per preparare adeguatamente il futuro.
Le osservazioni che seguono hanno come motivo conduttore un unico
punto: la compresenza e la correlazione che nel diritto dell’economia (non solo
in esso, ma certo anche in esso) si può riscontrare tra le quattro fondamentali categorie di fonti del diritto: la consuetudine, la giurisprudenza, la dottrina, la legge. Forse non è così banale interrogarsi su queste relazioni perché non
sempre c’è stata e neppure oggi sempre vi è, nei giuristi, la consapevolezza di
tale compresenza, mentre in realtà questi elementi in misura diversa, in modi
diversi, con esiti diversi, noi li ritroviamo quasi costantemente fin dall’inizio
della storia del diritto commerciale e sino a oggi, anche con riferimento alle
vicende e agli sviluppi recenti, che si sogliono denominare come fenomeni di
globalizzazione.
Per un’introduzione generale alla storia del diritto commerciale ci limitiamo a indicare le opere di sintesi di Galgano, Francesco (2001), Lex mercatoria, storia del diritto commerciale, Bologna, Il Mulino; Hilaire, Jean (1986), Introduction historique au droit commercial, Paris,
Presses Universitaires de France; Schmoeckel, Mathias (2008), Rechtsgeschichte der Wirts chaft
seit der 19. Jahrhundert, Tübingen, Mohr Siebeck, nonché i saggi di chi scrive, Padoa-Schioppa, Antonio (1992), Saggi di storia del diritto commerciale, Milano, LED Edizioni Universitarie; e Piergiovanni, Vito (ed.) (2005), From lex mercatoria to commercial law, Berlin, Duncker
& Humblot («Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History», 24).
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Potremmo adottare la metafora del quartetto: le fonti del diritto sono quattro; e se per il diritto comerciale il primo violino deve ravvisarsi nella consuetudine, lascio alla fantasia di chi legge di indicare qual è il secondo violino,
quale la viola, quale il violoncello… magari si scambiano i ruoli nel corso del
tempo, come diremo tra breve.
2. Le consuetudini che poi sono diventate il contenuto, la polpa del diritto
commerciale – le lettere di cambio, le società di persone e di capitali, i libri di
commercio, le assicurazioni sui trasporti, le norme di diritto marittimo privato, le procedure fallimentari, le regole processuali semplificate – sono nate
in Italia, come strumenti della vita economica e giuridica dei mercanti italiani del Medioevo, dal XII secolo in poi. E si sono propagate in tutto il mondo
di allora.
La consuetudine è un fenomeno affascinante anche perché ha due proiezioni, due ruoli che possono sembrare divergenti se non addirittura opposti. Da
un lato essa è atta a mantenere nel tempo, anche per secoli e talora per millenni, identità e tradizioni: tradizioni locali, oppure di ceto, oppure di etnia,
oppure di ambienti sociali particolari, come gli ambienti alpini o rurali. D’altro lato – e questo vale in modo particolare per il diritto dell’economia e degli
scambi – la consuetudine è un elemento di unificazione del diritto, perché una
determinata consuetudine giuridica che si riveli appropriata a rispondere ai
bisogni della vita economica si propaga lungo le vie stesse dei traffici e delle
merci: se in certo momento storico si formano più consuetudini che hanno la
stessa finalità, ma una tra queste si rivela la più funzionale, alla prova dei fatti,
cioè della vita, questa prevale e le altre scompaiono. La consuetudine nei rapporti commerciali con le sue valenze di propagazione ha conosciuto in passato
successi clamorosi e mi limito a citarne uno solo: a differenza del diritto romano comune, rimasto fondamentalmente estraneo al common law, essa ha conquistato il diritto inglese. Il law merchant degli inglesi non è stato altro, per
secoli, se non la traduzione locale, attuata in corti speciali, delle consuetudini
mercantili introdotte nell’Isola dai mercanti italiani.
Non meno degno di nota è il carattere dinamico della consuetudine nel
diritto dell’economia. Essa evolve nel tempo e per rispondere a esigenze nuove
si configura via via in modo diverso, talora su un tessuto precedente consuetudinario, talora anche modificando assetti legislativi preesistenti. Citiamo solo
un esempio, tra i tanti possibili, in tema di società commerciali. Nell’Italia
del Settecento risulta viva una prassi che sembra contraddire la struttura stessa
dell’accomandita: troviamo infatti la testimonianza di società di questo nome
nelle quali vi erano bensì soci accomandanti, esclusi dalla gestione e responsabili nei limiti del loro apporto, ma nessun accomandatario, sostituito da un
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mandatario-institore. In tal modo si realizzava, in maniera assai più semplice
rispetto alle società per azioni istituite con privilegio sovrano e allora rarissime,
una forma precoce di società a responsabilità limitata, in quanto l’institore era
responsabile dei suoi atti di gestione, ma non illimitatamente responsabile dei
debiti della società al pari dell’accomandatario.
