Marianna Gensabella Furnari Verso un modello antropologico più rispondente ai bisogni del mondo e in linea con le nostre attese carismatiche Se è vero che l’educazione è tra tutte le arti la più difficile, come troviamo ripetuto più volte da Padre Annibale negli Scritti, “ars artium”, “scientia scientiarum” ( Ant., p.359) il motivo di fondo è che tale arte presuppone la domanda filosofica rivolta dall’uomo alla conoscenza della sua natura. Ogni modello educativo, ogni progetto e ancor più specificamente ogni atto educativo presuppone esplicitamente o implicitamente una visione dell’uomo. La pedagogia interroga quindi, prima ancora dell’etica, a cui pure è profondamente legata, l’antropologia filosofica. Sebbene la filosofia si sia da sempre interrogata su “chi” sia l’uomo e quale sia il senso della sua esistenza, (pensiamo al motto delfico del “conosci te stesso” come exemplum), l’antropologia filosofica assume la connotazione filosofica che oggi le attribuiamo, fino a divenire una disciplina a se stante, a partire dagli anni venti/trenta del XX secolo, quando la domanda filosofica sull’uomo è costretta a confrontarsi in modo stringente con “l’avvento di quelle scienze che le contendono l’oggetto e addirittura il buon diritto di occuparsene”(J. Habermas, Antropologia, in Filosofia, tr. It a cura di G. Preti, Milano 1966, p.20). Inizia un percorso, una sfida della filosofia, del suo ruolo di “critica della ragione” nei confronti di una visione dell’uomo dominata dall’ approccio delle scienze naturali e sociali, orientato quindi ad un’antropologia fisica e ad un’antropologia culturale e sociale. Una sfida che porta il nome di una nuova disciplina, ma che in realtà la filosofia conosce da sempre, potremmo dire che ha da sempre attraversato: la tensione tra una visione oggettiva, riduzionista dell’essere umano, che mira ad un sapere oggettivo e verificabile su di esso, ed un sapere che si confronta criticamente con la difficile posizione dell’essere l’uomo al tempo stesso il soggetto e l’oggetto della ricerca. Una tensione che la filosofia ha fatto nel tempo sua, divisa come è sempre stata tra il considerare la libertà dell’uomo come un presupposto imprescindibile, vera “croce metodologica” del pensiero, e la convinzione che la nostra libertà sia solo un’apparenza, che possa essere ridotta, o meglio ricondotta ad una connessione necessaria di “causa ed effetto’’ e che sia possibile con l’avanzare della 1 conoscenza scientifica leggere i meccanismi che ci determinano ad agire in un modo o nell’altro. Sotto forme diverse, portando avanti l’ipotesi di meccanismi fisici, o psichici, o riconducibili a cause economiche, ambientali o sociali, il determinismo si è da sempre contrapposto ad una visione dell’uomo come essere libero e responsabile, tentando di ri/solvere, dis/solvere il mistero di quella libertà, inconoscibile e tuttavia idea forte della ragione di cui parla Kant. Una “mise en question” radicale della libertà che trova oggi, per il progredire delle scienze, in particolare le neuroscienze e la genetica, nuova forza. Le ricadute sull’etica e sulla pedagogia delle due visioni dell’uomo, libero nelle sue azioni o determinato da meccanismi, siano essi insiti nella sua stessa natura, o derivanti dall’ambiente, sono significative e vanno in senso chiaramente diverso. Se l’etica non può prescindere dalla libertà, a meno di ridursi ad una mera fenomenologia dei costumi o ad un’analisi del linguaggio morale, l’educazione che non presupponga la libertà vede il suo compito ridotto ad una conoscenza dei meccanismi del comportamento umano e delle possibilità di condizionarlo. Parlare di un modello antropologico, significa, inoltre, dal punto di vista della filosofia, confrontarsi con diversi nodi teorici. Ne indichiamo alcuni. Il primo: se si possa in effetti parlare di una “natura umana” o se l’essere stesso dell’uomo, il suo tendere sempre al di là di sé, il suo essere come sostiene Heidegger un “progetto gettato”, e d’altra parte l’essere tale progetto sempre in bilico tra natura e cultura, tra ciò che definisce l’uomo alla nascita e ciò che egli diviene facendo, costruendo