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LEOPOLDO MAZZAROLLI
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Colori compositi
RIVISTA GIURIDICA DI URBANISTICA
Trimestrale di giurisprudenza, dottrina e legislazione
Direttori
Gherardo Bergonzini
Università di Padova
Patrizia Marzaro
Università di Padova
Direttore responsabile
Manlio Maggioli
Consiglio di direzione
Sandro Amorosino (Università di Roma “La Sapienza”), Gherardo Bergonzini, Mario Bertolissi (Università di Padova), Aldo Checchini (Università di Padova), Daria de Pretis (Università
di Trento), Rosario Ferrara (Università di Torino), Vittorio Gasparini Casari (Università di
Modena e Reggio Emilia), Guido Greco (Università di Milano), Patrizia Marzaro, Girolamo
Sciullo (Università di Bologna), Aldo Travi (Università “Cattolica del Sacro Cuore” di Milano)
Comitato Scientifico
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Bassi (Università di Parma), Sergio Bartole (Università di Trieste), Marino Breganze (Università
di Padova), Antonio Carullo (Università di Bologna), Daniele Corletto (Università di Verona),
Giulio Correale (Università di Roma “La Sapienza”), Guido Corso (Università di Roma Tre), Alessandro Crosetti (Università di Torino), Gian Candido De Martin (LUISS di Roma), Giulio
Ghetti (Università di Bologna), Alessio Lanzi (Università di Milano – Bicocca), Giorgio Pagliari
(Università di Parma), Franco Pellizzer (Università di Ferrara), Giuseppe Pericu (Università di
Genova), Alberto Romano (Università di Roma “La Sapienza”), Nazareno Saitta (Università di
Messina), Giovanni Antonio Sala (Università di Verona)
Comitato Scientifico Internazionale
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Ralf Brinktrine (Università di Würzburg), Belen Noguera (Università di Barcellona), Vera Parisio (Università di Brescia), Thierry Tanquerel (Università di Ginevra), Karl Weber (Università
di Innsbruck)
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risarcimento danni proveniente da terzi che dovessero rivendicare diritti su tali contenuti.
Hanno collaborato a questo numero:
SANDRO AMOROSINO, Professore ordinario di Diritto dell’economia, Dipartimento
di Economia e Diritto, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
MARINO BREGANZE, Professore a contratto di Diritto dei beni culturali e dell’ambiente presso l’Università degli Studi di Padova, già professore associato di Diritto
amministrativo.
ALESSANDRO CALEGARI, Professore associato di Diritto amministrativo, Dipartimento di Diritto pubblico, internazionale e comunitario, Università degli Studi di
Padova.
STEFANO DI LENA, Cultore di Diritto amministrativo, Dipartimento di Economia e
Management, Università di Ferrara.
ANDREA MALTONI, Professore ordinario di Diritto amministrativo, Dipartimento
di Economia e Management, Università di Ferrara.
NICCOLÒ PECCHIOLI, Dottore di ricerca presso l’Istituto universitario europeo e
avvocato nel Foro di Firenze.
CLEMENTE SANTACROCE, Dottore di ricerca in Diritto amministrativo, Dipartimento di Diritto pubblico, internazionale e comunitario, Università degli Studi di Padova.
CRISTINA VIDETTA, Ricercatore in Diritto amministrativo, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.
Indice n. 2/2014
SOMMARIO
PARTE PRIMA – GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Consiglio di Stato, sez. VI, 3 luglio 2012, n. 3893, con nota di Cristina
Videtta........................................................................................................................ Pag.138
PARTE SECONDA – DOTTRINA
Clemente Pio Santacroce, Osservazioni sul «partenariato pubblicopubblico», tra elaborazioni ed applicazioni giurisprudenziali del modello e
nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni ............................... Sandro Amorosino, Oggetto e principi normativi della disciplina dell’edilizia ......................................................................................................................... Alessandro Calegari, Riflessioni in tema di tutela dell’ambiente e del
paesaggio nell’esperienza giuridica italiana ........................................................ Marino Breganze, Pianificazione paesaggistica in itinere: l’esperienza
del Veneto.................................................................................................................... Andrea Maltoni, Stefano Di Lena, Pianificazione urbanistica e
meccanismi competitivi............................................................................................. »174
»198
»208
»228
»233
PARTE QUINTA – RECENSIONI
Niccolò Pecchioli, Recensione a Gian Franco Cartei e Luca De Lucia
(a cura di), Contenere il consumo di suolo – Saperi ed esperienze a confronto,
Napoli, Editoriale Scientifica, 2014 ..................................................................... »272
INDICE DEGLI AUTORI
PARTE PRIMA – GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Cristina Videtta, Discrezionalità tecnica ancora alla prova: il vincolo
storico-artistico sul sistema dei laghi di Mantova, nota a Consiglio di Stato,
sez. VI, 3 luglio 2012, n. 3893............................................................................... »158
indice
134
PARTE SECONDA – DOTTRINA
Sandro Amorosino, Oggetto e principi normativi della disciplina dell’edilizia ......................................................................................................................... Pag.198
Marino Breganze, Pianificazione paesaggistica in itinere: l’esperienza
del Veneto.................................................................................................................... »228
Alessandro Calegari, Riflessioni in tema di tutela dell’ambiente e del
paesaggio nell’esperienza giuridica italiana ........................................................ »208
Andrea Maltoni, Stefano Di Lena, Pianificazione urbanistica e
meccanismi competitivi............................................................................................. »233
Clemente Pio Santacroce, Osservazioni sul «partenariato pubblicopubblico», tra elaborazioni ed applicazioni giurisprudenziali del modello e
nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni ............................... »174
PARTE QUINTA – RECENSIONI
Niccolò Pecchioli, Recensione a Gian Franco Cartei e Luca De Lucia
(a cura di), Contenere il consumo di suolo – Saperi ed esperienze a confronto,
Napoli, Editoriale Scientifica, 2014 ..................................................................... »272
INDICE ANALITICO
AMBIENTE
Concetto e definizione normativa – Costituzione – Giurisprudenza costituzionale – Distinzione tra ambiente e paesaggio ............................................ »208
CONTRATTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Partenariato pubblico-pubblico – Nozione ...................................................... Nuove direttive europee sulle procedure di aggiudicazione dei contratti
pubblici di appalti e concessioni (direttive 2014/24/UE, 2014/25/UE
e 2014/23/UE) – Contratti di «cooperazione pubblico-pubblico non
istituzionalizzata» – Codificazione legislativa ................................................ »174
»174
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Contratti e accordi di cooperazione pubblico-pubblico – Elaborazione
giurisprudenziale del modello – Sentenza 9 giugno 2009, “Stadtreinigung
Hamburg” (C-480/06) – Successive applicazioni – Sentenza 19 dicembre
2012, “ASL Lecce” (C-159/11) – Ordinanza 16 maggio 2013, “Consulta
Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia e altri” (C-564/11) – Ordinanza
20 giugno 2013, “Consiglio nazionale degli Ingegneri” (C- 352/12)................ Disciplina dell’affidamento di appalti di lavori pubblici – Applicabilità alla
realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria di valore pari
o superiore alla soglia comunitaria....................................................................... »174
»233
indice
135
DISCREZIONALITÀ TECNICA
Vincolo storico-artistico e vincolo paesaggistico - Vincolo diretto e vincolo
indiretto - Tutela dei privati – Interesse dei terzi ............................................. Pag.158
EDILIZIA
Disciplina dell’ - Oggetto e principi normativi ................................................ »208
GIUDICE AMMINISTRATIVO
Giurisprudenza nazionale in materia di beni ambientali e paesaggistici –
Evoluzione e sviluppo della giurisprudenza in materia di tutela dell’ambiente
e del paesaggio ……................................................................................................... Giurisprudenza nazionale in materia di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria - Applicazione della disciplina del Codice dei contratti pubblici
– Regime applicabile alle opere sotto soglia....................................................... »208
»233
PAESAGGIO
Amministrazione del paesaggio e pianificazione paesaggistica - Tutela –
Competenze e attribuzioni di Stato e Regione - Autonomia e leale collaborazione - Obbligo di coinvolgimento dello Stato......................................... Disciplina delle modalità d’uso dei beni paesaggistici – Rapporto tra vincoli
provvedimentali e pianificazione in sede di formulazione delle prescrizioni
d’uso - Problemi del coordinamento procedurale tra integrazione del vincolo e pianificazione................................................................................................ Oggetti e contenuto della pianificazione - Beni paesaggistici e ulteriori
contesti di paesaggio – Ricognizione dei vincoli provvedimentali e imposti
per legge .................................................................................................................... Rapporti tra pianificazione paesaggistica e piano per il parco ....................... Rapporti tra tutela del paesaggio e governo del territorio .............................. Tutela del paesaggio – Giurisprudenza amministrativa nazionale e comunitaria ........................................................................................................................ »208, 228
»158
»158
»158
»158
»158
PEREQUAZIONE URBANISTICA
Opere di urbanizzazione primaria e secondaria – Pianificazione urbanistica
strutturale e attuativa.............................................................................................. »233
PIANIFICAZIONE PAESAGGISTICA
Stato e Regione - Competenze e attribuzioni di Stato e Regione - Autonomia
e leale collaborazione .............................................................................................. »208, 228
indice
136
PIANIFICAZIONE URBANISTICA
Opere di urbanizzazione primaria e secondaria – Rapporto tra potere di
pianificazione e modalità di realizzazione delle opere – Meccanismi competitivi e discrezionalità amministrativa............................................................. Pag.233
PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ
Ambito di applicazione del principio nella tutela del paesaggio ................... »158
PRINCIPIO DI SEMPLIFICAZIONE
Tutela dell’ambiente e del paesaggio – Istituti di semplificazione procedimentale ...................................................................................................................... »208
STATO E REGIONI
Pianificazione paesaggistica - Competenze e attribuzioni di Stato e Regione
- Autonomia e leale collaborazione ..................................................................... Tutela dell’ambiente e del paesaggio - Competenze e attribuzioni di Stato
e Regione .................................................................................................................. Opere di urbanizzazione primaria e secondaria - Meccanismi competitivi
richiamati nelle leggi regionali in materia di governo del territorio.............. »208, 228
»228
»233
UNIONE EUROPEA
Concorrenza – Disciplina applicabile all’affidamento di appalti di lavori
pubblici per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria............................................................................................................................ Direttiva Bolkestein – Procedimenti amministrativi riguardanti ambiente,
paesaggio e patrimonio culturale – Non applicabilità .................................... Direttive europee sulle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici
di appalti e concessioni (direttive 2014/24/UE, 2014/25/UE e 2014/23/
UE) – Contratti di «cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata» – Codificazione legislativa – Art. 12, par. 4, dir. 2014/24/UE – Art.
28, par. 4., dir. 2014/25/UE – Art. 17, par. 4, dir. 2014/23/UE ................. »233
»174
»174
GIURISPRUDENZA
COMMENTATA
CONSIGLIO DI STATO, sez. VI, 3 luglio 2012, n. 3893, Pres.
Giuseppe Severini, Est. Roberta Vigotti, Lagocastello s.r.l. e altri c.
Ministero per i beni e le attività culturali e altri (conferma T.A.R.
Lombardia, Brescia, sez. I, 30 marzo 2011, n. 506)
Paesaggio e bellezze naturali (Tutela del) – Beni culturali (Tutela dei) – Vincoli paesaggistici e culturali – Distinzione – Stato di degrado del bene – Irrilevanza – Vincolo diretto – Vincolo indiretto – Ambiti territoriali – Ampiezza del vincolo – Proporzionalità – Valutazione dell’Amministrazione di
sottoporre a tutela – Discrezionalità tecnica e discrezionalità
amministrativa – Sindacabilità – Limiti – Conseguenze sull’affidamento dei terzi.
Il discrimine tra vincolo paesaggistico e vincolo storico-culturale, quando si tratti di tutelare un ambito territoriale limitato, deve
essere rintracciato non già nell’ampiezza della porzione di territorio
oggetto del vincolo, quanto nelle finalità che si vogliono perseguire nel caso concreto: la tutela paesaggistica riguarda “visuali”, mentre quella storico-artistica riguarda “cose”, in genere manufatti totalmente innovativi, ovvero dati di natura oggetto di cure e adattamenti umani, in cui la componente naturalistica, anche ove eventualmente dominante dal punto di vista quantitativo, non rileva ai
fini della qualificazione del vincolo nel primo senso.
In materia di tutela del patrimonio culturale, non rileva lo stato, di degrado o di cattiva conservazione, del bene da assoggettarsi a vincolo.
L’affidamento ben difficilmente rileva in senso oppositivo in una
materia come quella della tutela del patrimonio culturale, dove il giudizio è essenzialmente di discrezionalità tecnica e non amministrativa, in cui non vengono comparati interessi (presupposto dell’affidamento), ma vengono valutati tecnicamente fatti in relazione al valore generale da proteggere, e dove si fa applicazione di un principio
fondamentale della Costituzione come quello dell’art. 9.
L’interesse all’edificazione su una parte di territorio, appuntato
su valutazioni essenzialmente urbanistiche e non di tutela del patrimonio culturale, non può assumere posizione limitativa dell’apprezzamento tecnico preordinato all’imposizione di un vincolo storico artistico.
giurisprudenza commentata
139
In materia di imposizione di vincoli indiretti di cui all’art. 45
del Codice dei beni culturali e del paesaggio, assumono rilievo unicamente l’adeguatezza e la proporzionalità del vincolo in rapporto
all’oggetto principale da proteggere, mentre la conseguente attenuazione del diritto di proprietà rimane esterna rispetto all’esercizio del
potere, al punto da non essere indennizzabile.
Il vincolo indiretto di cui all’art. 45 del Codice dei beni culturali
è legittimamente imposto quando è riferito non solo alla tutela diretta di un singolo bene culturale, ma anche di un intero insieme anche, a fortiori, quando si tratti di un complesso non ipogeo o di superficie, ma di un sistema unitario complementare ad una importante città storica (fattispecie in materia di vincolo sul sistema dei
laghi di Mantova).
Fatto e Diritto – La s.r.l. Immobiliare Lagocastello e, nelle forme dell’appello incidentale ex art. 96 comma 3 cod. proc. amm.
(ma con analoghi argomenti), la s.a.s. Conti Immobiliare chiedono la riforma della sentenza n. 506/2011 con la quale il Tribunale amministrativo della Lombardia (Brescia) ha respinto i ricorsi
proposti avverso il decreto della Soprintendenza per i beni architettonici e paesistici delle Province di Brescia, Cremona e Mantova in data 15 maggio 2009, recante dichiarazione di interesse storico-artistico e prescrizione di tutela ai sensi dell’art. 10, comma
3, lett. d), d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio, d’ora innanzi: Codice) del sistema dei laghi di Mantova, del canale Rio, dei ponti Mulini e di San Giorgio, e avverso
gli atti prodromici e connessi, per effetto dei quali sono sottoposti
a tutela diretta, di carattere storico-archiettonico e culturale parte
del complesso dei laghi che circondano la città ducale e gli annessi sistemi di irrigazione idraulica e/o naturale di rivi e altre opere
complementari di interesse particolarmente rilevante. I medesimi atti sottopongono inoltre a vincolo indiretto ai sensi dell’art. 45
dello stesso Codice, a salvaguardia dell’insieme direttamente tutelato, un confinante ambito non lacustre, situato in sponda sinistra
dei laghi di Mezzo e Inferiore, indicato come zona di rispetto nella
quale è interdetta la realizzazione di qualsiasi tipo di costruzione.
La medesima sentenza ha estromesso dal processo il Comune
di Mantova e la Provincia di Mantova. Tale statuizione è passata
in giudicato, in difetto di impugnazione sul punto.
140
parte I
I) – Le società appellanti, che, al momento in cui sono intervenuti gli atti impugnati in primo grado, avevano in corso di esecuzione un piano di lottizzazione per la realizzazione di immobili residenziali e alberghieri in detta zona di rispetto (già interessata da analogo precedente vincolo posto dalla Soprintendenza a
tutela dello storico profilo della città di Mantova, come raffigurato in antichi dipinti, vincolo a suo tempo annullato dal Tribunale
amministrativo della Lombardia) hanno proposto distinti ricorsi chiedendo l’annullamento sia del vincolo diretto, sia del vincolo indiretto imposto sulla zona per effetto del decreto della competente Soprintendenza del 15 maggio 2009.
II) – Con la sentenza impugnata i ricorsi, riuniti, sono stati respinti, avendo il primo giudice rilevato, quanto al vincolo diretto:
- la legittimità della attrazione, nel regime di tutela dell’importanza naturalistica dell’area, degli elementi culturali impressi
nell’ambiente e la conseguente legittima coesistenza dei rispettivi
vincoli, paesistico e culturale;
- la congruità e logicità (e la conseguente non censurabilità in
giudizio della valutazione di merito dell’Amministrazione), dell’estensione dell’area sottoposta a tutela, in ragione della sostanziale invarianza attraverso i secoli dello stato dei luoghi, che configurano un sistema integrato nel quale l’acqua e le opere ingegneristiche fungono da collegamento;
- l’inesistenza e, comunque, l’irrilevanza del degrado dell’area
ai fini della imposizione del vincolo.
Quanto al vincolo indiretto, la sentenza impugnata ne ha considerato la non incongruità e sproporzione, dal momento che:
- sussiste continuità spaziale tra l’area che ne è gravata e quella interessata dal vincolo diretto, tale da costituire idonea cornice territoriale per il decoro di quest’ultima ai sensi e per gli effetti dell’art. 45 d.lgs. n. 42 del 2004;
- non sussiste la pretesa sproporzione della superficie sottoposta
a vincolo, dato che l’area interessata è priva di costruzioni significative ed è tuttora morfologicamente contraddistinta dal carattere
agricolo o naturale che è rimasto pressoché immutato nel tempo;
- non risulta violato il principio di proporzionalità tra gli interessi coinvolti che, in ogni caso, le esigenze di conservazione
giurisprudenza commentata
141
storico-culturale dell’esistente hanno la netta prevalenza sui contrapposti interessi privati;
- nella valutazione di questi ultimi, assume rilevanza la considerazione che l’insediamento previsto dalla lottizzazione disterebbe non molto dalle sponde lacuali e che il relativo procedimento
autorizzativo non è ancora concluso, residuando la valutazione di
impatto ambientale e il rilascio dei permessi edilizi;
- pertanto, non sussiste l’affidamento preteso dalle ricorrenti, che comunque non potrebbe essere vantato nei confronti della Soprintendenza, estranea ai poteri edilizio-urbanistici e il cui
consolidamento è escluso dalla tempestività dell’intervento oggetto di controversia;
- non sussiste il lamentato difetto istruttorio e di travisamento
dei fatti, alla luce della documentazione versata in atti.
III) – Tutte le argomentazioni sopra riassunte sono censurate
dalle società appellanti, ma la sentenza impugnata resiste ai gravami. Gli appelli in esame sono infondati alla luce delle considerazioni che seguono:
l’oggetto degli atti impugnati è un’ampia porzione di territorio
circostante il centro storico della città di Mantova e i laghi ivi formati dal fiume Mincio e artificialmente creati e regolati. Questo
elemento di fatto è stato, sia nell’iter procedimentale che in alcuni
motivi della domanda giudiziale, evocato per affermare in sostanza che l’azione amministrativa avrebbe dovuto essere parametrata sugli schemi propri della tutela del paesaggio anziché su quella dei beni culturali, e che comunque a quei parametri va in realtà ricondotta anziché a quella propria dei beni culturali.
Rientrano in tale argomentazione le censure di cui al primo
mezzo degli appelli (sostanzialmente ripetitive di quelle sollevate
in primo grado), che si appuntano specificamente avverso l’imposizione del vincolo diretto.
L’assunto su cui si basano è erroneo perché confonde il dato
oggettuale dell’ampiezza spaziale del vincolo con le ragioni e la finalità per cui è stato introdotto. Benché sia usuale che per gli ambiti territoriali si pratichi la tutela paesaggistica quando è la visuale che si intende conservare, occorre però considerare che quando
si intende conservare, piuttosto che la visuale, la consistenza materiale, legittimamente si può praticare la tutela di bene culturale
142
parte I
apponendo il relativo vincolo. Sicché non è l’ampiezza della porzione di territorio a qualificare il tipo di vincolo applicato, ma le
ragioni e le finalità che si intendono perseguire in concreto, oltre
ovviamente all’autoqualificazione stessa dell’atto.
Si tratta dunque di interpretare l’atto per identificare il potere qui in concreto esercitato, e qualificare in termini sostanziali
l’atto stesso e il suo regime, ricordando che nell’interpretazione di
un provvedimento amministrativo la lettera e l’autoqualificazione precedono ogni altro criterio (Cons. Stato, IV, 30 maggio 2001,
n. 2953; VI, 8 aprile 2003, n. 1877; IV, 22 settembre 2005, n. 4982;
V, 16 giugno 2009, n. 3880; V, 5 settembre 2011, n. 4980) e che è
essenziale la considerazione del contenuto complessivo dell’atto
(Cons. Stato, IV, 23 luglio 2009, n. 4623).
Viene allora in evidenza che, nel caso in esame, i due tipi di
vincolo, diretto e indiretto imposti con il provvedimento impugnato in primo grado, introducono una tutela che per come si nomina, si basa e si esplica è, senza dubbi o equivoci, e per le norme espressamente invocate (artt. 10 e 45), quella propria dei beni
culturali, di cui alla Parte II del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 non
già una tutela corrispondente a quella propria dei beni paesaggistici, vale a dire della Parte III. Le caratterizzazioni che emergono dalle motivazioni e dal contenuto di questo praticato vincolo
e dalle sue finalità come definite dall’atto non consentono una diversa qualificazione, né una commistione in concreto della tutela
del paesaggio con la tutela dei beni culturali.
Si tratta di strumentazioni tra loro parallele e differenziate, e
non deve indurre in errore il dato che le specie dei beni culturali
e dei beni paesaggistici, che sintetizzano i rispettivi tipi amministrativi di tutela, compongano unitariamente – per comune fondamento storico, concettuale e giuridico – il genere del patrimonio
culturale ed abbiano principi comuni perché collegati dall’analoga matrice culturale e dal valore identitario (artt. 1 e 2 del Codice)
e dal riferimento contestuale nel medesimo principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione.
Con riguardo a questo esercizio concreto del potere di vincolo, diretto e indiretto, che è qui quello proprio dei beni culturali,
va dunque sgombrato anzitutto il campo dall’equivoco di fondo –
su cui in pratica, sebbene implicitamente, si basa l’assunto da cui
qui si è partiti – circa l’elemento per così dire strutturale, che una
giurisprudenza commentata
143
porzione di territorio possa essere oggetto della sola tutela di cui
alla Parte III del Codice, che è modellata sulla conservazione del
valore paesaggistico inteso come insieme visuale e che fa riferimento alle tre tipologie di cui all’art. 134. Se infatti ricorrono in
concreto gli specifici presupposti dell’art. 10 – il che può bene avvenire, quand’anche in circostanze particolari, e in ipotesi in aggiunta a quella tutela: ed è questo il caso presente – un ambito territoriale delimitato può essere oggetto di tutela (anche) come bene culturale in sé e comunque, indirettamente, come zona di rispetto di un bene culturale.
Del resto, alcune delle tipologie dell’art. 10, comma 4 – alle quali si riconosce unanimemente valore esemplificativo – e segnatamente quelle di cui alle lettere f), g), h) e in parte l) si riferiscono
in fatto a specifiche porzioni di territorio, la cui particolare caratterizzazione è considerata già dalla legge indice presuntivo di valore culturale. Altrettanto dicasi per l’ipotesi speciale dell’art. 11,
comma 1, lett. c) e del richiamato art. 52.
Il che conferma che, sulla base degli accertamenti tecnico-discrezionali necessari, anche altre specifiche porzioni di territorio
possono essere in via amministrativa – e sui presupposti propri
dell’accertamento della qualità di bene culturale, qui particolarmente significativi vista la corrispondente conformazione di vasti diritti immobiliari che implica – assoggettate al medesimo tipo di tutela.
Ma anche dal punto di vista funzionale, diversi sono i presupposti materiali e le finalità conservative delle due specie del patrimonio culturale.
La tutela dei beni paesaggistici riguarda o il risultato storico
dell’interazione tra intervento umano e dato di natura, o lo stretto
dato di natura: così è oltre che l’art. 1, comma 2, del Codice, per
l’art. 2, comma 3 che lega la tutela paesaggistica all’“espressione
dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio”, e per l’art. 131, comma 2, che la riferisce “a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
La tutela dei beni culturali immobili riguarda invece non visuali ma cose, in genere manufatti (cioè realizzazioni dell’uomo),
che a seconda dei casi sono o inserti totalmente innovativi (es. edifici), ovvero dati di natura oggetto di cure e adattamenti umani,
144
parte I
anch’essi caratterizzazioni particolari dello spirito e dell’ingegno
(es. parchi e giardini), per i quali il fatto che la componente naturalistica rimanga quantitativamente dominante non rileva ad
escludere i relativi vincoli, perché ciò che conta per questa qualificazione è l’intervento creativo umano che li origina, li modella,
li condiziona e li guida.
Essi, a seconda dei casi, manifestano l’“interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico” dell’art. 10, comma 1
e comma 3, lett. a), dove è la combinazione con quello ad esprimere il complessivo valore culturale; ovvero – come è testualmente qui – si tratta di (art. 10, comma 3, lett. d)) beni immobili “che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della
cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose” – dove
oggetto di tutela non è come per gli altri beni culturali la cosa per le sue caratteristiche intrinseche, ma la cosa in quanto è
stata sede o reca la testimonianza di fatti o situazioni storici –
e dove comunque la combinazione con il dato di natura, ove di
questa relazione partecipi, contribuisce ad esprimere il valore
culturale come valore storico.
In questo ambito del comma 3, lett. d), il Codice, nell’opera
di riassetto e codificazione di disposizioni legislative demandato
dall’art. 10 l. 6 luglio 2002, n. 137, non si limita a indicare le cose di cui già all’art. 2 l. 1 giugno 1939, n. 1089 e all’art. 2, comma
1, lett. b) d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, ma manifestamente vi affianca (abrogando poi espressamente quella normativa all’art. 184)
la finalità del d.P.R. 7 settembre 2000, n. 283 (Regolamento recante disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico
e artistico), il quale dichiarava l’assoluta inalienabilità, tra l’altro,
dei “beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche”, vale a dire di cose divenute via via
esse stesse testimoni e simboli di una storia di civiltà.
È da rilevare che la dottrina, seguendo i lavori preparatori
del Codice, ravvisa in quest’ultima componente un’integrazione delle cose aventi caratterizzazione storico-relazionale, cioè
connesse a fatti della storia, con quelle aventi caratterizzazione
storico-identitaria: cioè cose che – indipendentemente da singoli
giurisprudenza commentata
145
fatti o avvenimenti storici di cui siano state teatro e con riguardo piuttosto alla loro condizione prolungata nel corso del tempo – sono collegate con la storia delle città e del loro reggimento e per questo esprimono la radice identitaria dei luoghi e delle opere di rilievo pubblico, quand’anche non in riferimento a
specifici episodi.
La rilevazione va condivisa, anche considerando che le due
sottocategorie si integrano reciprocamente, come mostra la contestualizzazione nella medesima lett. d) del comma 3 dell’art. 10,
e che non sempre è dato distinguere eventi da situazioni. Entrambe le sottocategorie sono da riferire alla caratterizzazione espressa da attività di rilievo generale e sedimentata in quelle cose. La
dimensione identitaria è del resto connaturata alla tutela del patrimonio culturale, sia per il principio fondamentale costituzionale dell’art. 9 Cost., che si fonda sul patrimonio come elemento costitutivo della Nazione e perciò della sua identità, sia per il principio generale del Codice espresso all’art. 1, comma 2, per il quale
“la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a
preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio
e a promuovere lo sviluppo della cultura”, che evidenzia a sua volta la corrispondente ragione della tutela.
Perciò, per ciascuna delle due ipotesi di bene culturale (storico-artistica e storica), diversamente da quanto argomentato in
senso contrario negli appelli, il dato di natura, integrato e corretto nei secoli dall’opera umana, ben può costituire sostrato materiale di un bene culturale anche se quantitativamente ne risulta dominante.
Inoltre, in entrambi i profili della seconda ipotesi (storico-relazionale e storico-identitario), non meno che per la prima, il rilievo del contesto circostante è considerato potenzialmente interagente con il valore culturale, tanto da poter necessitare di una
conservazione particolare: a questo servono le eventuali “prescrizioni di tutela indiretta”, cioè il c.d. vincolo indiretto dell’art. 45.
Tale è il caso dell’atto contestuale di cui qui si verte, come è
manifesto dalla lineare e sufficiente motivazione e dalla relazione
che lo accompagna e integra.
Più specificamente, quanto alla tutela diretta di bene culturale, essa è introdotta dal provvedimento ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), vale a dire in rapporto all’intera caratterizzazione
146
parte I
che si è detta. L’intera motivazione dell’atto, sia diretta che mediante la collegata relazione storico-artistica, dando pienamente
conto dell’iter logico seguito, riferisce analiticamente questa storicità all’opera sistematica di controllo e governo cittadino delle acque locali del bacino del Mincio lungo un amplissimo arco
di secoli, con particolare riferimento al tempo dei Gonzaga ma
non solo, e ne evidenzia l’essenzialità alla esistenza e alla conformazione della città, e così mette in evidenza la complementarità di questo governo idrico del fiume, che forma il sistema dei
laghi e dintorni, con la città di Mantova. Conformemente al paradigma normativo che evoca, l’atto collega questo spazio plasmato dal reggimento cittadino alla conformazione eccezionale di Mantova, che circonda e protegge; lo pone in rapporto alle
funzioni essenziali per la città e adeguatamente motiva facendo
riferimento, per la conferma del suo speciale valore, alla vicenda ingegneristica e alla celebrazione dei suoi autori, come ad alcune delle sue rappresentazioni artistiche, in particolare il trecentesco affresco della Masseria e il rinascimentale dipinto del
Mantegna “La morte della Vergine”, da apprezzare ovviamente
non circa la consistenza attuale del dettaglio rappresentato, ma
per la capacità identitaria del fatto stesso della rappresentazione iconografica (pare qui il caso di ricordare – per la congruenza
alle nominate basi normative del provvedimento – che il vincolo si riferisce alla conformazione di una componente essenziale
di una delle principali città del Rinascimento italiano, cui corrisponde l’ideale della città e del suo reggimento quale effetto della trasformazione razionale e della sistemazione ordinatrice degli elementi ad opera dell’uomo).
Coerentemente a questa qualificazione, la motivazione dell’atto, nel percorrere la vicenda nel tempo, parla di “carattere di manufatto storico dei laghi”, e poi ripetutamente di “contesto storicizzato”, “testimonianza storica”, “sistema dei laghi come risultante di
una trasformazione operata da interventi umani”, luogo “testimone di eventi storici”, ecc.
Quanto alla collegata “relazione storico-artistica”, che si riferisce al vincolo diretto dell’art. 10, comma 3, lett. d), con ampiezza di particolari vi viene esposta la caratterizzazione del “sistema
dei Laghi di Mantova, del Canale Rio, dei ponti dei Mulini e di San
Giorgio” come storica, complessa e sedimentata sistemazione del
giurisprudenza commentata
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corso del Mincio in corrispondenza della città, di controllo del
fiume, di sistema essenziale alla consistenza, all’economia, alla
difesa militare di Mantova. La regimazione e il sistema idraulico connesso viene indicato “nella sua evoluzione e stratificazione
storica” come “una testimonianza esemplare della tradizione di gestione e controllo dell’acqua come risorsa naturale che ha contraddistinto la storia dei territori della Pianura Padana”. La ricordata rappresentazione iconografica viene collegata alla “importanza fondamentale attribuita dalla tradizione culturale mantovana
all’assetto idrogeologico che ha connotato il territorio in maniera
così unica e straordinaria”. E si conclude che l’insieme “si ritiene
meritevole di tutela e salvaguardia in quanto testimonianza della
storia della tecnologia idraulica, delle tecniche agrarie e della storia politica e militare della Città di Mantova, oltre della importanza della sua ‘cifra identitaria’ alla luce dell’iconografia, consegnata […] alla storia dell’arte italiana”.
La “relazione tecnico scientifica”, che si riferisce essenzialmente al circostante vincolo indiretto dell’art. 45, descrive poi catastalmente, perimetra e distingue in quattro ambiti, differenziati per prescrizioni, la cornice di contesto ai laghi, la qualifica come “complemento inscindibile ed imprescindibile dei luoghi” e detta analitiche misure tecniche e precetti coerenti con tale funzione di rispetto, che riguardano sia l’attività edilizia che le altre attività a effetti materiali.
1) Queste coerenti rilevazioni, che sono di stretta natura tecnica e in principio non consentono un loro intrinseco sindacato da
parte del giudice amministrativo, rendono evidente l’infondatezza della pretesa dei ricorrenti sviluppata nel primo motivo dell’appello, di inferire dalla considerazione dei valori naturalistici dell’area quali beni culturali l’illegittimità dell’imposizione del relativo
vincolo. Non è infatti al valore naturalistico che la motivazione
dell’atto, e le relazioni che la integrano, fanno riferimento: bensì
al monumentale “sistema dei laghi” in quanto espressione e testimonianza materiale di civiltà, rappresentativa della dimensione
identitaria di una città d’arte dell’importanza eccezionale e del rilievo anche internazionale di Mantova, in ragione sia della storia
generale della città, che della storia dell’arte, che della scienza e
della tecnica idraulica, agraria e militare, tutte applicate in modo
sistemico (e perciò riconducibile ad unità) alle acque circostanti
148
parte I
del Mincio e derivazioni, il cui governo è a salvaguardia delle funzioni esistenziali cittadine. Che questo artificiale e vasto sistema
ingegneristico, che realizza uno spazio prodotto dall’uomo in ragione dell’ordinamento civico, oggi contribuisca a comporre anche un paesaggio meritevole di una propria tutela paesaggistica
quale visuale panoramica (come del resto la relazione medesima
menziona a pag. 6, richiamando il d.m. 26 maggio 1970 di dichiarazione di notevole interesse pubblico degli spondali del Lago di
Mezzo e Inferiore; l’art. 142, lett. b) del Codice; il Parco regionale
del Mincio) non significa, per le ragioni già esposte, che la conformazione territoriale che ne è risultata non costituisca l’eccezionale elemento di inscindibile combinazione del dato di natura con
la sedimentazione storica, così esprimendo il valore storico-culturale, il quale non può essere scisso nelle varie componenti che
ne hanno determinato l’importanza.
Sarebbe artificioso e contro la legge sottrarre a questa combinazione lo stretto dato di natura per asserire che un insieme che
oggi a prima vista potrebbe apparire prevalentemente di natura
(ma non lo è, perché è effetto diretto dell’essenziale opera umana di condizionamento degli elementi naturali) possa essere assoggettato alla sola tutela paesaggistica. In realtà, l’una tutela non
esclude l’altra.
2) La concreta valutazione dell’Amministrazione, espressiva
di un’istruttoria piena e adeguata (contrariamente a quanto vorrebbero le impugnazioni), diffusamente e congruamente esternata nell’atto, è dunque lineare e coerente con le finalità per cui la
legge, in attuazione dell’art. 9 Cost., prevede il potere dell’art. 10,
comma 3, lett. d) del Codice, che qui è stato esercitato.
In ogni caso, è da ribadire che per consolidata e condivisa giurisprudenza non è sindacabile – se non risulti palesemente erronea ed illogica – la valutazione dell’Amministrazione di sottoporre a tutela un bene. La determinazione qui al vaglio, per le ragioni
esposte, non si appalesa né illogica, né altrimenti estrinsecamente
viziata, sotto alcuno dei profili evidenziati dalle appellanti, aventi attinenza alla pretesa irrilevanza storica di taluno dei manufatti considerati dalla Soprintendenza. Oggetto della tutela è tutto il
“sistema dei laghi”, che ha dato luogo ad un insieme unitario, dove il connubio tra cultura e natura, rimasto essenzialmente immutato nei secoli, è legittimamente ritenuto di per sé irrinunciabile.
giurisprudenza commentata
149
Del pari, costituisce principio di valenza generale in materia
di tutela del patrimonio culturale quello per cui lo stato, anche di
degrado o di cattiva conservazione, del bene non è di ostacolo per
l’imposizione del vincolo, e anzi ne costituisce particolare giustificazione nella prospettiva di agevolare misure cautelari e conservative dei valori messi in pericolo (da ultimo cfr. Cons. Stato, VI, 4
giugno 2010, n. 3556; 12 luglio 2011, n. 4196). Perciò la circostanza di fatto che nell’ambito in questione e poi in quello interessato
dal vincolo indiretto siano nel tempo avvenute marginali trasformazioni o siano sopravvenute alcune distruzioni belliche e siano
stati realizzati insediamenti, abitativi e anche industriali – che risultano qui comunque tali, per le concrete dimensioni, da non alterare il valore culturale unitario dell’insieme ingegneristico – non
osta all’apposizione del vincolo: e anzi ne rinforza l’esigenza ad evitare un’ulteriore compromissione del valore medesimo. La finalità della tutela è infatti, come la parola evoca, anzitutto conservativa e difensiva: perciò vi è pienamente funzionale che una compromissione avviata sia, per quanto possibile, poi contrastata con
l’introduzione e l’applicazione dei tipici mezzi giuridici protettivi.
Non conclude in senso inverso, perciò, nemmeno la documentazione versata in atti dagli appellanti, tesa a dimostrare una già
avvenuta realizzazione di opere di urbanizzazione dell’area, poiché tale caratterizzazione non osta, ma semmai essa stessa impone, richiede, l’adozione di misure atte a contrastare ulteriormente il degrado dei valori originari riconosciuti connaturati al bene,
e perciò stimati meritevoli di tutela.
Sono quindi del tutto infondate le doglianze, contenute nel primo e nel secondo motivo d’appello (quest’ultimo dedicato alla contestazione del vincolo indiretto), volte a censurare la sentenza impugnata sotto l’aspetto considerato.
3) Sempre nell’articolato primo motivo, le appellanti deducono la violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalità, con riferimento all’affidamento ingenerato nell’esecuzione del
piano di lottizzazione e della mancata comparazione con l’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione.
Le censure, riprese nel secondo e nel terzo motivo, dedicato
alla contestazione del vincolo indiretto, sono anch’esse infondate.
Va premesso che, come osserva il primo giudice, l’edificazione
iniziata nel giugno 2005 dalle ricorrenti previa denuncia di inizio
150
parte I
attività, pur oggetto della lottizzazione autorizzata il 10 febbraio
2005 dal Comune di Mantova (che in data 2 aprile 2005 aveva anche approvato l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria), non aveva superato tutte le tappe del complesso iter autorizzatorio. In particolare non era intervenuta la prescritta valutazione di impatto ambientale per tutte le opere di realizzazione della
lottizzazione, e per questo motivo i lavori erano stati sospesi dal
Comune con ordinanza del 4 novembre 2005.
Ne deriva che alla data in cui è intervenuto il provvedimento
di vincolo, 15 maggio 2009, non poteva dirsi radicato un qualsivoglia affidamento delle società ricorrenti in merito alla completa conformità dell’edificazione a tutte le norme, e quindi alla piena realizzabilità dell’intervento.
Non solo, va considerato che l’affidamento concerne, a tutto in
ipotesi concedere, i profili urbanistici ma non quelli del patrimonio culturale, che sono quelli di cui qui si verte, e che da quello
sono distinti e rispetto a cui sono superiori. E va anche considerato che l’affidamento ben difficilmente rileva in senso oppositivo in una materia come quella della tutela del patrimonio culturale, dove il giudizio è essenzialmente di discrezionalità tecnica
e non amministrativa (es. Cons. Stato, VI, 24 agosto 1992, n. 615;
VI, 10 novembre 1993, n. 817; VI, 21 settembre 1999, n. 1243; VI,
4 settembre 2002, n. 4429; VI, 6 settembre 2002, n. 4566), sicché
non compara e pondera interessi (presupposto dell’affidamento) ma piuttosto conosce e valuta tecnicamente fatti che mette
in relazione al valore generale da proteggere, e dove si fa applicazione di un principio fondamentale della Costituzione come
quello dell’art. 9.
Nemmeno un tale asserito radicamento può essere ricondotto alla precedente sentenza del medesimo Tribunale amministrativo, n. 860 del 14 agosto 2008, con la quale è stato annullato un
precedente vincolo per suoi vizi della motivazione e del procedimento, rispetto al quale quello oggetto dell’odierno giudizio si presenta come nuovo e comunque immune da quei medesimi vizi.
Ciò conferma che l’interesse all’edificazione in questo ambito
a ridosso della storica città di Mantova e dei suoi “laghi” fluviali, di cui erano portatrici le società appellanti, e appuntato su valutazioni essenzialmente urbanistiche (e per di più ancora in itinere, come bene rilevato dal primo giudice), ma non di tutela del
giurisprudenza commentata
151
patrimonio culturale, e in particolare di beni culturali, non poteva
assumere posizione limitativa dell’apprezzamento tecnico di questa tutela che – per costante insegnamento della giurisprudenza
costituzionale – è prevalente già per i beni paesaggistici e dunque
lo è a fortiori per i beni culturali, come qui; ed è tale da precedere e comunque porre limite alla tutela di altri interessi pubblici in
materia di governo del territorio.
La pretesa contraddizione di questa tutela di bene culturale
con la pregressa pianificazione urbanistica comunale non costituisce, quindi, un vizio della tutela assicurata dal vincolo, sia per
le ragioni appena dette, sia perché la posizione acquisita si è semmai costituita nei confronti dell’ente locale e della sua attività, nel
cui ambito non rientra in via primaria ed istituzionale la tutela
dei beni culturali. La Soprintendenza del resto ha svolto, nella vicenda che aveva condotto all’approvazione della lottizzazione, un
ruolo secondario e non determinante.
È vero, a proposito della tutela paesaggistica, che la Soprintendenza non aveva attivato i propri poteri di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica a suo tempo rilasciata dall’ente Parco
del Mincio e dal Comune di Mantova. Ma da un tale silenzio in
quel vicino settore non si può, peraltro, inferire l’assenso ai lavori da parte della Soprintendenza sotto il diverso profilo della tutela dei beni culturali; e anche quanto alla tutela dei beni paesaggistici, non va dimenticato che – nel regime transitorio dell’art. 159
del Codice allora vigente – alla Soprintendenza l’ordinamento assegna, nella cogestione del vincolo, solo poteri di vaglio di legittimità sui provvedimenti autorizzatori assunti dalle amministrazioni competenti, non di valutazione di merito.
Invece, in tema di beni culturali, l’apprezzamento tecnico della Soprintendenza è esclusivo e completo: non si tratta qui di un
vincolo solo da cogestire, né geneticamente, né funzionalmente;
e la valutazione che presiede alla dichiarazione di bene culturale
(come alla tutela di rispetto dell’art. 45) è una valutazione tecnica
piena e non di mera legittimità.
Pertanto, i limiti propri del regime transitorio di vaglio statale dell’autorizzazione paesaggistica non consentono alcuna comparazione con la ben diversa funzione di tutela dei beni culturali,
appartenente in via esclusiva allo Stato secondo il dettato dell’art.
152
parte I
117, secondo comma, lett. s), Cost. e della Parte II del d.lgs. 22
gennaio 2004, n. 42.
Si aggiunga comunque a tutto ciò quanto correttamente rilevato in fatto e vagliato dal primo giudice: che cioè, come si è già evidenziato, gli stessi procedimenti urbanistici intesi all’urbanizzazione territoriale per un vasto insediamento edilizio, non distante
dalle sponde lacuali, era ancora in itinere e che comunque difettavano affatto i susseguenti procedimenti edilizi. Il che manifesta
in concreto da un lato l’effettiva esigenza di tutela, da un altro lato tutto quanto si è ricordato in tema di rapporto tra gli interessi.
4) L’imposizione del vincolo indiretto, già contestata sotto alcuni dei profili sopra esaminati, è oggetto specifico del secondo e
del terzo motivo degli appelli.
Anche tali motivi, articolati in più punti, sono infondati e la
sentenza di primo grado è esente da errori di giudizio.
Non sussiste, innanzitutto, il dedotto vizio di difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento.
Valgono al proposito le considerazioni di ordine già esposte, anche con riguardo alle dettagliate acquisizioni istruttorie in punto
di fatto di primo grado (compendiate da una dettagliata ed esaustiva relazione tecnica di verificazione) e correttamente considerate e valutate da quel giudice, specialmente circa la dominante
caratteristica morfologica originaria propria di questa stessa area,
e circa le congrue distanze dal bene tutelato in via diretta. Vanno
condivise, in particolare, le valutazioni in diritto circa la dominanza dei rapporti quantitativi negli ambiti nn. 3 e 4 in favore assoluto dell’originario dato naturalistico e agricolo rispetto a quello risultante da recente trasformazione (che non è comunque alterato,
nella sua valutazione conclusiva in diritto, dai diversi rapporti numerici pur addotti in fatto da parte interessata) ai fini del giudizio
di ragionevolezza nei limiti consentiti al giudice amministrativo.
A queste considerazioni si aggiunge che la questione di fondo
pare tornare ad essere quella, già esaminata circa il vincolo diretto, dell’estensione spaziale del vincolo indiretto, che in effetti, gradato per ambiti, copre un’area quantitativamente rilevante.
L’assunto che una tale estensione sia di suo, in quanto tale, illegittima è anche qui erroneo in diritto, seppure per ragioni intrinsecamente diverse da quelle del vincolo diretto e da riferire piuttosto alla natura di quest’altro tipo di vincolo.
giurisprudenza commentata
153
Va anzitutto rilevato che l’art. 45 (Prescrizioni di tutela indiretta)
del Codice dei beni culturali e del paesaggio (che ripete la fattispecie sostanziale dell’art. 21 l. 1 giugno 1939, n. 1089 e poi dell’art.
49 d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490) non stabilisce altra delimitazione spaziale che quella intrinsecamente funzionale alla sua causa
tipica, che è di “prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano
alterate le condizioni di ambiente e di decoro”.
Vero è che questo vincolo di tutela della cornice ambientale
dei beni culturali evidenzia limitazioni delle facoltà proprietarie
e che, per quanto queste siano intrinseche alla relazione spaziale, occorre considerare l’esigenza del loro contenimento in sacrificio del proprietario, secondo criteri di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità. Va però considerato che, una volta stimato che il vincolo indiretto risulta una misura necessaria ed inevitabile, malgrado i sacrifici che la scelta di un tale strumento può
comportare, per proteggere il contesto complementare del bene direttamente tutelato – il che costituisce l’obiettivo prefissato in via
primaria –, senza di che la stessa tutela diretta sarebbe amputata
dell’insieme spaziale che conferisce valore al bene principale, alla sua valutazione tecnica e realizzazione pratica diviene estranea
un’attenuazione dell’interesse pubblico causata da quello all’edificazione: la quale attenuazione, nella traduzione provvedimentale, condurrebbe illegittimamente, e paradossalmente, a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore culturale del bene principale, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse alla trasformazione delle cose.
La proporzionalità qui rappresenta la congruenza della misura adottata in rapporto all’oggetto principale da proteggere: per
cui l’azione di tutela indiretta va contenuta nei termini di quanto
risulta essere concretamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi di tutela diretta. Va cioè posta in rapporto all’esigenza conservativa che ha causato il vincolo diretto e dunque alle caratteristiche dell’oggetto materiale di quello. È connessa alla ragionevolezza, e questa si specifica nel conseguimento di un punto
di equilibrio identificabile nella corretta e sufficiente funzionalità
dell’esercizio del potere di vincolo. Ne consegue che il potere va
esercitato in modo che – come qui è avvenuto traducendo questi
154
parte I
principi con la gradazione del vincolo per ambiti differenziati e
relative prescrizioni – sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto e non ad esso eccessivo.