La consuetudine si identifica in un concreto comportamento giuridicamente rilevante e ripetuto nel tempo, ma spesso incorpora fin dall’origine, quando
si tratta di rapporti che presuppongono regole di una certa raffinatezza tecnica, anche elementi che derivano dalla cultura giuridica. Non sapremo mai chi
nell’Italia dei comuni ha avuto per primo l’idea geniale di inventare una forma
documentale atta a garantire pagamenti in monete diverse su piazze diverse
così da evitare il pericoloso e oneroso trasporto della moneta metallica: la lettera di cambio è divenuta uno strumento di credito che ha conquistato il mondo.
Certamente alla sua creazione hanno cooperato un mercante e un notaio.
Il notariato ha avuto un peso enorme nel disegnare le caratteristiche giuridiche delle compagnie, delle colleganze, delle lettere di cambio, della disciplina dei libri di commercio e così via, strumenti nuovi, ignoti al diritto romano.
Cruciale nella funzione di mediatore di cultura giuridica, il notaio agisce quindi molto presto, ben prima dell’età in cui all’elaborazione della nuova e ormai
fiorente branca del diritto darà un iniziale apporto uno dei principi della cultura giuridica del Trecento, Baldo degli Ubaldi.
Chi ritenesse esaurito o in via di esaurimento il ruolo della consuetudine
nel diritto odierno dell’economia sarebbe del tutto fuori strada. Gli usi non
hanno mai cessato di costituire una fonte basilare del diritto commerciale. La
formazione e l’affermazione di consuetudini nuove non si sono interrotte neppure nell’età delle codificazioni. E tanto meno oggi: basti pensare alle forme
contrattuali nuove, non ricomprese nei codici, alle trasformazioni imponenti delle transazioni mobiliari, alla proteiforme moltiplicazione degli strumenti di credito. Attraverso i moduli contrattuali, attraverso gli statuti delle società di persone e di capitali, vengono continuamente introdotte e sperimentate
nuove regole, nuove prassi, nuove clausole dirette a incentivare la produzione,
gli scambi, le funzioni di controllo e di garanzia. Una parte di esse si consolida
Ciò risulta con chiarezza dalle Osservazioni al Codice di commercio […] pel Regno d’Italia, Milano 1807, indirizzate al Governo napoleonico sul Progetto curato da Giuseppe Stefani
per impulso del ministro della giustizia Giuseppe Luosi, poi abortito quando Napoleone impose anche per l’Italia il Code de commerce; si vedano in particolare le osservazioni delle Camere
di commercio di Mantova (p. 226), Reggio Emilia (p. 216) e Modena (p. 314), contrarie alla
norna del Progetto Stefani che rendeva obbligatoria nelle accomandite la presenza di almeno
un socio illimitatamente responsabile.
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in forma di consuetudini. E di queste una parte viene a un certo punto codificata in forma di legge o di regolamento.
3. La giurisprudenza ha svolto essa pure nel tempo un ruolo di grande rilievo nello sviluppo del diritto commerciale. Anche su questo versante le origini sono remote, coeve rispetto a quelle delle consuetudini che diedero vita al
nuovo diritto. Una delle ragioni fondamentali che spiegano come nel Medioevo si sia potuto formare un ramo del diritto privato distinto dal civile e specifico per le attività del commercio e dell’artigianato sta nel regime delle corporazioni professionali e di mestiere, alle quali spettava la giurisdizione per le
controversie di cui fossero parte i propri membri. Era una giurisdizione speciale, composta da giudici originariamente scelti tra i membri stessi delle corporazioni e perciò estranea alle regole e alle procedure ben più complesse della giustizia ordinaria. I mercanti e gli artigiani giudicavano ex bono et aequo, sulla
base della loro esperienza, richiamandosi alle consuetudini del mondo degli
affari, che per parte sua proprio la giurisdizione corporativa contribuì in misura spesso decisiva a consolidare.
Da quando il nuovo ramo del diritto cominciò a fare parte del patrimonio della cultura giuridica intrecciandosi con le fonti e le dottrine del diritto
comune, anche la giurisprudenza commerciale venne gestita, al livello più elevato, da giuristi di formazione dotta. Se a Perugia nella seconda metà del Trecento il grande Baldo, già ricordato, si dichiarava «avvocato della mercanzia»,
è evidente che le questioni e le controversie mercantili di rilievo non potevano
ormai più fare a meno del formidabile strumento costituito dalle argomentazioni dotte. E si spiega così il fatto che l’autorevolissima Rota istituita nel Cinquecento a Genova, una città centrale per l’economia commerciale e bancaria d’Europa, fosse composta da giuristi di alta reputazione reclutati da altre
città, quali Sigismondo Scaccia. Le loro decisioni furono citate e utilizzate largamente non solo a Genova e non solo in Italia. E così pure le decisioni della
Rota fiorentina, ove fu attivo un altro autore tra i maggiori della giurisprudenza commerciale, Ansaldo Ansaldi.
Quanto al diritto inglese, quel grandissimo giudice che fu Lord Mansfield
operò nel Settecento un innesto fondamentale incorporando una serie di prinBaldus de Ubaldis, Commentaria in quartum et quintum Codicis libros, a Cod. 4. 18. 1 de
constituta pecunia, Lugduni 1585, fol. 39 a.