i suoi artefatti e con essi se stesso, non porti piuttosto a parlare più correttamente di “condizione umana” ( A. Heller). Se accettiamo tale concezione, il modello antropologico dovrà fondarsi su questo continuo “progettarsi”, cercando di ritrovarne le linee fondamentali e il senso, distinguendo, come invano cerca di fare l’esistenzialismo satriano, tra un progettarsi autentico ed uno inautentico. Secondo punto: come possiamo pensare oggi, superato il dualismo cartesiano, il rapporto tra corpo e psiche, visto nella sua ultima declinazione come rapporto tra cervello e mente? E all’interno della psiche, come pensiamo il rapporto da sempre problematico tra la nostra razionalità e la sfera emotiva-sentimentale? Come vediamo il riflettersi di tale tensione nella nostra vita etica e nell’impegno educativo, nella tensione che da sempre anima l’una e l’altro, tra passioni e virtù? Terzo punto: come consideriamo il “soggetto” uomo in rapporto agli altri? Un individuo, distinto dagli altri, che tende a conquistare la propria autonomia, sulla 2 base della propria ragione, secondo lo schema del contrattualismo che da Hobbes a Rawls ha segnato il nostro modo di pensare all’insegna del patto e della giustizia i nostri rapporti sociali? O lo vediamo come un individuo sociale, secondo la visione aristotelica, un essere di bisogno, vulnerabile e quindi in un perenne rapporto di mutua dipendenza dagli altri, come nel pensiero che filosofi e soprattutto filosofe portano avanti, centrandolo su una visione dell’uomo strettamente ancorata alla “Cura”, nel senso doppio della preoccupazione per i propri bisogni e della sollecitudine per quelli degli altri? Quarto e ultimo ( forse primo per importanza): l’individuo umano è forse diverso, per “dignità” da tutti gli altri individui animali o no? Vi è qualcosa nel suo essere che possiamo individuare come “persona”, qualcosa che lo distingue per un singolare rapporto ontologico con l’Essere da cui viene e a cui torna? E se è così, questo “quid” lo distingue dal primo accendersi della vita, ancora nel grembo materno, fino al suo spegnersi, a prescindere dal darsi delle sue funzioni, come sostiene il personalismo ontologico? O dovremo consegnarci a una visione dell’uomo che lo riconduca ad “animale umano”, per un verso innalzando e liberando da ogni specismo gli animali non umani, come vuole Peter Singer, per l’altro discriminando gli esseri umani a seconda della presenza o meno di funzioni razionali? Ad essere in gioco è qui il rispetto che dobbiamo alla vita umana nascente, alla vita delle tante persone con disabilità mentale, alla vita umana dei pazienti in stato vegetativo…Ad essere in gioco è, con questo rispetto anche il modello con cui educheremo i nostri giovani… Se questi sono, per grandi linee, alcuni dei nodi problematici che intravedo nell’antropologia filosofica, quale paradigma antropologico possiamo trarre dagli Scritti di Annibale Maria di Francia? La grande mole degli scritti è un’opera nell’Opera, testimonianza viva dell’impegno educativo del Padre Fondatore. Dietro quest’impegno vi è certo un modello antropologico, che tuttavia rimane implicito. Non appartiene a Padre Annibale l’amore per la “nebulosa filosofia” (T. Tusino, Padre Annibale Maria di Francia, Rogate, Roma 1995, p.227): il rimpianto per il mancato approfondimento degli studi (..”se i poveri bambini non mi avessero oppresso”), riguarda piuttosto lo studio delle Scritture ( vii, p.176). E’ da lì, come testimoniano i tanti rinvii degli Scritti, che deriva il modello antropologico su cui la sua pedagogia si fonda: dalle Scritture e in particolare dal Nuovo Testamento, P. Annibale deriva la concezione di un uomo visto nella sua fragilità di creatura, segnato dal peccato originale, ma anche redento dal sacrifico di Cristo e, da questo e 3 per questo, predisposto alla salvezza. Il modello antropologico che ritroviamo implicito negli scritti è quindi segnato da una profonda tensione, chiaramente ispirata a S. Paolo tra “l’uomo secondo Adamo” e “l’uomo interiore” che deve “formarsi” sulle rovine del primo (Regolamento per la congregazione religiosa). L’uomo