Tutto questo significa che, una volta che è accertata questa corrispondenza in punto di fatto (la quale conduce all’evidente conseguenza della congruenza, in principio, dell’ampia estensione del
vincolo indiretto una volta posta l’ampia estensione di quello diretto), la latitudine spaziale non si pone più come un fattore estrinseco limitativo del vincolo, ma ne costituisce anzi il sostrato di fatto scaturente dalla necessaria e presupposta valutazione tecnica.
L’ampiezza della zona da preservare in via indiretta, del resto, non può essere determinata aprioristicamente, ma dipende
in concreto dalla natura e dalla conformazione del bene direttamente tutelato e dallo stato dei luoghi che lo circondano. L’estensione eccede in concreto dalla corretta cura dell’interesse quando
viene dimostrato – il che qui non è avvenuto – che riguarda terreni
non necessari a contrastare il rischio per l’integrità di beni culturali (cioè a garantirne la conservazione materiale), ovvero il danneggiamento della loro prospettiva o luce (cioè a garantirne la visibilità complessiva), ovvero l’alterazione delle loro condizioni di
ambiente e di decoro (cioè a preservarli da contrasti con lo stile e
il significato storico-artistico e a garantire la continuità storica e
stilistica tra il monumento e la situazione ambientale in cui è contestualizzato) (ad es., Cons. Stato, VI, 23 maggio 2006, n. 3078, ha
respinto l’impugnazione di un’imposizione di vincolo indiretto per
un raggio di tre chilometri intorno ad un castello; cfr. anche Cons.
Stato, VI, 9 marzo 2011, n. 1474). Della rappresentazione iconografica e del suo valore, qui rilevante in senso complementare, si
è già detto a proposito del vincolo diretto.
Tutte le garanzie del bene protetto in via primaria al cui presidio è funzionale il vincolo indiretto (conservazione materiale, visibilità complessiva, lettura stilistica e storico-artistica contestualizzata) formano un sistema integrato idoneo a sorreggerne l’imposizione. Ne deriva che la contestazione di un singolo elemento
non vale a sminuirne la validità complessiva.
Pertanto, le considerazioni degli appellanti circa l’inesistenza di
esigenze di tutela della visione delle sponde lacustri, in ragione di
ostacoli quale un pioppeto (che, oltretutto, costituisce un elemento del tutto caduco e transitorio) che si frappongono tra il lago e
giurisprudenza commentata
155
gli ambiti oggetto di lottizzazione, ovvero relative alla discontinuità tra il complesso oggetto della tutela diretta e gli insediamenti circostanti, ovvero ancora, e in generale, sulla pretesa erroneità della
rappresentazione e della definizione dello stato dei luoghi da parte della Soprintendenza prima, e del Tribunale amministrativo poi,
non hanno effetto sulla legittimità dell’imposizione del vincolo indiretto, che procede da – e si fonda su – un sistema integrato di motivazioni, del quale la visione complessiva e lo stato dei luoghi sono
componenti non unici e comunque recessivi rispetto alle dominanti
esigenze di conservazione materiale delle cose e di testimonianza.
In questi lineari termini rilevano e vanno valutati l’adeguatezza, la congruenza, la ragionevolezza e la proporzionalità del vincolo indiretto (cfr. Cons. Stato, VI, 6 ottobre 1986, n. 758), non già
– come vorrebbe l’appello – in attenuazione causata dal diritto di
proprietà, che a questi riguardi è intrinsecamente limitato e dunque esterno all’esercizio del potere tanto da non essere indennizzabile (Corte cost., 4 luglio 1974, n. 202, che precisa che l’art. 21
l. n. 1089 del 1939 concerne “il potere di imporre dei limiti all’esercizio dei diritti privati in relazione ad un preciso interesse pubblico
in base ad apprezzamento tecnico sufficientemente definito e controllabile, la cui discrezionalità è chiaramente determinata”; v. anche ord. 28 dicembre 1984, n. 309). In questo consiste, con chiara
evidenza, un limite fondamentale imposto nell’interesse generale
dalla legge all’uso dei beni oggetto del vincolo (art. 17 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 1 dell’invocato
Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). Limiti questi
che, per le ragioni ampiamente dette, non risultano qui superati.
È pienamente coerente con quanto esposto che una particolare
ampiezza può essere giustificata quando siffatta tutela è applicata
non in relazione ad un singolo immobile, ma in relazione ad un
complesso il cui eccezionale valore culturale si presenta in modo
unitario, che acquista o accresce interesse in relazione alla sua visione organica.
Non è fondata, quindi, la censura, anch’essa sollevata nell’articolato secondo motivo degli appelli, che lamenta la violazione del
principio di proporzionalità e di ragionevolezza.
Anche qui poi, come sopra per il vincolo diretto, per consolidata e risalente giurisprudenza l’estensione dell’area da assoggettare
156
parte I
a vincolo indiretto attiene alla stretta valutazione dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, VI, 4 maggio 1955, n. 304; IV, 25 luglio 1970,
n. 585; VI, 29 novembre 1977, n. 894; VI, 6 giugno 2011, n. 3354), e
può riguardare anche un immobile non prossimo al monumento da
tutelare, purché faccia parte dell’“ambiente” del monumento (Cons.
Stato, IV, 9 dicembre 1969, n. 772; IV, 6 marzo 1970, n. 153; IV, 29
settembre 1970, n. 616; VI, 6 settembre 2002, n. 4566; VI, 17 ottobre
2003, n. 6344; VI, 19 gennaio 2007, n. 111). Solo si richiede che vada valutata in rapporto a natura, caratteristiche e ubicazione dei beni da preservare (Cons. Stato, IV, 9 dicembre 1969, n. 772; VI, 3 novembre 1970, n. 707; VI, 31 ottobre 1992, n. 823), il che qui, con la
motivazione dell’atto e l’allegata relazione, risulta essere avvenuto.
Il vincolo indiretto concerne invero la c.d. cornice ambientale
di un bene culturale (Cons. Stato, IV, 9 dicembre 1969, n. 722; VI,
18 aprile 2011, n. 2354). Esso è legittimamente imposto quando
è riferito non solo alla tutela diretta non di un singolo bene culturale, ma anche di un intero insieme, come un comprensorio archeologico (Cons. Stato, IV, 25 luglio 1970, n. 585): a fortiori questo vale quando si tratti di un complesso non ipogeo o di superficie, ma di un sistema unitario, come ora si è detto tale essere quello in esame in relazione all’essenziale ingegnerizzazione fluviale,
complementare ad una città storica dell’importanza e del significato di Mantova (cfr. anche Cons. Stato, VI, 8 giugno 1971, n. 417).
Posto che l’estensione dell’ambito di tutela è dunque diretta espressione delle valutazioni proprie dell’Amministrazione, ne
viene che queste stesse valutazioni non sono soggette al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, se non nei ristretti limiti che si sono ricordati.
Sotto il profilo della sussistenza dei presupposti di fatto del vincolo indiretto, nella fattispecie in esame, gli obiettivi della tutela appaiono correttamente identificati nella relazione tecnico-scientifica allegata al provvedimento stesso, e si riassumono nella necessità di salvaguardare l’integrità del bene sottoposto a vincolo diretto,
denominato “sistema dei laghi di Mantova, del canale Rio, dei ponti dei Mulini e di San Giorgio”, necessità che non appare né illogica,
né contraddittoria, né altrimenti censurabile da parte del giudice.
Si tratta infatti di un territorio, sito in sponda sinistra del lago di Mezzo tra la Cittadella e ponte San Giorgio e in sponda sinistra del lago Inferiore tra ponte San Giorgio e il polo petrolchimico
giurisprudenza commentata
157
che, con le aree retrostanti, “rappresentano parte peculiare e eccezionale della cornice di contesto ai laghi, in quanto testimonianza
del paesaggio agrario mantovano come definitivamente consolidatosi dopo gli interventi di regimazione del corso del Mincio, dovuti all’attività del Pitentino” e che necessitano di adeguata tutela al
fine di preservarne i caratteri di contesto al bene storico. Di conseguenza, non sussiste il difetto di motivazione in ordine alla imposizione della inedificabilità assoluta per effetto dell’imposizione del vincolo, poiché tale misura appare del tutto adeguata alle
esigenze delle quali il vincolo è presidio.
5) Quanto alla censura che si appunta sulla mancata considerazione delle osservazioni presentate dagli interessati nel procedimento di imposizione del vincolo (terzo motivo), ne è evidente
l’infondatezza con riguardo alla Conti Immobiliare s.a.s., le cui osservazioni sono state specificamente valutate nella parte motivazionale del provvedimento oggetto del giudizio. Per quanto concerne la Lagoscuro s.r.l., che non ha provato il deposito di osservazioni, la sentenza impugnata merita conferma laddove, nel respingere la censura, osserva che la pubblica amministrazione, nell’adottare un provvedimento, non è tenuta a riportare nelle premesse e nella motivazione il testo integrale delle controdeduzioni del
destinatario del provvedimento stesso, essendo al contrario sufficiente che le valuti nel loro complesso o per questioni omogenee
(cfr. per tutte Cons. Stato, III, 23 maggio 2011, n. 3106; VI, 12 dicembre 2011, n. 5519).
IV) – In conclusione, tutti i motivi degli appelli, che svolgono
identiche censure e che sono comunque da ricondursi agli aspetti sopra esaminati, sono infondati.
Di conseguenza, la sentenza impugnata merita conferma.
Le spese del secondo grado del giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello e sull’appello incidentale
in epigrafe indicati, li respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna le ricorrenti a rifondere all’Amministrazione per i beni e le attività culturali le spese di lite, nella misura di 5.000 (cinquemila/00) euro per ognuna di esse.
(omissis)
Discrezionalità tecnica ancora alla prova: il vincolo
storico-artistico sul sistema dei laghi di Mantova
di Cristina Videtta
Sommario: 1. Il sistema dei laghi di Mantova tra vincolo storico-artistico e vincolo paesaggistico. – 2. Vincoli diretti e vincoli indiretti: gli interessi dei privati di fronte al giudice amministrativo della legittimità.
Il saggio affronta nella prima parte la differenza tra la tutela paesaggistica
e la tutela storico artistica, con particolare riferimento ai presupposti per l’imposizione dei relativi vincoli. Dopodiché, l’Autore si concentra sul tipo di valutazione compiuta dall’amministrazione in questo ambito ed, in particolare, sull’importanza che, in tale contesto, possono assumere gli interessi (economici) e sulla rilevanza dell’affidamento dei soggetti privati coinvolti.
* * *
The paper tackles the difference between landscape and cultural heritage protection, highlighting, particularly, the different conditions for imposing such constraints. The author then analyzes the administrative assessments in this area and,
mainly, the importance that private interests have in this context.
1. – Torna all’esame del Consiglio di Stato una delle fattispecie che tradizionalmente costituisce il campo più delicato in cui
si fronteggiano e misurano le valutazioni dell’amministrazione e
il sindacato del giudice amministrativo di legittimità: quella della
imposizione dei vincoli culturali.
La sentenza in epigrafe si segnala, invero, prima di tutto per
l’ampiezza del suo oggetto: il vincolo storico-artistico sul sistema
dei laghi di Mantova e sulle aree ad esso circostanti consente, infatti, di mettere a confronto le simili, ma non eguali, problematiche che caratterizzano l’imposizione delle tre tipologie di vincolo
che, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n.
42/2004, possono investire una porzione di territorio. Il riferimento è evidentemente al vincolo paesaggistico, prima di tutto, ma anche al vincolo c.d. storico-artistico (nella sua particolare accezione disciplinata dall’art. 10, c. 3, lett. d, di vincolo per interesse c.d.
di relazione) e al vincolo indiretto o strumentale, di cui agli artt.
45 ss. del Codice stesso.
giurisprudenza commentata
159
Il c.d. sistema dei laghi di Mantova, in effetti, costituisce non
solo un elemento che caratterizza l’aspetto della città, ma una realtà in cui si compongono elementi naturali e opere di regimentazione idraulica, alcune delle quali risalenti già alla fine del XII secolo e che regolano ancor’oggi il corso del fiume Mincio attorno
alla città stessa.
Proprio a causa della consistenza dell’oggetto del vincolo, nasce dunque la prima e preliminare censura, cioè quella relativa alla presunta illegittimità di un vincolo storico-artistico su una porzione di “paesaggio”.
Ormai da tempo, invero, la legge ascrive ai beni paesaggistici
anche ambienti in tutto o in parte artificiali, a deciso superamento del mero “bello in natura” (1). Diversamente, la categoria dei
beni storico-artistici, ancorché possa eventualmente appuntarsi
su “porzioni di ambiente”, pare più specificamente riguardare beni per così dire “artificiali”, in quanto opera dell’uomo. È possibile, infatti, evincere, anche in base all’elencazione esemplificativa
contenuta nell’art. 10, c. 4, come anche beni di tale natura, come
per esempio “le ville, i parchi e i giardini” (art. 10, c. 4, lett. f) oppure “le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani”
(art. 10, c. 4, lett. g), siano debitori della loro “culturalità” all’ingegno dell’uomo.
Del tutto sterile apparirebbe, dunque, appellarsi al criterio
dell’oggetto del vincolo, per determinare il tipo di provvedimento da adottare, posto che entrambi possono essere apposti a realtà ove i due aspetti (naturali e artificiali) risultano commisti (2).
(1) Si pensi, da ultimo, all’inclusione dei centri storici tra i beni disciplinati dalla parte terza del Codice avvenuta in forza del d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63. Il tema è naturalmente, come noto, molto più risalente. P.G. Ferri, voce Beni culturali e ambientali nel diritto
amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1987, 220, definisce il paesaggio come “segno
lasciato sul territorio dagli eventi naturali e dalle vicende umane”, in cui si combinano “il
dato paesaggistico” che “è concepito come quadro naturale che esprime il bello di natura”
in cui però “il criterio estetico, opera, però, anche in combinazione con quello scientifico
(per es. per le cosiddette singolarità geologiche) e quello storico tradizionale (applicato di
norma ai centri storici)”. Sul punto, per tutti, G. Sciullo, I beni, in C. Barbati – M. Cammelli – G. Sciullo, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011, 25 ss.; M. Ainis – M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura, Milano, 2008, 311 ss.; da ultimo, A. Crosetti, Paesaggio
e natura: la Governance in uno stato multilivello, in Trattato di Diritto dell’Ambiente (diretto
da R. Ferrara – M. A. Sandulli), Tomo III, La tutela della natura e del paesaggio (a cura di A.
Crosetti), Milano, 2014, 169 ss., a cui si fa rinvio anche per l’ampio corredo bibliografico.
(2) Così chiaramente, C. E. Gallo – S. Foà, I beni culturali, in Il Diritto amministrativo
nella giurisprudenza (a cura di P. Falcone – A. Pozzi), vol. II, Torino, 1998, 74.
160
parte I
Va, dunque, secondo la sentenza in epigrafe, privilegiata piuttosto la finalità perseguita dall’amministrazione nel momento
dell’apposizione del vincolo.
Tuttavia, anche considerato il problema da questo punto di vista, la linea di discrimine appare più sfumata di quel che si potrebbe pensare, complice anche proprio quell’appartenenza di entrambe le tipologie di “beni”, al medesimo “patrimonio culturale” nazionale, e, come tali, identicamente caratterizzate dall’essere espressione di valori identitari (3).
Particolare è l’ipotesi, in rilievo nel caso di specie, in cui il vincolo storico artistico sia apposto non già a fronte di un interesse culturale, per così dire, intrinseco del bene, quanto piuttosto,
ai sensi dell’art. 10, c. 3, lett. d), come modificato dall’art. 2 del
d.lgs. n. 62 del 2008, per il suo “riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”. Da segnalarsi, per inciso, come proprio la citata
novella del 2008 appaia particolarmente significativa per quanto
qui di interesse posto che fino al 2007 la norma in esame non ricomprendesse la relazione con la storia della scienza, della tecnica e dell’industria, tra gli aspetti potenzialmente portatori di valori
(3) Va, tuttavia, ribadito che se il vincolo paesaggistico mira, secondo la sentenza, a
preservare una c.d. “visuale”, un aspetto del territorio complessivamente considerato, indipendente dalla prevalenza di elementi naturalistici ovvero artificiali (il caso dei centri
storici si presenta evidentemente emblematico in tal senso), il vincolo c.d. storico-artistico è piuttosto destinato a preservare l’opera dell’ingegno umano, in quanto tale, ancorché
eventualmente applicata ad elementi prevalentemente naturalistici, come nel caso dei parchi e dei giardini (art. 10, c. 3, lett. f), non a caso ricompresi anche nell’elencazione di cui
all’art. 136 (lett. b). La distinzione è invero sottile e, come noto, porta ad inevitabili sovrapposizioni e concorrenze di tutele nelle non infrequenti ipotesi in cui porzioni di paesaggio
assoggettate al vincolo di cui alla parte terza del codice, ricomprendano anche elementi
vincolati in quanto espressione di valori culturali ai sensi dell’art. 10, del codice stesso. Significativamente la definizione di cui all’art. 131, c. 1, non discrimina tra fattori naturali e fattori umani quali componenti del “paesaggio” stesso né privilegia i primi rispetto ai
secondi. Sul punto, M. Immordino – M. C. Cavallaro, Sub art. 131, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, 989 ss.; M.A. Quaglia (con aggiornamento di A. Rallo), Sub art. 136, in op. ult. cit., 1031 ss.; P. Marzaro, L’amministrazione del paesaggio, Torino, 2011, 22 ss; A. Crosetti, Le tutele differenziate, in A. Crosetti –
R. Ferrara – F. Fracchia – N. Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Roma-Bari, 2008, 441
ss. Sia consentito rinviare al caso emblematico dei centri storici, su cui, se si vuole, si veda C. Videtta, I centri storici al crocevia tra disciplina dei beni culturali, disciplina del paesaggio e urbanistica: profili critici, in www.aedon. it, n. 3/2012.
giurisprudenza commentata
161
culturali. Quale che sia l’interpretazione della novella (4), comunque, ciò che più conta è che la norma consente di assoggettare a
tutela un’ampia gamma di beni immobili e mobili, indipendentemente dal rinvenimento di qualità culturali intrinseche, ma per
la sola relazione che eventualmente li leghi ad eventi ritenuti costitutivi di una memoria nazionale meritevole di essere conservata e perpetuata nel tempo.
Oggetto della valutazione, in questo caso, non è, dunque, come nell’ipotesi di vincoli storico-artistici su tutti gli altri beni elencati dall’art. 10, c. 3, il valore del manufatto in se stesso, ma l’avvenimento con cui è in relazione nonché, ovviamente, il suo legame con esso.
Se ben è vero, come osserva la decisione a commento e, come
peraltro anche affermato da attenta dottrina (5), che risulta talora
particolarmente complesso discernere tra interesse culturale proprio e interesse culturale di relazione, specie quando venga in evidenza l’opzione tra interesse storico e interesse culturale in relazione alla storia (è indifferente che si tratti di storia politica, militare o delle istituzioni), e che comunque, non si possa escludere una certa complementarietà delle due forme di vincolo, va tuttavia rilevato come dalla sentenza paia emergere che l’art. 10, c.
3, lett. d, potrebbe costituire un modello di vincolo più flessibile e
duttile rispetto al vincolo storico culturale per interesse proprio.
In effetti – e prescindendo dalla considerazione che per espressa
(4) Particolare attenzione a questo aspetto è dedicata da D. Vaiano, L’ordinamento dei
beni culturali, in A. Crosetti – D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, 2011, 33-34.
V. tuttavia, P. Carpentieri, Il secondo «correttivo» del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. app., 2008, 683, secondo il quale la precisazione sarebbe probabilmente superflua perché evincibile già in via interpretativa dall’originaria formulazione della norma.
In effetti, ancora prima dell’entrata in vigore del Codice e delle sue modificazioni recenti,
si possono rinvenire vincoli imposti proprio ai sensi dell’attuale art. 10, c. 3, lett. d) (allora art. 2, l. n. 1089/1939) su siti c.d. di archeologia industriale. Tra le poche sentenze in tema, cfr. Cons. St., sez. VI, 7 settembre 2006 n. 5167: “la tutela imposta sui siti espressione
di archeologia industriale non tende a salvaguardare un bene per la sua intrinseca bellezza, quanto per il suo valore storico-culturale: il vincolo è, infatti, funzionale alla conservazione di significative testimonianze dei modi di essere degli aggregati urbani e delle produzioni architettoniche, in una precisa connessione (diversamente non realizzabile) con
determinate attività di carattere economico”.
(5) Sul punto, cfr. per tutti, D. Vaiano, Sub art. 10, in G. Trotta – G. Caia – N. Aicardi (a
cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le Nuove leggi civili commentate, 2005,
1121-1122. Sulla differenza tra interesse storico e interesse per riferimento alla storia, cfr.
invece C. Volpe, sub art. 10, in G. Leone – A.L. Tarasco (a cura di), Commentario al Codice
dei beni culturali e del paesaggio, Padova, 2006, 113.
162
parte I
previsione dell’art. 10, c. 5 (6), ad esso non si applicano limitazioni
di datazione per cui risultano vincolabili senza limitazioni di tempo anche beni recenti –, rispetto alle ipotesi regolate in particolare
dall’art. 10, cc. 1 e 3, lett. a), tale strumento pare particolarmente utile quando si tratti di vincolare complessi di “cose” ad elevata integrazione di elementi naturali ed artificiali, come nel caso di
specie: ciò che conta, infatti, non è il bene in se stesso considerato quale opera dell’inventiva dell’uomo (ancorché, come già detto,
eventualmente compenetrata di elementi naturali), quanto piuttosto la sua relazione con un evento, ritenuto degno di memoria in
quanto costitutivo dell’identità della Nazione (7).
In questa prospettiva, più difficile diviene segnare una linea
di discrimine tra il vincolo paesaggistico e il vincolo storico-artistico, proprio quando imposto in forza della relazione della cosa
con la storia secondo quanto precisato dall’art. 10, c. 3, lett. d), soprattutto ove si tenga conto della più recente accezione di paesaggio come emerge alla luce della convenzione europea. In effetti, la
stessa affermazione per cui il vincolo paesaggistico costituirebbe
strumento di protezione di “una visuale”, come vuole la decisione in epigrafe, non deve far pensare ad un ritorno ad una concezione meramente estetica dello stesso; il “paesaggio”, ai sensi degli artt. 2 e 131 del codice, è un territorio ”espressivo di identità,
il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni” e, soprattutto, la sua tutela riguarda “quegli
(6) L’art. 10, c. 5, come sostituito dall’art. 4, comma 16, legge n. 106 del 2011, come
noto, così dispone: “Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente Titolo le cose indicate al comma 1 che siano opera di autore vivente o la
cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, nonché le cose indicate al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni”.
(7) Afferma che la sentenza riconoscerebbe alla tutela dei beni culturali “una pervasività molto ampia e inedita sul piano applicativo, fino a ricoprire ambiti di tutela che – prima dei sommovimenti sopra richiamati di ordine normativo e sistematico, peraltro ancora in atto – si sarebbero potuto ritenere maggiormente connaturati alla tutela paesaggistica” E. Falcone, La tutela culturale di vaste porzioni del territorio a prevalenza naturale (c.d.
paesaggio artificiale), in www.amministrazioneincammino.luiss.it. Sul vincolo ex art. 10, c.
3, lett. d), cfr. Cons. St., sez. VI, 22 maggio 2008, n. 2430: “il procedimento che dà luogo
all’emanazione del decreto di vincolo di tali beni deve accertare il collegamento dei beni e
della loro utilizzazione con gli accadimenti della storia e della cultura, individuando l’interesse “particolarmente importante” del bene che può dipendere o dalla qualità dell’accadimento che col bene appare collegato o dalla particolare rilevanza che il bene ha rivestito per la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura”. Sul punto, cfr.
altresì, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 6 maggio 2008, n. 2009.
giurisprudenza commentata
163
aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e
visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”. Ben presente è dunque il fattore umano, ulteriormente evidenziato dall’art. 1 della Convenzione europea sul paesaggio, sottoscritta il 20 ottobre 2000, e ratificata dall’Italia con l. 9 gennaio 2006, n. 14, ai sensi del quale il paesaggio è inteso come “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” (8). La stessa Corte Costituzionale, d’altro canto, ha avuto modo di affermare come “la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di
principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si
svolge la vita dell’uomo e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria” (9). In altre parole, paesaggio e patrimonio storicoartistico (nella sua ampia accezione) paiono rappresentare le due
facce della stessa medaglia, congiuntamente riconosciute e protette dall’art. 9 Cost. e, del resto, ancora congiuntamente considerate dall’art. 117 Cost.
Va rilevato, in proposito, come il d.lgs. n. 63/2008 modifichi l’art.
131 sia l’art. 10, c. 3, lett. d), secondo una operazione che parrebbe
quasi un trapianto. In effetti dall’art. 131 scompare il riferimento
alla “storia umana” e alla sua relazione con la natura quali parti di
territorio caratterizzanti il paesaggio, a favore di una qualificazione in cui si fa più genericamente riferimento a “fattori umani”. La
modifica dell’art. 131 non parrebbe del tutto priva di rilievo atteso che il riferimento alla “storia” finiva probabilmente per richiamare troppo strettamente i caratteri dei vincoli storico-artistici di
cui alla seconda parte del Codice, generando confusioni e possibili equivoci. In effetti la “storia umana” pare più propriamente
caratteristica proprio dei vincoli apposti ai sensi dell’art. 10, c. 3,
(8) Cfr. E. Boscolo, Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. app.,
2008, 797 ss. Sulla Convenzione, cfr. per tutti, G. Cartei, Codice dei beni culturali e del paesaggio e Convenzione europea: un raffronto, in www.aedon.it, n. 3/2008. Le differenze tra
la concezione di “paesaggio” accolta nel Codice e quella di cui alla Convenzione del 2000
sono evidenziate da M. Immordino – M. C. Cavallaro, sub art. 131, in M.A. Sandulli (a cura
di), Codice, cit., 990 ss. Preoccupazioni per una visione pan-paesaggistica che emergerebbe dalla Convenzione sono chiaramente espresse da P. Carpentieri, La nozione giuridica di
paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 374 ss.
(9) Corte Costituzionale, 26 novembre 2002 n. 478.
164
parte I
lett. d), ove l’aggettivo “umana”, pare specificato nelle sue molteplici accezioni, il cui elenco risulta precisato ed arricchito, come
si è visto, proprio a seguito della novella del 2008, col riferimento
alla storia anche “della scienza, della tecnica e dell’industria”. Ne
consegue quasi una sorta di potenziale vocazione espansiva della tutela storico-artistica (proprio per il tramite dell’art. 10, c. 3,
lett. d) che parrebbe incline a riappropriarsi di aree di intervento ove la caratteristica precipua è l’apporto dell’uomo, la sua “invenzione” (ancorché applicata eventualmente alla natura), unica
espressione culturale destinata a trovare protezione, in cui la eventuale componente naturalistica rimane meramente accidentale.
In questa prospettiva, pare allora da condividersi la decisione del Consiglio di Stato. Il sistema dei laghi di Mantova, oggetto della pronuncia a commento, non è infatti tutelato in se stesso,
come porzione dell’ambiente naturale dove eventualmente l’uomo ha vissuto adattandovisi, ma trova protezione in quanto oggetto di un importante intervento di ingegneria idraulica, espressione dell’ingegno dell’uomo, già in epoca piuttosto risalente, che
ha saputo “piegare” la natura alle sue esigenze conferendole una
caratterizzazione che ha poi condizionato la stessa storia della
città. Non rileverebbe, dunque, la quantità di paesaggio coinvolta, quanto piuttosto la sua relazione con l’attività dell’uomo ovvero la qualità dell’intervento dell’uomo, la modifica che egli vi ha
saputo imprimere.
Non può, tuttavia, negarsi come permangano coni d’ombra e
che l’indeterminatezza della linea di discrimine renda l’operazione
dell’interprete quanto mai delicata (10). La scelta tra l’uno strumento
(10) Va invero evidenziato come il riferimento alla storia continui comunque a caratterizzare il concetto di beni paesaggistici ai sensi dell’art. 2, c. 3, e che, comunque, ancorché scomparso dall’art. 131, “migri” nell’art. 136 ove, a seguito ancora una volta della
novella del 2008, il testo della lett. a) è così modificato: “Sono soggetti alle disposizioni di
questo Titolo per il loro notevole interesse pubblico: a) le cose immobili che hanno cospicui
caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica, ivi compresi gli alberi monumentali” (in corsivo l’aggiunta operata dalla novella). Condivisibili perplessità sono espresse da P. Carpentieri, Il secondo correttivo del codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. app., 2008, 689: “(…) l’aggiunta degli immobili che incorporano una memoria
storica costituisce un ulteriore allargamento della nozione di bellezze individue e sembra
introdurre un tipo di bene paesaggistico analogo al bene culturale di interesse relazionaleesterno previsto dall’art. 10, c. 3, lett. d) (…). Vi è un obiettivo rischio di sovrapposizione
di concetti e di tutele”; “ad esempio, l’area che fu teatro di una famosa battaglia – i luoghi
di Canne, in Puglia – potrebbe essere allo stesso tempo un bene culturale, ai sensi dell’art.
10, c. 3, lett. d), una zona di interesse archeologico, ai sensi della legge Galasso – oggi art.
giurisprudenza commentata
165
piuttosto che l’altro resta affidata alla sensibilità degli amministratori i quali, tuttavia, e questo sembra soprattutto l’insegnamento
della sentenza, non si vedono condizionati da un giudizio di prevalenza di elementi naturali o artificiali, ma si trovano piuttosto
a chiedersi quale debba essere la finalità che si vuole perseguire.
Meno problematica è la questione della possibile concorrenza
tra tutela paesaggistica e c.d. vincoli indiretti. La differenza di ratio dei due istituti è invero del tutto evidente, posto che il secondo è un mero vincolo di completamento, strumentale ed eventualmente integrativo di un vincolo storico-artistico diretto preesistente (11). Di qui la possibile convergenza delle due differenti tutele su
di un’area almeno in parte coincidente.
2. – Punto assai delicato è quello della natura della valutazione posta in essere dall’amministrazione nell’atto dell’imposizione di vincoli disciplinati dal Codice dei beni culturali e, naturalmente, della relativa sindacabilità. Più propriamente, bisognerebbe probabilmente parlare “delle valutazioni” e non già di un’unica tipologia di valutazione posto che, anche se molto simili, esse
assumono connotati parzialmente differenti e, più nello specifico,
si appuntano su elementi non del tutto coincidenti a seconda che
siano destinate a sfociare in provvedimenti di vincolo storico-artistico, su beni con interesse “proprio” di proprietà pubblica (ovvero di proprietà di soggetti privati senza scopo di lucro, secondo
l’equiparazione di cui all’art. 10, c. 1) o di proprietà privata, oppure si tratti, come nel caso di specie, di beni (indifferentemente
pubblici o privati) con un interesse di relazione, ovvero, infine, di
provvedimenti di vincolo indiretto.
Evidentemente, chiarire gli elementi oggetti della valutazione dell’amministrazione, impatta direttamente sul tipo di sindacato ammesso e, quindi, sui limiti del giudizio del giudice amministrativo di legittimità.
Va dunque, preliminarmente osservato come si presenti fondamentalmente diverso l’apprezzamento sull’interesse culturale
di beni pubblici e su quelli di beni privati. In disparte le considerazioni sulla presunzione di culturalità operante nel primo caso
142, c. 1, lett. m) – e, infine, a questo punto, anche una bellezza individua ai sensi del nuovo testo dell’art. 136, c. 1, lett. m)” (P. Carpentieri, loc. ult. cit., nota 15).
(11) In termini, cfr. per tutte Cons. St., sez. VI, 29 aprile 2008, n. 1939.
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parte I
ai sensi dell’art. 12, c. 1, può osservarsi come, a seconda del diverso regime dominicale, l’amministrazione sia chiamata ad accertare (rispettivamente) l’esistenza di un interesse c.d. semplice ovvero, nel caso di beni privati, di un interesse “particolarmente importante”. Nel secondo caso, la delimitazione della discrezionalità
trova la sua evidente giustificazione nel fatto che la compressione
delle facoltà dominicali che consegue al vincolo deve necessariamente trovare un punto di equilibrio con le ragioni della proprietà, con la conseguenza che solamente ove la cosa presenti un interesse particolarmente meritevole di essere protetto e tramandato,
questo può prevalere sul diritto di proprietà nella sua pienezza e
determinarne la funzionalizzazione all’interesse pubblico di promozione della cultura (12). Diversamente, non vi è alcuna necessità di contemperamento con la proprietà quando si tratti di proprietà pubblica, fisiologicamente destinata alla soddisfazione di un
interesse appunto pubblico come quello espresso dall’art. 9 Cost.
Più particolare è invece il caso del vincolo su cose con interesse di relazione. La graduazione dell’interesse prevista dall’art.
10, c. 3, lett. d), pare piuttosto da addebitarsi al fatto che il valore
culturale non è intrinseco al bene, non rappresenta cioè una qualità sua propria, ma piuttosto è il frutto, come si è più sopra anticipato, di una valutazione circa la particolare rilevanza del fatto/
periodo storico cui esso è collegabile e di cui diviene espressione.
La “particolare importanza” dell’interesse richiesto dalla norma è,
dunque, da leggersi come una vera a propria limitazione del potere dell’amministrazione nell’imporre vincoli di tale natura stante
la latitudine potenzialmente amplissima della previsione e il connesso rischio di un atteggiamento “panculturalista”. Ciò pare tanto vero anche considerando che, in questo caso, l’inapplicabilità di
limitazioni cronologiche e l’estensione dell’operatività della norma
anche ai beni mobili operata dal codice del 2004, finisce per accrescere di molto la platea dei beni potenzialmente vincolabili, con la
conseguenza che la graduazione dell’interesse pare un opportuno
contrappeso ad un potere che può apparire quasi senza limiti (13).
Non pare, comunque, possa dirsi estranea alla valutazione de qua
(12) Sul punto, per tutti, F. Merusi, sub art. 9, in Commentario alla Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna, 1975, 434 ss.
(13) Sul punto, cfr. G. Severini, Sub artt. 1 e 2, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice,
cit., 24 e 25.
giurisprudenza commentata
167
una forma di contemperamento con la proprietà (eventualmente
privata) della cosa, anche in questo caso suscettibile di compressione solo a fronte di una effettiva rilevanza dell’evento come testimonianza identitaria e della sua incorporazione nella cosa oggetto del vincolo in modo così stretto da identificarsi in essa.
Questo premesso, pare dunque possibile affermare che le norme vincolistiche non abbiano ignorato le ragioni della proprietà. Più delicato è, diversamente, assegnare all’interesse del privato proprietario il giusto ruolo nel corpo della valutazione dell’amministrazione. In altre parole, il quesito è quello di capire se ed in
che modo l’amministrazione debba tener conto dell’interesse del
proprietario del bene potenzialmente oggetto del vincolo ovvero
di altri interessi eventualmente in gioco.
In particolare, il quesito appare pregnante posto che anche
quando si volesse aderire alla tesi secondo la quale il carattere
culturale è una caratteristica intrinseca al bene, tale tesi non sembra poter valere nel momento in cui si tratti di assegnare un grado all’interesse di cui il bene stesso è portatore (14).
Se, in effetti, è valutazione, come noto, largamente opinabile
quella deputata ad accertare la sussistenza di quei valori identitari che soli consentono l’imposizione del vincolo, è ancor più ampia la latitudine della valutazione (e la connessa soggettività della stessa) destinata a sfociare in un giudizio sulla rilevanza di tali
valori, e ciò non solo perché quello di cultura è un concetto relativo. Quest’ultimo, infatti, può in qualche modo ritenersi storicamente relativo, nel senso che ciò che è ritenuto culturale dipende
dal momento storico in cui la valutazione è effettuata, ma costituisce, comunque, pur nella sua innegabile soggettività, il portato
del modo di sentire di una certa epoca che trova nel Ministero dei
beni culturali (e nelle sue articolazioni concretamente competenti) il suo portavoce. Più difficile è, invece, trovare un parametro di
valutazione per la graduazione dell’interesse, soprattutto poiché
essa è un connotato specifico solo di una parte dei beni culturali che non costituiscono ontologicamente una categoria separata,
ma che godono di un trattamento diversificato in ragione del solo
regime dominicale a cui si trovino ad essere accidentalmente assoggettati (ben potrebbe, in estrema ipotesi, sussistere il caso di
(14) La disputa è come noto ampia e risalente e non è questa la sede adatta per ripercorrerne i passaggi. Per una ricognizione, cfr. comunque, G. Severini, Sub artt. 1 e 2, cit., 16 ss.
168
parte I
cose assolutamente gemelle, ma assoggettate a regimi differenti
essendo l’una di proprietà pubblica e l’altra di proprietà privata).
In altre parole, pare potersi affermare come all’atto della verifica circa la sussistenza di un interesse “particolarmente importante”, l’ambito dell’opinabilità della valutazione appaia virtualmente
illimitato. In effetti, a parere di chi scrive, la graduazione dell’interesse culturale richiesta per l ‘imposizione del vincolo storico-artistico alle cose indicate nell’art. 10, c. 3, solo apparentemente riduce la discrezionalità dell’amministrazione; pare piuttosto potersi dire come esso riduca l’ambito delle cose che possono formare
oggetto di valutazione, ma finisca, per altro verso, per introdurre
un criterio di valutazione ampiamente soggettivo (15) e, come tale, difficilmente sindacabile.
Complice di tali incertezze pare anche una certa prassi della
giurisprudenza che afferma come il giudizio sulla culturalità contenga tanto elementi di discrezionalità tecnica quanto elementi di
discrezionalità amministrativa.
Orbene, l’espresso richiamo alla discrezionalità amministrativa porta inevitabilmente a pensare, secondo l’insegnamento tradizionale, ad un bilanciamento di interessi in cui vengono messe a
confronto le ragioni dell’interesse pubblico con quelle degli interessi privati eventualmente coinvolti. Di qui un contenzioso, evidentemente non ancora sopito, relativo alla mancata considerazione delle ragioni dei privati nel corpo della valutazione preordinata all’imposizione dei vincoli culturali (16).
Invero, nonostante la formulazione potenzialmente equivoca,
la giurisprudenza più recente, nel cui solco si può collocare la decisione odierna, pare ormai consolidata nel ritenere estranea qualunque valutazione dell’interesse privato dal procedimento di imposizione di vincoli storico-artistici (17). La valutazione compiuta
dall’amministrazione pare infatti più propriamente da ascriversi
ad una valutazione tecnica opinabile in cui gli interessi dei privati non hanno rilievo ex se, ma sono già stati considerati, a monte,
dal legislatore ragione di delimitazione del potere impositivo di
(15) Sul punto, G. Morbidelli, Sub art. 10, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, 131.
(16) La questione è messa a fuoco da C. Zucchelli, Sub art. 13, in M.A. Sandulli (a cura di), op. cit., 163 ss.
(17) Tra le molte, Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; Id., 21 ottobre 2005, n. 5939.
giurisprudenza commentata
169
vincolo attraverso la previsione di un interesse particolare quale
presupposto per l’imposizione del vincolo stesso. Il largo margine
di opinabilità che, innegabilmente, contraddistingue tale tipologia di valutazioni, tuttavia, non sfocia mai in una discrezionalità
amministrativa vera e propria atteso che l’amministrazione non è
mai chiamata a confrontare interessi, ma semplicemente a verificare la sussistenza in una cosa delle caratteristiche che ne possono determinare la configurazione quale testimonianza identitaria.
Significativamente, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare come “l’imposizione del vincolo non richiede una ponderazione
degli interessi privati con gli interessi pubblici connessi con l’introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di dimostrare
che il sacrificio imposto al privato sia stato contenuto nel minimo
possibile, sia perché la dichiarazione di particolare interesse non
è un vincolo a carattere espropriativo, costituendo i beni di rilievo etno-antropologico una categoria originariamente di interesse pubblico, sia perché comunque la disciplina costituzionale del
patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9 Cost.) erige la
sua salvaguardia a valore primario del vigente ordinamento” (18).
Il problema è, invero, comune anche all’imposizione di vincoli indiretti o di completamento. Può anzi sostenersi, senza timore,
come tale problema si manifesti soprattutto in materia di vincoli
indiretti, in cui senz’altro più ampia è la discrezionalità dell’amministrazione; in effetti, da una parte, l’oggetto del vincolo patisce di una forte indeterminabilità a priori, posto che si tratta di
immobili privi di consistenza culturale (e come tali indistinguibili da altri immobili), la cui individuazione, per estensione e collocazione (19), non può essere predeterminata in via normativa, ma
è rimessa unicamente alla valutazione dell’amministrazione; per
altro verso, lo stesso contenuto del vincolo è rimesso alla discrezionalità dell’amministrazione che esercita la sua scelta in funzione del tipo di tutela (indiretta) che vuole realizzare; a ciò deve
aggiungersi che il vincolo indiretto, pur potendo provocare una
compressione della proprietà in taluni casi anche più gravosa di
quello diretto (si pensi al vincolo di inedificabilità assoluta), non è
(18) C.G.A., sez. giurisd., 10 giugno 2011 n. 418.
(19) Come noto la giurisprudenza per orientamento ormai da tempo consolidato, non
richiede neppure come necessario requisito che l’immobile sia adiacente all’immobile gravato da vincolo diretto rispetto al quale la tutela indiretta è strumentale.
170
parte I
comunque indennizzabile, con conseguente aumento del contenzioso teso a contestarne la legittimità dell’imposizione o, quanto
meno, dell’estensione.
In materia, ancora potenzialmente equivoca può essere la formula, spesso ricorrente in giurisprudenza, secondo la quale il contenuto del vincolo indiretto deve rispettare criteri di ragionevolezza e proporzionalità, con ciò evocandosi la formula di romagnosiana memoria che ha consentito di censurare la “misura” della
compressione dell’interesse privato in ragione del perseguimento
di quello pubblico. In questa prospettiva, infatti, oggetto del controllo diventa, dunque, il profilo dell’adeguatezza della decisione provvedimentale alle circostanze di fatto. Il richiamo alla proporzionalità, tuttavia, può evocare un bilanciamento discrezionale di interessi in gioco. In dottrina, si è rilevato come proprio la
“proporzionalità” dia conto di “come la cura dell’interesse pubblico individuato dalla legge (…) venga concretamente soddisfatto con il minor sacrificio possibile degli interessi privati” e che essa rappresenterebbe “la misura finale e il punto di snodo tangibile del potere discrezionale, la forma plastica e reale del suo esercizio nel concreto, in stretta, intima relazione con la ragionevolezza dell’iter procedimentale” (20). Nel caso, di specie, tuttavia, il
richiamo alla proporzionalità, deve essere correttamente direzionato. E, in questo senso, la sentenza a commento appare particolarmente chiarificatrice. In una prospettiva in larga misura assimilabile a quella adottata a proposito del sindacato sul vincolo
diretto, può dirsi che la proporzionalità impone che il vincolo sia
contenuto “nei termini di quanto risulta essere concretamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi di tutela indiretta.
(…) [la proporzionalità] è connessa alla ragionevolezza e questa si
specifica nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile
nella corretta e sufficiente funzionalità dell’esercizio del potere di
vincolo. Ne consegue che il potere va esercitato in modo che (…)
sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui
è previsto e non ad esso eccessivo”, conseguentemente “la latitudine spaziale non si pone più come un fattore estrinseco limitativo del vincolo, ma ne costituisce anzi il sostrato di fatto scaturente dalla necessaria e presupposta valutazione tecnica”.
(20) Così, R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, 2005, 192.
giurisprudenza commentata
171
Il richiamo alla proporzionalità è, dunque, il richiamo ad un
punto di equilibrio. Gli interessi, per esempio economici, del proprietario sono e restano estranei alla valutazione; l’unico interesse
di questi che viene effettivamente in discussione è quello al mantenimento della proprietà nella massima misura possibile (sia dal
punto di vista della sua estensione sia, anche se la sentenza non lo
dice espressamente, da quello della sua consistenza) ovvero, in altre parole, è quello a che il suo diritto sia compresso nella misura
minima possibile (e, in questo, consiste appunto l’equilibrio espresso dal principio di proporzionalità) pur nel necessario sacrificio
di essa nell’interesse pubblico. La scelta del contenuto del vincolo indiretto e dell’estensione dell’area oggetto di questo legittimamente risponde unicamente alle esigenze di protezione del vincolo diretto espresse dall’art. 45 del Codice, unico aspetto della decisione amministrativa passibile di censura in sede giurisdizionale.
Dunque, pur nel diverso atteggiarsi dei vincoli storico-artistici e del vincolo indiretto, sembra individuabile un filo conduttore
unitario che relega gli interessi specifici del proprietario del bene
oggetto del vincolo a una posizione di sostanziale irrilevanza agli
occhi dell’amministrazione, tenuta a considerare solamente le ragioni dell’interesse protetto dall’art. 9 Cost., collocato in una chiara posizione di prevalenza dispetto ad esse. Le valutazioni tecnico
opinabili dell’amministrazione restano, comunque, censurabili in
sede giurisdizionale alla luce di quei criteri ormai fatti propri dai
giudici amministrativi a far tempo dalla ben nota decisione della
IV sezione del Consiglio di Stato n. 601/1999, che ha determinato
l’emersione della c.d. discrezionalità tecnica dall’ambito indefinito del merito amministrativo, rendendola direttamente sindacabile quanto alla attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza, quanto a criterio tecnico adottato ed al
relativo procedimento applicativo.
DOTTRINA
174
parte II
Osservazioni sul «partenariato pubblico-pubblico»,
tra elaborazioni ed applicazioni giurisprudenziali del
modello e nuove direttive europee in materia di appalti
e concessioni
di Clemente Pio Santacroce
Sommario: 1. Posizione del tema: il partenariato pubblico-pubblico quale più recente deroga
di origine pretoria al principio dell’evidenza pubblica. – 2. L’elaborazione giurisprudenziale
del modello: la sentenza “Stadtreinigung Hamburg” (causa C-480/06) della Corte di giustizia
CE. – 3. Il tema all’attenzione del legislatore europeo: i) la risoluzione del Parlamento europeo
sui nuovi sviluppi in materia di appalti pubblici; ii) il libro verde della Commissione europea
sulla modernizzazione della politica dell’Unione sugli appalti pubblici; iii) il documento di
lavoro dei servizi della Commissione concernente l’applicazione del diritto dell’Unione in
materia di procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici ai rapporti tra amministrazioni
aggiudicatrici (cooperazione pubblico-pubblico). – 4. Le successive applicazioni del modello
nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. In particolare: i casi “ASL
Lecce” (C-159/11), “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia” (C-546/11) e
“Consiglio Nazionale degli Ingegneri” (C-352/12). – 5. La recente codificazione legislativa della
«cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata» nelle nuove direttive europee sulle
procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici di appalti e concessioni.
L’articolo affronta il tema del partenariato pubblico-pubblico, inquadrandolo
quale più recente deroga di origine pretoria al principio dell’evidenza pubblica.
