Cedam - La nuova giurisprudenza civile commentata di Zatti Paolo

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Dipartimento
Diritto Comparato,
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La corrispondenza per la Rivista va indirizzata ad Arianna Fusaro, Dipartimento
Piccinni); 049.8278918 (M. Cinque). Fax e segreteria 049.655644
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Offerta triennale 2016-2018: ITALIA € 573,00 - ESTERO € 737,00
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Condizioni generali di abbonamento
L’abbonamento decorre dal 1° gennaio e scade il 31 dicembre successivo. In ipotesi il cliente sottoscriva
Condizioni
generali
di abbonamento
l’abbonamento nel corso dell’anno
la scadenza
è comunque
stabilita al 31 dicembre del medesimo anno:
L’abbonamento
decorre
daltenuto
1° gennaio
e scade ildell’intera
31 dicembre
successivo.
ipotesi
il clientegli
sottoscriva
in tal caso l’abbonato
sarà
al pagamento
annata
ed avrà In
diritto
di ricevere
arretrati
l’abbonamento
nel corso
dell’anno
la scadenza è comunque stabilita al 31 dicembre del medesimo anno:
editi
nell’anno prima
dell’inizio
dell’abbonamento.
in
tal casodell’abbonamento
l’abbonato sarà tenuto
al pagamento
dell’intera annata
ed avrà
ricevere
gli online
arretrati
Il prezzo
carta comprende
la consultazione
digitale
delladiritto
rivista di
nelle
versioni
su
editi
nell’anno prima dell’inizio dell’abbonamento.
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Il
prezzo
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professionale.carta comprende la consultazione digitale della rivista nelle versioni online su
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e smartphone
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L’abbonamento
si intenderà tacitamente rinnovato
pere Android)
l’anno successivo
in assenza
di disdetta
da
l’App Edicolaalmeno
professionale.
comunicarsi
30 giorni prima della scadenza del 31 dicembre esclusivamente a mezzo lettera
L’abbonamento
raccomandata a.r.si intenderà tacitamente rinnovato per l’anno successivo in assenza di disdetta da
comunicarsi
30all’abbonato
giorni primadevono
della scadenza
del 31entro
dicembre
esclusivamente
mezzo lettera
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pervenuti
essere reclamati
e non oltre
un mese dalaricevimento
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fascicolo
successivo.
I fascicoli non pervenuti all’abbonato devono essere reclamati entro e non oltre un mese dal ricevimento del
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fascicolo successivo. Decorso tale termine saranno spediti contro rimessa dell’importo.
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– eCarta
didicredito
Visa, Master Card, Carta Si, American Card, American Express, Diners Club,
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scadenza.
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e sono trattati
ai sensi dell’art. 13Strada
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registrati
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cui all’art.
7didel
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diritto
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dell’art.
comma
4, del D.Lgs.
n. 196/03,
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di accedere
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ottenerne
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analoghi
a quelli
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e
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dei esercitare
Suoi dati iaidirittididiinvio
Lei potràalintrattamento
ogni momento
cui all’art.
7 del D.Lgs.
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fra cui diretta
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comunicazioni
commerciali
e di richiedere
l’elenco aggiornato
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LA NUOVA
GIURISPRUDENZA
CIVILE COMMENTATA
ANNO XXXII
2016
RIVISTA MENSILE
de Le Nuove Leggi Civili Commentate
a cura di
Guido Alpa e Paolo Zatti
Comitato Editoriale
G. Alpa
F. Addis
G. Amadio
A. Federico
G. Iudica
A. Barba
G. Ferrando
M. Mantovani
G. Conte
An. Fusaro
M.R. Maugeri
G. Ponzanelli
S. Patti
E. Quadri
G. De Cristofaro
S. Delle Monache
E. Lucchini Guastalla
E. Navarretta
R. Pucella
P. Zatti
M. Orlandi
C. Scognamiglio
F. Padovini
P. Sirena
Redazione
Responsabili
Ar. Fusaro
M. Cinque
B. Checchini
G. Cinà
U. Roma
M. Piccinni
M. Farneti
F. Macario
A. Pasqualetto
F. Viglione
Redazione giudiziaria
G. Carraro V. Durante L.A. Scarano
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Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Comitato Scientifico per la valutazione
G. Ajani F. Anelli A. Antonucci T. Auletta P. Auteri V. Barba M. Basile
A. Bellelli A. Belvedere G.A. Benacchio F. Bianchi D’urso G. Bonilini
U. Breccia C. Campiglio F. Capriglione V. Carbone P. Cendon C. Cester
A. Checchini S. Chiarloni G. Collura V. Colussi L.P. Comoglio M. Confortini
A. D’Adda G. D’Amico A. D’Angelo M. De Acutis M. De Cristofaro
M.V. De Giorgi R. De Luca Tamajo A.M. De Vita E. del Prato G. Di Rosa
M. Fortino M. Franzoni G. Furgiuele A. Gambaro A. Gentili F. Giardina
A. Giussani A. Gorassini C. Granelli B. Grasso M. Graziadei C.A. Graziani
A. Guarneri L. Lenti M. Libertini F.P. Luiso A. Luminoso M. Maggiolo
G. Marasà M.R. Marella C.M. Mazzoni O. Mazzotta E. Merlin P.G. Monateri
E. Moscati A. Natucci G. Niccolini M. Nuzzo S. Pagliantini R. Pane M. Paradiso
R. Pardolesi R. Pescara A. Plaia D. Poletti P. Pollice G.C. Rivolta V. Roppo
F. Ruscello U. Salanitro L. Salvaneschi C. Salvi D. Sarti G. Sbisà M. Sesta
P. Stanzione M. Tamponi M. Taruffo C. Tenella Sillani R. Tommasini M. Trimarchi
S. Troiano D. Valentino G. Vettori R. Weigmann A. Zaccaria V. Zeno-Zencovich
Norme di autodisciplina
1. La valutazione dei contributi inviati alla NGCC per pubblicazione, sia su iniziativa degli autori, sia in
quanto richiesti dal Comitato editoriale, è affidata a due membri del Comitato per la valutazione scientifica
scelti per rotazione all’interno di liste per area tematica formate in base alle indicazioni di settore fatte da
ciascun componente del Comitato e disposte in ordine casuale.
2. Il contributo è avviato ai valutatori senza notizia dell’identità dell’autore.
3. L’identità dei valutatori è coperta da anonimato. In ciascun fascicolo della Rivista è pubblicato in ordine
alfabetico l’elenco dei valutatori che hanno collaborato alla revisione del fascicolo.
4. In caso di pareri contrastanti la Direzione assume la responsabilità della decisione.
5. Ove dalle valutazioni emerga un giudizio positivo condizionato a revisione o modifica del contributo, la
Direzione promuove la pubblicazione solo a seguito dell’adeguamento del saggio assumendosi la responsabilità della verifica.
I contributi del presente fascicolo sono stati valutati da:
C. Campiglio G. De Cristofaro G. Di Rosa F. Giardina A. Giussani A. Gorassini
S. Pagliantini D. Sarti G. Sbisà R. Tommasini S. Troiano G. Vettori
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NGCC 9/2016 Indice-Sommario
INDICE-SOMMARIO
Sentenze commentate
Adozione
CASS. CIV., I sez., 22.6.2016, n. 12962 ......................................................
1135
Contratti del consumatore
CORTE GIUST. UE, 18.2.2016, causa C-49/14
Autonomia processuale ed effettività della tutela del consumatore ...........
di Giulio Palma
1143
CORTE GIUST. UE, 14.4.2016, cause riunite C-381/14 e C-385/14
A proposito dei ‘‘mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione
di clausole abusive’’
Tutela individuale e tutela collettiva ...........................................................
di Nicolò Cevolani
1153
CASS. CIV., IV sez., ord. 10.2.2016, n. 2687
Considerazioni a margine di un’ordinanza in tema di foro del consumatore
di Angelo Barba
1163
Contratto in genere
CASS. CIV., I sez., 24.3.2016, n. 5919 ........................................................
CASS. CIV., I sez., 11.4.2016, n. 7068 ........................................................
1168
1171
Famiglia
CORTE COST., 7.4.2016, n. 76
Le sentenze straniere di stepchild adoption omogenitoriale. Il discrimine
tra automaticità del riconoscimento e giudizio di delibazione ....................
di Lucia Marzialetti
Ipoteca
Responsabilità civile
Società
CASS. CIV., III sez., 5.4.2016, n. 6533
Nuove prospettive in tema di ipoteca giudiziale eccessiva e responsabilità
aggravata del creditore .................................................................................
di Valentina Bellomia
T.A.R. LOMBARDIA, III sez., 6.4.2016, n. 650
La responsabilità della pubblica amministrazione nel caso Englaro ...........
di Chiara Favilli
TRIB. SPOLETO, decr. 11.2.2016 e TRIB. SPOLETO, ord. 9.3.2016
Principio dell’unanimità e competenza del Tribunale delle Imprese nella
trasformazione di società di persone costituite prima della riforma ..........
di Melissa Sartori
1172
1183
1194
1205
Letture e Opinioni
Il problema dell’adozione del figlio del partner. Commento a prima lettura
della sentenza della Corte di cassazione n. 12962 del 2016 .....................
di Gilda Ferrando
NGCC 9/2016
1213
Dalla nullità relativa alla forma dimidiata? ..................................................
di Paolo Gaggero
1220
Chi è il consumatore sovraindebitato? Aperture e chiusure giurisprudenziali
di Enza Pellecchia
1228
1131
Sinergie Grafiche srl
n
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Indice-Sommario NGCC 9/2016
Saggi e Aggiornamenti
La posizione giuridica del garante-consumatore: dalle novità europee alle
recentissime aperture interne .......................................................................
di Lavinia Vizzoni
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di
rilievo officioso dell’abusività di una clausola contrattuale e le sue ricadute
sul piano interno ............................................................................................
di Nicola Rumine
1233
1244
Indice cronologico
Corte di giustizia UE
18.2.2016, C-49/14 .............................................
14.4.2016, C-381/14 e C-385/14 .......................
1143
1153
Corte costituzionale
7.4.2016, n. 76 ...................................................
1174
Tribunale amministrativo regionale
Lombardia, 6.4.2016, n. 650 ...........................
1194
Corte di Cassazione
10.2.2016, n. 2687 - sez. IV (ord.) ....................
1163
24.3.2016, n. 5919 - sez. I .................................
5.4.2016, n. 6533 - sez. III ................................
11.4.2016, n. 7068 - sez. I .................................
22.6.2016, n. 12962 - sez. I ..............................
1168
1183
1171
1135
Tribunale
Spoleto, 11.2.2016 (decr.) ..............................
Spoleto, 9.3.2016 (ord.) ..................................
1205
1205
Indice autori
Angelo Barba, Considerazioni a margine di un’ordinanza in tema di foro del consumatore ...............
Valentina Bellomia, Nuove prospettive in tema di
ipoteca giudiziale eccessiva e responsabilità aggravata
del creditore (*) ....................................................
1164
1186
Nicolò Cevolani, A proposito dei ‘‘mezzi adeguati
ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive’’. Tutela individuale e tutela collettiva (*) .....
1157
Chiara Favilli, La responsabilità della pubblica amministrazione nel caso Englaro (*) ........................
1198
Gilda Ferrando, Il problema dell’adozione del figlio
del partner. Commento a prima lettura della sentenza della Corte di cassazione n. 12962 del 2016 ....
1213
Paolo Gaggero, Dalla nullità relativa alla forma
dimidiata? .............................................................
1220
Lucia Marzialetti, Le sentenze straniere di stepchild adoption omogenitoriale. Il discrimine tra
automaticità del riconoscimento e giudizio di delibazione (*) ..............................................................
1177
Giulio Palma, Autonomia processuale ed effettività
della tutela del consumatore (*) ............................
1147
Enza Pellecchia, Chi è il consumatore sovraindebitato? Aperture e chiusure giurisprudenziali ............
1228
Nicola Rumine, La giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea in tema di rilievo officioso dell’abusività di una clausola contrattuale e le
sue ricadute sul piano interno (*) .........................
1244
Melissa Sartori, Principio dell’unanimità e competenza del Tribunale delle Imprese nella trasformazione di società di persone costituite prima della riforma
(*) .......................................................................
1206
Lavinia Vizzoni, La posizione giuridica del garanteconsumatore: dalle novità europee alle recentissime
aperture interne (*) ..............................................
1233
Legenda: Il simbolo (*) a fianco dell’autore segnala che il commento/saggio è stato oggetto di referee secondo quanto
indicato supra, nelle ‘‘Norme di autodisciplina’’.
1132
NGCC 9/2016
Sinergie Grafiche srl
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
n
NGCC 9/2016 Indice-Sommario
NGCC online
1. Sul nuovo portale ‘‘Edicola Professionale’’, all’indirizzo www.edicolaprofessionale.com/NGCC l’abbonato può
consultare l’ultimo fascicolo della rivista appena inviato in stampa ed accedere ai fascicoli degli ultimi 12
mesi. In più, nella versione su tablet e smartphone, dall’app gratuita di Edicola Professionale può effettuare
ricerche all’interno del fascicolo, inserire note e segnalibri ed inviare pagine e articoli da condividere con i
colleghi.
2. Sul sito dell’Università di Padova, sezione Dipartimento di Scienze politiche, Giuridiche e Studi Internazionali,
all’indirizzo www.spgi.unipd.it/servizi/la-nuova-giurisprudenza-civile-commentata, è scaricabile il Sommario dell’ultimo fascicolo e un contributo segnalato dalla Direzione.
3. Su ‘‘Praticanti diritto’’, il portale Cedam per gli avvocati, notai e magistrati che devono affrontare il praticantato,
all’indirizzo www.praticantidiritto.it/rivista.la-nuova-giurisprudenza.htm, sono consultabili gli Indici annuali, il
Sommario dell’ultimo numero ed è possibile scaricare un fascicolo in omaggio.
NGCC 9/2016
1133
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
TASSAZIONE
DEGLI ATTI NOTARILI
GIOVANNI SANTARCANGELO
€ 140
Y60ETBN
L’Opera, giunta alla terza edizione, è
un vademecum che si propone di indirizzare l’operatore del diritto nella complessa materia fiscale relativa
agli atti notarili, in genere, e agli atti
soggetti a registrazione, fornendo in
modo sintetico, ma completo, tutti gli
elementi e i riferimenti necessari.
Il volume si divide in tre parti.
ESEMPI DI TASSAZIONE: contiene circa 1000 esempi di tassazione di atti
notarili, con una sintetica indicazione
della normativa e della prassi inerente a ciascuno;
LEGGI: presenta un commento articolo per articolo, alle norme di riferimento, con oltre
3000 richiami alle circolari e risoluzioni dell’Amministrazione finanziaria;
AGEVOLAZIONI: analizza ed elenca le principali agevolazioni fiscali previste per i vari
atti notarili, distinguendole tra quelle in vigore fino al 31 dicembre 2013, ormai abrogate
(la cui disciplina interessa per eventuali decadenze o formalità che dovessero ancora
intervenire), e quelle in vigore dal 1° gennaio 2014.
Il Cd-Rom allegato consente una rapida e agevole consultazione e fruizione dei contenuti di questa guida operativa.
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Sentenze commentate Parte prima
Sentenze commentate
n Adozione
CASS. CIV., I sez., 22.6.2016, n. 12962 – DI PALMA Presidente – ACIERNO Relatore – CERONI P.M. (concl. diff.)
– D.M. – G. – C.M.R. (avv. Pili) – Conferma App. Roma, 23.12.2015
ADOZIONE – ADOZIONE IN CASI PARTICOLARI – DOMANDA PROPOSTA DA CONVIVENTE DELLO STESSO SESSO
– CONFLITTO DI INTERESSI TRA GENITORE BIOLOGICO E MINORE ADOTTANDO – VALUTAZIONE IN CONCRETO
– NECESSITÀ (Cost., artt. 2, 3, 117; Conv. eur. dir. uomo, artt. 8, 14; l. 4.5.1983, n. 184, art. 44, comma 1º, lett.
d, n. 2)
La domanda di adozione di una minore proposta dalla partner della madre biologica con questa stabilmente
convivente non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma
richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice.
ADOZIONE – ADOZIONE IN CASI PARTICOLARI – PREESISTENTE STATO DI ABBANDONO – NECESSITÀ – ESCLUSIONE – IMPOSSIBILITÀ ‘‘DI DIRITTO’’ DI AFFIDAMENTO PREADOTTIVO – SUFFICIENZA – ORIENTAMENTO SESSUALE DELL’ADOTTANTE – IRRILEVANZA (Cost., artt. 2, 3, 117; Conv. eur. dir. uomo, artt. 8, 14; l. 4.5.1983, n.
184, art. 44, comma 1º, lett. d), n. 2)
Per l’adozione in casi particolari ex art. 44, comma 1º, lett. d), della l. n. 184 del 1983, si prescinde da un
preesistente stato di abbandono del minore ed è sufficiente l’impossibilità ‘‘di diritto’’ di procedere all’affidamento preadottivo del minore, potendo accedere a tale adozione persone singole e coppie di fatto, senza che
l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge possa svolgersi, anche indirettamente, attribuendo
rilievo all’orientamento sessuale del richiedente ed alla natura della relazione da questi stabilita con il proprio
partner.
dal testo:
Il fatto. 1. - C.M.R., legata da una relazione sentimentale
e di convivenza con O.O. fin dal 2003, ha proposto dinanzi
al Tribunale per i minorenni di Roma, ai sensi della L. 4
maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), (Diritto del
minore ad una famiglia), domanda di adozione della minore
O.A. [nata a (Omissis)], evidenziando che:
- la nascita di A. è stata il frutto di un progetto genitoriale
maturato e realizzato con la propria compagna di vita;
- la decisione di scegliere la O., più giovane, ai fini della
gravidanza è stata dettata dalle maggiori probabilità di successo delle procedure di procreazione medicalmente assistita
effettuate in Spagna;
- A. ha vissuto sin dalla nascita con lei e la sua compagna,
in un contesto familiare e di relazioni scolastiche e sociali
analogo a quello delle altre bambine della sua età, nel quale
sono presenti anche i nonni O. e alcuni familiari della ricorrente.
Il Tribunale adito - acquisito l’assenso della madre della
minore alla adozione e sentito il Pubblico Ministero minorile, il quale ha espresso parere sfavorevole -, con la sentenza
n. 299/2014 del 30 luglio 2014, ha disposto farsi luogo al-
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l’adozione di O.A. da parte di C.M.R., con conseguente
aggiunta del cognome di quest’ultima a quello della minore.
