LA MORALE DELL`AUTENTICITA` DI JEAN

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LA MORALE DELL'AUTENTICITA' DI JEAN-PAUL SARTRE – PARTE I – GENESI:
DALLO STOICISMO ALL'AUTENTICITA'
L’être et le néant di Jean-Paul Sartre si conclude con breve paragrafo dedicato al problema morale
(Cfr. J.-P. SARTRE, L'essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965, ristampa 1997, pp. 694-696).
Qui Sartre dice che l’ontologia occupandosi esclusivamente di ciò che è, ha solo una funzione
descrittiva e non prescrittiva, non può fornire degli imperativi dai suoi indicativi, ma lascia
intravedere quello che potrebbe essere una morale che si fondi sui risultati della sua indagine.
L’ontologia apre a prospettive morali complesse che necessitano di un’approfondita trattazione. Per
questo motivo, Sartre qui si limita ad enunciare senza rispondervi alcune questioni che sorgono da
questo punto di vista e rimanda la loro soluzione ad una futura opera specificamente dedicata al
problema morale.
«Tutti questi problemi, che ci rinviano alla riflessione pura e non "complice", non possono trovare
la loro risposta che sul terreno morale. Vi dedicheremo un'altra opera» (Ibidem, p. 696).
Quest’esplicita promessa non fu poi mantenuta e l’opera annunciata nel 1943 non venne mai
pubblicata: il progetto di scrivere un’opera sulla morale dell’autenticità rimase un «tentativo
mancato» (J.-P. SARTRE-M. SICARD, Entretien. L’écriture et la publication, in “Obliques”, 1979,
nn. 18-19 [numéro special], p. 14).
La fase della riflessione morale di Jean-Paul Sartre su cui qui focalizzo la mia attenzione può
essere ricostruita nei suoi concetti filosofici fondamentali solo in base ad opere pubblicate dopo la
morte del filosofo (1980), vale a dire mediante i Carnets de la drôle de guerre, scritti nel 1939-40,
pubblicati nel 1983 (e nel 1995 in una nuova differente edizione), i Cahiers pour une morale, scritti
nel 1947-48, pubblicati nel 1983, Vérité et existence, opera risalente al 1948 e pubblicata nel 1989.
Si tratta, dunque, di una morale e di un momento della riflessione di Sartre che, pur risalendo ad un
periodo preciso e circoscritto della sua vita e del suo pensiero, è venuto alla luce solo postumo,
mentre, fintanto che il filosofo era in vita, si avevano solo alcuni accenni ad esso che ne attestavano
l’esistenza.
S'intende qui tentare una ricostruzione storica delle vicende di questa morale e comprendere i
motivi che spinsero Sartre ad abbandonare gli appunti scritti.
Risulta subito chiaro che la morale che si può desumere da queste opere postume ha uno statuto
particolare rispetto al resto della sua produzione filosofica e letteraria e bisogna aggiungere che, da
questo punto di vista, possiede un destino comune alle altre sue fasi della riflessione morale del
dopoguerra: anch’esse, pur costituendo un momento importante del suo pensiero, per diversi motivi
non sono state da Sartre pubblicate. (Oltre alla morale che prendo in considerazione, si possono
individuare altre due fasi nella riflessione morale di Sartre nel dopoguerra: l’“etica dialettica” del
1964-65 e la morale che risale agli ulimi anni della sua vita, scritta insieme a Pierre Victor. A
proposito di questa classificazione del pensiero morale: cfr. Ibidem, pp. 14 ss).
Da questo fatto, fino a poco tempo fa, risultava una conseguenza paradossale: che cioè, per quanto
l’intera opera filosofica e letteraria, soprattutto teatrale, di Sartre fosse caratterizzata da un’evidente
istanza morale («Non ho mai smesso di essere un filosofo morale». [Ibidem, p. 14]) non si poteva
ritrovare nella sua produzione un’opera specificamente dedicata all’argomento e che la morale
sartriana era stata più spesso costruita, a partire dalle sue opere letterarie e filosofiche pubblicate,
dai commentatori del suo pensiero che non da Sartre stesso. (Tra i numerosi saggi di interpreti
pubblicati su questo argomento, alcuni sono diventati veri e propri classici: cfr. ad esempio F.
JEANSON, Le problème moral et la pensée de Sartre, ed. Du Myrte, Paris 1947 e P.
VERSTRAETEN, Violence et éthique. Esquisse d’une critique de la morale dialectique à partir du
théâtre politique de Sartre, Gallimard, Paris 1972.) La pubblicazione di molti inediti permette ora di
colmare, soprattutto per la fase della sua riflessione morale di cui io mi occuperò, questa mancanza
di fonti dirette.
La morale che ho preso in considerazione abbraccia un periodo che va dal 1939 al 1949 circa ed è
legata in buona parte ad un momento particolare del suo pensiero teorico: all’ontologia de L’être et
le néant. Questo è dimostrato dal fatto che due delle opere postume succitate, i Cahiers pour une
morale e Vérité et existence, sono ciò che ci resta oggi degli appunti che Sartre tenne negli anni
successivi alla pubblicazione de L’être et le néant per realizzare il progetto di un’opera sulla morale
annunciato nella conclusione come una conseguenza dei principi dell’ontologia ivi elaborata. Anche
se, soprattutto nei Cahiers, sono presenti nuovi concetti eterogenei rispetto all’ontologia, concetti
che prefigurano in parte il pensiero successivo della Critique de la raison dialectique, si può dire
che questa morale sia a grandi linee una morale ontologica.
Tuttavia, come risulta evidente da un’analisi dei Carnets de la drôle de guerre, la scoperta di
questa morale risale a prima della scrittura de L’être et le néant, al 1939, e precede anche
l’elaborazione dei concetti dell’ontologia. C’è, infatti, nei Carnets un primo abbozzo della morale,
la quale nasce prima di tutto come un atteggiamento concreto che Sartre in prima persona cerca di
assumere per far fronte allo sconvolgimento della guerra.
Abbracciando complessivamente le vicende di questa morale e considerando insieme le tre opere
postume che la concernono direttamente, è possibile individuare, da un punto di vista cronologico,
tre momenti successivi e costitutivi.
Il primo momento riguarda l’origine della morale, la nascita nel 1939-40 dell’idea di una nuova
morale in contrapposizione alla concezione morale precedente, vale a dire alle morali giovanili di
prima della guerra, che in sostanza si fondano sulla teoria della salvezza tramite l’opera d’arte (di
questa teoria vi è traccia nelle pagine conclusive de La nausée) e che prescrivono un atteggiamento
stoico. Questo momento della scoperta di una nuova morale è testimoniato dai Carnets de la drôle
de guerre, nei quali Sartre, riflettendo attraverso un’analisi autobiografica sulla propria personale
evoluzione, critica la propria posizione precedente e dà conto della nuova morale che sta vivendo in
prima persona.