In questa prospettiva viene analizzata l’elaborazione giurisprudenziale del modello a partire dalla sentenza “Stadtreinigung Hamburg” (causa C-480/06) della Corte di giustizia CE. Successivamente si passano in rassegna gli atti normativi europei in materia: la risoluzione del Parlamento europeo sui nuovi sviluppi in materia di appalti pubblici; il libro verde della Commissione europea sulla
modernizzazione della politica dell’Unione sugli appalti pubblici; il documento di lavoro dei servizi della Commissione concernente l’applicazione del diritto dell’Unione in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici ai rapporti tra amministrazioni aggiudicatrici (cooperazione pubblico-pubblico). Nella seconda parte del lavoro si prendono in esame le successive applicazioni del modello nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea (i casi “ASL Lecce”, “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia” e “Consiglio Nazionale degli Ingegneri”), per concludere con la recente
codificazione legislativa della «cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata» nelle nuove direttive europee sulle procedure di aggiudicazione dei
contratti pubblici di appalti e concessioni.
* * *
dottrina
175
The article discusses the topic of public-public partnership, framing it as recent
pretorial derogation to the principle of public evidence. In this perspective, it analyses the jurisprudential elaboration of the model since the judgment “Stadtreinigung Hamburg” (Case C-480/06) the ECJ. Then the Author goes through the new
European legislation in the field: the European Parliament’s resolution on new developments in public procurement; the European Commission’s Green Paper on the
modernization of EU policy on public procurement; the working document of the
Commission services on the application of EU law in the field of procedures for the
award of public contracts to relations between contracting authorities (public-public cooperation). In the second part, the work examines the subsequent application
of the model in the case law of the Court of Justice of the European Union (the
cases “ASL Lecce”, “Order of Engineers of the Lombardy Regional Council” and “National Council of Engineers”), to conclude with the recent legislative codification of
the “non-institutionalized public-public cooperation” in the new European directives on procedures for the award of public procurement contracts and concessions.
1. – Il tema del «partenariato pubblico-pubblico» (1) può senz’altro ascriversi tra quelli più di recente impostisi all’attenzione del
giudice amministrativo italiano in forza del processo di progressiva europeizzazione del diritto.
L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia europea verso il riconoscimento di una pluralità di modelli di «autoproduzione pubblica» (2) di beni e (soprattutto) servizi, sembra
in effetti costituire l’antefatto e la base motivazionale di diverse ordinanze di rinvio pregiudiziale (3), ex art. 267 del Trattato di
(1) La formula, pur ricorrendo in più d’una occasione nelle conclusioni degli Avvocati
generali della Corte di giustizia dell’Unione europea, rassegnate in relazione a controversie delle quali si dirà più avanti, non risulta essere mai stata espressamente utilizzata, ad
oggi, in alcuna pronuncia dei giudici dell’Unione, che hanno invece dimostrato di preferire, a tal proposito, il ricorso al concetto di «contratti di cooperazione» tra enti pubblici
(si v. infra, §§ 2 e 4). Ciononostante, essa pare correntemente in uso tanto nella giurisprudenza domestica (si v. infra, § 4), quanto nella letteratura italiana e straniera («public-public partnership», «öffentlich-öffentliche Partnerschaft», «partenariat public/public», «asociación público-pública») registrabile in argomento (si v. infra, passim). Va detto, però, che in
non pochi e significativi casi, ad essa è stata preferita l’espressione – potrebbe dirsi, “mista” e di matrice legislativa – «cooperazione pubblico-pubblico», peraltro da ultimo cristallizzata dal legislatore europeo in diversi considerando delle recenti direttive in materia
di appalti e concessioni (sul punto, infra, § 5). Nel prosieguo del lavoro si farà indistintamente uso di entrambe le formule, onde riferirsi, in ogni caso, alla stessa figura giuridica.
(2) Nella dottrina più attenta al tema, cfr., da ultimo, M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica: dall’in house al Partenariato “PubblicoPubblico”, in Giur. it., 2013, 1416 ss.
(3) Di cui si darà conto nel corso del lavoro: si v. infra, § 4.
176
parte II
funzionamento dell’Unione europea (4), da parte degli organi di
giustizia amministrativa domestica al giudice dell’Unione.
Questi ha così avuto, recentemente, più d’una occasione per
calibrare e (provare a) meglio delimitare l’area delle «deroghe non
scritte» (5) all’applicazione delle norme comunitarie sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare e da ultimo con riguardo a talune forme di cooperazione consensuale non
istituzionalizzata tra pubbliche amministrazioni, che con espressione onnicomprensiva si è ormai soliti definire e ricondurre sotto il concetto – ad un tempo disomogeneo ed unificante – di partenariato pubblico-pubblico.
Nel presente contributo l’attenzione sarà tutta rivolta verso dette forme di cooperazione interamministrativa.
Ad esse si guarderà, però, da una prospettiva in grado di restituire un’immagine d’insieme, che trascenda le specificità rinvenibili nei diversi ordinamenti degli Stati membri. Si avrà così modo di apprezzare il tema nella sua dimensione europea e nella sua
essenza unitaria.
Non ci si soffermerà partitamente, dunque, sull’analisi delle diverse fattispecie di collaborazione su base contrattuale (o comunque consensuale) tra autorità pubbliche, pur rinvenibili ed isolabili nelle diverse esperienze giuridiche nazionali (6). Al contrario,
si seguirà quel fil rouge che tali fattispecie lega e riconduce sotto
una nozione di (genesi e) stampo europeo, propria del diritto dei
contratti pubblici. Una nozione capace di tenere insieme le diverse, possibili manifestazioni di cooperazione interamministrativa
non istituzionalizzata, in virtù di una forza centripeta aggregatrice
generata da un nucleo comune: quello dei presupposti legittimanti una “fuoriuscita” di dette fattispecie dall’ambito di operatività
del principio dell’evidenza pubblica.
Finalità ultima dell’indagine sarà quella di verificare se detti
presupposti – dapprima individuabili nel solo diritto comunitario
(4) Nel prosieguo, più brevemente, TFUE.
(5) È questa l’espressione utilizzata dall’Avvocato generale presso la Corte di giustizia
dell’Unione europea (V. Trstenjak) nella sue conclusioni relative al caso “ASL Lecce” (causa C-159/11), onde indicare, complessivamente, l’insieme delle deroghe di origine pretoria
al diritto europeo degli appalti, così contrapponendole a quelle già «codificate» dall’allora
vigente direttiva 2004/18/CE: cfr. ivi, punti 52-56 e 57-70.
(6) Cfr. A. Massera, Lo Stato che contratta e che si accorda, Pisa, 2011, 588 s. e passim.
dottrina
177
di elaborazione pretoria (7), e più di recente codificati in occasione dell’emanazione delle nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni (8) – siano idonei a tracciare (e giustificare), nel
loro insieme, una netta (e ragionevole) “linea di confine” tra l’area
dell’obbligo del ricorso a procedure di evidenza pubblica di scelta del contraente e quella delle molteplici forme di cooperazione
convenzionale tra pubbliche amministrazioni da tale obbligo esonerate: in breve, l’area della deroga.
Prima di chiudere queste riflessioni introduttive in ordine al
posizionamento del tema, solo un’ultima notazione.
Quella di partenariato pubblico-pubblico è nozione rispetto
alla quale la natura pubblicistica o privatistica del rapporto giuridico costituito per pactum dalle diverse autorità pubbliche a fini collaborativi (9), è questione recessiva. Fors’anche – si direbbe
– irrilevante. Trattasi, cioè, di nozione neutra, capace di doppiare, sul punto, sia le differenze tra le diverse esperienze giuridiche
nazionali, sia le contrapposte ricostruzioni dogmatiche in taluni
casi registrabili al loro interno. Di conseguenza, l’inquadramento
in una tale categoria giuridica europea di una data fattispecie consensuale (10) nulla dice, da solo, in ordine al regime (pubblicistico
o privatistico) del rapporto giuridico sottostante, né – naturaliter
– su di esso incide (11).
(7) Si v. infra, §§ 2 e 4.
(8) Si v. infra, § 5.
(9) Che in altra sede sarebbe di sicuro interesse dogmatico.
(10) Che si caratterizzi per quei predicati – di cui si dirà (si v. infra, in particolare §§ 2,
4 e 5) – che ne legittimino una tale sussunzione.
(11) Con specifico riferimento all’ordinamento italiano, si intende cioè dire che un rapporto giuridico tra due soggetti pubblici costituito – a fini collaborativi – per contratto, a
seguito di un affidamento diretto giustificato dalla sussistenza dei presupposti legittimanti il ricorso al «partenariato pubblico-pubblico», non muta, per ciò solo, natura e – conseguentemente – regime giuridico (sostanziale e processuale). Non si trasforma, cioè, solo
in ragione del ricorrere di quei presupposti, in accordo amministrativo ai sensi dell’art. 15
della legge n. 241 del 1990, con le sue peculiarità di regime.
Sulla categoria giuridica degli accordi tra pubbliche amministrazioni, la letteratura
giuspubblicistica italiana è – com’è noto – consistente. Tra i diversi lavori successivi alla
sua “legificazione” ed in cui emergono diversi profili attinenti al relativo trattamento giuridico, si v. in particolare: E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi
di programma, Milano, 1992, 3 ss. e 89 ss.; R. Ferrara, Gli accordi di programma, Padova,
1993, 9 ss. e passim; L. Torchia, L’amministrazione per accordi, in L. Vandelli (a cura di),
Le forme associative tra enti territoriali, Milano, 1992, 619 ss.; L. Vandelli, La collaborazione tra enti territoriali: esperienze, tendenze, prospettive, in Id. (a cura di), Le forme associative, cit., 3 ss. e passim; F. Manganaro, Rilievi sugli accordi tra pubbliche amministrazioni,
178
parte II
2. – Anche rispetto al «modulo derogatorio» (12) della cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata è dato registrare, al
pari di quanto è stato di recente ben detto in relazione all’in house providing, quell’andamento per cui, in sede comunitaria, «prius emerge un forte sfavore per l’autoproduzione pubblica, deinde una maggiore elasticità» (13), seppur non senza qualche “passo di gambero”.
L’analisi della giurisprudenza del giudice europeo sembra offrire, a tal riguardo, una decisa conferma.
Che un rapporto di collaborazione convenzionale tra amministrazioni aggiudicatrici esorbitasse tout court dall’ambito di applicazione della normativa europea sulle procedure di evidenza pubblica in ragione del solo profilo soggettivo delle parti, era stato anzitutto escluso dalla Corte di giustizia in occasione della decisione
su di un ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione
in AA.VV., Scritti per Enzo Silvestri, Milano, 1992, 337 ss.; F. Merusi, Il coordinamento e la
collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. amm., 1993, 21
ss.; C.E. Gallo, La collaborazione tra enti locali: convenzioni, unioni, accordi di programma,
in AA.VV., Studi in onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1993, 447 ss.; E.M. Marenghi, Il sistema amministrativo locale, Padova, 1994, 163 ss.; G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, 1996, 44 ss. e passim; A. Travi, Le forme associative tra gli enti locali verso i modelli di diritto comune, in Le Regioni, 1991, 382 e passim; Id.,
Le forme di cooperazione interlocale, in Dir. amm., 1996, 673; F. Pugliese, Fondamento e limiti della collaborazione tra enti territoriali, in AA.VV., Procedimenti e accordi nell’amministrazione locale, Atti del XLII Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione (Tremezzo, 19-21 settembre 1996), Milano, 1997, 467 ss.; S. Civitarese Matteucci, Accordo di
programma (diritto amministrativo), in EdD, Aggiornamento, vol. III, Milano, 1999, ad vocem; E. Bruti Liberati, Accordi pubblici, in EdD, Aggiornamento, vol. V, Milano, 2001, 1 s. e
28 s.; G. Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino, 2001, 53 ss.; G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, 2003, 175 ss.; L. Zanetti, Gli strumenti di cooperazione funzionale nell’azione pubblica, in M. Cammelli (a cura di), Territorialità e delocalizzazione nel governo locale, Bologna, 2007, 507 ss.; S. Valaguzza, L’accordo di
programma: peculiarità del modello, impiego dei principi del codice civile e applicazione del
metodo tipologico, in Dir. amm., 2010, 395 ss.; J. Bercelli, Gli accordi tra pubbliche amministrazioni nei servizi pubblici locali alla luce delle recenti evoluzioni normative. Il problema della qualificazione giuridica del c.d. contratto di servizio tra ente locale e società in house, in D. Corletto, Gli accordi amministrativi tra consenso, conflitto e condivisione, Napoli, 2012, 250 ss.; R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in M.A. Sandulli
(a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2012, 673 ss.
(12) Così, ma con riferimento al modello dell’in house, R. Cavallo Perin, Il modulo “derogatorio”: in autoproduzione o in house providing, in H. Bonura – M. Cassano (a cura di), L’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, Torino, 2011, 119 ss.
(13) Così, acutamente, M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica, cit., 1417.
dottrina
179
europea, ai sensi dell’art. 226 Trattato CE (14), contro il Regno di
Spagna (15).
La Commissione contestava, in particolare, la non corretta
trasposizione nel diritto spagnolo delle (allora vigenti) direttive
93/36/CEE e 93/37/CEE, di coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici – rispettivamente – di forniture e di lavori (16).
Tra le altre doglianze (17), ciò che all’esito del procedimento
contenzioso sarebbe risultato non conforme al diritto comunitario anche secondo l’apprezzamento della Corte, era contenuto, in
particolare, nella Ley de Contratos de las Administraciones Públicas, nella parte in cui questa escludeva dal suo stesso ambito di
applicazione (18) quegli accordi (convenios) di collaborazione conclusi dall’amministrazione statale con un qualsiasi altro soggetto
pubblico dell’ordinamento (19).
In quell’occasione, richiamata la ricostruzione di cui alla nota
decisione Teckal (20), ebbe ad emergere in modo netto, pur se da
(14) Previsione oggi posta nell’art. 258 TFUE.
(15) Trattasi della sentenza 13 gennaio 2005 della Corte di giustizia CE (seconda sezione), nella causa C-84/03. Com’è noto, tutte le decisioni della Corte di giustizia europea
sono reperibili sul sito web a libero accesso curia.europa.eu.
(16) Sulla vicenda si v. l’ampia nota di commento alla sentenza Commissione/Spagna
di G. Bardelli, Nozione di organismo di diritto pubblico, accordi tra pp.aa. e fattispecie di
procedura negoziata negli appalti pubblici, in Urb. app., 2005, fasc. 11, 1277 ss.
(17) Il ricorso conteneva, infatti, tre diverse censure. In particolare, oltre a quella che
qui più interessa e di cui si dirà nel testo, la Commissione lamentava, da un lato, l’esclusione dall’ambito di applicazione del testo unico spagnolo sui contratti delle pubbliche amministrazioni – rationae personae – di taluni enti di diritto privato (società commerciali a
controllo pubblico), pur in presenza di quei «requisiti cumulativi» fondanti la nozione di
«organismo di diritto pubblico» (e, conseguentemente, quella di amministrazione aggiudicatrice) accolta dall’art. 1, lett. b), comma 2, di ciascuna delle direttive 93/36 e 93/37 (si
v. punti 17 e 20-32 della sentenza). Dall’altro, essa si doleva dell’estensione del ricorso alla procedura negoziata a due casi (quelli concernenti le c.d. “procedure infruttuose” e le
forniture di “beni uniformi”, di cui, rispettivamente, agli artt. 141, lett. a), e 182, lett. a) e
g), del Real Decreto Legislativo 16 giugno 2000, n. 2) non contemplati dall’elencazione tassativa contenuta nell’art. 6, n. 3, lett. a), della direttiva 93/36, e nell’art. 7, n. 3, lett. a), della direttiva 93/37.
(18) E quindi, dal ricorso alle procedure di evidenza pubblica.
(19) L’art. 3 (recante «Negocios y contratos excluidos») comma 1, lett. c), della sopra ricordata legge spagnola sui contratti pubblici, in effetti disponeva: «Quedan fuera del ámbito
de la presente Ley: [...] c) Los convenios de colaboración que celebre la Administración General
del Estado con la Seguridad Social, las comunidades autónomas, las entidades locales, sus respectivos organismos autónomos y las restantes entidades públicas o cualquiera de ello [...]».
(20) Corte di giustizia CE (quinta sezione), sentenza 18 novembre 1999, nella causa
180
parte II
un laconico percorso argomentativo (21), una perentoria affermazione di principio: ovverosia, che i rapporti convenzionali tra pubbliche amministrazioni instaurati attraverso la stipulazione di un
accordo interamministrativo non potessero considerarsi, per ciò
solo ed «indipendentemente dalla [loro] natura» (22), estranei alla
nozione comunitaria di appalto pubblico e, di conseguenza, alla
normativa sull’evidenza pubblica (23).
C-107/98. Su detta pronuncia, tra gli altri, si v. in particolare, nella dottrina italiana, G. Greco, Gli affidamenti «in house» di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio di gara, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 1461 ss., D. Proto, La Direttiva 93/36/CE sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici è applicabile anche nei contratti fra amministrazioni aggiudicatrici, in Urb. app., 2000, 1152 ss., e I. Del Giudice, Perduranti profili
di incertezza sul ricorso all’in house providing ed alle società miste anche alla luce della più
recente giurisprudenza comunitaria e nazionale, in Foro amm. TAR, 2008, 1546 ss.; e nella
letteratura tedesca, T. Müller, Interkommunale Zusammenarbeit im Weg der In-House-Vergabe?, in Zeitschrift für Vergaberecht und Beschaffungspraxis, 2007, 197 ss.
(21) Sullo «stile [...] in linea di massima [...] succinto e a tratti asciutto sino alla povertà logica» usualmente registrabile nelle sentenze della Corte di giustizia, G.F. Ferrari, Affidamento di servizi pubblici locali: la Corte apre la strada al consorzio tra Comuni, in DPCE,
2009, 354 ss., peraltro a margine di una pronuncia del giudice comunitario di particolare
interesse anche ai fini della presente indagine. Trattasi della decisione relativa al caso Coditel Brabant (sentenza 13 novembre 2008, nella causa C-324/07), in occasione della quale la Corte ha ritenuto ammissibile il modello dell’in house a controllo “analogo” congiunto, in cui il soggetto affidatario in via diretta del servizio verrebbe ad esser controllato congiuntamente da una pluralità di enti pubblici.
A tal proposito, si v. in particolare il punto 50 della citata sentenza, ove può leggersi: «Occorre quindi riconoscere che, nel caso in cui varie autorità pubbliche detengano un
ente concessionario cui affidano l’adempimento di una delle loro missioni di servizio pubblico, il controllo che dette autorità pubbliche esercitano sull’ente in parola può venire da
loro esercitato congiuntamente».
Su detta pronuncia si v. in particolare R. Caranta, La Corte di giustizia chiarisce i limiti
dell’in house pubblico, in Giur. it., 2009, 1254 ss., ove l’Autore ha altresì avuto modo di soffermarsi su alcuni precedenti della Corte europea in tema di cooperazione tra enti pubblici
(1255 s.). Si v., inoltre, F. Leggiadro, Affidamento in house della concessione per la gestione di
una rete di distribuzione: controllo analogo e controllo pubblico, in Urb. app., 2009, 288 ss.,
nonché M. Steiner, In-house und interkommunale Zusammenarbeit: Der EuGH präzisiert
seine Rechtsprechung im Sinne praktischer Konkordanz zwischen den Leitgedanken des europäischen Wirtschaftsverwaltungsrechts und dem Recht auf kommunale Selbstverwaltung,
in European Law Reporter, 2009, 52 ss. Sempre sul tema dell’in house a c.d. controllo congiunto, si v., inoltre, R. Morzenti Pellegrini, Società affidatarie dirette di servizi pubblici locali e controllo “analogo” esercitato in maniera congiunta e differenziata attraverso strutture
decisionali “extra-codicistiche”, in Foro amm. CdS, 2009, 2246 ss.
(22) Cfr. sentenza Commissione/Spagna, cit., punto 40.
(23) Cfr., in termini almeno in parte analoghi, G. Bardelli, Nozione di organismo di
diritto pubblico, accordi tra pp.aa. e fattispecie, cit., 1281, il quale rileva «l’importanza della
pronuncia in commento per l’affermazione cristallina, ivi contenuta, del principio relativo
alla possibilità che gli accordi tra pubbliche amministrazioni siano suscettibili di rientrare nel concetto di appalto pubblico, nella sua ampia accezione sopra evidenziata». Cfr. sul
punto anche A. Massera, Lo Stato che contratta, cit., 587 s. (nel testo e sub nota 1117), ove
dottrina
181
Si trattava, evidentemente, di una chiusura per molti versi condivisibile, giustificata dall’(estrema) ampiezza del dato normativo
registrato nella legislazione spagnola, che tendeva ad escludere –
indistintamente e “in blocco” – ogni rapporto di tipo contrattualcollaborativo tra soggetti pubblici dall’ambito di operatività delle norme europee sulle procedure di aggiudicazione degli appalti,
in definitiva volte (anche) alla costruzione di un mercato comune (24) (25). Un dato normativo che apriva le porte (o quantomeno insinuava il dubbio in ordine) a possibili fenomeni elusivi del
principio comunitario della concorrenza.
Seguendo quell’andamento di «continua ricalibratura» (26) tra
approcci restrittivi e più permissivi di cui sopra s’è detto, la Corte di giustizia, però, tornata ad occuparsi del tema, avrebbe ben
presto manifestato un orientamento di maggior favor per l’autoproduzione pubblica di servizi tramite forme contrattuali di collaborazione interamministrativa (27).
Di lì a poco, infatti, assecondando una quasi inevitabile
l’Autore osserva come, proprio attraverso la sentenza del 2005 nella causa Commissione/
Spagna, «[la] Corte di giustizia europea [...] [abbia] sancito che gli accordi di cooperazione tra enti locali non possono essere esclusi genericamente, solo in quanto tali, dalla normativa in materia di appalti [...]» (corsivo aggiunto).
(24) D’interesse, a tal proposito, quella riflessione – da cui ha poi evidentemente preso il titolo lo stesso lavoro – di M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica, cit., 1417, ove con acume l’Autore afferma: «Ciò fa comprendere
come, già sul piano sistematico, una sopravvalutazione dell’autoproduzione pubblica non
potrebbe cadere in una mera irrilevanza comunitaria, finendo per compromettere in parte qua l’obiettivo della costruzione del mercato unico».
(25) Di diverso avviso, ovviamente, il governo spagnolo, il quale sul punto aveva invocato, tra gli argomenti a difesa, la tendenziale irrilevanza, per il mercato, di quei rapporti.
Si v., a tal riguardo, il punto 36 della sentenza, ove può leggersi: « [...] Il governo spagnolo sottolinea che le convenzioni sono il modo normale con cui gli enti di diritto pubblico
stabiliscono rapporti tra di loro. Esso fa valere che tali rapporti si situano ai margini del
mercato [...]» (corsivo aggiunto).
(26) Così M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica, cit., 1417.
(27) Favor di cui è già dato rinvenir traccia, forse, nella sentenza 18 dicembre 2007,
Commissione/Irlanda (causa C-532/03), attraverso la quale la Corte di giustizia (grande sezione) ebbe ad escludere che l’Irlanda fosse venuta meno agli obblighi comunitari su di essa incombenti in forza degli artt. 43 e 49 Trattato CE, per non aver adottato le misure necessarie volte a ripristinare la “legittimità comunitaria” in relazione all’accordo avente ad
oggetto il servizio di trasporto d’urgenza in ambulanza, intercorso – senza alcuna preventiva pubblicità – tra il Dublin City Council (responsabile del servizio dei vigili del fuoco a
Dublino) e l’Eastern Regional Health Authority (ente pubblico competente in materia sanitaria). In quel caso, però, non risultò irrilevante un dato: e cioè che il DCC fornisse detto
servizio di trasporto – rispetto al quale l’accordo si limitava a definire le modalità di (co-)
182
parte II
«evoluzione» della giurisprudenza sull’in house a controllo analogo congiunto (28), la Corte, chiamata a decidere un ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione europea nei confronti
della Germania (29), avrebbe gettato le fondamenta per la costruzione pretoria della cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata (30) quale specifica ipotesi di deroga (allora) non scritta
all’obbligo delle procedure di gara.
La vicenda, già oggetto di attenzione in dottrina (31), merita
d’esser qui sinteticamente ricostruita onde meglio apprezzare le
premesse fattuali del percorso argomentativo seguito dal giudice
comunitario.
finanziamento – «nell’esercizio delle proprie competenze, derivanti direttamente dalla legge» (cfr. punti 35 e 37 della sentenza).
(28) Cfr. M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica, cit., 1419, laddove s’afferma che «l’avvento del Partenariato, a ben vedere, non nasce
dal nulla, ma costituisce naturale conseguenza dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di appalti in house». In termini sostanzialmente analoghi già C.E. Gallo, Affidamenti
diretti e forme di collaborazione tra enti locali, in Urb. app., 2009, 1180, ove l’Autore – in un
commento a margine della decisione oggetto del presente paragrafo – ritrova «l’immediato antecedente» di quell’«orientamento più liberale nei confronti degli affidamenti diretti»
nella già ricordata sentenza “Coditel Brabant” (si v. supra, sub nota 20).
(29) Trattasi della sentenza della Corte di giustizia CE (grande sezione) 9 giugno 2009,
Commissione/Repubblica federale di Germania (causa C-480/06).
(30) O, come pure è stato detto, di «coordinamento [...] non in forma istituzionale ma
in forma procedimentale»: così C.E. Gallo, Affidamenti diretti e forme di collaborazione tra
enti locali, cit., 1181. Parla di partenariato pubblico-pubblico «di tipo “contrattuale”», invece,
M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica, cit., 1419.
(31) Oltre al commento di C.E. Gallo, Affidamenti diretti e forme di collaborazione tra
enti locali, cit., si v. A. De Michele, Modelli di collaborazione pubblico-pubblico, in F. Mastragostino, La collaborazione pubblico-privato e l’ordinamento amministrativo, Torino, 2011,
699 ss. (in particolare 710 ss.). Si v., inoltre, pur se a margine di successive decisioni della Corte in argomento (su cui pure ci si soffermerà: infra, § 4), R. Caranta, Accordi tra amministrazioni e contratti pubblici, in Urb. app., 2013, 393 s., e A. Bartolini, Accordi organizzativi e diritto europeo: la cooperazione pubblico-pubblico (CPP) e la disciplina degli appalti, in Urb. app., 2013, 1260 ss.
La vicenda ha trovato una particolare eco, naturalmente, anche nella letteratura tedesca. Tra i lavori ivi registrabili, si v. in particolare: M. Burgi, “In-House” Providing in Germany, in M. Comba – S. Treumer (eds.), The In-House Providing in European Law, Copenhagen, 2010, 71 ss. (in particolare 87 ss.); W. Veldboer, Zur Entscheidung für interkommunale Zusammenarbeit durch das EuGH-Urteil “Hamburger Stadtreinigung”, in Die öffentliche Verwaltung, 2009, 859 ss.; M. Steiner, Ausschreibungsfreier Abfallentsorgungsvertrag:
Ist das der Anfang vom Ende der sogenannten Teckal-Kriterien?, in European Law Reporter,
2009, 280 ss.; T. Struve, Durchbruch für interkommunale Zusammenarbeit, in Europäische
Zeitschrift für Wirtschaftsrecht, 2009, 805 ss.; C. Eisner, Interkommunale Kooperationen und
Dienstleistungskonzessionen (Teil 1), in Zeitschrift für Vergaberecht und Beschaffungspraxis,
2011, 181 s.; Id., Interkommunale Kooperationen und Dienstleistungskonzessionen (Teil 2),
in Zeitschrift für Vergaberecht und Beschaffungspraxis, 2011, 225 ss.
dottrina
183
Il contenzioso – come si è anticipato – originava anche in questo caso da un ricorso ex art. 226 (comma 2) Trattato CE, a mezzo
del quale la Commissione aveva contestato alla Repubblica federale tedesca la stipulazione di un contratto tra quattro Landkreise (32) della Bassa Sassonia, da un lato, e la Stadtreinigung Hamburg (ossia, i servizi per la nettezza urbana della città di Amburgo, costituiti in impresa pubblica operante nella forma giuridica
di ente di diritto pubblico), dall’altro, attraverso il quale veniva a
quest’ultima affidato – senza gara e per vent’anni – il servizio di
smaltimento dei rifiuti.
Più nel dettaglio, a fronte del pagamento di un corrispettivo annuo per il servizio (33), la Stadtreinigung Hamburg si obbligava a riservare a favore dei quattro Landkreise circa un terzo (34) della capacità di conferimento del (futuro) nuovo impianto di termovalorizzazione (35) della città, all’epoca ancora in fase di progettazione.
Il contratto, però, non si limitava al sinallagma tra prestazione (smaltimento dei rifiuti) e controprestazione (corrispettivo in
denaro). Esso andava evidentemente oltre, contemplando anche
degli obblighi collaborativi.
I quattro Landkreise, infatti, oltre alla corresponsione del prezzo pattuito per il conferimento ed il trattamento dei rifiuti nell’impianto di termovalorizzazione, si obbligavano a mettere a disposizione della Stadtreinigung Hamburg (ad una tariffa concordata)
(32) Trad.: circondari, circoscrizioni o distretti amministrativi (sovracomunali). Trattasi, ad ogni modo, di enti pubblici territoriali (locali). Nella specie, i Landkreise parti
dell’accordo risultano essere quelli di Rotenburg (Wümme), Soltau-Fallingbostel (oggi,
Heidekreis), Harburg e Stade.
(33) Composto di una quota fissa e di una quota variabile in ragione della quantità
di rifiuti in concreto conferita. Va evidenziato, quale aspetto non irrilevante ai fini della
complessiva ricostruzione della fattispecie, che il prezzo del servizio sarebbe stato corrisposto non direttamente al gestore dell’impianto di termovalorizzazione – con cui i quattro
Landkreise non avrebbero intrattenuto alcun rapporto in via diretta –, bensì versato ai servizi per la nettezza urbana di Amburgo (Stadtreinigung Hamburg). Si ritiene che quest’ultimo aspetto abbia esercitato una certa influenza sulla decisione della Corte, la quale sembra farvi implicito riferimento al punto 31 della sentenza: «Occorre ricordare, in via preliminare, che il ricorso della Commissione riguarda unicamente il contratto stipulato tra i
servizi per la nettezza urbana della città di Amburgo e i quattro Landkreise limitrofi [...] e
non il contratto con cui devono essere definite le relazioni tra [detti servizi] [...] e il gestore dell’impianto di trattamento dei rifiuti [...]».
(34) Pari a 120.000 tonnellate annue, rispetto alla capacità complessiva di 320.000
tonnellate.
(35) Quello di Rugenberger Damm.
parte II
184
le proprie discariche per le parti da essi non sfruttate, onde ovviare all’eventuale saturazione della capacità ricettiva di quelle presenti nella città di Amburgo (36). Allo stesso tempo, in caso di arresto, cattivo funzionamento o sovraccarico occasionale dell’impianto di termovalorizzazione, essi si impegnavano anche a ridurre la quantità di rifiuti da conferire, per tutto il lasso di tempo necessario a riportare l’impianto a pieno regime. D’altro canto, e proprio per una tale ultima evenienza, i servizi per la nettezza urbana di Amburgo si impegnavano ad individuare ed offrire,
ai quattro distretti amministrativi, «capacità sostitutive» – se disponibili – «presso altri impianti ai quali [detti servizi] [...] avevano accesso» (37), pur subordinando tale onere al prioritario smaltimento dei rifiuti della città di Amburgo (38).
In breve, accompagnava le prestazioni principali dedotte nel
contratto una serie di impegni di reciproca assistenza tra i contraenti (39), in vista dell’adempimento di un servizio pubblico in capo
ad essi ex lege costituito: quello di smaltimento dei rifiuti.
Dal complessivo contenuto delle pattuizioni era chiaramente
desumibile, dunque, un’effettiva funzionalizzazione del contratto verso una cooperazione interamministrativa locale per lo svolgimento di un servizio di interesse pubblico comune agli enti pubblici cooperanti. E, a ben vedere, sarebbe stata proprio una tale
connotazione in senso cooperativistico del rapporto contrattuale,
unitamente al perseguimento – per suo tramite – di obiettivi di interesse pubblico comuni alle parti contraenti, a convincere la Corte di giustizia a disattendere tanto il ricorso della Commissione
(36) Si aggiungeva, a questo, anche l’obbligo ad accettare in dette discariche una frazione delle scorie (non “recuperabili”) prodotte dall’incenerimento dei rifiuti, proporzionalmente alle tonnellate conferite dai Landkreise.
(37) Cfr. punto 39 della sentenza.
(38) Trattasi di un profilo che è stato già ben evidenziato da C.E. Gallo, Affidamenti
diretti e forme di collaborazione tra enti locali, cit., 1180, ad avviso del quale «i meccanismi
di collaborazione» erano tali da consentire alla città di Amburgo «di far prevalere le proprie esigenze nella utilizzazione dell’impianto, con garanzia [per i Landkreise] di poter essere assistiti nelle loro esigenze di smaltimento».
(39) Negli stessi termini già A. De Michele, Modelli di collaborazione pubblico-pubblico, cit., 711, laddove l’Autrice richiama, in sostanza, i punti 17 e 42 della sentenza. Osserva a tal proposito C.E. Gallo, Affidamenti diretti e forme di collaborazione tra enti locali, cit.,
1181, che «l’accordo organizzativo in questione, che pur aveva un risvolto economico significativo (il pagamento del canone per il servizio per venti anni), definiva un oggetto ben
più complesso proprio in termini di collaborazione» (corsivo aggiunto).
dottrina
185
europea quanto le conclusioni in merito ad esso rassegnate dall’Avvocato generale (J. Mazàk) (40).
Pur a fronte di una parte motiva della sentenza particolarmente
frammentata e forse poco adatta a processi di astrazione (41), è comunque possibile sintetizzare i presupposti cumulativi su cui la Corte di
giustizia gettava le basi per un nuovo modulo derogatorio della normativa europea sugli appalti, condensandoli nei due seguenti punti:
a) la finalizzazione del partenariato all’«adempimento di una
funzione di servizio pubblico comune» agli enti pubblici cooperanti, e comunque la sua funzionalizzazione in via esclusiva «al
perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico» (42);
b) la partecipazione al partenariato di sole autorità pubbliche,
senza alcuna parte privata ed in ogni caso in modo tale da non
privilegiare alcun soggetto privato rispetto ai suoi concorrenti (43).
Dopo quella sentenza, alle deroghe dell’in house e dell’in house a “controllo congiunto” andava così ad aggiungersi, nel diritto
comunitario di derivazione pretoria, quella della cooperazione interamministrativa non istituzionalizzata.
3. – Non v’è dubbio alcuno che la decisione sul caso “Stadtreinigung Hamburg” abbia contribuito ad accelerare, sul fronte
(40) Molte delle riflessioni ivi poste paiono ruotare attorno alla (quasi scontata) impossibilità di invocare, nel caso di specie, il modulo derogatorio dell’in house providing:
«Dato che i servizi per la nettezza urbana della città di Amburgo non possono considerarsi strumenti propri delle circoscrizioni, l’applicazione della direttiva 92/50 può escludersi soltanto se vengono soddisfatti i due requisiti cumulativi per l’applicazione della deroga» dell’in house: “controllo analogo” e “attività prevalente” (cfr. punto 39 delle conclusioni). Cosa che, evidentemente, non poteva che escludersi già solo con riferimento al primo
dei due requisiti, rappresentando, il contratto controverso, «l’unico legame giuridico tra
le circoscrizioni e i servizi per la nettezza urbana della città di Amburgo», che non avrebbe consentito «alcuna possibilità di controllo» da parte dei Landkreise (cfr. ivi, punto 44).
(41) Cfr. punto 66 delle conclusioni presentate dall’Avvocato generale (V. Trstenjak)
nel già ricordato caso “ASL Lecce” (causa C-159/11), ove – con riferimento alla sentenza
“Stadtreinigung Hamburg” – si afferma: «Diversamente dalla giurisprudenza sulle operazioni di affidamento in house in cui la Corte, già nella sentenza Teckal, sintetizzava i due
criteri applicabili in una concisa massima, non si può individuare, in tale decisione fondamentale [Commissione/Germania], alcuna formula altrettanto pregnante per i presupposti
in base ai quali, al di là del caso deciso, possa essere considerata, in generale, ammissibile
una cooperazione [tra enti locali] non soggetta alla normativa in materia di aggiudicazione di appalti. Nondimeno [...] dalla linea argomentativa della Corte può ricavarsi una serie
di criteri rilevanti che devono sussistere congiuntamente» (corsivi aggiunti).
(42) Cfr. punti 37 e 47 della sentenza “Stadtreinigung Hamburg”.
(43) Cfr. ivi, punti 44 e 47.
parte II
186
legislativo europeo, la riflessione già in atto in ordine all’opportunità di legificare tutte le «deroghe non scritte» al principio dell’evidenza pubblica, nel tempo elaborate dalla Corte di giustizia.
A distanza di meno di un anno da quella sentenza, il Parlamento europeo, nell’adottare una risoluzione «sui nuovi sviluppi
in materia di appalti pubblici» (44), avrebbe dato risalto primario
al tema della cooperazione pubblico-pubblico, ad esso dedicando
uno specifico paragrafo (45).
Ivi è dato registrare un approccio chiaramente orientato verso la più ampia diffusione dei modelli di autoproduzione pubblica tramite forme di partenariato.
Diversi i segnali in tal senso.
Sembra possa così interpretarsi, ad esempio, l’invito esplicitamente rivolto alla Commissione ed agli stessi Stati membri, a
dar la massima risonanza possibile proprio alla sentenza sul “caso Amburgo” e, con essa, ai presupposti in quella sede individuati come legittimanti l’esclusione dei contratti (o accordi) di partenariato pubblico-pubblico dal campo di applicazione delle direttive europee sulle procedure di aggiudicazione degli appalti (46).
Così come pare vada nella stessa direzione il richiamo a quella giurisprudenza della Corte sulle diverse possibilità collaborative tra le amministrazioni aggiudicatrici, e sull’assenza di imposizioni comunitarie in merito al ricorso ad una particolare forma
giuridica per lo svolgimento in collaborazione di compiti di interesse pubblico (47).
Da una tale prospettiva, infine, non sembra meno significativo
il fatto che delle conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia nella
decisione sul “caso Amburgo”, se ne sia (in quell’occasione) predicata perentoriamente una «validità generale» (48), non limitata cioè
(44) Risoluzione del Parlamento europeo del 18 maggio 2010 (2009/2175(INI)), consultabile e facilmente reperibile sul sito web www.europarl.europa.eu.
(45) Cfr. punti 9-12 della risoluzione.
(46) Cui il Parlamento europeo pare aggiungerne un altro: ovverosia, quello in virtù
del quale ivi si dice che «l’attività in questione [cioè oggetto del partenariato pubblico-pubblico] [sia] espletata essenzialmente per le autorità pubbliche coinvolte» (corsivo aggiunto).
(47) Oltre alle decisione “Stadtreinigung Hamburg” (C-480/06), viene espressamente richiamata, a tal riguardo, la sentenza “Coditel Brabant” (C-324/07), sulla configurabilità di
un controllo “analogo” da parte di una pluralità di enti pubblici (si v. supra, sub nota 21).
(48) Rectius: applicabilità.
dottrina
187
alle sole forme di cooperazione tra autorità amministrative locali, bensì (almeno potenzialmente) estesa a tutti i soggetti pubblici.
Di lì a poco, anche la Commissione europea si sarebbe occupata del tema.
Nel libro verde sugli appalti del 2011 (49), la «cooperazione pubblico-pubblico» (50) viene presentata come «oggetto di un controverso dibattito negli ultimi decenni», in particolare con riguardo
alla difficoltà di definire «se, e in che misura, le norme sugli appalti pubblici debbano applicarsi agli appalti conclusi tra amministrazioni pubbliche» (51).
Sul punto vengono evidenziate dalla Commissione le due spinte
contrapposte da cui originerebbe la questione: da un lato, il principio di «una concorrenza equa e aperta», impeditivo di un’esclusione «automatica» dal campo di applicazione delle direttive europee in materia di appalti pubblici di quei contratti conclusi tra
sole amministrazioni aggiudicatrici; dall’altro, quello che viene ad
essere ivi indicato come «diritto all’autorganizzazione» nell’adempimento delle funzioni e dei servizi di pubblico interesse, intollerante ad una rigida applicazione di quelle direttive ad alcune forme di cooperazione tra pubbliche amministrazioni (52).
E a conferma di quanto appena indicato, anche la Commissione,
come prima aveva fatto il Parlamento europeo, avrebbe in particolare richiamato quell’orientamento giurisprudenziale espresso nella decisione “Stadtreinigung Hamburg”: in una sentenza recente – si
legge nel libro verde – la Corte di giustizia è giunta ad affermare che
«l’utilizzo di enti interni a controllo congiunto non è l’unico modo
per realizzare una cooperazione pubblico-pubblico, e che tale cooperazione può restare a livello puramente contrattuale (cooperazione orizzontale/non istituzionalizzata). Questo tipo di organizzazione non è coperto dalle norme UE in materia di appalti pubblici, nel
caso di adempimento congiunto di una funzione pubblica esclusivamente da parte di enti pubblici, utilizzando risorse proprie, per
(49) Più precisamente: «Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in
materia di appalti pubblici. Per una maggiore efficienza del mercato europeo degli appalti», Bruxelles, 27.1.2011, facilmente reperibile sul sito web ad accesso libero eur-lex.
europa.eu.
(50) Così ivi, nel titolo del § 2.3 (p. 22).
(51) Così ibidem.
(52) Cfr. ivi, 22 s.
parte II
188
un obiettivo comune e comportando diritti e obblighi reciproci che
vanno al di là dell’“adempimento di una funzione a titolo oneroso”
nel perseguimento dell’interesse pubblico» (53).
Contestualmente, però, la Commissione non avrebbe omesso
di rilevare come l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di
giustizia europea abbia dato luogo, sul punto, «ad un complesso
quadro di possibili eccezioni per la cooperazione pubblico-pubblico», ponendo le amministrazioni aggiudicatrici in una situazione
di incertezza in ordine «al se e a quali condizioni le proprie relazioni possano dirsi rientrare nel campo di applicazione del diritto
dell’Unione europea in materia di appalti pubblici» (54).
Emerge chiaramente, dunque, la necessità di tracciare in modo netto «una linea di separazione tra gli accordi conclusi fra le
autorità pubbliche per adempiere le proprie funzioni nell’ambito del proprio diritto di autorganizzazione, da un lato, e le attività di appalto che devono poter beneficiare di concorrenza aperta
tra operatori economici, dall’altro» (55).
Ed è così che si fa strada, allora, la questione sul «se e in che
modo affrontare il problema con norme legislative che fornirebbero
in particolare una chiara definizione delle forme di cooperazione
esterne all’ambito di applicazione delle direttive UE in materia» (56).
Ma in attesa di (allora) futuri ed incerti sviluppi legislativi, la
Commissione europea, come preannunciato nello stesso libro verde (57), avrebbe cercato di dar risposta a quell’esigenza di chiarimenti – in primis nell’interesse delle stesse amministrazioni aggiudicatrici – attraverso la predisposizione di un documento di lavoro dei servizi della Commissione, volto a riordinare ed illustrare
i principali orientamenti giurisprudenziali in argomento, ma anche a fornire – come si dirà – indicazioni e riflessioni ulteriori (58).
In quel documento (59), il punto di partenza del discorso rimane
(53) Così ivi, 23.
(54) Così ibidem.
(55) Così ibidem.
(56) Così ivi, 24 (corsivi aggiunti).
(57) Così ivi, 23.
(58) Cfr. A. Bartolini, Accordi organizzativi e diritto europeo, cit., 1262.
(59) Documento di lavoro dei servizi della Commissione concernente l’applicazione
del diritto UE in materia di appalti pubblici ai rapporti tra amministrazioni aggiudicatrici (“cooperazione pubblico-pubblico”), SEC (2011) 1169 def., del 4.10.2011, DG Mercato
interno e servizi.
dottrina
189
la decisione “Stadtreinigung Hamburg” (60). Anche ad avviso dei
servizi della Commissione, infatti, nonostante «le numerose circostanze specifiche» prese in esame dalla Corte di giustizia per decider quel caso, risultano ivi chiaramente rinvenibili considerazioni di portata generale in ordine alle «condizioni» in presenza delle quali una cooperazione orizzontale tra amministrazioni aggiudicatrici possa ritenersi esclusa dall’ambito di applicazione delle
norme europee sull’evidenza pubblica (61).
Ma ciò che qui più interessa rilevare è che, nel riepilogare quelle condizioni (62), i servizi della Commissione siano esplicitamente andati anche oltre il dato desumibile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Ciò può senz’altro dirsi, ad esempio, con riguardo ai profili
soggettivi della cooperazione, rispetto ai quali, pur mantenendo
fermo il presupposto della necessaria assenza di parti private, si è
proposto, in quella sede, di estendere la fattispecie astratta anche
a tutte le ipotesi di partenariato tra organismi di diritto pubblico
nei quali non sia presente capitale privato (63).
Ma, un approccio analogo, pare potersi registrare anche rispetto ad un altro, non meno rilevante, profilo: quello della sussistenza (o meno) del divieto, per le parti della cooperazione pubblicopubblico non istituzionalizzata, di operare sul mercato. A tal riguardo, nella ricostruzione dei servizi della Commissione è dato
riscontrare, in vero, una certa apertura, pur a fronte di una giurisprudenza della Corte che aveva ritenuto ammissibile la “fuoriuscita” dall’ambito di applicazione della normativa europea sugli appalti solo in relazione ad ipotesi di partenariato pubblico-pubblico rette «unicamente da considerazioni di interesse pubblico» (64).
(60) Allora indicata come «l’unica sentenza della Corte sulla cooperazione pubblicopubblico che non fa[ccia] riferimento ad entità in-house a controllo congiunto»: ivi, 14.
(61) Cfr. ibidem.
(62) Su cui si v. supra, § 2.
(63) Cfr. documento di lavoro, cit., 14 (sub nota 45), ove significativamente si giunge ad affermare: «Benché nella sentenza Amburgo la Corte faccia riferimento ad “autorità pubbliche”, secondo i servizi della Commissione questa cooperazione orizzontale potrebbe essere aperta a tutte le categorie di amministrazioni aggiudicatrici, ossia anche agli
organismi di diritto pubblico. D’altra parte, la conseguenza logica del criterio secondo cui
in questa cooperazione orizzontale non dovrebbe essere coinvolto alcun capitale privato
è che essa non è accessibile agli organismi di diritto pubblico nei quali è presente capitale privato» (corsivo aggiunto).
(64) Cfr. ivi, 15.
190
parte II
Ed infatti, nel citato documento di lavoro dei servizi, pur partendo dall’affermazione di principio per cui «le parti cooperanti [...]
non dovrebbero [...] svolgere attività di mercato», si giunge comunque a ritenere «accettabile» un’attività «strettamente accessoria e
marginale» con soggetti non partecipanti al partenariato, in particolare – si dice – per garantire un «uso economicamente ragionevole delle risorse» (65).
4. – La Corte di giustizia avrebbe avuto presto diverse altre occasioni per tornare sul tema (66), e almeno in tre di quelle – come
si anticipava nelle battute iniziali di questo lavoro – su rinvio pregiudiziale del giudice amministrativo italiano (67).
In questa sede non si intende ripercorrere per intero quelle vicende. Anche perché, in dottrina, esse sono già state oggetto di attente ricostruzioni e commenti, anche assai autorevoli (68).
(65) Cfr. ivi, 16 (in particolare sub nota 47). Si avrà modo di tornare sulle possibili
conseguenze di un tale approccio: si v. infra, § 5.