Tale decisione è stata basata sulle seguenti argomentazioni: a) non è ravvisabile nel nostro ordinamento, diversamente dall’adozione ‘‘legittimante’’, il divieto per la persona
singola di adottare ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44,
comma 1, lett. d); b) nessuna limitazione normativa può
desumersi dall’orientamento sessuale della richiedente l’adozione in casi particolari; c) con la menzionata disposizione, il
legislatore ha inteso favorire il consolidamento di rapporti
tra minore e parenti o persone che già se ne prendono cura,
prevedendo un modello adottivo con effetti più limitati
rispetto a quello di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 6; d)
la ratio legis deve essere individuata nella verifica della
realizzazione dell’interesse del minore, da intendersi come
limite invalicabile e chiave interpretativa dell’istituto; e)
la condizione dell’impossibilità dell’affidamento preadottivo, contenuta nella lett. d) del comma 1 dell’art. 44, deve
essere interpretata non già, restrittivamente, come impossibilità ‘‘di fatto’’, bensı̀ come impossibilità ‘‘di diritto’’, cosı̀ da
comprendere anche minori non in stato di abbandono ma
relativamente ai quali nasca l’interesse al riconoscimento di
rapporti di genitorialità; f) tale ultimo requisito è sussistente
nella specie, non trovandosi A. in stato di abbandono e
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risultando, di conseguenza, non collocabile in affidamento
preadottivo in ragione della presenza della madre, perfettamente in grado di occuparsene; g) la minore, in virtù dello
stabile legame di convivenza tra la O. e la C., ha sviluppato
una relazione di tipo genitoriale con quest’ultima, relazione
che, attraverso il paradigma della L. n. 184 del 1983, art. 44,
comma 1, lett. d), può avere riconoscimento giuridico entro
i limiti dettati dal peculiare modello adottivo applicabile; h)
non sussistono, al riguardo, ostacoli normativi costituiti dall’assenza del rapporto matrimoniale e dalla riscontrata natura del rapporto tra la madre della minore e la C., in quanto
persone dello stesso sesso; i) le indagini richieste dalla stessa
L. n. 184 del 1983, art. 57 hanno consentito di rilevare la
piena rispondenza dell’adozione al preminente interesse della minore.
2. - A seguito dell’impugnazione proposta dal Pubblico
Ministero minorile avverso tale sentenza, la Corte d’Appello
di Roma, sezione minorenni - in contraddittorio con
C.M.R., che ha resistito all’appello; respinta, con ordinanza
del 3 febbraio-9 aprile 2015, l’istanza di nomina di un curatore speciale della minore; disposta ed espletata la ‘‘verifica’’, di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 57 -, con la sentenza
n. 7127/2015 del 23 dicembre 2015, ha rigettato l’appello.
In particolare, nel confermare la menzionata pronuncia
del Tribunale, la Corte:
a) in ordine all’esistenza di un potenziale conflitto d’interessi tra la minore e la madre, legale rappresentante della
stessa in giudizio, ed alla conseguente necessità della nomina
di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ.,
nel ribadire quanto osservato con la citata ordinanza reiettiva del 3 febbraio-9 aprile 2015, ha ritenuto che non vi
fosse, nel caso concreto, incompatibilità d’interessi e di posizioni tra la minore e la madre in merito all’esito della causa
ed ha sottolineato che la norma richiede il preventivo assenso del genitore;
b) in ordine alla dedotta illegittimità dell’interpretazione
della condicio legis, relativa alla ‘‘constatata impossibilità
dell’affidamento preadottivo’’, ha affermato che: nell’intenzione del legislatore, tale disposizione risponde all’esigenza
di rafforzare legami di fatto esistenti in ambito familiare/
parentale e di trovare una soluzione per situazioni nelle quali
non sia possibile l’adozione legittimante; insorto contrasto
in dottrina ed in giurisprudenza, nella prima fase di applicazione della norma, tra l’interpretazione ‘‘restrittiva’’ - secondo la quale l’impossibilità di affidamento preadottivo presuppone una situazione di abbandono, in quanto solo tale
condizione rende possibile un affidamento preadottivo - e
l’interpretazione ‘‘estensiva’’ - secondo la quale può prescindersi dalla condizione di abbandono -, quest’ultima interpretazione è quella nettamente prevalente nella giurisprudenza
minorile, avendo trovato autorevole avallo ermeneutico
nella sentenza della Corte Costituzionale n. 383 del 1999,
per la quale l’art. 44, comma 1, lett. c), nella versione ratione temporis (1999) applicabile, formalmente e sostanzialmente corrispondente alla vigente lettera d), non richiede la
preesistenza di una situazione di abbandono del minore,
trattandosi di un sorta di clausola residuale volta a disciplinare le situazioni non rientranti nei parametri di cui all’art.
7, relativi alle condizioni necessarie per procedere all’adozione legittimante; in conclusione, deve aderirsi all’interpretazione secondo la quale è sufficiente l’impossibilità giuridi-
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ca dell’affidamento preadottivo, la quale può verificarsi anche in mancanza di una situazione di abbandono;
c) in particolare, ha osservato che: nessuna delle quattro
fattispecie di adozione in casi particolari, previste dall’art.
44, comma 1, richiede il preventivo accertamento di una
situazione di abbandono, in quanto la ratio ad esse sottesa è
volta alla salvaguardia di legami affettivi e relazionali preesistenti ed alla risoluzione di situazioni personali nelle quali
l’interesse del minore ad un’idonea collocazione familiare è
preminente e si realizza mediante l’instaurazione di ‘‘vincoli
giuridici significativi’’ con chi si occupa stabilmente di lui;
l’interpretazione estensiva non può ritenersi preclusa dalla
pronuncia della Corte di Cassazione n. 22292 del 2013,
perché relativa ad una fattispecie nella quale l’applicabilità
dell’art. 44, comma 1, lett. d), è stata esclusa per essere già in
atto un affidamento preadottivo conseguente ad una dichiarazione di adottabilità;
d) con riferimento al caso di specie, ha affermato che:
l’impossibilità dell’affidamento preadottivo è incontestabile, esistendo un genitore con la piena consapevolezza del
suo ruolo ed una figlia minore che ha maturato un rapporto
interpersonale, affettivo ed educativo con la partner convivente della madre, tale da acquisire un’autonoma particolare
rilevanza e da giustificarne il riconoscimento giuridico attraverso una forma legale corrispondente a ciò che si verifica
nella vita quotidiana delle relazioni familiari della minore
medesima; la natura residuale dell’art. 44, comma 1, lett. d),
risponde pienamente a tali esigenze; il Tribunale ha accertato, in concreto, l’esistenza di un profondo legame della
minore con la C., instaurato fin dalla nascita e caratterizzato
da tutti gli elementi affettivi e di riferimento relazionale,
interno ed esterno, qualificanti il rapporto genitoriale e filiale; si tratta non già di dare vita ad una forma di genitorialita non consentita dalla legge, ma di prendere atto di una
situazione relazionale preesistente e di dare ad essa una forma giuridica secondo i parametri consentiti dalla legge sull’adozione, senza alcuna sovrapposizione al rapporto che lega
la madre della minore e la C.; le indagini svolte ai sensi della
L. n. 184 del 1983, art. 57 hanno consentito di accertare la
piena capacità affettiva ed educativa della C. - che mantiene un solido rapporto anche con il proprio fratello e con il
suo nucleo familiare di origine, nel quale la minore è coinvolta -, nonché la condizione di benessere in cui la minore
vive, comprendente aspetti ludici, sociali, scolastici, ricreativi, affettivi, culturali e materiali che la stessa C. concorre a
determinare.
3. - Avverso questa sentenza il Procuratore Generale della
Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma ha proposto
ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura.
Resiste, con controricorso, C.M.R.
I motivi. 1. - Con il primo motivo (con cui deduce:
‘‘Omessa nomina del curatore speciale della minore ai sensi
dell’art. 18 c.p.c. - nel procedimento di adozione il conflitto
di interessi del minore è in re ipsa’’), il Pubblico Ministero
ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo che: a)
la situazione di conflitto d’interessi si manifesta nello stesso
ricorso introduttivo, laddove è esplicitato che la nascita di
A. è stata il frutto di un progetto portato avanti dalla coppia
costituita dalla madre biologica e dalla ricorrente, ‘‘dal che è
agevole ravvisare l’aspirazione di entrambe, e quindi anche
della madre della minore, a vivere la bigenitorialità nell’am-
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bito del rapporto di coppia come consolidamento dello stesso’’ (cfr. Ricorso, pag. 4); b) tale conflitto è ‘‘potenziale’’, dal
momento che la madre agisce nel proprio interesse e ritiene
che tale interesse coincida con quello della minore, sicché la
decisione impugnata, anche se formalmente tesa a salvaguardare l’interesse della minore, appare sostanzialmente
ispirata da una concezione ‘‘adultocentrica’’; c) l’assenso
della madre all’adozione non è risolutivo, trattandosi di
una condizione della procedura prevista per qualsiasi tipologia di adozione in casi particolari; d) pertanto, sarebbe
stato necessario scindere le due posizioni, quella di portatrice di un interesse morale all’adozione e quella di legale
rappresentante dell’adottanda, appunto con la nomina di
un curatore speciale della minore.
Con il secondo motivo (con cui deduce: ‘‘Errore nella
applicazione della legge L. n. 184 del 1983, ex art. 44, lett.
d’’), il ricorrente critica ancora la sentenza impugnata, quanto all’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lett. d), data
dalla Corte d’Appello, sostenendo che: a) la ‘‘constatata
impossibilità di affidamento preadottivo’’ presuppone pur
sempre la preesistenza di una situazione di abbandono, trattandosi di un istituto giuridico unitario dai caratteri individuabili in negativo che mira a offrire tutela a situazioni di
adozione difficili od impossibili di fatto, come è comprovato
dalla stessa scelta del participio passato ‘‘constatata’’, che
rimanda ad un’attività materiale - la ricerca di una coppia
idonea all’affidamento preadottivo - al cui esito infruttuoso
soltanto si apre la possibilità dell’adozione speciale; b) al
riguardo, il richiamo della sentenza della Corte Costituzionale n. 383 del 1999 non appare pertinente, in quanto tale
sentenza è relativa ad una fattispecie concernente la domanda di adozione speciale rivolta da parenti entro il quarto
grado che già si occupano ed accudiscono il minore, cosı̀
impedendo la dichiarazione di abbandono; c) invece, la
sentenza della Corte di Cassazione n. 22293 del 2013 afferma correttamente che non può dilatarsi la nozione d’impossibilità di affidamento preadottivo al punto da ricomprendervi l’ipotesi del contrasto con l’interesse del minore, con
la conseguenza che l’impossibilità di affidamento preadottivo rappresenta un’ipotesi subordinata al mancato esito dell’adozione legittimante.
1.1. - Nell’odierna udienza di discussione, il sostituto Procuratore Generale ha chiesto: 1) in via preliminare, la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, perché involgente
una questione di massima di particolare importanza; 2) in
via subordinata, l’accoglimento del ricorso, ritenendo inapplicabile alla fattispecie dedotta nel presente giudizio la L. n.
184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), in quanto tutta la
disciplina normativa relativa all’adozione, comprensiva dell’art. 44, è rivolta alla tutela dell’infanzia maltrattata, abbandonata ed abusata, mentre nel caso di specie la minore ha
un genitore legittimo che si occupa in modo del tutto idoneo di lei; inoltre, l’interpretazione della condicio legis
‘‘constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo’’ che
non richieda la preventiva esistenza di una condizione di
abbandono determinerebbe un aggiramento del limite contenuto nella lettera b) dello stesso art. 44, il quale consente
soltanto l’adozione del figlio del coniuge ed esclude tale
possibilità per le coppie eterosessuali o dello stesso sesso
che non siano unite in matrimonio; ancora, la Corte d’Appello di Roma non ha neanche tentato un’interpretazione
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costituzionalmente orientata della lett. h) dell’art. 44, volta
ad estenderne l’applicazione anche alle coppie di fatto, nè
ha ritenuto di sollevare eccezione d’illegittimità costituzionale della norma per disparità di trattamento tra le unioni
matrimoniali e le altre forme di relazione stabile oppure per
discriminazione dovuta ad orientamento sessuale, ma ha
ritenuto applicabile la lettera d) nonostante il carattere derogatorio e di stretta interpretazione della norma; infine, a
fronte di un’ampia varietà di situazioni familiari stabili meritevoli di tutela, deve ritenersi rimessa al legislatore la scelta
in ordine ai valori ed ai diritti da tutelare.
2. - Preliminarmente, quanto alla richiesta di rimessione
alle Sezioni Unite formulata dal sostituto Procuratore Generale, il Collegio osserva innanzitutto che, secondo il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte (cfr., ex
plurimis, le sentenze nn. 4219 del 1985, 359 del 2003, 8016
del 2012), l’istanza di parte volta all’assegnazione del ricorso
alle sezioni unite, formulata ai sensi dell’art. 376 cod. proc.
civ. (nella specie, ai sensi del terzo comma dello stesso art.
376) e dell’art. 139 disp. att. cod. proc. civ., costituisce mera
sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che
non solo non è soggetto ad un dovere di motivazione, ma
non deve neppure necessariamente manifestarsi in uno specifico esame e rigetto di detta istanza.
Fermo restando quanto ora ribadito, può in ogni caso
osservarsi che la Corte di cassazione ha pronunciato a sezione semplice su numerose questioni variamente collegate a
temi socialmente e/o eticamente sensibili, in tema sia di
‘‘direttive di fine vita’’ (sentenza n. 21748 del 2007), sia
di limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive (sentenze nn. 4184 del 2012 e 2004 del 2015), sia di
adozione da parte della persona singola (sentenze nn. 6078
del 2006 e 3572 del 2011), sia di surrogazione di maternità
nella forma della gestazione affidata a terzi (sentenza n.
24001 del 2014). Deve, pertanto, ritenersi che non tutte
le questioni riguardanti diritti individuali o relazionali di
più recente emersione ed attualità sono per ciò solo qualificabili come ‘‘di massima di particolare importanza’’ nell’accezione di cui all’art. 374 c.p.c., comma 2.
3. - In limine, il Collegio precisa che, nella specie, il
rapporto di filiazione esistente tra la minore e la madre
biologica e legale, al pari del rapporto che lega la minore
alla richiedente l’adozione ai sensi della L. n. 184 del 1983,
art. 44, comma 1, lett. d), non è riconducibile ad alcuna
delle forme di cosiddetta ‘‘surrogazione di maternità’’ realizzate mediante l’affidamento della gestazione a terzi: la minore, infatti, è stata riconosciuta dalla donna che l’ha partorita, in applicazione dell’art. 269 c.c., comma 3.
4. - Il ricorso non merita accoglimento.
4.1. - Il primo motivo non è fondato.
Con esso (cfr., supra, n. 1.), la critica del ricorrente si
incentra sulla prefigurabilità di un conflitto ‘‘potenziale’’
(cosı̀ qualificato dallo stesso ricorrente) tra l’interesse della
madre ad ottenere riconoscimento giuridico dell’unione con
la propria partner e quello, autonomo, della minore adottanda, conflitto dal quale scaturirebbe la necessità della nomina di un curatore speciale della minore medesima.
La questione che tale motivo pone non ha precedenti
specifici e consiste nello stabilire se, nell’ambito di un rapporto di convivenza di coppia, la domanda proposta da una
delle persone componenti la coppia per l’adozione del figlio
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minore dell’altra, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44,
comma 1, lett. d), determini ex se un conflitto di interessi,
anche solo potenziale, tra la madre ed il minore adottando.
Al riguardo, è indispensabile premettere il quadro normativo di riferimento interno e convenzionale concernente la
rappresentanza e la partecipazione del minore ai giudizi che
lo riguardano.
La generale previsione contenuta nell’art. 78 c.p.c., comma 2 - ‘‘Si procede altresı̀ alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi è conflitto di interessi col
rappresentante’’ - deve integrarsi, con specifico riferimento
al minore, con gli artt. 3 e 12 della Convenzione sui diritti
del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa
esecutiva dalla L. 27 maggio 1991, n. 176, nonché con gli
artt. 4 e 9 della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e
resa esecutiva dalla L. 20 marzo 2003, n. 77.
In particolare, la Convenzione di New York - dopo aver
affermato, nell’art. 3, par. 1, il fondamentale principio, secondo cui ‘‘In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza
sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli
organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente’’ -, con l’art. 12, par. 2,
stabilendo che ‘‘... si darà.... al fanciullo la possibilità di
essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in modo compatibile
con le regole di procedura della legislazione nazionale’’, sancisce l’autonomia dei diritti e degli interessi del minore
anche nei procedimenti giurisdizionali.
A sua volta, l’art. 4, par. 1, della Convenzione di Strasburgo dispone che ‘‘Salvo quando disposto dall’art. 9, il
fanciullo ha il diritto di chiedere, personalmente o per il
tramite di altre persone o organi, la designazione di un
rappresentante speciale delle procedure dinnanzi ad un’autorità giudiziaria che lo concernono, qualora il diritto interno privi coloro che hanno responsabilità di genitore, della
facoltà di rappresentare il fanciullo per via di un conflitto
d’interesse con lo stesso’’. E il successivo art. 9, par. 1, stabilisce che ‘‘Nelle procedure che interessano un fanciullo,
se, in virtù del diritto interno, coloro che hanno responsabilità di genitore si vedono privati della facoltà di rappresentare il fanciullo a causa di un conflitto d’interessi con lo
stesso, l’autorità giudiziaria può designare un rappresentante
speciale per il fanciullo in tali procedure’’.
Tale quadro normativo convenzionale esige, dunque, che
possa essere rappresentata autonomamente la posizione del
minore nei giudizi che lo riguardano e si riferisce in particolare a quelli relativi ad interventi sulla responsabilità genitoriale ed a quelli adottivi, riservando tuttavia ai legislatori nazionali di stabilirne le modalità.
La scelta operata dal legislatore italiano è fondata sulla
predeterminazione normativa di alcune peculiari fattispecie
nelle quali è ipotizzabile in astratto, senza dover distinguere
caso per caso, il conflitto d’interessi, con conseguente necessità di nomina del curatore speciale a pena di nullità del
procedimento per violazione dei principi costituzionali del
giusto processo (cfr., ad esempio, art. 244 cod. civ., comma
6, art. 247 cod. civ., commi 2, 3 e 4, art. 248 cod. civ.,
commi 3 e 5, art. 249 cod. civ., commi 3 e 4, art. 264
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cod. civ.), mentre tutte le altre concrete fattispecie di conflitto d’interessi potenziale, che possa insorgere nei giudizi
riguardanti i diritti dei minori, sono regolate dall’art. 78 cod.
proc. civ., comma 2: ciò significa che il giudice del merito è
tenuto a verificare in concreto l’esistenza potenziale di una
situazione d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentante e quello preminente del minore rappresentato.