perde se stesso se si racchiude in sé, nel suo egoismo, diremmo nel suo essere individuo e trova se stesso nell’”unione amorosa dell’anima con Dio”, un’unione che nella santità, giunge al nascondimento dell’anima in Dio, fino nascondersi a se stessa: E’ la profonda, pressante aspirazione alla santità che guida la pedagogia di Annibale Maria di Francia. Una santità che, al di là delle visioni definite “superficiali” che la rappresentano circondata da un gande apparato di austere penitenze…di portenti e di miracoli”, è definita dalla perfetta adesione alla volontà del Padre: “Vera santità è la perfetta unione, sia pure attiva, della nostra volontà con quella dell’Altissimo, per puro amore di Dio, e col solo retto fine di piacere a sua divina Maestà. Quando l’anima è giunta a questo felicissimo stato, null’altro brama che restare nascosta col suo Diletto, il Quale spesso fa che quest’anima sia anche nascosta a se stessa”…. Si avverte qui l’eco di S. Paolo, citato più avanti:: “Vita mea abscondita est cum Christo” ( Col.3,3) (Discors, 5. Novembre 1907). Troviamo qui il tono alto del mistico, e del resto Padre Annibale non è stato solo uomo dalla straordinaria carità, ma anche “uomo dotato di capacità contemplative e mistiche che nelle lunghe ore di orazione lo hanno avvicinato alle misteriose soglie delle profondità divine” ( Annibale Maria Di Francia, Le virtù eroiche, redazione di Padre Valentino Macca, p.23). In Lui era viva l’esigenza, avvertita fortemente anche da Madre Teresa di Calcutta, altra luminosa testimone della carità, di coniugare l’operosità con la meditazione e la preghiera, anzi di far precedere queste alle opere, trovando in queste e per queste le ragioni e la forza dello stesso operare. E’ attraverso questa via difficile, nell’intreccio indissolubile della preghiera e della carità operosa che P. Annibale ci consegna, come un messaggio implicito, la sua visione dell’uomo: più che una visione, una testimonianza, che trova riscontro, forse un pallido, sbiadito riscontro nella nostra possibilità di ricondurla a teoria, se l’accostiamo al cuore del personalismo ontologico di un filosofo cristiano, Luigi Pareyson, là dove l’essere umano si connota come persona, ossia come rapporto all’Essere ( Esistenza e persona, 1950). 4 Ancora, quel nesso tra meditazione e carità, ci conduce ad una visione dell’uomo che dal suo essere, diremmo meglio dalla sua continua tensione interiore ad essere, in relazione con Dio deriva la sua apertura agli altri. Così scrive, quasi a voler distinguere la sua opera da altre a carattere genericamente umanitario, a Tommaso Cannizzaro, poeta e letterato messinese che si dichiarava ateo: «Tutto questo le dico, Professore carissimo, non per farmene un vanto, perché nulla io sono, ma per dimostrarle che l’amore del prossimo fino al sacrificio non può sussistere senza l’amore verso Gesù Cristo Dio. (...) Ritenga, Professore carissimo, che se io non amassi Gesù Cristo Dio, mi annoierei ben presto a stare immezzo ai poveri più abbietti, e spogliarmi del mio, e perdere il sonno e la propria quiete pei poveri e pei bambini » ( Scritti, vol. 56, p.122, vedi anche Lettere del Padre, vol. 2,pp.62-63)1. La visione dell’essere dell’uomo come “essere con gli altri” e “per gli altri” su cui si travaglia, tentando di trovarne un fondamento, il pensiero filosofico contemporaneo, in particolare l’esistenzialismo, appare un’eco sbiadita di questa forte vissuta affermazione di una fondazione della carità nella fede, dell’essere “per gli altri” nell’ “essere per e con Dio”. Il modello antropologico che emerge dagli Scritti è quindi attraversato dalla profonda tensione tra ciò che l’uomo è e ciò che tende ad essere riconducendosi al Padre. Una tensione che si declina attraverso le virtù della vita interiore e che è sostenuta dalla “retta intenzione” del non cercare che Dio solo ( Regole della Pia Congregazione dei Rogazionisti). Tale tensione è sostenuta dalla preghiera, indicata da Padre Annibale come “il respiro dell’anima” (Spirito Figlie del Divino Zelo, Ant., p.194) e dalla meditazione, che fa scorgere il proprio nulla e accende l’anima di santi desideri (Ivi, p.199). Senza di esse, senza la tensione della vita interiore nessun’opera veramente buona può prodursi, nessuna parola veramente redentrice può espugnare i cuori, nessuna beneficenza veramente proficua e duratura può stabilirsi; e qualunque affaticarsi non si riduce ad altro se non quel detto dell’Apostolo: Son divenuto ( se in me manca lo Spirito del Signore) quasi uno strumento il cui suono fa un po’ fragore che presto svanisce!” ( Discorsi, 17 aprile 1915, Ant., p.93). 