(66) Oltre ai casi indicati nella nota che segue, si v., in particolare, Corte di giustizia
UE (quinta sezione), sentenza 13 giugno 2013, Piepenbrock Dienstleistungen GmbH & Co.
KG/Kreis Düren (causa C-386/11), e ancor più di recente, sentenza 8 maggio 2014, Technische Universität Hamburg-Harburg e Hochschul-Informations-System GmbH/Datenlotsen
Informationssysteme GmbH (causa C-15/13).
Il tema del partenariato pubblico-pubblico è poi richiamato anche nelle conclusioni
presentate dall’Avvocato generale (N. Wahl) nel caso “ASL n. 5 «Spezzino»” (causa C-113/13).
La questione, tuttavia, risulta ancora pendente.
(67) Trattasi dei casi “ASL Lecce” (C-159/11), “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia e altri” (C-564/11) e “Consiglio Nazionale degli Ingegneri” (C-352/12), sorti – rispettivamente – a seguito delle seguenti ordinanze di rinvio, tutte reperibili sul sito www.
giustizia-amministrativa.it: Cons. St., sez. V, 15 febbraio 2011, n. 966; Cons. St., sez. V, 16
settembre 2011, n. 5207; TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 17 luglio 2012, n. 476.
(68) Si v., in particolare: A. Bartolini, Accordi organizzativi e diritto europeo, cit., 1260
ss.; R. Caranta, Accordi tra amministrazioni e contratti pubblici, cit., 391 ss.; M. Mazzamuto, L’apparente neutralità comunitaria sull’autoproduzione pubblica, cit., 1419 s.; nonché, in
sostanza sulla vicenda relativa al caso “ASL Lecce”, pur se prima del pronunciamento della Corte di giustizia, l’ampio studio di E. Sticchi Damiani, Gli accordi di collaborazione tra
Università e altre amministrazioni pubbliche, in DPA, 2012, 807 ss.
Sempre in argomento, si v., inoltre: G. Tulumello, Ambito di applicazione oggettivo degli impegni consensuali fra amministrazioni pubbliche, disciplina degli interessi e procedimenti a forma vincolata: il limite del diritto europeo della concorrenza, in www.giustizia-amministrativa.it (Studi e contributi); A. Nicodemo – G.F. Nicodemo, Nuovi canoni interpretativi per il partenariato pubblico-pubblico. Il Giudice Europeo si mostra rigoroso sulle ipotesi
di collaborazione tra le PP.AA. in favore del principio della concorrenza, in www.giustamm.
it; P. De Luca, Il partenariato pubblico-pubblico nel diritto comunitario degli appalti pubblici, in Dir. un. eur., 2013, 381 ss. (in particolare, 388 ss.); A.V.A. Divari, Per una lettura degli
accordi di partenariato pubblico-pubblico, di cooperazione e di collaborazione interamministrativa, in Dir. econ., 2014, 233 ss.
dottrina
191
Qualche pur breve cenno, tuttavia, appare imprescindibile. Si
cercherà, però, di privilegiare un approccio che ponga in risalto
ciò che dette vicende accomuna: ossia, il fatto che, in esse, la Corte abbia in sostanza rinvenuto delle prassi amministrative elusive della normativa europea sulle procedure di aggiudicazione degli appalti.
In quello che si è già più volte indicato come caso “ASL Lecce” (69), il giudice del rinvio (70) era stato chiamato a decidere in
appello (71) una controversia tra l’Azienda sanitaria locale di Lecce e diversi Ordini ed associazioni professionali (di ingegneri ed
architetti), avente ad oggetto una convenzione tra detta Azienda e
l’Università del Salento (72), per l’affidamento diretto e dietro corrispettivo non superiore ai costi sostenuti per l’esecuzione della
prestazione, di «un incarico di studio e valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere ricadenti nella Provincia di Lecce» (73).
Similmente, nel caso “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della
Lombardia” (74), la causa principale pendente dinanzi al Consiglio
di Stato (75) ruotava attorno alla legittimità di un accordo per mezzo del quale il Comune di Pavia, pur se (in questo caso) a seguito
di un avviso di selezione destinato, però, ai soli istituti universitari pubblici e privati, aveva affidato all’Università degli Studi della
città «un incarico di studio e consulenza tecnico-scientifica per la
redazione del piano di governo del territorio (P.G.T.) comunale» (76),
(69) Corte di Giustizia U.E. (grande sezione), sentenza 19 dicembre 2012, ASL Lecce/
Ordine degli Ingegneri della Provincia di Lecce e altri (causa C-159/11).
(70) Cfr. supra, sub nota 67.
(71) Il primo grado di giudizio aveva visto vittoriosi i ricorrenti (Ordini e associazioni professionali), i quali avevano impugnato l’affidamento diretto di un contratto di servizi di consulenza: si v. infra nel testo del paragrafo. I ricorsi di primo grado, poi riuniti in
appello, sono stati definiti con sentenze T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 2 febbraio 2010, nn.
416, 417 e 418.
(72) Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione.
(73) Da effettuarsi «alla luce delle recenti normative nazionali emanate in materia di
sicurezza delle strutture ed in particolare degli edifici strategici (OPCM 3274/03, Norme
Tecniche per le costruzioni d.m. 14/1/2008, Eurocodici)»: così Cons. St., ord. n. 966/2011,
cit., punto 1.
(74) Corte di Giustizia U.E. (decima sezione), ordinanza 16 maggio 2013, Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia e altri/Comune di Pavia (causa C-564/11).
(75) Cfr. supra, sub nota 67.
(76) Cfr. Cons. St., sez. V, ord. n. 5207/2011, cit.
parte II
192
con la previsione di un corrispettivo volto «essenzialmente a ripianare i costi sostenuti dall’Università» (77).
Per molti versi affine, poi, la vicenda che ancor più di recente
avrebbe indotto il T.A.R. Abruzzo (78) a chiedere in via pregiudiziale l’intervento del giudice europeo (79), in cui si discuteva della legittimità di due distinte convenzioni con cui il Comune di Castelvecchio Subequo e quello di Barisciano avevano affidato alcune
attività di supporto tecnico-scientifico per la redazione dei piani
di ricostruzione delle aree colpite dal sisma verificatosi in Abruzzo nell’aprile del 2009, alle Università degli Studi, rispettivamente, di Chieti-Pescara (80) e di Camerino (81).
Nel pronunciarsi sulle tre (pressoché) «identiche» (82) questioni
pregiudiziali (83) sollevate nelle vicende or ora richiamate, la Corte
(77) Cfr. Cons. St., sez. V, ord. n. 5207/2011, cit., punti 17 e 18.
(78) Cfr. supra, sub nota 67.
(79) Corte di Giustizia U.E. (decima sezione), ordinanza 20 giugno 2013, Consiglio
nazionale degli Ingegneri/Comune di Castelvecchio Subequo e Comune di Barisciano (causa C- 352/12).
(80) Dipartimento di Scienze e Storia dell’Architettura.
(81) Scuola di Architettura e Design “E. Vittoria” (SAD).
(82) Così lo stesso giudice europeo, che in relazione ai casi “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia” (C-546/11) e “Consiglio Nazionale degli Ingegneri” (C-352/12),
successivi rispetto alla sentenza “ASL Lecce”, avrebbe infatti applicato l’art. 99 («Risposta
formulata con ordinanza motivata») del regolamento di procedura, ai sensi del quale, «quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, [...] la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, può statuire
in qualsiasi momento con ordinanza motivata» (corsivi aggiunti).
(83) Quanto all’ordinanza di rinvio Cons. St., sez. V, n. 966/2011, cit., si v. il punto 37:
«In conclusione, poiché dalla giurisprudenza comunitaria non si traggono decisive indicazioni interpretative per risolvere i problemi enunciati, il Collegio sottopone alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione interpretativa pregiudiziale: Se la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 31.3.2004 n. 2004/18/CE relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di
servizi, ed in particolare l’articolo 1, n. 2 lettere a) e d), l’articolo 2, l’articolo 28 e l’allegato
II categorie n. 8 e n. 12, ostino ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di
accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere da eseguirsi alla luce delle normative nazionali in materia di sicurezza delle strutture ed in particolare degli edifici strategici,
verso un corrispettivo non superiore ai costi sostenuti per l’esecuzione della prestazione,
ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico» (corsivi aggiunti). Quanto all’ordinanza Cons. St., sez. V, n. 5207/2011, si v. il punto 20, ove può
leggersi: «[...] il Collegio sottopone alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente
questione interpretativa pregiudiziale: se la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio [...] n. 2004/18/CE [...][osti] ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione
di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per lo studio e la consulenza tecnico-scientifica finalizzata alla redazione degli atti costituenti il Piano di Governo del Territorio comunale così come individuati dalla normativa nazionale e regionale di
dottrina
193
di giustizia ha fatto evidentemente applicazione – pur se “in negativo” – del modello derogatorio del partenariato pubblico-pubblico (84), onde verificare la riconducibilità (o meno), ad esso, delle
fattispecie consensuali sottoposte al suo apprezzamento.
Il giudice europeo ha avuto così occasione di riepilogare e ribadire i presupposti in presenza dei quali possa dirsi sussistere una
effettiva cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata,
esclusa – in quanto tale – dall’ambito di operatività della normativa
europea sulle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici.
L’iter logico ed il percorso argomentativo seguiti dalla Corte
nelle tre decisioni risultano essere evidentemente gli stessi.
Anzitutto, il giudice si è premurato di verificare – con esito positivo in tutti e tre i casi – di trovarsi dinanzi ad un appalto pubblico.
A prescindere dai termini (convenzioni, accordi) utilizzati dalle
amministrazioni stipulanti, si trattava pur sempre – nella sostanza delle cose – di «contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici» (85), aventi per oggetto la prestazione di servizi.
Ai fini della qualificazione di quelle fattispecie come appalti pubblici risultava «ininfluente», infatti, sia che l’operatore economico fosse, in quei casi, esso stesso un’amministrazione aggiudicatrice (86), sia che quest’ultima non perseguisse un preminente scopo
di lucro, non avesse una struttura imprenditoriale e non fosse presente in modo continuo sul mercato (87). Alla stessa stregua era irsettore verso un corrispettivo la cui non remuneratività non è manifesta, ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico» (corsivi aggiunti). Quanto, infine, all’ordinanza T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, n. 476/2012, si v. il punto VI.4): «Se
la direttiva [de]l Parlamento europe[o] e del Consiglio n. 2004/18/CE [...][osti] ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per le attività di supporto ai Comuni relative allo studio, all’analisi
ed al progetto per la ricostruzione dei centri storici del comune di Barisciano e Castelvecchio Subequo, come meglio specificate nel capitolato tecnico allegato alla convenzione e
come individuati dalla normativa nazionale e regionale di settore, verso un corrispettivo
la cui non remuneratività non è manifesta, ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico» (corsivi aggiunti).
(84) In precedenza inaugurato con la decisione del caso “Stadtreinigung Hamburg”:
si v. ampiamente supra, § 2.
(85) Cfr. art. 1, par. 2, lett. a), della (allora vigente) direttiva 2004/18/CE.
(86) Si v., sul punto, la già richiamata (cfr. supra, sub nota 20) sentenza nel caso Teckal.
(87) Si v., a tal proposito – anch’essa su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato –,
Corte di giustizia CE (quarta sezione), sentenza 23 dicembre 2009, “CoNISMa/Regione Marche” (causa C-305/08). Sempre in argomento, a fini riepilogativi, si v., inoltre, la determinazione n. 7 del 21 ottobre 2010 dell’AVCP.
parte II
194
rilevante, poi, che la remunerazione pattuita si limitasse al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio di consulenza. Si trattava pur sempre di contratti «a titolo oneroso»: la mera assenza di
profitto, infatti, non conferiva «carattere di gratuità all’accordo» (88).
Si era, dunque, in presenza di contratti di appalto pubblico (di
servizi). E onde accertare la contrarietà dell’affidamento diretto
di quei contratti alla normativa europea, restava solo da verificare
l’eventuale operatività di una qualche deroga legata al fatto di trovarsi dinanzi a fattispecie convenzionali tra enti pubblici.
Esclusa in radice l’ipotesi dell’in house providing per la chiara
insussistenza di alcun controllo analogo da parte dell’amministrazione “committente” sull’altro soggetto pubblico, restava da valutare la possibilità di ricondurre detti contratti entro i confini concettuali del partenariato pubblico-pubblico. Ma tale, più recente, «deroga non scritta» sarebbe risultata inapplicabile in tutti e
tre i casi sottoposti dagli organi di giustizia amministrativa italiana all’attenzione della Corte di giustizia, per mancanza di uno di
quei presupposti cumulativi già indicati nella prima elaborazione
del modello (89): ossia, che l’instaurazione del rapporto contrattuale (o comunque convenzionale) tra le pubbliche autorità potesse
dirsi effettivamente finalizzato all’adempimento di una funzione
di servizio pubblico ad esse comune (90) (91).
(88) Così Corte di Giustizia UE, nelle decisioni “ASL Lecce”, “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia” e “Consiglio nazionale degli Ingegneri”, rispettivamente ai
punti 25-29, 26-30 e 34-38.
(89) Cfr. supra, § 2.
(90) Cfr. punto 37 della sentenza “ASL Lecce” (richiamato in modo pedissequo nelle due
successive ordinanze relative ai casi “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia” e
“Consiglio nazionale degli Ingegneri”, rispettivamente ai punti 38 e 46), ove si legge: «Al riguardo, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio sembra risultare, in primo luogo, che
tale contratto presenti un insieme di aspetti materiali corrispondenti in misura estesa, se non
preponderante, ad attività che vengono generalmente svolte da ingegneri o architetti e che,
se pur basate su un fondamento scientifico, non assomigliano ad attività di ricerca scientifica. Di conseguenza, contrariamente a quanto la Corte ha potuto constatare al punto 37 della
citata sentenza Commissione/Germania, la funzione di servizio pubblico costituente l’oggetto
della cooperazione tra enti pubblici istituita da detto contratto non sembra garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune all’ASL e all’Università» (corsivi aggiunti).
(91) Sulla base dell’interpretazione delle fattispecie fornita dal giudice europeo, i giudici amministrativi italiani avrebbero poi provveduto conformemente, confermando l’annullamento (in primo grado) o annullando gli atti di affidamento diretto dei contratti: cfr. Cons.
St., sez. V, 15 luglio 2013, n. 3849 (sul caso “ASL Lecce”); Cons. St., sez. V, 23 giugno 2014, n.
3130 (sul caso “Consulta Regionale Ordine Ingegneri della Lombardia e altri”); T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 22 maggio 2014, n. 476 (sul caso “Consiglio nazionale degli Ingegneri”).
dottrina
195
E se è vero – come è stato ben detto – che «il criterio distintivo
fondato sul perseguimento di un “interesse pubblico comune” sia,
nella pratica, foriero di difficoltà applicative» (92), trattandosi di un
concetto che si presta, probabilmente, a più d’una lettura (93), cionondimeno, in attesa di futuri ed assai probabili nuovi interventi
interpretativi del giudice dell’Unione (94), si ritiene che – allo stato – le migliori indicazioni sul punto siano quelle poste nelle già
citate conclusioni rassegnate dall’Avvocato generale (V. Trstenjak)
nel caso “ASL Lecce”, ove può leggersi: «Non è [...] sufficiente che
l’obbligo legale di svolgere le funzioni pubbliche in questione incomba su una sola delle autorità pubbliche coinvolte, mentre l’altra si limiti ad un ruolo di ausiliare dell’adempimento, che assume
in appalto l’esecuzione di detta funzione altrui. Ciò appare comprensibile qualora si rammenti il significato etimologico della parola cooperazione, in quanto l’essenza di [essa] consiste proprio in
una strategia comune condivisa dalle parti, che si basa sullo scambio e sull’armonizzazione dei rispettivi interessi» (95).
5. – Auspicato dalla Commissione europea – come si è detto (96) – nel libro verde sugli appalti pubblici del 2011, il processo
di codificazione legislativa della figura giuridica del partenariato
pubblico-pubblico sarebbe giunto a compimento con l’emanazione delle nuove direttive europee sulle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici di appalti e concessioni (97).
(92) Così, in modo limpido, A. Bartolini, Accordi organizzativi e diritto europeo, cit., 1262.
(93) Cfr. R. Caranta, Accordi tra amministrazioni e contratti pubblici, cit., 395, ove l’Autore, nel commentare la decisione sul caso “ASL Lecce”, ritiene di poter affermare: «Due [...]
sono le possibili letture della decisione: una, più restrittiva, nel senso che le amministrazioni
aggiudicatrici coinvolte debbono perseguire il soddisfacimento dello stesso interesse pubblico;
l’altra, meno rigida, nel senso che è sufficiente che ognuna persegua un interesse pubblico».
(94) Cfr. R. Caranta, Accordi tra amministrazioni e contratti pubblici, cit., 397, ove l’Autore, rilevando taluni scostamenti tra l’originaria elaborazione pretoria della figura della
cooperazione pubblico-pubblico e le (allora) proposte di direttive in materia di appalti e
concessioni, osserva: «Le differenze sono sensibili [...], e mentre non è dato per ora conoscere quale sarà il testo effettivamente vigente della nuova normativa è facile prevedere
che saranno necessarie nuove pronunce della Corte [...]».
(95) Cfr. punto 75 delle citate conclusioni.
(96) Cfr. supra, § 3.
(97) Trattasi delle direttive 2014/23, 2014/24 e 2014/25 del Parlamento europeo e del
Consiglio, 26 febbraio 2014, rispettivamente, «sull’aggiudicazione dei contratti di concessione», «sugli appalti pubblici» e «sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali».
196
parte II
Le tre recenti direttive contengono una “disciplina-fotocopia” (98) volta a lasciar fuori dall’ambito di applicazione della normativa europea sull’evidenza pubblica quei contratti conclusi esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici, allorquando siano soddisfatte – cumulativamente – le seguenti condizioni:
a) il contratto sia volto a stabilire o realizzare una cooperazione
tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune;
b) l’attuazione di tale cooperazione sia retta esclusivamente da
considerazioni inerenti all’interesse pubblico;
c) le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti svolgano
sul mercato aperto meno del 20% delle attività interessate dalla
cooperazione (99).
Come può chiaramente evincersi da quanto poc’anzi riportato, allora, se da un lato la nuova disciplina nulla pare aggiungere al fine di meglio delimitare il requisito della “comunanza” della funzione pubblica perseguita dalle amministrazioni contraenti (100), dall’altro essa introduce e cristallizza un elemento foriero
(98) Essa è la stessa, infatti, sia nella direttiva “appalti” (art. 12, par. 4, dir. 2014/24/
UE), sia nella direttiva “settori speciali” (art. 28, par. 4., dir. 2014/25/UE), sia nella direttiva
“concessioni” (art. 17, par. 4, dir. 2014/23/UE).
(99) Con riferimento a tale condizione, il legislatore europeo si è “preoccupato” di specificare anche le modalità di calcolo della soglia ivi indicata. A tal riguardo, infatti, si dispone che,
onde determinare la percentuale delle attività svolte sul mercato debba prendersi in considerazione il fatturato totale medio o un’idonea misura alternativa basata sull’attività, quali i costi
sostenuti dalla persona giuridica o dall’amministrazione aggiudicatrice in questione, nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori, per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto
(o concessione). Se, tuttavia, a causa della data di costituzione o di inizio dell’attività della persona giuridica o dell’amministrazione aggiudicatrice in questione, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, il fatturato o l’indicata misura alternativa (quali i costi), non dovesse esser disponibile per i tre anni precedenti (o dovesse risultare non più pertinente), è sufficiente dimostrare, in base a proiezioni dell’attività, che la misura sia credibile.
(100) Ed è per questo che ci si sarebbe auspicati, in verità, un maggiore sforzo definitorio da parte del legislatore europeo, il quale, invece, sembra aver rimesso “il pallino” nelle mani della Corte di giustizia, confidando nella specificazione del concetto in sede pretoria. Forse, qualche indicazione ulteriore sul punto potrebbe trarsi dai considerando delle direttive. Si v., in particolare, il considerando n. 33 della direttiva appalti (2014/24/UE),
ove può leggersi: « [...] la cooperazione dovrebbe fondarsi su un concetto cooperativistico.
Tale cooperazione non comporta che tutte le amministrazioni partecipanti si assumano la
responsabilità di eseguire i principali obblighi contrattuali, fintantoché sussistono impegni a cooperare all’esecuzione del servizio pubblico in questione. Inoltre, l’attuazione della cooperazione, inclusi gli eventuali trasferimenti finanziari tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, dovrebbe essere retta solo da considerazioni legate al pubblico interesse» (corsivo aggiunto).
dottrina
197
di possibili effetti distorsivi della concorrenza, legati all’eventualità che le amministrazioni aggiudicatrici (parti di una cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata) possano contestualmente operare anche sul mercato (101).
In chiusura, un’ultima considerazione.
A parte detta ultima perplessità, non è escluso che, almeno in
taluni casi, il ricorso al modello del partenariato pubblico-pubblico possa suscitare qualche dubbio anche rispetto all’altra delle due
“anime” del principio dell’evidenza pubblica: quella che più intimamente si lega ad una più risalente – ma comunque non trascurabile – «concezione contabilistica» (102) della normativa in materia di scelta del contraente.
Si vuol con ciò evidenziare la necessità che l’opzione per l’autoproduzione pubblica di beni e servizi – e, con essa, la “fuga dal
mercato” – sia comunque il prodotto di un’adeguata e attenta ponderazione in ordine ad un impiego effettivamente efficiente delle
risorse pubbliche.
Come a dire: che l’alternativa al mercato non sia più dispendiosa del mercato stesso.
(101) Secondo quanto poco sopra indicato nel testo del paragrafo, sub lett. c). A tal
proposito, v’è da dire che in sede di discussione sul testo finale delle direttive non sono
mancate proposte emendative volte ad escludere detta possibilità: si v., ad esempio, l’emendamento n. 560 alla proposta di direttiva “appalti” COM(2011)0896 – C7-0006/2012 –
2011/0438(COD), consultabile sul sito eur-lex.europa.eu. Alla fine, però, sarebbe prevalsa –
potrebbe dirsi – la linea dei Paesi delle grandi Stadtwerke.
(102) Cfr. Corte cost. 19 novembre 2007, n. 401.
198
parte II
Oggetto e principi normativi della disciplina
dell’edilizia
di Sandro Amorosino
Sommario: 1. L’ambito di disciplina compreso nella materia “edilizia”. – 2. Il Testo unico dell’edilizia (TUE) e le altre normative rilevanti in materia edilizia. – 3. I principi della legislazione
statale e il contenzioso costituzionale sul punto. – 4. Le norme regionali concernenti l’attività
edilizia. – 5. Le discipline comunali.
L’articolo espone dapprima l’ambito di disciplina compreso nella materia
“edilizia” secondo il legislatore costituzionale e quello ordinario, per soffermarsi poi sulle norme attualmente rilevanti in materia, primo fra tutti il Testo unico
dell’edilizia (TUE), enucleando i principi della legislazione statale e dando conto
del contenzioso costituzionale sul punto. Vengono infine considerate le norme
regionali concernenti l’attività edilizia e le discipline comunali.
* * *
The article exposes the range of the discipline included in the field “construction” according to the constitutional legislator and to the ordinary one, and elaborate then on the rules currently relevant in the matter, first of all, the TEU, identifying the principles State legislation and giving account of constitutional litigation on this point. Are then considered regional regulations and municipal ones relating to the construction activity.
1. – L’edilizia intesa come “complesso delle attività dirette alla
costruzione di fabbricati di ogni genere” (1) è oggetto, com’è noto, di disciplina normativa, legislativa e regolamentare; di provvedimenti amministrativi di pianificazione urbanistica, di diverso genere ed ambito; di provvedimenti autorizzatori, in funzione di controllo; di provvedimenti di accertamento della regolarità delle attività in corso, e, infine, ove occorra, di procedimenti sanzionatori.
Appaiono ormai superati i tentativi di separare (il diritto del)
l’edilizia dall’urbanistica e dal governo del territorio, che caratterizzarono talune interpretazioni immediatamente successive alla
(1) V. E. Dalfino, Lessico giuridico dell’edilizia e dell’urbanistica, Roma-Bari, 1992, 124.
dottrina
199
riforma del Titolo V della Costituzione, finalizzate all’assegnazione implicita della materia alla competenza legislativa esclusiva
delle Regioni (2).
A tale scopo la triade governo del territorio-urbanistica-edilizia veniva variamente “sezionata”, in particolare sostenendo l’estraneità della disciplina giuridica dell’edilizia, e della stessa urbanistica, rispetto a quella del governo del territorio, siccome attinenti ad ambiti logico-giuridici diversi.
Queste interpretazioni dell’art. 117 Cost. – se accolte – si sarebbero riverberate sull’art. 2, comma 1, del T.U.E., di poco antecedente alla riforma costituzionale, abrogando implicitamente la
statuizione del suo primo comma: “Le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia”.
Passata l’ondata delle interpretazioni “panregionaliste” dell’art.
117, infrantasi contro le sentenze della Corte Costituzionale (3), è
ormai universalmente accettata la visione che vede l’urbanistica
come parte del governo del territorio e – per quanto qui interessa –
la disciplina giuridica dell’edilizia, pur caratterizzata da autonomia
di oggetti e di regole, inscindibilmente inserita nel contesto della
disciplina dell’urbanistica (si pensi solo al tema del rapporto tra
jus aedificandi e conformazione della proprietà da parte dei piani urbanistici) e, più ampiamente, del governo del territorio (4).
Dalla ricomprensione dell’edilizia e dell’urbanistica nel governo
del territorio (5) discende che tutte e tre sono materie – per continuare ad usare un concetto assai ambiguo e criticato – di competenza legislativa concorrente.
Un secondo acquis ormai cristallizzato concerne la molteplicità di interconnessioni tra l’urbanistica (come contesto, fisico e
giuridico) e l’edilizia, testimoniato dal fatto che molte delle regole dell’attività edilizia sono contenute nelle leggi urbanistiche, specie regionali, e nella congerie dei piani urbanistici.
Fermi questi due postulati vi è sicuramente un quid proprium,
rari,
(2) V. Cerulli Irelli, Il governo del territorio nel nuovo assetto costituzionale in E. FerS. Civitarese Matteucci e P. Urbani (a cura di), Il governo del territorio, Milano, 2003.
(3) A partire dalle sentenze n. 303 del 2003 e n. 362 del 2003, esattamente ricordate
come “capostipiti” da R. Ferrara e R. Lombardi Commento all’art. 2 T.U.E., in M.A. Sandulli, M. Spasiano (a cura di), Testo unico dell’edilizia, II ed. Milano, 2009, 25 ss.
(4) V. M.A. Sandulli, Effettività e semplificazioni nel governo del territorio, in Dir. Amm.,
2003, 507 ss.
(5) V. S. Amorosino, Il governo dei sistemi territoriali, Padova, 2009, 3 ss.
parte II
200
specifico, della disciplina dell’attività edilizia, sia per quanto riguarda le fonti (dal codice civile, al T.U.E., ai regolamenti edilizi), sia
per ciò che concerne l’“amministrazione” dell’attività stessa, mediante provvedimenti o altri tipi di atti giuridici (6), anche del privato ai quali è riconosciuta “valenza amministrativa”.
Per riprendere una recente definizione (7) “La materia dell’edilizia riguarda il potere delle amministrazioni di controllare l’attività
di costruzione di immobili”.
I parametri normativi di tale potere – conferito alle amministrazioni locali ma anche, per talune submaterie che comportano
comunque costruzioni, alle Regioni – sono da un lato le prescrizioni dei piani urbanistici e dall’altro il codice civile, il T.U. dell’Edilizia ed i regolamenti edilizi (comunali, ma anche di altri enti: ad
esempio i Consorzi per le Aree di Sviluppo Industriale).
E non è da dimenticare che “le regole che presiedono all’attività
di costruzione sono fissate sia in funzione dell’interesse generale sia
in funzione degli altri interessi e diritti privati” (8).
2. – Il T.U.E. è una delle fonti principali del diritto dell’(attività)
edilizia, in forza degli enunciati del suo art. 1, comma 1 e dell’art.
2, ma occorre subito puntualizzare che pur essendo – anche a causa della sua antiquata concezione – un plesso normativo (9) molto lungo ed articolato non è il dominus incontrastato della disciplina della materia, per ragioni sia endogene, che attengono alla
sua stessa struttura, sia esogene.
Per quanto attiene alla struttura è stata da tempo rilevata (10)
la contraddittorietà intrinseca di un testo normativo che, mentre
afferma di contenere i principi fondamentali e generali della materia edilizia – cui devono attenersi le Regioni nell’esercizio della
loro potestà legislativa concorrente – reca in realtà una disciplina
compiuta della materia stessa; e – viceversa – i principi “non sono
(6) V. A. Fiale, Voce Edilizia I) Disciplina delle costruzioni (2005) Enc. Giur. Treccani, vol XII.
(7) A. Fioritto, Introduzione al diritto delle costruzioni, Torino, 2013, 3.
(8) Ibidem.
(9) In tema v., M. Luciani, Il sistema delle fonti nel testo unico dell’edilizia in E. Ferrari (a
cura di), La disciplina pubblica dell’attività edilizia e la sua codificazione, Milano, 2002, 111 ss.
(10) P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, Milano, 2006, 43 ss.
dottrina
201
affatto formulati espressamente ma vanno, more solito, desunti in
via di interpretazione”.
A “depotenziare” il T.U.E. – oltre alla rilevata contraddizione
tra forma dichiarata (di legge di principi) e sostanza (di disciplina puntuale) – concorrono anche fattori esogeni di diverso tipo:
dal moltiplicarsi delle leggi urbanistiche regionali che, quasi tutte, contengono norme relative ai “titoli edilizi” ed ai rispettivi procedimenti, alle novelle contenute in numerosi decreti legge, che
hanno modificato il Testo Unico, sia “liberalizzando” talune attività, sia semplificando i procedimenti amministrativi relativi ad alcuni tipi di interventi edilizi, sia attribuendo (art. 30 del d.l. n. 69
del 2013) alle Regioni ed alle Province Autonome la potestà di derogare – mediante leggi o regolamenti – agli standards urbanistici ed alle distanze tra i fabbricati (11) previsti nel d.m. n. 1444 del
1968, ferme restando le norme del codice civile.
3. – I principi fondamentali della legislazione statale – cui fa
riferimento l’art. 2, comma 1, del T.U. – che caratterizzano l’ordinamento di settore sono tre.
Il primo è la sottoposizione a controllo amministrativo, preventivo o successivo (in caso di SCIA), dell’attività edilizia, esclusi i casi in cui essa è liberalizzata (rectius: deamministrativizzata).
La funzione del controllo edilizio è quella, classica, di teoria generale (12), della verificazione della regolarità dell’attività, alla quale
segue, a seconda dell’esito, un provvedimento autorizzatorio o un
diniego, oppure un’inerzia amministrativa “consapevole” (nel caso di riscontro positivo di quanto dichiarato dal privato nella comunicazione di inizio attività), o un annullamento (nel caso di riscontro negativo circa la conformità del progetto, dichiarata dal
privato, alle norme ed ai piani) o – infine – un silenzio assenso (13).
L’interconnessione tra urbanistica ed edilizia viene fortemente in rilievo, a proposito dell’attività di controllo, sotto almeno tre
profili:
a) perché il parametro di legittimità è costituito dalla conformità
(11) A. Di Mario, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il “decreto del fare” in Urb. App., 11/2013, 1121 ss.
(12) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, 1993.
(13) V., per tutti, F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2012 e P. Urbani, S.
Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico, Torino, 2013.
202
parte II
del progetto presentato ai piani territoriali ed urbanistici (ma anche, eventualmente – ove contengano prescrizioni immediatamente
cogenti – ai piani paesaggistici), oltre che alle disposizioni del codice civile e dei regolamenti edilizi; si parla, perciò, di autorizzazioni in funzione di controllo di conformità urbanistica ed edilizia;
b) perché è oggetto di verifica anche l’ammissibilità delle destinazioni d’uso e dei loro mutamenti, alla stregua di quanto prescritto dai piani urbanistici. Sotto questo profilo il condizionamento
dell’urbanistica sull’edilizia è massimo in quanto, a seconda delle specifiche prescrizioni dei piani, ove previsto dalle leggi regionali, possono divenire rilevanti anche i mutamenti di destinazione “senza opere”, cioè in assenza di attività edilizia;
c) perché l’attività costruttiva è inscindibilmente collegata alla
esistenza, o prevista realizzazione, delle opere di urbanizzazione.
Attiene, invece, all’attività edilizia in senso stretto la verifica
della regolarità del progetto per quanto riguarda le distanze, le altezze e altre caratteristiche tecniche delle costruzioni.
La presenza di una pluralità di parametri, normativi e pianificatori, rispetto ai quali deve essere accertata la conformità del
progetto costruttivo ha come effetto – una volta che la verifica sia
stata compiuta con esito positivo – l’“azzeramento” della discrezionalità dell’amministrazione nel caso singolo (14) (“azzeramento” che costituisce anch’esso un principio generale).
Il secondo principio d’apice è l’attribuzione della funzione di
vigilanza sulle attività edilizie alle amministrazioni competenti,
nella massima parte dei casi comunali.
Il terzo principio caratterizzante è la consequenziale attribuzione della potestà repressiva e sanzionatoria alle amministrazioni competenti.
È il caso di sottolineare che la sommatoria delle tre funzioni
rende giuridicamente rilevante l’intera attività costruttiva, da “prima dell’inizio”, all’intero suo svolgimento, alla fase successiva alla sua conclusione (in caso di accertamento di comportamenti illeciti e di irrogazione di sanzioni amministrative).
Ai principi generali d’apice – controllo (preventivo), vigilanza
(sulle fasi realizzative, lecite e illecite) e repressione (degli abusi)
– si aggiungono alcuni principi che attengono:
(14) P. Stella Richter, I principi, cit., 132.
dottrina
203
I) alla graduazione delle regole applicabili, in rapporto alla natura e rilevanza degli interventi costruttivi;
II) alla natura reale – in senso civilistico – del titolo abilitativo,
cui si connettono la trasferibilità e l’irrevocabilità ed anche la facoltà del privato di utilizzare il titolo solo parzialmente, rinunciando – ad esempio – ad aliquote di altezza o cubatura (15) assentite;
III) alla validità del titolo stesso, che è circoscritta nel tempo e
viene meno in caso di jus superveniens recante prescrizioni ostative, a meno che l’attività costruttiva sia già iniziata e si concluda in termini.
Dei tre principi ora richiamati gli ultimi due non hanno formato oggetto di contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni.
Non v’era materia del contendere sulla realità, trasferibilità, irrevocabilità e sulla libertà di utilizzazione parziale dei titoli abilitativi, le quali ineriscono ad un diritto soggettivo ormai perfetto,
su cui le Regioni non hanno provato ad intervenire.
Quanto alla validità diacronica del titolo abilitativo, a fronte
di una disciplina urbanistica preclusiva sopravvenuta, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la decadenza dei titoli abilitativi già rilasciati (salvo che i lavori siano stati già iniziati e si concludano in termini) costituisce un principio di fonte
normativa statale (16).
Un consistente contenzioso si è invece registrato tra Regioni e
Stato, originato da norme di vari decreti legge, in tema di qualificazioni e definizioni dei vari tipi di interventi e di regime giuridico dei titoli abilitativi, in particolare la SCIA.
Per quanto concerne la definizione delle varie categorie di interventi “costruttivi” (dalla manutenzione straordinaria, alla demolizione e ricostruzione, alla realizzazione di nuove costruzioni) la Corte costituzionale (sent. n. 309/2011) ha ritenuto illegittime disposizioni di leggi della Lombardia che avevano modificato,
in senso ampliativo, le “declaratorie” dei singoli tipi di interventi, o addirittura ritenuto di discostarsi dalla intavolazione dei tipi
d’interventi contenuta nel T.U.E. La Corte ha, infatti, affermato la
natura di norme di principio delle disposizioni statali in materia,
in quanto volte ad uniformare, su tutto il territorio nazionale, il
(15) V. S. Amorosino, Le varianti «riduttive» dell’altezza e della volumetria degli edifici
in Riv. giur. ed., 5/2013, 247 ss.
(16) T.A.R. Liguria, sez. I, sentenza n. 305 del 2008, in www.giustizia-amministrativa.it.
204
parte II
regime giuridico dei vari tipi di interventi; più precisamente: è in
relazione alle varie categorie di interventi che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi con riguardo al procedimento, agli oneri, nonché agli abusi ed alle relative sanzioni (17).
Ancora: sono state ritenute illegittime (18) talune disposizioni della l.r. veneto n. 9 del 2012 che aveva “liberalizzato” le “opere
di modesta complessità strutturale”, perché tali disposizioni contrastano con il principio fondamentale della previa autorizzazione scritta per l’inizio dei lavori; autorizzazione che è il “precipitato” del procedimento di controllo e che sovente può esser sostituita dalla SCIA, altrettanto scritta.
Di particolare interesse sono le motivazioni di alcune sentenze
che hanno dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcune Regioni in materia di SCIA:
“(…) il titolo di legittimazione dell’intervento statale nella disciplina della segnalazione certificata di inizio attività si ravvisa
nell’esigenza di determinare livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, compreso quello delle Regioni a statuto
speciale. In altri termini, si è in presenza di un concorso di competenze che, nella fattispecie, vede prevalere la competenza esclusiva dello Stato, essendo essa l’unica in grado di consentire la realizzazione dell’esigenza suddetta” (19).
Ancora: “Posto che l’ambito applicativo della disciplina, diretto alla generalità dei cittadini, che trascende la materia della concorrenza, giustifica il richiamo al livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili
e sociali tutelati dalla stessa Costituzione, il riconoscimento della
possibilità di dare immediato inizio ad una determinata attività,
fermo restando l’esercizio dei poteri inibitori da parte della p.a.,
ricorrendone gli estremi, e fatto salvo il potere della stessa p.a. di
assumere determinazioni in via di autotutela, assicura la prestazione specifica di una attività amministrativa circoscritta all’inizio
(17) Cfr. Corte cost., sent. n. 171 del 2012, in www.giurcost.org.
(18) Corte cost., sent. 64 del 2013, in www.giurcost.org.
(19) Corte cost., sent. n. 164 del 2012, in www.giurcost.org.
dottrina
205
della fase procedimentale, strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica, tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della p.a. competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima, che può riguardare anche la materia edilizia, come ora in modo espresso dispone l’art. 5, comma 1, lettera b), e comma 2, lettera b) e c), del
d.l. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 106 del
2011, entro i limiti e con le esclusioni previste” (20).
E l’enunciato principio in materia di SCIA “vale” anche nei confronti della potestà legislativa della Provincia Autonoma di Trento poiché: “venendo in rilievo un parametro costituzionale, cioè
l’art. 117, secondo comma, lettera m) Cost., che postula tutele necessariamente uniformi su tutto il territorio nazionale, tale risultato non può essere assicurato dalla Regione, ancorché ad autonomia differenziata, la cui potestà legislativa è pur sempre circoscritta all’ambito territoriale dell’ente (nelle cui competenze legislative, peraltro, non risulta presente una materia riconducibile a
quella prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.)” (21).
Dai sintetici richiami che precedono risulta evidente che anche
in materia edilizia la Corte costituzionale ha ampiamente utilizzato alcuni dei concetti chiave da essa stessa approntati per contrastare la “deriva regionalistica” indotta dalla riforma del Titolo
V del 2001: la competenza esclusiva dello Stato in tema di ordinamento civile, al quale pertiene l’esercizio dello jus aedificandi la
necessità di assicurare livelli essenziali uniformi delle prestazioni
amministrative; il principio di semplificazione dell’azione amministrativa, in funzione agevolativa delle attività economiche; l’esigenza imprescindibile di disciplina legislativa uniforme in tutto
il territorio nazionale in una materia che incide sul diritto di proprietà e su quello di impresa.
Da quanto s’è detto si ricava che un altro principio generale
del sistema regolatorio dell’edilizia è la pluralità dei titoli abilitativi: il permesso di costruire (preventivo ed espresso), la SCIA e, a
suo modo, il silenzio-assenso.
(20) Corte cost., sentenze n. 164 e n. 203 del 2012, in www.giurcost.org.
(21) Corte cost., sentenza n. 203 del 2012, in www.giurcost.org.
206
parte II
Negli anni intercorsi dall’approvazione del T.U.E. sono progressivamente mutate le proporzioni “quantitative” tra i tre istituti: s’è
ridotto il novero degli interventi soggetti all’autorizzazione esplicita, si è molto ampliata la casistica di quelli oggetto di SCIA, sono stati “liberalizzati” taluni interventi minimi, ed è stato “messo
a fuoco” l’istituto del silenzio-assenso (ma i privati esitano a farvi
ricorso perché le banche non concedono mutui “sul silenzio”); il
tutto fra successive semplificazioni e contraddizioni (22).
4. – La corposità e incisività dei principi della legislazione statale, anche individuati dalla Corte costituzionale se da un lato
ha reso recessive le prime interpretazioni del Titolo V, incentrate su una pretesa egemonia legislativa regionale in materia edilizia, dall’altro ha lasciato alle Regioni ampi spazi per disciplinare
la struttura e l’articolazione dei procedimenti edilizi, di solito insieme a quelli urbanistici. E molte, anche se non tutte, le Regioni
hanno provveduto in via legislativa (solo in qualche caso facendo
ricorso a atti di tipo regolamentare, come in Friuli Venezia Giulia). Nei casi in cui hanno legiferato le norme regionali concernenti l’attività edilizia hanno naturalmente sostituito le disposizioni
di dettaglio del T.U.E.
In caso di mancato esercizio dell’autonomia legislativa regionale il comma 3 dell’art. 2 del T.U.E. ha opportunamente previsto
la permanenza in vigore delle disposizioni statali in via transitoria. Non si tratta di una disposizione di “assoluta ambiguità” (23),
una sorta di trucco statalista, come ha sostenuto qualche frettolosa
commentatrice, ma di una disposizione di buon senso sistemico,
legittimata da una giurisprudenza costituzionale ormai trentennale (24), che esprime il principio di autocompletamento dell’ordinamento giuridico (25), mediante il quale si assicura transitoriamente la piena funzionalità della disciplina normativa, ferma restando
(22) M.A. Sandulli, Il regime dei titoli abilitativi tra semplificazioni e contraddizioni in
Riv. giur. ed., 6/2013, 301 ss.
(23) V. Mazzarelli, Il testo unico in materia edilizia: quel che resta dell’urbanistica in
Giorn. Dir. Amm., 2001, 775.
(24) Corte cost., sentenza n. 214 del 1985, in www.giurcost.org.
(25) TAR Lombardia, Milano, sez. II, sentenza n. 6544 del 2007, in www.giustizia-amministrativa.it.
dottrina
207
la cedevolezza delle norme statali a fronte dell’avvenuto esercizio
della potestà legislativa autonomistica.
Nessuna “ambiguità” statalista, dunque, ma solo funzionalità sistemica, in attesa dell’esercizio del potere legislativo autonomistico.
5. – L’art. 2, comma 4, del T.U.E. enuncia una riserva, a favore dei Comuni, ed ora delle Città metropolitane, della funzione di
regolamentazione dell’attività edilizia (26), in lieve anticipo rispetto al nuovo (nel 2001) testo dell’art. 117 Cost., comma 6, il quale
assegna ai Comuni, alle Province ed alle Città metropolitane “la
potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione
e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (senza contare la
centralità dei Comuni, salva la sussidiarietà verticale, di cui all’art.
118, comma 1).
Le richiamate “coperture” costituzionali fanno sì che la potestà
normativa regionale sia delimitata, oltre che dal “cielo superiore”,
costituito dai principi ricavabili dal T.U.E., come variamente modificato negli anni successivi al 2001, anche dal “cielo inferiore”,
costituito dalla riserva di competenza (27) regolamentare in materia edilizia dei Comuni e delle Città metropolitane (cui spettano
le funzioni di controllo, vigilanza e repressione).
In realtà qualche Regione ha esorbitato dai suoi poteri e s’è
spinta sino ad approvare un “regolamento edilizio tipo” cui i Comuni devono adeguarsi, violando, oltre l’art. 2, anche l’art. 4, comma 1, del T.U.E. che, com’è noto specifica i contenuti obbligati del
regolamento edilizio comunale (28) (disciplina delle modalità costruttive, in particolare per ciò che concerne i profili tecnico estetici, igienico sanitari, della sicurezza e vivibilità).
bani
(26) E. Ferrari, I comuni e l’urbanistica in E. Ferrari, S. Civitarese Matteucci e P. Ur(a cura di), Il governo del territorio, cit.
(27) G. Parodi, Commento all’art. 2, in R. Ferrara, G.F. Ferrari (a cura di), Commentario al T.U. sull’edilizia, Padova, 2005.
(28) Si rinvia in tema a F. Fracchia, Commento all’art. 4 in R. Ferrara, G.F. Ferrari (a
cura di), Commentario al T.U. sull’edilizia, cit., e F. Cintioli, Commento all’art. 4, comma 1,
in M.A. Sandulli, M. Spasiano (a cura di), Testo Unico dell’edilizia, cit.
208
parte II
Riflessioni in tema di tutela dell’ambiente
e del paesaggio nell’esperienza giuridica italiana (*)
di Alessandro Calegari
L’articolo illustra l’evoluzione del sistema italiano di protezione dell’ambiente e del paesaggio, chiarendo anche quale ruolo in tale ambito sia stato riservato al giudice amministrativo e come questo abbia esercitato i poteri che gli sono stati assegnati in materia.
* * *
The article explains the evolution of the Italian system of environment and
landscape protection and also clarifies the role of the administrative courts in this
area and how the judges have exercised their powers in the field.
Il presente lavoro si propone di illustrare in estrema sintesi
l’evoluzione del sistema italiano di protezione dell’ambiente e del
paesaggio, chiarendo anche quale ruolo sia stato riservato in tale
ambito al giudice amministrativo e come questo abbia esercitato
i poteri che in detta materia gli sono stati assegnati.
Va ricordato, innanzi tutto, che l’art. 117 Cost. affida la tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema alla potestà legislativa esclusiva dello
Stato; e che, allo stesso modo, la Costituzione affida allo Stato il compito di legiferare in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio.
Tale esclusività non significa, peraltro, che gli enti territoriali, che insieme allo Stato formano la Repubblica, non concorrano alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Prova ne sia che la
stessa Costituzione prevede, all’art. 9, che alla Repubblica nel suo
complesso, e non solo allo Stato, è affidato il compito di tutelare
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione (1).
(*) Rielaborazione della relazione dal titolo «Riflessioni in tema di tutela dell’ambiente e del paesaggio nella legislazione e nella giurisprudenza amministrativa italiane», tenuta al
Convegno dell’Associazione dei giudici amministrativi tedeschi, italiani e francesi su «La
tutela ambientale nei confronti degli interessi economici antagonisti», svoltosi a Venezia il
30 maggio 2014, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.
(1) In dottrina, sul rapporto tra competenze statali e regionali in materia di paesaggio, cfr.: P. Marzaro, L’amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema
dottrina
209
Nella realtà, dunque, la riserva a favore dello Stato della potestà legislativa in queste materie sta semplicemente a significare che spetta allo Stato decidere quale grado di tutela assicurare a
beni tanto fondamentali e come organizzare il sistema delle competenze amministrative, affinché l’ambiente, il paesaggio e il patrimonio culturale della Nazione godano di un’effettiva protezione.