L’impostazione binaria ora illustrata è coerente con l’interpretazione complessiva del sistema di tutela della effettiva
rappresentanza degli interessi del minore nei giudizi che lo
riguardano, derivante dagli orientamenti della Corte costituzionale e della giurisprudenza di legittimità.
In particolare, la Corte costituzionale, già nell’ordinanza
n. 528 del 2000, allude alla necessità di verificare l’esistenza
nel nostro ordinamento di norme che consentano la nomina
del curatore speciale del minore nei giudizi che hanno ad
oggetto la potestà genitoriale (artt. 333 e 336 cod. civ.,
ratione temporis applicabili), ancorché non vi sia una previsione puntuale al riguardo nelle norme codicistiche richiamate. La stessa indicazione è contenuta nella sentenza n. 1
del 2002, nella quale viene espressamente precisato che il
menzionato art. 12 della Convenzione di New York integra
la disciplina contenuta nell’art. 336 cod. civ. (nella versione
ratione temporis applicabile) in modo da consentire, ‘‘se del
caso’’, la nomina di un curatore speciale. Nella sentenza n.
83 del 2011, la Corte è esplicita nell’affermare che, se di
regola la rappresentanza sostanziale e processuale del minore
è affidata al genitore, qualora si prospettino situazioni di
conflitto d’interessi, spetta al giudice procedere alla nomina
del curatore anche d’ufficio, ‘‘avuto riguardo allo specifico
potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art.
9, comma 1, della Convenzione di Strasburgo (...) previa
prudente valutazione delle circostanze del caso concreto’’
(n. 5 del Considerato in diritto).
Coerentemente con i principi soprarichiamati - fondati
sul rafforzamento del potere-dovere del giudice del merito
di verificare in concreto l’esistenza di una situazione d’incompatibilità tra gli interessi del genitore-rappresentante
legale e quelli del minore -, sono state individuate, anche
ai fini della delimitazione del sindacato di legittimità di
questa Corte, le ipotesi di conflitto d’interessi, rilevabili in
astratto ed in via generale, distinguendole dalle situazioni
concrete che volta a volta il giudice del merito ha il poteredovere di esaminare, anche alla luce delle norme convenzionali sopra indicate e del sistema potenziato di tutela processuale della posizione del minore nei giudizi che lo riguardano, derivante dalla L. 28 marzo 2001, n. 149 (di modifica
della legge n. 184 del 1983, le cui norme processuali sono
entrate in vigore il 1 luglio 2007). Al riguardo, può richiamarsi la sentenza n. 7281 del 2010, con la quale, in ordine
ad un giudizio di adottabilità, si è ritenuto che il conflitto
d’interessi tra genitori e minore, ai sensi della L. n. 184 del
1983, art. 8, u.c., e art. 10, comma 2, sia in re ipsa, con
conseguente obbligo per il giudice di provvedere alla nomina del curatore speciale, mentre relativamente al rapporto
tra tutore e minore la valutazione in concreto di una situazione d’incompatibilità debba essere frutto di valutazione
svolta caso per caso dal giudice (cfr., in senso conforme, le
sentenze nn. 12290, 16553 e 16870 del 2010, 11420 del
2014).
L’apprezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto
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d’interessi, che non sia previsto normativamente in modo
espresso (come ad esempio, nel disconoscimento di paternità, dal citato art. 244 c.c., u.c.) o non sia ricavabile dall’interpretazione coordinata delle norme che regolano il giudizio (come nel procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità), è rimesso in via esclusiva al giudice del merito e
non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità: al riguardo, può richiamarsi la sentenza n. 5533 del 2001, secondo la
quale il conflitto d’interessi tra genitore e figlio minore si
determina non ‘‘in presenza di un interesse comune, sia pure
distinto ed autonomo, di entrambi al compimento di un
determinato atto, ma soltanto allorché i due interessi siano
nel caso concreto incompatibili tra loro’’. Il medesimo principio è affermato nella motivazione della sentenza n. 21651
del 2011, proprio con riferimento ad una fattispecie di adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art.
44, comma 1, lett. b), laddove non si esclude ‘‘in linea di
principio’’ l’applicabilità dell’art. 78 c.p.c., comma 2, ma sı̀
afferma, richiamando la precedente pronuncia n. 2489 del
1992, che ‘‘il conflitto deve essere concreto, diretto ed attuale, e sussiste se al vantaggio di un soggetto corrisponde il
danno dell’altro’’.
Alla luce dei richiamati principi, emerge chiaramente
l’infondatezza del motivo in esame. Rilevato che viene censurata - sotto il profilo della violazione di norme di diritto di
cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, - l’‘‘Omessa nomina del
curatore speciale della minore ai sensi dell’art. 78 c.p.c.’’, sul
rilievo che ‘‘nel procedimento di adozione il conflitto di
interessi del minore è in re ipsa’’, anche se da ritenersi
non in atto ma potenziale, deve escludersi che possa trarsi
in via ermeneutica, in carenza d’indici normativi specifici,
un’incompatibilità d’interessi ravvisabile in generale quale
conseguenza dell’applicazione della L. n. 184 del 1983, art.
44, comma 1, lett. d). Questa peculiare ipotesi normativa di
adozione in casi particolari mira infatti - come meglio risulterà nel corso dell’esame del secondo motivo (cfr., infra, n.
4.2.) - a dare riconoscimento giuridico, previo rigoroso accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del
minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile
instaurate con il minore e caratterizzate dall’adempimento di
doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione
analoghi a quelli genitoriali. La ratio dell’istituto è quella di
consolidare, ove ricorrano le condizioni dettate dalla legge,
legami preesistenti e di evitare che si protraggano situazioni
di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato. All’interno
di tale paradigma non può ravvisarsi una situazione d’incompatibilità d’interessi in re ipsa, desumibile cioè dal modello adottivo astratto, tra il genitore-legale rappresentante
ed il minore adottando.
Al riguardo, deve aggiungersi che non può non cogliersi,
nella necessità dell’assenso del genitore dell’adottando previsto dalla L. n. 184 del 1983, art. 46, un indice normativo
contrario alla configurabilità, in via generale ed astratta, di
una situazione di conflitto d’interessi anche solo potenziale.
Tale situazione può, invece, riscontrarsi in concreto nel
corso del procedimento di adozione di cui all’art. 44, sicché
il giudice, se sollecitato da una delle parti o dal pubblico
ministero, deve verificarne l’esistenza nella fattispecie dedotta in giudizio. Nella specie, la Corte d’Appello, con l’ordinanza del 9 aprile 2015 (cfr., supra, Fatti di causa, n. 2.) ha
trattato espressamente la questione, escludendo la necessità
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della nomina di un curatore speciale, sia in considerazione
della radicale diversità della situazione sub judice rispetto a
quelle che caratterizzano le dichiarazioni di adottabilità,
nelle quali viene in luce proprio l’inidoneità dei genitori e
l’inadempienza ai doveri discendenti dal vincolo di filiazione, sia in relazione alla valutazione in concreto della comunanza - e non dell’incompatibilità - degli interessi del genitore e del minore, sia, infine, in considerazione della necessità dell’assenso preventivo all’adozione da parte del genitore stesso.
La censura, in conclusione, è da respingersi sotto il profilo
della violazione di legge, dal momento che il conflitto d’interessi denunciato non è in re ipsa ma va accertato in concreto con riferimento alle singole situazioni dedotte in giudizio.
Può, infine, osservarsi che l’unica ragione posta a sostegno
della denunciata incompatibilità d’interessi è stata individuata nell’interesse della madre della minore al consolidamento giuridico del proprio progetto di vita relazionale e
genitoriale. Al riguardo, tuttavia: o si ritiene che sia proprio
la relazione sottostante (coppia omoaffettiva) ad essere potenzialmente contrastante, in re ipsa, con l’interesse del
minore, incorrendo però in una inammissibile valutazione
negativa fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale
della madre della minore e della richiedente l’adozione, di
natura discriminatoria e comunque priva di qualsiasi allegazione e fondamento probatorio specifico; oppure si deve
escludere tout court, come già ampiamente argomentato,
la configurabilità in via generale ed astratta di una situazione di conflitto d’interessi. E, comunque, anche a voler qualificare il vizio denunciato all’interno del paradigma di cui
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (ancorché non espressamente dedotto), la Corte d’Appello ha compiutamente esaminato il profilo indicato, ne ha trattato in modo completo
ed ha espresso, di conseguenza, una valutazione finale insindacabile.
4.2. - Anche il secondo motivo è privo di fondamento.
Il suo esame sarà incentrato sull’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione dell’ipotesi normativa di adozione
in casi particolari disciplinata nella L. n. 184 del 1983, art.
44, comma 1, lett. d). In particolare, l’indagine ermeneutica
sarà concentrata sul contenuto da attribuire alla disposizione
‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’, condizione questa - in cui deve trovarsi il minore adottando indispensabile per l’applicazione di tale fattispecie di adozione.
4.2.1. - Al fine di pervenire ad un’interpretazione coerente con la lettera e la ratio dell’istituto, oltreché con il contesto costituzionale e convenzionale all’interno del quale
devono collocarsi i diritti del minore, è necessario esaminare
il testo dell’art. 44 nella sua interezza nonché la sua evoluzione normativa ed applicativa alla luce, in particolare, della
giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte.
Il testo originario della norma era il seguente: ‘‘I minori
possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’art. 7: a) da persone unite al
minore, orfano di padre e di madre, da vincolo di parentela
fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; b) dal coniuge nel caso in cui
il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c)
quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento
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preadottivo comma 1. L’adozione, nei casi indicati nel precedente comma, è consentita anche in presenza di figli legittimi comma 2. Nei casi di cui alle lettere a) e c) l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è
coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, il minore deve essere adottato da entrambi i coniugi
terzo comma. In tutti i casi l’adottante deve superare di
almeno diciotto anni l’età di coloro che intende adottare
comma 4’’.
L’art. 25 della menzionata L. 28 marzo 2001, n. 149, ha
sostituito l’intero art. 44, inserendo, in particolare, una nuova ipotesi adottiva relativa al minore disabile, contrassegnata dalla lettera c). Per effetto di questa interpolazione, l’adozione ‘‘quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’ risulta attualmente contrassegnata dalla
lettera d). Inoltre, le successive modifiche hanno riguardato
la soppressione - ad opera del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n.
154, art. 100, comma 1, lett. t), nel comma 2 dello stesso
art. 44, dell’attributo ‘‘legittimi’’ dopo ‘‘figli’’, nonché l’inserimento - ad opera della L. 19 ottobre 2015, n. 173, art. 4,
comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, sul
diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine
in affido familiare) -, nell’art. 44, comma 1, lett. a), dopo le
parole ‘‘stabile e duraturo’’, relative al rapporto del minore
orfano di padre e di madre con parenti fino al sesto grado,
delle parole ‘‘anche maturato nell’ambito di un prolungato
periodo di affidamento’’.
Il testo vigente della L. n. 184 del 1983, art. 44 risulta,
pertanto, il seguente: ‘‘2. I minori possono essere adottati
anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma
1 dell’art. 7: a) da persone unite al minore da vincolo di
parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento, quando il minore sia orfano di
padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia
figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore
si trovi nelle condizioni indicate dalla L. 5 febbraio 1992, n.
104, art. 3, comma 1, e sia orfano di padre e di madre; d)
quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento
preadottivo. 2.
L’adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita
anche in presenza di figli. 3. Nei casi di cui alle lett. a), e), e
d) del comma 1 l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi,
anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi.
4. Nei casi di cui alle lettere a) e d) del comma 1 l’età
dell’adottante deve superare di almeno diciotto anni quella
di coloro che egli intende adottare’’.
È, infine, indispensabile tener presente che il tribunale per
i minorenni, per ogni ipotesi di adozione non legittimante,
oltre all’acquisizione dell’assenso del genitore dell’adottando
(art. 46, comma 1, cit.), deve svolgere l’indagine prevista dal
successivo art. 57, il quale dispone: ‘‘Il tribunale verifica: 1)
se ricorrono le circostanze di cui all’articolo 44; 2) se l’adozione realizza il preminente interesse del minore primo comma. A tal fine il tribunale per i minorenni, sentiti i genitori
dell’adottando, dispone l’esecuzione di adeguate indagini da
effettuarsi, tramite i servizi locali e gli organi di pubblica
sicurezza, sull’adottante, sul minore e sulla di lui famiglia
secondo comma. L’indagine dovrà riguardare in particolare:
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a) l’idoneità affettiva e la capacità di educare e istruire il
minore, la situazione personale ed economica, la salute,
l’ambiente familiare degli adottanti; b) i motivi per i quali
l’adottante desidera adottare il minore; c) la personalità del
minore; d) la possibilità di idonea convivenza, tenendo conto della personalità dell’adottante e del minore terzo comma’’. La lettera a) del terzo comma è stata sostituita ad opera
della L. n. 149 del 2001, art. 29, che ha esteso l’accertamento da svolgere anche alla ‘‘idoneità affettiva’’.
4.2.2. - Alla luce di tale quadro normativo, l’interpretazione della condizione costituita dalla ‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’, non può essere scissa né
dall’esame complessivo dell’istituto dell’adozione in casi particolari né dalle modifiche normative medio tempore intervenute, al fine di verificare se la sua ratio originaria possa
ritenersi tuttora intatta oppure sia mutata in conseguenza
dell’evoluzione del quadro normativo.
Il Procuratore generale ricorrente ed il sostituto Procuratore generale d’udienza aderiscono nettamente alla richiamata ‘‘tesi restrittiva’’ (cfr., supra, un. 1. e 1.1.), che si fonda
sulla qualificazione della ‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’ come ‘‘impossibilità di fatto’’: secondo
tale tesi, l’inveramento della condizione richiede ineludibilmente la preesistenza di una situazione di abbandono (o di
semi abbandono) del minore.
Al riguardo, possono individuarsi tre ragioni giustificative
di questa lettura della norma: 1) la valorizzazione dell’intentio legis: l’originaria lettera c), ora lettera d), del comma 1
dell’art. 44, anche secondo alcuni orientamenti dottrinali
espressi nella fase di prima applicazione della norma, doveva
essere rivolta a scongiurare l’affidamento a terzi di minori da
parte dei genitori mediante l’aggiramento del rigoroso regime dell’adozione legittimante; tale ratio originaria ha, di
conseguenza, permeato l’istituto, limitandone anche attualmente l’applicazione a minori in condizioni di prolungata
istituzionalizzazione, alla quale non sia seguito, e verosimilmente non possa seguire, l’affidamento preadottivo; 2) l’utilizzazione del sintagma ‘‘constatata impossibilità’’ richiama
una situazione di fatto preesistente; 3) la contraria interpretazione ‘‘estensiva’’ come sottolineato anche dal sostituto
Procuratore Generale nella sua requisitoria d’udienza - condurrebbe a dichiarare l’adozione in casi particolari tutte le
volte che ciò corrisponda all’interesse del minore adottando,
con conseguente aggiramento della condizione limitativa
imposta dalla legge.
Il Collegio non condivide tale opzione interpretativa.
L’esame critico del suo fondamento va svolto, come già
detto, muovendo dal quadro normativo costituito dalla L. n.
184 del 1983 e dagli altri rilevanti interventi innovativi in
tema di filiazione, dianzi delineati. L’analisi deve essere
completata con la verifica dell’incidenza del quadro costituzionale e convenzionale, ed in particolare dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema
di ‘‘best interest’’ del minore.
Deve sottolinearsi che l’art. 44, al comma 1, stabilisce che
l’accertamento di una situazione di abbandono (art. 8, comma 1) non costituisce, differentemente dall’adozione legittimante, una condizione necessaria per l’adozione in casi particolari, e che tale prescrizione di carattere generale si applica a tutte le ipotesi previste dallo stesso art. 44, lett. a),
b), c) e d). Infatti, tale norma dispone che ‘‘I minori possono
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essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di
cui al comma 1 dell’art. 7’’ e il richiamato art. 7, al comma
1, stabilisce come condizione necessaria per l’adozione legittimante la dichiarazione di adottabilità, la quale presuppone
a sua volta l’accertamento della situazione di abbandono
cosı̀ come prescritto nel successivo art. 8, comma 1.
Risulta pertanto, anche dal mero esame testuale delle
norme sopraindicate, che l’adozione in casi particolari può
essere dichiarata a prescindere dalla sussistenza di una situazione di abbandono del minore adottando.
La conferma dell’assunto si trae anche dal successivo art.
11, comma 1, nella parte in cui stabilisce che, relativamente
al minore orfano di entrambi i genitori e privo di parenti
entro il quarto grado che abbiano con lui rapporti significativi, il tribunale per i minorenni deve dichiarare lo stato di
adottabilità, ‘‘salvo che esistano istanze di adozione ai sensi
dell’art. 44’’.
Le altre differenze di regime giuridico tra le due diverse
categorie di adozione, hanno invece una portata applicativa
più limitata. Il limite dovuto alla differenza d’età si applica
soltanto alle ipotesi sub a) e d) e l’estensione alle persone
non sposate non riguarda l’ipotesi relativa all’adozione del
figlio del coniuge, regolata dalla lettera b).
Deve, pertanto, essere pienamente valorizzata ai fini ermeneutici la portata generale della prescrizione contenuta
nel comma 1 dell’art. 44, secondo la quale -sı̀ ribadisce - la
preesistenza dello stato di abbandono non costituisce limite
normativo all’applicazione della norma nella sua interezza e
conseguentemente, per quanto rileva in questa sede, anche
all’ipotesi descritta nella lettera d).
Sostenere invece che, per integrare la condizione della
‘‘constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo’’, debba sempre sussistere la situazione di abbandono, oltreché
contrastare con l’art. 44, comma 1 -nella parte in cui ne
esclude la necessità per tutte le ipotesi descritte dalla norma,
senza distinzione tra le singole fattispecie, come invece si
riscontra nel terzo comma dell’art. 44 relativamente agli
altri requisiti relativi all’età o all’insussistenza dello status
coniugale -, condurrebbe sempre ad escludere che, nell’ipotesi di cui alla lettera d), l’adozione possa conseguire ad una
relazione già instaurata e consolidata con il minore, essendo
tale condizione relazionale contrastante con l’accertamento
di una situazione di abbandono cosı̀ come descritta nella L.
n. 184 del 1983, art. 8 cit., comma 1.
Già sul piano dell’esame testuale delle norme l’adozione
in casi particolari si caratterizza per una radicale differenza di
disciplina in ordine alle condizioni di accesso (oltreché a
differenze di rilievo anche quanto agli effetti, il cui esame è
però superfluo) non priva d’influenza sul piano sistematico.
