La Terza Via di Parmenide - Filosofia e Scienze umane

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La Terza Via di Parmenide
Dalla doxa plausibile alla téchne
di Gianluca Caputo
Con Parmenide la filosofia sembra essere arrivata già al suo “capolinea”: se percorro la via della
verità, devo inevitabilmente “lasciar perdere” il mondo della physis, il mondo del cambiamento, e
rinunciare a cercare leggi e princìpi, perché di esso non posso neppure parlare. Lo stesso Parmenide
però offre una possibile soluzione, completata dai pensatori successivi, a partire da Empedocle fino
a giungere ad Anassagora. Vediamo in che modo.
I PARADOSSI DI ZENONE
Quando Zenone presenta i suoi paradossi sulla pensabilità del movimento sembra di sentirlo
parlare: «Se le argomentazioni di Parmenide sembrano assurde quando afferma l’impossibilità del
movimento, mostrerò io quanto sia ancora più assurdo pensarne la possibilità».
In effetti le conclusioni di Parmenide possono sembrare insensate, almeno a un lettore poco
attento, perché l’esistenza del movimento è “sotto gli occhi” di tutti. Se l’assurdo si limitasse a
questo faremmo una lettura superficiale di Parmenide. È noto a tutti (predecessori e successori del
filosofo di Elea) che i sensi possano offrire una conoscenza erronea della natura, ma Parmenide non
parla, quando nega il movimento, di enti (determinazioni particolati dell’essere) bensì dell’essere
nella sua totalità e che questo sia unico, eterno e immutabile non dovrebbe sconvolgere, dato che è
lo stesso risultato raggiunto, per vie diverse, anche da pensatori come Anassimandro ed Eraclito.
Il risultato “terribile” a cui giunge è un altro, attiguo ma più sottile: la non deducibilità degli enti
e del loro divenire a partire da ciò che è immutabile, cioè dall’arché. Se gli enti in movimento,
facenti parte della natura, presuppongono la pensabilità del non-essere, in nessun modo si possono
evincere dall’essere stesso, giacché significherebbe far derivare il non-essere dall’essere (e questo è
davvero assurdo). Neppure le leggi stesse del movimento (quelle che oggi chiameremmo leggi
fisiche-matematiche) possono essere dedotte dall’essere, pur essendo eterne e immutabili, in quanto
pretendono di parlare di ciò che si muove e quindi presuppongono il non-essere.
In questo senso possiamo dire che Parmenide conduce la filosofia a un vicolo cieco: se cerco in
un mondo dove tutto si muove qualcosa che resta immobile (cioè che rimane uguale a se stesso) e
che da esso possa derivare le cause, l’origine e le leggi di ciò che si muove, Arrivo alla conclusione
che nulla si muove. Un paradosso!
I paradossi di Zenone in questo senso non ci aiutano, anzi, a nostro avviso, ci portano fuori
strada in quanto pretendono di dimostrare l’assurdità del movimento degli enti, e non dell’essere.
Torniamo quindi a Parmenide.
LA DOXA PLAUSIBILE
In Parmenide, troviamo accennata anche una “terza via”, quella che comunemente chiamiamo
“doxa plausibile” o meglio “doxa con causa”.
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La doxa è pur sempre un’opinione, cioè un giudizio formato da punti di vista che essendo solo
visioni parziali e semplificate1 della realtà escludono la totalità dell’essere. Ma un conto è
l’opinione pura e un altro è quella il cui valore dipenda da una cosa diversa.
Facciamo un esempio tratto da un film famoso di Cristopher Nolan, Inception. Nelle prime scene
uno dei protagonisti, non sa se l’esperienza (sottolineiamo esperienza) che sta vivendo sia reale o un
sogno. Per sciogliere il dubbio, uno dei personaggi che si trova con lui, gli chiede: «Domandati
come sei arrivato qui!». In pratica se sa spiegare come è arrivato lì è la realtà, altrimenti un sogno.
