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I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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CAPITOLO 1
I RAGGI X E LE METODICHE CORRELATE:
SEU
RADIOLOGIA TRADIZIONALE E TC
Francesco Giovagnorio
1. Le radiazioni ionizzanti e i raggi X
Una radiazione, in termini fisici, è un insieme di fenomeni che comporta trasferimento di energia da
un punto all’altro dello spazio, che può avvenire anche in assenza di qualsiasi mezzo (cioè, nel vuoto)
e che non comporta lo spostamento di quantità significative di materia. Sebbene tutte le radiazioni
cedano energia alla materia (per esempio, l’energia luminosa e termica), alcune di esse sono in grado
di cedere alla materia una quantità di energia sufficiente a ionizzarne gli atomi e sono pertanto definite
radiazioni ionizzanti.
Da un punto di vista fisico, le radiazioni ionizzanti si distinguono in elettromagnetiche e corpuscolate, ammettendo che le prime si trasferiscano senza alcun trasporto di materia (raggi x, raggi γ), mentre
le seconde siano costituite da particelle dotate di energia cinetica proporzionale al quadrato della velocità (elettroni, protoni, positroni, neutroni, particelle α) (Fig. 1); questa distinzione è in realtà superata,
in quanto ormai si ammette che ogni radiazione possa esibire comportamenti corpuscolari e ondulatori
a seconda delle diverse condizioni fisiche e materiali nelle quali si trova.
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Fig. 1 - Vari tipi di radiazioni ionizzanti
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
La distinzione più importante in Diagnostica per Immagini divide le radiazioni in naturali e artificiali:
le prime possono generarsi spontaneamente in natura (nei fenomeni di decadimento radioattivo di nuclei atomici instabili, che si trasformano in nuclei più stabili liberandosi dell’energia e/o delle particelle
in eccesso), mentre le seconde sono pressoché esclusivamente generate durante procedure tecniche
complesse. I raggi x, tanto fondamentali in Diagnostica per Immagini da aver costituito l’unica fonte
di energia per l’acquisizione di immagini diagnostiche per circa un secolo, sono l’esempio più tipico
di radiazione artificiale: sebbene possano essere generati nell’universo nel corso di particolari eventi
astrofisici, quelli presenti nell’ecosistema terrestre sono generati artificialmente.
SEU
2. Produzione dei raggi X
I raggi x e i raggi γ sono praticamente indistinguibili tra loro, in quanto assolutamente identici da un
punto di vista fisico: quello che li differenzia è l’origine, poiché i raggi γ originano nei nuclei degli atomi,
in seguito al decadimento nucleare e spesso come risultato della dissoluzione dell’energia di legame
delle particelle nucleari, mentre i raggi x originano dagli orbitali degli atomi, dove gli elettroni presenti
vengono influenzati, e spesso allontanati con conseguente ionizzazione, da fasci di elettroni accelerati,
dotati di notevole energia cinetica, generati artificialmente e “sparati” verso gli atomi bersaglio.
Quanto premesso porta a concludere che per generare raggi x è necessario produrre fasci di elettroni accelerati e “spararli” (cioè, direzionarli) verso determinati atomi bersaglio, possibilmente dotati di
un gran numero di elettroni (cioè, ad elevato numero atomico) per poter rendere più probabile l’interazione tra elettroni. Proprio di questo si occupa il cosiddetto tubo radiogeno.
Il tubo radiogeno (Fig. 2) è un’ampolla di vetro sotto vuoto spinto, contenente un polo negativo (o
catodo) e uno positivo (anodo, talvolta detto anche anticatodo), collegati da un circuito elettrico ad
alta tensione capace di generare una notevole differenza di potenziale tra i due. Il catodo contiene un
filamento metallico in grado di surriscaldarsi (per questo è attraversato da un circuito elettrico a bassa
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Fig. 2 - Schema di tubo radiogeno.
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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tensione), mentre l’anodo è costituito da un disco obliquo di tungsteno (o di molibdeno, o rodio), che
possiede le caratteristiche necessarie alla sua funzione: ha un alto numero atomico (fondamentale,
come si è detto, per le interazioni elettroniche) e un elevatissimo punto di fusione (fondamentale per
assorbire senza conseguenze la grande quantità di energia termica sviluppata durante il processo).
Il circuito a bassa tensione surriscalda il filamento del catodo, che emette elettroni per effetto termoionico; intorno al catodo si forma quindi una nube elettronica, attirata verso l’anodo dalla notevole
differenza di potenziale, così da trasformarsi in un fascio di elettroni ad alta velocità e notevole energia cinetica. Il fascio colpisce l’anodo e nell’impatto l’energia cinetica si trasforma per quasi il 99% in
energia termica e per circa l’1% in raggi x, attraverso l’interazione degli elettroni accelerati con quelli
orbitali del tungsteno.
Il disco di tungsteno che costituisce l’anodo è rotante, per evitare che gli elettroni ne colpiscano
sempre lo stesso punto, il che ne accorcerebbe notevolmente la vita.
Il tubo radiogeno è circondato da una guaina metallica riempita di olio dielettrico, con funzioni di
dissipazione di calore e schematura.
Il vantaggio principale del tubo radiogeno rispetto ad altri strumenti di produzione dei raggi x è la
modulabilità, cioè la possibilità, da parte dell’operatore, di intervenire per modificare quasi tutte le caratteristiche dei raggi x prodotti: aumentando il milliamperaggio (cioè, l’intensità della corrente elettrica,
espressa in mA) del circuito a bassa tensione che attraversa il filamento, si ottengono più elettroni e
quindi un “maggior numero” di raggi x; aumentando il chilovoltaggio (ovvero, la differenza di potenziale, espressa in kV) del circuito ad alta tensione tra il catodo e l’anodo, si aumenta l’energia cinetica
degli elettroni e quindi si producono raggi x più “energetici”, o, come si dice in gergo radiologico, più
“duri” (cioè, più penetranti).
La produzione di raggi x, che, come si è detto, avviene attraverso l’interazione degli elettroni accelerati con quelli orbitali del tungsteno, si verifica attraverso due fenomeni diversi (Fig. 3).
Nel primo, il più importante, gli elettroni accelerati passano in prossimità del nucleo del tungsteno,
ne subiscono l’attrazione e vengono rallentati, perdendo energia cinetica che viene emessa sotto forma di raggi x: si tratta della cosiddetta radiazione di frenamento (detta anche bremsstrahlung perché
originariamente descritta da autori tedeschi). Dal momento che il frenamento può avere diversa entità,
anche i raggi x prodotti in questo modo possono avere diversa energia: sono, cioè, distribuiti secondo
uno spettro continuo.
SEU
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Fig. 3 - Modalità di produzione dei raggi x. A sinistra, il fenomeno del “frenamento”,dovuto alla brusca decelerazione di un
elettrone per fenomeni di attrazione nucleare, con rilascio della variazione di energia cinetica sotto forma di fotone x; a destra,
il fenomeno della radiazione k, dovuta all’allontanamento di un elettrone dell’orbitale k ad opera di un “elettrone proiettile”,
con occupazione dell’orbitale libero ad opera di un altro elettrone, che cede la differenza di energia sotto forma di fotone x.
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
Nel secondo, accade che un elettrone accelerato colpisce un elettrone
dell’orbitale K, espellendolo dall’atomo
che si ionizza; la lacuna nell’orbitale K
è appianata con lo spostamento di un
elettrone da un orbitale esterno verso
l’orbitale K, transizione che è accompagnata dall’emissione di energia, pari
alla differenza delle energie di legame
degli elettroni coinvolti, sotto forma di
raggi x. Questa radiazione, detta caratteristica, o tipica, o radiazione K, può
ovviamente avere un’energia unica e
tipica (70 keV) e quindi rappresenta un
picco nell’ambito dello spettro dei raggi x prodotti dal tubo radiogeno (è cioè
una radiazione discreta e non continua) (Fig. 4).
SEU
Fig. 4 - Distribuzione dell’energia (spettro) dei raggi x prodotti da un
tubo radiogeno. La maggior parte dei raggi è generata per frenamento
e si distribuisce secondo una curva gaussiana, cioè in maniera continua; la parte generata per radiazione k occupa invece un unico picco in
corrispondenza di un valore univoco di energia.
3. Interazione dei raggi X con la materia
I raggi x generati dal tubo radiogeno, di quantità stabilita dall’operatore e di energia diversa (costituenti quindi un fascio policromatico di raggi x) vengono direzionati verso la materia da esplorare (nello
specifico, verso la materia vivente che costituisce organi ed apparati oggetto di studio). L’incontro dei
raggi x con gli atomi della materia vivente si sviluppa attraverso alcune forme di interazione caratteristiche, dipendenti dall’energia dei raggi
x (espressa in chiloelettronvolt o keV)
e di importanza fondamentale nel processo di formazione dell’immagine.
Effetto Thomson: si verifica con i
raggi x di minore energia (meno di 10
keV) ed è pertanto poco frequente. Il
raggio x è totalmente assorbito da un
elettrone, che però non acquista l’energia sufficiente ad allontanarsi dall’orbitale ed è costretto a cedere l’energia
assorbita all’ambiente, sotto forma di
raggio x con caratteristiche identiche
a quello assorbito ma con direzione di
propagazione diversa. Quindi non si
verifica ionizzazione dell’atomo ma, a
conti fatti, solo differente direzione di
propagazione del raggio x (Fig. 5).
Fig. 5 - Effetto Thomson. Con raggi X di energia inferiore a 10 keV, il
Effetto fotoelettrico: si verifica con
fotone incidente è totalmente assorbito da un elettrone, che non acquii raggi x di maggiore energia (meno di
sta però energia sufficiente per essere espulso dall’atomo e torna allo
25 keV), posseduta da buona parte del
stato iniziale emettendo energia come fotone X.