Al riguardo, deve ritenersi che vi siano due modelli di adozione, quella legittimante, fondata sulla condizione di abbandono del minore, e quella non legittimante, fondata su
requisiti diversi sia in ordine alla situazione di fatto nella
quale versa il minore, sia in ordine alla relazione con il
richiedente l’adozione.
All’interno di questa diversa categoria di genitorialità
adottiva prevista dal nostro ordinamento, deve rilevarsi
che delle quattro fattispecie di adozione in casi particolari
descritte nell’art. 44, quella contrassegnata dalla lettera d) è
caratterizzata da un grado di determinazione inferiore alle
altre tre: nella prima, infatti, vengono esattamente definite
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le situazioni del minore (orfano di padre e madre) e dell’adottante (parente entro il sesto grado con preesistente rapporto stabile e duraturo con il minore); nella seconda,
ugualmente, il minore adottando deve essere figlio, anche
adottivo, di un coniuge e l’adottante non può che essere
l’altro coniuge; nella terza, il minore deve essere orfano di
entrambi i genitori e portatore di handicap, mentre non è
richiesta alcuna condizione in ordine all’adottante; nella
lettera d), invece, nessun requisito viene indicato per definire i profili dell’adottante e dell’adottando, essendo soltanto prevista la condicio legis della ‘‘constatata impossibilità
dell’affidamento preadottivo’’.
L’impostazione di cui alle considerazioni che precedono è
del tutto coerente con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 383 del 1999.
Con questa pronuncia, infatti, la Corte - nel dichiarare
non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 30 Cost.,
comma 2, anche la questione di legittimità costituzionale
della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. c), (testualmente corrispondente alla vigente lettera d dello stesso art.
44: cfr., supra, n. 4.2.1.) - ha affermato, tra l’altro, che:
a) ‘‘(...) l’art. 44 della l. n. 184 del 1983 si sostanzia in una
sorta di clausola residuale per i casi speciali non inquadrabili
nella disciplina dell’adozione ‘‘legittimante’’, consentendo
l’adozione dei minori ‘‘anche quando non ricorrono le condizioni di cui al primo comma dell’art. 1’’. In questa logica di
apertura, la lettera c) fornisce un’ulteriore ‘‘valvola’’ per i
casi che non rientrano in quelli più specifici previsti dalle
lettere a) e b)’’;
b) ‘‘Le ordinanze di rimessione ritengono di dover trarre
dal riferimento letterale della disposizione impugnata alla
‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’ il presupposto interpretativo secondo cui, per far ricorso all’ipotesi prevista dalla lettera c) della norma, occorre necessariamente la previa dichiarazione dello stato di abbandono del
minore e quindi la declaratoria formale di adottabilità, nonché il vano tentativo del predetto affidamento. In realtà,
l’art. 44 è tutto retto dalla ‘‘assenza delle condizioni’’ previste
dal primo comma del precedente art. 7 della medesima L. n.
184: pertanto, gli stessi principi relativi alle prime due ipotesi dell’art. 44 valgono anche per le fattispecie ricadenti
sotto la lettera c)’’;
c) ‘‘Una ulteriore conferma della adottabilità dei minori
in tutti i casi rientranti nelle tre lettere dell’art. 44 anche
quando non sono stati o non possono essere formalmente
dichiarati adottabili sı̀ trae dal disposto del primo comma del
precedente art. 11 [...]. È evidente allora che, nelle ipotesi
considerate, il legislatore ha voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone
che già si prendono cura di lui, prevedendo la possibilità di
un’adozione, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella
‘‘legittimante’’, ma con presupposti necessariamente meno
rigorosi di quest’ultima. Ciò è pienamente conforme al principio ispiratore di tutta la disciplina in esame: l’effettiva
realizzazione degli interessi del minore’’ (nn. 2. e 3. del
Considerato in diritto).
L’attenzione prestata dalla Corte costituzionale all’aspetto
della continuità affettiva ed educativa della relazione tra
l’adottante e l’adottando, come elemento caratterizzante la
realizzazione dell’interesse del minore, anticipa significativamente le linee ispiratrici degli interventi legislativi di rifor-
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ma della filiazione e degli istituti dell’adozione e della stessa
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, sviluppatasi nell’ultimo decennio intorno al contenuto e alla preminenza del ‘‘best interest’’ del minore anche rispetto all’interesse pubblico degli Stati.
In particolare, quanto ai predetti interventi legislativi, la
riforma della filiazione, di recente attuata mediante la L.
Delega 10 dicembre 2012, n. 219, ed il già citato D. Lgs
n. 154 del 2013, ha modificato incisivamente la preesistente
disciplina normativa degli status filiali, stabilendo solo per il
figlio l’imprescrittibilità del diritto a far prevalere la verità
biologica: questa opzione evidenzia il riconoscimento del
rilievo delle relazioni instaurate e consolidate nel tempo
tra genitore e figlio sotto il profilo del diritto di quest’ultimo
a conservare tale profilo caratterizzante l’identità personale
fin dalla nascita. Inoltre, il medesimo principio, rafforzato
dal canone dell’assunzione di responsabilità in ordine alle
scelte genitoriali fatte consapevolmente, è a fondamento
della L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 9, commi 1 e 2: in
queste norme è stabilito, infatti, che un rapporto di filiazione - sorto per effetto dell’accesso a pratiche di procreazione
medicalmente assistita vietate dalle legge, ove il consenso
all’accesso a tali pratiche sia ricavabile da atti concludenti non può essere messo in discussione mediante il disconoscimento di paternità, l’impugnazione del riconoscimento per
difetto di veridicità o l’esercizio del diritto all’anonimato
materno. Ancora, la salvaguardia della continuità affettiva
costituisce la ratio della già menzionata, recentissima L. n.
173 del 2015, tanto da costituire il titolo della novella,
recante appunto ‘‘Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n.
184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle
bambine in affido familiare’’. Infine, anche l’istituto dell’adozione in casi particolari è stato significativamente lambito
dalle riforme legislative sopra indicate: infatti, con riferimento all’indagine da svolgersi ai sensi del menzionato
art. 57, comma 3, lett. a) - nel testo sostituito dalla L. n.
149 del 2001, art. 29 - il tribunale per i minorenni, al fine di
verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti normativi astratti, anche l’effettiva rispondenza dell’adozione richiesta all’interesse del minore, deve operare una specifica valutazione della ‘‘idoneità affettiva’’ del genitore adottante, valutazione la quale non può che essere effettuata sulla base di una
relazione preesistente adottante- minore, come tale incompatibile con una situazione di abbandono.
In conclusione, l’interpretazione della espressione ‘‘constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo’’ da prescegliere non può che essere quella adottata dalla Corte d’Appello di Roma: coerentemente con il sistema della tutela dei
minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva attualmente vigente, deve ritenersi sufficiente l’impossibilità
‘‘di diritto’’ di procedere all’affidamento preadottivo e non
solo quella ‘‘di fatto’’, derivante da una condizione di abbandono in senso tecnico-giuridico o di semi abbandono
(art. 8, comma 1).
4.2.3. - Al riguardo, deve osservarsi che la sentenza di
questa Sezione n. 22292 del 2013, con orientamento confermato dalla successiva n. 1792 del 2015, non è in contrasto con la scelta ermeneutica assunta dal Collegio. Le due
pronunce definiscono la nozione d’impossibilità dell’affidamento preadottivo in relazione alla richiesta di adozione ai
sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), da parte di una coppia
1142
affidataria riferita ad un minore che era già in affidamento
preadottivo presso altra coppia, perché in corso il procedimento volto all’adozione legittimante. In questo peculiare
conflitto, la Corte ha ritenuto che l’impossibilità dell’affidamento preadottivo non potesse desumersi dall’allegato contrasto della scelta dell’adozione legittimante con l’interesse
del minore. La condicio legis in questione viene, pertanto,
esplorata sotto un versante del tutto diverso ed autonomo da
quello oggetto del presente giudizio. La menzionata L. n.
173 del 2015, volta a facilitare l’accesso all’adozione legittimante da parte delle famiglie affidatarie che abbiano condiviso con il minore un lungo periodo di affidamento, è stata
introdotta anche al fine di evitare conflittualità quali quelle
alla base delle due richiamate pronunce.
L’interpretazione della ‘‘impossibilità di affidamento preadottivo’’ all’interno di conflitti quale quello sopra delineato
non osta, in conclusione, alla più ampia opzione ermeneutica che ricomprenda nella formula anche l’impossibilità ‘‘di
diritto’’, e con essa tutte le ipotesi in cui, pur in difetto dello
stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con
altri soggetti, che se ne prendano cura.
4.2.4. - Il quadro della giurisprudenza della Corte Europea
dei diritti umani è del tutto coerente con le conclusioni
raggiunte, dal momento che si sta sempre più affermando,
in particolare nei procedimenti adottivi, il principio secondo il quale il rapporto affettivo che si sia consolidato all’interno di un nucleo familiare, in senso stretto o tradizionale o
comunque ad esso omologabile per il suo contenuto relazionale, deve essere conservato anche a prescindere dalla corrispondenza con rapporti giuridicamente riconosciuti, salvo
che vi sia un accertamento di fatto contrario a questa soluzione (cfr., tra gli altri, il caso M. e B. contro Italia - ricorso
n. 16318 del 2007 - deciso con la sentenza 27 aprile 2010,
nella quale viene affrontato un conflitto analogo a quello
sopra illustrato in ordine alla sentenza di questa Corte n.
22292 del 2013, ma con soluzione che privilegia la relazione
istaurata con gli affidatari provvisori; il medesimo principio
è stato affermato nella sentenza P. e C. contro Italia del 27
gennaio 2015 - ricorso n. 25358 del 2012 - la cui fattispecie
riguarda un progetto procreativo realizzato mediante gestazione per altri, vietato nel nostro ordinamento).
La Corte, infine, nel caso X ed altri contro Austria (sentenza del 19 febbraio 2013 nel ricorso n. 19010 del 2007),
ha riconosciuto anche in tema di adozione del figlio del
partner (o adozione cosiddetta ‘‘coparentale’’) la violazione
del principio di non discriminazione stabilito dall’art. 14
della Convenzione in presenza di una ingiustificata disparità
di regime giuridico tra le coppie eterosessuali e le coppie
formate da persone dello stesso sesso, dal momento che
nell’ordinamento austriaco tale forma di adozione era consentita soltanto alle coppie di fatto eterosessuali. La Corte di
Strasburgo, al riguardo, ha sottolineato che l’Austria non
aveva fornito ‘‘motivi particolarmente solidi e convincenti
idonei a stabilire che l’esclusione delle coppie omosessuali
dall’adozione coparentale aperta alle coppie eterosessuali
non sposate fosse necessaria per tutelare la famiglia tradizionale’’ (par. 151 della sentenza). Il rilievo della pronuncia
rispetto al presente giudizio si coglie in relazione all’applicazione del paradigma antidiscriminatorio. Nel caso di una
discriminazione fondata sul sesso o l’orientamento sessuale,
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il margine di apprezzamento degli Stati è limitato, ed il
consenso dei medesimi in ordine all’estensione del diritto
all’adozione alle coppie formate da persone dello stesso sesso
non è immediatamente rilevante (parr. 147, 148, 149), se in
concreto si verifica una situazione, come nella fattispecie
esaminata dalla Corte, di disparità di trattamento tra coppie
di fatto eterosessuali e dello stesso sesso non fondata su
ragioni ‘‘serie’’ (non essendovi evidenze scientifiche dotate
di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dall’omogenitorialità, come riconosciuto anche dalla sentenza di
questa Corte n. 601 del 2013).
Ne consegue che, coerentemente con i principi sopra affermati, poiché all’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), possono accedere sia le persone
singole che le coppie di fatto, l’esame dei requisiti e delle
condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (‘‘la constatata
impossibilità dell’affidamento preadottivo’’), sia in concreto
(l’indagine sull’interesse del minore imposta dall’art. 57,
comma 1, n. 2), non può essere svolto - neanche indirettamente - dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo
stabilita con il proprio partner.
Deve sottolinearsi peraltro che, rispetto alla situazione
descritta nel par. 91 della sopra citata sentenza X ed Altri
contro Austria, il consenso degli Stati aderenti alla CEDU
all’adozione legittimante da parte di persone dello stesso
sesso e all’adozione cosiddetta coparentale è notevolmente
cresciuto rispetto ai dati indicati dalla Corte di Strasburgo
nella sentenza medesima: infatti, attualmente, in quattordici
Stati (Belgio, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Francia, Lussemburgo, Regno Unito, Irlanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Irlanda, Malta, Austria) è consentita l’adozione alle
coppie dello stesso sesso, mentre in Germania è possibile
l’adozione del figlio del partner, cosı̀ come in Croazia, Estonia e Slovenia, ma non l’adozione tout court.
4.2.5. - Si rileva, infine, che la L. 20 maggio 2016, n. 76
(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), entrata in vigore il 5
giugno 2016, non si applica, ratione temporis ed in mancanza di disciplina transitoria, alla fattispecie dedotta in
giudizio.
5. - La circostanza che la parte soccombente è un ufficio
del Pubblico Ministero comporta - in conformità con il
costante principio, secondo cui l’ufficio del Pubblico Ministero non può essere condannato al pagamento delle spese
del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, trattandosi di organo propulsore dell’attività giurisdizionale al quale sono attribuiti poteri, diversi da quelli svolti dalle parti, meramente
processuali ed esercitati per dovere d’ufficio e nell’interesse
pubblico (cfr., ex plurimis e da ultima, la sentenza n. 19711
del 2015) - che non v’è luogo a provvedere sulle spese del
presente grado del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso (Omissis)
[La sentenza è oggetto di commento in Parte Seconda,
con Opinione di G. FERRANDO, p. 1213]
n Contratti del consumatore
CORTE DI GIUSTIZIA UE, 18.2.2016, causa C-49/14 – TIZZANO Presidente – LEVITS Relatore – SZPUNAR (avv.
gen.). – Finanmadrid EFC SA – Jesuús Vicente Albán Zambrano
CONTRATTI DEL CONSUMATORE – CLAUSOLE ABUSIVE – PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE FORZATA – RILEVAZIONE D’UFFICIO DEL CARATTERE ABUSIVO – POTERI DEL GIUDICE – NECESSITÀ (dir. n. 13/93 CEE, art. 6)
La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5.4.1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con
i consumatori, dev’essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui al
procedimento principale, che non consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento
di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e
un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a
procedere a una simile valutazione.
dal testo:
Il fatto. I motivi. Il 29 giugno 2006 il sig. J.V. Albán
Zambrano ha stipulato un contratto di prestito per un importo di EUR 30 000 con la Finanmadrid per il finanziamento dell’acquisto di un veicolo.
Il sig. J.L. Albán Zambrano, la sig.ra Garcı́a Zapata e la
sig.ra Caicedo Merino hanno assunto, nei confronti della
Finanmadrid, la posizione di garanti in solido di tale prestito.
Era stata fissata una commissione per spese di istruttoria
del 2,5% del capitale e il rimborso era stato dilazionato su un
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periodo di 84 mesi con un tasso d’interesse annuo del 7%.
Per i casi di ritardo nel pagamento delle rate mensili, era
previsto un tasso d’interesse di mora mensile dell’1,5%, unitamente a una commissione di EUR 30 per ciascuna rata
insoluta.
Di fronte al mancato pagamento delle rate da parte del sig.
J.V. Albán Zambrano a partire dall’inizio del 2011, la Finanmadrid ha proceduto, l’8 luglio 2011, alla risoluzione
anticipata del contratto di cui al procedimento principale.
L’8 novembre 2011 la Finanmadrid ha chiesto al «Secretario judicial» dello Juzgado de Primera Instancia no 5 de
Cartagena (Tribunale di primo grado di Cartagena, Spagna)
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Parte prima Sentenze commentate
di avviare un procedimento d’ingiunzione di pagamento
contro i convenuti nel procedimento principale.
Con decisione del 13 febbraio 2012, il «Secretario judicial» dello Juzgado de Primera Instancia no 5 de Cartagena
(Tribunale di primo grado di Cartagena) ha dichiarato ricevibile la suddetta domanda e ha ingiunto ai convenuti nel
procedimento principale di versare, entro un termine di 20
giorni, la somma di EUR 13 447,01, maggiorata degli interessi maturati a partire dall’8 luglio 2011, o di proporre, per
mezzo di un avvocato e di un «procurador», opposizione
all’esigibilità del debito e di comparire dinanzi al Tribunale
per esporre le ragioni per le quali essi ritenevano di non
essere debitori, in tutto o in parte, dell’importo richiesto.
Poiché i convenuti nel procedimento principale non hanno ottemperato all’ingiunzione di pagamento né sono comparsi dinanzi al tribunale, entro il termine impartito, il «Secretario judicial», con decisione del 18 giugno 2012, ha
posto fine al procedimento d’ingiunzione di pagamento,
conformemente all’articolo 816 della LEC.
L’8 luglio 2013 la Finanmadrid ha chiesto allo Juzgado de
Primera Instancia no 5 de Cartagena (Tribunale di primo
grado di Cartagena) l’ordine di esecuzione di detta decisione.
Il 13 settembre 2013 tale giudice ha chiesto alle parti nel
procedimento principale di presentare le loro osservazioni in
merito, segnatamente, all’eventuale carattere abusivo di talune clausole del contratto oggetto di causa e all’eventuale
contrarietà della normativa relativa al procedimento d’ingiunzione di pagamento al diritto a una tutela giurisdizionale
effettiva. Sotto quest’ultimo profilo, il giudice suddetto ha
precisato di non essere stato informato né della domanda di
ingiunzione di pagamento presentata dalla Finanmadrid né
dell’esame di tale domanda da parte del «Secretario judicial», né tantomeno del suo esito.
Solo la ricorrente nel procedimento principale ha presentato osservazioni.
Il giudice del rinvio rileva che il diritto processuale spagnolo prevede l’intervento del giudice nell’ambito del procedimento d’ingiunzione di pagamento solo ove dai documenti allegati alla domanda si evinca che l’importo richiesto
non è corretto, nel qual caso il «Secretario judicial» deve
darne comunicazione al giudice, oppure qualora il debitore
proponga opposizione all’ingiunzione di pagamento. Il giudice del rinvio aggiunge che, poiché la decisione del «Secretario judicial» costituisce un titolo procedurale esecutivo
dotato dell’autorità di cosa giudicata, il giudice non può
esaminare d’ufficio, nell’ambito del procedimento di esecuzione, l’eventuale esistenza di clausole abusive nel contratto
che ha dato luogo al procedimento d’ingiunzione di pagamento.
