L MIO CUORE NELLE TUE MANI di Manlio Santanelli con Tosca d'Aquino, Gea Martire uno spettacolo di Enrico Maria Lamanna scene e costumi Maria Luigia Battani musiche originali Carlo de Nonno disegno luci Stefano Pirandello aiuto regia Michele Savoia assistenti alla regia Noemi Sferrazza e Augusto Casella elettricista e fonico Carlo Di Fabio registrazione e mastering Andrea Forti di Enrico Bernard Il nome di Manlio Santanelli – so che questa affermazione disturba sempre i colleghi autori che non vorrebbero mai essere ricordati come padri di una sola opera - è indiscutibilmente legato al suo primo testo “Uscita di emergenza” del 1980. Parto dunque da lì perché forse non tutto è stato ancora detto su questo collaudato e rappresentato drammaturgo italiano; ed anche perché forse i più giovani non ne conoscono le origini teatrali. Correva l’anno 1979, ricordo che era un uggioso inizio di novembre, quando il mio maestro e amico Bruno Cirino, col quale stavo collaborando per l’allestimento del “Marat-Sade” di Peter Weiss, mi consegnò un corposo copione dattiloscritto dicendomi: “Ué, lieggitiello uagliò, e femme sapé che ne pienz’”. Sul fascicolo c’era in stampatello un titolo, appunto “Uscita di emergenza” e il nome di Manlio Santanelli. Confesso che raccolsi dalle mani di Bruno il copione di Manlio con una smorfia: anch’io ero alle prese con i miei primi copioni e Bruno mi <costringeva> a leggere il lavoro di un mio possibile rivale! Solo oggi comprendo che il grande Cirino mi stava usando, per farmi accumulare esperienza, come un vero e proprio dramaturg di compagnia, a partire dalla mia collaborazione di germanista per il “Marat-Sade” per passare alla discussione di un copione altrui. Nonostante la mia iniziale, non piccola invidia per l’opera di Manlio Santanelli, devo dire che riuscii a non fare il Salieri della situazione: detti a Bruno un’opinione entusiastica e lavorai sul copione che necessitava a mio avviso di pochi, opportuni tagli. La fortuna di Manlio Santanelli e di “Uscita d’emergenza” si può dire che scaturì da quella mia prima “lettura” perché Bruno spinse il testo al premio IDI e realizzò una messa in scena epocale successivamente ripresa anche dal duo Mascia-Fantoni. Non mi soffermo più di tanto sul plot del testo di esordio di Santanelli, perché non è il caso di parlarne qui, ma voglio ribadire che “Uscita d’emergenza” è un capolavoro della drammaturgia napoletana del dopo-Eduardo. Il suo non indifferente merito è infatti quello di coagulare le vene esistenziali e surreali del teatro eduardiano in una prospettiva di drammaturgia europea portando alla luce i sotterranei flussi e influssi che dalla Napoli della prima metà del Novecento partivano per le capitali della drammaturgia: Parigi (Beckett) e naturalmente Londra (Pinter). E dico questo aggiungendo una verità-provocazione: Santanelli resie evidente la formazione eduardiana dello stesso Harold Pinter, che, lo dico tra parentesi, si dà al teatro nel 1957 quando già De Filippo è internazionalmente conosciuto e acclamato. Penso che, al di là del valore delle singole opere, l’importanza di un autore sia relativa al suo “ruolo” nella drammaturgia nazionale: Santanelli insomma rappresenta il punto di incontro e di osmosi fra le grandi drammaturgie europee e l’immensa tradizione teatrale napoletana, una tradizione che addirittura anticipa (e in qualche caso <spiazza>) i grandi maestri d’Oltralpe. Ho così continuato a seguire Santanelli nel corso di oltre trent’anni con lo stesso spirito del mio primo incontro da apprendista stregone della drammaturgia con la sua opera prima e principale. E dico <principale> senza dimenticare che i lavori successivi del drammaturgo napoletano, da “Regina Madre” a “Disturbi di memoria”, sono opere di tutto rispetto. Ma, questo è il punto, se un posto da protagonista nella grande drammaturgia nazionale spetta a Santanelli, ciò