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I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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fascio di raggi x usati in diagnostica; si
tratta quindi di un effetto decisamente frequente. Il raggio x è totalmente
assorbito da un elettrone, che questa
volta acquista energia sufficiente per
allontanarsi dall’atomo, producendo
uno ione ed eventualmente provocando ulteriori fenomeni di ionizzazione
interagendo con altri elettroni. Quindi
si verifica ionizzazione dell’atomo e
scomparsa del raggio x (Fig. 6).
Effetto Compton: si verifica con i
raggi x di maggiore energia tra quelli
usati in diagnostica (oltre 25 keV) ed
è abbastanza frequente. Il raggio x è
totalmente assorbito da un elettrone,
Fig. 6 - Effetto fotoelettrico. Con raggi X di energia inferiore a 25 keV,
che acquista energia sufficiente per
il fotone incidente è totalmente assorbito da un elettrone di un orbitale
allontanarsi dall’atomo e rilascia nelinterno. Il fotone incidente scompare e l’elettrone acquista energia sufl’ambiente, sotto forma di raggio x, una
ficiente per essere espulso dall’atomo.
quantità di energia pari alla differenza
tra l’energia del raggio x assorbito e
l’energia sufficiente per allontanarsi dall’atomo. Quindi si verifica ionizzazione dell’atomo e produzione
di un nuovo raggio x, di energia inferiore all’originale e direzione di propagazione differente (Fig. 7).
Effetto coppia: non si verifica alle energie usate in radiodiagnostica, perché necessita di raggi x di
altissima energia (1022 keV o 1,02 MeV). Il raggio incidente trasforma la sua energia in materia, dando
vita ad un elettrone negativo e uno positivo o positrone (la quantità di energia necessaria per formare
un elettrone o un positrone è appunto 511 keV), che si allontanano in direzione diametralmente oppo-
SEU
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Fig. 7 - Effetto Compton. Con raggi X di energia superiore a 25 keV, il fotone incidente è totalmente assorbito da un elettrone di un orbitale esterno. L’elettrone acquista energia sufficiente per essere espulso dall’atomo ed emette l’energia residua
sotto forma di fotone X (di energia inferiore, quindi lunghezza d’onda superiore).
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
sta. L’effetto coppia, non riscontrabile
in radiodiagnostica, è tuttavia alla base
di una metodica diagnostica fondamentale, la Tomografia ad Emissione
di Positroni o PET (Fig. 8).
Risulta evidente che l’interazione
dei raggi x con la materia porta in tutti
i casi a deflessione o scomparsa dei
raggi x, che non proseguono il cammino iniziale ma, nella migliore delle
ipotesi, cambiano direzione, eventualmente continuando l’attraversamento
della materia su piani diversi, sino ad
emergere in punti anche molto distanti:
costituiscono, cioè, la cosiddetta radiazione diffusa. La radiazione di interesse
diagnostico, che emerge dalla materia
lungo l’asse iniziale di propagazione,
dove può essere rilevata e misurata, è
quella che non ha interagito con gli atomi della materia vivente e viene denominata radiazione trasmessa (Fig. 9).
SEU
Fig. 8 - Effetto coppia. Con raggi X di energia uguale o superiore a
1,022 MeV, il fotone incidente si annulla trasformandosi in un elettrone
(-) e un positrone (+), ciascuno dei quali ha massa di 511 keV.
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Fig. 9. Nell’attraversare la materia, i raggi X possono
annullarsi (per effetto fotoelettrico) o trasformarsi in
raggi con minore energia e direzione diversa (effetto
Compton); in nessuno dei due casi contribuiscono alla
formazione dell’immagine (radiazione diffusa). Gli unici
raggi X che contribuiscono attivamente alla formazione
dell’immagine radiologica sono quelli che attraversano
la materia senza interagine con essa (radiazione trasmessa).
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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4. Caratteristiche della materia e radiodensità
La materia, quindi, possiede delle caratteristiche che rendono più o meno probabile l’interazione
dei raggi x con gli atomi che la costituiscono: si può dire, in termini pratici, che maggiore è il “numero”
o la “grandezza” degli atomi della materia, maggiore è la probabilità che i raggi x interagiscano con
essi e quindi cessino di essere utili ai fini diagnostici, non facendo parte della radiazione trasmessa
ed andando a costituire quella diffusa. Le caratteristiche della materia che influenzano l’interazione
con i raggi x sono pertanto la densità (maggiore densità = maggior numero di atomi), lo spessore
(maggior spessore = maggior numero di atomi) e il numero atomico (più alto numero atomico = atomi
“più grandi”).
La differente presenza di queste caratteristiche in punti diversi della materia determina maggiore o
minore “attraversabilità” di essa da parte dei raggi x (dove un punto più “attraversabile” è uno nel quale
i raggi x hanno maggiori probabilità di essere “trasmessi” che “diffusi”): in altre parole, determina una
maggiore o minore radiodensità della materia, con i punti maggiormente radiodensi (o radiopachi)
in grado di “trasmettere” una bassa percentuale di raggi x (perché la maggior parte interagisce con gli
atomi) e i punti meno radiodensi (o radiotrasparenti) in grado di “trasmettere” la maggior parte del
fascio (perché la probabilità di interazione con atomi è bassa).
Il concetto di radiodensità è fondamentale in radiodiagnostica, perché la radiodensità è il parametro alla base della formazione dell’immagine radiografica, che può essere considerata una sorta di
“mappa” della radiodensità dei tessuti attraversati, espressa visivamente in livelli di grigio, con quelli
prossimi al nero indicanti radiotrasparenza e quelli prossimi al bianco radiopacità.
SEU
5. Rilevazione della radiazione trasmessa e pellicola radiografica
La radiazione trasmessa, non avendo interagito con la materia, fuoriesce dal punto diametralmente opposto a quello di ingresso, dove può essere rilevata e misurata se in quel punto si posiziona un
sistema di rilevazione. Misurando l’entità della radiazione trasmessa, il sistema permette di risalire alla
radiodensità del tratto di tessuto attraversato.
La pellicola radiografica è il sistema di rilevazione più usato sin dalla nascita della radiologia:
è in grado di tradurre le differenze di trasmissione dei raggi x, tra un punto e l’altro della materia, in
differenze di densità ottica (cioè di livelli di grigio) tra un punto e l’altro della sua superficie (Fig. 10).
Concettualmente non è dissimile da una pellicola fotografica: è costituita da una base di poliestere, con
funzione di supporto, e da due strati di emulsione, contenenti i granuli di alogenuto d’argento immersi
in una matrice di gelatina con funzioni di legante. I raggi x trasmessi colpiscono i granuli, formando ioni
argento, poi trasformati in argento metallico durante lo sviluppo; nella successiva fase del fissaggio
vengono eliminati dalla pellicola i granuli non esposti (Fig. 11). Alla fine, nelle zone colpite da maggior
radiazione trasmessa sarà presente nella pellicola un maggior numero di particelle d’argento, che,
essendo nere a causa del processo chimico, daranno vita ad un’area della pellicola che non lascia
filtrare la luce; dove la radiazione trasmessa sarà stata più scarsa, le particelle saranno in numero
minore, la maggior parte dei granuli saranno risultati non esposti e quindi lavati via durante il fissaggio
e l’area della pellicola lascerà filtrare una maggior quantità di luce. Ponendo la pellicola sviluppata,
ormai costituente un radiogramma, su un diafanoscopio, le aree più scure, che non lasciano filtrare la
luce, corrisponderanno alla materia più radiotrasparente, mentre quelle più chiare, che lasciano filtrare
la luce del diafanoscopio, corrisponderanno alla materia più radiodensa.
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
SEU
Fig. 10 - La pellicola radiografica ha il compito di tradurre le differenze di trasmissione dei raggi X in differenze di densità
ottica, ovvero in diversi livelli di grigio. Maggiore radiotrasparenza dei tessuti sovrastanti ciascun punto della pellicola (tonalità più scura) si traduce in una maggiore esposizione della pellicola, che quindi risulterà più nera.
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Fig. 11 - La pellicola radiografica è costituita da una base di poliestere, con funzione di supporto, e da due strati di emulsione, costituiti da gelatina e granuli di alogenuro d’argento. I raggi X colpiscono i granuli formando ioni argento, trasformati in
argento metallico durante lo sviluppo; durante il fissaggio, vengono eliminati dall’emulsione i granuli non esposti.
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6. Schermi di rinforzo, cassetta e griglie
La pellicola radiografica, in realtà, non è un sistema di rilevazione molto efficace, in quanto i granuli
di alogenuro d’argento sono molto più sensibili alla luce che ai raggi x: sarebbe quindi necessario un
maggior numero di raggi x per impressionare la pellicola in maniera adeguata, ma questo si tradurrebbe in una maggiore esposizione del paziente. La scoperta degli schermi di rinforzo ha permesso di risolvere efficacemente il problema: lo schermo di rinforzo è uno strato sottile a contatto con l’emulsione,
contenente fosfori che, colpiti dai raggi x, emettono radiazione luminosa, che colpisce poi i granuli della
pellicola formando un maggior numero di ioni argento e quindi un’immagine radiografica più visibile
anche con una bassa dose di radiazioni. E’ quindi corretto dire che non è la radiazione x trasmessa ad
annerire la pellicola, ma la luce proveniente dagli schermi di rinforzo (Fig. 12). La pellicola e gli schermi
di rinforzo sono contenuti in una struttura a scatola chiamata cassetta radiografica.
Avendo analizzato il percorso della radiazione trasmessa, dall’origine sino alla rilevazione su pellicola, è ora necessario accennare al destino della radiazione diffusa. I raggi x “spuri”, prodotti soprattutto per effetto Compton e Thomson, decorrono obliquamente all’interno della materia, fuoriuscendo
in punti anche distanti ed impressionando zone della pellicola lontane da quella di origine: per questo
motivo, la radiazione diffusa è un fattore di disturbo capace di alterare la rilevazione della radiodensità dei tessuti e va filtrata. Di questo si occupano le griglie antidiffusione, costituite da sottili lamine
metalliche, interposte tra paziente e cassetta durante l’esecuzione di esami nei quali si produce molta
radiazione diffusa (come la radiografia diretta dell’addome): la presenza di lamelle verticali blocca
qualsiasi radiazione a decorso obliquo (Fig. 13).