Sulla base di ciò, nutrendo dubbi sulla compatibilità del
diritto spagnolo pertinente con il diritto dell’Unione, detto
giudice ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
1) Se la direttiva 93/13/CEE debba essere interpretata nel
senso che osta a una normativa nazionale, come la vigente
disciplina del procedimento d’ingiunzione di pagamento
spagnolo - articoli 815 e 816 della LEC -, la quale rende
difficile o impedisce il controllo giurisdizionale d’ufficio dei
contratti in cui possono sussistere clausole abusive, in quanto non prevede imperativamente il controllo delle clausole
1144
abusive né l’intervento di un giudice, salvo i casi in cui il
«Secretario judicial» lo ritenga opportuno o i debitori propongano opposizione.
2) Se la direttiva 93/13/CEE debba essere interpretata nel
senso che osta ad una normativa nazionale, come quella
esistente nell’ordinamento spagnolo, la quale non consente
di riesaminare d’ufficio in limine litis, nel successivo procedimento di esecuzione, il titolo esecutivo giudiziario - decreto emesso dal «Secretario judicial» che pone fine al procedimento d’ingiunzione di pagamento -, sotto il profilo
dell’esistenza di clausole abusive nel contratto che costituisce il fondamento del decreto di cui si chiede l’esecuzione,
in quanto il diritto nazionale considera formatasi la cosa
giudicata (articoli 551 e 552 e, in combinato disposto,
816, paragrafo 2, della LEC).
3) Se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea debba essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come la disciplina del procedimento d’ingiunzione di pagamento e del procedimento di esecuzione di
titoli giudiziari, la quale non prevede il controllo giudiziario
in tutti i casi durante la fase dichiarativa, né consente nella
fase dell’esecuzione che il giudice investito di quest’ultima
riesamini quanto già deciso dal «Secretario judicial».
4) Se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea debba essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale la quale non consente di riverificare d’ufficio il rispetto del diritto al contraddittorio a motivo dell’esistenza della cosa giudicata.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla ricevibilità
Il governo tedesco nutre dubbi in merito alla ricevibilità
delle questioni prima, terza e quarta, argomentando che esse
non sarebbero utili al giudice del rinvio per risolvere la
controversia di cui al procedimento principale. A tale proposito, esso adduce che tale controversia riguarda il procedimento di esecuzione di una decisione recante un’ingiunzione di pagamento che ha acquisito forza di cosa giudicata,
e non il procedimento d’ingiunzione di pagamento in sé. Di
conseguenza, una risposta sulla compatibilità di quest’ultimo
procedimento con la direttiva 93/13 non avrebbe alcun
rapporto con l’oggetto di detta controversia.
A tale riguardo, occorre ricordare anzitutto che, in forza di
una costante giurisprudenza della Corte, nell’ambito del
procedimento di cui all’articolo 267 TFUE, basato sulla
netta separazione delle funzioni tra i giudici nazionali e la
Corte, il giudice nazionale è l’unico competente ad esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché a
interpretare e ad applicare il diritto nazionale. Parimenti,
spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità
dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce
delle particolari circostanze del caso, sia la necessità sia la
rilevanza delle questioni che esso sottopone alla Corte. Di
conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio,
è tenuta a pronunciarsi (sentenza Aziz, C-415/11,
EU:C:2013:164, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). Il
rigetto, da parte della Corte, di una domanda di pronuncia
pregiudiziale proposta da un giudice nazionale è infatti possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun
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Sentenze commentate Parte prima
rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di tipo ipotetico o,
ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi in
fatto e in diritto necessari per rispondere in modo utile alle
questioni che le sono sottoposte (sentenza Aziz, C-415/11,
EU:C:2013:164, punto 35 e giurisprudenza ivi citata).
Ebbene, ciò non si è verificato nel caso di specie.
Come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 32 delle
sue conclusioni, infatti, occorre tenere in considerazione il
complesso delle norme processuali pertinenti. Orbene, a tale
riguardo, se è vero che il sistema processuale spagnolo consente al debitore, nel caso in cui quest’ultimo proponga
opposizione a un procedimento d’ingiunzione di pagamento,
di contestare l’eventuale carattere abusivo di una clausola
del contratto in questione, questo stesso sistema esclude
tuttavia la possibilità di eseguire d’ufficio un controllo di
tale carattere abusivo sia nella fase del procedimento d’ingiunzione, allorché a quest’ultimo sia posta fine mediante
decreto del «Secretario judicial», sia nella fase dell’esecuzione dell’ingiunzione di pagamento, allorché il giudice è investito di un’opposizione a tale esecuzione.
Alla luce di quanto precede, le questioni sollevate dal
giudice del rinvio devono essere intese in senso lato, vale
a dire come volte ad appurare, in sostanza, la compatibilità
con la direttiva 93/13 dell’assenza di potere di controllo
d’ufficio, da parte del giudice, nell’ambito del procedimento
di esecuzione, dell’eventuale carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e
un consumatore, tenuto conto dello svolgimento del procedimento d’ingiunzione di pagamento e delle competenze di
cui dispone il «Secretario judicial» nell’ambito di tale procedimento.
Ciò premesso, e tenuto conto della circostanza che è compito della Corte fornire una soluzione utile al giudice del
rinvio, che gli consenta di risolvere la controversia di cui è
investito (v., in tal senso, sentenze Roquette Frères, C-88/
99, EU:C:2000:652, punto 18, e Attanasio Group, C-384/
08, EU:C:2010:133, punto 19), occorre dichiarare che non
appare in modo manifesto che l’interpretazione del diritto
dell’Unione richiesta nelle questioni prima, terza e quarta
non presenti alcun rapporto con la realtà effettiva o con
l’oggetto del procedimento principale.
Pertanto, tutte le questioni pregiudiziali sono ricevibili.
Nel merito
Con le sue questioni prima e seconda, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 93/13 osti a una normativa nazionale,
come quella di cui al procedimento principale, che non
consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo
di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un
professionista e un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente
a procedere a una simile valutazione.
Per fornire al giudice del rinvio una risposta utile che gli
consenta di risolvere la controversia di cui è investito, occorre ricordare, in via preliminare, che la Corte si è già
pronunciata, nella sentenza Banco Español de Crédito (C618/10, EU:C:2012:349), sulla natura delle responsabilità
che incombono al giudice nazionale, in forza delle disposizioni della direttiva 93/13, nell’ambito di un procedimento
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d’ingiunzione di pagamento, laddove il consumatore non
abbia proposto opposizione contro l’ingiunzione emessa
nei suoi confronti.
Nella suddetta sentenza la Corte ha statuito, in particolare, che la direttiva 93/13 dev’essere interpretata nel senso
che osta ad una normativa di uno Stato membro che non
consente al giudice investito di una domanda d’ingiunzione
di pagamento di esaminare d’ufficio, in limine litis, né in
qualsiasi altra fase del procedimento, anche qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, la
natura abusiva di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, in assenza di
opposizione proposta da quest’ultimo (sentenza Banco Español de Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 1 del dispositivo).
Occorre rilevare che la legislazione nazionale, nella versione applicabile alla controversia nell’ambito della quale è
stata presentata la domanda di pronuncia pregiudiziale che
ha dato luogo alla sentenza Banco Español de Crédito (C618/10, EU:C:2012:349), conferiva al giudice, e non al «Secretario judicial», la competenza ad adottare una decisione
d’ingiunzione di pagamento.
Orbene, a partire dalla riforma introdotta con la legge 13/
2009 (BOE n. 266, del 4 novembre 2009, pag. 92103),
entrata in vigore il 4 maggio 2010, spetta ormai al «Secretario judicial», nei casi di inottemperanza all’ingiunzione di
pagamento da parte del debitore o di mancata comparizione
di quest’ultimo dinanzi al tribunale, emettere un decreto,
dotato dell’autorità di cosa giudicata, che ponga fine al procedimento d’ingiunzione.
Tale modifica legislativa, introdotta nell’ottica di accelerare lo svolgimento del procedimento d’ingiunzione di pagamento, non costituisce, di per sé, l’oggetto dei dubbi
espressi dallo Juzgado de Primera Instancia no 5 de Cartagena (Tribunale di primo grado di Cartagena, Spagna) nell’ambito del presente rinvio pregiudiziale.
A tale proposito, si deve osservare che, in mancanza di
armonizzazione dei meccanismi nazionali di esecuzione forzata, le modalità della loro attuazione rientrano nella competenza dell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio di autonomia processuale di questi
ultimi. Nondimeno, la Corte ha sottolineato che tali modalità devono soddisfare la doppia condizione di non essere
meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe soggette al diritto nazionale (principio di equivalenza) e
di non rendere praticamente impossibile o eccessivamente
difficile l’esercizio dei diritti attribuiti ai consumatori dal
diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in tal senso,
sentenza Sánchez Morcillo e Abril Garcı́a, C-169/14,
EU:C:2014:2099, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
Per quanto riguarda, da un lato, il principio di equivalenza, occorre rilevare che la Corte non dispone di nessun
elemento tale da far sorgere dubbi quanto alla conformità
a tale principio della normativa nazionale di cui al procedimento principale.
Infatti, risulta in particolare dal combinato disposto degli
articoli 551, 552 e 816, paragrafo 2, della LEC che, nell’ambito del sistema processuale spagnolo, il giudice investito
dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento non può
né valutare d’ufficio, alla luce dell’articolo 6 della direttiva
93/13, il carattere abusivo di una clausola inserita in un
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Parte prima Sentenze commentate
contratto stipulato tra un professionista e un consumatore,
né verificare d’ufficio la contrarietà di una clausola siffatta
alle norme nazionali di ordine pubblico, il che, tuttavia,
spetta al giudice del rinvio accertare (v., in tal senso, sentenza Aziz, C-415/11, EU:C:2013:164, punto 52).
Dall’altro lato, per quanto riguarda il principio di effettività, la Corte ha ribadito più volte che ciascun caso in cui si
pone la questione se una disposizione processuale nazionale
renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione
del diritto dell’Unione dev’essere esaminato tenendo conto
del ruolo di detta disposizione nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi
ai vari organi giurisdizionali nazionali (sentenza Banco Español de Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 49 e giurisprudenza ivi citata).
Sotto tale profilo, si devono considerare, se necessario, i
principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della
certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (sentenze Asociación de Consumidores Independientes
de Castilla y León, C-413/12, EU:C:2013:800, punto 34, e
Pohotovost’, C-470/12, EU:C:2014:101, punto 51 e giurisprudenza ivi citata).
Nella fattispecie, occorre osservare che lo svolgimento e le
peculiarità del procedimento d’ingiunzione di pagamento
spagnolo sono tali che, in assenza di circostanze che comportino l’intervento del giudice, ricordate al punto 24 della
presente sentenza, tale procedimento è chiuso senza possibilità che venga eseguito un controllo dell’esistenza di clausole abusive in un contratto stipulato tra un professionista e
un consumatore. Se, pertanto, il giudice investito dell’esecuzione dell’ingiunzione di pagamento non è competente a
valutare d’ufficio l’esistenza di tali clausole, il consumatore,
di fronte a un titolo esecutivo, potrebbe trovarsi nella situazione di non poter beneficiare, in nessuna fase del procedimento, della garanzia che venga compiuta una tale valutazione.
Orbene, alla luce di quanto considerato, occorre constatare che un simile regime processuale è tale da compromettere l’effettività della tutela voluta dalla direttiva 93/13.
Tale tutela effettiva dei diritti derivanti da tale direttiva,
infatti, può essere garantita solo a condizione che il sistema
processuale nazionale consenta, nell’ambito del procedimento d’ingiunzione di pagamento o di quello di esecuzione
dell’ingiunzione di pagamento, un controllo d’ufficio della
potenziale natura abusiva delle clausole inserite nel contratto di cui trattasi.
Tale considerazione non può essere messa in discussione
laddove il diritto processuale nazionale, come quello di cui
al procedimento principale, conferisca alla decisione adottata dal «Secretario judicial» autorità di cosa giudicata e le
riconosca effetti analoghi a quelli di una decisione giurisdizionale.
Occorre rilevare, infatti, che sebbene le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrino
nella competenza dell’ordinamento giuridico interno degli
Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, dette modalità devono tuttavia rispettare i principi di equivalenza e di effettività (v., in tal senso,
sentenza Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08,
EU:C:2009:615, punto 38 e giurisprudenza ivi citata).
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Orbene, per quanto concerne il principio di equivalenza,
come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 70 delle
sue conclusioni, nessun elemento del procedimento principale consente di concludere che le modalità di attuazione
del principio dell’autorità di cosa giudicata previste dal diritto processuale spagnolo siano meno favorevoli nei casi
rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13
rispetto a quelli che non vi rientrano.
Per quanto riguarda il principio di effettività, il cui rispetto da parte degli Stati membri dev’essere valutato alla luce,
in particolare, dei criteri illustrati ai punti 43 e 44 della
presente sentenza, occorre rilevare che, a mente degli articoli 815 e 816 della LEC, il controllo da parte del «Secretario judicial» di una domanda d’ingiunzione di pagamento
si limita alla verifica del rispetto delle formalità prescritte
per una domanda siffatta, segnatamente dell’esattezza, alla
luce dei documenti allegati a detta domanda, dell’importo
del credito richiesto. Ai sensi del diritto processuale spagnolo, infatti, non rientra nella competenza del «Secretario
judicial» la valutazione dell’eventuale carattere abusivo di
una clausola contenuta in un contratto da cui ha origine il
credito.
Inoltre, occorre ricordare che il decreto del «Secretario
judicial» che pone fine al procedimento d’ingiunzione di
pagamento assume autorità di cosa giudicata, il che rende
impossibile il controllo delle clausole abusive nella fase dell’esecuzione di un’ingiunzione, per il solo motivo che i consumatori non hanno proposto opposizione all’ingiunzione
entro il termine previsto a tal fine e per il fatto che il
«Secretario judicial» non ha adito il giudice.
A tale proposito, occorre anzitutto rilevare che sussiste un
rischio non trascurabile che i consumatori interessati non
propongano l’opposizione richiesta a causa del termine particolarmente breve previsto a tal fine, ovvero poiché possono essere dissuasi dal difendersi tenuto conto delle spese che
un’azione giudiziaria implicherebbe rispetto all’importo del
debito contestato, oppure poiché ignorano o non intendono
la portata dei loro diritti, o ancora in ragione del contenuto
succinto della domanda d’ingiunzione introdotta dai professionisti e, pertanto, dell’incompletezza delle informazioni
delle quali dispongono (v., in tal senso, sentenza Banco
Español de Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 54).
Inoltre, dall’ordinanza di rinvio risulta che il «Secretario
judicial» è tenuto ad adire il giudice unicamente qualora dai
documenti allegati alla domanda si evinca che l’importo
richiesto non è corretto.
Ciò premesso, come rilevato in sostanza dall’avvocato generale al paragrafo 75 delle sue conclusioni, occorre constatare che la normativa di cui al procedimento principale,
relativa alle modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata nell’ambito del procedimento d’ingiunzione di pagamento, non appare conforme al principio di
effettività, in quanto rende impossibile o eccessivamente
difficile, nei procedimenti instaurati dai professionisti e nei
quali i consumatori sono convenuti, l’applicazione della tutela che la direttiva 93/13 intende conferire a questi ultimi.
Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre
rispondere alle questioni prima e seconda dichiarando che la
direttiva 93/13 dev’essere interpretata nel senso che osta a
una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente al giudice investito dell’e-
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secuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove
l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a procedere a una simile valutazione.
Sulle questioni terza e quarta
Con le sue questioni terza e quarta, che occorre esaminare
congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se
la Carta e, in particolare, il diritto alla tutela giurisdizionale
effettiva sancito nel suo articolo 47 ostino a una normativa
nazionale come quella di cui al procedimento principale.
A tale riguardo, occorre rilevare che il giudice del rinvio
non ha specificato le ragioni che l’hanno indotto a interrogarsi sulla compatibilità di tale normativa con l’articolo 47
della Carta, e che la decisione di rinvio non contiene quindi
indicazioni sufficientemente precise e complete, tali da consentire alla Corte di fornire una risposta utile a tali questioni. Pertanto, non occorre rispondere alle questioni terza e
quarta. (Omissis)
«Autonomia processuale ed effettività della tutela del consumatore»
di Giulio Palma*
La Corte, inserendosi nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale che riconosce un elevato livello di
tutela ai consumatori, ritiene che la normativa nazionale che non consente al giudice dell’esecuzione di
rilevare ex officio l’abusività di una clausola contrattuale, in virtù il passaggio in giudicato dell’ingiunzione di
pagamento non opposta, non è compatibile con il sistema di tutela previsto dalla direttiva n. 13/93 CE. La
sentenza consente di riflettere sul fondamento normativo del principio di effettività, sul suo utilizzo da
parte della Corte di Giustizia e sull’impatto del medesimo sul principio di autonomia processuale degli Stati
membri.
I. Il caso
Il Sig. Z., nel giugno del 2006, concludeva un contratto di finanziamento per un importo pari ad euro
30.000 con una società specializzata nel settore del
credito al consumo, al fine di acquistare un veicolo.
Al prestito, la cui restituzione era dilazionata in 82
mensilità, veniva applicato un tasso di interesse annuo
pari al 7%, un interesse moratorio dell’1,5%, una penale di euro 30 per ogni rata insoluta ed una commissione del 2,5% a titolo di spese di istruttoria.
A seguito del mancato adempimento di alcune rate
nel 2011 la finanziaria, previa risoluzione del contratto, agiva innanzi al Secretario Judicial del Tribunale di
Cartagena per ottenere l’ingiunzione di pagamento,
nei confronti del debitore principale e dei garanti,
del debito residuo. L’autorità adita accoglieva la domanda e ingiungeva al Sig. Z. e ai suoi garanti di
pagare, nel termine di 20 giorni, la somma di euro
13.447,01 oltre interessi, o, in alternativa, di proporre
opposizione comparendo innanzi al Tribunale.
Gli ingiunti non ottemperavano all’ordine di pagamento e rinunciavano all’opposizione con la conseguenza che, nel rispetto al codice di procedura civile,
il Secretario Judicial dichiarava chiuso il procedimento
di ingiunzione attribuendo alla sua statuizione autorità
di cosa giudicata. La finanziaria, pertanto, ricorreva al
Juzgado de Primera Instancia di Cartagena per aggredire
esecutivamente il patrimonio del debitore inadempiente.
Il giudice dell’esecuzione di Cartagena nutrendo
dubbi sulla compatibilità del procedimento di ingiunzione e della susseguente fase esecutiva con il principio
di effettività della tutela giurisdizionale sospendeva il
giudizio sottoponendo alla Corte di Giustizia UE alcune questioni pregiudiziali.