La riflessione morale viene poi in certo qual modo sospesa, messa per un momento tra parentesi,
dall’impegno derivante dall’elaborazione de L’être et le néant, che inizia a scrivere verso la fine del
’41 e che pubblicherà nel ’43. Questo è dimostrato anche dal fatto che nei Carnets si possono
individuare due parti: una prima parte maggiormente dedicata alla morale ed una seconda,
successiva, più incentrata sullo sviluppo di riflessioni ontologiche che troveranno la loro forma
definitiva ne L’être et le néant.
Il secondo momento della morale coincide con la scrittura a partire dal 1945 e soprattutto nel
1947-48 dei quaderni di appunti che avrebbero dovuto permettergli di sviluppare la sua scoperta e
di realizzare il progetto di un’opera specificamente dedicata ad essa. I Cahiers pour une morale,
scritti negli anni 1947-48, e l’opera Vérité et existence, scritta nel 1948, sono quanto ci resta oggi di
quell’intenso lavoro.
Il terzo momento è quello conclusivo dell’abbandono del progetto di scrivere un’opera sulla
morale; per alcuni motivi, che cercherò di fare emergere, Sartre alla fine del 1949 decise di
abbandonare quegli appunti e la morale in essi abbozzata, di non portare a compimento le sue
ricerche, di non pubblicare nulla di quello che aveva scritto, e di dedicarsi ad altri argomenti e
lavori.
Nella mia disamina ho definito morale dell’autenticità la morale che emerge dall’analisi
complessiva di queste tre opere postume. Anche se, in effetti, Sartre, quando si riferisce ad essa, ne
L’être et le néant ed in alcune interviste, non la definisce mai in questo modo e parla semplicemente
di morale, mi è sembrato opportuno definirla così, sia per poterla distinguere dalle altre fasi del suo
pensiero morale, sia perché il concetto di autenticità, e più in particolare di conversione
all’autenticità, è in essa centrale, essenziale e caratterizzante.
1. GENESI DELLA MORALE DELL’AUTENTICITÀ
a) Guerra, prigionia e resistenza
La comparsa di questa nuova riflessione morale deve essere inserita, come ho detto, in un quadro
più ampio di riferimento; non è possibile comprenderla a fondo se si astrae dal contesto in cui si è
sviluppata. Come testimoniano i Carnets de la drôle de guerre, c’è una grande differenza tra le
morali precedenti, quelle giovanili, e quella che sta nascendo, che sta prendendo forma; siamo in
presenza di una vera e propria contrapposizione. Questa trasformazione radicale a livello della
riflessione morale può essere intesa solo se viene riferita alla cesura che gli avvenimenti di quegli
anni e di quelli successivi comportano per la vita e per il pensiero di Sartre.
«Nella mia vita, individuo nettamente una cesura che dà luogo a due momenti quasi
completamente separati, al punto che, essendo nel secondo, non mi riconosco più molto bene nel
primo: il momento di prima della guerra e quello del dopoguerra» (J.-P. SARTRE, Autoritratto a
settant'anni, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 50).
Gli anni che vanno all’incirca dal 1939 al 1945, infatti, rappresentano per lui il passaggio dalla
giovinezza alla maturità, dall’individualismo anarchico al socialismo, dall’isolamento e distacco
dalla società alla necessità dell’impegno concreto e, a fianco di questo, la scoperta della storia e
della costitutiva storicità dell’uomo. Sono numerosi i fattori che permettono di spiegare sul piano
teorico questa cesura, ma quello che più di tutti ha contato, secondo la testimonianza dello stesso
Sartre, è la guerra. Il lungo periodo della sua vita in guerra, in primo luogo con la partecipazione
diretta alla prima fase del conflitto, poi con la prigionia, infine con l’esperienza della Resistenza,
opera in lui la «conversione decisiva» (S. DE BEAUVOIR, La forza delle cose, Einaudi, Torino
1966, ristampa 1995, p. 11) proprio perché gli fa sperimentare e vivere concretamente alcuni aspetti
della realtà che fino ad allora aveva quasi del tutto ignorato.
«Ogni uomo è politico. ma questo l’ho scoperto, per quanto mi riguarda, soltanto con la guerra, e
l’ho capito veramente solo a partire dal 1945.
Prima della guerra mi consideravo semplicemente un individuo e non scorgevo assolutamente il
legame che c’era fra la mia esistenza individuale e la società nella quale vivevo. Uscito dalla Scuola
normale, avevo elaborato tutta una teoria in proposito: ero l’"uomo solo" vale a dire l’individuo che
s’oppone alla società con l’indipendenza del suo pensiero, ma che non deve nulla alla società e nei
confronti del quale quest’ultima è impotente, perché è libero. Questa è l’evidenza su cui ho fondato
tutto quel che pensavo, che scrivevo e che vivevo prima del 1939. Prima della guerra non avevo
opinioni politiche e, naturalmente, non votavo» ( J.-P. SARTRE, Autoritratto a settant'anni, cit. p
51).
Come si può vedere, dunque, la guerra comporta la contemporanea scoperta di tre elementi
inseparabili tra loro: della società e dei suoi vincoli, della storia e, infine, del fatto che ogni uomo è
politico. Questa scoperta comporta l’abbandono delle posizioni opposte che lo caratterizzavano
prima della guerra. Mentre prima della guerra si considerava solo un individuo e dava, come
vedremo, un significato morale a questa posizione di distacco dalla società, ora scopre l’importanza
della vita con gli altri; mentre prima si manteneva sostanzialmente indifferente agli avvenimenti
politici e storici, ora, da un lato, avverte la necessità dell’impegno concreto e, dall’altro, percepisce
la sua storicità e la sensazione di partecipare ad un avvenimento storico irreparabile.
Per quanto lo choc della guerra sia, come abbiamo visto, fondamentale in questa trasformazione,
non bisogna però dimenticare che già prima di essa Sartre cominciò ad avvertire la sostanziale
impotenza del proprio individualismo. Se la guerra con la sua drammaticità accelera questo
cambiamento, possiamo sicuramente dire che non avviene improvvisamente e senza che ci fossero
già delle avvisaglie negli anni precedenti. A questo proposito, Sartre nell’opera Autoportrait à
soixante-dix ans fa due esempi molto significativi che rendono conto di questa consapevolezza
d’impotenza: la vittoria del Fronte Popolare del ’36 e gli accordi di Monaco del ‘38 ( Cfr. Ibidem,
pp. 52 ss. Cfr. anche S. DE BEAUVOIR, L’età forte, Einaudi, Torino 1961, ristampa 1995, pp. 228
ss. e pp. 290 s.). In entrambi i casi la sua posizione morale e politica venne scossa e mostrò la corda.