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Fig. 12. Lo schermo di rinforzo contiene fosfori che trasformano i raggi X in luce visibile, aumentando così la quantità di
granuli esposti da ogni singolo raggio X.
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
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Fig. 13 - La radiazione diffusa decorre obliquamente fino a raggiungere punti della pellicola lontani da quelli immediatamente sottostanti, determinando così una valutazione falsata della radiopacità. Prima dell’esecuzione di alcuni esami
radiografici nei quali il rischio di radiazione diffusa è maggiore (es. radiografia diretta dell’addome), il posizionamento di
una griglia metallica tra il paziente e la pellicola è utile per impedire alla radiazione diffusa di impressionare la pellicola.
7. La radiografia e il radiogramma
Il termine radiografia dovrebbe indicare la procedura (appena descritta) di formazione di un’immagine radiografica su pellicola, mentre quest’ultima dovrebbe essere denominata radiogramma, ma,
come spesso accade, la confusione tra produzione e prodotto ha portato all’identificazione di entrambe, nel linguaggio comune, con il termine radiografia (Tab. 1). Ancora più impropriamente il radiogramma è spesso chiamato lastra, termine ormai storico che risale a quando non esistevano i supporti di
poliestere delle pellicole, ma erano usate al loro posto delle lastre di vetro.
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Tabella 1 - Terminologia di impiego comune in radiodiagnostica.
Radiografia:
Radiogramma:
Esame radiografico:
Radioscopia:
procedimento deputato alla produzione di immagini radiologiche su pellicola.
immagine radiologica su pellicola.
valutazione completa di un organo o un apparato mediante procedure radiografiche.
procedimento deputato alla produzione di immagini radiologiche in movimento su schermo televisivo.
Serigrafia:
Teleradiografia:
acquisizione di numerose immagini radiografiche “in serie” per documentare un processo dinamico.
produzione di immagini radiologiche con distanza di almeno 1,5 m tra tubo radiogeno e paziente,
per minimizzare l’ingrandimento.
produzione di radiogrammi della mammella con apparecchiatura dedicata.
radioscopia di parte del sistema vascolare, con esecuzione di radiogrammi dei tratti di interesse.
Mammografia:
Angiografia:
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Il radiogramma è quindi un’immagine bidimensionale nella quale si proiettano strutture tridimensionali complesse, spesso mal visualizzabili per fenomeni di sovrapposizione. L’asse di incidenza
del fascio di raggi x determina il piano di proiezione, cosicché l’asse di incidenza antero-posteriore
realizza una proiezione frontale, l’asse latero-laterale realizza una proiezione sagittale, mentre l’asse
cranio-caudale realizza una proiezione assiale (Fig. 14). Per poter osservare al meglio le strutture,
svincolandosi dagli effetti negativi delle sovrapposizioni, è necessario produrre radiogrammi diversi su
piani di sezione ortogonali tra loro (le cosiddette proiezioni radiografiche).
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Fig. 14 - L’incidenza postero-anteriore del fascio realizza la proiezione omonima, così come l’antero-posteriore: entrambe
producono una sezione frontale (o coronale). Sia la latero-laterale dx che la latero-laterale sinistra (a seconda dell’ingresso e dell’uscita del fascio di radiazioni) producono invece delle proiezioni sagittali.
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
8. Qualità dell’immagine radiografica
Le caratteristiche fisiche del processo di formazione dell’immagine radiologica comportano inevitabilmente la formazione di alcuni artefatti, la conoscenza dei quali è necessaria per non incorrere in
errori di interpretazione.
L’ingrandimento proiettivo deriva dalla divergenza del fascio di raggi x all’emergenza dal tubo
radiogeno, fattore che altera la proiezione dell’oggetto sulla pellicola determinandone un ingrandimento che può essere calcolato secondo le leggi dell’ottica geometrica: è pertanto inevitabile che l’oggetto
venga rappresentato sulla pellicola con dimensioni superiori a quelle reali. Per minimizzare l’effetto
(dato che eliminarlo è impossibile) e ottenere una proiezione di dimensioni più simili a quelle reali, è
necessario ridurre la distanza dell’oggetto dalla pellicola (distanza oggetto-pellicola) o aumentare la distanza dell’oggetto dal punto di origine dei raggi x (distanza fuoco-oggetto), perché, a grandi distanze,
la divergenza del fascio diminuisce (Fig. 15). Quest’ultima tecnica di riduzione dell’effetto è più diffusa
e viene impiegata nello studio radiografico delle dimensioni cardiache (telecuore).
SEU
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Fig. 15 - La divergenza del fascio di raggi X altera la proiezione dell’oggetto sulla pellicola, determinandone un ingrandimento che può essere calcolato con le leggi dell’ottica geometrica. Per ridurre l’effetto e ottenere una proiezione di dimensioni più simili a quelle reali è necessario ridurre la distanza oggetto-pellicola o aumentare la distanza fuoco-oggetto:
quest’ultima tecnica è più diffusa e viene impiegata nello studio radiografico delle dimensioni cardiache (telecuore).
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La deformazione proiettiva deriva anch’essa dalla divergenza del fascio di raggi x, a causa della
quale i raggi più lontani dall’asse del fascio assumono un decorso più obliquo, deformando la proiezione dell’oggetto sulla pellicola in maniera tanto maggiore quanto maggiore è la distanza laterale
dell’oggetto dall’asse del fascio. Questo fenomeno può comportare rappresentazioni diverse di oggetti
identici, soltanto per la loro diversa localizzazione rispetto all’asse del fascio (Fig. 16).
SEU
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Fig. 16 - La divergenza del fascio di raggi X deforma la proiezione dell’oggetto sulla pellicola, in maniera tanto maggiore
quanto maggiore è la distanza laterale dell’oggetto dall’asse del fascio di raggi X.
9. La radioscopia
Un altro sistema di rilevazione della radiazione trasmessa, capace di produrre immagini radiografiche su un monitor, è la cosiddetta radioscopia o fluoroscopia (Fig. 17). In questo caso, i raggi x
trasmessi non colpiscono i fosfori dello schermo di rinforzo, ma quelli di un monitor televisivo, che si illuminano maggiormente (quindi diventano bianchi) se la radiazione che li colpisce è maggiore, mentre
rimangono spenti (quindi appaiono neri) se la radiazione è scarsa. L’immagine radiografica risultante
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
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Fig. 17 - Nella radioscopia i raggi X, invece di impressionare una pellicola, colpiscono uno strato di fosfori che emettono
fotoni di luce che, opportunamente amplificati (con intensificatore di brillanza), formano un’immagine sullo schermo di
un monitor. È impiegata negli esami contrastografici (esofagografia, esame del digerente, colecistografia, clisma opaco,
urografia, angiografia, isterosalpingografia).
è quindi “invertita” rispetto a quella su pellicola: nell’immagine radioscopica, infatti, le zone radiopache
appaiono scure, mentre quelle radiotrasparenti appaiono chiare. Dal momento che i fosfori del monitor
sono poco sensibili alle radiazioni, il sistema è dotato di un amplificatore di brillanza, dispositivo elettronico che riceve la radiazione trasmessa, la converte in luce e aumenta la luminosità dell’immagine
su monitor. La radioscopia tradizionale è ormai ovunque sostituita dalla radioscopia digitale, nella
quale la radiazione trasmessa colpisce una matrice di sensori CCD (analoga a quelle delle telecamere
digitali) producendo immagini digitali automaticamente elaborate per esaltarne luminosità e contrasto
e poi trasmesse al monitor.
La radioscopia produce immagini in movimento (anzi, fornisce l’illusione del real-time visualizzando
sul monitor almeno 15-20 immagini al secondo) ed è quindi usata per studiare il movimento di organi
interni (tipicamente, la peristalsi dei visceri cavi) o lo scorrimento di fluidi (il flusso del sangue all’interno dei vasi). È quindi alla base degli esami contrastografici dell’apparato digerente ed urinario e della
diagnostica angiografica, oltre a fornire un supporto visivo alle procedure interventistiche.
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10. Mezzi di contrasto baritati
La possibilità di riempire alcuni organi cavi con una sostanza ad alta radiodensità, con la conseguente distensione dell’organo e la visualizzazione della morfologia del lume, ha prodotto alcune delle
applicazioni più efficaci della Diagnostica per Immagini, quali lo studio del tubo digerente: le due modalità di studio “classiche” della radiologia tradizionale, ovvero l’esame radiografico del tubo digerente e il
clisma opaco, sono state per decenni le uniche modalità di studio di questo apparato, finché i progressi
dell’endoscopia e la comparsa di nuove tecniche di Diagnostica per Immagini non ne hanno provocato
una lenta involuzione.
La sostanza impiegata per raggiungere questo scopo è il solfato di bario in sospensione, che possiede le caratteristiche richieste, dal momento che il bario ha un elevato numero atomico (56) e non
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è tossico (quando è in sospensione, mentre lo è in soluzione). È disponibile in commercio già pronto,
con l’aggiunta di additivi che lo rendono adatto alla somministrazione orale (per eseguire l’esame
radiografico del tubo digerente), o in polvere, da diluire con acqua e somministrare per clisma (per
eseguire il clisma opaco).
Il solfato di bario rimane nel lume intestinale senza essere assorbito (anche se viene concentrato
per assorbimento di acqua da parte della mucosa) e viene eliminato con le feci. Dal momento che il
prolungato ristagno nel lume può portare a un’eccessiva concentrazione, fino alla trasformazione in
masse semisolide (baritomi), ne è sconsigliato l’uso in caso di occlusione intestinale, mentre l’intensa
irritazione che determina sulla sierosa peritoneale ne esclude l’uso in caso di sospetta perforazione.