Nei limiti di quanto stabilito dalle leggi dello Stato, dunque,
anche le Regioni, le Province, le Città metropolitane e i Comuni
concorrono a svolgere funzioni preordinate alla tutela, alla protezione e alla conservazione dell’ambiente e del paesaggio, direttamente adottando provvedimenti amministrativi o semplicemente
partecipando, quali enti esponenziali degli interessi delle comunità da essi rappresentate, ai procedimenti amministrativi finalizzati all’assunzione delle decisioni spettanti ad altri soggetti pubblici.
Nel decidere a chi affidare i compiti decisionali e i corrispondenti poteri amministrativi, il legislatore statale deve, inoltre, osservare i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza imposti dall’art. 118 Cost., in virtù dei quali le funzioni amministrative devono essere attribuite al livello di governo più prossimo al cittadino, che, in prima istanza, è proprio quello dei Comuni e poi, a seguire, s’identifica con quello degli enti territoriali
progressivamente più ampi, a condizione che sussistano le risorse e le capacità necessarie per assicurare il perseguimento dell’interesse pubblico dato.
Ben può essere, quindi, che certe competenze in materia ambientale siano attribuite proprio ai Comuni (come nel caso del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica), altre alle Province (come nel caso dello screening per stabilire se un progetto deve essere
sottoposto a valutazione d’impatto ambientale) e altre ancora alle
Regioni (come nel caso della valutazione ambientale strategica di
complesso, Torino, 2011, 2 ss.; S. Amorosino, La governance e la tutela del paesaggio tra Stato e Regioni dopo il secondo correttivo del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in questa
Rivista, 2009, p. 101 ss.; Id., I poteri legislativi ed amministrativi di Stato e Regioni in tema
di tutela e valorizzazione del paesaggio, in questa Rivista, 2008, 147 ss.; G. Falcon, I principi costituzionali del paesaggio (e il riparto di competenze tra Stato e Regioni), in questa Rivista, 2009, 78 ss.; E. Buoso, Riflessioni sulla ridefinizione del ruolo di Stato e Regioni dopo la
modifica al Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. 63 del 2008: le competenze legislative e le funzioni amministrative in materia di paesaggio, ibid., 114 ss.; C.P. Santacroce, La gestione dei vincoli paesaggistici tra ripensamenti centripeti e (ri-)formulazioni legislative centrifughe, ibid., 219 ss.; S. Civitarese Matteucci, Il Paesaggio nel nuovo Titolo V,
Parte II, della Costituzione, in Riv. giur. amb., 2003, 235 ss.
210
parte II
un piano urbanistico). Ma le regole per l’esercizio di questi poteri sono innanzi tutto fissate dallo Stato, per assicurare che la tutela dell’ambiente e del paesaggio avvengano in modo omogeneo
in tutto il Paese, dovendosi ritenere la tutela di quei beni una prestazione essenziale, concernente i diritti civili e sociali che devono essere garantiti allo stesso modo su tutto il territorio nazionale (cfr. art. 117, comma 2, lett. m, Cost.).
La stessa Corte costituzionale, invero, ha chiarito che lo Stato ha il compito di assicurare gli standard minimi della tutela (2).
Ciò non preclude, ovviamente, alle singole Regioni e persino
ai singoli Comuni di perseguire con gli strumenti giuridici a loro
disposizione (quali possono essere, ad esempio, anche i piani urbanistici) degli standard qualitativi più elevati, così da garantire
una più efficace tutela dell’ambiente e del territorio. Ma questa tutela per così dire supplementare non può essere affermata in senso assoluto, a scapito di altri interessi pubblici, soprattutto quando si tratti di interessi di rilievo nazionale, come quelli che attengono, ad esempio, alla produzione e al trasporto dell’energia elettrica, alle telecomunicazioni o alla realizzazione di infrastrutture
strategiche, come porti, autostrade e aerostazioni (3).
Si capisce, del resto, che scelte delicate e rilevanti, che possono
(2) Non a caso, in tema di ambiente, con sentenza n. 104 del 2008 (in www.cortecostituzionale.it), la Corte costituzionale ha statuito che rientra nell’ambito di esclusiva competenza statale «la definizione dei livelli uniformi di protezione ambientale».
(3) Cfr. Corte cost. 31 ottobre 2012, n. 244 (in www.cortecostituzionale.it); ma anche
29 marzo 2013, n. 58 (pure in www.cortecostituzionale.it), che richiama l’art. 3-quinquies,
comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, in virtù del quale «le regioni e le province autonome
… possono adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un’arbitraria
discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali». Ad esempio, la
Consulta ha chiarito, con sentenza 17 novembre 2011, n. 331 (in www.cortecostituzionale.
it), che la regione non potrebbe vietare in modo assoluto nel suo territorio la localizzazione degli impianti di produzione, fabbricazione e stoccaggio dell’energia nucleare e del combustibile e dei depositi di materiali e di rifiuti radioattivi. In materia di impianti di radiotelefonia, si è affermato che le Regioni potrebbero dettare, nell’esercizio della propria potestà legislativa, dei criteri di localizzazione, ma non dei limiti alla localizzazione, essendo
comunque necessario garantire il funzionamento della rete; cfr. sul punto: Corte cost. 27
luglio 2005, n. 336; Id. 7 ottobre 2003, n. 307; Id. 7 novembre 2003, n. 311 e 331 (tutte in
www.cortecostituzionale.it). Un principio analogo è stato affermato anche per quanto concerne la normativa dettata dai comuni nell’esercizio della propria potestà di pianificazione urbanistica e regolamentare ai sensi dell’art. 8 della l. n. 36 del 2001, che non può arrivare a rendere praticamente impossibile o particolarmente onerosa l’installazione di tali
infrastrutture. Sul punto v. ex multis: Cons. Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3575 e sez. VI,
9 gennaio 2013, n. 44 (in www.giustizia-amministrativa.it).
dottrina
211
avere una ricaduta sul territorio di un’intera Regione, come nel caso della dislocazione di una discarica di rifiuti, o interessare l’intera nazione, come nel caso dell’installazione di un rigassificatore
o della localizzazione di un sito di stoccaggio delle scorie nucleari, non possano essere affidate in ultima istanza agli enti esponenziali delle comunità direttamente incise dall’opera, che verosimilmente voterebbero contro l’esecuzione dell’intervento.
Decisioni come queste devono, invero, essere affidate ad un ente che possa valutare in modo neutro e imparziale, si potrebbe dire sufficientemente distaccato, i diversi interessi pubblici e privati coinvolti, senza i condizionamenti legati alla vicinanza a chi di
quegli interessi sia il portatore. Sarebbe, infatti, illusorio pensare
che la decisione finale sulle c.d. «grandi opere» possa essere sempre e necessariamente condivisa, secondo il metodo della concertazione, con le popolazioni direttamente interessate e con gli enti
che ne rappresentano più da vicino le istanze, perché questo porterebbe al veto o alla paralisi del processo decisionale (4).
Non si deve, però, neppure cadere nell’errore opposto di non
concedere alcuno spazio a questi interessi, non garantendo alle comunità locali direttamente coinvolte un ruolo attivo e partecipe
nei procedimenti amministrativi o legislativi in cui si discute della
utilità, della localizzazione e della realizzazione delle grandi opere. Un’impostazione siffatta, invero, si rivela altrettanto sbagliata,
perché finisce per spostare il confronto tra interessi contrapposti
al termine del procedimento decisionale, trasformando i soggetti
che dovrebbero essere sentiti nel corso della fase istruttoria in tenaci oppositori della scelta finale. Con la conseguenza che il confronto dialettico si può tramutare in una contesa giudiziaria, cui
non sempre il giudice amministrativo sa o può dare risposta, ed
evolvere persino in vero e proprio scontro, originando problemi
di ordine pubblico e sicurezza, come nel caso delle proteste dei
(4) Sulla dinamica dei processi decisionali si vedano le voci enciclopediche di: M. NiDecisione amministrativa, in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1962, 810 ss.; E. Cannada Bartoli, Decisione amministrativa, in Noviss. dig. it., vol. V, Torino, 1960, 268 ss.; A. Travi, Decisione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., vol. IV, Torino, 1989, 524 ss.; F. Merusi e G. Toscano, Decisione amministrativa, in Enc. giur., vol. X, Roma, 1988, 1 ss.; nonché i contributi monografici di: M. Nigro, Le decisioni amministrative, Napoli, 1953; M. Bombardelli,
Decisioni e pubblica amministrazione. La determinazione procedimentale dell’interesse pubblico, Torino, 1996; A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997.
gro,
212
parte II
comitati «NO TAV» che osteggiano la realizzazione della ferrovia
ad alta velocità Torino-Lione.
L’assetto costituzionale si è ulteriormente complicato, dopo la
riforma del 2001, per il fatto che le quindici Regioni italiane a statuto ordinario si sono viste attribuire una potestà legislativa concorrente a quella statale, che consente loro di adottare leggi per
la «valorizzazione» dei beni culturali e ambientali, nonché per la
promozione e l’organizzazione di attività culturali, nel rispetto dei
principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
Si è creato, così, un sistema assai complesso, nel quale è oggettivamente difficile distinguere le attività di «tutela» dei beni ambientali, necessariamente regolate da norme statali, e le attività
di «promozione» e «valorizzazione» dei beni stessi, che sono invece disciplinate con legge regionale. Con la conseguenza che la
Corte costituzionale viene spesso interpellata per decidere se una
legge statale è invasiva delle competenze regionali e viceversa (5).
In materia di tutela del paesaggio, ad esempio, va ricordata la
fondamentale sentenza n. 367 del 2007 della Consulta, la quale, respingendo i ricorsi di alcune Regioni che ritenevano troppo stringenti alcune norme volute dal Governo, ha ribadito che il paesaggio (e la sua tutela) costituiscono valori primari e assoluti, che giustificano l’attribuzione allo Stato del compito di fissare obiettivi e
standard minimi di tutela, uguali per tutto il territorio nazionale (6).
(5) Sul concetto di «valorizzazione» cfr.: G. Severini, sub artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 42/2004,
in M. A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, 50 ss.; S.
Amorosino, La valorizzazione del paesaggio e del patrimonio culturale, in Riv. giur. ed., 2009,
143 ss.; L. Tarantino, Tutela e valorizzazione dei beni culturali tra riforma del titolo V e Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urb. app., 2004, 1017 ss.
Va ricordato, peraltro, che proprio invocando la competenza legislativa concorrente in
materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» e di «governo del territorio», la
Corte cost., con sentenza 16 giugno 2005, n. 232 (in www.cortecostituzionale.it) ha giudicato costituzionalmente legittima una norma della legge urbanistica veneta (si tratta dell’art.
40 della l.r. n. 11 del 2004), che demanda al Piano di Assetto del Territorio (P.A.T.) il compito di individuare le categorie in cui devono essere raggruppati i manufatti e gli spazi liberi esistenti nei centri storici, attribuendo ad essi specifici valori di tutela.
Più di recente, sulla possibilità per la Regione di dettare delle disposizioni che non
si sovrappongano a quelle statali in materia di «beni culturali» – la cui definizione spetta
esclusivamente allo Stato – ma siano ad esse complementari, al fine di disciplinare quelle
cose, che, pur non essendo «beni culturali» ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, possano avere un rilievo per la memoria e l’identità della singola e specifica comunità cfr. Corte cost.
17 luglio 2013, n. 193 (in www.cortecostituzionale.it).
(6) Vedila commentata da: D. Traina, Il paesaggio come valore costituzionale assoluto,
in Giust. civ., 2007, 4108 ss.; S. Amorosino, La tutela del paesaggio spetta in primis allo stato
dottrina
213
In materia più strettamente ambientale, può essere invece ricordata la recente sentenza della Consulta n. 58 del 2013 (7), che,
nel solco di una consolidata giurisprudenza, ha ritenuto costituzionalmente illegittima la l.r. Veneto n. 13 del 2012, affermando
che spetta allo Stato individuare i casi nei quali un piano o un progetto deve essere sottoposto a valutazione ambientale strategica
e che non può la singola Regione decidere di escludere da siffatta
valutazione un piano o un progetto che, in base, alla legislazione
statale deve esserne assoggettato.
Occorre, a questo punto, avvertire che, nell’ordinamento italiano, «ambiente» e «paesaggio», fin qui accomunati nella trattazione, sono termini che identificano materie diverse, assoggettate anche a discipline giuridiche diverse, i cui tratti fondamentali
sono rispettivamente delineati nel codice dell’ambiente, approvato con d.lgs. n. 152 del 2006, e nel codice dei beni culturali e del
paesaggio, approvato con d.lgs. n. 42 del 2004.
Con il termine «ambiente», infatti, nella terminologia giuridica corrente si definisce quell’ambito di studio e di regolamentazione in cui ricadono: la tutela degli ecosistemi e degli habitat naturali; la istituzione e la gestione di parchi naturali; la difesa del
suolo dai fenomeni di dissesto idrogeologico; la valutazione di incidenza sull’ambiente e sul territorio delle attività antropiche di
trasformazione, quali piani e programmi (valutazione ambientale strategica) e singoli progetti di opere pubbliche e private (valutazione d’impatto ambientale); la tutela dall’inquinamento del
suolo, dell’atmosfera, del sottosuolo e dei corpi idrici superficiali
e sotterranei; la gestione dei rifiuti (8).
Con il termine «paesaggio», invece, si era soliti identificare nel
passato tutte e soltanto quelle porzioni di territorio caratterizzate da una non comune bellezza, mentre si identificano oggi i caratteri e i valori identitari delle varie realtà territoriali, non tutte
necessariamente belle, ma comunque diverse per natura e a causa delle trasformazioni subite nel corso dei secoli, anche ad opera
ed è irriducibile al governo (regionale/locale) del territorio, in Riv. giur. ed., 2008, I, 90 ss.; P.
Carpentieri, Tutela del paesaggio: un valore di spessore nazionale, in Urb. app., 2008, 305 ss.
(7) Vedila in www.cortecostituzionale.it.
ni,
(8) Sul multiforme concetto di ambiente è d’obbligo il rinvio al saggio di M. S. GianniAmbiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubblico, 1973, 15 ss.
214
parte II
dell’uomo; e che proprio per questa loro diversità meritano di essere conservate a beneficio delle generazioni future (9).
È a tutti evidente, peraltro, che ambiente e paesaggio hanno
in comune un altro elemento, costituito dall’oggetto ultimo della
tutela, che può essere senz’altro identificato col «territorio». Ma
il territorio non assume importanza per il diritto esclusivamente nella sua dimensione ambientale e paesaggistica. Esso, infatti,
esprime lo spazio nel quale e sul quale si esercitano le più diverse attività umane, ivi comprese quelle che ne importano l’uso, lo
sfruttamento e la trasformazione.
Particolarmente significativo è il rapporto esistente tra la tutela dell’ambiente e del paesaggio e la disciplina urbanistica ed edilizia contenuta nei diversi piani e nei regolamenti edilizi, i quali non si occupano soltanto di garantire una tutela complementare dell’ambiente e del paesaggio, concorrente a quella assicurata dalla legge statale, ma contemplano, di norma, anche significative trasformazioni del territorio che possono comprometterne i
valori ambientali.
In proposito, merita di essere qui ricordato che, da sempre, la
Corte costituzionale afferma la possibilità che anche i piani urbanistici e territoriali contengano disposizioni integrative della tutela assicurata all’ambiente e al paesaggio, come pure ai beni di
rilevanza storica e artistica, dalle leggi dello Stato. Si tratta, come
ben sanno i cultori della materia, di una tutela concorrente, che
gli enti locali e le Regioni possono introdurre nei loro piani, a condizione di non snaturare o sminuire la tutela di cui i suddetti beni
già usufruiscono in base alle leggi di settore che li riguardano (10).
(9) Sull’evoluzione della nozione di paesaggio e per un compiuto raffronto tra come
essa era intesa prima e dopo l’entrata in vigore del codice (e della sottoscrizione della Convenzione europea del paesaggio del 2000), cfr.: A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. ed., 1967, II, 69 ss.; M.S. Giannini, op. ult. cit.; A. Predieri, Paesaggio, in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1981, p. 503 ss.; M. Immordino, Paesaggio (tutela del), in
Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995; P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv.
trim. dir. pubbl., 2004, p. 363 ss.; G.F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, 2007 e, in specie, S. Civitarese Matteucci, La concezione integrale del paesaggio alla prova della prima revisione del Codice del Paesaggio, ivi, 209
ss.; A. Crosetti, Paesaggio (tutela del), in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, 2008; G. Sciullo, Il
paesaggio fra la Convenzione e il Codice, in questa Rivista, 1-2, 2009, 44 ss.; E. Boscolo, La
nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio “a strati”, ibid., 57 ss.; P. Marzaro,
op. cit.; M. Immordino, M.C. Cavallaro, sub art. 131, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei
beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, 983 ss.
(10) La possibilità di utilizzare la pianificazione urbanistica per dettare delle particolari
dottrina
215
Si aggiunga che da alcuni anni a questa parte – soprattutto
dopo l’introduzione dell’obbligo della valutazione di incidenza
ambientale dei piani da parte della direttiva 42/2001/CE (11) – si
è consolidata anche in Italia la tendenza a favorire un approccio
più responsabile nelle scelte riguardanti le destinazioni dei suoli, basato sulla valutazione preventiva della sostenibilità delle trasformazioni e sulla esigenza di privilegiare il riuso del patrimonio edilizio esistente rispetto all’ulteriore consumo di nuovo territorio agricolo (12).
norme a tutela di beni aventi valore testimoniale o un particolare pregio paesaggistico o
ambientale, a completamento della tutela già predisposta dal d.lgs. n. 42 del 2004, costituisce un dato pacifico in giurisprudenza, la quale ritiene che tali disposizioni siano esercizio
legittimo dell’ampia discrezionalità che vanta la p.a. nella materia della pianificazione urbanistica. Sul punto v. la fondamentale sentenza della Corte cost. n. 378 del 2000 (in www.
cortecostituzionale.it) e, più di recente: Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5452; Id.,
21 dicembre 2012, n. 6656; Id., 13 ottobre 2010, n. 7478; Id., 23 marzo 2010, n. 1695 (tutte in www.giustizia-amministrativa.it). Altrettanto costante nella giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 7 novembre 2007, n. 367; 29 dicembre 1982, n. 239) e amministrativa
(Cons. Stato, sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8260; sez. V, 12 giugno 2009, n. 3770) è l’affermazione secondo cui il «paesaggio» non può essere ricondotto alla materia del «governo del
territorio» o – in passato, ante l. cost. n. 3 del 2001 – della «urbanistica».
(11) Cfr. ex multis sull’argomento: L. Mariniello, La dimensione procedurale nella valutazione ambientale strategica: un’analisi comparata, Napoli, 2011; G. Landi, La valutazione di impatto ambientale e la valutazione ambientale strategica, Torino, 2009; M.L. Schiavano, sub artt. 11-18 d.lgs. n. 152/2006, in R. Ferrara, G.F. Ferrari (a cura di), Commentario
breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, Padova, 2010, 673 ss.; G.F. Ferrari, Valutazione ambientale strategica (VAS), in S. Nespor, A.L. De Cesaris, Codice dell’ambiente,
Milano, 2009, 2547 ss.; G. Pagliari, Pianificazione urbanistica e ambiente – V.I.A. e V.A.S., in
questa Rivista, 2011, 135 ss.; F. Doro, La Valutazione Ambientale Strategica nella giurisprudenza amministrativa, costituzionale e comunitaria: profili sostanziali e implicazioni processuali, in questa Rivista, 2013, 141 ss.; A. Milone, La valutazione ambientale strategica a seguito del d. lgs. n. 128/2010, in Riv. giur. ed., 2011, 95 ss.; G. Manfredi, V.I.A. e V.A.S. nel Codice dell’ambiente, in Riv. giur. ambiente, 2009, 63 ss.; E. Boscolo, La valutazione ambientale strategica di piani e programmi, in Riv. giur. ed., 2008, 3 ss.; Id., V.A.S. e V.I.A. riformate: limiti e potenzialità degli strumenti applicativi del principio di precauzione, in Urb. app.,
2008, 541 ss.; L. Gallo, Valutazione ambientale strategica, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., III, Torino, 2008, 946 ss.; F. Fracchia, F. Mattasoglio, Lo sviluppo sostenibile alla prova: la disciplina di V.I.A. e V.A.S. alla luce del d.lgs. n. 152/2006, in Riv. trim. dir. pubbl., 2008, 121 ss.
(12) Sull’evoluzione del significato e della funzione della pianificazione urbanistica si
veda Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710 (in Urb. app., 2013, 59 ss., con commento di P. Urbani, Conformazione dei suoli e finalità economico sociali), secondo cui «l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli – non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di
abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia di valori ambientali e
216
parte II
In prospettiva, questa tendenza finirà probabilmente col trasformare anche il sindacato del giudice amministrativo sul contenuto dei piani urbanistici. È facile immaginare, infatti, che la legittimità delle scelte urbanistiche verrà sempre più giudicata in
base alla presenza o all’assenza di una preventiva valutazione di
sostenibilità e in base all’osservanza delle regole che le leggi regionali hanno già cominciato a fissare per assicurare una proporzione numerica tra aree destinate all’agricoltura e aree destinate alla trasformazione, tra aree che potranno essere cementificate ed
aree che dovranno rimanere permeabili, tra aree di nuova urbanizzazione ed aree da riutilizzare e riqualificare (13).
A questa evoluzione del sindacato giurisdizionale potrà
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione
della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza […]. In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici
industriali e artigianali, ecc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti». Analoghe argomentazioni sono state successivamente riprese da Cons. Stato, sez, IV, 28 novembre 2012, n. 6040, in www.giustizia-amministrativa.it.
(13) È nota la matrice comunitaria del principio dello «sviluppo sostenibile». Esso è
invero attualmente sancito: dall’art. 37 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (avente ex art. 6 T.U.E., lo «stesso valore giuridico dei trattati»), secondo cui «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile»; dall’art. 3, c. 3, T.U.E., che pone tra gli obiettivi dell’Unione quello di adoperarsi «per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e
sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che
mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente»; nonché dagli artt. 11 e 191 T.F.U.E.
L’ordinamento interno ha positivizzato il principio dello sviluppo sostenibile all’art.
3-quater, d.lgs. n. 152/2006, secondo cui qualsivoglia attività, pubblica o privata, in grado
d’incidere sull’ambiente, deve essere «sostenibile», ossia deve «garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e
le possibilità delle generazioni future» e «consentire di individuare un equilibrato rapporto,
nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché
nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio
di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro».
In dottrina, si sono occupati, tra gli altri, dell’argomento: F. Fracchia, Il principio dello
sviluppo sostenibile, in, a cura di, M. Renna e F. Saitta, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 433 ss.; Id., Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra tutela dell’ambiente e protezione della specie umana, Napoli, 2010. Meno di recente, G. Grasso, Solidarietà ambientale e sviluppo sostenibile, in Pol. dir., 2003, 581 ss.; F. Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, in Riv. giur. amb., 1998, 235 ss.
dottrina
217
contribuire anche la revisione in atto del sistema di pianificazione paesaggistica, il cui obiettivo è ora quello di sostituire gli attuali vincoli a contenuto generico e indifferenziato con vincoli a
contenuto specifico e prescrittivo, in modo che le regole di trasformazione ed utilizzo dei beni vincolati siano direttamente stabilite «a monte» dal piano e non, come oggi ancora avviene, di
volta in volta, «a valle», nel momento in cui si valuta l’ammissibilità del singolo intervento; così da garantire maggiore uniformità nell’applicazione della legge e maggiore certezza delle situazioni, riducendo la sfera di discrezionalità esercitata dall’amministrazione competente al momento del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Si può, dunque, sin d’ora immaginare un futuro giudice amministrativo più attento alla tutela dell’ambiente e del paesaggio,
ma anche facilitato in questo compito dalla fissazione di regole
preventivamente conoscibili dall’amministrazione e dai cittadini.
Un altro modo in cui il legislatore ha cercato, negli ultimi anni, di risolvere il conflitto tra gli interessi ambientali e gli interessi
antagonisti è quello della semplificazione delle procedure.
Dopo anni in cui la separazione delle competenze amministrative ha prodotto disservizi e disfunzioni, la tendenza più recente
della legislazione statale e regionale è ora quella di prevedere forme di coordinamento e semplificazione.
Tali rimedi si basano sul principio secondo cui semplificare
non significa effettuare una graduatoria degli interessi coinvolti,
per sacrificare aprioristicamente quelli meno importanti, ma significa creare i presupposti perché possa esservi un coordinamento
delle procedure e un confronto preventivo tra le amministrazioni
pubbliche preposte alla cura dei diversi interessi, in modo che le
istanze del cittadino o dell’imprenditore o dell’ente che deve realizzare un’opera pubblica siano valutate all’interno di un percorso
unitario, destinato possibilmente a concludersi con una sola decisione, capace di riassumere tutte le posizioni espresse dai vari soggetti pubblici intervenuti nel corso del procedimento.
Si possono citare, a questo riguardo: l’autorizzazione integrata ambientale, sostitutiva di tutte le autorizzazioni necessarie in
materia ambientale per l’avvio di un’attività produttiva; lo sportello unico per le attività produttive, al quale l’imprenditore può
rivolgersi per ottenere tutte le autorizzazioni, i permessi, i pareri
218
parte II
e i nulla osta richiesti dalla legge per avviare un’attività produttiva; la conferenza di servizi, nella quale vengono convocate tutte le
amministrazioni competenti a valutare una certa domanda o un
certo progetto, per procedere ad un esame congiunto degli stessi,
possibilmente cercando di trovare un accordo e di superare con il
dialogo eventuali posizioni di dissenso.
È importante, per contro, ricordare che non si possono applicare ai procedimenti amministrativi riguardanti l’ambiente, il paesaggio ed il patrimonio culturale, le misure di semplificazione e di
liberalizzazione introdotte o confermate dalla direttiva n. 123 del
2006 sui servizi, meglio nota come direttiva «Bolkestein», recepita in Italia con il d.lgs. n. 59 del 2010.
Ai procedimenti in materia ambientale e culturale non si applica, infatti, il principio del silenzio assenso stabilito dall’art. 20
della l. n. 241 del 1990, in base al quale la domanda del cittadino,
accompagnata dalla dichiarazione di sussistenza dei presupposti
legali per l’avvio di una certa attività, si intende accolta qualora
l’amministrazione competente ad esaminarla non si pronunci in
senso sfavorevole nel termine perentorio stabilito dalla legge per
la conclusione del procedimento. Ma neppure si applicano gli istituti della denuncia di inizio attività e della segnalazione certificata di inizio attività, contemplati dall’art. 19 della medesima legge,
in base ai quali il cittadino può iniziare un’attività senza più chiedere alcuna autorizzazione amministrativa, bensì semplicemente
comunicando alle amministrazioni competenti la propria intenzione di avviarla e la sussistenza di tutti presupposti perché l’attività che egli intende intraprendere possa essere esercitata (14).
Un’ultima considerazione di carattere generale può ancora essere utile per inquadrare le coordinate del sistema italiano di protezione degli interessi ambientali.
Le norme italiane in materia di tutela dell’ambiente costituiscono in larghissima parte il risultato del recepimento di direttive
europee. Così è accaduto, ad esempio, per la valutazione d’impatto
(14) Invero, l’ambiente e il paesaggio rientrano tra quelli che la direttiva Bolkestein
definisce «motivi imperativi d’interesse generale», idonei a giustificare la permanenza di
un regime autorizzatorio espresso. Sul tema sia consentito rinviare a: N. Longobardi, Attività economiche e semplificazione amministrativa. La «direttiva Bolkestein» modello di semplificazione, in Diritto e proc. amm., 3/2009; V. Parisio, Direttiva “Bolkestein”, silenzio-assenso, d.i.a., “liberalizzazioni temperate”, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, A.P. 29 luglio
2011 n. 15, in Foro amm. T.A.R., 2011, 2978.
dottrina
219
ambientale, per la valutazione ambientale strategica, per l’autorizzazione integrata ambientale, per la tutela dell’inquinamento, per
la disciplina delle attività a rischio di incidente rilevante.
Non altrettanto può dirsi, invece, per la tutela del paesaggio
e del patrimonio storico e culturale, per la quale, fatta eccezione
per la Convenzione europea del paesaggio, non esiste una normativa europea di principio che il nostro ordinamento abbia recepito. Esiste al contrario un complesso di regole di diritto interno che
si è sviluppato e consolidato nel tempo ed il cui nucleo più importante deriva dalle leggi nn. 1089 e 1497 del 1939, rispettivamente
dedicate alla tutela delle cose di interesse artistico e storico e alla
tutela delle bellezze naturali, molte delle cui norme sono confluite, dapprima, nel testo unico del 1999 e, quindi, nel codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004.
Anche all’interno del nuovo codice, infatti, risulta evidente la
distinzione tra i c.d. beni culturali, vincolati per il loro interesse
storico, artistico, archeologico e i beni paesaggistici, costituiti da
porzioni del territorio assoggettate a tutela perché espressione di
valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici. Separazione che non impedisce, per vero, che uno stesso bene possa essere vincolato sia come bene culturale sia come bene paesaggistico, come accade proprio per la città di Venezia e la sua laguna,
che ospitano l’odierno Convegno.
A questo punto, però, è giunto il momento di analizzare, al di là
dei cenni che al tema sono stati sin qui dedicati, il ruolo che l’ordinamento giuridico italiano ha riservato al giudice amministrativo in
materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali e paesaggistici.
Va precisato, innanzi tutto, che l’ambiente, il paesaggio e il patrimonio storico-artistico sono tutelati dalla legge italiana tanto sotto il profilo penale, quanto sotto il profilo amministrativo. E sempre a beneficio degli ospiti stranieri, è bene ricordare che la tutela penale è affidata esclusivamente alla magistratura ordinaria ed
è interamente disciplinata dalla legge dello Stato.
Diverso è però il regime della tutela amministrativa, dove convivono leggi statali e leggi regionali e dove, soprattutto, convivono le competenze di molte pubbliche amministrazioni, che si traducono, a loro volta, nell’emanazione di atti amministrativi di diversa natura. Ed è proprio di questi atti che, in definitiva, si interessa il giudice amministrativo, quando uno di essi venga impugnato da chi abbia da esso ricevuto un ingiusto pregiudizio e possa pertanto ritrarre un’utilità dal suo annullamento.
220
parte II
Per quanto si dirà subito appresso, è utile ricordare che nei ricorsi rivolti al giudice amministrativo si possono, di norma, denunciare a mezzo di specifiche censure esclusivamente vizi di legittimità; e che l’accoglimento dei motivi di ricorso produce l’annullamento retroattivo dell’atto amministrativo impugnato, con
il conseguente obbligo per l’amministrazione che lo ha adottato
di ripristinare l’originaria situazione di fatto e di diritto e di conformare il proprio operato successivo alla statuizione del giudice.
Basti qui aggiungere che alla tradizionale tutela costitutiva
dell’annullamento si affianca oggi, ove ne sussistano i presupposti, anche una specifica tutela nei confronti dell’inerzia dell’amministrazione e la più generale tutela risarcitoria, mediante la quale
il ricorrente può ottenere il risarcimento in forma specifica o per
equivalente del danno subito a seguito dell’emanazione del provvedimento sfavorevole o della mancata emanazione del provvedimento favorevole da lui richiesto.
Queste regole basilari del processo amministrativo si applicano, ovviamente, anche alle controversie in materia ambientale
e paesaggistica. Proprio in materia ambientale e paesaggistica si
sono, tuttavia, affermati nel tempo alcuni orientamenti giurisprudenziali che esprimono delle rilevanti eccezioni a questi e ad altri
principi generali, sui quali è fondato il processo amministrativo.
Per ragioni di sintesi si prenderanno di seguito ad esempio alcune situazioni, che appaiono particolarmente significative del
modo in cui il giudice amministrativo o il legislatore hanno cercato di rendere maggiormente effettiva la tutela degli interessi individuali e collettivi in questo particolare ambito.
La prima è quella che ha portato al riconoscimento, dapprima
in via giurisprudenziale e poi in via normativa, della legittimazione delle associazioni ambientaliste ad impugnare i provvedimenti
amministrativi in materia ambientale e paesaggistica (15). Si con(15) Sulla legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste cfr., in dottrina: A.
Maestroni, Associazioni ambientaliste e interessi diffusi, in S. Nespor, A.L. De Cesaris, Codice dell’ambiente, Milano, 2009, 435 ss., spec. 452 ss.; Id., I recenti orientamenti dei giudici amministrativi sulla partecipazione al procedimento amministrativo e sulla legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste, in Riv. giur. amb., 2001, 308 ss.; S. Nespor, Legittimazione ad agire delle associazioni ambientaliste: questioni nuove e vecchie, in Riv. giur.
amb., 2005, 137 ss.; B. Delfino, La legittimazione processuale delle associazioni locali delle
associazioni di protezione ambientale tra divisioni giurisprudenziali e divisioni dimenticate,
in Foro amm. C.d.S., 2004, 2195 ss.; A. Tamburrano, L. Olearo, La legittimazione ad agire in
materia urbanistica delle associazioni ambientalistiche riconosciute ai sensi dell’art. 18 della
dottrina
221
siderino, al riguardo, l’abrogato art. 18 della l. n. 349 del 1986 e
l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, nel quale si continua a prevedere un’eccezionale legittimazione a ricorrere in appello anche alle
associazioni che non siano state parti del giudizio di prima istanza e nel quale si era giunti persino a prevedere, in contrasto con
il principio di disponibilità del processo e delle situazioni giuridiche soggettive, che la rinuncia al ricorso di primo grado o all’appello, proposti per l’annullamento di autorizzazioni paesaggistiche, non avrebbe impedito al giudice amministrativo di decidere
ugualmente il ricorso (16).
Sul tema della legittimazione a ricorrere, peraltro, il Consiglio
di Stato ha recentemente confermato con le sentenze nn. 1640 del
2012 e 4233 del 2013 (17) che anche le associazioni ambientaliste
non riconosciute, oltre a quelle che hanno ottenuto il riconoscimento ministeriale, in quanto rappresentative a livello nazionale,
hanno legittimazione attiva purché operino all’interno di un ambito territoriale circoscritto, perseguano la tutela ambientale in modo non occasionale e per espressa previsione dello statuto e godano di un adeguato grado di rappresentatività e stabilità nell’area
in cui si trova il bene ambientale che si presume leso.
Rilevanti, quindi, appaiono nel loro complesso le deroghe apportate in questa materia ai tradizionali principi del processo
amministrativo.
La seconda fattispecie da prendere in esame è quella in cui il
Consiglio di Stato ha ritenuto di poter annullare, senza però travolgerne retroattivamente gli effetti, un atto di pianificazione non
preceduto dalla valutazione ambientale strategica, affinché la declaratoria d’illegittimità non avesse comunque a produrre, in attesa del nuovo piano, effetti penalizzanti per l’ambiente e il territorio, per la cui tutela l’associazione ambientalista ricorrente aveva agito in giudizio (18).
legge 8 luglio 1986 n. 349, in Riv. amm. Rep. it., 2002, 725 ss.; S. Marchese, Legittimazione
ad agire delle associazioni ambientaliste riconosciute nel processo amministrativo e concetto giuridico di ambiente, in Riv. giur. amb., 2002, 526 ss.
(16) Sul tema vedi l’ampio e puntuale commento al comma 12 dell’art. 146 del d.l.gs.
n. 42 del 2004 scritto da V. Parisio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e
del paesaggio, cit., 1133 ss.
(17) Vedile in www.giustizia-amministrativa.it.
(18) Si tratta della nota sentenza della sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755 (in www.giustizia-amministrativa.it), dichiaratamente ispirata al diritto europeo e alla decisione del
222
parte II
Anche in questo caso, per vero, la deroga alle ordinarie norme sostanziali e processuali appare rilevante, perché il rilievo assegnato all’interesse tutelato incide addirittura sugli effetti della
sentenza di annullamento e sul regime dell’invalidità dei provvedimenti amministrativi.
La terza ed ultima situazione da portare ad esempio è quella,
invece, in cui il giudice amministrativo italiano ha cercato una
sponda nell’Europa per forzare la rigidità del diritto nazionale. Si
vogliono ricordare, a questo riguardo: il caso del T.A.R. di Palermo, che ha rimesso alla Corte di giustizia la questione di compatibilità con i principi di diritto comunitario delle norme interne che
vietano di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per
interventi già realizzati in zona paesaggisticamente vincolata (19);
Conseil d’État n. 255886 dell’11 maggio 2004. La decisione è stata oggetto di commenti di
opposto tenore in dottrina, tra i quali si segnalano: A. Travi, Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in Urb. app., 2011, 927 ss.;
M. Macchia, L’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giorn. dir. amm., 2011, 1310 ss.; C. Feliziani, Oltre le Colonne d’Ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, in Foro amm. C.d.S., 2012,
427 ss.; C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in Dir. proc. amm., 2012, 280 ss.; A. Giusti, La “nuova” sentenza di
annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2012,
293 ss.; E. Follieri, L’ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, 438 ss.;
F. Caringella, L’annullamento a geometrie variabili nella più recente giurisprudenza amministrativa, in Giur. it., 2012, 2177 ss.; S. Foà, Annullamento ex nunc e condanna dell’amministrazione ad un facere specifico, in Urb. app., 2012, 607 ss.; C. Lamberti, La conservazione
degli effetti dell’atto dichiarato illegittimo: necessità giuridica o semplice buon senso?, in Corr.
merito, 2012, 317 ss. Sia consentito, inoltre, citare sull’argomento: A. Calegari, L’invalidità derivata nei rapporti tra atti amministrativi, Padova, 2012, 172 ss.; Id., Il giudice amministrativo rimodella l’azione di annullamento: quando il dialogo tra Corti può diventare l’occasione per violare le regole “immutabili” della tradizione, in nome della proporzionalità e della
effettività della tutela giurisdizionale, in M. Bianchini e G. Gioia (a cura di), Dialogo tra Corti e principio di proporzionalità. Atti del I Convegno dei Colloquia dei ricercatori della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Padova, Padova, 2013, 103 ss.
L’insegnamento del Consiglio di Stato è stato seguito da numerose pronunce successive, tra le quali meritano di essere ricordate: Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2013, n. 21;
Id., sez. V, 26 gennaio 2012, n. 340; T.A.R. Umbria, 18 gennaio 2013, n. 19; T.A.R. Lazio,
Roma, sez. III-ter, 13 luglio 2012, n. 6418; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 8 marzo 2012, n. 121;
Id., 13 dicembre 2011, n. 693, 695, 697, 698, 699 e 700; T.R.G.A. Trento, 26 maggio 2011,
n. 154 (tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it).
Su analoga questione si è, quindi, pronunciata anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea (grande sezione, 28 febbraio 2012, causa C-41/11), con decisione commentata
da C. Feliziani, Gli effetti della sentenza di annullamento tra legalità, effettività della tutela e
principio di autonomia procedurale degli Stati membri. Il punto di vista della Corte di Giustizia, in Foro amm. C.d.S., 2012, 3102 ss.
(19) Cfr. ord. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 10 aprile 2013, n. 802, in Riv. giur. ed., 2013,
2, 474, con note di P. Carpentieri, Paesaggio e diritto europeo; di G.D. Comporti, Viaggio nella
dottrina
223
e il caso del Consiglio di Stato, che ha rimesso alla Corte di Lussemburgo la questione di compatibilità con i principi europei delle
norme interne che impediscono di porre a carico del proprietario
che non abbia materialmente concorso all’inquinamento gli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica del sito contaminato (20).
Nel primo caso, il ricorso alla Corte di Giustizia ha rappresentato solo l’ultimo (vano) tentativo della giurisprudenza amministrativa italiana di non sottostare ad un divieto da essa ritenuto
troppo rigido (21). Ma qui, si può dire, l’esigenza avvertita dai giuterra di nessuno: dalla sanzione alla gestione degli abusi paesaggistici; e di R. Leonardi, I limiti dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria tra tutela del paesaggio e del diritto della
proprietà: applicazione di misure presuntive o accertamento concreto della compatibilità paesaggistica?. La Corte di giustizia UE, sez. X, si è tuttavia dichiarata incompetente a decidere con sentenza 6 marzo 2014, n. 206, in http://curia.europa.eu/.
(20) Con le ordinanze nn. 21 e 25 del 2013, entrambe dell’Adunanza plenaria, rinvenibili
nel sito www.giustizia-amministrativa.it e commentate da: C.L. Coppini, Chi non ha inquinato
non paga, in Riv. giur. amb., 2013, 745 ss. e C. Carrera, Chi non inquina deve pagare?, in Urb.
app., 2014, 432 ss. Con tali ordinanze il Consiglio di Stato ha chiesto al giudice comunitario
di valutare se, in base al principio «chi inquina paga», previsto dall’art. 191 TFUE, l’amministrazione possa legittimamente imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia
anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di eseguire misure di messa in sicurezza d’emergenza di cui all’art. 240, c. 1, lett. m), d.lgs. n. 152/2006 (sia pure in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa verso lo stesso per gli oneri sostenuti). L’Adunanza Plenaria, invero, dopo aver vagliato il quadro normativo e la varietà di orientamenti giurisprudenziali
formatosi, ha rilevato un potenziale «conflitto» tra «i principi di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente» e quello «del
soggetto causatore», secondo cui ai fini dell’applicazione del principio «chi inquina paga» il
rapporto di causalità costituisce un elemento imprescindibile. Alla Corte di giustizia spetterà ora, verosimilmente, di svolgere un giudizio di bilanciamento tra i due principi.
Peraltro, è interessante osservare come la Corte di giustizia (con sentenza della Grande Sezione, 9 marzo 2010, C-378/08, commentata da P. Bertolini, Il principio “chi inquina
paga” e la responsabilità per danno ambientale nella sentenza della Corte di Giustizia 9 marzo 2010, procedimento C-378/08, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, 1607 ss.) avesse già ammesso, su sollecitazione del T.A.R. di Catania, la possibilità di presumere l’esistenza di un
nesso di causalità «tra determinati operatori economici e un inquinamento accertato» tutte le volte in cui l’Autorità «disponga di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla
sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività».
(21) Cfr., oggi, quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 146 e 167 del d.lgs. n.
42 del 2004, la cui attuale stringente formulazione è stata il frutto di un lungo dibattito giurisprudenziale e dottrinale, che ha visto il legislatore, infine, allinearsi con l’indirizzo più rigoroso, così negando la possibilità di rilascio postumo del titolo autorizzatorio, che era stata, per vero, riconosciuta in precedenza, tanto dalla dottrina, quanto dalla giurisprudenza.
Sul punto, a testimonianza dell’annosità della questione e di quale fosse l’orientamento preponderante prima dell’entrata in vigore del codice dei beni culturali e del paesaggio (o meglio sarebbe dire, del suo correttivo del 2008, che ha esplicitato il divieto di cui si discute),
si può rinviare ai lavori di: V. Giuffrè, L’autorizzazione paesaggistica negata in sanatoria, in
224
parte II
dici era quella di tutelare l’interesse privato a fronte di una protezione avvertita come eccessiva e puramente formale del paesaggio e dell’ambiente.
La prospettiva, invece, si ribalta nel secondo caso, dove l’afflato sostanzialista del giudice è diretto ad assicurare, in una sorta di
bilanciamento di valori e di interessi, una maggior tutela dell’ambiente, al costo di sacrificare qualche garanzia sul fronte della tutela individuale. Risulta, in particolare, evidente lo sforzo interpretativo compiuto dal giudice amministrativo italiano per assegnare
Corr. giur., 1993, 1120 ss.; F. Abeniacar, Autorizzazione paesaggistica in sanatoria: un equivoco da superare, in questa Rivista, 1995, 107 ss.; G. Mari, L’immediata vigenza del divieto di
autorizzazione paesaggistica postuma ex art. 146, comma 10, lett. c), Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Riv. giur. ed., 2005, I, 934 ss.; B. Graziosi, A proposito dell’ammissibilità
della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” (e dei suoi intrecci col condono edilizio), in Riv. giur.
ed., 2004, II, 171 ss.; P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, in Urb. app.,
2004, 4, 388; V. Vitiello, Cambia di nuovo il quadro normativo di riferimento dell’autorizzazione paesaggistica postuma, nota a T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 10 novembre 2005, n. 4943,
in Riv. giur. amb., 2006, 3-4, 523. Più di recente, si sono occupati dell’argomento: L. Corti,
Il controllo statale sulle autorizzazioni paesaggistiche nel (quasi concluso) regime transitorio,
nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1013, in Riv. giur. amb., 2010, 5, 784
ss.; F. Cangelli, La disciplina procedimentale dell’autorizzazione paesaggistica: l’impatto delle
modifiche introdotte dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63, in questa Rivista, 2009, 1-2,
175 ss.; E. Furlan, Il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria e i recenti
tentativi della giurisprudenza amministrativa di superare il dato normativo, in questa Rivista,
2013, 90 ss. Sia consentito, da ultimo, fare rinvio pure ad A. Calegari, Osservazioni critiche
in merito al divieto di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria sancito dall’art. 146
del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in questa Rivista, 2008, 1, 192 e ss.
In giurisprudenza, si possono ricordare: Cons. Stato, sez. VI, 8 novembre 2000, n. 6007,
in Riv. giur. amb., 2001, 467; Id., 21 febbraio 2001, n. 913, in Riv. giur. ed., 2000, 388; Id., 27
marzo 2003, n. 1590, in Foro amm. C.d.S., 2003, 1150, e n. 1592, in www.giustizia-amministrativa.it.; Id., 19 giugno 2001, n. 3242, in Riv. giur. ed., 2001, 925; Id., 15 maggio 2003, n.
380, in www.giustizia-amministrativa.it.; Id., 21 luglio 2003, n. 4192, in www.giustizia-amministrativa.it; Id., 10 marzo 2004, n. 1205 in www.giustizia-amministrativa.it; Id., 30 marzo 2004, n. 1695, in Foro amm. C.d.S., 2004, 390; Id., 12 maggio 2004, n. 2994, in Foro amm.
C.d.S, 2004, 1460; Id., 8 novembre 2005, n. 6213, in Foro amm. C.d.S., 2005, 3371; Id., 22
settembre 2006, n. 5574, in Foro amm. C.d.S., 2006, 2618. Appare significativo che, successivamente all’introduzione dell’attuale formulazione degli artt. 146 e 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio, la giurisprudenza amministrativa abbia cercato di superare, in
più occasioni, la rigidità del divieto. Ne sono esempio le seguenti decisioni, tutte rinvenibili in www.giustizia-amministrativa.it: T.A.R. Umbria, sez. I, 29 gennaio 2013, n. 46, che ha
ritenuto irrilevanti, dal punto di vista paesaggistico, i volumi tecnici, spingendosi a valutare nel merito l’effettiva incidenza dell’intervento; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 24 ottobre 2012, n. 1942, che ha parimenti ritenuto irrilevante l’innalzamento di un manufatto eseguito senza il prescritto titolo abilitativo paesaggistico, stante il suo scarso rilievo nel contesto dell’ambito protetto; T.A.R. Veneto, sez. II, 1 febbraio 2013, n. 126 e Cons. Stato, sez. VI,
26 marzo 2014, n. 1472, che, definendo le modalità di esecuzione di un giudicato, hanno affermato la possibilità di autorizzare ex post, con provvedimento «ora per allora», un intervento per il quale l’autorizzazione paesaggistica fosse già stata rilasciata, ma anche annullata, senza che ciò comporti violazione del divieto sancito dagli artt. 146 e 167 del codice.
dottrina
225
un significato concreto alla formula «chi inquina paga» (22), cercando di contemperare l’esigenza di proteggere efficacemente l’ambiente e di non addossare pertanto indistintamente alla collettività i costi delle opere necessarie per rimediare all’inquinamento di
aree contaminate con il principio di responsabilità individuale (23)
e la tutela di altri fondamentali interessi, tra i quali vanno in primo luogo ricordati i diritti di proprietà e di iniziativa economica
costituzionalmente garantiti.