Di fronte alla vittoria del Fronte Popolare, pur simpatizzando per questo successo della sinistra e
pur seguendone con appassionato interesse le vicende, non fece nulla di concreto per diventarne un
vero e proprio sostenitore. Dall’altro lato, come vedremo meglio più avanti, di fronte al precipitare
degli eventi mondiali, alla inquietante diffusione del nazismo ed alla sempre meno remota
possibilità di guerra, la sua posizione si limitava ad un pacifismo individualista, che all’atto pratico
non era che un’astratta condanna. Gli accordi di Monaco lo videro ancora incerto tra questo non più
attuale pacifismo e l’antinazismo militante.
Come risulta chiaro da questi due esempi, Sartre già prima della guerra cominciava ad avvedersi
della necessità di un atteggiamento più valido rispetto a quello che lo aveva caratterizzato fino ad
allora, della necessità di uscire dall’indifferenza. La sua partecipazione diretta alla guerra, però,
facendo precipitare irrimediabilmente nel passato il mondo della pace, stravolgendo completamente
le coordinate della sua vita e facendo nascere un mondo nuovo, angosciante, disumano, orrendo,
rese urgente e non più rinviabile il cambiamento di posizione.
Il 2 settembre 1939 Sartre riceve un foglio di mobilitazione, deve recarsi a Nancy e raggiungere la
settantesima divisione dell’esercito francese. Inizia così la sua partecipazione a questo evento
cruciale. Nel periodo che va dal settembre 1939 al giugno 1940, si trova con la sua divisione in
Alsazia (spostandosi nei vari mesi tra alcuni paesi della regione), in seconda linea, ed ha come
compito quello del metereologo. Questa è una fase molto particolare della guerra, in cui tra Francia
e Germania non si combatte ancora e che, proprio per questa sensazione d’incertezza e d’attesa che
creò, venne chiamata drôle de guerre, strana guerra. La travolgente offensiva tedesca, infatti, iniziò
soltanto il 10 maggio 1940 e durante gli otto mesi precedenti il fronte occindentale, dov’era
dislocato l’esercito francese, non era ancora interessato dal conflitto.
Sartre fin da subito, comportando la guerra una forte limitazione della sua libertà e costringendolo
ad una vita comunitaria, abbandona il suo individualismo e comprende l’importanza della nozione
di “sociale”.
«E infine mi trovavo sufficientemente ben collocato nella mia situazione di scrittore antiborghese
e individualista.
Quel che ha mandato in frantumi tutto questo è stato l’aver ricevuto, un giorno di settembre del
1939, un foglio di mobilitazione; sono così stato obbligato ad andare alla caserma di Nancy ad
unirmi a dei ragazzi che non conoscevo e che come me erano mobilitati. È questo che ha introdotto
il sociale nella mia testa: ho capito improvvisamente ch’ero un essere sociale quando mi sono visto
sradicato dal luogo in cui ero, sottratto alle persone che per me contavano, e condotto in treno da
qualche parte dove non avevo nessuna voglia d’andare, con dei ragazzi che non ne avevano più
voglia di me e che si chiedevano in che modo si era arrivati là (…). Fino a quel momento mi ero
creduto una libertà sovrana ed è stato necessario che m’imbattessi, attraverso la mobilitazione, nella
limitazione della mia libertà perché prendessi coscienza dell’importanza della gente e dei miei
legami con tutti gli altri e di tutti gli altri con me» ( J.-P. SARTRE, Autoritratto a settant'anni, cit.,
pp. 54 s).
Dopo questo breve lasso di tempo di vita in guerra, Sartre, senza aver praticamente partecipato ai
combattimenti, è fatto prigioniero dai tedeschi il 21 giugno 1940 a Padoux e prima viene diretto a
Baccarat, poi viene quasi subito trasferito allo stalag XII D a Treviri. Anche l’esperienza della
prigionia si rivela molto importante, facendogli ritrovare una forma di vita collettiva che da tempo
non conosceva più e, insieme a ciò, la sensazione positiva di far parte di una comunità in cui è
possibile la solidarietà ed un rapporto di comunicazione con gli altri sul piano dell’uguaglianza (Cfr.
J.-P. SARTRE, Oeuvres romanesques, édition etablie par M. Contat et M. Rybalka avec la
collaboration de G. Idt et de G. H. Bauer, Gallimard, Paris 1981, ristampa 1995, p. LVI). Questo
periodo di forzata reclusione accrebbe in lui il desiderio, già nato durante il periodo precedente,
d’impegno politico. Questo è testimoniato in modo immediato dall’atteggiamento che mantenne una
volta riuscito a liberarsi ed a rimpatriare, facendosi passare per civile. Appena tornato a Parigi, a
metà marzo 1941, cercò da subito di prendere dei contatti politici per rompere il suo isolamento ed
avere un ruolo attivo nella resistenza contro l’occupante tedesco (Cfr. S. DE BEAUVOIR, L’età
forte, cit., pp. 417 ss.). Nella primavera del 1941, insieme a Maurice Merleau-Ponty, Simone de
Beauvoir, Jean e Dominique Desanti, François Cuzin, Jacques-Laurent Bost e Jean Pouillon, fondò
il movimento “Socialismo e Libertà”. Si trattava di un gruppo di resistenza d’intellettuali e la sua
principale attività era di raccogliere informazioni e di diffonderle attraverso opuscoli o bollettini
clandestini.
Questo gruppo ebbe, però, un’effimera esistenza: venne già sciolto nell’ottobre dello stesso anno,
perché, essendo nato in modo spontaneo, non poteva contare su di un’organizzazione che fosse
efficace. Ci si rendeva conto, infatti, di fronte alla difficoltà di dare basi più solide e valide al
gruppo, che si correvano dei rischi inutili senza peraltro avere dei risultati pratici. Sartre, nell’estate
del 1941, cercò di dare maggiore peso al movimento, dapprima incontrando nella zona libera Kahn,
Gide, Mayer, Malraux ed in seguito cercando di contattare dei comunisti (che però diffidavano di
lui e fecero circolare la voce che fosse un agente provocatore dei nazisti), ma i suoi tentativi non
ebbero successo (Cfr. Ibidem, p. 427 ss.)
Lo scioglimento del gruppo “Socialismo e Libertà” non interruppe, però, l’attività di resistenza di
Sartre, anche se la sua azione proseguì per un certo periodo in maniera meno diretta (Attraverso il
teatro: nell’opera teatrale Les mouches [messa in scena nella primavera del 1943] è evidente il
significato politico della parola libertà. Cfr. Ibidem, pp. 469 ss). Infine, all’inizio del 1943, invitato
da intellettuali comunisti, partecipò alle riunioni del C.N.E. (Comité national des écrivains),
collegato al Conseil national de la Résistance, e collaborò alle “Lettres françaises” clandestine (Cfr.