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11. Imaging analogico e imaging digitale
La rivoluzione digitale, che negli ultimi anni ha interessato qualsiasi campo dell’imaging, si è affacciata molto precocemente nella Diagnostica per Immagini, dal momento che le prime applicazioni
del computer nella formazione di immagini diagnostiche risale alla fine degli anni ’70. Attualmente, le
metodiche tradizionali (o analogiche) di imaging diagnostico sono pressoché scomparse, lasciando
il posto alle metodiche digitali, determinando quindi il successo della rivoluzione che ha portato alla
nascita della radiologia digitale. Accanto a metodiche che producono immagini direttamente in formato
digitale (come l’ecografia, la TC e la RM), anche la radiologia “classica” è passata al nuovo formato,
visto che la radioscopia, come si è detto, è ormai digitale, e la radiografia sta rapidamente adottando
metodi di rilevazione della radiazione trasmessa alternativi al complesso schermo-pellicola. Sono infatti disponibili già da parecchi anni sistemi di radiografia digitale, nei quali la pellicola è sostituita da
una piastra di detettori, i quali, colpiti dalla radiazione trasmessa, entrano in uno stato “energizzato”,
quantitativamente variabile a seconda del numero di raggi assorbiti. La piastra, sistemata al posto
della cassetta, viene poi inserita in un condizionatore, che “legge” lo stato energetico di ogni sensore
esprimendolo in forma numerica, producendo così un’immagine radiografica digitale con matrice di circa 4000 x 4000 pixel, nella quale ogni pixel ha un valore numerico corrispondente alla radiodensità del
tessuto attraversato (Fig. 18); successivamente il condizionatore “scarica” i detettori, rendendo la piastra riutilizzabile per un numero illimitato di esposizioni. Si avvicina quindi il momento della scomparsa
della pellicola, con trasformazione del dipartimento di Diagnostica per Immagini in filmless department,
nel quale le pellicole saranno solo un ricordo del passato. Per quanto riguarda le immagini eseguite
in precedenza e disponibili su pellicola, sarà sempre possibile la digitalizzazione tramite scanner. Nel
“dipartimento senza pellicole” il flusso di immagini digitali è gestito da sistemi di archiviazione, visualizzazione e trasmissione di immagini detti P.A.C.S. (Picture Archiving And Communication Systems),
interfacciati con il sistema di gestione dei dati anagrafici e clinici del paziente, detto R.I.S. (Radiology
Information System).
I vantaggi dell’imaging diagnostico digitale sono innumerevoli: a parte la valutazione obiettiva della radiodensità dei tessuti, espressa in termini numerici e non più affidata alla sensibilità dell’occhio
umano, l’archiviazione digitale permette di compattare migliaia di immagini su un DVD, determinando
notevoli risparmi di spazio ed economici, oltre a vantaggi clinici pratici derivanti dalla possibilità, per
ciascun paziente, di portare ad ogni controllo tutte le immagini diagnostiche eseguite anche nel corso
di parecchi decenni, mentre la disponibilità immediata di tutte le immagini prodotte evita la ripetizione
inutile di esami; la teletrasmissione di immagini, con possibilità di valutazione a distanza da parte di
radiologi al momento non presenti (teleradiologia); l’elaborazione digitale (image processing) permette
di esaltare dettagli che l’occhio dell’osservatore potrebbe non rilevare.
ROMA
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
SEU
Fig. 18 - Una radiografia digitale si ottiene utilizzando una matrice di detettori radiosensibili, ciascuno dei quali viene rappresentato da un pixel sull’immagine; ogni detettore quantifica fedelmente la radiazione trasmessa e permette di risalire
esattamente alla radiodensità del volume tessutale sovrastante.
12. La TC: definizione e principi operativi
ROMA
La Tomografia Computerizzata (TC) nasce dall’esigenza di utilizzare le proprietà esploranti dei
raggi x minimizzando i fattori che, nella radiologia tradizionale, ne limitano le possibilità diagnostiche,
quali i fenomeni di sovrapposizione e la scarsa efficacia della pellicola come sistema di rilevazione
della radiazione trasmessa. Si è quindi scelto di utilizzare, per la prima volta, alcune tecnologie poi
destinate a un grande successo, tanto da essere estese, come si è visto, alla radiografia: un sistema
di detettori al posto della pellicola e la produzione di immagini in formato digitale, con i vantaggi che
questo comporta, soprattutto in termini di “obiettività” delle rilevazioni densitometriche.
L’idea di rappresentare una sola “sezione”, o strato, degli organi esplorati risale in realtà agli anni
’40, quando venne proposta la tecnica della stratigrafia (o tomografia), che ebbe notevole successo
finché non venne progressivamente soppiantata dalla TC. Il principio operativo della stratigrafia era il
movimento del tubo radiogeno (che rimane invece fisso nella radiografia), in maniera tale da causare
una riproduzione “sfocata” sulla pellicola di tutte le strutture, con l’eccezione di quelle presenti su un
piano definito (corrispondente al fulcro del movimento del tubo), che erano quindi le uniche a risultare
nitide e quindi ben differenziabili da quelle circostanti (Fig. 19).
La TC si propone di utilizzare una versione più sofisticata e digitale della tecnica della tomografia
(da cui il nome di Tomografia Computerizzata), allo scopo di produrre immagini di sezioni del corpo
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
25
SEU
Fig. 19 - La stratigrafia è una tecnica che utilizza i raggi X per effettuare radiografie nelle quali risulta “a fuoco” soltanto uno
strato, di circa 1 cm di spessore, della struttura in esame.
L’esecuzione di un esame stratigrafico si basa su un movimento pendolare opposto del tubo e della pellicola intorno a un
fulcro, che viene fatto coincidere con il piano di interesse: le strutture situate sul piano del fulcro risulteranno “a fuoco”,
mentre quelle al di fuori saranno sfuocate dal movimento della pellicola.
Si tratta di una tecnica ormai caduta in disuso per essere sostituita dalla tomografia computerizzata.
ROMA
umano di spessore sottile (attualmente, fino a 6 mm), nelle quali la radiodensità di ogni punto viene
accuratamente quantizzata e quindi misurata in maniera obiettiva. Per parecchi anni, le uniche sezioni
ottenibili con la TC erano effettuate sul piano assiale, motivo per il quale era chiamata Tomografia Assiale Computerizzata o TAC, denominazione che oggi andrebbe abbandonata.
Elementi costitutivi di un’apparecchiatura TC sono quindi il tubo radiogeno (che deve essere di alta
qualità, per garantire la produzione di un fascio di raggi x omogeneo per parecchi secondi di esposizione continua), il sistema di detettori (che rappresenta l’elemento più variabile nelle diverse generazioni
di apparecchiature) e una workstation dedicata (con software di ricostruzione e visualizzazione delle
immagini). Alla base del funzionamento dell’apparecchiatura c’è il movimento rotatorio del tubo radiogeno su un piano ortogonale all’asse longitudinale del paziente (sdraiato su un lettino), con il sistema
di detettori pronto a misurare continuamente la radiazione emergente e ad inviare i dati alla workstation per la ricostruzione (Fig. 20).
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
SEU
Fig. 20 - L’apparecchio comprende un tubo radiogeno capace di generare un fascio collimato di radiazioni le quali, dopo
l’attenuazione dovuta all’attraversamento dei tessuti, vengono rilevate e misurate da un sistema di detettori. I detettori
producono una lettura accurata dell’energia dei raggi e sono in grado di dedurre la densità dei tessuti attraversati sulla
base dell’entità dell’attenuazione.
Il computer ricostruisce un’immagine a partire dai dati estratti, che costituisce una mappa accurata della densità dei
tessuti.
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13. Algoritmo di retroproiezione, scala di Hounsfield e “finestra”
Ciascun elemento di volume della sezione corporea esplorata, detto voxel, viene attraversato dai
raggi x alcune centinaia di volte durante la rotazione di 360 gradi del tubo radiogeno, e la sua radiodensità viene valutata in maniera accurata, estrapolandola da tutti i voxel circostanti, mediante un
algoritmo matematico detto algoritmo di retroproiezione, che riceve in input le centinaia di letture per
i circa 260.000 voxel della scansione, per un totale di oltre 90.000.000 di letture, e deve fornire il risultato in tempi il più possibile rapidi. La potenza di calcolo delle workstation attuali permette di ottenere
il risultato in tempo reale, ma le prime apparecchiature TC, sviluppate nei primi anni ’70, impiegavano
diverse ore per ogni scansione (Fig. 21).
L’output dell’algoritmo è il cosiddetto insieme di dati grezzi, costituito dai circa 260.000 valori assoluti di radiodensità per tutti i voxel dello strato corporeo esplorato. Questi valori assoluti sono disposti su una scala densitometrica che, dal nome dell’inventore della TC, prende il nome di scala
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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SEU
Fig. 21 - Alla base della costruzione dell’immagine TC c’è un algoritmo matematico detto “di retroproiezione”, che calcola
la densità di ogni singolo voxel dello strato esplorato sulla base dei dati derivanti da 360 attraversamenti del voxel da parte
del fascio di raggi X (uno per ogni rotazione di un grado del tubo radiogeno). Il risultato è la formazione di una matrice di
pixel contenenti i valori di densità dei voxel esplorati.
di Hounsfield, che comprende tradizionalmente 2000
valori, misurati in Unità Hounsfield (abbreviato in HU, da
Hounsfield Unit). Nella parte più bassa della scala (-1000
HU) c’è la zona della radiotrasparenza (l’aria è ovviamente situata nel punto più basso), mentre nella parte più alta
della scala, che termina a +2000 HU, c’è la radiopacità più
assoluta (osso). Il punto corrispondente a 0 HU identifica
la densità dell’acqua (Fig. 22).