Per quanto diverse tra loro, le fattispecie analizzate hanno
tutte in comune l’esigenza, avvertita dal giudice amministrativo,
di assicurare una tutela piena ed effettiva di chi ricorre in giudizio, così come impone oggi l’art. 1 del codice del processo amministrativo ed impongono, innanzi tutto, la Costituzione e il diritto europeo. Al tempo stesso, però, il giudice amministrativo mostra, nei precedenti citati, di voler cercare una soluzione giusta ed
equa al caso concreto, che, nel rispetto del principio di proporzionalità (24), non sacrifichi l’interesse pubblico in misura superiore
a quella strettamente necessaria per tutelare l’interesse della par(22) Come detto, il principio è di matrice comunitaria, perché sancito all’art. 191 TFUE.
La forza di tale principio, peraltro, è ben nota alla giurisprudenza amministrativa italiana,
per la quale esso «deve ritenersi costituzionalizzato, atteso che il nuovo art. 117 della Costituzione prevede che i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e, quindi, anche i
principi generali sui quali detto ordinamento si fonda, devono essere osservati dallo Stato
e dalle Regioni e, quindi, anche dai Comuni» (così Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013,
n. 4756, in www.giustizia-amministrativa.it). Sul tema si leggano, in dottrina, le riflessioni
di F. Goisis, Caratteri e rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nell’ordinamento nazionale, in Foro amm. C.d.S., 2009, 2711 ss.
(23) Secondo il T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 29 gennaio 2013, n. 95 (in www.giustizia-amministrativa.it), l’obbligo di rimozione del danno causato all’ambiente a mezzo
d’una propria azione o omissione è corollario del principio di responsabilità. In particolare, alla stregua della citata pronuncia, «l’obbligo di messa in sicurezza e di successiva bonifica è la semplice conseguenza oggettiva dell’aver cagionato l’inquinamento. Il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione alla materia in esame
della norma generale dell’art. 2043 c.c. (il cui disposto esiste da quando esiste il diritto),
secondo cui ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il proprio comportamento. Norma generale che, d’altronde, è a sua volta espressione del principio, ancor più generale, di responsabilità, in base al quale ciascuno risponde delle proprie
azioni (ed omissioni) (il c.d. principio comunitario del chi inquina paga ne costituisce ulteriore specificazione in materia ambientale)».
(24) Sul principio di proporzionalità applicato all’attività amministrativa cfr. spec.: D.U.
Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo,
Milano, 1998; A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; S.
Villamena, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa, Milano, 2008; S. Cognetti, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2010;
E. Buoso, Proporzionalità, efficienza e accordi nell’attività amministrativa, Padova, 2012.
226
parte II
te ricorrente, spingendosi persino al di là di quanto la legge sembra disporre, al fine di garantire tale risultato.
Non si vuole in questa sede esprimere un giudizio sull’opportunità che il giudice amministrativo si svincoli in modo tanto evidente dal dato normativo. Ci si limita a constatare che, nel sistema italiano di giustizia amministrativa, è spesso accaduto che,
proprio svincolandosi da una rigida lettura delle norme positive
e privilegiando un’interpretazione finalistica delle stesse, la giurisprudenza abbia anticipato il legislatore, creando regole ed istituti che questo ha poi fatto proprie, recependole.
Ne sono un esempio il caso poco sopra citato dell’estensione
della legittimazione processuale alle associazioni ambientaliste, ma
anche quello della non annullabilità del provvedimento affetto da
vizi di natura formale o procedimentale, oggi contemplata dall’art.
21-octies della l. n. 241 del 1990, per non citare il caso della tutela
cautelare atipica o della decisione di merito in forma semplificata.
Si è portati a ritenere, però, che il legislatore e la politica non
possano demandare al giudice amministrativo la soluzione di ogni
problema, tanto più di quelli che essi non sono in grado di affrontare e risolvere; perché non può essere evidentemente il giudice
amministrativo, esercitando un indebito ruolo di supplenza, a stabilire se è giusto ed opportuno, ad esempio, che le grandi navi entrino nel bacino di San Marco a Venezia. Il riferimento è alla recente ordinanza del T.A.R. Veneto n. 178 del 2014 (25), che ha ritenuto illegittime e sospeso le limitazioni al transito navale introdotte dalla locale Capitaneria di Porto, perché sprovviste di un reale
supporto istruttorio e motivazionale e intrinsecamente incapaci
di contemperare razionalmente e nel rispetto del principio di proporzionalità tutti gli interessi coinvolti.
A decisioni delicate e impegnative come quella appena ricordata è evidente che il giudice non può sottrarsi, dove sia proposto
un ricorso, perché la legge gli impone comunque di rispondere alla domanda di giustizia dell’impresa, che si vede inibito l’esercizio
di un’attività commerciale o produttiva, del cittadino che si vede
espropriato un proprio bene, del concorrente che non si vede aggiudicare l’appalto. Così come il giudice non può rifiutarsi di sospendere o annullare i provvedimenti impugnati ove sussistano i
(25) Vedila in www.giustizia-amministrativa.it.
dottrina
227
presupposti per l’accoglimento delle richieste formulate dal ricorrente, anche se ciò lo rende inviso all’opinione pubblica, che vede
in lui e, più in generale, nel contenzioso amministrativo, la causa
ultima dei ritardi e delle inefficienze della pubblica amministrazione o una minaccia alla tutela di beni primari come l’ambiente
o il patrimonio culturale.
Tutto questo rappresenta, infatti, soltanto la prova che gli anticorpi di cui il sistema è dotato sono in grado di funzionare. E se
questo porta ad esiti che non piacciono non è certo per colpa di chi
ricorre in giudizio e di chi accoglie i ricorsi, perché costoro fanno
soltanto quanto è in loro diritto e dovere fare. È, invece, compito
del legislatore approvare delle buone leggi e dovere della buona
politica e della buona amministrazione risolvere in via preventiva i conflitti tra gli interessi contrapposti, soprattutto dove siano
coinvolti beni di così rilevante importanza sociale come la tutela del paesaggio, del patrimonio storico artistico e dell’ambiente.
228
parte II
Pianificazione paesaggistica in itinere:
l’esperienza del Veneto (*)
di Marino Breganze
La relazione evidenzia le vicende e gli aspetti problematici della pianificazione paesaggistica nella Regione del Veneto, soffermandosi sulle particolarità del
territorio regionale e sulle complessità della tutela con gli strumenti del Codice
dei beni culturali e del paesaggio.
* * *
The report highlights history and problematic aspects of landscape planning
in the Veneto Region, focusing on the particularities of the region and on the complexity of landscape protection with the tools of the Code of the cultural heritage
and landscape.
L’intesa Stato-Regione che ha dato l’avvio alla nuova pianificazione paesaggistica in Veneto è stata stipulata nel 2009, dopo
le modifiche l’anno precedente apportate al Codice Urbani e dopo
che già era in stadio avanzato di elaborazione, da parte della Regione, il nuovo Piano territoriale di coordinamento con valenza
paesistica: il cui iter ha dovuto così fermarsi per iniziare poi ex novo in una con le Soprintendenze, con una seria collaborazione tra
l’Amministrazione regionale e gli organi periferici del Ministero.
Si è proceduto subito alla nomina del Comitato tecnico Stato-Regione che, come prima cosa, si è occupato della ricognizione dei vincoli gravanti sul territorio dell’intera Regione, non solo
ai sensi dell’art. 136 ma anche ai sensi dell’art. 142 (già legge Galasso) del Codice Urbani.
Ovviamente, si sono incontrati immediati problemi nella ricostruzione dei vincoli ex art. 136 (almeno per quelli più risalenti,
alcuni ormai solo sulla carta, o irriconoscibili, relativi a beni, giardini, a strade alberate, ecc., che non esistono praticamente più:
(*) Relazione al Forum della Scuola Umbra di Amministrazione Pubblica sul tema:
“Pianificazione paesaggistica – esperienze regionali a confronto”, tenutasi a Perugia, il 12
giugno 2014.
dottrina
229
quindi con problematiche tuttaltro che trascurabili e delicate). Ma
quelle che hanno richiesto maggiori confronto e discussione sono
state le questioni riguardanti la definizione di taluni vincoli ex legge Galasso. E, basti pensare, per tutti, alla ricognizione del vincolo sulla laguna veneta, in quanto compreso in quello sulle coste, o
ai vincoli sulle zone m).
Proprio per questi ultimi ci sono stati nell’ambito del Comitato ampi approfondimenti, che, naturalmente, non potevano prescindere anche dall’esperienza pregressa di Stato e Regione relativamente ai vincoli concretamente presenti sul territorio: e si è arrivati a fissarne la specificità di “contesti di giacenza”, la cui presenza in loco deve essere suffragata da fonti adeguate, che possono andare dai ritrovamenti di reperti, alle fonti documentali, ai risultati di ricerche scientifiche di altro genere (foto aeree, ad esempio). E accanto a queste fonti è interessante notare, per le aree archeologiche, e per rafforzare il fondamento del vincolo, che si è
scelto, ove ve ne fosse motivo, di procedere contestualmente anche all’imposizione di nuovi e contestuali vincoli ex parte seconda del Codice dei beni culturali e del paesaggio: unificando così
le problematiche e valutandole nel loro insieme – naturalmente
in presenza di ritrovamenti adeguati – proprio per rafforzare il riconoscimento di contesto di giacenza della zona più ampia in cui
veniva a gravare il vincolo, diventato così veramente organico e
omnicomprensivo.
In Veneto, peraltro, esisteva già un Atlante delle aree archeologiche redatto dopo l’entrata in vigore della legge Galasso e allegato al tuttora vigente Piano territoriale regionale di coordinamento con valenza paesistica adottato nel 1986 ed approvato nel 1992:
ed esso ha costituito la base per una ri-ricognizione delle zone m)
in ragione dei nuovi dati acquisiti nel frattempo dalla Soprintendenza archeologica da quella data ad oggi.
In linea generale, comunque, si è lavorato molto sulle fonti e
quindi sull’apparato motivazionale di tutti i vincoli, sia ex art. 136
sia ex art. 142, in una prospettiva non legata meramente a una sola ricognizione dei vincoli preesistenti ma già in funzione della
futura elaborazione delle schede dei vincoli che dovranno dettare la normativa d’uso.
In questo modo, già in sede di ricognizione sono emerse le varie
criticità che i vincoli potevano presentare, che sono state annotate
230
parte II
a margine del vincolo, “a futura memoria”, ed è emersa, in sede di
discussione sui casi portati alla c.d.“validazione” (termine usato,
anche se non certo riconosciuto dall’Accademia della Crusca), la
necessità di procedere a una graduazione delle prescrizioni e delle direttive in ragione delle diverse caratteristiche rivestite dalle
aree vincolate che si andavano a constatare. E si deve tener conto del fatto che il Piano d’ambito, cioè il primo “pezzo” del Piano
Paesaggistico complessivo che si sta elaborando in Veneto, quello
relativo alla maggior parte della zona costiera, da solo comprende 513 vincoli ex art. 136, con un c.d. Galassino, quello della laguna di Venezia, dalle dimensioni certo non trascurabili, dato che
misura più di 550 kmq!
Contemporaneamente – anche in ragione delle criticità presenti in talune aree vincolate, peraltro molto estese, che oramai richiedevano un intervento per la gestione di questioni “conflittuali” molto complesse, che erano arrivate anche alla pronuncia del
giudice amministrativo –, tenendo conto della possibilità riconosciuta dall’art. 135 del Codice e dall’art. 45-ter della legge regionale urbanistica del Veneto, la l.r. n.11 del 2004, così come modificata in adeguamento del Codice Urbani nel 2011, di procedere a
una pianificazione subregionale e, cosa molto importante, alla luce dell’esperienza pregressa del Veneto, che vedeva la presenza di
Piani d’Area con valenza paesaggistica (tre fin ab origine dal 1986
– quello del Delta del Po, quello della Laguna di Venezia e quello
del Monte Grappa –, altri susseguitisi nel tempo, e oramai entrati nella prassi delle Amministrazioni, sia pur con i limiti ovvii che
derivano dall’essere stati elaborati nella prima stagione di pianificazione), si è scelto – come accennato poc’anzi – di procedere alla
prima esperienza di pianificazione di questo tipo con la redazione
del Piano paesaggistico regionale d’ambito “Arco costiero adriatico, Laguna di Venezia e Delta del Po” (che, in sostanza, comprende la quasi totalità della parte costiera del Veneto – esclusa la parte estrema verso il Friuli –, compresi Venezia, tutta la Laguna ed
il Delta del Po).
Certamente, il fatto che ci si sia determinati per la localizzazione subregionale ha influenzato le scelte che si stanno facendo
quanto a metodo di pianificazione: ma la presenza di un’esperienza pregressa di pianificazione regionale, alla quale si aggiungeva
l’esperienza delle varie Soprintendenze nella gestione dei vincoli,
dottrina
231
ha indotto a ritenere che questo fosse il modo migliore per portare a sistema e valorizzare tali esperienze, affrontando nel contempo anche i nodi problematici e le questioni ancora irrisolte.
Si tenga conto che, nel frattempo, la direzione regionale del
Ministero aveva proceduto anche alla cosiddetta “vestizione” (con
grande sensibilità alla previsione evangelica di vestire gli ignudi...)
in via separata di vincoli ex art. 136 in aree diverse del territorio
regionale (e basti pensare al famoso – in quanto ormai noto ovunque in Italia per le sue indicazioni e prescrizioni – vincolo di Marostica) e anche di questa esperienza-sperimentazione si è tenuto conto nella riflessione sul metodo per l’elaborazione della normativa d’uso dei beni.
La fase di ricognizione dei vincoli è già terminata per il Piano Arco-costiero: ma sta per terminare anche per quanto riguarda tutto il rimanente territorio regionale.
E per quanto concerne il metodo da adottare per la vestizione dei vincoli, mentre da un lato proseguivano i momenti partecipativi esterni in sede di VAS sul documento del Piano d’Ambito, ad un certo punto si è ritenuto che fosse opportuno instaurare un confronto più ampio tra Soprintendenze e Direzione regionale MIBACT da una parte e Regione (attenta anche alle esigenze
comunali) dall’altra, proprio per individuare il metodo mediante
il quale arrivare a definire la normativa d’uso “proporzionandola”, se così si può dire, all’esigenza di tutela dei beni paesaggistici: ma anche in vista dell’individuazione degli ulteriori contesti di
cui all’art. 143, lett. e), da sottoporre a misura di salvaguardia con
un diretto coinvolgimento dei Comuni.
E a questo proposito si è individuato un primo criterio basilare fondato sull’attenzione che deve essere prestata alle aree circostanti i vincoli o di collegamento tra i vincoli in quanto possano completare la salvaguardia dei valori paesaggistici espressi dai
beni senza comportare assoggettamento al regime della autorizzazione paesaggistica.
Sembra opportuno notare che, poiché il Comitato è assai numeroso e non sempre è agevole conciliare tante e diverse prospettazioni nei tempi che queste riunioni impongono, si è adottato il
sistema di effettuare incontri preventivi presso l’Università di Padova tra esperti giuridici, vertici della Regione e vertici della Direzione, per fare una prodromica elaborazione istruttoria della documentazione che faciliti poi il lavoro del Comitato.
232
parte II
Si è, quindi, proceduto a una sperimentazione, con l’elaborazione di alcune schede di vestizione di vincoli ex art.136 per i quali si poteva contare già su un’ampia esperienza pregressa nella gestione delle aree: ma questo è stato solo un primo passo per constatare soprattutto i pregi e i difetti di questo modo di procedere.
Invero, contemporaneamente si è lavorato all’affinamento di un
abaco complessivo (che si è voluto chiamare “cassettiera”) delle
componenti paesaggistiche dei beni vincolati presenti sul territorio: componenti che, peraltro, si possono adattare anche alla restante parte del territorio (quella non vincolata), con le definizioni
e le caratteristiche che sono state individuate, ai fini dell’individuazione degli ulteriori contesti ma anche, praticamente, per i Comuni nell’elaborazione dei loro Piani adeguati al Piano Paesaggistico.
Sempre costante attenzione si è, quindi, dedicata alla maggior
chiarezza possibile delle definizioni, cercando, per quanto permesso dalla natura del Piano, di utilizzare anche il bagaglio di perimetrazioni che possono essere fornite dalla Regione, in modo tale da fornire la maggior certezza possibile in sede di applicazione del Piano da parte dei Comuni, tenendo conto del fatto che per
talune componenti si procederà poi a una loro perimetrazione in
sede di adeguamento degli strumenti urbanistici con la partecipazione delle Soprintendenze.
Adesso il lavoro è giunto a buon punto: e si sta provvedendo
direttamente alla stesura di un corpo generale di direttive e prescrizioni per tutte le varie componenti già individuate, che poi dovrebbe trovare applicazione nelle schede specifiche relative ai beni: fermo restando che a fianco di tale normativa troveranno posto tutte quelle prescrizioni generali che si dovesse ritenere opportuno dettare in relazione alle caratteristiche dei singoli beni.
Nel frattempo stanno proseguendo la discussione e l’elaborazione dei criteri generali per quanto riguarda gli ulteriori contesti: ad esempio in relazione al sistema delle ville venete (che solo in piccola parte sono vincolate), ed all’individuazione delle zone degradate ai fini dell’applicazione del comma 4 dell’art. 143.
In conclusione, pare di poter affermare che, grazie all’impegno e alla leale collaborazione di tutti i soggetti interessati, molto
si è fatto ed il traguardo finale – pur con la cautela, le difficoltà e
la prudenza del caso – si avvicina.
dottrina
233
Pianificazione urbanistica e meccanismi competitivi (*)
di Andrea Maltoni e Stefano Di Lena
Sommario: 1. L’applicazione della disciplina del Codice dei contratti pubblici alle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria o considerate ad esse assimilabili. – 2. (Segue:) La
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria sotto soglia dopo il Decreto Salva Italia.
– 3. Il riferimento a meccanismi competitivi contenuto in leggi regionali in materia di governo
del territorio e la pronunzia sul caso del Comune di Quarrata. – 4. Meccanismi competitivi e
potere di piano nelle ipotesi in cui le risorse pubbliche e private utilizzabili ai fini delle trasformazioni urbanistiche sono scarse. – 5. Alcune considerazioni in ordine all’ipotesi che siano
i legislatori regionali a dettare discipline con effetti pro-concorsuali in campo urbanistico.
L’articolo esamina l’applicazione della disciplina del Codice dei contratti pubblici alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e a quelle ad esse assimilabili. Nella prima parte ci si sofferma sulla disciplina della realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria sotto soglia dopo il Decreto Salva Italia, anche
con riguardo ai meccanismi competitivi richiamati nelle leggi regionali in materia di governo del territorio e alla pronunzia del giudice amministrativo sul caso
del Comune di Quarrata. Nella seconda parte vengono trattate le ipotesi in cui
le risorse pubbliche e private utilizzabili ai fini delle trasformazioni urbanistiche
sono scarse, studiando i meccanismi competitivi applicabili e il potere esercitabile tramite il piano urbanistico. Il contributo si conclude con alcune considerazioni in ordine all’ipotesi che siano i legislatori regionali a dettare discipline con
effetti pro-concorsuali in campo urbanistico.
* * *
The article examines the application of the rules of the Code of public contracts to the works of primary and secondary urbanization and those assimilated.
In the first part it focuses on the discipline of construction of primary infrastructure works under the threshold after the Decree “Salva Italia”, also with regard to
competitive mechanisms invoked in the regional laws and the administrative tribunal decision on the case of the City of Quarrata. In the second part the article
deals with the cases in which the public and private resources are scarce, studying
(*) Il testo costituisce la rielaborazione della Relazione tenuta al convegno su “Politiche urbanistiche e gestione del territorio tra esigenze del mercato e coesione sociale”, che
si è svolto a Pescara il 18 e il 19 giugno 2014, conclusivo del progetto PRIN 2009, recante
lo stesso titolo del convegno. Lo scritto contiene parte dei risultati della ricerca condotta
dall’unità locale di Ferrara nell’ambito del predetto progetto PRIN.
I §§. 1; 2; 4 e 5 sono a cura di Andrea Maltoni, mentre il § 3 è a cura di Stefano Di Lena.
234
parte II
the competitive mechanisms applicable and the power exercised by the city plan.
Finally, the contribution provides some considerations for the hypothesis that regional legislators dictate disciplines with procompetitive effects.
1. – È nota la vicenda che ha portato la Corte di Giustizia europea ad estendere le regole inerenti all’affidamento di appalti di lavori pubblici alla realizzazione di opere di urbanizzazione
sia primaria che secondaria di valore pari o superiore alla soglia
comunitaria (1).
Detta estensione è stata motivata dal fatto che il rapporto tra
le amministrazioni pubbliche e i soggetti realizzatori delle opere
di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri – che fino a quel
momento erano state considerate connaturate alla realizzazione di interventi di trasformazione urbana e, per tale ragione, eseguibili direttamente dai soggetti attuatori – doveva essere qualificato alla stregua di un appalto pubblico di lavori (2), anche tenuto conto del fatto che in base al diritto europeo sono qualificabili
(1) A commento della decisione sul caso Bicocca (Corte di Giustizia Ce, sez. IV, 12 luglio 2001, in causa C-399/98, si v. ex multis: M. A. Quaglia, Le opere di urbanizzazione tra
convenzioni urbanistiche e procedure di evidenza pubblica, e G. Marchegiani, La normativa
italiana in materia di urbanistica alla luce di una recente sentenza del giudice comunitario,
in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, V, rispettivamente 842 s. e 852 s.; G. Cugurra, Normativa
comunitaria e opere di urbanizzazione, in questa Rivista, 2002, 199 s.; I. Nasti, Opere di urbanizzazione soprasoglia comunitaria e rispetto delle procedure di evidenza pubblica: il caso Bicocca davanti alla Corte di Giustizia, e L.G. Radicati di Brozolo, La Corte di giustizia
va alla Scala: normativa comunitaria sugli appalti ed effetti delle sentenze interpretative, rispettivamente, in Corr. giur., 2002, 185 e 247 s.; R. Gracili, L. Miele, La direttiva Comunitaria 93/37 sugli appalti pubblici e la realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione,
in Riv. giur. ed., 2002, II, 169 s.; S. Girimonte, La Corte di Giustizia si pronuncia in materia
di appalti e opere di urbanizzazione: nuove riflessioni anche alla luce delle recenti modifiche
alla legge Merloni, in Giur. it., 2002, 2025 s.
(2) I giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che la realizzazione in via diretta di opere di urbanizzazione configurasse un appalto pubblico di lavori, posto che, nel caso di specie, erano riscontrabili le seguenti circostanze: il Comune, parte stipulante della convenzione di lottizzazione, era un’amministrazione aggiudicatrice, ai sensi art. 1, lett. b) della
direttiva 93/37/CEE; le opere di urbanizzazione in quanto consistenti in lavori edilizi o di
genio civile erano compresi tra le attività indicate nell’allegato II della medesima direttiva e dunque risultavano qualificabili alla stregua di opere o lavori pubblici; la convenzione, ancorché avesse carattere pubblicistico, doveva considerarsi un contratto concluso per
iscritto avente carattere oneroso, posto che il titolare di una concessione edilizia o di un
piano di lottizzazione che realizza le opere di urbanizzazione «non effettua alcuna prestazione a titolo gratuito, in quanto egli estingue un debito di pari valore – salvo conguaglio
in danaro – che sorge in favore del Comune, ossia il contributo per gli oneri di urbanizzazione, senza che il carattere alternativo dell’obbligazione – contributo pecuniario o esecuzione diretta delle opere – consenta di differenziarne la causa a seconda delle modalità di
adempimento prescelta (o prestabilita dal legislatore)».
dottrina
235
come operatori economici non soltanto quei privati che realizzano direttamente le prestazioni con propri mezzi, ma anche quelli che hanno la possibilità di far realizzare le prestazioni da terzi
fornendo le necessarie garanzie.
I giudici europei hanno dunque esteso l’applicazione di regole poste a tutela della concorrenza alla realizzazione di interventi urbanistici, tradizionalmente sottratta al rispetto di procedure
di evidenza pubblica, riconfigurando il rapporto tra l’amministrazione e i privati titolari di un titolo edilizio o privati lottizzanti o
parti contraenti di un’apposita convezione urbanistica, come un
partenariato contrattuale disciplinato dalla c.d. direttiva appalti.
Per tale via si è dunque riconosciuto che le opere di urbanizzazione o quelle alle stesse assimilabili – come si dirà – sono propriamente opere pubbliche e, come hanno precisato i giudici di Lussemburgo (3), là dove siano di valore inferiore alla soglia di applicazione comunitaria la realizzazione delle stesse non è sottratta, al
ricorrere di certe condizioni, all’applicazione del diritto europeo.
Senza voler ripercorrere qui i termini di un dibattito che si già
in altra sede analizzato (4), occorre però richiamare quella giurisprudenza della Corte costituzionale che, estendendo ulteriormente il concetto di onerosità, individuato nella sentenza sul caso Bicocca, lo ha riferito anche a fattispecie convenzionali aventi
ad oggetto la realizzazione di opere diverse da quelle di urbanizzazione, che era sottratta al rispetto di procedure di evidenza pubblica. Ci si riferisce, in particolare, alla decisione del giudice delle
leggi (5), nella quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale
di alcune disposizioni della l. n. 12 del 2005 della Regione Lombardia, nella parte in cui non prevedeva l’obbligo di esperire procedure di evidenza pubblica per la realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici da parte di privati proprietari di aree destinate ad
essere espropriate che avessero stipulato un’apposita convenzione
col Comune competente. In particolare, detti accordi – in virtù dei
quali il proprietario poteva realizzare direttamente gli interventi
di interesse pubblico o generale – dovevano essere qualificati alla
(3) Si v. Corte di Giustizia, sez. II, 21 febbraio 2008, in causa C- 412/04, in www.curia.europa.eu.
(4) Sia consentito rinviare ad A. Maltoni, Il conferimento di potestà pubbliche ai privati, Torino, 2005, spec. 262 s.
(5) Si v. Corte costituzionale, sent. n. 129 del 2006, in www.cortecostituzionale.it.
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parte II
stregua di accordi a titolo oneroso, che «consentono al proprietario espropriando, in particolare, di mantenere la proprietà dell’area e di ottenere la gestione del servizio previsto in cambio della
realizzazione diretta degli interventi necessari» (6). Di non diverso tenore è un’altra pronunzia (7) nella quale il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione
della l. prov. Trento n. 22 del 1991, che prevedeva che le attrezzature e i servizi pubblici previsti dal piano regolatore generale potessero essere “realizzati direttamente dai proprietari delle aree gravate da vincolo preordinato all’espropriazione, previa convenzione
con il comune volta ad assicurare l’effettiva realizzazione e destinazione pubblica delle attrezzature e dei servizi, nonché le loro modalità di realizzazione e gestione”.
In entrambi i casi, dunque, le disposizioni impugnate prevedevano, per un verso, la possibilità per i proprietari di un’area di
realizzare direttamente le attrezzature e i servizi pubblici per la
cui attuazione era stato posto il vincolo espropriativo, per l’altro,
di addivenire alla stipula di una convenzione intesa a disciplinare le modalità di realizzazione e di gestione dell’opera realizzata.
La Consulta, in definitiva, ha considerato i proprietari delle predette aree assimilabili ai privati titolari di un permesso di costruire
o di una convenzione di lottizzazione che realizzano opere di urbanizzazione, a scomputo totale o parziale del relativo contributo (8), in quanto anche in detta ipotesi i privati dalla realizzazione
dell’opera ricevono un vantaggio costituito dalla gestione del servizio pubblico, di tal che l’obbligo di rispettare regole a tutela della concorrenza viene ad essere traslato dalla predetta gestione del
servizio alla realizzazione dei lavori preordinati alla medesima (9).
Peraltro, un’impostazione volta ad ampliare le fattispecie
(6) Si v. ancora Corte cost. sent. n. 129 del 2006, cit.
(7) Si v. Corte cost. sent. n. 269 del 2007, in www.cortecostituzionale.it.
(8) Le opere realizzate sulla base delle indicazioni contenute nel Piano dei servizi previsto dalla legge lombarda, al pari di quelle di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri, debbono, infatti, reputarsi, ad avviso della Consulta, “prestazioni sostitutive”: mentre in
quest’ultima ipotesi l’esecuzione delle opere di urbanizzazione viene concepita come alternativa all’obbligazione pecuniaria inerente al contributo dovuto per tali opere, nella prima
ipotesi il proprietario evita di essere espropriato e mediante la gestione del servizio che gli
viene concessa, cui le opere da realizzare risultano strumentali, remunera l’investimento
effettuato per l’attività costruttiva.
(9) In tal senso M.A. Quaglia, Convenzioni urbanistiche e lavori pubblici, Torino, 2009,
spec. 91-92, il quale osserva che la realizzazione dei lavori, quantunque sia remunerata
dottrina
237
negoziali da ricondurre alla categoria dell’appalto pubblico di lavori è condivisa anche dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, dalla giurisprudenza amministrativa e dai magistrati della
Corte dei conti.
L’AVCP, riprendendo il concetto di onerosità della prestazione
già delineato dalla Consulta, ha ritenuto che esso sia configurabile non soltanto allorché il corrispettivo attribuito al privato realizzatore consista in una somma di denaro, ma altresì là dove il medesimo sia individuabile nell’attribuzione di un diritto di sfruttamento dell’opera (concessione) o nella cessione in proprietà o in
godimento di beni. In altri termini, ciò che appare essenziale ai
fini di detta configurabilità è che vi sia il riconoscimento di diritti
suscettibili di valutazione economica (10). Di conseguenza, come
hanno riconosciuto anche i giudici amministrativi (11), allorquando, nell’ambito di operazioni di trasformazione territoriale, l’oggetto dello scambio consista nel riconoscimento al soggetto privato di diritti edificatori a fronte dell’impegno del medesimo a realizzare opere di adeguamento infrastrutturale e/o a cedere queste ultime e/o altre aree all’amministrazione comunale, le convenzioni urbanistiche che disciplinano i relativi rapporti tra le parti
sono riconducibili al genus “appalti pubblici di lavori” (12). Allorché, invece, la convenzione disciplini la realizzazione da parte del
privato di opere di urbanizzazione extra-oneri o comunque non a
con la successiva gestione del servizio, deve essere sottoposta ad un regime concorrenziale ad opera del privato che provvede a farli realizzare.
(10) Si v. AVCP, determinazione 2 aprile 2008, n. 4, in www.avcp.it.
(11) Si v. T.a.r. Emilia Romagna, Parma, sez. I, 12 marzo 2010, n. 82, in www.giustizia-amministrativa.it.
(12) Al riguardo, occorre tuttavia precisare che – come si è rilevato (si v. A. Maltoni,
Il trasferimento di diritti edificatori: profili pubblicistici, in questa Rivista, 2012 in particolare 558 s. e 554 s.) – nella legislazione regionale sono individuabili differenti tipologie di
diritti edificatori: quelli perequativi, quelli assegnati in funzione compensativa-espropriativa, quelli, talvolta denominati come crediti edilizi o incentivi volumetrici aggiuntivi, attribuiti in funzione premiale. Tuttavia, non sempre il riconoscimento di diritti edificatori
configura uno scambio (recte: quelli perequativi riconosciuti direttamente dagli strumenti
urbanistici ai proprietari delle aree di trasformazione), oppure costituisce il corrispettivo
di un appalto pubblico. Come abbiamo rilevato, vi sono ipotesi, disciplinate dalla leggi regionali, nelle quali gli accordi tra p.a. e privati – che prevedono l’attribuzione a questi ultimi di diritti edificatori aggiuntivi rispetto a quelli previsti dagli strumenti di piano in cambio dell’assunzione da parte dei medesimi dell’impegno a realizzare interventi di riqualificazione, recupero paesaggistico, ambientale, ecc. – pur configurando un rapporto di scambio non sono ascrivibili al genus “appalti pubblici di lavori”, in ragione del fatto che detti
interventi sono propriamente qualificabili come lavori edilizi privati.
238
parte II
scomputo, alla medesima non è applicabile la disciplina del Codice dei contratti, in ragione del fatto che non viene pattuita una
controprestazione, e dunque risulta assente il carattere di onerosità della prestazione (13), essenziale ai fini della configurabilità della fattispecie dell’appalto pubblico (14).
Sotto altro profilo, deve porsi in rilievo come siano riconducibili a quest’ultima categoria tutti gli accordi convenzionali, comunque denominati – nei quali sia individuabile il predetto scambio
– conclusi tra amministrazioni e soggetti privati, i quali siano tenuti ad affidare la realizzazione delle opere nel rispetto di procedure selettive pubbliche, ad eccezione delle ipotesi nelle quali siano stati stipulati “accordi complessi” «in seguito a procedura di
evidenza pubblica originaria per la scelta del privato sottoscrittore dell’accordo, nel qual caso non è richiesta una gara di “secondo livello” per la scelta dell’esecutore delle opere» (15). Si deve, al
riguardo, tener conto che, ai fini dell’applicazione della disciplina del Codice dei contratti pubblici rileva il fatto che nell’ambito
di operazioni urbanistiche complesse siano individuabili non soltanto interventi edilizi privati, ma anche la realizzazione di un’opera o di lavori riconducibili ad una delle fattispecie dal medesimo Codice disciplinate (16).
(13) In tal senso M.A. Quaglia, op. cit., 122 s. In tema si v. anche, ex multis: D.M. TraiLa realizzazione delle opere di urbanizzazione: le principali problematiche applicative dopo il terzo correttivo del codice dei contratti pubblici, in Riv. giur. ed., 2009, 39 s.; A. Borella,
L’esecuzione delle opere di urbanizzazione ed il Codice dei contratti pubblici, in Riv. trim. app.,
2011, 30 s.; V. Gastaldo, Opere integrative previste nella convenzione urbanistica e necessità di una procedura ad evidenza pubblica per la loro realizzazione, in Urb. app., 2013, 503 s.
na,
(14) Si v. anche Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2003, n. 86, in www.giustizia-amministrativa.it, nella quale si è escluso che la disciplina europea in tema di appalti pubblici
trovi applicazione laddove le opere pubbliche siano realizzate non a scomputo bensì a titolo di liberalità.
(15) Si v. AVCP, determinazione 2 aprile 2008, n. 4, la determinazione 16 luglio 2009 n.
7, in www.avcp.it, nonché per un richiamo alla stessa determinazione, si v. Corte dei conti
sez. contr. Lombardia, 15 settembre 2008, n. 66, in www.corteconti.it.
(16) Un’ipotesi di tal fatta era individuabile nella convenzione conclusa tra il Comune di Roanne e una società di economia mista dal medesimo partecipata (la SEDL), avente ad oggetto la realizzazione globale di un progetto urbanistico, nell’ambito del quale soltanto la costruzione di un parcheggio, destinato ad essere ceduto dopo la costruzione al
Comune, configurava un appalto pubblico di lavori. Come sottolineato dai giudici europei
(si v. Corte di Giustizia Ce, sez. I, sent. 18 gennaio 2007, in causa C-220/05, in www.curia.
eu), nel caso di specie, tuttavia, in base alle disposizioni della convenzione, la SEDL riceveva un importo dal Comune di Roanne come corrispettivo della cessione del parcheggio,
la medesima società aveva diritto a incassare da terzi il corrispettivo della cessione delle
opere realizzate (i.e. quelle diverse dal parcheggio non qualificabili come opere pubbliche)
dottrina
239
In definitiva, occorre accertare se nell’accordo siano rinvenibili tutti gli elementi che identificano la nozione di appalto pubblico di lavori, tra cui il carattere oneroso del medesimo. Come
hanno puntualizzato i giudici di Lussemburgo, ai fini dell’accertamento del predetto carattere occorre valutare se, con riferimento
alla prestazione dedotta nel contratto, sussista un interesse economico diretto dell’amministrazione aggiudicatrice; interesse che
risulta, segnatamente, configurabile ogni qual volta l’amministrazione divenga proprietaria dei lavori o dell’opera, ovvero disponga
di un titolo giuridico che le garantisce la disponibilità delle opere
in vista della loro destinazione pubblica, ovvero tragga vantaggi
dal futuro utilizzo o dalla futura cessione dell’opera, come conseguenza della sua partecipazione dal punto di vista finanziario alla realizzazione dell’opera o dei rischi che essa assume in caso di
fallimento economico della medesima (17).
Come si può notare, la nozione accolta dalla giurisprudenza
europea è piuttosto ampia, rendendo riferibile il concetto di opera
o lavori pubblici anche ad opere destinate a rimanere di proprietà
privata ma funzionalmente destinate, in base ad un apposito titolo giuridico, a soddisfare finalità collettive. Detta nozione, in definitiva, consente – come era già stato evidenziato soprattutto dal
giudice delle leggi – di assimilare la realizzazione di opere di interesse pubblico, non destinate ad essere cedute all’amministrazione, alle opere “pubbliche” di urbanizzazione secondaria e primaria, che invece entrano a fare parte del patrimonio comunale.
Peraltro, come ha posto in rilievo la giurisprudenza amministrativa, le regole europee a tutela della concorrenza nell’affidamento
degli appalti operano anche allorquando «la finalità di riorganizzazione urbanistica ha importanza pari o superiore rispetto all’esigenza di eseguire opere pubbliche onde la trasformazione urbanistica si separa dall’utilità economica corrispondente all’esecuzione
ed il Comune si impegnava a partecipare alle spese di tutte le opere da realizzare. Da tali
elementi, ad avviso della Corte di Giustizia, si desumeva, per un verso, come gli elementi
di servizi previsti dalla convenzione, quali l’acquisto fondiario, la ricerca dei finanziamenti, l’organizzazione di un concorso di architettura e/o di ingegneria, nonché la commercializzazione degli immobili fossero da considerare parte del compimento dell’opera pubblica, per l’altro, che la realizzazione di interventi edilizi non annoverabili nel genus appalto
pubblico di lavori da cedere a terzi era comunque funzionale a remunerare l’appaltatore.
(17) Si v. Corte di Giustizia, sez. III, 25 marzo 2010, in causa C-451/08, in www. curia.europa.eu.
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parte II
dei lavori, nel senso che la prima (trasformazione urbanistica) rimane in capo al partner individuato senza gara dall’amministrazione, mentre la seconda (utilità economica corrispondente all’esecuzione dei lavori) diviene un bene autonomo da attribuire mediante gara pubblica » (18).
Occorre tuttavia sempre tener presente che le regole poste a
tutela della concorrenza per l’affidamento di appalti pubblici sono applicabili soltanto allorquando, nell’ambito di un programma complesso o di una convenzione urbanistica volta a disciplinare l’insieme degli interventi urbanizzativi di trasformazione delle
proprietà fondiarie in proprietà edilizie ovvero di trasformazione
dei beni già edificati, sia contemplata la realizzazione di interventi cui sia riferibile il predetto concetto di opera o lavori pubblici.
Come è stato ben illustrato dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, il processo di assimilazione di determinati interventi urbanistici qualificabili come di interesse pubblico – non destinati a far parte del patrimonio del Comune – alle opere di urbanizzazione è dovuto essenzialmente al fatto che, ove non si ritenessero dette fattispecie a queste ultime equiparate, « si dovrebbe
optare per la pedissequa applicazione della disciplina relativa alla scelta del contraente e ciò renderebbe concretamente non praticabile l’accordo complesso finalizzato alla trasformazione del territorio, con correlata disapplicazione della normativa di riqualificazione urbana e del territorio» (19).
A ben vedere, l’AVCP e la giurisprudenza amministrativa dalla
disciplina del Codice – che costituisce pur sempre una normativa
di derivazione europea – riguardante la realizzazione delle opere di urbanizzazione sono pervenute alla definizione di un nuovo
paradigma al fine di rendere conciliabile l’applicazione della normativa europea in tema di appalti pubblici di lavori con quella interna urbanistica che consente di addivenire all’individuazione in
via diretta dei soggetti privati, proprietari o titolari di altro diritto
reale immobiliare sulle aree oggetto di trasformazione, con i quali concludere gli accordi o le convenzioni urbanistiche.
In altri termini, la disciplina sulla realizzazione delle opere
di urbanizzazione – che è una disciplina “minima” sull’evidenza
(18) Si v. T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 15 gennaio 2008, n. 7, e conformemente T.a.r.
Emilia Romagna, Parma, sez. I, 12 marzo 2010, n. 82, in www.giustizia-amministrativa.it.
(19) Si v. AVCP, determinazione 2 aprile 2008, n. 4, cit.
dottrina
241
pubblica, essendo destinata ad essere applicata, in via ordinaria,
da parte di privati che agiscono nella veste di soggetti aggiudicatori – finisce per costituire un nuovo paradigma, nel senso che è
destinata a trovare applicazione ogni qual volta alla disciplina urbanistica, come quella riguardante programmi complessi (ad es.:
piani di riqualificazione urbana, piani integrati di intervento), sia
destinata a sovrapporsi quella di matrice europea sull’affidamento di appalti pubblici di lavori, in ragione del fatto che sono contemplati interventi ascrivibili a quest’ultima fattispecie. In ipotesi di tal fatta, è proprio il descritto paradigma a rendere possibile
«la coesistenza ordinamentale dei due ordini di regolamentazione, con salvezza, … dei principi in materia di concorsualità» (20).
Si consideri, infatti, che nelle ipotesi in cui la giurisprudenza
ha, in via interpretativa, esteso l’applicazione della “disciplina speciale” riguardante le opere di urbanizzazione alla realizzazione di
opere diverse, ma alle stesse assimilabili in quanto riconducibili
alla nozione di lavori pubblici, ciò ha comportato sempre la sottoposizione di soggetti privati/aggiudicatori al rispetto di procedure di evidenza pubblica. Là dove, invece, a dette ipotesi si dovesse ritenere che trovi applicazione la disciplina generale del Codice dei contratti, il privato con il quale concludere la convenzione
urbanistica non potrebbe più essere chiamato ad agire in qualità
di soggetto aggiudicatore/appaltante, individuato direttamente, atteso che il medesimo dovrebbe essere selezionato come aggiudicatario in esito ad una procedura di evidenza pubblica.
A questo riguardo, occorre considerare che le modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione possono essere due. Oltre,
infatti, all’ipotesi ordinaria, nella quale il privato attuatore dell’intervento urbanistico svolge il ruolo di stazione appaltante, il Codice prevede altresì, quale ipotesi eventuale – che deve essere contemplata nella convenzione di lottizzazione o in altra convenzione urbanistica – che il privato attuatore possa presentare all’Amministrazione, in sede di richiesta del permesso di costruire o nella proposta di piano di lottizzazione, un progetto preliminare delle opere, con indicazione del tempo massimo di realizzazione delle stesse e con allegato lo schema di contratto di appalto, al fine
di consentire alla medesima amministrazione di indire una procedura di evidenza pubblica per l’individuazione dell’appaltatore,
(20) Si v. sempre AVCP, determinazione 2 aprile 2008, n. 4, cit.
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al quale spetta non soltanto eseguire i lavori ma anche provvedere alla progettazione definitiva ed esecutiva (21).
Ora, a prescindere dal fatto che tanto nella prima quanto nella seconda ipotesi il contratto di appalto debba essere stipulato dal privato
esecutore e dall’appaltatore – fermo restando che, almeno in quest’ultima ipotesi, sembrerebbe ipotizzabile anche un rapporto negoziale a tre (esecutore privato, appaltatore e Amministrazione comunale (22)) – quel che, in questa sede, interessa maggiormente porre in rilievo non è tanto l’esame delle questioni connesse alla possibile partecipazione del privato esecutore alla gara che sia indetta dal Comune, quanto le regole di evidenza pubblica che risultano applicabili.
In via preliminare, va osservato che, nella realizzazione delle
opere di urbanizzazione la disciplina “speciale” prevista dal Codice
dei contratti applicabile presenta delle lacune che debbono esser
colmate mediante specifiche disposizioni da prevedersi rispettivamente nella convenzione tra il privato esecutore e l’amministrazione comunale e nel contratto di appalto, tenuto conto che quest’ultima non sarà parte di detto contratto ove la procedura di evidenza pubblica sia indetta dal soggetto aggiudicatore privato (23).
Le regole alle quali è sottoposto, ex art. 32, comma 1, lett. g) del
Codice, il privato aggiudicatore nella selezione dell’appaltatore per
l’esecuzione di opere di urbanizzazione sopra soglia (24), in ragione delle esclusioni previste dal comma 2 dell’art. 32 cit. (25), sono
(21) Si tratterebbe di ipotesi eventuale in quanto, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett.
g) del Codice, il Comune “può” acconsentire al privato di presentare il progetto preliminare, si v. sul punto M.A. Quaglia, op. cit., 50.
(22) Si v. in tal senso il Documento ITACA approvato dalla Conferenza Stato-Regioni,
in data 7 novembre 2013, su “Strumenti a supporto delle amministrazioni comunali per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri”, in www.regioni.it.
(23) In particolare, come si è posto in rilievo nel Documento ITACA approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, in data 7 novembre 2013, “Strumenti a supporto delle amministrazioni
comunali per la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri”, cit. 24,
per un verso, l’atto di obbligo accessorio al permesso di costruire (allorquando siano realizzati interventi diretti), ovvero la convenzione di lottizzazione o di altro piano attuativo deve contenere l’espresso ed aggiuntivo impegno ad applicare, nell’esecuzione delle opere, le speciali
disposizioni del Codice, per l’altro, nel contratto di appalto debbono essere richiamate le previsioni contenute nell’atto di obbligo o nella convenzione urbanistica stipulata col Comune.
(24) Nell’ipotesi che sia, invece, l’amministrazione a indire la procedura di gara, sulla base della presentazione da parte del privato esecutore del progetto preliminare, trovano applicazione le regole ordinarie del Codice sull’affidamento di appalti pubblici di lavori.
(25) A norma del comma 2 dell’art. 32 del Codice, ai soggetti privati aggiudicatori non
si applicano gli artt. 63, 78, comma 2, 90, comma 6, 92, 128, ed, inoltre, alla fase di esecuzione del contratto trovano applicazione soltanto le disposizioni che disciplinano il collaudo.
dottrina
243
rivolte ad assicurare una serie di garanzie essenziali, individuabili, segnatamente, in quelle disposizioni del Codice che disciplinano le varie tipologie contrattuali (si v. l’art. 53, comma 2 del Codice), le modalità di pubblicazione del bando (si v. gli artt. 66 e
67 del Codice), i termini di presentazione delle richieste di invito,
delle offerte e del loro contenuto (si v. gli artt. 70-72 del Codice), i
criteri di aggiudicazione (si v. l’art. 81 del Codice).
Giova rilevare, a questo riguardo, che l’estensione dell’applicazione della disciplina “speciale” sulla realizzazione di opere di urbanizzazione sopra soglia ad opere che sono state considerate assimilabili a queste costituisce una forzatura. Se la ratio che ha indotto la giurisprudenza, anche costituzionale, ad estendere l’applicazione della
disciplina speciale sulle opere di urbanizzazione alla realizzazione di
lavori pubblici a queste assimilabili è individuabile, come si è rilevato, nell’esigenza di rendere compatibile l’applicazione della normativa europea in tema di appalti pubblici di lavori con la scelta in via
diretta dei soggetti privati con i quali addivenire alla conclusione di
accordi o convenzioni urbanistiche – evitando la disapplicazione della normativa urbanistica che la consente – non sono però rinvenibili
sufficienti basi giuridiche a fondamento della stessa.