è proprio per “Uscita d’emergenza”: come dicevo, per aver dimostrato che è Pinter ad essere eduardiano e non la drammaturgia italiana contemporanea a vivere di luce (riflessa) pinteriana. “Il mio cuore nelle tue mani” messo in scena da Enrico Maria Lamanna al Santa Chiara (vedi recensione su Saltinaria di Serena Lena) la scorsa stagione e che ora viene ripreso al Teatro della Cometa parte da uno spunto non originale che Santanelli stesso spiega così in una nota introduttiva: “Che cosa dovrebbe fare un povero santo, nel caso specifico San Gennaro, se nello stesso istante due devote gli chiedessero un intervento che porta a due punti di arrivo diametralmente opposti?” Mi sembra strano che sia passato inosservato un celebre sketch della Smorfia, cioè del trio Massimo Troisi, Lello Arena, Enzo DeCaro, che negli anni magici del sodalizio, il 1978 e il 1979 si cimentava con San Gennaro. Cito dalla introduzione dell’edizione Einaudi del brano: “La povertà, la mancanza di lavoro e San Gennaro, dove Troisi e Arena si contendono i favori del santo, in un crescendo amarissimo e difficile da sostenere – sono temi di sempre…” Quando Troisi spiega le origini drammaturgiche del brano “San Gennaro” eccolo riallacciarsi a quella grande tradizione napoletana di cui parlavo a proposito degli esordi di Santanelli: “Lello e io ci conosciamo fin da quando eravamo ragazzini. E, insieme, abbiamo cominciato a fare del teatro, qualche anno fa. Teatro sperimentale, mescolando Eduardo e Fo, Viviani e gli autori d’avanguardia.” Anche nel testo di Santanelli tuttavia il folklore sembra sfociare nell’ossessione e possessione religiosa, il grottesco che rasenta l’inverosimile (grande Gea Martire nel racconto al limite del vero, più ai confini della realtà che surreale, della famiglia che uccide i figli per ricevere la solidarietà e l’affetto dei vicini) si trascina nella tragedia del quotidiano dove le madri invocano il santo per finalità diametralmente opposte. Ma ecco ancora Troisi che chiosa il suo “San Gennaro”, una illustrazione che si potrebbe allungare fino al testo di Santanelli: “Quando c’è di mezzo Napoli, spesso o si fa del folklore o si frana nella tragedia. Insomma, o Piedigrotta o il colera, o le mandolinate o i guappi, o pizza e spaghetti o la fame nera, la disoccupazione. E tutto questo, nel bene e nel male, viene sempre presentato con fatalismo, con rassegnazione. Noi della Smorfia, invece, parliamo di Napoli facendo della satira, ma tenendo sempre i piedi per terra. Punzecchiamo la realtà insomma”. Dico tutto questo senza nulla detrarre al lavoro di Santanelli che si dipana in questo contesto drammaturgico con solide basi nella tradizione e nell’avanguardia teatrale napoletana. Ne è cosciente la regia di Lamanna che trasforma con rapidi stacchi il sacro delle preghiere monologanti delle due donne nel loro quotidiano, il <vissuto>: la cucina e la macchina per cucire che ribaltano i panconi della chiesa come scatole cinesi contenti il profano. Sembra così di assistere ad un comico skeccettone magistralmente interpretato da Gea Martire e Tosca d’Aquino, ma la tragedia è in agguato. Le due donne invocano il santo per una doppia protezione impossibile: il figlio di una è di scorta ad un magistrato anticamorra che Gennaro, figlio della seconda, deve andare ad uccidere. Le due donne si sfioreranno appena all’uscita dalla chiesa, in chiusura come nel <pezzo> della Smorfia, lasciando in sospeso l’enigma: chi riceverà la grazia del Santo? Troisi o Lello Arena, la madre del giovane carabiniere o quelle del guappo camorrista? Che siano i numeri del lotto o le vite di due giovani è pressoché indifferente in una città in cui il destino risponde sempre con una smorfia che non si sa se di dolore o di gioia. Una smorfia con cui la statua del santo, come la Sfinge, in un buio angolo della chiesa di freddo marmo non può umanizzarsi.