La fase successiva del procedimento implica la ricostruzione di un’immagine visualizzabile sul monitor della
workstation, e comporta l’attribuzione, a ciascun pixel dell’immagine digitale, di un livello di grigio corrispondente
alla densità in HU del voxel che ciascun pixel rappresenta.
Dal momento che i monitor non permettono l’impiego di
più di 256 livelli di grigio, e ciascuna immagine è codificata con 2000 livelli densitometrici, è necessario selezionare, di volta in volta, il range di valori di radiodensità che
si vuole visualizzare su monitor nelle migliori condizioni:
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Fig. 22 - I valori di densità rilevati dall’apparecchiatura a carico di ogni singolo voxel sono unità di una scala detta scala di Hounsfield, che prevede
2000 U.H.
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
questo range, che prende il nome
di finestra, viene definito attraverso
due valori, ovvero quello centrale
del range (detto WL, dalle iniziali di
Window Level) e l’ampiezza del range stesso (WW, da Window Width)
(Fig.). Per esempio, dato che le parti
molli hanno radiodensità variabile tra
-100 HU e +200 HU, per vederle con
il miglior contrasto si usa una finestra
con WL= 50 e WW= 300. In determinati distretti anatomici, quale per
esempio il torace, ciascuna sezione
deve essere ricostruita più volte con
finestre diverse: con quella per il polmone (mediante la quale vengono
visualizzate con il migliore contrasto
le aree con valori di radiodensità più
bassi) e quella per il mediastino (che
ricostruisce con il miglior contrasto il
range di valori di densità delle parti
molli) (Fig. 23).
L’immagine TC risultante non è
molto diversa, da un punto di vista
interpretativo, da un’immagine radiografica: è anch’essa una mappa
Fig. 23 - La costruzione dell’immagine digitale in TC rende necessadei valori di radiodensità degli organi
ria la selezione di una sola parte della scala di Hounsfield contenuta
esplorati, con le tonalità più chiare
nella scansione (“finestra”), altrimenti l’immagine risultante avrebbe un
rappresentanti le aree relativamencontrasto troppo basso. La finestra viene definita con due parametri:
te più radiodense e quelle più scure
ampiezza (window width, o WW), ovvero il numero di UH selezionato, e
livello (window level, o WL), ovvero il numero di UH centrale. La stessa
rappresentanti le aree relativamente
scansione può essere utilizzata per costruire un gran numero di immapiù radiotrasparenti; l’avverbio “relagini con diverse finestre.
tivamente” si rende necessario perché l’applicazione di finestre diverse
modifica la disposizione dei livelli di grigio. La valutazione “assoluta” della radiodensità di ciascun
punto, espressa in HU, può comunque essere visualizzata durante la lettura dell’immagine.
SEU
ROMA
14. Dalla I alla IV generazione, fino alla TC spirale e multistrato
Lo sviluppo delle apparecchiature TC, dagli anni ’70 fino a oggi, ha visto l’ingresso sul mercato di
cinque “generazioni” tecnologiche, ciascuna delle quali capace di garantire tempi di acquisizione più
rapidi e una migliore qualità dell’immagine rispetto alla precedente, quest’ultima realizzabile sia per
aumento della risoluzione spaziale sia per riduzione degli artefatti da movimento come conseguenza di
una scansione più veloce. Parallelamente, la disponibilità di computer con maggiore potenza di calcolo
ha progressivamente ridotto i tempi necessari per la ricostruzione dell’immagine dopo la scansione.
Così, se nelle apparecchiature di I generazione erano necessari circa 5 minuti per ogni scansione e
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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qualche ora per la ricostruzione, le apparecchiature di IV generazione acquisivano e ricostruivano
ciascuna immagine nel giro di circa un secondo.
Il progresso tecnologico dalla I alla IV generazione, che si è svolto in circa quindici anni, è consistito
in una progressiva semplificazione del processo di rotazione del complesso tubo-detettori, associato al
cambiamento del numero e della disposizione di questi ultimi: nella I generazione il detettore era unico,
nella II si è passati a una cortina lineare, nella III a una cortina a sezione circolare incompleta, sino a
giungere alla “corona” di detettori a disposizione circolare completa della IV generazione, con la quale
ha smesso di essere necessaria la rotazione dei detettori solidale al tubo radiogeno, che è rimasto
l’unico elemento a dover ruotare. Questa conquista ha ridotto notevolmente i tempi di acquisizione e
la complessità meccanica del movimento (Fig. 24).
SEU
ROMA
Fig. 24 - Il passaggio dalla I alla IV generazione è stato essenzialmente caratterizzato dalla modifica della forma del fascio
di raggi x, passato dalla forma “lineare” a quella “a ventaglio”, dall’aumento del numero di detettori e dalla loro disposizione
“a corona” (nella III e IV generazione)
L’ultima generazione di apparecchiature TC, entrata nel mercato negli anni ’90, non ha preso il
nome di V generazione probabilmente perché rappresenta una rivoluzione tecnologica ad ampia portata. Ferma restando la corona di detettori a disposizione circolare completa e la rotazione del tubo
radiogeno, la novità è rappresentata da una rotazione continua del tubo associata alla traslazione
contemporanea del lettino portapaziente, così da non realizzare multiple sezioni assiali parallele ma
la singola acquisizione di un ampio “volume”, anatomicamente corrispondente a una sezione molto
spessa. Il volume viene scansionato dai raggi x in un tempo variabile, dipendente dalla velocità di rota-
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
zione del tubo e da quella di traslazione del
lettino: se quest’ultima è più lenta, il volume
viene acquisito più lentamente e quindi con
maggior risoluzione, come conseguenza
di un maggior numero di “letture” da parte
dei raggi x, con l’effetto collaterale di una
maggiore dose di radiazioni al paziente. Il
cosiddetto pitch factor misura il rapporto tra
queste due variabili e quindi la risoluzione di
acquisizione del volume. Questo tipo di apparecchiatura prende il nome di TC spirale
a causa del movimento effettivo di rotazione
del tubo, che è appunto spiraloide per l’associazione rotazione assiale – traslazione
longitudinale del lettino, ma è anche detta
TC volumetrica perché porta all’acquisizione di un volume e non più di un insieme di
strati. In termini pratici, la TC spirale permette l’acquisizione di un volume corrispondente al torace, all’addome e alla pelvi in
meno di 20 secondi.
Un ulteriore riduzione dei tempi di scansione è derivata dalla nascita della TC
spirale multistrato, nella quale non è più
presente una singola corona di detettori a
disposizione circolare completa, ma più
di una, adiacenti sino a costituire un vero
e proprio “tubo” di detettori: attualmente sono sul mercato apparecchiature a 64
strati (cioè corone di detettori), ma presto
saranno disponibili sistemi a 128 e 256 strati (Fig. 25). In questo modo sta diventando
possibile l’acquisizione in tempo reale, con
possibilità di visualizzazione del movimento
degli organi.
SEU
Fig. 25 - Nella TC spirale la rotazione continua del tubo radiogeno, associata allo spostamento contemporaneo del lettino,
produce un movimento spiroide che permette la scansione di
ampi volumi in poco tempo (l’intero torace in 5 sec). Utilizzando
più corone di detettori, si ottiene un ulteriore riduzione dei tempi
di scansione.
ROMA
15. Image processing 3D e il “virtuale”
Se all’inizio al computer si chiedeva soltanto di ricostruire l’immagine tramite l’algoritmo di retroproiezione, oggi le workstation associate alla TC dispongono di potenza di calcolo e capacità grafiche
sufficienti a sfruttare al meglio l’enorme quantità di dati proveniente dalla scansione volumetrica. Il
radiologo può quindi scegliere come visualizzare il volume esplorato: in maniera tradizionale (nel qual
caso il computer visualizza una serie di sezioni su qualunque piano, identiche a quelle che produrrebbe una TC tradizionale) o 3D: in questo caso, il software utilizza tecniche di volume rendering e
surface rendering per visualizzare gli organi in tre dimensioni, permettendo all’operatore di ruotarli su
qualunque piano, simulare sezioni, utilizzare colori diversi, etc. (Fig. 26).
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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SEU
Fig. 26 - Impiego di algoritmi di volume e surface rendering per la ricostruzione 3D dello
stomaco e del tenue con TC spirale multistrato.
La possibilità di interagire liberamente con modelli tridimensionali di organi ha permesso l’ingresso
del virtuale in diagnostica per immagini: procedure che prima richiedevano l’intervento su organi reali
possono ora essere simulate alla consolle. Una delle applicazioni di maggiore successo prevede la
simulazione di un percorso virtuale all’interno di organi cavi, analogamente a quello che potrebbe compiere una sonda endoscopica, per visualizzare così la maggior parte dei dettagli che una volta avrebbero richiesto un esame endoscopico per essere diagnosticati: si tratta della cosiddetta endoscopia
virtuale, della quale l’applicazione maggiormente diffusa riguarda la colonscopia (Fig. 27).
ROMA
Fig. 27 - La colonscopia virtuale utilizza le informazioni sulla conformazione tridimensionale del colon,
ottenute con TC spirale multistrato, per simulare
l’esecuzione di una colonscopia, della quale condivide gran parte dell’efficacia diagnostica.
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
16. Mezzi di contrasto organoiodati in Radiologia Tradizionale e TC
Dopo l’impiego efficace del bario come elemento ad alto numero atomico e perciò capace di rendere
radiodense le strutture da esplorare, ricerche sull’impiego dello iodio come elemento con caratteristiche
simili (il numero atomico dello iodio è 53) hanno portato, parecchi decenni fa, all’introduzione della categoria di mezzi di contrasto di gran lunga più diffusa, quella dei mezzi di contrasto (mdc) organoiodati,
cosiddetti perché costituiti da uno o più atomi di iodio variamente legati a molecole organiche.