Innanzitutto, la disciplina sulle opere di urbanizzazione presenta caratteri di specialità – sol che si ponga mente al fatto che
si deve trattare di opere realizzate a scomputo totale o parziale
del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire –
rispetto a quella sull’affidamento di appalti pubblici prevista dal
Codice. Inoltre, occorre tener conto che le ipotesi nelle quali sono conferite funzioni pubbliche a soggetti privati, i.e. quelle nelle
quali i medesimi agiscono come soggetti aggiudicatori, sono quelle
previste dall’ordinamento, in ossequio al principio di legalità (26).
In terzo luogo, nelle ipotesi considerate assimilabili alle opere di
urbanizzazione, dalla giurisprudenza e dall’Autorità di vigilanza
(26) Come si è argomentato in altra sede, in tale ipotesi è la legge a investire direttamente i soggetti privati della titolarità di funzioni pubbliche e non l’amministrazione in
base ad un atto amministrativo, la cui adozione sia autorizzata dalla legge, sul punto sia
consentito rinviare a A. Maltoni, Il conferimento di potestà pubbliche ai privati, cit. 251 s.,
passim. In senso conforme: AVCP, determinazione 12 luglio 2009, n. 7. In senso conforme
ritiene che il privato titolare del permesso di costruire sia tenuto ad indire la procedura
di evidenza pubblica non in quanto mandatario dell’amministrazione bensì come titolare
della funzione di stazione appaltante, R. Travaglini, Le opere di urbanizzazione a scomputo alla luce del terzo decreto correttivo del codice dei contratti, in I contratti Stato e degli enti pubbl., 2008, 331.
244
parte II
sui contratti pubblici, non si è tenuto conto che queste ultime, diversamente dalle prime, sono destinate ad essere cedute all’amministrazione comunale. Con riguardo ai casi summenzionati, deve
porsi in rilievo come le opere realizzate, considerata la destinazione pubblica delle stesse, assicurata dalla sussistenza di un apposito titolo giuridico, i.e. una convenzione stipulata dall’amministrazione e dal privato proprietario, fossero certamente qualificabili come lavori pubblici dal punto di vista oggettivo. Tuttavia, ai
fini della configurabilità di un appalto pubblico, com’è noto, deve
sussistere anche l’elemento soggettivo, rectius il soggetto affidante deve essere qualificabile come amministrazione aggiudicatrice
o ente o soggetto aggiudicatore.
Come è noto, le ipotesi in cui i privati agiscono come soggetti
o enti aggiudicatori sono quelle e soltanto quelle individuate dal
Codice dei contratti. Tenuto conto che gli appalti che vengono qui
in rilievo sono quelli dei settori ordinari, deve concludersi che le
fattispecie da considerare sono essenzialmente quelle enumerate
all’art. 32, comma 1, del Codice.
Con riferimento alle ipotesi che sono state ritenute assimilabili alle opere di urbanizzazione, va rilevato come le medesime, a
ben vedere, appaiano inquadrabili in un’altra fattispecie, segnatamente quella prevista dall’art. 32, comma 1, lett. d), cit. Si consideri, infatti, che i casi nei quali, ad avviso della Corte costituzionale, doveva trovare estensiva applicazione la disciplina sulle opere
di urbanizzazione, erano disciplinati da norme regionali che contemplavano la possibilità per i proprietari di un’area, gravata da
vincolo preordinato all’espropriazione, di realizzare direttamente le attrezzature ed i servizi pubblici, previa stipula di una convenzione intesa a disciplinare le modalità di realizzazione e di gestione dell’opera realizzata da parte dei medesimi privati. In dette
ipotesi, in definitiva, la proprietà delle aree e delle opere realizzate rimaneva privata, l’amministrazione veniva esentata dalla corresponsione dell’indennità di esproprio cui sarebbe stata tenuta
in virtù del conseguimento della destinazione pubblica delle stesse opere, la realizzazione di queste ultime era finanziata mediante
la gestione da parte dei privati dei servizi e delle attrezzature realizzate (i.e.: dagli utenti) e, di conseguenza, ai medesimi erano attribuito diritti suscettibili di valutazione economica.
Se, come si è chiarito – laddove le opere realizzate rimangano
dottrina
245
di proprietà dei privati e queste siano finanziate in misura maggioritaria da un’amministrazione aggiudicatrice, ovvero dagli utenti del servizio (cui le opere risultano strumentali) (27), espletato in
sostituzione di un’amministrazione aggiudicatrice, i lavori appaltati da tali privati sono da ricondurre alla fattispecie di cui all’art.
32, comma 1, lett. d), cit. e non a quella di cui alla lett. e) del medesimo articolo (i.e.: la realizzazione di opere di urbanizzazione).
In quest’ultima ipotesi, infatti, le opere realizzate sono trasferite
all’amministrazione comunale e le stesse debbono essere scomputate da quanto dovuto come contributo per il pagamento dei relativi oneri. Diversa, come si è visto, è l’ipotesi in cui un soggetto
privato, non qualificabile come amministrazione aggiudicatrice,
risulti destinatario di un finanziamento pubblico, posto che soltanto laddove questo sia prevalente (ma potrebbe anche essere totalitario) il soggetto privato individuato direttamente – in base al
paradigma di cui si è detto – è sottoposto ex lege al rispetto di procedure di evidenza pubblica nell’affidamento di appalti di lavori.
Nella prospettiva che si è indicata non dovrebbe dunque considerarsi come avente carattere vincolante l’indicazione contenuta nel
Codice circa le modalità di finanziamento per la realizzazione di
opere private a destinazione pubblica, o meglio l’erogazione di un
contributo diretto e specifico in conto interessi o in conto capitale
dovrebbe essere considerata surrogabile con l’attribuzione di un
altro vantaggio economicamente equiparabile, costituito, ad esempio, dall’affidamento della gestione del servizio pubblico inerente
all’opera, sempre che detto scambio sia specificamente disciplinato da apposita convenzione. Tuttavia, ai fini della configurabilità
(27) Si consideri che per i giudici europei ai fini della configurabilità di un rapporto
in house providing appare indifferente chi remunera le prestazioni erogate dall’impresa affidataria di appalti o concessioni (recte: se sia un’amministrazione aggiudicatrice controllante ovvero terzi utenti), si v. Corte di Giustizia, sez. I, 11 maggio 2006, in causa C-340/04,
in www. curia.europa.eu., nonché più di recente l’art. 17 della direttiva 2014/23/UE sui contratti di concessione che nel considerare le attività svolte a favore dell’ente o degli enti controllanti fa riferimento ai compiti affidati al soggetto affidatario, di fatto confermando sul
punto quanto già statuito dai giudici di Lussemburgo. Ne consegue che non sembrano rilevare le modalità attraverso le quali viene assicurato il finanziamento per la realizzazione di opere pubbliche da parte di un privato, individuato in via diretta in quanto proprietario delle aree e col quale sia stata stipulata un’apposita convenzione urbanistica. In altri
termini, detto finanziamento invece che essere corrisposto direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice potrà essere ottenuto da terzi utenti, ogni qual volta al privato sia attribuito un diritto di gestione di determinati servizi inerenti alle opere realizzate sulle aree
di cui il medesimo è proprietario o ha la disponibilità.
246
parte II
della fattispecie de qua occorre che ricorrano gli altri requisiti individuati dall’art. 32, comma 1, lett. d) cit., segnatamente: i lavori siano annoverabili tra quelli espressamente indicati e l’importo
degli stessi sia superiore al milione di euro.
Rimane da precisare che, con riferimento alle opere erroneamente equiparate alle opere di urbanizzazione, la disciplina applicabile ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. d) cit. riguarda soltanto
la realizzazione di opere per importi superiori al milione di euro,
tenuto conto che quelle al di sotto di tale soglia sono realizzabili direttamente dal privato esecutore, senza che questi debba indire una procedura di evidenza pubblica per l’aggiudicazione dei
lavori necessari.
2. – Per quanto attiene agli interventi di valore inferiore alla
soglia europea con il terzo correttivo al Codice dei contratti pubblici (28) si erano individuate modalità di affidamento comuni con
riferimento alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e di quelle di urbanizzazione secondaria, prevedendosi, in particolare, all’art. 122 del Codice (29) quale procedura di aggiudicazione quella negoziata, senza previa pubblicazione di un bando e
(28) Per un’analisi delle disposizioni del Terzo decreto correttivo al Codice riguardanti le opere di urbanizzazione, si v. ex multis: R. Travaglini, Le opere di urbanizzazione a
scomputo alla luce del terzo decreto correttivo del codice dei contratti, cit., 295 s.; E. Mele,
Le principali novità del terzo decreto correttivo al codice dei contratti. Il decreto legislativo n.
152/2008, in Riv. giur. ed., 2008, 118 s.; R. De Nictolis, Le novità del terzo (e ultimo) decreto correttivo del codice dei contratti pubblici, in Urb. app., 2008, 1225 s., nonché A. Mandarano, Opere di urbanizzazione a scomputo e principio di concorrenza, ivi, 1367 s.; G. Giovannelli, D. Lastraioli, Il nuovo regime di realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo oneri: problematiche e possibili soluzioni, in Riv. giur. ed., 2008, 253 s.; D.M. Traina,
La realizzazione delle opere di urbanizzazione: le principali problematiche applicative dopo
il terzo correttivo del codice dei contratti pubblici, in www.giustamm.it, n. 4/2009; R. Gisondi, Convenzioni urbanistiche e disciplina degli appalti pubblici alla luce del terzo correttivo
al decreto legislativo 163 del 2006, ivi; S. Villamena, Scomputo degli oneri in cambio di opere: il sinallagma funzionale pubblico-privato assorbito dall’evidenza pubblica, ivi; L. Fiorentino, Il terzo decreto correttivo del codice dei contratti, in Giorn. dir. amm., 2009, 364 s.; M.
Di Carlo, L’affidamento dei lavori aventi ad oggetto opere di urbanizzazione a scomputo dopo il d.lgs. 11 settembre 2008, n. 152, in Riv. trim. app., 2009, 736; R. Damonte, Le opere di
urbanizzazione a scomputo nella morsa della disciplina comunitaria, in Riv. giur., ed., 2009,
111 s.; V. Gastaldo, Le opere realizzate a scomputo degli oeneri di urbanizzazione: un cantiere ancora aperto, ivi, 2010, 25 s.
(29) Ai sensi del comma 8 dell’art. 122 del Codice, “per l’affidamento dei lavori pubblici di
cui all’articolo 32, comma 1, lettera g), si applica la procedura prevista dall’articolo 57, comma
6; l’invito è rivolto ad almeno cinque soggetti se sussistono in tale numero aspiranti idonei”.
dottrina
247
con invito rivolto a cinque soggetti adeguatamente qualificati (30).
Detto processo di equiparazione era stato indotto dall’erronea convinzione del legislatore che la giurisprudenza europea nella realizzazione delle opere di urbanizzazione sotto soglia – sul presupposto che sono opere pubbliche – l’esecutore fosse sempre tenuto ad osservare i principi del diritto europeo (31). In realtà, la Corte di Giustizia aveva stigmatizzato il fatto che il legislatore italiano non avesse previsto alcuna regola volta ad assicurare la trasparenza nell’affidamento di appalti pubblici inerenti alla realizzazione di opere di urbanizzazione di valore inferiore alla soglia europea, eseguite dal titolare di un permesso di costruire o di un piano di lottizzazione approvato, nel caso in cui fosse dimostrata l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo (32).
Al fine di superare un’interpretazione considerata troppo restrittiva, con il Decreto Salva Italia si è delineato un diverso regime limitatamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria sotto soglia. In particolare, l’art. 16, comma 2-bis, d.P.R.
n. 380 del 2001, come modificato dall’art. 45, comma 1, l. n. 214
del 2011, stabilisce che “Nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione
diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di
importo inferiore alla soglia di cui all’articolo 28, comma 1, lettera
c), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto
legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.
(30) Per una critica alla previsione riguardante la summenzionata procedura semplificata di affidamento degli appalti di lavori, in quanto ritenuta contraria ai principi europei applicabili agli appalti sotto soglia, tra i quali si annovera anche quello di pubblicità,
da cui deriverebbe l’obbligo di previa pubblicazione di un bando di gara, si v. R. Travaglini, Le opere di urbanizzazione a scomputo alla luce del terzo decreto correttivo del codice
dei contratti, cit., 339 e G. Giovannelli, D. Lastraioli, Il nuovo regime di realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo oneri: problematiche e possibili soluzioni, cit. 253 s.
(31) Cfr. A. Mandarano, Opere di urbanizzazione a scomputo e principio di concorrenza,
cit., 1372. I giudici di Lussemburgo in decisioni non riguardanti specificamente le opere di
urbanizzazione si erano limitati a statuire che, sebbene taluni contratti siano esclusi dalla
sfera di applicazione delle direttive comunitarie nel settore degli appalti pubblici, «le amministrazioni aggiudicatrici che li stipulano sono cionondimeno tenute a rispettare i principi
fondamentali del Trattato» (si v. ex multis: Corte di Giustizia, sez. VI, 7 dicembre 2000, in
causa C-324/98, nonché sez. II, 3 dicembre 2001, in causa C-59/00, in www.curia.europa.eu).
(32) Si v. Corte di Giustizia, 21 febbraio 2008, in causa C-412/04, in www.curia.europa.eu.
248
parte II
Con tale nuova previsione normativa si è dunque stabilito che,
nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti, nonché degli interventi di diretta attuazione dello strumento urbanistico, le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia a scomputo, allorquando siano “funzionali all’intervento di trasformazione
urbanistica del territorio” (33), sono realizzabili direttamente dai
soggetti attuatori di piani urbanistici o titolari di un permesso di
costruire. In altri termini, la nuova disposizione sottrae la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria sotto soglia al regime proprio delle opere pubbliche (34). Secondo una parte della
dottrina, il legislatore avrebbe preso atto che l’esecuzione diretta
da parte del titolare del piano attuativo o del titolo edilizio di opere di urbanizzazione primaria, funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio, non può essere ricondotta, né
assimilata, alle obbligazioni deducibili in un contratto d’appalto
tra l’amministrazione e il titolare del permesso di costruire, posto
che ne difetterebbero i necessari elementi costitutivi (35). Riesce,
tuttavia, difficile pensare che il legislatore, sottoponendo ad un
diverso regime soltanto le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia, sia pervenuto ad accogliere una configurazione diversa
rispetto al passato della realizzazione di questo tipo di opere, posto che, diversamente, non si comprenderebbe perché per quelle
(33) Si è al riguardo osservato che il requisito della “funzionalità” rischia di essere ridondante, in ragione del fatto che è tratto comune a tutte le opere di urbanizzazione primaria, si v. R. Travaglini, Annotazioni critiche sul documento ITACA – Conferenza delle Regioni “Realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri”, in www.venetoius.it. Come ha riconosciuto anche l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (si v.
AVCP, deliberazione n. 46 del 3 maggio 2012, in www.avcp.it), le opere di urbanizzazione
primaria hanno una funzione servente rispetto ai singoli organismi edilizi, in quanto ne
garantiscono le condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi indispensabili alla civile convivenza.
(34) In tal senso si v. anche AVCP, deliberazione n. 46 del 3 maggio 2012, cit., ove si rileva che, mentre l’art. 5, comma 2, lett. a) d.l. n. 70 del 2011 – che non venne però confermato dalla legge di conversione – prevedeva che per l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria non trovava applicazione il solo art. 122, comma 8 del Codice, nella versione attualmente vigente dell’art. 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001 si esclude
espressamente l’applicazione del Codice dei contratti nel suo complesso.
(35) In tal senso R. Travaglini, Annotazioni critiche sul documento ITACA – Conferenza delle Regioni “Realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri”,
cit. Più in generale, per una serrata critica in ordine all’impostazione accolta dalla Corte
di Giustizia a partire dal caso Bicocca che qualifica le opere di urbanizzazione come opere
pubbliche, si v. F. Dallari, Le opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione, in F. Mastragostino (a cura di), La collaborazione pubblico-privato e l’ordinamento amministrativo. Dinamiche e modelli di partenariato in base alle recenti riforme, Torino, 2011, 415 s., spec. 438 s.
dottrina
249
sopra soglia si sia invece mantenuta l’assimilazione alle opere di
urbanizzazione secondaria in ordine alle modalità di affidamento. Appare più plausibile che il legislatore italiano abbia semplicemente inteso prendere atto che appare conforme al diritto europeo un’interpretazione meno restrittiva di quella accolta con il
terzo decreto correttivo. Tale intervento legislativo non ha tuttavia
chiarito se la soglia di rilevanza europea coincida o meno con quella inerente alla sussistenza di un interesse transfrontaliero certo
nella realizzazione di opere di urbanizzazione primaria. Al fine di
superare la possibile obiezione secondo cui la modifica apportata dalla recente novella non sarebbe conforme al diritto europeo,
ITACA, organo tecnico della Conferenza Stato-Regioni, ha accolto
una interpretazione diversa da quella prospettata dall’Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici con riferimento all’art. 16, comma
2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001 (36). Si è sostenuto, in particolare, che
nell’esecuzione di opere di urbanizzazione primaria sotto soglia,
ma di valore superiore al milione di euro, non trova applicazione
la disciplina di cui all’art. 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001,
bensì quella dettata dall’art. 122, comma 8, del Codice (i.e. la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando). In altri termini, dal momento che il Codice dei contratti, recependo un
orientamento dei giudici europei in relazione all’esclusione automatica delle offerte anomale, considera come aventi un impatto
transfrontaliero gli appalti pubblici di importo pari o superiore a
un milione di euro, si è ritenuto, per analogia, che, al ricorrere di
tale condizione, il predetto impatto sia riferibile anche alle opere
di urbanizzazione primaria. Muovendo da tali premesse, si è pervenuti alla conclusione che agli affidamenti inerenti alla realizzazione di tali opere di urbanizzazione, il cui valore sia compreso
tra un milione di euro e l’importo fissato per la soglia di rilevanza
europea, trovino applicazione i principi richiamati dall’art. 27 del
Codice sui contratti esclusi. A ben vedere, l’interpretazione proposta da ITACA più che essere “comunitariamente orientata” pare
doversi considerare praeter legem, posto che né il Codice dei contratti, né tanto meno il Testo unico dell’edilizia individuano una
(36) Si v. il Documento ITACA approvato dalla Conferenza Stato-Regioni, in data 7
novembre 2013, “Strumenti a supporto delle amministrazioni comunali per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione a scomputo dei relativi oneri”, cit., 17 s.
250
parte II
soglia ai fini dell’individuazione dell’interesse transfrontaliero con
riguardo alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria.
Peraltro, come è stato posto in rilievo dalla Corte di Giustizia,
se «una normativa può certamente stabilire, a livello nazionale o
locale, criteri oggettivi che indichino l’esistenza di un interesse
transfrontaliero certo», là dove questa non sia rinvenibile «spetta in linea di principio all’amministrazione aggiudicatrice interessata valutare, prima di definire le condizioni del bando di appalto, l’eventuale interesse transfrontaliero di un appalto il cui
valore stimato [sia] inferiore alla soglia prevista dalle norme comunitarie, fermo restando che tale valutazione può essere oggetto di controllo giurisdizionale» (37). In mancanza, dunque, di una
previsione di legge che determini le condizioni al ricorrere delle
quali deve ritenersi sussistente l’interesse transfrontaliero, l’individuazione in via interpretativa di una soglia al di sopra della
quale, a prescindere dalle condizioni concrete di realizzazione
delle opere, debba presumersi l’esistenza di detto interesse, appare una forzatura (38).
Peraltro, l’applicazione in via interpretativa dell’art. 27 del Codice avrebbe l’effetto di sottoporre al rispetto di procedure di evidenza pubblica di soggetti privati che non vi sono tenuti in base
ad una previsione di legge. Deve, infatti, porsi in rilievo che, come ha riconosciuto la Corte di Giustizia, le amministrazioni aggiudicatrici – ma non anche soggetti privati che tale qualificazione non abbiano – sono tenute al rispetto dei principi fondamentali
del Trattato nell’affidamento dei contratti esclusi dalla sfera di applicazione delle direttive nel settore degli appalti pubblici (39). Come peraltro si è già posto in rilievo, la disciplina del Codice inerente alla realizzazione di opere di urbanizzazione sia sopra che
sotto soglia (limitatamente alle opere di urbanizzazione secondaria), prevede, quale ipotesi ordinaria, che sia appunto il privato attuatore dell’intervento urbanistico a svolgere il ruolo di stazione
(37) Si v. Corte di Giustizia, sez. IV, 15 maggio 2008, nelle cause C- 147/06 e C‑148/06,
in www.curia.europa.eu.
(38) In termini non dissimili anche R. TRAVAGLINI, Annotazioni critiche sul documento ITACA, cit., 8 s.
(39) Si v. ex multis: Corte di Giustizia, sez. VI, 7 dicembre 2000, in causa C-324/98,
sez. II, 3 dicembre 2001, in causa C-59/00, sez. III, 20 ottobre 2005, in causa C-264/03, sez.
I, 14 giugno 2007, in causa C-6/05, grande sezione, 13 novembre 2007, in causa C-507/03,
in www.curia.europa.eu.
dottrina
251
appaltante e, soltanto in via eventuale, che sia l’amministrazione
ad indire la procedura di evidenza pubblica sulla base di un progetto preliminare delle opere presentato dal privato realizzatore.
Peraltro, le ipotesi nelle quali i privati sono assoggettati al rispetto
delle disposizioni di derivazione europea e/o dei principi del diritto europeo debbono essere espressamente previste dalla legge, in
ossequio al principio di legalità. Al di fuori di dette ipotesi, i privati non sono infatti tenuti ad esercitare funzioni pubbliche (i.e.
ad agire come soggetti appaltanti) nella realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria sotto soglia.
Si potrà certamente criticare la scelta del legislatore di sottoporre ad un differente regime le opere di urbanizzazione primaria e quelle di urbanizzazione secondaria sotto soglia, ma occorre tener conto che non risulta ad oggi che sia stata avviata una
procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, né tanto meno
che i giudici di Lussemburgo si siano pronunciati su fattispecie
assimilabili.
In conclusione, i privati realizzatori delle opere di urbanizzazione primaria sotto soglia non sono assoggettati al rispetto di
alcuna procedura di evidenza pubblica ex art. 16, comma 2-bis,
d.P.R. n. 380 del 2001, posto che non trova neppure applicazione
l’art. 27 del Codice dei contratti, parimenti al caso in cui i medesimi realizzino opere di urbanizzazione non a scomputo ovvero
senza che sia previsto alcun corrispettivo.
Per quanto attiene, invece, alle opere private di interesse pubblico non destinate ad essere trasferite all’amministrazione comunale, con riferimento alle quali siano riconosciuti contributi pubblici, vale quanto già osservato, nel senso che soltanto quelle di importo superiore al milione di euro e sempre che ricorrano gli altri
presupposti previsti, sono da considerare riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 32, comma 1, lett. d) del Codice.
3. – Nei precedenti paragrafi sono state illustrate le ragioni sottese all’estensione delle regole dell’evidenza pubblica alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Si tratta ora di verificare se il confronto concorrenziale possa
assumere rilievo anche nell’ambito delle scelte di pianificazione
urbanistica compiute dagli Enti locali. In particolare, occorre verificare se, almeno in alcune parti del territorio comunale (quelle
252
parte II
non urbanizzate), lo ius aedificandi possa essere attribuito all’esito di un procedimento ad evidenza pubblica cui partecipano i diversi proprietari delle aree interessate (40).
Il profilo in esame, pur sprovvisto di una disciplina di carattere generale, sembra emergere, seppur sporadicamente, sia a livello di legislazione regionale in materia di governo del territorio che
a livello di regolamentazione urbanistica comunale.
Prima di procedere all’esame della normativa regionale e dell’orientamento finora espresso dal giudice amministrativo, v’è, tuttavia, da chiedersi se, in ipotesi, sia costituzionalmente legittima,
almeno in linea astratta, una regolamentazione statale dello stesso profilo.
In proposito, sembrerebbe potersi prospettare una risposta apparentemente positiva, ciò, innanzi tutto, in considerazione del
carattere trasversale che, notoriamente, riveste la ‘materia’ della
tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e, Cost.) (41), carattere tale da legittimare un intervento del legislatore nazionale
(40) Il riferimento è, appunto, alla dimensione dell’urbanistica concorsuale che, secondo la dottrina, «(…) è ormai percepibile nei numerosi casi in cui la scelta e l’attuazione dei piani – progetto, per le trasformazioni intensive, richiedono il confronto selettivo
tramite procedure ad evidenza pubblica o, secondo la terminologia comunitaria, del dialogo competitivo». Così, P. MANTINI, Dall’urbanistica per piani ed accordi al governo liberale del territorio per sussidiarietà e concorsualità, in Riv. giur. ed., 2013, 146. Il rilievo che
può assumere la (tutela della) concorrenza in relazione alle scelte di pianificazione affiora
anche dalla giurisprudenza amministrativa che ha vagliato, alla luce del diritto antitrust,
la possibilità di qualificare, alla stregua di un abuso di posizione dominante, una condotta di partecipazione ad un procedimento di pianificazione. Il riferimento è alla sentenza
del T.a.r. Lazio – Roma, sez. I, 2 agosto 2013, n. 7826 in www.giustizia-amministrativa.it;
per un commento adesivo a tale decisione si v. K. PECI, Pianificazione urbanistica e abuso di posizione dominante, in Giorn. dir. amm., 2014, 39 e ss. In particolare, con la sentenza citata, il giudice amministrativo ha annullato un provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti di un operatore economico dall’AGCM per abuso di posizione dominante
ravvisato nell’intervento dello stesso operatore in due procedimenti di pianificazione urbanistica nei quali era coinvolto un operatore economico concorrente. L’annullamento è
stato disposto non essendo stato ritenuto provato il nesso di causalità tra l’esercizio del
contraddittorio procedimentale e la mancata conclusione dei procedimenti di pianificazione in senso favorevole al concorrente dell’operatore economico che vi era intervenuto.
(41) La ‘trasversalità’ della tutela della concorrenza nel senso specificato nel testo è
stata ripetutamente sottolineata dalla Corte costituzionale: si v., tra le altre, le sent. n. 200
del 2012; n. 57 del 2007; n. 153 del 2006, in www.cortecostituzionale.it. Per l’individuazione dei limiti che il legislatore statale è comunque tenuto a rispettare pur nell’esercizio della competenza legislativa in materia di concorrenza, si v. Corte cost. sent. n. 272 del 2004
che com’è noto – li ravvisa nel criterio di adeguatezza ed in quello di proporzionalità, alla
cui stregua occorre valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi
o meno determinati interventi legislativi dello Stato.
dottrina
253
in tutti gli ambiti nei quali si configuri tale esigenza di tutela, in
funzione della maggior apertura al mercato di attività economiche ed imprenditoriali.
Ad un più attento esame, peraltro, può avanzarsi qualche dubbio in ordine alla corretta individuazione, secondo il criterio appena indicato, del titolo di legittimazione dell’intervento del legislatore statale anche in relazione al profilo de quo.
Nel caso di specie, infatti, il confronto concorrenziale, più che
essere preordinato a far sì che tutti gli operatori economici abbiano la possibilità di offrire sul mercato – a parità di condizioni – i
loro beni ed i loro servizi, appare finalizzato a garantire un miglior
uso del territorio e, con esso, indirettamente, anche la possibilità
per i Comuni di fornire, alle comunità di riferimento, quei servizi
pubblici che l’incapienza delle risorse pubbliche, altrimenti, non
consentirebbe di assicurare.
Sembra, allora, più congruente con le predette finalità configurare la concorrenza (rectius: la concorsualità) come “principio fondamentale” che il legislatore statale, in base all’art. 117, comma 3,
Cost., potrebbe dettare (anche) in relazione alla materia “governo
del territorio”, in quanto materia di legislazione concorrente (42) .
Peraltro, proprio con riguardo alla materia de qua e muovendo dal presupposto che l’assegnazione di volumetrie si configura,
in definitiva, alla stregua dell’attribuzione di un vantaggio economico, tale principio potrebbe ritenersi già desumibile dalla legislazione vigente ed, in particolare, dall’art. 12 della l. 241 del 1990
che – com’è noto – prevede, in generale, l’obbligo per le amministrazioni di predeterminare criteri e modalità cui si atterranno nella concessione di beni o risorse pubbliche (43).
Sotto altro profilo, è evidente che la concorsualità nell’ambito
in considerazione, pur rispondendo a finalità tutt’affatto diverse da
quelle cui risulta preordinato il procedimento di evidenza pubblica per le opere di urbanizzazione, dovrà, in ogni caso, essere declinata o direttamente dalla legislazione regionale o, in difetto di
(42) Secondo P. Mantini, Dall’urbanistica per piani ed accordi, cit., « sarebbe ipocrita disconoscere che la grave crisi finanziaria che attraversa il Paese e i comuni spin[ge], in particolare questi ultimi, ad utilizzare la leva dell’urbanistica come risorsa fondamentale per
i servizi pubblici e … tale radicata condotta non può certo dirsi coerente con la concezione
del diritto di costruire come riconoscimento di una facoltà inerente al diritto di proprietà ».
(43) Su cui v. amplius, infra § 4.
254
parte II
quest’ultima, dagli Enti locali nell’esercizio della loro potestà regolamentare in materia edilizia, nel rispetto delle regole che sono
immanenti in ogni procedimento di selezione, quali, tra gli altri,
l’immodificabilità della lex specialis in corso di gara, la parità di
trattamento tra tutti i concorrenti e la trasparenza.
Come si è già messo in rilievo, alcuni specifici riferimenti al
principio di concorsualità come strumento di pianificazione si rinvengono nella legislazione regionale concernente il governo del territorio e nella normativa urbanistica dettata dai Comuni.
Sotto il primo profilo, si deve richiamare la legge regionale della
Basilicata che, nell’ambito della disciplina delle finalità e dei contenuti della perequazione urbanistica (44), prevede che l’accordo
di tipo convenzionale su cui quest’ultima si basa ed avente ad oggetto la compensazione tra suolo ceduto o acquisito e diritti edificatori acquisiti o ceduti, può “… essere determinato come esito
di asta pubblica fra operatori, basata su condizioni di sostanziale
equilibrio fra la domanda e l’offerta di suolo oggetto di trasferimento di diritti edificatori” (45).
In tal caso, peraltro, come emerge dallo stesso contenuto della disposizione riportata, il procedimento di evidenza pubblica
non viene configurato come metodo di pianificazione alternativo
alla perequazione urbanistica, bensì come modalità di attuazione di quest’ultima.
Riferimenti analoghi a quello di cui si è dato conto non si rinvengono, ad oggi, nelle altre leggi regionali che pure hanno accolto il principio perequativo, con l’eccezione della l.r. n. 20 del 2000
(44) Com’è noto, il principio perequativo si basa sull’attribuzione di un indice edificatorio unico ed indifferenziato a tutti i suoli ricompresi in una zona territoriale unitaria, al
fine di garantire l’indifferenza delle posizioni proprietarie in tal modo beneficiate di quantità edilizie uniformi che prescindono dall’eventuale destinazione a standard delle singole
aree interessate. Si v., per questa definizione, ex multis, T.a.r. Lombardia, Milano, 16 aprile 2012 n. 1123, in www.giustizia-amministrativa.it. In giurisprudenza, si v. anche T.a.r. Veneto, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui «(…)
attraverso la perequazione urbanistica si persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno degli ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata». In dottrina, per un’analisi approfondita della perequazione urbanistica come tecnica di pianificazione si v. P. Urbani, Urbanistica solidale. Alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà e interessi pubblici, Torino, 2011 e
A. Bartolini, A. Maltoni (a cura di), Governo e mercato dei diritti edificatori, Napoli, 2009.
(45) Si v. l’art. 33, comma 4, della l.r. 11 agosto 1999 n. 23.
dottrina
255
dell’Emilia Romagna, laddove si prevede che, per selezionare gli
ambiti nei quali realizzare interventi di nuova urbanizzazione e di
sostituzione o riqualificazione tra tutti quelli individuati dal PSC,
il Comune può attivare un “concorso pubblico” (al quale possono
prendere parte i proprietari degli immobili situati negli ambiti individuati dal PSC, nonché gli operatori interessati a partecipare alla
realizzazione degli interventi) per valutare le proposte di intervento che risultano più idonee a soddisfare gli obiettivi e gli standard
di qualità urbana ed ecologico ambientale definiti dal PSC (46) .
Dal punto di vista della regolamentazione della fase concorsuale, la disposizione delle legge regionale dell’Emilia Romagna
si limita a dettare prescrizioni di carattere generale che dovranno
poi ricevere concreta attuazione da parte dei Comuni i quali decidano farvi ricorso. In tal caso, come già evidenziato, deve ritenersi che il ‘concorso pubblico’ debba almeno soggiacere alle regole fondamentali che governano qualsiasi procedimento ad evidenza pubblica.
Con riguardo all’individuazione dei parametri di valutazione
delle singole proposte presentate, anch’essa deve ritenersi rimessa alla scelta dell’Amministrazione comunale, sebbene la disposizione in esame sembri prefigurare come tali esclusivamente criteri di stampo qualitativo aventi, appunto, come termine di riferimento l’idoneità dei progetti presentati a soddisfare gli obiettivi e
gli standard di qualità urbana ed ecologico ambientale come definiti dal PSC. Sembrerebbe dunque potersi profilare l’illegittimità
di una disciplina comunale che non tenga conto di questo limite.
Oltre che a livello di legislazione regionale, anche a livello di
regolamentazione urbanistica comunale, non si è mancato di introdurre il confronto concorrenziale in funzione della pianificazione di alcune aree del territorio comunale.
È il caso del Comune di Quarrata, nel quale, peraltro, tale scelta, come ha avuto modo di evidenziare il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità di alcune previsioni del regolamento urbanistico di
detto Comune, è stata legittimamente compiuta in alternativa alla perequazione urbanistica (47).
(46) Per l’esame del rapporto tra la fase di selezione dei progetti e quella della stipula
dell’accordo pianificatorio si v. infra § 4.
(47) Si v. T.a.r. Toscana, sez. I, 14 febbraio 2011 n. 310, laddove si sottolinea come
256
parte II
In particolare, l’Ente locale ha qualificato talune aree comprese
nel proprio territorio come aree a “pianificazione differita”, ovvero non immediatamente edificabili a fini residenziali o produttivi
e, tuttavia, suscettibili di acquisire capacità edificatoria mediante una variante allo strumento urbanistico da adottare (ed approvare) all’esito di un confronto concorrenziale aperto a tutti i proprietari delle stesse aree, secondo la disciplina dettata dal regolamento urbanistico.
Sembra opportuno, innanzi tutto, sottolineare come siffatta
qualificazione non sia stata ritenuta dal Giudice amministrativo
in contrasto con il principio dell’inerenza dello ius aedificandi al
diritto di proprietà affermato dalla sentenza della Consulta n. 5
del 1980, sulla base del rilievo che la pianificazione differita non
comporterebbe un trattenimento del diritto in questione da parte
della Pubblica amministrazione, ma si configurerebbe come una
«diversa modulazione dell’esercizio della funzione pianificatoria»
in grado di assicurare, per il tramite del confronto concorrenziale,
il duplice obiettivo «(…) di rendere trasparenti le scelte pubbliche,
attraverso la predeterminazione dei criteri valutativi, e di realizzare quanto più possibile l’interesse pubblico, in linea quindi con
i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento».
Sotto il profilo in considerazione, dunque, il Giudice toscano
sembra muovere da un presupposto di segno diverso rispetto a
quello assunto da alcuni autori a proposito dell’inerenza del diritto
di edificare al diritto di proprietà: il primo, infatti, come si è visto,
ritiene che tale inerenza continui a sussistere pur a fronte di scelte
di pianificazione che, come quella adottata dal Comune di Quarrata, configurano il diritto di edificare come una “bene” conseguibile all’esito di una procedura ad evidenza pubblica. Al contrario,
una parte della dottrina, analizzando il fenomeno dell’urbanistica concorsuale, ravvisa diversi indici di superamento di tale inerenza, giungendo ad ipotizzare che, relativamente ai soli territori
non urbanizzati, l’edificazione sia “concessa” dal soggetto pubblico, sulla base di principi e regole di negoziazione (48).
l’istituto della “perequazione urbanistica”, pur previsto dalla legge regionale toscana n. 1
del 2005, non sia dalla stessa considerato come uno strumento obbligatorio cioè di necessaria utilizzazione per tutte le aree di trasformazione, di tal che il suo concreto utilizzo risulta rimesso agli strumenti di pianificazione territoriale.
(48) In questi termini, P. Mantini, op. ult. cit.
dottrina
257
L’impostazione accolta nella citata decisione appare, in linea
astratta condivisibile in quanto, a ben vedere, il regime applicabile alle aree a pianificazione differita non depriva l’interessato del
diritto di edificare ma, più precisamente, ne subordina l’esercizio
all’esito di una procedura selettiva. In questa prospettiva, l’assetto in esame non costituisce altro che una modalità di determinazione del ‘se’ dell’edificazione, determinazione che – come chiarito dal Giudice delle leggi – spetta alla Pubblica amministrazione.
D’altro canto, non può non tenersi conto del fatto – cui si è già
fatto cenno – che la stessa decisione ha considerato il regime applicabile alle aree a pianificazione differita come ‘alternativo’ alla
tecnica della perequazione urbanistica, prevista dalla legislazione regionale toscana.
Potrebbe argomentarsene che, nel caso di specie, la valutazione dell’inerenza del diritto di edificare rispetto al diritto di proprietà non può essere prospettata nei medesimi termini in cui è
formulata in relazione alla perequazione urbanistica, ma deve essere delineata in termini parzialmente diversi, tenuto conto che la
peculiarità dell’ipotesi de qua, rispetto a quella della perequazione urbanistica, è per l’appunto, costituita dall’assenza di qualsiasi indice edificatorio – ancorché basso – dei terreni compresi nelle aree così qualificate.
In tal caso, dunque, l’inerenza del diritto di edificare al diritto
di proprietà, pur da ritenersi sussistente nei termini sopra precisati, è meno evidente di quanto risulti nell’ambito dell’urbanistica perequativa e si risolve, in definitiva, nella legittimazione dei
proprietari delle aree in questione a partecipare ad una selezione
concorrenziale il cui esito, però, non solo è, per ciò stesso, aleatorio, e, dunque, non necessariamente satisfattivo delle pretese individuali, ma, anche quando sia favorevole per il singolo proponente, potrebbe, in definitiva, rimanere vanificato dalla non positiva conclusione del procedimento – finalizzato al rilascio del permesso di costruire – che, dopo la selezione della migliore proposta, si articola nelle diverse fasi dell’approvazione di quest’ultima
da parte della Giunta comunale, della predisposizione e dell’approvazione del piano attuativo ed, infine, della stipula della convenzione, cui segue il rilascio del permesso di costruire.
Per altro verso, nella citata decisione, il giudice amministrativo, nei limiti del thema decidendum così come circoscritto dal
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parte II
contenuto dei motivi di ricorso, ha avuto modo di pronunciarsi,
oltre che – in generale – sulla legittimità della scelta inerente alla
c.d. pianificazione differita, anche sulla legittimità di singoli profili
di disciplina relativi allo svolgimento del confronto concorrenziale
preordinato alla scelta delle migliori proposte per la trasformazione delle aree soggette al regime della pianificazione differita (49).
Sebbene non abbiano costituito oggetto di specifiche valutazioni da parte del medesimo Giudice o perché non sottoposte alla sua cognizione o, per altro verso, in quanto ritenute irrilevanti
ai fini del giudizio promosso, sembra nondimeno opportuno soffermare l’attenzione su talune disposizioni del Regolamento Urbanistico del Comune di Quarrata, nella misura in cui esse pongono questioni che anche altri Comuni potrebbero essere chiamati ad affrontare ove decidessero di dotarsi di un’analoga disciplina urbanistica.
La prima di esse attiene ad uno dei contenuti minimi del bando si selezione, declinato nei seguenti termini: “indicazione del carattere vincolante o meno delle valutazioni della commissione giudicatrice e degli eventuali casi in cui le determinazioni finali del Comune possono motivatamente discostarsene ed in quale misura” (50).
Non si comprende quale sia esattamente la portata di tale disposizione, se non altro in ragione del fatto che il controllo demandato all’organo titolare del potere di approvazione del progetto selezionato dalla commissione giudicatrice dovrebbe configurarsi come un controllo di legittimità dello svolgimento della procedura
selettiva, volto a verificare la corretta applicazione, da parte della
stessa commissione, delle prescrizioni dettate dal bando. Pertanto, non si vede, come, ai fini dell’approvazione, tale organo possa
sostituire la propria valutazione a quella effettuata da una commissione composta da esperti nella materia urbanistica. Si tratta
dunque di una disposizione che, se recepita in un bando del tipo
(49) Tra i profili enunciati nel testo possono, ad esempio, segnalarsi quello concernente il ruolo della Commissione giudicatrice e quello relativo ai parametri quantitativi
di valutazione delle proposte, come la quantità di aree che il proponente prevede di cedere al Comune per destinazioni diverse dagli standard. A tale riguardo, nella sentenza citata si afferma che, così, viene legittimamente valorizzata la disponibilità a cedere al Comune aree che potranno essere utilizzate per migliorare la qualità urbana o comunque a
vantaggio della collettività.
(50) Si v. l’art. 53, comma 2, lett. m), delle N.T.A. del Regolamento urbanistico del Comune di Quarrata.
dottrina
259
di quello in esame, potrebbe alterare l’esito della procedura selettiva con conseguente pregiudizio dei princìpi che devono governarne lo svolgimento, tra i quali, innanzi tutto, l’immodificabilità
della lex specialis (51).
Parimenti criticabile appare l’inclusione tra i possibili parametri quantitativi di valutazione delle proposte presentate, dell’offerta economica in denaro che il proponente si impegna a riconoscere al Comune oltre agli oneri di urbanizzazione previsti dalla legge (52). In tal modo, infatti, si attribuisce rilievo, ai fini dell’attribuzione del punteggio alle singole proposte, ad una prestazione
patrimoniale che, in ragione del suo contenuto, non sembra avere alcun collegamento con l’oggetto della procedura selettiva ed,
in ultima analisi, con il diritto di edificare. Tale prestazione, inoltre, appare esclusivamente finalizzata ad arrecare un beneficio
economico al Comune, essendo, invece, del tutto estranea all’ambito della pianificazione. Per queste ragioni, la disposizione urbanistica in esame – se concretamente applicata – potrebbe essere
oggetto di censura sotto il profilo dell’eccesso di potere nella sua
configurazione di sviamento di potere. Per altro verso, essa, avendo come effetto quello di assegnare un determinato punteggio –
di fatto “premiante” – in relazione alla disponibilità ad effettuare
prestazioni di tipo economico, finisce per favorire, in parte qua, i
concorrenti che dispongono di maggiori risorse, ciò in violazione
del principio di eguaglianza.
Analoghi rilievi critici sembra si possano formulare anche nei
confronti dell’ulteriore parametro quantitativo previsto dal regolamento urbanistico in esame e recepito anche nel bando di selezione delle proposte, parametro riferito, in particolare, alla quantità
di aree che, secondo la proposta, si prevede di cedere al Comune
(51) Peraltro, tale disposizione non sembra aver trovato compiuto svolgimento nel
bando emanato dal Comune di Quarrata, nell’ambito del quale si prevede soltanto la possibilità per l’Amministrazione comunale di richiedere varianti di dettaglio al concorrente che abbia presentato la proposta selezionata, varianti – cioè – che non potranno certamente modificare l’offerta stessa.
(52) Si v. l’art. 54, comma 4, lett. e), delle N.T.A. del Regolamento urbanistico del Comune di Quarrata. Come si è accennato, la censura concernente tale disposizione non è
stata esaminata dal T.a.r. Toscana nella sentenza n. 310 del 2011, essendo stata ravvisata la
carenza di interesse dei ricorrenti in ordine alla stessa, ciò in considerazione del fatto che
la delibera del Consiglio comunale di Quarrata avente ad oggetto gli indirizzi per la redazione del primo bando, aveva stabilito di non utilizzare, nel bando stesso, tale parametro.
260
parte II
per futuri utilizzi (53) . Si tratta di previsione che è stata giudicata
legittima dai giudici amministrativi sulla base, tuttavia, di un’argomentazione che appare assertiva, laddove si evidenzia che, con
il parametro in esame, si è intesa valorizzare la disponibilità a cedere al Comune aree che potranno essere utilizzate per migliorare la qualità urbana o comunque a vantaggio della collettività.
Di certo, questa è la finalità della norma urbanistica; si può tuttavia dubitare, anche in questo caso, che tale finalità inerisca, propriamente, al procedimento di pianificazione avviato con il bando,
potendosene così trarre le stesse conclusioni prospettate con riguardo al parametro quantitativo prima esaminato, anche sotto il profilo del rilievo “premiante” che, in applicazione del parametro in
questione, assumerebbe la proprietà di aree da cedere al Comune.
4. – Se, come si è cercato di porre il rilievo, il limite dell’applicazione del diritto europeo della concorrenza in campo urbanistico appare segnato dalla realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità o comunque di opere a queste assimilabili quanto al
regime cui le stesse sono sottoposte, l’applicazione dei principi di
trasparenza, pubblicità e concorrenza, com’è noto, si è esteso anche ad ambiti che erano interamente disciplinati dal diritto interno in quanto non compresi tra quelli ai quali trovano applicazione le normative europee, segnatamente quelle in tema di appalti
pubblici e concessioni.
Al riguardo, come si è ricordato, la sentenza n. 1 del 2008 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto che i principi europei siano applicabili anche al di fuori del settore degli appalti pubblici, segnatamente a tutti i contratti pubblici che siano tali da suscitare l’interesse concorrenziale delle imprese e dei
professionisti.
Tuttavia, come può agevolmente rilevarsi, con riferimento alle
trasformazioni urbanistiche, se si eccettua la realizzazione di opere pubbliche o a queste assimilate – alla quale, come si è già illustrato, sono applicabili le regole in tema di appalti pubblici – non
(53) Si v. l’art. 54, comma 4, lett. b), delle N.T.A. del Regolamento urbanistico del
Comune di Quarrata. Si tratta di criterio quantitativo che deve essere tenuto distinto dall’altro, pure previsto dalle stesse N.T.A. (si v. l’art. 54, comma 4, lett. a), che fa, invece, riferimento alla quantità di aree pubbliche da destinare agli standard urbanistici che la proposta prevede di realizzare in eccedenza rispetto alla dotazione minima prescritta.
dottrina
261
sembra agevole sostenere che sussiste un interesse transfrontaliero certo che imponga l’applicazione di procedure di evidenza pubblica di matrice europea, quand’anche i processi di trasformazione
siano realizzati mediante il coinvolgimento di imprese (si pensi,
ad esempio, alle imprese che operano nel settore delle costruzioni, ma anche a quelle che svolgono attività di commercializzazione in campo immobiliare), soprattutto se si considera che la competizione è circoscritta a coloro che sono proprietari delle aree interessate dalla predetta trasformazione (54).
Il contesto di riferimento è dunque più propriamente assimilabile a quello in cui le autorità pubbliche decidono di attribuire
beni e risorse limitati (55).