Piergiovanni, Vito (a cura di) (1987), The Courts and the Development of Commercial
Law, Berlin, Duncker & Humblot («Comparative Studies in Continental and Anglo-American Legal History», 2).
Marcus Antonius Bellonus, Decisiones Rotae Genuae de mercatura, Francofurti, 1592,
repr. Goldbach 1997.
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cipi del law merchant, fino a quel momento estranei al diritto giurisprudenziale
delle Law Courts regie, nel corpo principale del common law. È singolarmente
istruttivo vedere l’assoluta semplicità con cui il Chief Justice ha deciso in alcune sentenze di portata storica che un certo principio o una certa regola, complementari o magari contrastanti rispetto al common law, potevano essere fatti
propri dalle Corti di Westminster. Con l’autorità che gli veniva evidentemente riconosciuta, Lord Mansfield (lo dichiara egli stesso) soleva ascoltare i commercianti londinesi e si faceva spiegare da loro le cose, quelle famose cose che
poi non sono mai «cose», sono diritto. Se le faceva spiegare; e se convinto della
loro funzionalità le trasfondeva poi nelle sue decisioni. Per esempio troviamo
in una famosa decisione del 1765 la proposizione seguente: «odierni mores are
such that the old notion about nudum pactum is not strictly observed as such:
fides servanda est». Come si vede, non sono soltanto le consuetudini commerciali in senso tecnico a essere incorporate, ma anche principi antiformalistici quale è quello della buona fede e quello del patto nudo, che derivavano dalla
conoscenza, anch’essa ben viva in Lord Mansfield come in altri giudici inglesi,
del diritto civile e canonico del continente.
Non meno rilevante è stato ed è tuttora il ruolo della giurisprudenza commerciale nei Paesi di civil law. Anche in essi si è verificato, nel corso dell’era
ormai bisecolare delle codificazioni, un processo di trasmigrazione dalle giurisdizioni speciali alla giurisdizione ordinaria, in prima istanza come pure nelle
istanze d’appello e in Cassazione. E questo già prima dell’abolizione dei tribunali di commercio avvenuta in Italia nel 1888. Tanto più incisivo è questo ruolo in un’età di crescente incertezza del diritto, nella quale spesso solo le
linee relativamente stabili della giurisprudenza consolidata offrono elementi di
riferimento affidabili per gli operatori e per i giuristi.
Talune sentenze, taluni giudici particolarmente esperti in materia commerciale, taluni tribunali hanno prodotto giudicati che si sono poi consolidati in
virtù di conformi decisioni successive di merito e di legittimità. E non meraviglia di rilevare che non di rado queste decisioni hanno recepito, implicitamente o esplicitamente, indirizzi innovatori avanzati da una parte della dottrina
negli anni precedenti.
Inoltre va sottolineata l’importanza delle decisioni della Corte di giustizia
europea: in Europa molte linee fondamentali del diritto dell’economia degli
ultimi decenni sono state tracciate da alcune sentenze della Corte di LussemBaker, John H. (20024), An Introduction to English Legal History, London, Butterworths
LexisNexis, pp. 50; 85; 191; 203; 351.
Pillans v. Van Mierop, in English Reports, vol. 97, p. 1040, London 1900-1932; riedito in
anastatica, Abingdon (Oxfordshire) 1979.
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burgo, a cominciare da quelle sul primato e sulla diretta applicazione del diritto
comunitario all’interno di ciascuno degli Stati membri dell’Unione europea.
Anche qui è interessante rilevare quanto semplici e lineari siano le argomentazioni adottate dai giudici per queste decisioni di portata storica.
4. La dottrina giuridica, nella veste dimessa ma efficace dell’attività notarile, è presente come si è visto sin dall’inizio della vita del diritto commerciale. Si è anche già visto come dalla fine del Medioevo in avanti, con Baldo dapprima e poi con altri teorici e trattatisti, essa abbia accompagnato lo sviluppo
delle regole concernenti il commercio e l’economia. E come la stessa dottrina
si sia inserita autorevolmente nell’esercizio della giurisdizione: è caratteristico
che nel Quattrocento un grande commentatore quale Paolo di Castro rivendicasse con vigore polemico la piena adeguatezza dei giuristi dotti a pronunciarsi
sulle questioni mercantili, criticando la convinzione, evidentemente diffusa tra
i mercanti, che la loro più semplice e spedita giustizia corporativa dovesse ritenersi preferibile10.
D’altronde sin dalla fine del Medioevo ormai le cause commerciali importanti erano discusse con l’apporto di avvocati e di consulenti di formazione
dotta ed esigevano pertanto un adeguato livello tecnico e culturale anche nei
giudici.
Alcune tra le opere più influenti della dottrina commercialistica moderna,
tra Cinque e Settecento, sono il frutto della raccolta di trattazioni forensi preSulla diretta applicazione del diritto comunitario si veda la Sentenza della Corte di Giustizia van Gend & Loos cr. Amministrazione olandese delle imposte del 5 febbraio 1963 (causa
26/62), in Mengozzi, Paolo (1994), Casi e materiali di Diritto comunitario, Padova, Cedam,
p. 283; sul primato del diritto comunitario, Corte di Giustizia europea Sentenza Finanze cr.