1 APR 55, 3994; TUSINO, LP, II, pp. 61-3. 5 Ma cosa muove nell’uomo questa tensione: l’intelletto o la volontà? Il problema antropologico che da sempre i filosofi si sono posti e che oggi alla luce delle neuroscienze riveste una particolare attualità, non è estraneo alle pagine degli Scritti: “La volontà non si muove, come insegnano i filosofi e l’esperienza, senza che l’intelletto apprenda il bene che le è conveniente. In altri termini se tu, o anima, non apprendi bene quanto è desiderabile e profittevole la virtù, tu non ti muoverai a domandarla a Dio e a sforzarti per raggiungerla con la tua cooperazione”. Sembra quindi che tutto parta dall’intelletto e dalla cognizione. Ma di che tipo di cognizione si tratta? Di seguito leggiamo: “se la cognizione dell’intelletto è debole e soltanto speculativa e superficiale, e per nulla acquisita col dono dell’intelletto, la volontà si muoverà pure debolmente…Se invece il lume e la cognizione dell’intelletto …sono pieni, per un concorso ed illustrazione di fede e di Spirito Santo, allora la volontà si muoverà tutt’intera ed attiva sia a pregare sia a cooperare per ottenere e conseguire la virtù e la grazia desiderata”( Spirito Figlie del Divino Zelo, Ant., p.160). Qui l’espressione chiave è col dono dell’intelletto: l’ intelletto precede sì, ma a patto che non sia “solo” speculazione dell’uomo ( più avanti si parla di “semplice intelligenza naturale specultaiva”), ma sia ”pieno”, come solo può essere un intelletto illuminato dal dono dello Spirito, invocato e accettato nella preghiera. Al di là di ogni dualismo intelletto e volontà si sostengono l’un l’altra nella tensione interiore dell’anima che cerca di giungere al suo Sommo Bene, Dio, attraverso il bene della virtù, ma nel loro sostenersi hanno a loro volta bisogno di essere sostenuti dalla meditazione e dalla preghiera. Nell’ordine spirituale indicato da Padre Annibale il movimento parte quindi dall’Alto, dalla grazia, ma non può avvenire senza il concorso della libertà/ volontà dell’uomo e della sua intelligenza: “La grazia previene la volontà buona che si muove d’accordo con la grazia, la meditazione rende sempre più attivo il movimento della volontà per mezzo del lume dell’intelletto; la volontà così mossa si spinge ad ottenere gli obiettivi spirituali con tutte le sue forze, usando il gran mezzo della preghiera e unendovi l’opera per ottenere ciò che con la preghiera si domanda” ( Spirito Figlie del Divino Zelo, Ant., p.162). (Su intelletto, volontà, sentimento vedi anche, Ant., pp.644/645). In quest’ordine spirituale non poca rilevanza viene data al “desiderio”: “il desiderio dà le ali alla volontà; la volontà che ferventemente desidera non corre ma vola verso ciò che desidera” (ivi, p.200). Parole che trovano riscontro profondo nella nostra esperienza, ma anche nel pensiero filosofico, dagli antichi ai contemporanei, così 6 come nelle ipotesi della psicoanalisi. Ma di “quale” desiderio parla Annibale Maria Di Francia? Il problema che attraversa l’etica e la pedagogia dell’ordine e dell’educazione dei desideri, è presente nelle pagine degli Scritti, là dove si distingue tra “desideri imperfetti” che come dicono le Scritture “occidunt pigrum” (Prov., 21, 25) e “ardenti”, “santi” desideri, che sono tesi al raggiungimento di “beni grandi ed eterni” (Ivi, p.200). il discernimento tra gli uni e gli altri non può che avvenire attraverso la meditazione, la preghiera e la cooperazione della buona volontà ( cfr. su quest’ultima , ivi, p.198). Se questa è la tensione della vita interiore quali sono le virtù attraverso cui tale tensione si esplica, si rafforza? Padre Annibale