Ibidem, p. 467). Inoltre, attraverso la mediazione di Albert Camus da poco conosciuto, ebbe dei
legami con il movimento di resistenza Combat.
Come si può vedere, dunque, la sua scoperta del sociale, avvenuta durante il periodo della guerra
e della prigionia, si traduce subito in un concreto impegno sul piano politico e dell’azione, impegno
che Sartre manterrà, pur con diversa intensità, per tutto il resto della sua vita.
b) I Carnets de la drôle de guerre: dallo stoicismo all’autenticità
I Carnets de la drôle de guerre sono quanto è stato ritrovato del diario che, come dice il titolo
stesso dell’opera, Sartre tenne durante la drôle de guerre, la prima fase della Seconda Guerra
Mondiale, nel periodo che va dal settembre 1939 al giugno 1940, dalla sua mobilitazione fino
all’inizio della prigionia. Dei quindici carnets che egli scrisse durante quel periodo solo sei furono
ritrovati (I, III, V, XI, XII, XIV) e vennero pubblicati postumi presso Gallimard nel 1983 con
l’esclusione del primo fino ad allora non ancora ritrovato. Nel 1995 si ebbe una seconda edizione, a
cui io farò riferimento, arricchita del primo carnet.
Il diario di Sartre è prima di tutto una testimonianza (che Sartre definisce mediocre ma generale)
della guerra e della sua vita in guerra (Cfr. J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre. Septembre
1939-mars 1940, nouvelle édition augmentée d’un carnet inédit, texte établi et annoté par A.
Elkaïm-Sartre, Gallimard, Paris 19952, pp. 263 ss) Egli cerca di descrivere la situazione assurda per
cui la guerra è dappertutto e tuttavia inafferrabile, definendola «guerra fantasma» (Cfr. Ibidem, p. 35
passim) o «guerra introvabile» (Cfr. Ibidem, p. 141 passim) dipingendo l’incertezza che comporta
per il destino di molte persone, riportando le reazioni di coloro che vi partecipano, le voci
contraddittorie che si rincorrono sul suo possibile svolgimento futuro e dando conto del confronto,
che per molti versi è inevitabile, con l’altra guerra totale, quella del ’14-’18. Nel suo diario, poi,
traccia un bilancio del periodo precedente, inizia ad abbozzare la morale dell’autenticità ed infine,
soprattutto nella seconda parte, redige delle riflessioni filosofiche che troveranno la loro forma
definitiva ne L’être et le néant (che inizierà a scrivere verso la fine del ’41).
Queste riflessioni risentono dell’influenza della sua recente rilettura di Heidegger (Se l’influenza
di Heidegger è decisiva e fondamentale, non bisogna però dimenticare un’altra importante lettura
che influenza l’evoluzione del suo pensiero: mi riferisco a Terre des hommes di St-Exupéry. Cfr.
Ibidem, pp. 245 s., pp. 250 s., p. 255, pp. 312 s., pp. 360 ss.). Sartre era a conoscenza del pensiero
del filosofo tedesco già dal periodo del suo soggiorno a Berlino, avvenuto nel 1933-34. Durante
questo viaggio-studio, intrapreso per approfondire la sua conoscenza della fenomenologia ed in
particolare del pensiero di Husserl, aveva già in parte iniziato a leggere Sein und Zeit di Heidegger,
che all’epoca era considerato un fenomenologo (sebbene dissidente rispetto alla fenomenologia
ortodossa). Ben presto, però, aveva interrotto la sua lettura, perché, essendo abituato ai problemi
classici della filosofia ed al linguaggio filosofico tradizionale, aveva avuto grandi difficoltà di fronte
all’originalità dei problemi posti ed al linguaggio nuovo. Solo a partire dal 1939, avendo “esaurito”
Husserl, si sente pronto per intraprendere lo studio di Heidegger, perché ai suoi occhi gli permette
di risolvere problemi che la filosofia di Husserl lascia irrisolti, gli permette di andare oltre Husserl.
A partire dal principio del 1939 Sartre legge dapprima lo scritto Was ist Metaphysik? nella
traduzione francese di Corbin e poi Sein und Zeit: la terminologia usata nei Carnets si ispira in
modo evidente a quelle letture, anche se durante il periodo di tempo in cui li scrive non ha a
disposizione i testi di Heidegger. L’approfondimento di questa filosofia continuerà anche durante la
prigionia, quando potrà riprenderne la lettura (Cfr. S. DE BEAUVOIR, La cerimonia degli addii,
seguita da Conversazioni con Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino 1983, p. 190).
Ci sono anche motivi biografici che lo portano a questa riscoperta, che non a caso ha inizio nel
1939; gli avvenimenti tragici sulla scena mondiale che avvicinavano la minaccia della guerra,
l’irrompere della contingenza dei fatti storici, gli facevano desiderare una filosofia che non fosse
solo contemplazione (desiderio peraltro già presente prima, ma non con questa urgenza), ma che
fosse anche saggezza, eroismo, santità, una filosofia dominata dal pathos, une philosophie
"pathétique" (J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, cit., p. 406) che si accordasse con la
situazione vissuta e che, soprattutto, desse conto della costitutiva storicità dell’uomo. Quest’ultimo
è ai suoi occhi proprio il più grande merito della filosofia di Heidegger, quello di mettere l’accento
sulla temporalità dell’uomo e in questo modo di fornirgli alcuni strumenti concettuali utili per
cogliere la realtà concreta di ciò che fino ad allora gli era quasi completamente sfuggito: la storia
(Per tutte queste informazioni biografiche: cfr. Ibidem, pp. 403-409) .È per questo motivo che Sartre
nel corso dei Carnets afferma che l’influenza della filosofia di Heidegger è un fattore altrettanto
importante che la guerra per comprendere il cambiamento del suo pensiero.
Si può dire che nei Carnets il concetto più importante che Sartre riprende da Heidegger, pur
interpretandolo in modo differente, sia quello di esistenza intesa come essere-nel-mondo che egli
identifica con l’essere della realtà umana. Questo essere è già qui concepito come lo sarà ne L’être
et le néant e cioè come una struttura ek-statica, temporale, come progetto. Come ha ben visto lo
studioso Franco Fergnani nel suo saggio La cosa umana, dopo La nausée in Sartre il concetto di
esistenza si è modificato ed ha assunto un significato diverso. Mentre nel romanzo pubblicato nel
1938 c’era una sostanziale identità concettuale tra esistenza e contingenza, ora essa si spezza
benché permanga tra quelle due nozioni uno stretto collegamento. Il termine di esistenza ora indica
la realtà umana e la sua struttura ek-statica (Cfr. FERGNANI, La cosa umana. Esistenza e dialettica
nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 54-59). La realtà umana, infatti, è costituita da
due elementi, la fatticità e la trascendenza, che sono inseparabili tra di loro, per cui la sua
contingenza non si rivela mai come semplice dato, ma sempre come dato trasceso e superato (cioè
come situazione). Il dato appare come tale solo alla luce di questo superamento che gli conferisce
un senso. Questo trascendimento costitutivo del dato non può che essere una temporalizzazione;
soltanto una struttura ek-statica e, dunque temporale, ci permette di spiegare la costitutiva
progettualità che è il modo d’essere della realtà umana. È, dunque, per la scoperta della temporalità,
resa possibile dalla sua ricezione della filosofia di Heidegger, che il concetto d’esistenza si è
modificato.