Il giudice del rinvio, in particolare, sottolineando
come l’intervento dell’autorità giudiziaria nel procedimento di ingiunzione di pagamento sia possibile solo a
determinate condizioni e che, ove tale intervento non
avvenga, il passaggio in giudicato dell’ingiunzione preclude al giudice dell’esecuzione di esaminare d’ufficio
l’esistenza di clausole abusive nel contratto da cui origina il debito, domanda alla Corte se il principio di
effettività della tutela giurisdizionale, anche ai sensi della
Carta dir. UE, sia rispettato da una normativa nazionale
che non consente al giudice investito dell’esecuzione di
un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove l’autorità
investita della domanda d’ingiunzione di pagamento
non sia competente a procedere ad una simile valutazione.
La sentenza della Corte di Giustizia, dando risposta
affermativa ai quesiti formulati dal giudice spagnolo,
contribuisce ad alimentare quell’orientamento giurisprudenziale che, in ossequio del principio di effettivi-
* Contributo pubblicato in base a referee.
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tà, riconosce al consumatore un elevato grado di tutela, nonostante ciò comporti una deroga all’autonomia
processuale degli Stati membri.
II. Le questioni
1. Effettività della tutela e condotta processuale.
La Corte, a distanza di poco più di tre anni dalla
sentenza Banco Español de Credito (CORTE GIUST.
UE, 14.6.2012, causa C-618/10, infra, sez. III) - ove,
in ossequio al principio di effettività, aveva ritenuto
incompatibile la normativa nazionale che impediva al
giudice investito di una domanda di ingiunzione di
pagamento di rilevare d’ufficio l’abusività di una clausola contrattuale - è chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla conformità dell’ordinamento processuale
spagnolo al principio di effettività e, in particolare,
del procedimento di ingiunzione di pagamento regolato dagli artt. 812 e ss. cod. proc. civ.
La necessità di un nuovo pronunciamento deriva
dall’intervenuta modifica del procedimento di ingiunzione, rispetto a quello censurato nella cennata sentenza. Il legislatore spagnolo, invero, al fine di rendere più
celere il recupero dei crediti, ha semplificato ulteriormente la procedura monitoria attribuendo la competenza ad emanare le ingiunzioni di pagamento al Secretario judicial, il quale, non è un giudice ma un funzionario di Tribunale assimilabile, per gradi e funzioni,
al cancelliere dei nostri uffici giudiziari.
Lo slittamento ‘‘verso il basso’’ della competenza ha
comportato, inevitabilmente, la riduzione dei poteri
dell’autorità adita la quale, ai fini che qui interessano,
non può rilevare d’ufficio l’eventuale carattere vessatorio di una clausola, ma semplicemente, salvo casi
particolari in cui può demandare al giudice la controversia, ingiungere il pagamento invitando il debitore
ad adempiere o a presentare opposizione dinanzi al
Tribunale.
Il nuovo assetto del procedimento di ingiunzione fa
emergere una differenza importante tra il caso in esame
e Banco Español de Credito. Mentre in quella controversia si trattava di attribuire al giudice investito della
domanda il potere di rilevare d’ufficio l’abusività di
una clausola contrattuale; in questa non si tratta di
riconoscere al Secretario un potere che non potrebbe
comunque esercitare, vista la portata limitata della delega giurisdizionale di cui è investito, ma di consentire
al giudice dell’esecuzione la revisione del giudicato
formatosi a causa della mancata opposizione del consumatore all’ingiunzione.
Il punto attorno al quale ruota la sentenza, innovativo rispetto ai precedenti, risiede nella diversa considerazione della condotta processuale del consumatore.
L’interrogativo, cui la Corte dà risposta affermativa, è
se nonostante l’atteggiamento passivo dell’interessato
1148
il sistema processuale nazionale, che a tale inattività
ricollega il passaggio in giudicato dell’ingiunzione, debba comunque essere interpretato nel senso di consentire la salvaguardia delle posizioni giuridiche di matrice
comunitaria.
L’affermazione di un principio di effettività in funzione non solo compensativa dello squilibrio consumatore-professionista, ma anche suppletiva rispetto alle
determinazioni del consumatore si scorgeva già tra le
righe delle recenti sentenze Faber e Duarte Hueros
(CORTE GIUST. UE, 4.6.2015, causa C-497/13; CORTE
GIUST. UE, 3.10.2013, causa C-32/12, entrambe infra,
sez. III).
La sentenza in commento, però, rispetto alle ultime
due citate amplia il raggio di applicazione del principio
di effettività. Invero, mentre in quei casi il consumatore si era attivato per la tutela giurisdizionale dei suoi
diritti, sia pure incorrendo in un errore sotto il profilo
deduttivo; in questo il consumatore mostra, non opponendosi, disinteresse rispetto alla salvaguardia delle situazioni giuridiche soggettive riconosciutegli.
Ad avviso della Corte l’inattività del consumatore, a
differenza di quanto statuito in passato, non costituisce
argomento sufficiente per escludere una compressione
dell’autonomia processuale interna.
Una diversa valutazione della condotta processuale
del consumatore era stata, invero, in precedenza operata dalla stessa Corte di Giustizia. Il riferimento è alla
sentenza Asturcom (CORTE GIUST. CE, 6.10.2009,
causa C-40/08, infra, sez. III) nella quale la Corte aveva esplicitamente statuito come il rispetto principio di
effettività non possa «giungere al punto di esigere che un
giudice nazionale debba, non solo compensare un’omissione procedurale di un consumatore ignaro dei propri diritti
(...) ma anche supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato che (...) non ha partecipato al procedimento arbitrale e neppure proposto un’azione di annullamento contro il lodo arbitrale divenuto per tale
fatto definitivo».
Dalla decisione da ultimo richiamata sembrava emergere il principio secondo cui l’inerzia di colui al quale
l’ordinamento comunitario attribuisce una posizione
giuridica soggettiva impedisce al giudice nazionale di
riesaminare il giudicato, in quanto l’effettività della
tutela non può spingersi sino al punto di sostituirsi alla
volontà del titolare del diritto (R. CONTI, 175, infra,
sez. IV).
Alla soluzione offerta nella vicenda Asturcom la Corte non ha inteso dare continuità nonostante la corrispondenza, perlomeno sotto il profilo della sequenza
procedimentale, con la fattispecie in rassegna. Se è
vero che in Asturcom non si discuteva dell’esecuzione
di un decreto ingiuntivo ma di quella di un lodo arbitrale, è del pari vero che il passaggio in giudicato del
titolo esecutivo dipendeva, proprio come nel caso in
esame, dalla condotta processuale del consumatore che
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Sentenze commentate Parte prima
non proponeva alcuna azione giudiziaria per far valere i
propri diritti.
La Corte, tuttavia, sulla base di una diversa considerazione del comportamento del consumatore, ha ravvisato un contrasto del sistema processuale iberico con
la normativa europea a tutela del consumatore utilizzando le stesse argomentazioni poste a fondamento
della soluzione offerta in Banco Español de Credito.
La Corte, segnatamente, ritiene che sussista «un rischio non trascurabile che i consumatori interessati non
propongano l’opposizione a causa del termine particolarmente breve previsto a tal fine, ovvero poiché possono
essere dissuasi dal difendersi tenuto conto delle spese che
un’azione giudiziaria implicherebbe rispetto all’importo del
debito contestato, oppure poiché ignorano o non intendono
la portata dei loro diritti, o ancora in ragione del contenuto
succinto della domanda d’ingiunzione introdotta dai professionisti e, pertanto, dell’incompletezza delle informazioni
delle quali dispongono».
Considerando la complessità degli interessi in gioco
(la tutela del consumatore da un lato; la tutela del
credito e della res giudicata, dall’altro) e la necessità
di un loro bilanciamento, da eseguirsi secondo un principio di proporzionalità, le ragioni da porre a fondamento della decisione, forse, sarebbero potute declinarsi diversamente.
Il riferimento alla brevità del termine - tale da non
consentire un’organizzazione difensiva compiuta e puntuale - oltre alle frizioni in punto di autonomia processuale, non appare in linea con la stessa giurisprudenza
della Corte, la quale oramai riconosce al giudice adito
il potere di rilevare d’ufficio, anche a fronte di una
allegazione carente o generica, la nullità delle clausole
contrattuali (caso Pénzügyi, CORTE GIUST. CE,
9.11.2010, C-137/08, infra, sez. III).
Sotto altra angolazione, un termine breve sembra
essere giustificato in considerazione del fatto che le
finalità della procedura monitoria sono quelle di consentire una rapida tutela per il creditore. Quest’ultima,
recessiva nel bilanciamento di interessi operato dalla
Corte nel caso di specie, costituisce un importante
obiettivo anche del legislatore europeo il quale, preoccupato di «semplificare, accelerare e ridurre i costi
dei procedimenti per le controversie transfrontaliere in
materia di crediti pecuniari non contestati» (cons. 9),
con il reg. CE n. 1896/2006 ha istituito un procedimento europeo di ingiunzione di pagamento, applicabile anche alle controversie tra consumatori e professionisti, ove si prevede un termine di trenta giorni per
proporre opposizione che non appare cosı̀ dissimile da
quello censurato.
Il riferimento, poi, alla circostanza per cui i consumatori «ignorano o non intendono la portata dei loro
diritti» sposta il problema sul piano dell’asimmetria
informativa.
Tuttavia, se la Corte continua a rilevare l’esistenza di
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uno stato di ‘‘ignoranza genetica’’ del consumatore,
negativamente alimentato dalla parzialità delle informazioni di cui dispone, l’intervento correttivo dovrebbe spiegarsi non dinanzi all’autorità giudiziaria, ma, in
via preventiva, attraverso l’incremento delle attività
destinate all’educazione al consumo, lo sviluppo di
modalità più efficaci attraverso cui fornire informazioni
sui prodotti e sui diritti, il rafforzamento dei meccanismi di controllo della correttezza, trasparenza ed equità
delle contrattazioni.
Utili, sotto tale ultimo profilano si rivelano le indicazioni elaborate dalla Behavioural Law and Economics,
secondo cui dovrebbero preferirsi processi informativi
semplificati e immediatamente percepibili, anche graficamente (ROJAS ELGUETA, 265, infra, sez. IV). Inoltre, considerati gli effetti controproducenti del sovraccarico informativo pre-contrattuale (MORERA, 204,
infra, sez. IV), favorire ed incentivare attività di pura
educazione al consumo, in esecuzione degli obblighi
derivanti dall’art. 169 TFUE, può costituire un valido
strumento per formare una classe di consumatori che,
una volta informati, sia in grado di ‘‘intendere i propri
diritti’’.
Insomma, se la prospettiva è quella di un consumatore ‘‘non informato’’, è sul piano della tutela preventiva che sembrerebbe necessario muoversi, mettendolo
nelle condizioni di conoscere il sistema di tutela post
vendita e le sue modalità di attivazione.
Alla luce di queste considerazioni, l’impianto motivazionale della sentenza sarebbe stato forse più coerente, visti i precedenti cui essa espressamente si richiama,
se si fosse riferito, per giustificare l’incompatibilità della disciplina spagnola col principio di effettività, all’impossibilità del Secretario judicial di valutare l’abusività delle clausole contrattuali.
La Corte, cosı̀, avrebbe potuto argomentare dall’incompetenza l’impossibilità, per la decisione non opposta, di acquistare valore di res giudicata su quel punto
specifico. Sostanzialmente, l’incompetenza del Secretario judicial circa la valutazione ex officio dell’abusività
sarebbe potuta essere valorizzata nel senso di escludere
la possibilità che si formi giudicato su ciò che dinanzi
allo stesso non è deducibile e, quindi, esula dalla sua
cognizione.
Ragionando in questi termini, la Corte sarebbe potuta giungere ad affermare, in accordo con le conclusioni rassegnate in Banco Español de Credito, che osta
ad una disciplina nazionale la previsione di un’autorità
competente ad emanare un decreto ingiuntivo ma incompetente a rilevare la nullità delle clausole contrattuali, con la conseguenza che l’abusività di una clausola è rilevabile, anche d’ufficio, fintanto che non sia
passata al vaglio di un’autorità competente ad espletare
una simile valutazione.
Tale impostazione probabilmente avrebbe consentito, da un lato, di adeguare in via interpretativa, cosı̀
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Parte prima Sentenze commentate
come il principio di effettività richiede (LIPARI, 896,
infra, sez. IV), la normativa spagnola al sistema di tutela discendente dall’art. 6 dir. n. 13/93 CE e, dall’altro, avrebbe evitato l’affermazione di un principio di
effettività che, consentendo la revisione del giudicato
ingenerato dall’inerzia del consumatore, prescinde dall’instaurazione di un’azione giudiziaria da parte di quest’ultimo.
2. Effettività della tutela e poteri officiosi del giudice.
La Corte di Giustizia, con la sentenza in commento,
compie un altro importante passo sulla strada della
tutela effettiva ai sensi della dir. n. 13/93 CE assicurando, cosı̀, un elevato livello di protezione dei consumatori.
L’affermazione di una tutela effettiva del consumatore si attua, ad avviso della Corte di Giustizia, riconoscendo al giudice nazionale investito della controversia
il potere di svolgere d’ufficio ogni attività idonea a
consentire al consumatore di trarre il massimo ‘‘effetto
utile’’.
L’esercizio di tale potere, originariamente ricostruito
in termini di facoltà (CORTE GIUST. CE 27.6.2000, C240/98, infra, sez. III) costituisce, oggi, un dovere per il
giudice (CORTE GIUST. CE, 26.10.2006, C-168/05,
infra, sez. III) il quale è chiamato a svolgere non solo
un controllo sul contenuto contratto, finalizzato alla
verifica di una clausola abusiva, ma anche a rilevare la
qualità di consumatore ove questa non sia allegata
(caso Faber, CORTE GIUST. UE, 4.6.2015, causa C497/13, cit.) e a pronunciarsi su domande non proposte (caso Duarte Hueros, CORTE GIUST. UE,
3.10.2013, causa C-32/12, cit.).
Ogni ragionamento della Corte di Giustizia, per allargare le maglie del potere ex officio, muove dalla
considerazione secondo cui il sistema di tutela istituito
dalla direttiva n. 93/13 sia fondato sull’idea che il rapporto contrattuale professionista-consumatore sia asimmetrico, laddove quest’ultimo si trova in una situazione di inferiorità rispetto al primo (ex multis, CORTE
GIUST. CE 27.6.2000, C-240/98, cit.).
Per tali ragioni, affinché la tutela possa risultare effettiva, la Corte ritiene che sia necessario un intervento eteronomo funzionale a riequilibrare la genetica disparità tra i contraenti.
Sulla base di queste premesse, la Corte è giunta ad
affermare un dovere pressoché illimitato del giudice
nazionale di intervenire in soccorso della parte debole
per «supplire alla [sua] scarsa reattività processuale»
(ZENO ZENCOVICH - PAGLIETTI, 268, sez. IV).
Lo squilibrio fisiologico tra consumatore e professionista nella giurisprudenza della Corte, dunque, giustifica un penetrante intervento giudiziale volto ad evitare che nel processo si proietti quel grado di disparità
presente già sul piano sostanziale (ORESTANO, 1184,
1150
infra, sez. IV). In questa prospettiva si è notato come
«l’ampliamento del rilievo officioso vale (...) a corazzare processualmente la situazione sostantiva che sia
stata fattualmente compromessa» (PAGLIANTINI, La
rilevabilità officiosa, 22, infra, sez. IV).
L’ampio margine di manovra riconosciuto al giudice
chiamato a decidere una controversia in materia di
consumer protection, come emerge dall’analisi dei precedenti della Corte, si fonda sull’interesse pubblico
sotteso alla direttiva n. 93/13 il cui art. 6, in particolare, è considerato «equivalente alle disposizioni nazionali
che occupano, nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno, il rango di norme di ordine pubblico» (CORTE GIUST.
CE, 6.10.2009, causa C-40/08, cit.).
L’impatto che l’ampliamento dei poteri esercitabili
dal giudice ex motu proprio ha sul principio di autonomia processuale degli Stati membri non è senza conseguenze.
L’assenza di un meccanismo istituzionale di armonizzazione in materia processuale, infatti, ha consentito
alla Corte, con frequenza crescente negli ultimi anni,
di correggere - mediante il ricorso ai principi generali
di equivalenza ed effettività - l’autonomia degli Stati
nella scelta degli strumenti processuali adeguati a tutelare le situazioni giuridiche soggettive di derivazione
comunitaria.
Il ricorso al principio di effettività, da questo punto
di vista, sembra essere effettuato dalla Corte di giustizia
non solo per ancorare l’interpretazione conforme del
diritto nazionale a quello comunitario, ma anche per
imporre positivamente agli Stati membri strumenti
processuali efficaci a tutelare i diritti di matrice europea (cfr. REICH, 344, infra, sez. IV).
Il margine di discrezionalità degli Stati membri, in
tal modo, risulta quasi azzerato e l’effettività smette di
essere un correttivo in negativo dell’autonomia processuale per divenire un criterio positivo diretto non solo
al giudice in sede di interpretazione ma anche al legislatore per adeguare la normativa processuale nazionale
agli standard comunitari (GRECO, 12 s., infra, sez. IV).
Tale impressione sembra essere confermata dal fatto
che il legislatore spagnolo abbia dovuto metter mano
nuovamente al codice di procedura civile per conformarlo alle conclusioni della sentenza Banco Español de
Credito. Con la legge 42/2015, infatti, la competenza
ad emettere decreti ingiuntivi è stata sottratta al Secretario judicial e riassegnata ad un giudice al quale, nell’ottica di garantire al consumatore una protezione effettiva dei suoi interessi, è attribuita la competenza alla
rilevazione d’ufficio dell’esistenza di clausole abusive
nei contratti stipulati con i consumatori.
Il principio di effettività, insomma, sembra esser diventato uno strumento di armonizzazione surrettizia in
una materia di competenza esclusiva degli Stati (PAGLIANTINI, Effettività della tutela, 812, infra, sez. IV) ai
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quali «not much ‘‘autonomy’’ (...) seems to be left»
(REICH, 357).
Si tratta di «un’armonizzazione processuale ‘‘per principi’’» (CANNIZZARO, 661, infra, IV) che fa emergere
la natura market-oriented del diritto privato europeo
volto, non tanto alla tutela del consumatore quale
individuo, ma alla regolamentazione del mercato
(POILLOT, 76; PAGLIANTINI, Effettività della tutela,
806, entrambi infra, sez. IV).
Si conferma cosı̀ l’idea per cui l’affermazione di una
tutela generalizzata del consumatore tenda, in realtà,
«verso una ‘‘giustizia del mercato’’ in cui siano vietati
gli abusi di posizioni di dominio contrattuale» (BIANCA, 396, infra, sez. IV).