Di ciò ci si avvede là dove gli strumenti urbanistici prevedano
che la pianificazione attuativa (che appunto specifica e sviluppa
le previsioni contenute nei Piani strutturali) possa attuarsi soltanto o con priorità in alcuni ambiti, preventivamente individuati come quelli di trasformazione o di riqualificazione urbanistica (56).
Previsioni di tal fatta, soprattutto se completate da incentivi o
premialità attribuibili, evidenziano come le amministrazioni locali siano impossibilitate a procedere ad una pianificazione attuativa su tutti gli ambiti di trasformazione in ragione della scarsità
(54) Tuttavia, come si è visto, non manca chi propone (si v. P. Mantini, op. cit., 141 s.),
de iure condendo, con riguardo ai territori non urbanizzati, di non considerare più lo jus
aedificandi connaturato al diritto di proprietà immobiliare, per rimettere all’amministrazione locale l’indizione di una procedura di gara ai fini della selezione dei proponenti il
miglior progetto ai quali attribuire la concessione edilizia.
(55) Sottolinea soprattutto che il quantum delle volumetrie a disposizione del Comune è un bene “limitato” e che, in quanto tale dovrebbe essere oggetto di procedure competitive e trasparenti al fine di assicurare la par condicio tra tutti i proprietari delle aree in
cui tali volumetrie possono atterrare, P. Urbani, Urbanistica solidale. Alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà e interessi pubblici, cit., 170.
(56) Si consideri, ad esempio che, ai sensi dell’art. 30, comma 10, l. r. n. 20 del 2000
dell’Emilia Romagna, il Comune può indire una procedura selettiva – alla quale possono
partecipare sia i proprietari delle aree ubicate negli ambiti nei quali, in base alle previsioni del PSC, possono essere posti in essere gli interventi di trasformazione, che gli operatori economici che siano interessati a partecipare alla realizzazione dei medesimi interventi – per valutare le proposte di intervento complessivo che meglio soddisfino gli obiettivi e gli standard di qualità urbana ed ecologico-ambientale definiti dal PSC. Si prevede,
infine, che all’esito della predetta procedura di evidenza pubblica tra i proponenti il progetto di intervento selezionato e l’amministrazione comunale venga stipulato un accordo
con cui, a norma dell’art. 18, l. r. n. 20 del 2000 dell’Emilia Romagna, si recepiscono nella disciplina di piano «proposte di progetti e iniziative di rilevante interesse per la comunità
locale, al fine di determinare talune previsioni di contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale e urbanistica…».
262
parte II
delle risorse. In particolare, proprio la constatazione di tale scarsità di risorse pubbliche e private utilizzabili ai fini delle trasformazioni urbanistiche sembrerebbe indicare l’esigenza di avviare
procedimenti di tipo concorsuale.
In altri termini, non soltanto quando le amministrazioni locali
intendano alienare o individuare gli ambiti di atterraggio di diritti edificatori di cui sono titolari vi sarebbe la necessità di prevedere
meccanismi competitivi (57), ma anche nelle ipotesi in cui si debba
decidere in quali tra gli ambiti previsti dal piano strutturale siano realizzabili (con priorità) gli interventi di trasformazione urbanistica.
L’ipotesi non pare molto diversa da quella dell’attribuzione di
contributi, ausili finanziari o altri vantaggi economici, che, com’è
noto, a norma dell’art. 12, l. n. 241 del 1990, impone la predeterminazione e la pubblicazione dei criteri sulla base dei quali le
amministrazioni debbono procedere alla selezione degli aspiranti beneficiari.
Nel caso di specie, la risorsa scarsa sarebbe propriamente individuabile nella impossibilità in concreto di pianificare ed edificare o riqualificare contemporaneamente, attivando le risorse pubbliche e private necessarie, tutte le aree che possono costituire oggetto di trasformazioni urbanistiche.
In altri termini, la necessità di attivare meccanismi concorrenziali sarebbe non tanto o non solo da porre in relazione all’esigenza di attribuire vantaggi economici, tra i quali possono annoverarsi
l’assegnazione di diritti edificatori in funzione premiale o di incentivazione (58), bensì in ragione dei limiti intrinseci alla possibilità di
(57) Si è già segnalata l’esperienza del Comune di Reggio Emilia, il quale, mediante
l’indizione di una procedura di evidenza pubblica, ha provveduto all’alienazione di quote
di edificabilità generate da proprietà fondiarie comunali. Più nello specifico, il Comune di
Reggio Emilia, in seguito ad approvazione di una variante al Prg, con cui si sono individuati cinque «ambiti di trasferimento delle volumetrie» esistenti o delle superfici previste
a norma dell’art. 85 delle NTA, ha indetto una pubblica gara per la selezione di progetti riguardanti le aree su cui far «atterrare» i diritti edificatori generati dalle proprietà fondiarie comunali da alienare. A tal riguardo sia consentito rinviare ad A. Maltoni, Perequazione e compensazione nella legislazione urbanistica della Regione Emilia Romagna e nella disciplina di alcuni strumenti urbanistici locali. Considerazioni generali in tema di alienazione di diritti edificatori, in A. Bartolini, A. Maltoni, (a cura di) Governo e mercato dei diritti
edificatori: esperienze regionali a confronto, cit. 94-95.
(58) Come è stato posto in rilievo (si v. A. Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale (le c.d. premialità edilizie), in questa Rivista, 2008, 445 s.) l’attribuzione di premi volumetrici o di incentivi per la realizzazione di interventi edilizi privati, che siano ordinati a
soddisfare beni o valori costituzionali (i.e.: la tutela del paesaggio, la tutela dell’ambiente,
dottrina
263
porre in essere interventi di trasformazione urbanistica riguardanti diverse parti del territorio comunale in un determinato tempo.
Si consideri, inoltre, che anche la selezione pubblica propedeutica alla pianificazione attuativa, di solito costituisce soltanto la
prima fase di un processo che si compone anche di una successiva fase nella quale si definiscono, in via concordata con i soggetti
selezionati, i contenuti della trasformazione urbanistica prospettata dall’assegnatario.
In altri termini, l’amministrazione consapevole della scarsità di
risorse disponibili, decide di addivenire alla definizione di accordi amministrativi soltanto con quei privati che abbiano presentato le migliori proposte, i.e. quelle più rispondenti agli obiettivi di
interesse pubblico prefissati. Sotto questo profilo, si rileva come
le possibilità di addivenire all’approvazione di piani attuativi siano spesso limitate in quanto l’amministrazione è chiamata anzitutto a valutare se le proposte presentate dai privati potenziali realizzatori siano di interesse pubblico e in qual misura.
Una volta superato questo vaglio, non è detto che nella successiva fase – i.e. quella di definizione, in via concordata, degli oneri da addossare e dei vantaggi attribuibili ai soggetti realizzatori
– si riesca a pervenire ad un contemperamento tra interessi pubblici e privati soddisfacente per tutte le parti coinvolte. Ne consegue che, nel caso di specie, la predetta selezione serve a individuare i soggetti che potranno divenire parti di un accordo a contenuto pianificatorio, che definirà le possibilità di utilizzazione economica delle aree comprese nelle zone individuate come soggette a
trasformazione urbanistica.
Sotto altro profilo, si può osservare come i meccanismi concorsuali che siano previsti nell’ambito di strumenti pianificatori perequativi finiscono per rafforzare le garanzie di imparzialità dell’autorità pubblica titolare del potere di piano nei confronti
dei potenziali beneficiari delle trasformazioni urbanistiche. Ci si
riferisce, in particolare, al fatto che se, per un verso, come hanno
riconosciuto i giudici amministrativi, le tecniche perequative mirano ad eliminare le diseguaglianze create dalla funzione pianificatoria, quanto meno all’interno degli ambiti di trasformazione,
il diritto all’abitazione, la sicurezza e la dignità sociale), è da valutarsi alla stregua della
concessione di sovvenzioni o aiuti economici pubblici, la quale è sottoposta al regime di
cui all’art. 12, l. n. 241 del 1990.
264
parte II
creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo tra i privati proprietari delle aree incluse in essi, al fine di «addivenire al
conseguimento di obiettivi di interesse pubblico senza un’eccessiva penalizzazione degli interessi privati, coinvolgendo i proprietari
in precisi obiettivi di sviluppo, evitando il ricorso all’imposizione
dei vincoli preordinati alla futura espropriazione» (59), dall’altro, il
ricorso a meccanismi competitivi assicura che l’amministrazione
nell’individuazione degli ambiti, tra quelli suscettibili di costituire oggetto di trasformazione, nei quali sarà possibile in concreto
procedere alla realizzazione degli interventi di sviluppo urbanistico, si attenga a canoni di trasparenza e di imparzialità.
D’altra parte, la definizione ex ante delle condizioni sulla cui base valutare le proposte da selezionare è da porre in relazione all’esigenza che queste ultime siano rispondenti agli obiettivi di interesse
pubblico perseguiti, in ossequio al principio di buon andamento.
Per questa via, l’amministrazione chiamata ad esercitare il potere di piano finisce per autolimitare la propria discrezionalità amministrativa. Discrezionalità che, successivamente, risulterà condizionata anche dalla necessità di ricercare un assetto di interessi concordato con i soggetti privati selezionati.
Ne consegue che, se, dapprima e su un piano più generale, le
tecniche perequative mirano a superare le iniquità tra i proprietari
interessati da possibili processi di trasformazione, derivanti dal tradizionale metodo pianificatorio (60), in un secondo momento la coppia selezione pubblica degli interventi di trasformazione di interesse pubblico-accordo amministrativo tende a ridurre le possibili discriminazioni derivanti dalla concretizzazione delle scelte di piano.
La riduzione del tipico alto tasso di discrezionalità amministrativa connaturato al potere di pianificazione costituisce la conseguenza della decisione dell’amministrazione di auto-vincolare
il potere di pianificazione, o meglio di condizionarlo all’esito di
un processo competitivo tra le proposte di trasformazione urbanistica realizzabili.
(59) Si v. T.a.r. Veneto, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504, in www.giustizia-amministrativa.it.
(60) Si v. anche Cons. Stato, sez. IV, 10 febbraio 2014, n. 616, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si evidenzia come la soluzione perequativa tenda non soltanto ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone e a conseguire «un’effettiva equità
distributiva della rendita fondiaria», ma anche a consentire un acquisto meno oneroso da
parte dell’amministrazione di suoli da destinare a finalità collettive.
dottrina
265
In tal modo, l’esercizio del potere di piano viene condizionato
alla valutazione delle proposte presentate o meglio del grado di meritevolezza degli interventi di trasformazione proposti in termini
di soddisfacimento degli obiettivi di interesse pubblico prefissati.
Se certamente il potere di pianificazione attuativa, di regola –
stando almeno ad alcune normative regionali – dovrebbe costituire la risultante dell’assetto di interessi concordato con i privati,
esso appare condizionato già nell’an, dalla previsione di meccanismi competitivi, posto che questi ultimi fungono da filtro delle
proposte di trasformazione da ammettere alla definizione in sede concordata con l’amministrazione titolare del potere di piano.
Sotto questo profilo, la previsione di meccanismi competitivi
in via funzionale all’esercizio del potere di pianificazione se non fa
venire meno i suoi connotati di disciplina dell’utilizzo delle aree al
fine di realizzare non soltanto l’ordinato sviluppo edilizio del territorio, ma anche finalità economico-sociali della comunità locale (61), impone all’amministrazione di predeterminare gli interessi
da contemperare, mediante l’evidenziazione degli obiettivi di interesse pubblico connessi a valori costituzionalmente garantiti che
debbono essere considerati da parte dell’amministrazione nelle
scelte in concreto adottate. In altri termini, l’amministrazione avviando un procedimento selettivo pubblico si auto-vincola sia ad
esercitare il potere di pianificazione in via concordata con i privati selezionati, sia a contemperare, nella successiva fase, gli interessi di detti privati solamente con quegli obiettivi pubblici connessi ai predetti valori costituzionali posti a base della valutazione di interesse pubblico delle proposte presentate.
Peraltro, stante l’obbligo generale di motivazione di dette scelte
di pianificazione (62) – che risulta esteso, ex art. 11, comma 2, terzo
cpv. l. n. 241 del 1990, anche agli accordi amministrativi a contenuto
pianificatorio – là dove le medesime siano precedute da procedimenti
(61) Come è stato infatti posto in rilievo dai giudici di Palazzo Spada (si v. Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, nonché ID, sez. IV, 10 febbraio 2014, n. 616, in www.
giustizia-amministrativa.it), «il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle
diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (…), ma esso è funzionalmente rivolto
alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionali garantiti», «quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo Cost.».
(62) Si v. ancora Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, cit.
266
parte II
amministrativi di selezione dei soggetti privati, detto obbligo non
potrà che risultarne rafforzato. Al riguardo, non può sfuggire, infatti, che l’amministrazione dovrà non soltanto adeguatamente motivare gli esiti dei procedimenti selettivi effettuati, ma altresì esplicitare le ragioni di interesse pubblico che l’hanno indotta a concludere l’accordo con i privati selezionati, evidenziando, in particolare,
in che termini le scelte in concreto effettuate debbano considerarsi
coerenti con gli obiettivi di interesse pubblico pre-definiti.
5. – Come si è cercato di porre in rilievo supra, la previsione
di meccanismi concorsuali, non soltanto là dove questi siano preordinati all’attribuzione di beni pubblici (i.e.: diritti edificatori in
funzione premiale o meno), limita la discrezionalità dell’amministrazione, sia perché impone alla medesima di pre-definire i criteri di valutazione delle proposte da considerare di interesse pubblico, sia perché comporta l’applicazione dei principi di trasparenza
e imparzialità nella selezione dei soggetti con cui addivenire alla
conclusione di accordi amministrativi.
Dall’esame delle poche leggi regionali in materia di governo del
territorio – si v. supra § 3 – che prevedono meccanismi concorsuali si desume che è rimessa alle amministrazioni comunali la decisione se farvi ricorso, definendo la disciplina dei medesimi negli
strumenti urbanistici.
Occorre però anche chiedersi se i legislatori regionali che intervengano in materia di governo del territorio possano imporre alle amministrazioni locali di individuare i soggetti privati con
i quali definire in via concordata le trasformazioni urbanistiche
soltanto in quelli selezionati in base a procedimenti concorsuali.
Come si è indicato, le ipotesi da considerare sono essenzialmente quelle in cui i Comuni si trovino nell’impossibilità o ritengano
non opportuno avviare una pianificazione estesa a tutti gli ambiti
di trasformazione urbanistica individuati dal PSC. Nella prospettiva dunque di dover selezionare gli ambiti, tra quelli preventivamente individuati, nei quali realizzare le trasformazioni urbanistiche, le amministrazioni locali verrebbero limitate nella possibilità di addivenire ad accordi con i soggetti privati al fine di definire la pianificazione attuativa.
Una normativa regionale di tal fatta risulterebbe ascrivibile
alla materia del governo del territorio, in quanto porrebbe delle
dottrina
267
limitazioni alle amministrazioni comunali che risulterebbero preordinate all’individuazione dei soggetti con cui addivenire alla copianificazione attuativa; di tal che dette limitazioni possono considerarsi funzionali alla conclusione di procedimenti pianificatori,
nell’ambito dei quali si deve pervenire alla preventiva definizione
di accordi procedimentali con i privati da recepire nelle delibere
di approvazione dei piani.
Peraltro, leggi regionali che prevedessero disposizioni di questo tipo mirerebbero a garantire, nelle ipotesi in cui il potere di
pianificazione debba essere concordato con i privati realizzatori,
il rispetto di canoni di trasparenza e di imparzialità, nonché del
principio di buon andamento, in ragione del fatto che dovrebbero
essere pre-definiti gli obiettivi di interesse pubblico sulla cui base
valutare le proposte presentate dai privati.
Nella prospettiva che si è indicata, occorre altresì valutare se
disposizioni regionali, che prevedano meccanismi concorsuali ai
fini della individuazione dei soggetti privati con cui definire accordi amministrativi, siano da considerarsi pro-concorrenziali.
Al riguardo, deve richiamarsi quella giurisprudenza della Corte
costituzionale che ha confermato che il legislatore regionale può
legittimamente adottare, in ordine a procedure di evidenza pubblica disposizioni con effetti pro-concorrenziali soltanto nelle ipotesi in cui il medesimo possa vantare un autonomo titolo di legittimazione e «tali effetti siano indiretti e marginali e non si pongano in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che tutelano e promuovono la concorrenza» (63).
Non può però sfuggire che procedimenti volti a selezionare i
soggetti privati con i quali addivenire alla conclusione di accordi amministrativi di pianificazione sono da inquadrarsi non tanto tra quelli contrattuali di evidenza pubblica, bensì tra quelli propriamente amministrativi.
L’ipotesi considerata non appare dissimile da quella disciplinata dall’art. 153, comma 16, d.lgs. n. 153 del 2006, nella quale la
presentazione, nei termini previsti dalla legge, di una proposta da
parte di un privato mira a superare l’inerzia dell’amministrazione che, con riferimento a un’opera che sia stata inserita nella programmazione triennale e nell’elenco annuale, non abbia indetto
(63) Si v. ad es. Corte cost., sentt. 14 dicembre 2007, n. 430, 14 dicembre 2007 n. 431,
in www.cortecostituzionale.it.
268
parte II
alcuna procedura di gara nei successivi sei mesi dall’approvazione di quest’ultimo atto. In tal caso, le amministrazioni sono tenute a pubblicare un avviso (64), predeterminando i criteri di valutazione, al fine di selezionare le proposte da ritenersi di pubblico interesse, da porre a base di una successiva procedura di gara
per l’affidamento di una concessione di lavori pubblici quale modalità di realizzazione mediante ricorso alla finanza di progetto.
Come è stato rilevato, detto procedimento è propriamente un
procedimento amministrativo e non un procedimento di evidenza pubblica (65) – nell’ambito del quale il privato proponente può
riformulare la proposta iniziale ed altri soggetti possono presentare una loro proposta alternativa – posto che l’amministrazione,
nel selezionare la proposta di interesse pubblico, esercita un potere discrezionale amministrativo (66).
Peraltro, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa,
nel procedimento finalizzato a realizzare un’operazione mediante finanza di progetto, se il bene della vita è individuabile nel conseguimento della concessione sulla base del progetto presentato
nella prima fase – i.e. quella volta alla individuazione del promotore – là dove il progetto presentato non sia selezionato come di
pubblico interesse viene immediatamente leso l’interesse a conseguire detto bene della vita (67).
Nella medesima prospettiva, appaiono inquadrabili i procedimenti concorsuali volti alla selezione delle proposte di interesse pubblico propedeutiche alla definizione concordata della programmazione attuativa negli ambiti di trasformazione urbanistica.
(64) In realtà, come è stato osservato da M. Ricchi, La finanza di progetto nel codice
dei contratti dopo il terzo correttivo, in Urb. app., 2008, spec. 1387, si tratta di un vero bando posto che deve comprendere sia gli opportuni contenuti strategici sia quelli obbligatori.
(65) Si v. sul punto Cons. Stato, sez. V, 10 novembre 2005, n. 6287, in www.giustiziaamministrativa.it, ove si precisa altresì che la disciplina della legge generale sul procedimento amministrativo attrae nella sua orbita ogni ipotesi in cui si verifichi l’attribuzione
di vantaggi economici di qualunque genere.
(66) Si v. ex multis: F. Mele, Commento all’art. 153, in M. Baldi, R. Tomei (a cura di), La
disciplina dei contratti pubblici. Commentario al Codice appalti, Milano, Ipsoa, 2009, 12701271. Tuttavia l’A. richiama anche i limiti e i parametri di riferimento cui l’amministrazione
si deve attenere nell’esercizio di detto potere amministrativo discrezionale, recte: il fatto che
la valutazione della p.a. in ordine al soddisfacimento dell’interesse pubblico delle proposte
presentate deve essere effettuata in relazione alle priorità stabilite dal programma triennale
e dall’elenco annuale, alla loro compatibilità con altri interventi, nonché tenendo conto della
precedente valutazione che ha portato all’inserimento dell’opera in detta programmazione.
(67) Si v. Cons. Stato, Ad. plen., 28 gennaio 2012, n. 1, in www.giustizia-amministrativa.it.
dottrina
269
Occorre, infatti, tener conto che là dove le proposte presentate dai
privati interessati non siano valutate come di interesse pubblico
dall’amministrazione, i medesimi non potranno essere ammessi alla successiva fase, con la conseguenza che sarà ai medesimi inibita la possibilità di conseguire il bene della vita a cui aspirano, nel
caso di specie individuabile nella pianificazione concordata di un
complesso di interventi di trasformazione o riqualificazione urbanistica consistenti nel compimento di attività economiche su determinate aree di cui sono proprietari o con riferimento alle quali vantano un diritto reale immobiliare.
Non vi è dubbio, allora, che, nelle ipotesi in cui l’amministrazione si auto-vincoli ovvero sia tenuta – in ragione del fatto che
sia la legge regionale a prescriverlo – ad indire un procedimento
concorsuale per la selezione delle proposte di interesse pubblico, i
privati, le cui proposte siano valutate negativamente, vantano una
posizione di interesse legittimo, la cui lesione può essere fatta valere in sede giurisdizionale.
Detta lesione dell’interesse legittimo non sarebbe però configurabile ogni qual volta gli strumenti urbanistici consentano di addivenire ad accordi con i privati per la definizione in via concordata della pianificazione attuativa di ambiti o aree di trasformazione anche in assenza della partecipazione dei medesimi a procedimenti concorsuali. Ed è questo, come ben si comprende, uno degli aspetti più delicati che dovrebbe essere regolamentato dai legislatori regionali, i quali, oltre a prevedere un obbligo per le amministrazioni locali di indire procedure concorsuali – come si è illustrato supra – almeno in tutte le ipotesi in cui le amministrazioni
siano indotte ad individuare gli ambiti, i comparti che in via prioritaria debbono essere trasformati o riqualificati, potrebbero dettare alcune regole procedimentali per la valutazione delle proposte di interesse pubblico, garantendo in tal modo una certa uniformità dei procedimenti de quibus ed evitando che siano le singole amministrazioni a determinare, di volta in volta, le forme e
le modalità per assicurare la trasparenza, la pubblicità, nonché i
meccanismi competitivi a cui attenersi.
Si sono peraltro rilevate delle criticità nella determinazione,
da parte delle amministrazioni locali, dei parametri di valutazione delle proposte presentate dai privati, posto che, come hanno
sottolineato i giudici di Palazzo Spada, non può farsi ricorso ad
270
parte II
un criterio meramente quantitativo, dovendo operarsi una verifica stringente circa la rispondenza del programma o del piano degli interventi agli obiettivi di interesse pubblico (68).
Si consideri, tuttavia, che sono rinvenibili casi in cui amministrazioni locali (come ad esempio quella di Ravenna) hanno contemplato negli avvisi pubblici sia criteri di carattere generale che
criteri più specifici per valutare la corrispondenza ad obiettivi di
interesse pubblico delle proposte presentate dai privati (69), criteri che impongono una valutazione soprattutto con riferimento ad
aspetti qualitativi.
(68) Si v. in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2008, n. 2985, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si è rilevato, con riferimento ad un programma di riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale (PIRUEA), che, non essendo dalla legge previsto
alcunché in ordine ad un rapporto quantitativo tra recupero dell’esistente e nuove edificazioni, la rispondenza all’interesse pubblico della scelta di fare ricorso al PIRUEA non può
essere fondata su un criterio meramente quantitativo.
(69) Nell’avviso, pubblicato dall’amministrazione comunale di Ravenna, in data
30.1.2008, per la presentazione di richieste per l’inserimento nel I piano operativo comunale (POC) 2008 – 2013 di aree ricadenti nella “città di nuovo impianto”, in “poli funzionali” di progetto, in “ambiti a programmazione unitaria e concertata” e di progetti ricadenti nell’”ambito agricolo di valorizzazione turistico paesaggistica” secondo le previsioni del piano strutturale comunale (PSC) approvato il 27.2.2007, si è stabilito che al fine di
selezionare i comparti e gli ambiti da inserire nel POC e nei quali attivare nel quinquennio 2008-2013 pieni ed interventi di nuova urbanizzazione fra quelli individuati dal PSC,
sia nel territorio urbanizzato che nel territorio urbanizzabile, l’amministrazione valuti le
proposte di intervento e le richieste di inserimento nel POC in relazione alla programmazione comunale, alla rispondenza e al dimensionamento agli obiettivi del PSC e ad una
serie di criteri generali e di criteri specifici. In particolare, si annoverano nella prima categoria: “caratteristiche del piano e sua capacità d raggiungere gli obiettivi indicati dal PSC
… e di assolvere alle criticità individuate e individuabili al fine della sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’intervento; 2. Progetto imprenditoriale e sua attuabilità: caratteristiche e qualità del progetto imprenditoriale con definizione delle composizione proprietaria/
societaria, delle modalità e tempi d’attuazione”. In tale avviso sono contemplati tra i criteri
specifici: lo stato attuale dell’urbanizzazione e l’infrastrutturazione dell’area, la sostenibilità del progetto rispetto ad una serie di parametri; il livello della dotazione di servizi pubblici e privati presenti nella zona; la presenza di aree a destinazione pubblica necessarie
per la realizzazione di opere pubbliche e/o di interesse generale, da valutarsi in relazione
ad una serie di parametri; la disponibilità a realizzare quote di edilizia residenziale pubblica in misura superiore a quelle previste dal PSC e/o a cedere gratuitamente al Comune
superfici fondiarie per la realizzazione di edilizia residenziale sociale e/o a cedere o convenzionare i prezzi di vendita di aree produttive per il trasferimento di attività insediate in
contesti urbani da riqualificare; l’impegno ad utilizzare fonti energetiche rinnovabili, tecnologie costruttive climatiche, ecologiche e non inquinanti, a contenere i consumi energetici e idrici e a minimizzare i livelli sonori.
RECENSIONI
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parte V
Recensione a Gian Franco Cartei e Luca De Lucia
(a cura di), Contenere il consumo di suolo
– Saperi ed esperienze a confronto, Napoli,
Editoriale Scientifica, 2014
di Niccolò Pecchioli
Si tratta di un’opera che affronta un tema di grandissima e
drammatica attualità su cui tuttavia l’informazione e conseguentemente la sensibilità dell’opinione pubblica sono ancora insufficienti. Ben pochi dubbi, dunque, sulla opportunità della scelta
dell’argomento, affrontato nel corso del seminario dal titolo “Contrastare il consumo di suolo” organizzato nell’Università degli studi di Salerno il 7 ottobre 2013 e trasfuso poi in questo volume dagli Autori dei vari interventi.
Il taglio del libro è in prevalenza giuridico; l’indice rivela una
suddivisione in tre parti: la prima riguarda la consistenza del fenomeno “consumo di suolo” in Italia in relazione ai problemi di
gestione e prima ancora di esatta rappresentazione delle questioni che crea; la seconda introduce ad una rapida panoramica del
problema dalla prospettiva dell’ordinamento dell’Unione europea
nonché di quelli inglese e tedesco; la terza, infine, è incentrata sulle tematiche giuridiche connesse al consumo di suolo con riferimento alla situazione italiana anche con riguardo al regime della
proprietà fondiaria ed ai meccanismi della rendita immobiliare.
Anzitutto, colpisce in senso molto positivo che in apertura di
lavoro l’inquadramento generale del tema sia stato affidato ad un
agronomo territorialista, che con un linguaggio chiaro e diretto aiuta il lettore prima a prendere consapevolezza del problema
“consumo di suolo” in Italia, tenuto conto che “parlare di urbanizzazione richiede innanzitutto di sapere quanto si urbanizza, dove
si urbanizza e in che tempo e con quale velocità il processo si svolge”, poi ad intendere criticamente questa nozione, che ha una valenza atecnica di “slogan aggregante”, invero di grandissima utilità per un pubblico sensibilizzato, ma incapace di ricomprendere in sé i due tradizionali significati di urbanizzazione, come mutamento d’uso (land take) e impermeabilizzazione del suolo (soil
sealing). L’espressione “consumo di suolo” tende infatti ad identificarsi con la sola impermeabilizzazione, con il risultato di non
recensioni
273
riuscire adatta a ricomprendere le situazioni in cui i suoli agroforestali, laddove subiscano una variazione urbana senza soggiacere al processo di impermeabilizzazione, non diano luogo a suolo
consumato in senso tecnico. La questione, avverte opportunamente e con notevole finezza l’Agronomo, non è solo lessicale, perché
questa nozione atecnica, impiegata per il suo appeal evocativo anche nelle proposte di testi legislativi in tema, ha finito per dilatarsi fino a denotare, più che un fenomeno specifico, una posizione
ideologica complessiva, che ad es. ha portato nelle sedi istituzionali ad ampliare il concetto di consumo di suolo fino ad includervi la diminuzione della superficie agricola a causa delle dinamiche di forestazione spontanea. Talché, “si giunge in questo modo
al risultato di equiparare giuridicamente l’urbanizzazione con l’incremento della superficie forestale, dimenticando che quest’ultimo
… è un processo reversibile …, mentre l’urbanizzazione è, ahimè,
un processo di fatto irreversibile”.
Urbanizzazione dunque come processo non solo irreversibile,
ma anche assai pericolosamente alimentato da una sorta di inclinazione naturale dell’uomo, che ha assai più difficoltà a difendere
spazi aperti percepiti come “vuoti” di quanta ne abbia a difendere
spazi “pieni”, come dimostrano le esperienze di pianificazione territoriale nonché le tabelle riguardanti le fonti informative sull’uso/copertura del suolo prodotte in Italia, molto opportunamente
evocate nelle altre relazioni contenute nella prima parte dell’opera.
Nella sua seconda parte, il libro si apre invece alla disamina giuridica del fenomeno consumo di suolo, che viene riguardato dalla
prospettiva dell’Unione europea e poi dei sistemi inglese e tedesco.
Ed invero, la valenza essenzialmente descrittiva e forse anche
un poco enfatica dell’espressione “consumo di suolo” trova conferma nella opportuna notazione di apertura del contributo dedicato
al punto di vista europeo, ove si specifica come tale espressione sia
sconosciuta all’ordinamento dell’Unione, nel quale è invece presente il più ampio concetto di “protezione del suolo”, cui è ascrivibile una strategia volta a limitare il consumo di suolo ma anche
ad implementare le garanzie che consentono le sue funzioni. Ciò
posto, ad impressionare il lettore è il dato secondo cui, nonostante
la ben nota e crescente pervasività “a tutto campo” della normativa europea, la disciplina in tema di protezione del suolo, che viene collocata in seno alla materia dell’ambiente, è rinvenibile solo
274
parte V
a livello di soft law, essenzialmente in relazione ad una comunicazione della Commissione europea del 2006, per la quale il suolo
assume importanza quale risorsa fondamentale a servizio di una
serie di funzioni essenziali, come quelle legate alla sicurezza alimentare, all’equilibrio ecologico e alla preservazione dell’ambiente fisico e culturale. In questo contesto, emerge come tra i processi di degrado la Commissione indichi anche l’impermeabilizzazione del suolo e, nella differenziazione e disomogeneità delle strategie di tutela del territorio adottate dagli Stati membri, caldeggi una strategia generale dell’Unione, che dovrebbe realizzarsi a
tutti i livelli di governo nell’ottica della sussidiarietà, garantendo
un utilizzo sostenibile del suolo, per il recupero e ripristino della sua funzionalità alla luce dei principi di preservazione e di prevenzione. Gli ulteriori atti di soft law evocati nell’opera, e che seguono ad una proposta di direttiva mai andata in porto, a dimostrazione dell’ancora flebile convergenza politica e culturale degli
Stati membri su questo tema, tradiscono la debolezza di un’azione pubblica per ora incapace di determinare gli obbiettivi e le responsabilità istituzionali; tuttavia viene rimarcato che all’attività
dell’Unione europea, pur “modesta” in questo campo, deve essere
riconosciuto quantomeno il merito di alimentare il dibattito pubblico, sia per il tramite di slogan politici (come quello della quota zero di occupazione dei terreni entro il 2050), sia individuando
le chiavi di lettura del fenomeno protezione del suolo soprattutto
nei principi di coesione territoriale e di pianificazione.
I contributi incentrati sugli ordinamenti inglese e tedesco sono di estremo interesse culturale, anche se inevitabilmente risentono di quel limite che caratterizza tutte le opere che pur meritoriamente volgono l’indagine in ottica comparatistica verso taluni
ordinamenti stranieri: la scelta di questi ordinamenti è per forza
di cose selettiva e quasi mai sono chiari i criteri che hanno dettato la selezione. Tuttavia è anche vero che nel caso di specie il riferimento al tema “consumo di suolo” nel sistema tedesco è di particolare pregnanza nell’ottica di un approccio non solo concettuale
ma anche propositivo ai fini dell’elaborazione di progetti ed idee,
se non di soluzioni finanche per il nostro Paese. Emblematico in
tal senso è il richiamo al principio della “rilevanza sociale del suolo”, che nasce dalla consapevolezza del suo essere entità non suscettibile di incremento e peraltro indispensabile, il cui consumo
recensioni
275
tuttavia si è dimostrato slegato dalla dinamica socio-demografica, essendo piuttosto direttamente proporzionale alla ruralità del
contesto, nel senso che i Comuni piccoli sono quelli con i valori
più alti di consumo di suolo. Per questo in Germania, nell’ottica
di realizzare un contenimento del problema, si sta compiendo il
tentativo di affiancare la pianificazione urbanistica a strumenti di
programmazione che a livello locale hanno dato vita al concetto
di “management delle superfici” cioè ad una combinazione di strumenti giuridici e consensuali per la promozione di uno sviluppo
insediativo volto al risparmio del suolo; mentre su scala regionale si sono creati i c.d. certificati di superficie, consistenti nella definizione di un plafond di superfici edificabili stabilito a livello regionale e nella sua distribuzione ai Comuni secondo criteri insediativi previsti nei piani di coordinamento territoriali: la particolarità di tali certificati è che sono commerciabili, cioè possono essere spesi per impegnare il suolo, cosicché i Comuni che non ne
hanno a sufficienza per i loro piani di sviluppo devono cercare di
acquistarne da quei Comuni che ne possano fare a meno, avendo
favorito uno sviluppo urbano diverso. Naturalmente tutto ciò non
significa che gli strumenti di management delle superfici possano
consentire di surrogare la pianificazione urbanistica e territoriale,
non foss’altro perché ad esempio non può che essere il piano regionale a definire il plafond di superficie da allocare tramite la commercializzazione dei certificati, mentre spetta comunque al piano
locale individuare le capacità insediative residue del proprio Comune; resta però il fatto che in Germania emergono già ora le basi per una solida regolazione della tutela del suolo e quindi dell’attuazione che sta avendo in concreto il principio inerente la sua
rilevanza sociale. Amara è però, ma coraggiosa nella sua spietatezza la domanda che si pone in fondo l’Autore del contributo: la
Germania può permettersi le politiche di riduzione del consumo
di suolo? E – si potrebbe facilmente aggiungere – tali politiche se
le possono permettere gli altri Stati, tra cui ovviamente il nostro?
E’ infatti evidente che il problema del contenimento dell’uso del
suolo non è foriero di sole implicazioni positive, ma è ben capace
di agitare spettri circa gli effetti negativi che può avere sul sistema, ed in particolare sull’attività edilizia ed il mercato immobiliare, soprattutto tenendo conto del fatto che l’incentivo all’attività
edilizia è regolarmente avvertito, in primo luogo proprio in Italia,
276
parte V
ma il rilievo è facilmente estensibile agli altri Paesi, come volano
per l’andamento economico generale dello Stato.
Il problema è dunque quello di contemperare grandi interessi antagonisti, ciò che evidenzia l’importanza di tributare opportuna riflessione non solo all’obbiettivo riduzione del consumo di
suolo, ma anche alle modalità con cui esso può essere raggiunto.
La terza parte dell’opera è quella inevitabilmente più coinvolgente per il giurista italiano: anzitutto perché, con apprezzabilissima compiutezza, vi si analizzano i più significativi degli ormai
numerosi progetti di legge (a partire da quello più famoso del Ministro dell’Agricoltura del Governo Monti Catania) che si sono
succeduti in materia di contenimento del consumo di suolo, evidenziandone, pur negli obbligati limiti di un quadro di sintesi, i
principali pregi e difetti; in secondo luogo perché non si dimentica, pur nella specificità dell’indagine, di offrire al lettore una prospettazione del fenomeno in chiave sinottica facendo aggio sulla
individuazione di taluni principi portanti ma anche sul diritto positivo esistente e “generalmente trascurato”, da cui emerge che “il
principio del contenimento di suolo non edificato è già enunciato in
modo chiaro in molti ordinamenti regionali e in quello nazionale”.
Riguardo alla legislazione statale viene infatti richiamato l’art. 6
comma 2 della L. n. 10 del 2013, il quale – si afferma – “ha formalmente consacrato, per la materia “governo del territorio”, il principio del contenimento del consumo di suolo”, là dove stabilisce che
ai fini del risparmio del suolo e della salvaguardia delle aree comunali non urbanizzate i Comuni possano prevedere misure volte a favorire il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti residenziali e produttivi esistenti ed altresì opportuni strumenti e interventi per la conservazione ed il ripristino del paesaggio rurale
o forestale non urbanizzato. Emblematico, in tal senso, per sottolineare i problemi di coordinamento perfino all’interno del Governo, il rilievo secondo cui mentre il Parlamento approvava detta legge (dicembre 2012), il Ministro per l’Agricoltura Catania presentava il noto disegno di legge sul medesimo oggetto….
Naturalmente, nell’ambito delle iniziative statali, già valutabili
anche se ancora presumibilmente lontane dal momento in cui vedranno la luce, è altresì possibile richiamare la bozza del disegno
di legge urbanistica del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (la quale succederebbe alla legge urbanistica tuttora vigente
recensioni
277
del 1942), che, in attuazione del principio del contenimento del
consumo di suolo, favorirebbe il rinnovo urbano, implicante anche la demolizione e ricostruzione di intere parti degradate di città. In questi casi, le operazioni dovrebbero essere sottoposte a dibattito pubblico e, una volta approvate, sarebbero incentivate con
agevolazioni fiscali e bonus volumetrici.
In ambito regionale, il libro invece evoca in particolare la proposta di legge della Regione Toscana attualmente all’esame del Consiglio regionale, con cui si intende riformare il sistema di governo del territorio oggi regolato dalla legge regionale n. 1 del 2005:
nello specifico, questa proposta di legge risulta particolarmente significativa perché nella lotta al consumo di suolo, rispetto al quale tema si mostra particolarmente attenta, prevede in primo luogo
che i Comuni individuino il perimetro del loro territorio urbanizzato, giacché le trasformazioni implicanti impegno di suolo non
edificato a fini insediativi o infrastrutturali sono consentite solo
all’interno di tale perimetro; in secondo luogo, le trasformazioni
di aree inedificate sono consentite con esclusione di nuove edificazioni residenziali, nel solo caso di accertata insussistenza di soluzioni alternative di riutilizzo e di riorganizzazione del suolo già
consumato e – in terzo luogo – comunque all’esito di una complessa procedura su base d’area vasta cui prendono parte i Comuni interessati, la Provincia coinvolta e la Regione.
In questa terza parte dell’opera spicca poi, per originalità di impostazione, il contributo di Paolo Maddalena volto ad evidenziare
la “mistificazione dello jus aedificandi”. Si tratta di riflessioni confluite nel volume del medesimo Autore “Il territorio bene comune
degli Italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico”, Donzelli, 2014, in cui si assiste al rovesciamento dell’impostazione, invero consolidata, secondo cui la proprietà è una, declinabile come privata o pubblica, ma suscettibile di acquisire il
suo significato più pregnante quando è intesa come proprietà privata: per Maddalena, precisato che proprietà pubblica e proprietà privata sono istituti distinti, per proprietà si deve invece intendere essenzialmente la proprietà pubblica e a sua volta la proprietà collettiva demaniale, in quanto espressione della sovranità del
popolo stanziato su un determinato territorio; la proprietà privata rinviene invece il proprio fondamento nella legge e quindi non
è originaria come la proprietà pubblica intesa nel suddetto senso.
278
parte V
Ne consegue che nello statuto della proprietà privata, così come,
mutatis mutandis, in quello della libertà di iniziativa economica
privata, diviene elemento qualificante l’asservimento alla funzione
sociale, asservimento che infatti è stato tenuto ben presente dalla nostra Costituzione agli artt. 41 e 42. Più esattamente, sarebbe
proprio il testo costituzionale, se ben interpretato e soprattutto depurato dalle letture “borghesi” incentrate sui parametri del neoliberismo economico, a fornire l’esatta indicazione del concetto di
proprietà, che, intesa come proprietà collettiva dell’intero territorio spetta al popolo, mentre la proprietà privata sarebbe essenzialmente il risultato di una “cessione” di parti del territorio a singoli individui sempre da parte del popolo, che comunque conserverebbe una sorta di “superproprietà” ovvero di dominium eminens
sulle parti cedute (lo stesso Maddalena richiama per questi concetti l’insegnamento di Carl Schmitt ne Il nomos della terra, Milano, 1991, 17 s.s.). Da tali premesse diviene quindi agevole il passo
successivo, che poi è il vero fulcro della tesi di Maddalena: il diritto di appartenenza di un appezzamento di terreno, ceduto dal popolo al singolo individuo, non contempla, ed anzi esclude la contestuale cessione anche del diritto di modificazione del territorio,
che è da ritenere appannaggio dei poteri sovrani del popolo. In altri termini, per usare una terminologia più di uso comune, lo jus
aedificandi non può essere ritenuto immanente al diritto di proprietà, ed anche se la Corte Costituzionale è arrivata a conclusioni
opposte nella celebre sentenza n. 5 del 1980, così come anche la
legislazione successiva, oggi vigente, che nel parlare di “permesso di costruire” tradisce l’adesione a questa idea di immanenza,
in realtà non v’è alcuna disposizione, non solo ovviamente costituzionale, ma anche del codice civile, che autorizzi l’affermazione di una siffatta corrispondenza tra il diritto dominicale e quello
di costruire sul territorio che ne è oggetto (per tale impostazione,
incentrata però sull’esame del diritto positivo, più che sulle suddette premesse teoriche, v. già D.M. Traina, Lo jus aedificandi può
ritenersi ancora connaturale al diritto di proprietà? in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2013, pag. 257, fasc. 5).
Trattasi dunque all’evidenza di un profondo mutamento di
prospettiva che ha il suo fulcro nella valorizzazione della funzione sociale del diritto di proprietà, tanto che, arriva ad affermare l’Autore, anche richiamandosi al diritto romano, deve essere
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riconosciuta la possibilità per gli enti territoriali di recuperare i
beni non utilizzati dai proprietari o utilizzati non conformemente alla loro funzione sociale, senza necessità di ricorso all’espropriazione (c.d. ager desertus): ciò avverrebbe infatti in virtù di un
““effetto automatico”, per cui il bene originariamente appartenente
a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo,
torna con tutta evidenza nella proprietà di tutti”.
Inoltre, nell’ottica della partecipazione all’esercizio della funzione amministrativa, cui è chiamato anche il soggetto privato,
nel contesto del principio costituzionale di sussidiarietà, si afferma che il singolo cittadino è a sua volta “parte costitutiva del popolo” e come tale deve poter agire con un’azione popolare, nell’interesse di tutti i consociati e quindi anche a difesa del territorio,
quale “bene comune degli Italiani” (anche questo concetto è stato
più ampiamente sviluppato in P. Maddalena, Il territorio bene comune degli Italiani cit.).
Naturalmente questa prospettazione, incentrata sulla qualificazione dello jus aedificandi quale “causa efficiente di notevolissimi danni al territorio”, nella sua pars construens palesa la necessità
che la concessione edilizia (termine della legge Bucalossi che l’Autore considera l’unico coerente con la non immanenza del diritto
di costruire al diritto di proprietà), possa essere rilasciata solo su
terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti
al territorio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, rientrati per quanto si diceva sopra nel patrimonio comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o
immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione e quindi al costo dei terreni agricoli. Detta concessione infine non dovrebbe consistere in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da assegnare a
seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo da rivalutare secondo le
stime di mercato; tutto ciò, per evitare “la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di
favore” che arricchiscono indebitamente pochi speculatori a danno
di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici”.
Naturalmente la recente giurisprudenza della Corte europea
di Strasburgo e sulla sua scia quella nazionale, a partire dalla
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parte V
fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale n. 181 del
2011, hanno mostrato che l’espropriazione di un terreno inedificabile non deve avvenire, solo per questo, secondo i parametri dei
suoli agricoli, risultando ormai acquisito il concetto di tertium genus tra fondi edificabili e fondi agricoli, quando la vocazione del
terreno, pur escludendosi l’attitudine edificatoria, consenta utilizzazioni diverse ed ulteriori rispetto a quella meramente agricola
(parcheggi, campi sportivi ecc.; v. in tal senso da ultimo con grande chiarezza, proprio per la teorizzazione di questo tertium genus,
Cass., Sez. I, 24 marzo 2014 n. 6833).
Di questa giurisprudenza, o quantomeno di come intenderla
nell’ottica del contenimento del consumo di suolo non viene dato conto nel libro, ma la sensazione complessiva che si trae dalla
sua lettura è comunque quella di una compiuta messa a fuoco di
un concetto soltanto in apparenza e per i suoi soli tratti esteriori
percepibile con facilità, ma che in realtà richiede studio e conoscenza ai fini di comprenderne il significato tecnico.
In quest’ottica, risulta poi certamente preoccupante la puntualizzazione su cui a più riprese insistono i vari Autori dell’opera, secondo cui il problema del consumo di suolo nasce e si connota, aggravandosi sempre più se non si adotteranno le opportune contromisure, in ragione della natura limitata del suolo medesimo, inteso come risorsa; il che correlativamente vale a qualificare l’avvenuto consumo di esso come operazione distruttiva sostanzialmente irreversibile.
Dalle pagine del libro emerge però anche, pur nel panorama
ancora assolutamente frastagliato e disomogeneo tanto del problema, quanto delle sue possibili soluzioni, un elemento che a chi
scrive è parso confortante: se, da un lato, dall’avvenuto consumo
di suolo non è dato tornare indietro, trattandosi di un fenomeno
descrivibile con l’efficace immagine già usata ad altri scopi dalla
letteratura scientifica, allorché si è parlato del dentifricio che, una
volta fatto uscire dal tubetto non può esservi reinserito (“to push
the toothpaste back in the tube”, scrivevano J.H.H. Weiler e U.R.
Haltern, The Autonomy of the Community Legal Order – Through
the Looking Glass, in Harvard International Law Journal (37), 1996,
411 ss., 423, per rimarcare l’impercorribilità del tentativo di ricondurre la Comunità europea ad una semplice organizzazione internazionale), dall’altro lato vale evidenziare che l’irreversibilità del
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consumo di suolo non esclude però la possibilità che il suolo consumato sia suscettibile di riuso: la conversione e/o valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, ad es. sub specie di recupero,
di restauro, di risanamento, sono infatti tutte operazioni che non
incrementano la quantità di suolo già consumato, consentendo
ugualmente di operare sul territorio con interventi di natura edilizia: questo sembra dunque essere se non l’unico, quantomeno probabilmente il principale percorso da privilegiare per affrontare la
questione, molto più di altre soluzioni, ad es. di tipo perequativo
(per tutti campeggia l’esempio del PRG di Roma, cui giustamente
ci si richiama anche nel libro) che sono state tentate nell’esperienza più recente e che, in luogo di arrestare, o almeno di contenere
il consumo di suolo, hanno invece finito per aggravarlo.
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