attribuiva, a ragione, grande importanza all’esercizio delle virtù: ne sono prova le “gare delle virtù” intese come strumento pedagogico. Luogo dell’etica, l’’esercizio delle virtù, può essere considerato il ponte prezioso tra antropologia e pedagogia: vero fil rouge degli Scritti lasciati dal Padre Fondatore ai suoi Figli e ai laici che si accostano al suo insegnamento. Un ponte anche con il pensiero etico contemporaneo, attraversato dall’esigenza di un “ritorno alle virtù” ( A. Mac Intyre) per ricomporre i frammenti di un ethos sempre più frammentato. Ma torniamo alla nostra domanda su quali siano per Padre Annibale le virtù più importanti per la vita interiore. Parlerò solo di alcune. La prima è l’umiltà, considerata “base di ogni virtù” ( Ant., 89) “La definizione di questa grande virtù è semplice: l’umiltà è l’opposto della superbia (…) La superbia gonfia il cuore dell’uomo e ci fa credere tanto alti, tanto forniti d’intelletto e di doti morali e naturali, da non aver bisogno alcuno di Dio E tanto meno che ci ammaestri. L’umiltà invece, nel suo vero significato spirituale, è quella virtù per la quale riconosciamo che Dio è l’Essere supremo, al Quale dobbiamo stare soggetti, e che se dote spirituale è in noi, tutto è dono di Dio…il grande Apostolo S. Paolo scrive: “O uomo, quale dono hai tu che non lo ricevesti da Dio? E se lo hai ricevuto perché te ne glori? (I Cor, 4,7)…L’umiltà fu la grande virtù della quale Gesù Cristo ci diede l’insegnamento…”Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore” ( Matt, 11, 29) ( Ant., 96-97)…Umiliamoci tutti con amorosa umiltà …perché alla fine Gesù Cristo è nostro padre e noi gli siamo figli, è padrone amorosissimo, indulgente e benigno con quelli che lo amano e gli stanno soggetti come figli al padre” (ivi, p.98). 7 Virtù praticata in modo eroico in prima persona ( vedi Le virtù erocihe)t, l’umiltà considerata più volte a fondamento di ogni altra è anche la prima richiesta ai Rogazionisti e alle Figlie del divino zelo. Strettamente connessa all’umiltà, perché fondata sullo stesso principio dello sradicamento dal sé, è l’obbedienza: “La santa obbedienza è virtù di perfetta santificazione e di perfetta unione con Dio, perché obbedendo al Superiore e alle Regole si fa perfettamente la volontà dell’Altissimo” ( quaranta dichiarazioni e promesse, n.7). E ancora, in connessione con l’umiltà, la povertà: “ La Santa Povertà è miniera di molte altre virtù: dell’umiltà, della pazienza, della temperanza, del santo distacco: essa è il vero tesoro nascosto agli occhi dei mondani, per il cui acquisto dobbiamo dare ogni gloria mondana” ( Scritti, vol. 61, p.191). Come è stato notato la povertà considerata prima solo come privazione di beni, diviene con Gesù e per Gesù, per il suo esempio, virtù. Gesù, come ricorda Padre Annibale non aveva dove posare il capo…Anche noi per amor suo spogliamoci di tutto” ( Testimonianze, p.321, PSV, vol.2). Appartenendo ad una famiglia benestante, Annibale sceglie la povertà, diremmo che è provocato dalla figura divenuta emblematica di Zancone, a scegliere l’amore per i poveri, condividendone la povertà. Curandoli ed amandoli, da vero eccezionale apostolo della carità, ne difende la dignità rispetto ai signori, ai potenti del tempo, riconoscendoli come “Signori” e “Principi”. La Chiesa che ha nel cuore Annibale Maria di Francia è una Chiesa “per i poveri”, ma al tempo stesso povera. E’ la stessa che ascoltiamo oggi dalla voce e dall’esempio di un grande Papa che ha voluto prendere il nome di Francesco. A queste virtù e ad altre, come la temperanza, la fortezza, la castità, la giustizia, la prudenza, tutte praticate in modo eroico e quindi testimoniate da Padre Annibale, come risulta chiaro dalla Positio, ma anche indicate negli Scritti, danno sostegno e respiro le virtù teologali: la Fede, la Speranza e la Carità. Poiché la Carità è Padre Annibale, la sua vita, la sua Opera, mi soffermo un momento sulla Speranza e sulla Fede che sono presenti in Lui in modo altrettanto sorprendente ed alimentano la Carità. Il legame tra speranza e carità, dà ragione della sua incredibile capacità di operare per