Attualmente i mezzi di contrasto organoiodati, utilizzati con le metodiche che prevedono l’impiego di
raggi x, sono costituiti da un anello benzenico al quale sono legati tre atomi di iodio, con i tre legami residui occupati da catene laterali la natura delle quali influenza le proprietà fisico-chimiche della molecola,
quali soprattutto la solubilità nell’acqua e la via di escrezione (Fig. 28). La presenza di un acido salificato
in una delle tre posizioni libere caratterizza la prima delle tre sottocategorie di mdc organoiodati, quella
dei mdc ionici, ad alta osmolalità (circa otto volte superiore a quella del plasma) perché la dissociazione
elettrolitica del sale comporta la formazione di due particelle (anione e catione) con richiamo di molte
molecole di acqua; la necessità di ridurre il più possibile l’osmolalità del mdc, a causa dell’elevata incidenza di reazioni avverse ad essa attribuite, ha portato allo sviluppo dei mdc non ionici, nettamente
ipo-osmolari rispetto ai precedenti, fino ad arrivare all’ultima e più recente categoria dei mdc non ionici
iso-osmolari, con osmolalità pari a quella plasmatica. Il passaggio dai mdc ionici ai non ionici non ha
ovviamente ridotto né la presenza di iodio nel mdc né tantomeno l’effetto contrastografico.
Il mdc organoiodato viene iniettato nel sistema vascolare e quindi si accumula nel plasma, rendendo il sangue più radiodenso e quindi opacizzando prima il sistema arterioso, poi quello venoso: in
questa prima fase (fase vascolare) è possibile individuare i distretti o le lesioni più vascolarizzate. Il
mdc fuoriesce poi dai vasi per passare nello spazio extravascolare, dove rimane poiché non può entrare nelle cellule (fase extravascolare), passaggio che continua finché la concentrazione extravascolare
non è uguale a quella intravascolare. Nel frattempo, il mdc viene filtrato a livello glomerulare, concentrato nel sistema tubulare e escreto nell’urina (con concomitante opacizzazione del sistema escretore
urinario), quindi la progressiva riduzione della concentrazione intravascolare determina richiamo del
mdc nei vasi dallo spazio extravascolare, fino alla progressiva e completa eliminazione.
I mdc organoiodati sono utilizzati in radiologia tradizionale, soprattutto per lo studio del sistema
vascolare (angiografia, nelle varianti arteriografia e flebografia) e dell’apparato urinario (urografia, cistouretrografia, pielografia), nonché per applicazioni attualmente molto meno diffuse (colecistografia,
colangiografia, scialografia, ecc). Comunque, il loro impiego più frequente è in TC, settore nel quale
l’utilità è tale da renderne l’uso praticamente obbligatorio nella maggior parte delle situazioni: la velocità delle nuove apparecchiature e la diffusione di sistemi di iniezione automatici permettono di dosare
quantità e velocità di somministrazione, regolando appositamente i tempi di esecuzione delle scansioni per poter documentare al meglio l’aumento della radiodensità dato dall’arrivo del mdc (cosiddetto
contrast enhancement).
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Fig. 28 - I mdc organoiodati hanno come
base un anello benzenico con 3 atomi di
iodio (Z = 53), che ha capacità di assorbimento di raggi X simile a quella del bario
(Z = 56); dei 3 atomi di carbonio rimanenti
nell’anello benzenico, quello in posizione
1 contiene un gruppo acido (la cui eventuale salificazione caratterizza la classe
dei mdc ionici), quelli in posizione 3 e 5
possono contenere molecole che facilitano l’escrezione renale (X) o biliare (H).
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
33
17. Reazioni avverse ai mdc organoiodati
La ricerca nel settore dei mdc organoiodati è soprattutto focalizzata alla sintesi di nuove molecole
che garantiscano un potenziale diagnostico almeno uguale o superiore a quelle delle generazioni
precedenti, con tossicità, se possibile, notevolmente inferiore. In effetti, l’introduzione nel mercato dei
mdc non ionici è stata un notevole successo, tanto da aver fatto scomparire dal mercato i mdc ionici
della generazione precedente. L’incidenza di effetti collaterali si è significativamente ridotta ma non
è scomparsa: sebbene si calcoli che sia scesa di quattro volte dopo il passaggio ai mdc non ionici, si
attesta tuttora in circa tre pazienti su cento. È quindi necessario conoscere quali reazioni avverse possano verificarsi in seguito all’impiego di mdc organoiodati, al fine di individuare le categorie di persone
a rischio, di saper individuare precocemente gli effetti negativi e saperli affrontare.
Le reazioni avverse ai mdc organoiodati sono tradizionalmente distinte in due categorie, nonostante esistano parecchie sovrapposizioni tra effetti classificati nell’una o nell’altra: la prima è quella degli
effetti chemiotossici, detti anche dose-dipendenti o prevedibili, mentre la seconda è quella degli effetti
anafilattoidi, detti anche dose-indipendenti o imprevedibili. Alla prima categoria appartengono gli effetti
derivanti da particolari patologie dell’individuo, che lo rendono più suscettibile della norma (per esempio, una grave nefropatia può ritardare l’escrezione del mdc, rendendone più lunga la permanenza
nell’organismo e più probabile la tossicità): è chiaro che in questi casi gli effetti negativi sono, se non
certi, estremamente probabili, largamente prevedibili e ovviamente dipendenti dalla quantità di mdc
somministrato. Alla seconda categoria appartengono invece gli effetti derivanti da reazioni pseudo-allergiche dell’individuo a particolari costituenti della molecola del mdc, quasi sempre imprevedibili (a meno
che l’individuo non riporti in anamnesi precedenti reazioni avverse durante la somministrazione di mdc
organoiodato) e assolutamente indipendenti dalla dose, come sempre accade per i fenomeni allergici.
Gli organi soprattutto colpiti dalle reazioni chemiotossiche sono il rene, il cuore e il sistema nervoso
centrale (Tab. 2).
Il rene rappresenta il bersaglio privilegiato perché deputato all’eliminazione del mdc: se questa
non può avvenire in tempi fisiologici per ipofunzionalità del sistema glomerulo-tubulare, il ristagno e la
concentrazione del mdc determinano tossicità diretta sia glomerulare che tubulare, con comparsa di
insufficienza renale acuta o peggioramento dell’insufficienza pre-esistente. Nei pazienti con nefropatia
grave la somministrazione di mdc è pertanto sconsigliata, soprattutto se coesistono ulteriori fattori di
rischio quali l’associazione con diabete mellito, la disidratazione, l’ipovolemia secondaria a scompenso
cardiaco e l’assunzione di farmaci nefrotossici. È quindi necessaria un’accurata anamnesi per evidenziare queste condizioni, oltre all’esecuzione degli esami di funzionalità renale (almeno creatininemia
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Tabella 2 - Effetti collaterali prevedibili (dose- e paziente-dipendenti)
Causa
Iperosmolarità
Malattia pre-esistente
Organo bersaglio
Conseguenza
nefropatie
rene
danno glomerulo/tubulare
cardiopatie
cuore
ischemia miocardica
ipertensione
aritmie
permeabilità barriera
emato-encefalica
Aumento uptake iodio
Mediatori ?
Reazione Ag /Ac
Deficit coniugazione
s.n.c.
ischemia cerebrale
ipertiroidismo
tiroide
crisi tireotossica
feocromocitoma
surrene
crisi catecolaminica
mieloma
rene
glomerulopatia acuta
epatopatie
/
tossicità generale
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Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
e azotemia) per evidenziare stati di insufficienza renale subclinica che potrebbe precipitare dopo la
somministrazione del mdc. Qualora l’impiego del mdc sia proprio inevitabile, è utile idratare il paziente,
sospendere la terapia con farmaci nefrotossici e, eventualmente, prepararlo per l’eventualità di una
seduta di emodialisi, ricordando che l’insufficienza renale acuta può svilupparsi anche a quattro giorni
dalla somministrazione del mdc.
Il cuore può essere danneggiato dall’osmolalità del mdc, che può richiamare liquidi all’interno dei
vasi peggiorando l’eventuale stato ischemico del miocardio, con comparsa, o aggravamento, di aritmie
o cardiopatia ischemica. Questi effetti, che, come si è detto, derivano essenzialmente dall’ipersmolalità, si sono quindi notevolmente ridotti dopo l’introduzione dei mdc non ionici, e attualmente sembrano
possibili solo dopo introduzione diretta del mdc nelle coronarie, come accade in corso di coronarografia. È comunque opportuna una valutazione cardiologica del paziente prima della somministrazione del
mdc, soprattutto se alcuni dati anamnestici fanno sospettare una cardiopatia.
Il sistema nervoso centrale è protetto dalla barriera emato-encefalica, che normalmente impedisce il
passaggio del mdc nello spazio extravascolare, tranne quando sia gravemente danneggiata (accidenti
cerebro-vascolari, neoplasie, traumi), con conseguente tossicità diretta dovuta all’iperosmolalità e alla
chemiotossicità del mdc. Anche in questo caso il ricorso ai mdc non ionici ha ridotto l’incidenza degli effetti negativi, ma se il danno alla barriera è diffuso, come si può verificare in corso di esteso danno ischemico, è consigliabile evitare la somministrazione di mdc che potrebbe peggiorare il danno tessutale.
Le reazioni anafilattoidi sono le più temibili perché sono imprevedibili nella loro comparsa e gravità
e anche perché nelle forme più severe, quali edema della glottide e shock anafilattico, possono portare
a morte il paziente se non si interviene prontamente (Tab. 3). Esse comprendono tutto il ventaglio tipico delle manifestazioni allergiche, da quelle più lievi (come senso di calore, orticaria, nausea, tosse),
che colpiscono circa cinque persone su cento, alle più gravi (broncospasmo, cianosi, shock, arresto
cardiaco), fortunatamente molto più rare (circa due persone su centomila). Tra le categorie a rischio
esistono i pazienti con una storia di allergie, soprattutto respiratorie (rischio di reazioni avverse tre volte
superiore al normale) e i pazienti con precedente intolleranza ai mdc organoiodati (rischio di reazioni
avverse cinque volte superiore al normale); di sicuro la ridotta funzionalità renale e cardiovascolare
aumentano il rischio di reazioni anafilattoidi, oltre a quello di reazioni chemiotossiche. Il passaggio dai
mdc ionici a quelli non ionici sembra aver ridotto l’incidenza di questa categoria di reazioni avverse,
ma non in maniera sostanziale. La somministrazione iniziale di una piccola dose di mdc non si è dimostrata utile ad individuare i soggetti a rischio e, anzi, può scatenare la reazione che, come si è detto,
è dose-indipendente; allo stesso modo, la premedicazione con corticosteroidi e antistaminici, se può
ridurre l’incidenza di effetti lievi, non sembra aver ridotto l’incidenza di quelli gravi.