Simmenthal del 9 marzo 1978 (causa 106/77), in Mengozzi, Paolo, Casi e materiali di Diritto
comunitario, cit., p. 329.
Alla base della decisione 26/62 del 1963 vi è l’affermazione secondo la quale «il diritto
comunitario attribuisce ai singoli, accanto agli obblighi, anche dei diritti soggettivi», in quanto il preambolo del trattato «oltre a menzionare il governo, fa riferimento ai popoli».
Nella decisione 106/77 del 1978 il principio della preminenza del diritto comunitario sul
diritto interno e il divieto di approvare nuove norme statali contrastanti con quelle comunitarie vennero giustificate dichiarando semplicemente che fare il contrario «equivarrebbe a negare
il carattere reale di impegni incondizionatamente e irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità».
10
Paolo di Castro denunciò la presunzione dei mercanti «qui faciunt se magistros aequitatis et contemnunt legistas dicentes quod vadunt per cavillationes et ipsi per aequitatem»; invece, osserva Paolo, i dotti conoscono che cosa sia l’equità molto meglio di quanto i mercanti sappiano cosa è il rigore, perché i primi hanno dalla loro non solo la natura ma anche l’arte,
mentre i secondi proferiscono spesso sentenze inique per presunzione (Paolo di Castro, Commentaria ad Digestum vetus, a Dig. 1. 1. 1. de iustitia et iure, l. iuri, n. 9, Lugduni ,1550).
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sentate da giuristi per casi specifici: allegazioni, consulti, talora anche decisioni
delle quali il relatore rende nota la motivazione pubblicando la relativa decisio:
così per i Discursus legales de commercio di Ansaldi, già citato, così per l’opera di egual titolo pubblicata nel primo Settecento dal genovese Lorenzo Maria
Casaregis; mentre altri scritti dati alle stampe, quali i ben noti Trattati di Benvenuto Stracca, di Sigismondo Scaccia o di Raffaele Turri nascono con l’intento di dare veste sistematica e facilmente utilizzabile a una serie di regole e di
questioni prima disperse e non coordinate.
Un ruolo via via crescente è stato svolto dalla dottrina anche nella legislazione commercialistica. Alla prima organica consolidazione statale del nuovo
diritto, promossa con l’Ordonnance du commerce del 1673 per volontà di JeanBaptiste Colbert, diede come si sa un apporto determinante un mercante parigino particolarmente colto e preparato, Jacques Savary. Il Code de commerce
del 1807, il primo vero codice commerciale moderno, fu l’opera di una Commissione presieduta da un giurista già membro della Costituente e poi giudice d’appello, Joseph Gorneau, ma vi cooperarono attivamente il presidente del tribunale di commercio Pierre Vignon e il commerciante Vital Roux; e
vi pose il suo sigillo, come per gli altri codici, il Consiglio di Stato, ove sedevano giuristi non universitari di grande valore (Jean-Jacques Régis de Cambacérès, Jean-Baptiste Treilhard, Antoine Merlin, Félix Bigot de Préameneu)
ma anche uomini sensibili alle esigenze dell’economia come Michel Louis
Etienne Regnaud, Emmanuel Cretet, Jacques François Begouen, Jacques Claude Beugnot, Louis, che con i primi ebbero in più occasioni motivi di contrasto
quanto alle scelte legislative del nuovo codice di commercio11.
Nel corso dell’Ottocento e poi nel Novecento le ulteriori codificazioni commercialistiche videro la partecipazione via via più intensa e attiva di professori universitari. Vorrei rammentare qui un autore che aveva l’umiltà di ascoltare
«il diritto che viene su dalle cose» (non sempre i giuristi ascoltano, ma quando
lo fanno in genere lavorano meglio). Forse il testo fondamentale dell’Ottocento sulla cambiale è il libro di Karl Einert, pubblicato a Lipsia nel 183912. Einert
è il primo giurista teorico che ha dato una veste concettuale precisa al concetto dell’astrattezza dell’obbligazione cambiaria, valida indipendentemente dal
fatto che sia dichiarata la causa, purché formalmente corretta. È un principio
che sarà recepito al livello legislativo appena nove anni più tardi, nella Wechselordnung tedesca del 1848. Studioso probo e preciso, Einert nella prefazione
del suo libro dice: questo concetto, che sta alla base del mio trattato, non lo ho
Padoa-Schioppa, Antonio, Saggi di storia del diritto commerciale, cit., pp. 66-78.
Carl Einert, Das Wechselrecht nach dem Bedürfnis des Wechselsgewschäfts, Leipzig, 1839,
repr. 1969.
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desunto dalle opere di diritto dei professori, bensì dalla pratica dei commercianti, i quali mi hanno mostrato come nelle loro transazioni già si avvalgano della lettera di cambio come di una forma diversa di moneta. In effetti questa concezione dell’astrattezza esalta la circolazione del titolo cambiario quale
strumento efficace del credito e degli scambi. Qui abbiamo un esempio molto
evidente di come nel diritto commerciale si intreccino la prassi, la dottrina e la
legislazione, tutte e tre necessarie e tra loro complementari: senza una adeguata elaborazione concettuale non è sufficiente la prassi, e a entrambe si allaccia
la legislazione, perfezionando così questo strumento del credito e degli scambi
che è la moderna cambiale.