i poveri, dando oltre ogni misura, fino ad affrontare le critiche di molti: “ A Dio benedetto nulla è impossibile, quindi non ci resta che abbandonarci in Dio”( Scritti, 8 vol. 39, p.56) e ancora: “il dare l’ho riguardato come segreto infallibile di continua, divina Provvidenza. E la mia speranza in Dio non è mai stata delusa” ((Scritti, vol. 29, pp. 46-47). Fede e speranza si intersecano nei tre voti della fiducia, di cui uno riguardava l’anima ( “ Signore, fossero i miei peccati più numerosi e più gravi di quelli di Giuda, io confiderò sempre nella vostra misericordia” e il secondo e il terzo, la vita dell’Istituto ( Signore, fosse tutto distrutto dal maligno, io sempre confido in Voi, che ricostruirete tutto, se ciò è conforme alla Vostra Gloria” ( vedi Le virtù eroiche, p.113, PSV, vol. 2). Uomo di fede profonda, Annibale Maria di Francia fa della sua vita una testimonianza della verità di quanto predica come sacerdote: “ l’uomo che vive secondo la fede si solleva con lo spirito al di sopra di tutte le cose terrene. Dei suoi stessi sensi egli si vale per innalzarsi a Dio (…) L’uomo che vive di fede, nulla reputa tutte le cose della terra: non ama le ricchezze…non chiede onori….non è avido di piaceri. In tal modo la carne resta soggetta allo spirito, le passioni vengono dominate dalla ragione, l’uomo vive una vita pura, semplice, spirituale: la vita della fede” ( discorso tenuto a Castanea delle Furie, Messina il mese di maggio del 1880, in DI, pp. 311-312). La vita praticata secondo la virtù della fede indica quindi il modello di uomo che Annibale Maria di Francia ha in mente nel suo personale itinerario spirituale, ma anche in quello di pastore, di educatore, di padre fondatore. Un modello segnato dalla tensione tra uomo vecchio ed uomo nuovo, secondo la predicazione di S. Paolo, più volte citata negli Scritti, che rischia di suonare forse troppo severo a chi vive nel secolo, in particolare se si tratta del nostro tempo. Un modello che trova però una profonda risonanza nella nostra esperienza esistenziale, se proviamo a rileggerlo comprendendolo secondo due paradigmi. Il primo è quello del figlio: colui che ha bisogno di tutto e che si rivolge con fiducia piena al Padre, sicuro che sarà Lui a provvedere; le virtù della fede e della speranza convergono qui in quella “fiducia” che segna le nostre relazioni umane, importante, preziosa e pure poco evidente come l’aria che respiriamo, come scrive Annette Baier, fiducia che segna in particolare la relazione del figlio, piccolo, vulnerabile, verso il genitore, da cui dipende per ogni cosa. Padre Annibale con il suo particolare amore per gli orfani, coloro che non sono più figli, che non hanno più in chi avere fiducia, in chi sperare indica l’importanza di questo paradigma che ha al suo fondo per un verso l’esperienza, comune a tutti, ma più evidente nell’infanzia, della 9 vulnerabilità, per l’altra quella della fiducia in qualcuno che possa prendersi cura di noi. Ma ancora, Padre Annibale, forse non è un caso che io continui, come tanti a chiamarlo così, vedendo nella sua Paternità spirituale verso tanti la sua stessa santità, si avverte lui stesso Figlio di quel Padre in cui crede e spera. Troviamo qui nel paradigma del figlio, una singolare convergenza con un modello antropologico portato avanti da alcune filosofe che contrapponendosi al modello dell’homo oeconomicus, individuo, razionale, indipendente, portano avati un modello di uomo centrato sulla vulnerabilità, la cura reciproca, la reciproca interdipendenza. La differenza certo c’è, ed è molta, di prospettiva di fede, di mancanza nelle filosofe che possiamo racchiudere nella corrente dai confini ancora imprecisati di etica della cura, di un pensiero della trascendenza. Se siamo tutti figli di Cura, ossia tutti vulnerabili, tutti soggetti e oggetti di Cura, questo certo ci impegna in un patto di fratellanza che scavalca le frontiere della giustizia del neocontrattualismo, per aprire a frotniere nuove nei confronti anche di chi non può contrinbuire al reciproco vantaggio. Ma fino a che punto andremo avanti? La fede di Padre Annibale portava non “misurare” mai