In conclusione, l’esperienza ha dimostrato che la somministrazione di mdc organoiodato deve essere preceduta da un’accurata anamnesi, integrata con esami di laboratorio, per individuare i pazienti
a rischio, che devono essere informati in maniera obiettiva e quindi prestare un consenso informato
alla somministrazione del mdc, se il rischio non è tale da sconsigliarne l’uso (Tabb. 4, 5). Il mdc organoiodato non può essere somministrato se non siano prontamente disponibili farmaci, strumenti e
personale addestrato a trattare tempestivamente le reazioni avverse.
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Tabella 3 - Effetti collaterali imprevedibili (non dose-correlati, anafilattoidi).
Gravità
Banali
Lievi
Moderati
Gravi
Letali
Incidenza
60%
4%
1,5%
0,1%
1:150.000
Conseguenza
senso di calore, formicolii, nausea
orticaria, conati, pallore, sudorazione
brividi, vomito, dispnea, cefalea
collasso, aritmie, edema polmonare
morte
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
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Tabella 4 - Da ricordare:
• Non esistono controindicazioni assolute all’impiego di mdc iodati, ma esistono pazienti a rischio nei quali l’impiego
del mdc può essere dannoso.
• Non esistono mdc iodati esenti da rischio, ma l’uso di mdc non-ionici riduce notevolmente il rischio di comparsa di
alcuni effetti indesiderati.
• La comparsa di effetti secondari gravi e letali è imprevedibile e indipendente dal tipo di mdc iodato impiegato.
• “Non esistono test che possano permettere di prevedere la comparsa di reazioni indesiderabili ai mdc iodati idrosolubili” (circ. 81 del 9.9.75).
• Non esistono procedure che possano annullare il rischio di comparsa di reazioni indesiderabili ai mdc iodati idrosolubili.
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Tabella 5 - I medici non radiologi devono:
•
Raccogliere accuratamente l’anamnesi dei pazienti da sottoporre ad indagine radiologica con mdc iodato idrosolubile, individuando i pazienti a rischio e segnalandoli al medico radiologo.
•
Eseguire gli esami necessari ad individuare particolari categorie di pazienti a rischio, come gli epatopatici gravi (transaminasi, protidogramma), i nefropatici gravi (azotemia, creatininemia) e i mielomatosi (protidogramma frazionato).
•
Discutere con il medico radiologo sull’opportunità di eseguire l’esame sui pazienti a rischio e sulla disponibilità di
metodiche alternative.
•
Idratare adeguatamente i pazienti nefropatici (soluzione fisiologica).
•
Somministrare a-bloccanti ai pazienti con feocromocitoma.
•
Sedare i pazienti ansiosi.
Collaborare con il medico radiologo per ottenere dal paziente un consenso informato.
18. Nozioni di radioprotezione
Con l’aumento esponenziale degli esami diagnostici richiesti, evidente anno dopo anno senza segni di diminuzione, aumenta di pari passo l’esposizione della popolazione alle radiazioni ionizzanti,
la qual cosa desta comprensibile preoccupazione se si considera che l’esposizione ai fini diagnostici
va a sommarsi all’esposizione ad altri tipi di radiazioni, cui la popolazione è inevitabilmente sottoposta per fattori ambientali. La necessità di un intervento a molteplici livelli, finalizzato al contenimento
dell’esposizione ai fini diagnostici, è diventato quindi più fondamentale che mai e deve coinvolgere
numerose categorie. Tra queste sono in prima fila i medici radiologi, deputati per legge alla valutazione
dell’appropriatezza delle richieste di esami diagnostici e alla loro corretta esecuzione, i medici non radiologi, sui quali ricade la maggior parte dell’onere delle richieste, e i pazienti, spesso non abbastanza
sensibilizzati al problema.
Le radiazioni ionizzanti, come si è visto, determinando l’allontanamento di elettroni che si automoltiplica con effetto “a cascata”, producono ioni e quindi sono potenzialmente in grado di danneggiare
ogni tipo di macromolecola; se la maggior parte delle macromolecole sono comunque destinate ad
essere degradate e sintetizzate di nuovo, come le proteine, lo stesso non si può dire per il DNA, che
può essere solo riparato entro certi limiti. Il danno radioindotto al DNA può interessare punti critici
della molecola, non riparabili, con conseguente morte cellulare radioindotta, ma può anche introdurre
delle modifiche più subdole, non immediatamente evidenti e quindi non riparate, che possono, a lungo
andare, portare ad un’errata espressione genica, con sintesi di macromolecole non funzionanti o con
alterazioni del sistema di controllo della riproduzione cellulare: nel primo caso si sarà prodotta una
mutazione radioindotta, eventualmente trasmissibile alla prole, mentre nel secondo sarà possibile lo
sviluppo di un tumore radioindotto.
ROMA
36
Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
L’entità del danno radioindotto è dose-dipendente, il che significa che le conseguenze più gravi e
immediate avvengono per dosi molto superiori a quelle impiegate in diagnostica, mentre, almeno da
un punto di vista teorico, le mutazioni e i tumori radioindotti possono verificarsi anche alle dosi comunemente somministrate. Per chiarire il concetto, si può dire che esiste una dose-soglia al di sopra della
quale il danno riguarda il 100% degli individui esposti, i quali riporteranno certamente conseguenze
diverse a seconda della dose assorbita (dalle mutazioni ai tumori radioindotti, fino alla morte per le
dosi più elevate); al di sotto della dose-soglia, invece, una percentuale via via più ridotta di individui
riporteranno conseguenze quali mutazioni e tumori radioindotti: tale percentuale tende, ma non arriva
mai, allo zero, per le dosi progressivamente più basse impiegate in diagnostica (Fig. 29). In termini
pratici questo significa che, esponendo una popolazione di individui alla dose di un singolo esame
diagnostico, una percentuale infinitesimale, ma non pari a zero, riporterà conseguenze, senza che sia
possibile stabilire quali individui in particolare (stocasticità del danno radioindotto).
Appare quindi evidente che, sebbene praticamente trascurabile da un punto di vista statistico, la
probabilità di riportare un danno radioindotto alle dosi impiegate in diagnostica non possa essere considerata pari a zero: ne consegue che l’esecuzione di un esame diagnostico che preveda l’uso di radiazioni ionizzanti deve essere effettuata dopo la valutazione del rapporto costo/benefici, inteso come una
bilancia che contiene su un piatto i fattori negativi (dose assorbita, costo per il paziente e per la comunità) e sull’altro quelli positivi (ricaduta sul percorso diagnostico e sulla strategia terapeutica). Bisogna
anche assolutamente considerare se gli stessi effetti positivi possano essere ottenuti in altro modo,
meno “costoso” in termini protezionistici ed economici, come l’esecuzione di altri esami diagnostici che
non prevedano l’uso di radiazioni ionizzanti o la valutazione di esami diagnostici eseguiti in preceden-
SEU
ROMA
Fig. 29 - Il danno biologico da radiazioni segue un andamento lineare, dimostrabile a partire da una dose rilevante (circa
1 Gy), con il risultato che tutti gli individui esposti a una determinata dose (in esposizione unica, perché nel caso del frazionamento intervengono meccanismi di riparazione del danno) riporteranno certamente delle conseguenze, sempre più
gravi con l’aumentare della dose stessa, fino alla morte per valori superiori ai 10 Gy: la morte interviene in tempi diversi e
con modalità diverse a seconda della dose assorbita, con prevalenza di una o l’altra delle principali sindromi.
Al di sotto di 1 Gy (cioè nel range delle dosi impiegate in diagnostica), risulta impossibile prevedere l’andamento del danno: secondo alcuni segue lo stesso andamento lineare (teoria dell’estrapolazione lineare), secondo altri si riduce notevolmente, sino a scomparire, al di sotto di una dose minima, peraltro sconosciuta ( teoria dell’”effetto soglia”). L’impossibilità
di dimostrare praticamente la comparsa e la radiodipendenza del danno deriva dalla sua natura (mutazioni e tumori), che
richiede lunghissimi tempi di latenza per manifestarsi.
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
37
Tabella 6 - Classificazione degli esami di Diagnostica per Immagini a seconda della dose assorbita.
Classe
0
I
II
III
IV
Dose
0 mSv
< 1 mSv
1-5 mSv
5-10 mSv
> 10 mSv
Esempi
US, RM
Rx torace, arti, cranio, colonna cervicale e dorsale
Rx addome, Rx colonna lombare, urografia, clisma opaco, TC cranio, TC collo, scintigrafia ossea
TC torace, TC addome, scintigrafia miocardica
medicina nucleare (alcuni esami)
SEU
za, che potrebbero far escludere la comparsa recente di un’alterazione o confermarne la stabilità nel
tempo, rendendo inutili ulteriori approfondimenti. Come testimoniano numerose statistiche, la valutazione degli esami precedenti permette una riduzione non trascurabile del numero di esami radiografici
eseguiti: è quindi necessario sensibilizzare i pazienti su questo punto, ricordando che l’esibizione degli
esami precedenti si traduce in numerosi vantaggi per l’individuo e per la comunità, quali una migliore
efficacia diagnostica del procedimento, una riduzione della dose assorbita e dei costi economici.