Per il codice di commercio germanico del 1861 fu decisivo l’apporto di
Levin Goldschmidt, professore a Heidelberg, pioniere tra l’altro degli studi
sulle origini italiane e medievali del moderno diritto commerciale, protagonista tra i maggiori anche della prima fase della codificazione civilistica che
sboccherà nel BGB di fine secolo.
Influente fu anche l’opera dell’altro maggiore studioso del diritto commerciale dell’Ottocento tedesco, Heinrich Thöl, e di altri professori in occasione
della nuova redazione commercialistica tedesca del 1897. In Italia, nella preparazione del codice di commercio del 1882, fu rilevante l’apporto di quel giurista straordinario, attivo in ogni campo del diritto – dal pubblico al privato, dal
penale all’internazionale – che fu Pasquale Stanislao Mancini. E nei decenni successivi fu determinante in ogni campo del diritto commerciale l’opera
del maestro riconosciuto degli studi commercialistici, Cesare Vivante. Peraltro, quanto alle riforme legislative in tema soprattutto di società commerciali,
Vivante non riuscì mai – nonostante la partecipazione autorevole a molte commissioni e il coordinamento a lui affidato nel 1922 di un pregevole progetto di
codice di commercio che porta il suo nome – a far prevalere le sue posizioni,
per esempio in tema di sindacati azionari, da lui avversati senza successo: troppo forte si rivelò la pressione degli interessi organizzati del mondo degli affari, favorevoli al mantenimento delle regole ormai tradizionali, a essi gradite (lo
rilevò lo stesso Vivante) come «un comodo abito usato». Ma, alla fine, la tesi
di Vivante sull’opportunità di unificare i due codici privatistici – enunciata sin
dal 1889-92, anche se più tardi da lui abbandonata – finì per prevalere.
Altri professori ebbero grande peso nell’iter legislativo del Novecento italiano: in particolare fu importante il ruolo rivestito nel trentennio, dal 1910 al
1942, da Antonio Scialoja e da Alberto Asquini per molte delle scelte legislative in tema di diritto commerciale marittimo, per le società per azioni e per
altri istituti commercialistici.
L’unificazione dei due codici di diritto privato in un unico codice civile,
decisa nel 1940, ha tra l’altro determinato l’estensione al diritto civile di una
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serie di norme sui contratti più snelle e funzionali, nate all’interno del diritto commerciale: è il fenomeno ben noto della «commercializzazione del diritto
civile», già rilevata e auspicata da giuristi quali Vivante e Ripert.
L’importanza della dottrina commercialistica è legata, se non vediamo
male, alla necessaria compresenza nei suoi più autorevoli esponenti di due elementi collegati ma distinti: da un lato, una genuina comprensione dei meccanismi e delle dinamiche del mondo dell’economia e degli affari, in assenza della quale le teorizzazioni del giurista risultano astratte, sfocate, irrilevanti,
quando non inique o addirittura inapplicabili; dall’altro lato, un’impostazione
teorica che non si appiattisca né su tesi aprioristicamente ostili al libero commercio, né su tesi acriticamente favorevoli al mondo degli affari e ai suoi specifici interessi: in quanto esistono nella società, accanto all’esigenza di favorire
gli scambi, anche altri interessi che possono risultare in concorrenza e talora in
conflitto con i primi. Forse qui sta la ragione del ruolo crescente della miglior
dottrina universitaria nella legislazione commercialistica dell’ultimo secolo: in
quanto proprio la condizione di indipendenza che lo status accademico non
impone ma certo consente, rende possibile ai suoi migliori esponenti di elaborare soluzioni normative non solo tecnicamente corrette, ma anche equilibrate in entrambe le direzioni che abbiamo appena menzionato. E questo è
tanto più vero a partire dall’età nella quale (come ha rilevato Georges Ripert13)
l’estensione del suffragio ha introdotto nei parlamenti delle moderne democrazie forze e interessi sociali in conflitto tra loro, che si scontrano appunto sul
terreno della legislazione.
5. La legislazione commerciale risponde anzitutto a una funzione di consolidamento rispetto a consuetudini ormai diffuse e accettate dalla comunità degli
operatori economici. Ma anche in questo passaggio, che pure «viene su dalle
cose» (per usare la celebre espressione con la quale Cesare Vivante apre il suo
classico Trattato di diritto commerciale), se resta vero che ex facto oritur ius, è
altrettanto vero che quel fatto è già frutto di cultura giuridica al livello della
consuetudine, come si è visto, e tanto più lo diviene nel momento in cui viene
trasferito al livello legislativo.
Troviamo molto presto alcuni di questi istituti nuovi disegnati anche a
livello normativo. È davvero istruttivo leggere il Costitutum usus: siamo poco
dopo la metà del XII secolo e già vi troviamo disegnata con grande precisione
tutta una serie di istituti tipicamente commercialistici, dalle società agli istituti del diritto marittimo14.