3. Il fondamento normativo del principio di effettività.
Il giudice del rinvio con la terza e quarta questione,
chiede alla Corte di vagliare la compatibilità del procedimento di ingiunzione spagnolo con l’art. 47 Carta
dir. UE e, in particolare, se il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva ivi sancito osti ad una normativa
nazionale che non consente all’autorità investita di
un’ingiunzione di rilevare d’ufficio l’abusività delle
clausole contrattuali, né consente nella fase dell’esecuzione che il giudice investito di quest’ultima riesamini
quanto già deciso dal Secretario judicial.
I giudici di Lussemburgo, sul punto, non forniscono
risposta rilevando come il giudice del rinvio non abbia
«specificato le ragioni che l’hanno indotto a interrogarsi
sulla compatibilità di tale normativa con l’articolo 47 della
Carta» e l’assenza, nell’ordinanza di rinvio, di «indicazioni sufficientemente precise e complete, tali da consentire
alla Corte di fornire una risposta utile a tali questioni».
La circostanza, in realtà, non deve stupire. Nonostante sia proprio il principio di effettività a fondare
la maggior parte delle decisioni rese in materia consumeristica, sono davvero pochi i casi in cui la Corte si
riferisce direttamente all’art. 47 della Carta di Nizza.
Un’esplicita menzione dell’art. 47, assieme agli artt.
6 e 13 Conv. eur. dir. uomo, è avvenuta, ad esempio,
in Alassini (CORTE GIUST. UE, 18.3.2010, C-317/08,
infra, sez. III) - ove, tuttavia, la Corte ha ritenuto che
la previsione di un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione di procedibilità
dei ricorsi giurisdizionali non è tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli dalla dir. n. 22/2002
CE - e in Banif (CORTE GIUST. UE, 21.2.2013, C472/11, infra, sez. III) ove la Corte ha richiamato l’art.
47 per affermare il dovere del giudice, una volta rilevata l’abusività della clausola, di sottoporla alle parti
per la discussione in ossequio al principio del contradditorio.
Le rare occasioni in cui la Corte si richiama esplici-
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tamente all’art. 47 inducono ad interrogarsi sul fondamento normativo del principio di effettività.
Per fornire una risposta a tale quesito, nei limiti in
cui tale sede lo consente, è utile osservare come il
canone dell’effettività, presente nello strumentario della Corte sin dal 1976, è stato elaborato dalla stessa per
evitare che «in assenza di (...) provvedimenti di armonizzazione (...) le modalità procedurali delle azioni giudiziali,
intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in
forza delle norme comunitarie», siano tali da rendere «in
pratica impossibile l’esercizio dei diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare» (CORTE GIUST. CE,
16.12.1976, C-33/76, infra, sez. III). Nei suoi più recenti sviluppi il principio di effettività richiede che la
normativa processuale interna non renda «eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai consumatori
dall’ordinamento giuridico dell’Unione».
Il principio di effettività, dunque, nato con l’obiettivo di garantire piena efficacia alla norma comunitaria e
per consentire all’ordinamento europeo di affermarsi
rispetto agli ordinamenti nazionali, successivamente
ha smesso i panni di mero garante della primazia comunitaria per vestire quelli di criterio interpretativo
volto a far conseguire il massimo ‘‘effetto utile’’ (LIPARI, 896, infra, sez. IV).
Ed è nella prospettiva di garantire il più alto grado di
protezione per il titolare di una situazione giuridica di
derivazione comunitaria che il principio di effettività
viene riferito al diritto fondamentale ad una tutela
giurisdizionale effettiva di cui all’art. 47 della Carta
dir. UE e all’art. 19, par. 2, TUE ove impone agli Stati
membri di adottare rimedi giurisdizionali idonei ad
assicurare una tutela giurisdizione effettiva nei settori
disciplinati dal diritto dell’Unione (MAK, 236; REICH,
341-343, entrambi infra, sez. IV).
Sulla base di queste considerazioni la circostanza per
cui la Corte solo raramente ha fatto menzione dell’art.
47 è stata spiegata nel senso che «an express reference to
art. 47/19 TEU does not attach anything new to the
principle of effectiveness, but only makes it conform to
the more recent constitutionalisation of EU private law»
(REICH, 356).
In questa prospettiva, si è sottolineato che l’art. 47
può costituire la base normativa, non solo per il test di
adeguatezza della legislazione processuale nazionale rispetto ai diritti di matrice comunitaria, ma anche per
lo sviluppo di nuove tecniche rimediali (POILLOT, 70;
MAK, 240).
III. I precedenti
1. Effettività della tutela e condotta processuale.
Sulla rilevanza della condotta processuale del consumatore, ai fini dell’esclusione del potere del giudice
dell’esecuzione di rilevare d’ufficio l’abusività della
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clausola v. CORTE GIUST. CE, 6.10.2009, causa C-40/
08, Asturcom, in Riv. dir. proc., 2010, 677, con nota di
RAITI, e in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, 287, con nota
di LO SCHIAVO e, seppure non in materia consumeristica, CORTE GIUST. CE, 1.6.1999, causa C-126/97,
Eco Swiss, in Foro it., 1999, IV, 470.
CORTE GIUST. UE, 14.6.2012, causa C-618/10, Banco Español de Crédito, in Contratti, 2013, 16 ss., con
nota di D’ADDA, ha ritenuto incompatibile con il sistema di tutela della dir. n. 13/93 CE la disciplina
processuale spagnola che impediva al giudice investito
della domanda di ingiunzione di pagamento di rilevare
officiosamente l’abusività di una clausola contrattuale
contenuta in un contratto concluso tra consumatore e
professionista.
Un intervento giudiziale non solo compensativo ma,
in una qualche misura, suppletivo si era già registrato
in CORTE GIUST. UE, 3.10.2013, causa C-32/12,
Duarte Hueros, in Riv. dir. proc., 2015, 243, con nota
di GOZZI ove la Corte ha riconosciuto il potere del
giudice di ridurre d’ufficio il prezzo di una compravendita intervenuto tra professionista e consumatore anche se quest’ultimo avesse richiesto solo la risoluzione
per la quale, tuttavia, non ricorrevano i presupposti e
in CORTE GIUST. UE, 4.6.2015, causa C-497/13, Faber, in Contratti, con nota di AZZARRI, ove si è stabilito
che il giudice può domandare alle parti ‘‘chiarimenti’’
in ordine alla sussistenza o meno della qualità di consumatore se, quest’ultima, non sia stata allegata.
La mancata indicazione dei motivi di opposizione ad
un’ingiunzione di pagamento non impedisce ad avviso
di CORTE GIUST. UE, 9.11.2010, causa C-137/08, VB
Pénzügyi Lı́zing, in Contratti, 2011, 113, con nota di
F.P. PATTI, al giudice di svolgere ex se attività istruttoria per accertare se una clausola attributiva di competenza giurisdizionale territoriale esclusiva rientri nell’ambito d’applicazione della dir. n. 13/93 CEE.
2. Effettività della tutela e poteri officiosi del giudice.
Il potere del giudice di rilevare officiosamente l’abusività delle clausole contrattuali in termini di facoltà è
sancito da CORTE GIUST. CE 27.6.2000 da C-240/98 a
C-244/98, Océano Grupo Editorial, in Corr. giur., 2000,
1658. Mentre CORTE GIUST. CE, 26.10.2006, C-168/
05, Mostaza Claro, in Foro it., 2007, IV, 373, con nota
di CASORIA, sancisce il dovere per il giudice di porre
in essere tale valutazione.
Tale potere, tuttavia, secondo i limiti sanciti nel caso
Pannon, CORTE GIUST. CE, 4.6.2009, causa C-243/08,
in Foro it., 2009, IV, 489, con nota di PALMIERI, incontra il limite dell’opposizione del consumatore che
può manifestare una volontà contraria declaratoria di
nullità.
Le citate sentenze indicano, tra le altre, le finalità
della tutela prevista dalla dir. n. 13/93 CE ritenendo
1152
che l’idea fondamentale della legislazione di protezione
a favore del consumatore sia insita nella asimmetria di
potere contrattuale. Mentre i casi Duarte Heuros e Faber, citati nella sez. III, n. 1, costituiscono esemplificazione dell’allargamento delle maglie dell’intervento
giudiziale per assicurare al consumatore il massimo effetto utile.
La natura di norma di ordine pubblico dell’art. 6 dir.
n. 13/93 è riconosciuta da CORTE GIUST. CE,
6.10.2009, causa C-40/08, cit., la quale, escluso il contrasto col principio di effettività della norma normativa spagnola, lo afferma rispetto al principio di equivalenza.
Nel panorama giurisprudenziale italiano riconosce,
tra le altre, il potere di rilevazione officiosa della nullità già in sede monitoria TRIB. MILANO, 28.5.2015, in
DeJure, secondo cui «il giudice del monitorio, d’ufficio e
senza bisogno di alcun atto di impulso del contraente debole, ha il potere-dovere di rilevare d’ufficio l’incompetenza
e rigettare il ricorso».
3. Il fondamento normativo del principio di effettività.
In materia di consumeristica si riferiscono esplicitamente all’art. 47 della Carta di Nizza CORTE GIUST.
UE, 18.3.2010, C-317/08, Alassini, in Corr. giur., 2010,
1292, con nota di RIZZO e CORTE GIUST. UE,
21.2.2013, C-472/11, Banif, in Foro it., 2014, IV, 5.
In entrambe, singolare coincidenza, la Corte esclude
che il diritto nazionale in questione contrasti con il
diritto fondamentale ad una tutela effettiva.
Nella giurisprudenza nazionale, seppur in materia di
illecito antitrust, CASS., 4.6.15, n. 11564, in Foro it.,
2015, I, 2742 richiama espressamente l’art. 47 Carta
dir. UE per ancorare un dovere del giudice di non
interpretare rigidamente il principio di onere della prova e, conseguentemente, di attivare d’ufficio i poteri
istruttori.
Il principio di effettività nella sua declinazione essenziale funzionale a garantire la sua primazia rispetto
ai diritti nazionali è sancito, per la prima volta, in
CORTE. GIUST. CE, 5.2.1963, C-26/62, Van Gend en
Loos, in Foro it., 1964, IV, 98, mentre nella sua accezione di limite all’autonomia processuale degli Stati
membri è affermato a partire da CORTE GIUST. CE,
16.12.1976, C-33/76, Rewe, ivi, 1977, IV, 192.
IV. La dottrina
1. Effettività della tutela e condotta processuale.
Oltre alle note di commento degli autori citati nella
sez. III, sul caso Asturcom v. le riflessioni di R. CONTI,
C’era una volta il ... giudicato, in Corr. giur., 2010, 173
ss. e di SCHEBESTA, Does the National Court know European Law? A note on ex officio application after Asturcom, in European Review of Private Law, 2010, 858 ss.
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Sul caso Faber v. F.P. PATTI, Tutela effettiva del consumatore nella vendita: il caso ‘‘Faber’’, in questa Rivista, 2016, I, 10 ss.
La sentenza Banco Español de Crédito è oggetto di
analisi, sotto il profilo dell’integrazione del contratto,
di S. PAGLIANTINI, L’integrazione del contratto tra Corte
di giustizia e nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il
segmentarsi dei rimedi, in Persona e mercato, 2013, 11.
L’opportunità di tenere conto delle conclusioni cui è
giunta la Behavioural Law and Economics è sottolineata
da ROJAS ELGUETA, Fallimenti cognitivi e regolazione del
mercato energetico, in Contr. e impr., 2016, 253 ss. Sulle
disfunzioni del sovraccarico informativo v. MORERA,
Irrazionalità del contraente investitore e regole di tutela, in
Oltre il soggetto razionale, a cura di ROJAS ELGUETA e
VARDI, Roma Tre-press, 2014, 204. Nello stesso volume, v. GRISI, Gli obblighi informativi quale rimedio dei
fallimenti cognitivi. Sulla BLE, in termini generali nella
letteratura italiana, v. CATERINA (a cura di), Fondamenti cognitivi del diritto. Percezioni, rappresentazioni,
comportamenti, Mondadori, 2008.
2. Effettività della tutela e poteri officiosi del giudice.
Sullo squilibrio, anche processuale, tra consumatore
e professionista v. ZENO ZENCOVICH - PAGLIETTI,
Verso un diritto processuale dei consumatori?, in questa
Rivista, 2009, II, 270. In argomento, tra gli altri, v.
anche ORESTANO, Rilevabilità d’ufficio della vessatorietà
delle clausole, in Eur. e dir. priv., 2000, 1179 ss. e PAGLIANTINI, La rilevabilità officiosa della nullità e l’articolazione di nuovi mezzi di prova nella cornice dell’effettività
della tutela. Il dialogo tra le Corti, in Contratti, 2014, 18
ss.
Sull’incidenza del principio di effettività sull’autonomia processuale degli Stati membri v., ex multis, CARRATTA, Libertà fondamentali del Trattato UE e processo
civile, in MEZZANOTTE (a cura di), Le «libertà fondamentali» dell’Unione Europea e il diritto privato, Roma
Tre-Press, 2016, 199 ss.; GRECO, A proposito dell’autonomia procedurali degli Stati membri, in Riv. it. dir. pubbl.
com., 2014, 1 ss.; CANNIZZARO, Effettività del diritto
dell’Unione e rimedi processuali nazionali, in Dir. un.
eur., 2013, 659 ss.; R. CONTI, L’effettività del diritto
comunitario ed il ruolo del giudice, in Eur. e dir. priv.,
2007, 479 ss. Nella dottrina straniera, REICH, The principle of Effectiveness and EU contract law, in Oss. dir.
civ. comm., 2013, 337 e ss., il quale propone, per compendiare autonomia processuale ed effettività della tutela, un «hybridisation approch».
Sulla direzione del diritto privato europeo verso la
regolazione del mercato unico europeo v., tra gli altri,
PAGLIANTINI, Effettività della tutela giurisdizionale, consumer welfare e diritto europeo dei contratti nel canone
interpretativo della Corte di giustizia: traccia per uno sguardo di insieme, in Nuove leggi civ. comm., 2014, 804 ss.;
POILLOT, The European Court of Justice an general principles derived from the acquis communautaire, in Oslo
Law Review, 2014, I, 67. In termini più generali, v.
BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Giuffré, 1993,
394.
3. Il fondamento normativo del principio di effettività.
Sul principio di effettività nel quadro del diritto comunitario v. S.M. CARBONE, Principio di effettività e
diritto comunitario, Editoriale Scientifica, 2011; LIPARI,
Il problema dell’effettività nel diritto comunitario, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 2009, 887 ss.
Sugli art. 47 CDFUE e 19, par. 2, TUE v. TESAURO,
Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di giustizia nell’evoluzione dell’unione europea, in Diritto dell’Unione Europea, 2013, 500 ss.
Sul ruolo che l’art. 47 che svolge e potrà svolgere v.
MAK, Rights and Remedies. Article 47 EUCFR and effective judicial protection in European private law matters,
in MICKLITZ (a cura di), Constitutionalization of European Private Law, Oxford University Press, 2014, nonché i citati lavori di REICH e POILLOT.
Critico rispetto al test di effettività è BOBEK, Why
there is no principle of ‘‘procedural autonomy’’ of the member states, in MICKLITZ-DE WITTE (eds.) The European
Court of Justice and the autonomy of the Member states,
Intersentia, 2012, 319.
n Contratti del consumatore
CORTE GIUST. UE, I sez., 14.4.2016, cause riunite C-381/14 e C-385/14 – TIZZANO Presidente – LEVITS
Relatore - SZPUNAR (avv. gen.) – Governo spagnolo (agente Gavela Llopis) – Commissione europea (agenti
Baquero Cruz e van Beek) – Sales Sinués (avv.ti Cirera Mora e Pertı́nez Vı́lchez) – Caixabank SA (avv. Ferreres
Comella) – Youssouf Drame Ba – Catalunya Caixa SA (avv.ti Rodrı́guez Cárcamo e Fernández de Senespleda)
CONTRATTI DEL CONSUMATORE – AZIONE INDIVIDUALE VOLTA A FAR DICHIARARE ABUSIVA UNA CLAUSOLA
– AZIONE COLLETTIVA INIBITORIA SULLA MEDESIMA CLAUSOLA – OBBLIGO DI SOSPENSIONE DELL’AZIONE
INDIVIDUALE AVENTE IL MEDESIMO OGGETTO - CONTRASTO CON L’ART. 7 DIR. N. 13/93 CEE – SUSSISTENZA
(dir. n. 13/93 CEE, art. 7)
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Parte prima Sentenze commentate
L’art. 7 della direttiva n. 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei
contratti stipulati con i consumatori, dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che imponga al giudice adito da un consumatore con
un’azione individuale volta a far dichiarare il carattere abusivo di una clausola contenuta in un contratto
stipulato con un professionista, di sospendere automaticamente l’azione fino alla pronuncia della decisione
definitiva relativa ad un’azione collettiva pendente, proposta da un’associazione di consumatori ai sensi del par.
2 dell’art. medesimo, al fine di inibire l’inserzione, in contratti dello stesso tipo, di clausole analoghe a quella
oggetto dell’azione individuale, senza che possa essere presa in considerazione la pertinenza di tale sospensione
dal punto di vista della tutela del consumatore che abbia adito individualmente il giudice, e senza che tale
consumatore possa decidere di dissociarsi dall’azione collettiva.
dal testo:
Il fatto. I motivi. 1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 7 della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU L 95, pag. 29).
2. Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie tra il sig. Sales Sinués e la Caixabank SA, da un
lato, e il sig. Drame Ba e la Catalunya Caixa SA, dall’altro
lato, relative alla nullità di clausole contenute in contratti di
mutuo ipotecario.
Contesto normativo
Direttiva 93/13
3. L’articolo 3 della direttiva 93/13 cosı̀ recita: (Omissis).
4. L’articolo 4, paragrafo 1, di detta direttiva precisa quanto segue: (Omissis).
5. L’articolo 6, paragrafo 1, della medesima direttiva cosı̀
dispone: (Omissis).
6. Ai sensi del successivo articolo 7: (Omissis).
Diritto spagnolo
7. L’articolo 43 del codice di procedura civile (Ley de
enjuiciamiento civil), del 7 gennaio 2000 (BOE n. 7, dell’8
gennaio 2000, pag. 575), dispone quanto segue:
«[Q]uando, per pronunciarsi sull’oggetto della controversia, sia necessario risolvere una questione che, a sua volta,
costituisca oggetto principale di un altro procedimento pendente dinanzi al medesimo giudice o ad un giudice diverso,
qualora non risulti possibile la riunione dei procedimenti
stessi, il giudice potrà disporre, su istanza di entrambe le
parti o di una di esse, sentita la controparte, la sospensione
del procedimento nello stadio in cui si trova fino al termine
del procedimento avente ad oggetto la questione pregiudiziale».
8. L’articolo 221 del codice di procedura civile, relativo
agli effetti delle decisioni pronunciate nell’ambito di procedimenti avviati da associazioni di consumatori o utenti, cosı̀
recita: «(...)