la carità, sicuro com’era che Qualcuno, la Provvidenza in cui credeva, sarebbe venuto in soccorso, avrebbe risposto alle sue preghiere. Il patto tra i figli della Cura non ha uguali con il legame tra i figli di Dio che non hanno bisogno nemmeno di stringere un patto perché vedono l’uno nell’altro il Volto dell’unico Padre. E tuttavia alcune cose passano dall’uno all’altro paradigma, se non altro, l’indicazione di quella vulnerabilità che segna la figura del figlio, ma anche quel superamento nella fratellanza, che anche l’etica della cura indica delle differenze, dell’estraneità dell’altro. E andiamo qui al secondo paradigma con cui possiamo ripensare oggi, nel nostro tempo, così lontano, per costumi, per senso etico, il modello antropologico di Padre Annibale: il paradigma del povero. Chi è il povero? Colui che manca di tutto, ma anche colui che per questo mancare sembra abbia perso la sua dignità di essere umano: è sporco, lacero, maleodorante, a volte la sua povertà si traduce anche in povertà morale, a volte delinque, in ogni caso è “fuori”, o vogliamo che sia “fuori” dalla comunità degli uomini. La lettera ai Direttori dei giornali messinesi con al sua veemenza è tutta una difesa dei poveri dalla minaccia che grava su di essi di essere rinchiusi in carcere se sorpresi a mendicare. In quella minaccia possiamo vedere un atto estremo di difesa sociale dai poveri visti come “altri”. Padre Annibale reagisce, in modo vibrante, vuole 10 lasciare ai poveri la loro libertà, di più vuole ridare e di fatto ridà costantemente con sua opera a loro la dignità che non viene più loro riconosciuta. Di più “si fa povero”, riconoscendo nella povertà non solo una dimensione di profonda umanità, ma anche una condizione che aiuta a superare tutto ciò di cui l’uomo deve liberarsi nel suo itinerario verso Dio. Anche qui possiamo ritrovare delle profonde risonanze con il pensiero dell’etica della cura quando dilatando le frontiere della giustizia si fa carico di quel dolore della differenza che segna le antiche e nuove povertà. Differenti i poveri del quartiere di Avignone, in cui i cittadini di Messina non volevano entrare, differenti come gli immigrati che sbarcano nella mia Sicilia, come le persone con disabilità a cui non riusciamo a garantire condizioni di vita buone. Ripensare quella differenza, come fa l’etica della cura per cercare di assumerla come aspetto della comune condizione umana significa già, forse, essere sia pure in una dimensione orizzontale, ancora di immanenza, sulle vie di Padre Annibale. Vie che vi percorrete, dedicando la vostra vita, dando costante testimonianza del vostro carisma di quello “zelo” che germina dalla carità come suo ardore e che dedicate alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime. Cosa può dirvi chi rimane china sui libri a studiare “la nebulosa filsofia” sulla possibilità di rispondere meglio col vostro carisma alle attese dei tempi? Poco o nulla. Forse qualche parola su quanto sia importante oggi quel messaggio di “fiducia” così vivo nel vostro padre fondatore e di cui il nostro tempo ha smarrito le ragioni. Bisogno di fiducia dei giovani, delle persone mature, degli anziani: bisogno di fiducia in noi stessi, nelle nostre capacità di amare non in un tempo spezzato, con emozioni passeggeri, manella continuità faticosa e lieta di legami densi di affetti. E’ possibile in un tempo segnato dalla liquidità di cui parla il sociologo Zigmunt Bauman, parlare ancora di matrimonio, di famiglia, di promesse che durano nel tempo? Il ritorno alle virtù di cui Alasdair Mac Intyre vede l’esigenza per tenere insieme l’ethos frantumato in cui viviamo è possibile? Io credo di sì, continuerò a crederlo, facendo voto di fiducia, fino a quando ci saranno testimoni delle virtù come voi, come il Santo fondatore a cui vi ispirate. E per questo Vi prego di continuare nella vostra opera e di costruire il più possibile ponti con il pensiero laico, cercando ciò che di buono vi è, quei semi di verità che per quanto impazziti, come scriveva Maritain, o quanto meno caduti lontano dall’Albero maestro, possono, se raccolti insieme, dare frutto. 11