Ripert, Georges (19512 ), Aspects juridiques du capitalisme moderne, Paris, LGDJ .
Pisa, Constitutum usus (1160), in Vignoli, Paola (a cura di) (2003), I Costituti della legge
e dell’uso di Pisa (sec. XII), Roma.
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Ma se il legislatore cittadino, fin dall’età delle origini di questa nuova branca del diritto, ritenne utile mettere in chiaro e formalizzare legislativamente il
diritto dei commerci, una ragione ci sarà stata. Anzi, probabilmente, una serie
di ragioni: consolidare alcune consuetudini, renderle palesi anche nei confronti di soggetti esterni e per affari conclusi lontano dalla città, risolvere questioni
rimaste incerte o non ancora affrontate dalle curie mercantili, mettere le nuove
regole al riparo dalla concorrenza della normativa romanistica, enormemente
dilatata nelle sue valenze e applicazioni dall’opera novatrice delle prime generazioni di glossatori.
Se guardiamo alla storia della legislazione commerciale moderna – mi riferisco in particolare al diritto dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale – scopriamo che molte innovazioni legislative sono il frutto di un attento
esame della coeva legislazione straniera. Per esempio nelle leggi speciali francesi dell’Ottocento in materia di commercio il modello adottato è quasi sempre
il modello inglese: ciò è verificabile per gli chèque, per i magazzini generali,
per il pegno commerciale, per l’ipoteca navale, per le vendite all’asta, per i piccoli fallimenti e così via15. Informatissimi e attenti a tutte le innovazioni legislative dei singoli Stati europei sono anche i giuristi tedeschi dell’Ottocento.
Un fenomeno analogo a quello che vede a confronto diverse consuetudini si
svolge anche al livello della legislazione. Non è un caso che oggi uno dei capisaldi del diritto comunitario sia costituito dal principio della concorrenza tra
norme. Il disegno originale di chi aveva avviato l’unione economica europea –
anzitutto Jean Monnet, con Pierre Uri, Walter Hallstein e altri padri dell’Europa comunitaria – era di creare una cornice legislativa valida per tutti, uniforme, seguendo il modello che aveva adottato nell’Ottocento la Germania con
lo Zollverein: in Germania l’unificazione del diritto dell’economia aveva preceduto e favorito l’unione politica, e così i creatori del mercato comune, fautori di un’evoluzione degli Stati europei verso una struttura federale, auspicavano potesse accadere anche in Europa. Solo alcuni decenni più tardi, nel corso
degli anni Ottanta del Novecento, si è affermata una visione meno rigida del
ruolo della legislazione uniforme come paradigma necessario per il mercato
unico. Si è riconosciuto che possono convivere norme diverse nei diversi Stati
dell’Unione; e che può essere positivo far sì che esse in un certo senso vengano poste in concorrenza tra loro. E questo anche in coerenza con il principio di
sussidiarietà.
Quando si condanna la legislazione come uno strumento coartante l’autonomia dei singoli e dei gruppi e come una espressione di centralismo statualizzante – una critica certamente giustificata nei confronti della patologica iper15
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Padoa-Schioppa, Antonio, Saggi di storia del diritto commerciale, cit., pp. 82-88.
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trofia legislativa del Novecento – si tende talora a dimenticare un elemento che
a mio avviso è di grande rilievo: bisogna sempre distinguere – nel diritto commerciale in modo particolare, ma anche in altri campi del diritto, con l’ovvia
esclusione delle norme penali – tra norme cogenti e norme derogabili. Imperativa e cogente è solo la norma alla quale non si può contrastare, a pena di
sanzioni diverse che possono prevedere anche la nullità di accordi o clausole
contrattuali con essa contrastanti; quando il legislatore decide che quel determinato principio non può essere modificato per volontà dei privati, formula
la sua norma, la sua disciplina con queste caratteristiche. Ma una grandissima parte della legislazione economica, nel passato come ancora oggi, non ha
questa forma. Il legislatore disegna certe regole, che sono (o dovrebbero essere…) il frutto dell’esperienza, e che quasi sempre costituiscono la recezione di
consuetudini; ma le parti possono, se lo vogliono, disciplinarsi diversamente.
In tutti questi casi il legislatore fa tesoro dei risultati della pratica, ma anche
di elaborazioni concettuali e di scelte di politica del diritto compiute in base a
valutazioni di interessi e di valori da disciplinare, non tali tuttavia, quanto alla
soluzione legislativa adottata, da far ritenere necessario di renderle cogenti. È
un compito tra i più interessanti e difficili della dottrina distinguere, nei casi
in cui ciò non risulti chiaro dal dettato normativo, se una disposizione di legge
sia imperativa ovvero derogabile.
La funzione della legislazione, anche nella parte dispositiva e non imperativa, è dunque di grande rilievo nel diritto commerciale. Nel passato, a sostegno
dello strumento legislativo – per entrambe le valenze appena richiamate – ha
giocato un ruolo importante anche l’obbiettivo della certezza del diritto. Oggi
siamo in un mondo nel quale il livello di non certezza del diritto ha raggiunto vertici che trovano un precedente analogo forse solo nella condizione di crisi
del diritto di fine Settecento, che portò al crollo di quel glorioso monumento
che è stato per secoli il diritto comune.