Come ho già accennato, il diario permette di seguire più da vicino l’evoluzione del suo pensiero
dal punto di vista morale ed è utile dunque al fine che mi sono proposto, quello di fare una genesi
della morale dell’autenticità. Da questo punto di vista la guerra è il fattore di cambiamento più
importante; i Carnets ci fanno vedere infatti come lo sconvolgimento della guerra abbia influito,
non solo sul piano della sua vita personale, ma anche sul piano del pensiero. Per questo motivo
penso sia utile seguire da più vicino la descrizione che Sartre ci dà, soprattutto nelle pagine iniziali,
delle caratteristiche essenziali del mondo della guerra: solo così si potrà capire quali fattori di essa
abbiano fatto sorgere in lui l’idea di una nuova morale e comprendere in che modo lo abbiano
spinto ad abbandonare la posizione morale di prima della guerra che era una specie di stoicismo.
Per cominciare bisogna precisare che, ancor prima di elaborare una morale dell’autenticità, Sartre
cerca di essere egli stesso autentico e di dar conto della forma particolare di autenticità che sta
vivendo: l’autenticità di fronte alla guerra. Prima di fissare le regole generali della morale
dell’autenticità valevoli per tutte le situazioni vuole sapere come si possa essere autentici in questa
situazione particolare che è la guerra (Questo è anche dimostrato dal fatto che l’elaborazione teorica
della morale dell’autenticità non compare nel primo carnet, ma in quelli successivi).
Che cosa è cambiato con la guerra?
C’è stata una vera e propria trasformazione del mondo e del rapporto della realtà umana con il
mondo; la guerra ha stravolto il mondo ed il suo senso. Secondo Sartre la guerra non è un semplice
accadimento fortuito che riguardi solo in maniera accidentale l’uomo, ma è sempre stata una delle
possibilità della realtà umana (Cfr. J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, cit., p. 101. La
realtà umana che si progetta nel mondo è nel proprio essere possibilità). Ora, essendosi questa
possibilità realizzata, essendo sorto con la dichiarazione di guerra il mondo della guerra, non c’è più
alcuna differenza tra l’essere uomo e l’essere-in-guerra. L’essere-nel-mondo (être-dans-le-monde) è
diventato un essere-in-guerra (être-en-guerre). Da questo si può concludere evidentemente che
nessuno può rifiutare il suo essere-in-guerra, è possibile soltanto decidere se fare o no la guerra,
decidere del proprio essere-per-la-guerra (être-pour-la-guerre), si è solo liberi di scegliere quale
atteggiamento mantenere. Da qui deriva che anche il disertore è in guerra (Cfr. Ibidem, pp. 58 ss.).
«Questo non significa altro che, finché la guerra è possibile, c’è – persino e soprattutto durante la
pace – un essere-per-la-guerra dell’uomo fin da quando è nato (…). Quello che penso è che è
dell’ordine dei grandi irrazionali, la nascita, la morte, la miseria, la sofferenza, in mezzo ai quali
ogni uomo è gettato e di fronte ai quali astenersi è ancora impegnarsi» (Ibidem, p. 136).
La possibilità della guerra non è, dunque, una possibilità qualsiasi, è costitutiva della condizione
umana ed esiste come tale anche se non è stata realizzata. Anche e soprattutto in pace, infatti, noi
decidiamo del nostro essere-per-la-guerra.
Da quanto detto risulta che la guerra, in quanto costitutivo essere ontologico, non è soltanto
l’oggetto del pensiero dell’uomo, ma la stoffa stessa del pensiero e dell’uomo che si trova in guerra.
Non a caso Sartre stesso è consapevole fin dall’inizio che le sue riflessioni vengono dopo che il
cambiamento si è prodotto e cercano soltanto di concettualizzarlo; non a caso, quando Sartre inizia
a scrivere, vuole dare conto di qualcosa che è accaduto. È cambiato il suo essere-nel-mondo e
quello dei suoi contemporanei e solo dopo può venire l’analisi di come è stato vissuto questo
cambiamento.
«La guerra non costituisce solo l’oggetto dei miei pensieri, ne costituisce anche la stoffa.
Attraverso ciò che percepisco, questo tavolo o questa pipa, io penso la guerra; il modo in cui io
penso e in cui percepisco questo tavolo e questa pipa è “di guerra” - infine il modo in cui questo
tavolo e questa pipa si danno a me è di guerra. E non si tratta soltanto di giudizi e comprensioni
chiare: la mia comprensione preontologica, il mio essere più immediato faccia a faccia con le mie
possibilità più immediate sono di guerra» (Ibidem, p. 60)
Da che cosa è caratterizzato questo mondo nuovo “di guerra”? Sartre nel primo carnet ne dà una
descrizione lucida e precisa, fa una fenomenologia dell’essere-in-guerra che chiama “il mondo della
guerra” (Ibidem, p. 21 e p. 27). Cercherò qui di seguirla nei suoi tratti essenziali.
Innanzitutto, rispetto alla pace, essendo cambiato l’essere-nel-mondo e di conseguenza il mondo,
è cambiato il senso delle cose. In generale la realtà umana, in quanto essere-nel-mondo,
progettandosi in un mondo, fa sì che un mondo esista e che gli oggetti si dispongano e si rivelino in
questa disposizione come dei complessi di utensili corrispondenti alle sue possibilità. Gli oggetti,
insomma, servono per…, sono dei mezzi, degli utensili per realizzare un fine, una possibilità della
realtà umana. Nel complesso degli oggetti-utensili ogni fine serve da mezzo per un altro fine e
questo per un altro e così via, fino al fine ultimo a cui tutto il sistema rinvia che è, in ultima analisi,
l’uomo. Si può dire, quindi, che il complesso degli utensili rinvia da ultimo ad un senso primo che,
mentre in pace era la conservazione della vita umana, ora è la distruzione (Cfr. Ibidem, pp. 22 s.).