Un altro fattore capace di ridurre sensibilmente la dose somministrata alla popolazione per fini
diagnostici è il controllo sulla ripetizione degli esami: accade spesso che un esame venga richiesto di
nuovo per carenza di dialogo medico-paziente (il medico non ha chiesto se lo stesso esame era stato
eseguito di recente), per trascuratezza del paziente (che ha smarrito l’esame) o per altri motivi (l’esame, o parte di esso, non è stato consegnato dal centro nel quale è stato eseguito). Ma uno dei motivi
che portano più frequentemente alla ripetizione dell’esame è uno dei più facilmente risolvibili: la mancata effettuazione della preparazione. Nella maggior parte degli esami diagnostici, infatti, è possibile
ridurre alcuni fattori che peggiorano la qualità delle immagini ottenute, quali il meteorismo e l’ingombro
fecale, mediante semplici accorgimenti dietetici e/o farmacologici, che il paziente è invitato a seguire
dal radiologo: se questo non accade, le immagini prodotte sono inadatte alle finalità diagnostiche e il
paziente deve ripetere l’esame, con il conseguente aumento della dose assorbita che poteva essere
francamente evitato.
Se il medico curante e il paziente avranno fatto la loro parte, adottando le accortezze descritte (Tab.
7), il procedimento di radioprotezione del paziente e, in generale, della popolazione vedrà il contributo
fondamentale del medico radiologo e del tecnico di radiologia. Il primo dovrà verificare l’appropriatezza della richiesta e la possibilità di utilizzare metodiche alternative, e poi, con la collaborazione del
tecnico, identificare la metodologia di esame che garantisca il migliore compromesso tra accuratezza
diagnostica e dose somministrata. Al tecnico compete, inoltre, l’adozione di ulteriori accortezze, quale
ad esempio la schematura delle gonadi qualora appropriata.
Un problema di frequente riscontro riguarda l’esecuzione di esami diagnostici con radiazioni ionizzanti in donne in età fertile: se quelle consapevoli della loro condizione di gravidanza eviteranno
ROMA
Tabella 7 - Criteri di radioprotezione.
•
Accertare, caso per caso, l’effettiva necessità di un’indagine radiologica valutandone l’utilità diagnostica prevista a
fronte della dose e del costo economico.
•
•
•
Discutere con il medico radiologo sull’opportunità di eseguire l’esame e sulla disponibilità di metodiche alternative.
Invitare il paziente ad esibire esami precedenti che potrebbero chiarire il dubbio diagnostico.
Non eseguire esami senza precisa indicazione medica (Rx torace in accettazione, per visite preventive, per controlli
periodici).
Valutare la possibilità di una gravidanza nelle pazienti in età fertile prima di chiedere un esame radiologico.
•
38
Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
l’esecuzione dell’esame, quelle inconsapevoli, perché la gravidanza non è ancora stata accertata,
rischiano un’esposizione evitabile del prodotto del concepimento. Per questo motivo, la International
Commission on Radiation Protection (IRCP) consiglia di effettuare gli esami, nelle donne in età fertile,
nell’intervallo di 10 giorni dalla comparsa delle mestruazioni, perché in questo intervallo è altamente
improbabile lo stato di gravidanza (cosiddetta regola dei 10 giorni). È quindi opportuno un doppio controllo, sia da parte del medico curante che del medico radiologo, sulle donne in età fertile che si sottopongono ad esami radiologici. Se, malgrado tutto, l’esposizione del prodotto del concepimento si è
verificata, occorre tranquillizzare la paziente perché, alle dosi utilizzate in diagnostica, le conseguenze
negative sono assolutamente improbabili.
Conclusioni
SEU
La radiologia “tradizionale”, che comprende la radiografia e la radioscopia, per quanto rivitalizzata
dalla trasformazione nel formato digitale, non si sta dimostrando in grado di reggere l’impatto con le
nuove metodiche, quali la TC, la RM e l’ecografia, anche perché la dose di radiazioni somministrata al
paziente è spesso piuttosto alta in rapporto ai benefici diagnostici. Tra i suoi punti di forza ci sono tuttavia la notevole diffusione, l’economicità e la semplicità di impiego, che la rendono tuttora richiestissima
in alcuni settori diagnostici (studio preliminare del torace, dello scheletro, dell’addome).
La TC, al contrario, è probabilmente avviata a diventare la metodica di diagnostica per immagini più
richiesta, come sembrano dimostrare numerose statistiche, anche in virtù dei notevoli miglioramenti
apportati dalle nuove generazioni di apparecchiature, che la rendono ormai capace di intervenire efficacemente nello studio di quasi tutti gli organi. Tra gli aspetti negativi che ne fanno una tecnica di
seconda istanza (cioè, non consigliabile come primo esame diagnostico) ci sono però il costo relativamente elevato, la dose di radiazioni non trascurabile e la risoluzione spaziale inferiore a quella di altre
metodiche come l’ecografia, che, alle alte frequenze, risulta nettamente superiore nello studio delle
strutture superficiali.
Termine :
Volt (V)
Ampere (A)
Elettronvolt (eV)
Coulomb/kg (C/kg)
Gray (Gy)
Sievert (Sv)
ROMA
Unità di misura di :
Sostituisce :
Che corrispondeva a:
potenziale elettrico
corrente elettrica
energia di un elettrone
dose di esposizione
Roentgen (R)
1 C/kg = 3876 R
dose assorbita
RAD
1 Gy = 100 RAD
dose assorbita corretta per la sua
efficacia biologica
REM
1 Sv = 100 REM
I raggi X e le metodiche correlate: radiologia tradizionale e TC
39
QUIZ DI AUTOVALUTAZIONE
1. La radiazione diffusa :
a. Produce immagini più sfocate
b. Può essere bloccata con l’uso degli schermi di rinforzo
c. Può essere bloccata con l’uso di griglie
SEU
2. I raggi X:
a. Sono fasci di elettroni che fuoriescono dal tubo radiogeno
b. Sono fotoni elettromagnetici dotati di energia
c. Sono radiazioni appartenenti allo spettro dei raggi UV
3. Quali sono i principali effetti delle radiazioni ionizzanti:
a. Effetti somatici
b. Effetti genetici
c. Effetti somatici e genetici
4. In quale delle seguenti condizioni il mdc idrosolubile uroangiografico non andrebbe somministrato:
a. Occlusione intestinale
b. Grave insufficienza epatica
c. Ipotiroidismo
5. Il meccanismo di interazione dei raggi X con i tessuti biologici che non si verifica in radiologia tradizionale è:
a. L’effetto fotoelettrico
b. L’effetto Compton
c. La creazione di coppie
6. Cosa si intende per studio TC multifasico?
a. Utilizzo di macchine TC convenzionale e TC spirale in diverse fasi
b. Assunzione di immagini dopo somministrazione di mdc in tempi diversi.
c. Sequenze di studi TC a distanza di tempo.
7. Quale delle seguenti affermazioni riguardo il mdc idrosolubile uroangiografico è valida:
a. Ne esistono di iodati e non iodati
b. Possono scatenare crisi catecolaminiche nei pazienti con feocromocitoma
c. Possono produrre effetti secondari letali in un paziente su 1000 circa
ROMA
8. Qual è la densità media in unità Hounsfield del grasso:
a. -100 UH
b. 1000 UH
c. + 100 UH
9. Nelle donne in età fertile le indagini radiografiche andrebbero eseguite:
a. Nei primi 10 giorni dalla fine del ciclo mestruale
b. Nei primi 10 giorni dall’inizio del ciclo mestruale
c. Nei 10 giorni prima del ciclo mestruale
10. Quale dei seguenti organi è più sensibile alle radiazioni ionizzanti ?
a. Milza
b. Fegato
c. Cristallino
11. I raggi X di frenamento sono distribuiti secondo uno spettro:
a. Entrambi
b. Discreto
c. Continuo
40
Manuale di diagnostica per immagini nella pratica medica
12. Le reazioni secondarie di tipo allergico legate ai mdc iodati:
a. Sono legate esclusivamente al tipo di patologia del paziente
b. Sono legate alla dose somministrata
c. Sono dose-indipendenti
13. La somministrazione di solfato di bario è controindicata:
a. Nella perforazione intestinale
b. Nel morbo di Crohn
c. Nella Colite ulcerosa
SEU
14. La “finestra” in TC è:
a. L’apertura del tubo radiogeno attraverso cui passano i raggi X
b. Lo spazio tra due file di detettori
c. La parte della scala di valori densitometrici utilizzata per ricostruire l’immagine
15. La radiopacità è funzione:
a. Della modalità di formazione dei raggi X
b. Dello spessore della pellicola radiografica
c. Del numero atomico della materia
16. Costituisce aumento del fattore di rischio nell’uso dei mdc iodati:
a. presenza di pancreatite acuta
b. presenza di ipotiroidismo grave
c. presenza di cardiopatia ischemica
17. Nell’effetto fotoelettrico il fotone incidente:
a. Viene deviato, con minore energia
b. Viene deviato, senza perdita di energia
c. Cede tutta la sua energia a un elettrone atomico
18. In caso di precedente reazione allergica importante al mdc idrosolubile uroangiografico :
a. Sono disponibili mdc non-ionici che non provocano reazioni allergiche
b. Sono disponibili mdc non-iodati
c. È sconsigliabile l’impiego del mdc
19. Uno dei vantaggi della TC spirale, rispetto alla TC non spirale, è :
a. Possibilità di non usare il mdc
b. Riduzione della durata dell’esame
c. Minor costo dell’apparecchiatura
ROMA
20. La radiazione che attraversa la materia senza interagire con essa :
a. Non contribuisce alla formazione dell’immagine radiologica
b. Viene considerata radiazione diffusa
c. Contribuisce alla formazione dell’immagine radiologica
Risposte: 1c, 2b, 3c, 4b, 5c, 6b, 7b, 8a, 9b, 10c, 11c, 12c, 13a, 14c, 15c, 16c, 17c, 18c, 19b, 20c
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