Sembra proprio una possibile distinzione tra doxa plausibile e doxa senza causa. Un’opinione
qualunque, che descrive una qualsiasi esperienza, nel momento in cui è vissuta è soggetta all’errore
(non può essere altrimenti, dato che ogni opinione esclude tutti gli altri punti di vista che la
negherebbero); ma un’opinione può avere, qualunque sia il suo valore di verità, una causa per cui
acquista quella valenza.
Ecco un esempio banale ma chiaro: “il sole è giallo” è doxa e quindi fallace, mentre
l’affermazione “il sole è giallo perché così i miei occhi riflettono la luce che ne deriva ecc.”,
nonostante il valore delle singole proposizioni sia ancora falso, nella sua concatenazione, nel suo
rapporto, è indubitabile. La causa e l’effetto viste singolarmente sono doxa, ma nel loro rapporto (di
causa-effetto) sono episteme.
Il vedere la realtà in modo diverso dipende da quel che è e da quel che è il soggetto che la
esperisce. Le cose appaiono a causa di ciò che sono, ovvero dell’essere, ma se è unico come può
mostrarsi in varie forme?
I MODI DI ESSERE DELL’ESSERE
Se la causa di tutto ciò è l’essere, ci devono essere dei princìpi che fanno sì che appaia in modi
diversi, pur essendo unico, Empedocle e Anassogora li chiameranno princìpi costitutivi dell’essere.
L’essere è uno, i suoi princìpi molteplici, ma essendo costitutivi dell’essere in quanto è, ogni
ente deve presupporre diverse forme in cui può essere percepito. Essendo la percezione una sintesi
tra soggetto e oggetto, i princìpi si troveranno sia nell’oggetto che nel soggetto e la risultante sarà
un incontro tra princìpi simili e princìpi dissimili (a seconda che si segua l’argomento di Empedocle
o Anassagora, appunto).
LA TÉCHNE
Arrivati alla conclusione di questo raccordo tra l’essere e la natura di cui si può dire qualcosa
senza dover necessariamente presupporre il non-essere, manca il passaggio finale: l’esperienza.
Sappiamo bene che, anche laddove immaginiamo che le cose cambino in virtù di leggi eterne,
queste non sono percepibili e sembrano essere escluse dal nostro ragionamento. Per chiudere il
quadro ci viene in aiuto la tecnica, così come l’hanno interpretata i primi pluralisti.
Proviamo a sviluppare un ragionamento che, come tale, implica necessariamente discorsi
ipotetici:
Lo stesso Galilei chiama la fisica pu to di vista se plificato non totalizzante della natura, allo scopo di trovare
leggi di causa-effetto e che pe uesto può esse e co side ata l’unica vera filosofia, una scienza che non può parlare
del tutto. Il tutto esclude i rapporti di causa-effetto che presuppongono invece una molteplicità di enti.
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se le cose appaiono in virtù di una causa, né la cosa che appare né la causa sono di per sé
necessarie, ma è necessario che quando la causa si realizzi, si verifichi anche la
conseguenza, ovvero l’apparenza che è oggetto della mia esperienza;
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se l’apparenza dipende dal modo di essere delle cose che appaiono, allora dipenderanno
per quello che sono dal modo dell’Essere che permette, alle cose che appaiono, di
mostrarsi come determinate da quella che è la loro causa;
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se dunque il rapporto di causa-effetto non è nel come appaiono, ma dal modo di essere
dell’Essere, allora non è oggetto di esperienza (mutevole) ma sua causa necessaria.
Si deve dedurre che le cose che appaiono sono una derivazione dei rapporti fondamentali tra i
princìpi e quando avvengono è necessario che abbia luogo anche l’apparenza conseguente, in sintesi
l’esperienza deve essere oggetto di previsione. La téchne è proprio questo.
CONCLUSIONI
In un mondo dove tutto cambia, poter prevedere come i fenomeni si mostrano all’apparenza è
sicuramente un buon indice dell’esistenza di questi rapporti eterni e necessari, e non potendo essi
realizzarsi presupponendo l’unicità dell’Essere e neppure il non-essere, si deve dedurre la necessità
di modi di essere dell’Essere che possano essere messi in rapporto tra loro: a rapporti costanti,
effetti costanti.
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