Essa riguarda tanto le vite umane che gli utensili e cioè tutto ciò che è organizzato. Nel passaggio
alla guerra tutti gli utensili perdono il senso umano che li accompagnava durante la pace diventando
degli utensili puri: Sartre fa l’esempio della locanda in cui viene ospitato, che ora serve solo al
necessario, ha perso il lusso da cui era adornata durante la pace, quando rappresentava una libertà
borghese che si poteva acquistare (Cfr. Ibidem, pp. 21 s.). Ad un certo punto della sua trattazione del
mondo della guerra, poi, Sartre divide gli utensili in due categorie ben precise: distruttibili e
distruttori-distruttibili. Nel primo caso, gli oggetti-utensili vengono colti nella loro utilizzabilità
soltanto per negarla. Appartengono, invece, alla seconda categoria i mezzi che vengono
direttamente utilizzati per la distruzione e che a loro volta possono essere distrutti. I cannoni e gli
aerei, ad esempio, servono per distruggere, ma sono a loro volta distruttibili di solito da oggetti
dello stesso tipo. L’uomo stesso può, in quanto viene trattato da mezzo, appartenere a questa
seconda categoria. Da questo punto di vista, infatti, la condizione dell’uomo in guerra diventa
quella di un essere-per-distruggere e per diventare tale deve spogliarsi di tutte le altre possibilità,
mantenendo soltanto quella di farsi cosa, diventando utensile distruttore-distruttibile (Cfr. Ibidem,
pp. 141-145).
«Così sono io che, in guerra, nel minimo dei miei respiri, nel più insignificante dei miei gesti,
marciando, aprendo gli occhi e guardando, distruggo il mondo, è al di là di un mondo-dadistruggere che ritrovo me stesso come colui per il quale questo mondo-da-distruggere esiste»
(Ibidem, p. 144).
«In questa distruzione l’uomo è anche un utensile distruttore-distruttibile. Cessa di essere realtàumana perché perde le sue possibilità proprie (materiale umano). Ma – ed è ciò che c’è di più
delicato da comprendere – questa perdita di tutte le sue possibilità è ancora una delle sue possibilità.
Il suo essere-per-distruggere si progetta verso la possibilità della distruzione di tutte le possibilità
umane in lui. Questo distruttore è per-distruggere distruggendosi in un mondo-da-distruggere, il che
vuol dire che la sua condizione è di farsi cosa» (Ibidem, p. 145).
Da questa descrizione deriva con tutta evidenza che la guerra è la disumanizzazione dell’uomo e
di conseguenza del mondo.
Il soldato in guerra viene trattato in due modi: come una macchina, da un lato, e come un essere
cerimonioso, dall’altro. Il primo trattamento è una conseguenza della disumanizzazione, del fatto
che l’uomo è un essere-per-distruggere ed un utensile distruttore-distruttibile, che è ridotto a
quest’unica funzione: è per questo che viene equipaggiato dello stretto necessario e non si pensa che
possa avere altri bisogni e desideri. Dall’altro lato, vengono mantenute delle cerimonie che esulano
da questo stretto necessario; si insiste, ad esempio, sull’alto significato del saluto militare. Da
questo ambiguo trattamento nascono sei importanti conseguenze.
1) La perdita di ogni dignità umana. L’uomo perde valore, si abbassa e si umilia nella misura in
cui si fa trattare e viene trattato come una macchina. Non c’è più alcuna dignità e valore, infatti, nel
lavoro che svolge. C’è la tendenza a lasciarsi andare, si è portati quasi a somatizzare questa perdita
di dignità, assumendo comportamenti degradanti ed osceni.
2) Solitudine senza isolamento. Si è soli, perché ciascuno ha una propria vita civile che ha da poco
abbandonato, a cui è fortemente legato e da cui gli altri sono esclusi, ma è impossibile isolarsi,
perché c’è la proprietà collettiva di tutte le cose. «La guerra è un socialismo. Riduce la proprietà
individuale dell’uomo a nulla e la rimpiazza con la proprietà collettiva. (Ibidem, p. 22).
3) L’attesa e la perdita di possibilità proprie. Il soldato non ha più possibilità proprie, è una
semplice attesa passiva che dipende dagli altri e dagli ordini degli altri.
4) La noncuranza. Visto che la cura (souci) è ciò che accompagna, in generale, le possibilità
proprie, l’uomo, spogliandosi in quanto macchina di esse, diventa noncurante. La vita precedente
passata, quella della pace, perde senso, le preoccupazioni passate sono diventate assurde e si cade in
un presente noncurante.
5) Il sacro. Le possibilità staccate dalla libertà non hanno smesso per questo di esistere, ma hanno
assunto un’esistenza autonoma ed indipendente dall’uomo, sono divente possibilità-cose, fluttuano
davanti a lui inaccessibili. Allo stesso tempo, però, vengono incarnate dagli ufficiali, da coloro che
hanno il comando, i quali, proprio per questo motivo, perdono le loro caratteristiche individuali per
diventare semplice incarnazione delle possibilità. Da qui nascono naturalmente il fatalismo e
l’idolatria.
6) Un cameratismo molto particolare. Non esistono quasi più simpatie individuali, come accadeva
durante la pace, c’è solo più simpatia per l’uomo ed in particolare per ciò che accade all’uomo in
guerra. (Per la precedente dettagliata descrizione fenomenologica del mondo della guerra: cfr.
Ibidem, pp. 27-32).
Un altro tema della riflessione di Sartre sulla guerra è la morte. La morte viene qui già descritta
nel modo in cui lo sarà ne L’être et le néant come la perdita, la nullificazione di tutte le possibiltà,
che trasforma la coscienza individuale in cosa (Cfr. Ibidem pp. 45 s.): già qui si differenzia dalla
nozione che ne ha Heidegger e cioè quella di una possibilità dell’essere-nel-mondo. A proposito di
questo tema, qui parla di un punto di vista della morte che sarebbe reso possibile dalla guerra. Non
solo in guerra l’eventualità di morire è molto più concreta, ma poiché ogni elemento della vita
(pensieri, percezioni, desideri) è un’attesa, è per essere stato, conta cioè sul passaggio al passato per
consolidarsi, la guerra, gettandoci in un presente sradicato, annullando il passato ed il futuro,
assomiglia molto alla morte come annullamento di tutte le possibilità umane e ci fa sperimentare in
un certo senso il suo punto di vista (Cfr. Ibidem, pp. 47 s.). «Il presente diventa un non importadove, non importa quando, vissuto da un non importa chi» (Ibidem, p. 47).