Un paradosso sta nel fatto che proprio la legislazione, che due secoli orsono ha costituito lo strumento principale per rendere più certo il diritto, ormai
è divenuta una della cause principali dell’attuale condizione di crisi della certezza. Questo spiega anche il rilievo crescente assunto dalla giurisprudenza, in
quanto sulla linea tracciata dalle pronunce dei giudici, che pure conosce contrasti, evoluzioni e svolte, è possibile recuperare non pochi elementi di certezza e di continuità.
Sino a non molti anni fa la prevalente dottrina riteneva che la legge dovesse costituire la principale se non l’unica fonte del diritto; nel diritto commerciale questo principio è stato anche codificato. Quest’epoca è finita: perché si è
ormai preso atto che la marginalizzazione o la negazione degli usi e della consuetudine non hanno mai rispecchiato la realtà. Il legislatore può affermare
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quello che vuole, ma gli usi nel mondo dell’economia non li abolisce di certo.
E oggi giustamente si torna a rivalutare anche la funzione insostituibile del
pensiero giuridico e della giurisprudenza.
Attenzione però a non smarrire, avendo afferrato un capo della fune, l’altro capo. Crediamo giusto sottolineare che la funzione della legislazione non
è affatto finita, né essa può venire sottovalutata. Il mercato è una creazione
dell’uomo, una creazione artificiale nel senso in cui usavano questa parola i
giusnaturalisti, in quanto esso non può funzionare senza regole. Queste costituiscono la precondizione perché il mercato possa funzionare correttamente, sprigionando senza far danni quei famosi spiriti animali che certo giovano
all’economia e al benessere collettivo. Ma, in assenza di un minimo di regolamentazione, gli spiriti animali trasformano la vita associata in una brutale contesa senza regole nella quale vincono i più potenti e prepotenti, non i migliori dal punto di vista della qualità e dei servizi offerti. Ecco allora la necessità
delle regole che, al livello più formale e cogente, sono il prodotto della legge.
Quando si sono create le ferrovie in Europa, nel corso dell’Ottocento, si è
visto che il contratto di trasporto, se non fosse stato regolato in modo nuovo
a livello legislativo, avrebbe messo nelle mani dei padroni delle ferrovie – che
tra l’altro non erano ancora statali, ma private – strumenti coercitivi formidabili, perché chi le gestiva esercitava, quanto al trasporto delle merci deperibili,
un vero e proprio monopolio. Fu allora che si introdussero nel codice commerciale tedesco e poi nel codice nostro del 1882 alcune norme inderogabili che,
tra l’altro, vietavano alle due parti di convenire forme di attenuazione della
responsabilità del vettore, per esempio quanto al deterioramento o ai termini
di consegna della merce. Alcuni elementi di inderogabilità nella disciplina del
contratto e del mercato ci vogliono, anche se in base ai principi di libertà essi
vanno per quanto possibile limitati: perché ci sono altri elementi da tenere in
conto accanto a quello della massima circolazione delle merci.
Più in generale, se è vero che una gran parte della legislazione economica
ha costituito in passato e tuttora costituisce la traduzione normativa di consuetudini ormai affermate, è altrettanto vero che un’altra parte di essa è costituita
da norme che deliberatamente sono mirate a modificare o ad annullare comportamenti consuetudinari ritenuti dal legislatore negativi, ovvero a imporre
standard qualitativi alla produzione e alla distribuzione nell’interesse del consumatore. Ed è su questo terreno e con questi intenti che vedono la luce le
norme inderogabili.
Al livello europeo – pur tenendo presente quanto sopra ricordato sulla concorrenza tra norme – un ruolo centrale è svolto dalle regole sovranazionali
comuni: non è un caso se il corretto funzionamento del mercato unico è in larga
misura determinato dai trattati, dai regolamenti e dalle direttive a livello euro-
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sulle fonti del diritto dell’economia in prospettiva storica
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peo. Questo è vero per una serie di istituti fondamentali, a cominciare dalla concorrenza. Quanto a quella forma particolare di normazione che sono le direttive, essa presenta un doppio volto, che ne costituisce l’originalità. Da un lato
esse lasciano un grande spazio alle peculiarità nazionali perché fissano i principi che poi ogni Stato può realizzare in modo diverso all’interno dell’ordinamento nazionale. Dall’altro lato, nella fissazione di tali principi le direttive sono tassative, cioè si ispirano a un modello di legislazione imperativa e cogente che non
può essere derogata se non nei limiti in cui le direttive stesse lo consentono.
La globalizzazione dell’economia e del diritto non costituisce un fenomeno
nuovo. La globalizzazione c’era già nel Mediterraneo; c’è chi ha ipotizzato che
la commenda dei comuni italiani del XII secolo sia stata introdotta addirittura dagli arabi; in ogni caso c’erano già nel Medioevo scambi e consuetudine
di rapporti economici e giuridici anche con popoli al di fuori della cristianità,
in particolare con l’Islam: Giulio Vismara ne ha studiato in anni ormai lontani le caratteristiche16. A maggior ragione questo vale oggi, quando il mercato è
ormai mondiale: molte consuetudini, anche relative a settori di recente sviluppo, per esempio nel settore dei prodotti e dei mercati finanziari, si sono ormai
affermate ovunque. E non sorprende che anche al livello legislativo vi siano
alcune normative, come quelle sulla cambiale o quelle sulla vendita internazionale, dotate a loro volta di vigenza e applicazione a livello mondiale.