Da questo deriva che la vita precedente, la vita civile della pace, sprofonda irrimediabilmente nel
passato e che può essere compresa nella sua storicità, perché si può prendere un punto di vista su di
essa, cosa che non era possibile mentre veniva vissuta. Ciò è rafforzato dal fatto che la durata della
guerra non è prevedibile e che pertanto non si sa quando sarà possibile tornare indietro. È del tutto
illusorio poi pensare di poterne ritornare senza esserne profondamente segnati e trasformati. Questo
significa che, anche se la pace tornerà, il mondo non sarà più quello di prima. Sartre può a questo
punto affermare e realizzare di essere fino ad allora appartenuto ad un’epoca ben precisa e dunque
ad una generazione ben precisa, caratterizzata da determinate scelte e preferenze: la generazione tra
le due guerre (Cfr. Ibidem, pp. 160 ss)
Dalla consapevolezza di questo senso dell’irrimediabile, dalla situazione di sospensione creata
dalla guerra e dal pericolo costante di morte, nascono l’angoscia e la disperazione, condizioni
indispensabili per accedere all’autenticità.
Tirando le somme di questo discorso, quali sono gli elementi del mondo di guerra che permettono
di comprendere meglio il passaggio di Sartre dallo stoicismo all’autenticità? Sono essenzialmente
tre: la disumanizzazione, la storicità ed il socialismo.
Innanzitutto, la guerra ci getta in un presente senza speranza e pieno d’incertezza. È proprio
perché la guerra è una situazione angosciante, in cui l’uomo perde tutte le sue possibilità e dunque
la sua libertà che è la fonte di queste possibilità, in cui c’è una disumanizzazione dell’uomo e del
mondo (che diventa un universo popolato di oggetti distruttibili e distruttori-distruttibili), che
l’uomo può rendersi conto della sua condizione in maniera concreta e del valore che aveva ed ha la
sua libertà. La guerra, prima di tutto proprio per le sue caratteristiche negative, diventa il punto di
vista privilegiato che può far sentire all’uomo la sua condizione, a patto che sappia viverla ed
analizzarla autenticamente.
«Credo che comincio a comprendere ora: la natura della guerra è di essere odiosa e gli uomini che
la scatenano sono dei criminali. Peraltro è un accidente storico, una contingenza sempre evitabile.
Ma una volta giunta questa contingenza diventa un punto di vista privilegiato perché l’uomo
realizzi e comprenda il suo essere-nel-mondo (perché il suo essere-nel-mondo è in pericolo)»
(Ibidem, p. 90).
Inoltre, la guerra, facendo di colpo scivolare il mondo della pace nel passato, fa sentire
concretamente la storicità all’uomo. Non solo fa nascere in lui la sensazione di partecipare ad un
evento storico, ma gli fa comprendere anche il fatto che lui stesso è un essere costitutivamente
storico, che è storicità. La storicità, o forse ancor meglio il senso di storicità, è uno degli
insegnamenti fondamentali che Sartre trarrà dalla guerra, anche grazie al contributo della sua
concomitante riscoperta di Heidegger, di cui ho già parlato.
Infine, la guerra per la prima volta gli fa sentire il peso della vita sociale, della vita con gli altri.
Mentre prima della guerra si considerava solo un individuo e non coglieva, se non minimamente, il
legame con la società in cui viveva, ora, con la sparizione dell’importanza delle differenze
individuali, avverte il fatto che ogni individuo è un essere sociale e politico. Sartre, poi, per il fatto
stesso di poter riconsiderare ed esaminare la sua vita di pace, può guardare tutto in prospettiva e
collocare se stesso in una precisa classe sociale caratterizzata da precise scelte. Ciò non vuol dire
che il suo comportamento e le sue scelte durante la pace fossero determinate dalla sua collocazione
sociale e che egli fosse solo apparentemente libero; non significa che la libertà che sentiva fosse
apparente e coprisse un determinismo assoluto. Tuttavia, ora si rende conto che la sua libertà non
era, come lui pretendeva prima, del tutto incondizionata, ma condizionata dalle caratteristiche,
contingenti ma determinate, della sua epoca e della sua classe che aveva ripreso liberamente; si
accorge, in poche parole, che la libertà non può essere se non radicata in una situazione storica e
sociale concreta e con ciò si modifica radicalmente il suo concetto di libertà (Cfr. Ibidem, pp. 537539)
Queste tre componenti essenziali del mondo della guerra che ho descritto spingono Sartre ad un
radicale cambiamento di atteggiamento, ad abbandonare completamente il suo stoicismo per
accedere all’autenticità. Quando Sartre scrive le prime pagine del suo diario, ha già fatto sua la
posizione che definisce autentica e sta sconfessando quella precedente, ha già compiuto la sua
personale conversione e vuole darne conto. Per questo motivo intitola ironicamente alcuni paragrafi
del suo primo carnet “le tribolazioni di uno stoico” (Ibidem, p. 20 e p. 98). Con il termine stoicismo
Sartre vuole indicare, in questo particolare contesto, l’atteggiamento, assunto negli anni precedenti
e abbandonato in parte solo pochi mesi prima della scrittura dei Carnets, di astratta condanna e
rifiuto della guerra, di vago antimilitarismo fondato più su ragioni di ordine morale che politico e
sociale. (Sartre, indagando l’origine del suo pacifismo di prima della guerra, fa spesso riferimento
nel corso dei Carnets all’influenza del libro di Alain Mars ou la guerre jugée, letto nel 1924: cfr.
Ibidem, p. 28 passim). Si trattava di un pacifismo che non si traduceva in nessun atto concreto e che
gli eventi rendevano sempre più inattuale e superato. Sartre stesso nel 1938-39 cominciava a
rendersi conto di ciò: mentre prima desiderava la pace ad ogni costo e non credeva alla possibilità di
una guerra (come buona parte degli intellettuali e dell’opinione pubblica francese), poco alla volta il
precipitare degli eventi lo aveva convinto che la guerra fosse inevitabile e gli aveva fatto vedere
quanto il suo pacifismo fosse astratto; perciò egli aveva cominciato a mettere in discussione la sua
posizione, anche se il suo abbandono definitivo avvenne solo all’inizio della guerra. (Nei Carnets
Sartre fa la storia del suo atteggiamento di fronte alla guerra dall’infanzia fino al 1939: cfr. Ibidem,
pp. 78-91.)
Che cosa comportava l’atteggiamento stoico di fronte alla guerra per Sartre?
Innanzitutto lo portava a considerare la guerra come una malattia da sopportare, come un semplice
incidente del tutto indipendente dalla sua volontà, come qualcosa che non aveva voluto e di fronte
al quale non era possibile altro che la rassegnazione. Questo atteggiamento stoico portava con sé
anche un certo ottimismo e una soggezione all’autorità, all’ordine costituito.
Ora si rende conto che lo stoicismo e l’autenticità sono addirittura antitetici tra loro; si può infatti
dire che lo stoicismo è inautentico perché, anziché assumere la situazione, la vuole sopportare. In
un certo senso, quindi, porta a ricercare delle scuse, è un tentativo per non assumere le proprie
responsabilità. Essere autentici di fronte alla guerra significa, invece, scegliere mediante la propria
libertà la situazione in cui si è gettati. Ciò non vuol dire accettare la guerra, ma considerarla come
un fatto umano, di cui gli uomini sono responsabili, perché l’hanno dichiarata e la fanno. Sartre si
sente, poi, personalmente responsabile di fronte alle nuove generazioni, perché, come abbiamo
visto, durante la pace, al di là dell’astratta condanna e del vago antimilitarismo, non ha fatto nulla di
concreto perché non scoppiasse questo conflitto.
Secondo Sartre, pertanto, nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può, se non in malafede,
considerarsi innocente mentre fa la guerra, nessuno può accampare scuse. Ecco perché Sartre può
giungere ad affermare che in guerra non ci sono vittime innocenti.
È dunque chiaro che la guerra, dal punto di vista dell’atteggiamento autentico, è qualcosa che
deve essere con tutte le forze rifiutato e che bisogna con tutti i nostri mezzi evitare, ma quando si è
in pace. Una volta scoppiata, bisogna immergervisi, farla e farsi in essa, viverla in maniera
autentica, abbandonando lo stoicismo che non è altro che un atteggiamento importato dalla pace
(Cfr. Ibidem, pp. 124 s.).
L’atteggiamento particolare di stoicismo che Sartre ha assunto di fronte alla guerra deve essere
considerato come la concretizzazione in un caso specifico di una scelta morale più vasta. Esso
rimanda insomma ad uno stoicismo più generale che è in un certo senso la consacrazione sul piano
morale della sua posizione di disimpegno e di sostanziale estraneità alla società ed agli eventi
storico-politici. Da questo punto di vista più generale e formale possiamo dire, infatti, che lo
stoicismo per Sartre consisteva nella ricerca della libertà come distacco dalle passioni e dai beni,
dunque di una libertà intesa da un lato come dominio su di sé e dall’altro come separazione dalla
società e critica dei suoi costumi e della sua morale; solo così lo stoico poteva raggiungere una
specie di autosufficienza ed autonomia che portava con sé la vera felicità.
Lo stoicismo era un atteggiamento pratico ideale che Sartre aveva cercato di far proprio. Nelle
lettere inviate a Simone Jolivet nel 1926 aveva già delineato i tratti specifici dell’uomo stoico,
indicandoli come un ideale di carattere che stava cercando di raggiungere. Aveva inoltre definito
santé morale, salute morale, lo stato di assoluta libertà e di vera gioia che derivava dal
raggiungimento di questo ideale (Cfr. J.-P. SARTRE, Lettres au Castor et à quelques autres, vol. I:
1926-1939, édition établie, présentée et annotée par S. de Beauvoir, Gallimard, Paris 1983, ristampa
1990, pp. 9-31). La libertà stoica era pertanto una libertà astratta, disincarnata, sradicata e propria di
un individuo considerato soltanto nella sua singolarità, di un singolo separato da tutti gli altri, di un
“uomo solo” che faceva della sua solitudine il suo punto di forza. (Sartre nell’opera La légende de
la vérité aveva elaborato una vera e propria teoria dell’uomo solo. Nel 1931 sulla rivista “Bifur” ne
aveva pubblicato solo un frammento intitolato Légende de la vérité, frammento che è stato poi
ripubblicato in appendice all’opera bibliografica: M. CONTAT-M. RYBALKA, Les écrits de Sartre.
Chronologie, bibliographie commentée, Gallimard, Paris 1970, ristampa 1980, pp. 531-545)
Quest’atteggiamento stoico non può essere compreso se non viene riferito alle teorie morali che
Sartre aveva elaborato prima della guerra. Sebbene la loro analisi non rientri nei limiti che ho
assegnato alla mia ricerca, qui voglio accennare ad alcuni loro elementi che possono spiegare il suo
stoicismo.
Innanzitutto, si può dire che il comune denominatore che stava alla loro base fosse la ricerca
dell’assoluto. Avendo posto come principio della sua concezione la teoria della contingenza, che
afferma che l’esistenza delle cose e degli uomini è senza giustificazione, che non c’è nessuna
ragione che possa spiegare la loro presenza al mondo, che sono “di troppo” per l’eternità, avendo
risposto pertanto in modo negativo all’esigenza di senso sul piano dell’esistenza, inevitabilmente
sorgeva in lui il desiderio di una giustificazione assoluta su di un piano affatto diverso, quello
dell’essere e della necessità. Conviene poi affermare che le morali giovanili non erano affatto
separate dalla sua attività di scrittore: non avevano e non potevano avere perciò una validità
generale, perché si occupavano soltanto dei rapporti tra arte e vita ed in particolare definivano il
modo in cui l’artista doveva comportarsi nella sua vita e nel suo rapporto con gli altri. Inoltre,
occorre precisare che Sartre all’epoca aveva una concezione specifica dell’attività letteraria,
antitetica a quella della letteratura impegnata, engagée, che assumerà in seguito; la considerava
come il vero luogo del sacro: la nascita dell’opera d’arte era per lui un evento metafisico che
riguardava l’intero universo e vedeva nella figura dell’intellettuale una specie di eletto che,
producendo delle opere (considerate come oggetti sacri, come reliquie), salvava l’umanità
irrimediabilmente affondata nel male (Cfr. J.-P. SARTRE, Le parole, Il Saggiatore, Milano 1964,
ristampa 1994, pp. 108-127) L’opera d’arte diventava in questo modo uno strumento di salvezza per
l’intellettuale stesso e per gli altri, poiché si poneva sul piano dell’essere, inteso come assoluto,
necessario e non esistente, contrapposto alla contingenza del mondo e dell’esistenza.
Quella della salvezza tramite l’opera d’arte è una delle teorie morali giovanili di Sartre. Di essa
abbiamo una traccia più che evidente nella conclusione de La nausée, dove il protagonista Antoine
Roquentin intravvede la possibilità di salvarsi dal peccato di esistere, dalla irrimediabile
contingenza della sua esistenza, grazie alla scrittura di un libro (Cfr. J.-P. SARTRE, La nausea,
Einaudi, Torino 1948, ristampa 1990, pp. 226-238). Questa concezione “religiosa” dell’arte, che
come mostra bene l’opera autobiografica Les mots risaliva alla sua infanzia, aveva una forte
influenza sulla sua posizione morale: lo stoicismo ne era una delle conseguenze più importanti.
Con la guerra, però, sia lo stoicismo, sia le morali giovanili che ne stanno a fondamento, sia infine
la concezione sacra dell’attività letteraria, vengono del tutto superati e considerati inattuali ed
inautenticiti. Sartre, infatti, inizia ad elaborare la morale dell’autenticità, una morale affatto nuova
che comporta il completo abbandono delle posizioni precedenti.
Daniele Baron
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