6. Ognuna delle quattro categorie di fonti che abbiamo richiamato è a sua
volta dotata al proprio interno di una pluralità di dimensioni e di quinte, che la
rendono poliforme e complessa. Consuetudini innovative, consuetudini secundum legem, contra legem, praeter legem; consuetudini che viaggiano e consuetudini locali, per così dire di villaggio o «di piazza»; consuetudini di lunga durata e consuetudini con vita breve.
Giurisprudenza di pratici e giurisprudenza dotta, sentenze di routine e decisioni che segnano una svolta epocale. Dottrine di analisi esegetica e dottrine
dotate di impulso riformatore; note di commento a decisioni, opere di sistemazione, interventi dottrinali al servizio del legislatore. Legislazione al solo livello
statale o a più livelli, che esigono complesse regole di coordinamento: normazione corporativa, legislazione regionale, legislazione statale, legislazione sovranazionale europea, legislazione mondiale; leggi dispositive derogabili e leggi
imperative inderogabili, a ciascuno dei varii livelli normativi; leggi di sistemazione organica in forma di codice e leggi speciali; leggi di ricezione di consuetudini e leggi intese a modificare comportamenti in atto.
Vismara, Giulio (1974), Impium foedus: le origini della respublica christiana, Milano,
Giuffrè; Id. (1989), «Bisanzio e l’Islam. Per la storia dei trattati tra la cristianità orientale e le
potenze musulmane», in Scritti di storia giuridica, vol. 7, pp. 1-114.
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L’intreccio delle quattro fonti che abbiamo richiamato, ricche a loro volta di
tante diverse valenze e dimensioni, appare, in prospettiva storica, una costante del diritto commerciale. Ciò che varia nel tempo è il peso specifico di ciascuna di esse, non la loro compresenza. Il risultato di questo intreccio riflette il
rapporto, anch’esso instabile e mutevole nel tempo, tra le esigenze del commercio in senso lato e le altre esigenze presenti nella società. Se già nelle consuetudini e nelle normative delle corporazioni si realizzava un equilibrio tra interessi
diversi – tra il commercio internazionale e il commercio minuto, tra il credito e la produzione e così via – la conciliazione è divenuta ed è tuttora assai più
ardua allorché al livello legislativo, ma anche sul fronte dottrinale e giurisprudenziale, si vuol tenere in debito conto tutta una serie di elementi, quali sono
per esempio l’interesse dei consumatori per una concorrenza piena ed efficace, l’interesse della collettività e dei singoli per condizioni di lavoro non inique
e per la produzione di medicinali o di utensili non pericolosi, l’interesse dei
piccoli azionisti nei confronti dei grandi azionisti che controllano un’impresa,
l’interesse dello Stato per una corretta tassazione degli utili delle imprese.
Si tratta di interessi non di rado confliggenti con quelli dell’industria e del
commercio, che la legislazione tenta di comporre in equilibrio sulla base delle
forze politiche presenti nelle istituzioni, come pure per parte loro si sforzano
di farlo sia la dottrina nell’interpretazione delle norme sia la giurisprudenza
nella loro concreta applicazione. Ma a ben vedere è improprio ritenere che ciò
significhi soltanto tutelare e conciliare diversi interessi. Con riferimento agli
esempi appena citati, in effetti il benessere che si giova della concorrenza, i
servizi pubblici resi possibili dalla fiscalità sugli utili, la tutela del lavoro all’interno delle imprese, le garanzie di sperimentazione per nuovi medicinali, la
difesa del risparmio dei piccoli azionisti sono in realtà al tempo stesso interessi e valori. Una competizione corretta avvantaggia il consumatore quanto alla
qualità e al prezzo dei prodotti e dei servizi offerti, migliora dunque la qualità della vita, ed è perciò un valore. La solidarietà che è sottesa ai servizi pubblici (sanitari, scolastici e altri) assicurati al cittadino dalla fiscalità diretta e indiretta è un valore. Il bilanciamento tra gli interessi della produzione e quelli del
consumo è garanzia di libertà, giova alla collettività nel suo insieme ed è dunque un valore. E così pure le garanzie di sicurezza per il lavoratore e per il consumatore determinate dagli argini posti alla produzione dalla legge, rispettivamente, quanto alle condizioni nelle quali il lavoro si svolge e quanto alla non
nocività dei prodotti e dei servizi.
È su questo cruciale terreno, nel quale si incontrano, si scontrano e si intrecciano gli interessi e i valori, che il giurista di ieri, ma anche quello di domani,
ha svolto e dovrà svolgere – come interprete, come arbitro, come giudice, come
promotore di riforme legislative – entro il raggio mutevole ma reale della sua
autonomia, il suo non sostituibile compito.
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