1a. Qualora sia stata chiesta una condanna pecuniaria, la
condanna ad un fare, non fare o dare una cosa specifica o
generica, la decisione di accoglimento della domanda designa individualmente i consumatori e utenti che, conformemente alle norme poste a loro tutela, possono beneficiare
della decisione di condanna.
Qualora la designazione individuale non risulti possibile,
la decisione stabilisce i dati, le caratteristiche e i requisiti
necessari per poter richiedere il pagamento e, se del caso,
1154
avviare l’esecuzione o intervenire nella stessa, laddove sia
stata avviata dall’associazione attrice.
2a. Qualora la declaratoria di illegittimità o illegalità di
un’attività o di una condotta determinata sia all’origine
della condanna o della pronuncia principale o unica, la
decisione stabilisce se, conformemente alla legislazione in
materia di tutela dei consumatori e degli utenti, la declaratoria stessa debba avere effetti processuali non limitati a
coloro che siano stati parti del procedimento di cui trattasi.
3a. Qualora al procedimento abbiano partecipato consumatori o utenti individualmente determinati, la decisione
deve pronunciarsi espressamente sulle loro domande.
(...)».
9. L’articolo 222 del codice di procedura civile cosı̀ dispone:
«1. La cosa giudicata nelle decisioni definitive, siano esse
di accoglimento o di rigetto, esclude, conformemente alla
legge, qualsiasi nuovo procedimento il cui oggetto sia identico a quello del procedimento in cui la decisione sia stata
pronunciata.
2. La cosa giudicata si estende al petitum della domanda
attorea e riconvenzionale, nonché ai punti di cui all’articolo
408, paragrafi 1 e 2, della presente legge.
Si considerano fatti nuovi e distinti, in relazione alla causa
petendi della domanda, quelli verificatisi successivamente
alla scadenza del termine per la presentazione delle memorie
nel procedimento nell’ambito del quale la domanda sia stata
formulata.
3. La cosa giudicata avrà efficacia tra le parti del procedimento nel quale è stata pronunciata e tra i loro eredi e
aventi causa, cosı̀ come tra i soggetti, che non siano parti
della controversia, titolari dei diritti che fondano la legittimazione attiva delle parti, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 11 della presente legge.
(...)
4. La decisione definitiva conclusiva di un procedimento,
laddove abbia acquisito forza di cosa giudicata, vincola il
giudice di un procedimento successivo quando in esso ricorra come antecedente logico dell’oggetto di tale procedimento, purché le parti siano le stesse ovvero la cosa giudicata si
estenda ad esse per disposizione di legge».
10. Secondo l’interpretazione del giudice del rinvio, le
norme processuali richiamate supra lo obbligano a sospendere i procedimenti in corso, in cui un consumatore ha
proposto azione individuale di annullamento di una clausola
abusiva, fino a che sia pronunciata una sentenza definitiva
in un procedimento promosso da un’associazione di consu-
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Sentenze commentate Parte prima
matori, debitamente legittimata ad avviare un’azione collettiva per far cessare l’utilizzo di una clausola analoga.
Procedimenti principali e questioni pregiudiziali
11. Il sig. Sales Sinués stipulava, in data 20 ottobre 2005,
un contratto di novazione di mutuo ipotecario presso la
Caixabank SA. La clausola «di tasso minimo» contenuta
in tale contratto prevede un tasso nominale annuo del
2,85%, con soglia massima fissata al 12%. Il sig. Drame Ba
stipulava, in data 7 febbraio 2005, un contratto di mutuo
ipotecario presso la Catalunya Caixa SA. La clausola «di
tasso minimo», in tale contratto, prevede un tasso del
3,75%, con soglia massima limitata al 12%.
12. Indipendentemente dalla fluttuazione dei tassi sul
mercato, i tassi d’interesse dei contratti dei ricorrenti nel
procedimento principale non possono essere inferiori alla
percentuale prevista dalla clausola «di tasso minimo».
13. I sig.ri Sales Sinués e Drame Ba, ritenendo che le
clausole «di tasso minimo» siano state loro imposte dagli
istituti bancari e che esse determinino uno squilibrio a loro
sfavore, proponevano individualmente, dinanzi al giudice
del rinvio, ricorso per far accertare la nullitàà di tali clausole.
14. Anteriormente alla proposizione di detti ricorsi, un’associazione di consumatori, l’Adicae (Asociación de Usuarios de Bancos Cajas y Seguros) aveva avviato, contro 72
istituti bancari, un’azione collettiva per far cessare l’uso delle
clausole «di tasso minimo» nei contratti di mutuo.
15. Richiamandosi all’articolo 43 del codice di procedura
civile, le parti resistenti nel procedimento principale hanno
chiesto la sospensione dei giudizi di cui trattasi fino alla
pronuncia della decisione definitiva che ponga fine al giudizio collettivo. I sig.ri Sales Sinués e Drame Ba si oppongono alla richiesta.
16. Il giudice del rinvio ritiene che, nelle circostanze di
specie, l’articolo 43 del codice di procedura civile gli imponga di sospendere le azioni individuali dinanzi ad esso
avviate sino alla pronuncia della decisione definitiva nel
procedimento collettivo, e che tali effetti sospensivi comportino la necessaria subordinazione dell’azione individuale
all’azione collettiva, sia in relazione al suo svolgimento che
al suo esito.
17. Sottolinea, inoltre, che la partecipazione all’azione
collettiva è vincolata a diversi obblighi, in quanto, da un
lato, il soggetto di diritto deve rinunciare eventualmente al
giudice competente del proprio domicilio e, dall’altro, in
quanto la possibilità di proporre osservazioni a titolo individuale a sostegno dell’azione collettiva è limitata nel tempo.
18. Ciò premesso, il Juzgado de lo Mercantil n. 9 di Barcellona (Tribunale commerciale n. 9 di Barcellona, Spagna)
ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se si possa ritenere [che l’ordinamento giuridico spagnolo preveda] un mezzo o meccanismo efficace conforme
all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13.
2) Fino a qual punto tale effetto sospensivo rappresenti un
ostacolo per il consumatore e, pertanto, una violazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 al fine di far
valere la nullità delle clausole abusive inserite nel suo contratto.
3) Se il fatto che il consumatore non possa dissociarsi
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dall’azione collettiva costituisca una violazione dell’articolo
7, paragrafo 3, della direttiva 93/13.
4) Ovvero se, al contrario, l’effetto sospensivo di cui all’articolo 43 [del codice di procedura civile] sia conforme
all’articolo 7 della direttiva 93/13, essendo i diritti del consumatore pienamente tutelati da tale azione collettiva, atteso che l’ordinamento giuridico spagnolo prevede altri meccanismi processuali parimenti efficaci per la tutela dei suoi
diritti, e dal principio di certezza del diritto».
19. Con ordinanza del presidente della Corte del 9 settembre 2014, le cause C-381/14 e C-385/14 sono state riunite ai fini delle fasi scritta e orale, nonché della sentenza.
Sulle questioni pregiudiziali
20. Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 7 della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel
senso che esso osti ad una normativa nazionale che imponga, al giudice adito da un consumatore con un’azione individuale per far dichiarare il carattere abusivo di una clausola
contenuta in un contratto stipulato con un professionista, di
sospendere automaticamente l’azione fino alla pronuncia
della decisione definitiva relativa ad un’azione collettiva
pendente, proposta da un’associazione di consumatori ai
sensi del paragrafo 2 del medesimo articolo, al fine, in particolare, di inibire l’inserzione, in contratti dello stesso tipo,
di clausole analoghe a quella oggetto dell’azione individuale.
21. Per rispondere a tali questioni, si deve ricordare, preliminarmente, che, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della
direttiva 93/13, gli Stati membri provvedono a fornire mezzi
adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole
abusive nei contratti stipulati tra professionisti e consumatori. Parallelamente al diritto soggettivo del consumatore di
adire un giudice per l’esame dell’abusività di una clausola di
un contratto di cui è parte, il meccanismo previsto all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 93/13 consente agli Stati
membri di promuovere un controllo sulle clausole abusive
contenute in contratti tipo mediante azioni inibitorie avviate nell’interesse pubblico da parte di associazioni per la tutela dei consumatori.
22. Per quanto concerne, da un lato, l’azione individuale
del consumatore, il sistema di tutela istituito con la direttiva
93/13 si fonda sull’idea che il consumatore si trovi in una
posizione di inferiorità nei confronti del professionista per
quanto riguarda sia il potere negoziale, sia il livello di informazione (v. sentenza Perenicová e Perenic, C-453/10,
EU:C:2012:144, punto 27 e giurisprudenza citata).
23. Per garantire detta tutela, la disuguaglianza tra il consumatore e il professionista può essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al
rapporto contrattuale (sentenza Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punto 31).
24. In tale contesto, il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale tenendo conto, come prescritto dall’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, della natura dei beni o servizi
oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento
della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che
accompagnano la sua conclusione nonchéé a tutte le altre
clausole di tale contratto, o di un altro contratto da cui esso
dipende (v., in tal senso, sentenza Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punto 32).
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Parte prima Sentenze commentate
25. Tuttavia, se anche il giudice nazionale dovesse concludere per l’abusività di una clausola, il diritto ad una tutela
effettiva del consumatore comprende anche la facoltà di
non far valere i propri diritti, di modo che il giudice nazionale deve tener conto, se del caso, della volontà espressa dal
consumatore quando quest’ultimo, consapevole del carattere non vincolante di una clausola abusiva, afferma tuttavia
di opporsi alla sua disapplicazione, dando quindi un consenso libero e informato alla clausola di cui trattasi (v. sentenza
Banif Plus Bank, C-472/11, EU:C:2013:88, punto 35).
26. Per quanto attiene, dall’altro lato, alle azioni promosse
da persone o organizzazioni che hanno un legittimo interesse
a tutelare i consumatori, di cui all’articolo 7, paragrafo 2,
della direttiva 93/13, occorre sottolineare che quest’ultime
non si trovano in una simile situazione di inferiorità rispetto
al professionista (sentenza Asociación de Consumidores Independientes de Castilla y León, C-413/12, EU:C:2013:800,
punto 49).
27. Infatti, senza negare l’importanza del ruolo essenziale
che esse devono poter svolgere per conseguire un livello
elevato di tutela dei consumatori all’interno dell’Unione
europea, occorre nondimeno rilevare che un’azione inibitoria che contrapponga una tale associazione a un professionista non è caratterizzata dallo squilibrio presente nel contesto
di un ricorso individuale che coinvolga un consumatore ed
un professionista, sua controparte contrattuale (v. sentenza
Asociación de Consumidores Independientes de Castilla y
León, C-413/12, EU:C:2013:800, punto 50).
28. Un simile approccio differenziato trova inoltre conferma nelle disposizioni degli articoli 4, paragrafo 1, della
direttiva 98/27/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 19 maggio 1998, relativa a provvedimenti inibitori a
tutela degli interessi dei consumatori (GU L 166, pag.
51), e 4, paragrafo 1, della direttiva 2009/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, relativa a
provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori (GU L 110, pag. 30), che ha sostituito la prima, per cui
ad essere competenti a conoscere delle azioni inibitorie intentate dalle associazioni di tutela dei consumatori di altri
Stati membri, in caso di violazione intracomunitaria della
normativa dell’Unione in materia di tutela dei consumatori,
sono i giudici dello Stato membro di stabilimento o di domicilio del convenuto (sentenza Asociación de Consumidores Independientes de Castilla y León, C-413/12,
EU:C:2013:800, punto 51).
29. Si deve aggiungere che la natura preventiva e la finalità dissuasiva delle azioni inibitorie, nonché la loro indipendenza nei confronti di qualsiasi conflitto individuale
concreto, implicano che dette azioni possano essere esercitate anche quando le clausole delle quali si chiede l’inibitoria non siano state inserite in contratti determinati (v.
sentenza Invitel, C-472/10, EU:C:2012:242, punto 37).
30. Pertanto, le azioni individuali e collettive, nell’ambito
della direttiva 93/13, hanno obiettivi ed effetti giuridici
diversi, di modo che la relazione processuale tra lo svolgimento dell’una e dell’altra può rispondere solamente ad
esigenze di natura procedurale riguardanti, in particolare,
la corretta amministrazione della giustizia e volte alla necessità di evitare decisioni giudiziarie contraddittorie, senza
tuttavia che l’articolazione di tali diverse azioni comporti
1156
un affievolimento della tutela dei consumatori, cosı̀ come
prevista dalla direttiva 93/13.
31. Infatti, anche se la direttiva non mira ad armonizzare
le sanzioni applicabili nell’ipotesi di riconoscimento del carattere abusivo di una clausola nell’ambito di tali azioni, il
suo articolo 7, paragrafo 1, obbliga tuttavia gli Stati membri
ad assicurare l’esistenza di mezzi adeguati ed efficaci al fine di
far cessare l’utilizzo delle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (sentenza Invitel, C-472/10,
EU:C:2012:242, punto 35).
32. In tale contesto, si deve tuttavia rilevare che, in assenza di armonizzazione degli strumenti processuali disciplinanti i rapporti tra le azioni collettive e le azioni individuali
previste dalla direttiva 93/13, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia processuale, stabilire regole siffatte, a condizione, tuttavia, che dette regole non siano meno favorevoli rispetto a quelle che disciplinano situazioni analoghe
assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e
non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti alle associazioni di tutela
dei consumatori dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., per analogia, sentenza Asociación de Consumidores Independientes de Castilla y León, C-413/12,
EU:C:2013:800, punto 30 e giurisprudenza citata).
33. Per quanto concerne, da un lato, il principio di equivalenza, non risulta, tenuto conto di quanto si evince dalle
decisioni di rinvio, che l’articolo 43 del codice di procedura
civile sia oggetto di diversa applicazione in controversie
relative a diritti basati sull’ordinamento nazionale e in quelle relative a diritti basati sull’ordinamento dell’Unione.
34. Dall’altro lato, per quanto riguarda il principio di
effettività, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che
ciascun caso in cui si pone la questione se una norma processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme
del procedimento, del suo svolgimento e delle peculiarità
dello stesso dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali.
Sotto tale profilo, si devono considerare i principi che sono
alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la certezza del diritto e il principio del giudicato (v. in tal senso,
sentenza BBVA, C-8/14, EU:C:2015:731, punto 26 e giurisprudenza citata).
35. Nel caso di specie, si deve rilevare che, come discende
dall’interpretazione offerta dal giudice del rinvio, in circostanze come quelle di cui trattasi, quest’ultimo deve, ai sensi
dell’articolo 43 del codice di procedura civile, sospendere
l’azione individuale per cui è stato adito in pendenza della
sentenza definitiva nel procedimento collettivo la cui soluzione può essere ripresa per l’azione individuale e, pertanto,
il consumatore non può più far valere individualmente diritti riconosciuti dalla direttiva 93/13, dissociandosi da detta
azione collettiva.
36. Orbene, una simile situazione è idonea a pregiudicare
l’effettività della tutela promossa da tale direttiva, tenuto
conto delle differenze di oggetto e di natura dei meccanismi
di tutela dei consumatori attuati da dette azioni, per come
esse sono descritte ai punti da 21 a 29 della presente sentenza.
37. Infatti, da un lato il consumatore è obbligatoriamente
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vincolato all’esito dell’azione collettiva, ancorché abbia deciso di non prendervi parte, e l’obbligo incombente sul giudice nazionale ai sensi dell’articolo 43 del codice di procedura civile impedisce quindi al medesimo di procedere all’analisi delle circostanze del caso sottoposto al suo esame. In
particolare, non saranno determinanti ai fini della risoluzione della controversia la questione della negoziazione individuale della clausola asseritamente abusiva né la natura dei
beni o servizi oggetto del contratto di cui trattasi.
38. Dall’altro lato, il consumatore, in applicazione dell’articolo 43 del codice di procedura civile come interpretato
dal giudice del rinvio, è vincolato dal termine dell’adozione
di una decisione giudiziaria relativa all’azione collettiva,
senza che il giudice nazionale possa valutare, sotto tale profilo, la pertinenza della sospensione dell’azione individuale
fino alla pronuncia della decisione definitiva nell’ambito
dell’azione collettiva.
39. Una regola nazionale di tal genere si rivela quindi
incompleta e insufficiente e non costituisce un mezzo né
adeguato né efficace per far cessare l’uso delle clausole abusive, contrariamente a quanto prescrive l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13.
40. Ciò vale a fortiori in quanto, nel diritto interno, il
consumatore, laddove intenda prender parte all’azione collettiva, è soggetto, come si evince dalla decisione di rinvio, a
limiti legati alla determinazione del giudice competente e ai
motivi che possono essere invocati. Inoltre, perde necessariamente i diritti che gli verrebbero riconosciuti nell’ambito
di un’azione individuale, ossia la presa in considerazione di
tutte le circostanze della sua causa, nonché la possibilità di
rinunciare alla non applicazione di una clausola abusiva, a
fortiori se non può dissociarsi dall’azione collettiva.
41. In tale contesto, si deve d’altronde sottolineare che
l’esigenza di assicurare la coerenza tra le decisioni giudiziarie
non può giustificare una simile carenza di effettività, dal
momento che, come sottolineato dall’avvocato generale al
paragrafo 72 delle sue conclusioni, la differenza di natura tra
il controllo giudiziario esercitato nell’ambito di un’azione
collettiva e quello esercitato nell’ambito di un’azione individuale dovrebbe, in linea di principio, prevenire il rischio
di decisioni giudiziarie contraddittorie.
42. Inoltre, per quanto concerne l’esigenza di ridurre il
carico giudiziario, l’esercizio effettivo dei diritti soggettivi
riconosciuti dalla direttiva 93/13 ai consumatori non può
essere messa in discussione sulla base di considerazioni legate
all’organizzazione giudiziaria di uno Stato membro.
43. Alla luce del complesso delle suesposte considerazioni,
si deve rispondere alle questioni sottoposte dichiarando che
l’articolo 7 della direttiva 93/13 dev’essere interpretato nel
senso che esso osta ad una normativa nazionale, come quella
oggetto del procedimento principale, che imponga al giudice adito da un consumatore con un’azione individuale volta
a far dichiarare il carattere abusivo di una clausola contenuta in un contratto stipulato con un professionista, di sospendere automaticamente l’azione fino alla pronuncia della
decisione definitiva relativa ad un’azione collettiva pendente, proposta da un’associazione di consumatori ai sensi del
paragrafo 2 dell’articolo medesimo, al fine di inibire l’inserzione, in contratti dello stesso tipo, di clausole analoghe a
quella oggetto dell’azione individuale, senza che possa essere
presa in considerazione la pertinenza di tale sospensione dal
punto di vista della tutela del consumatore che abbia adito
individualmente il giudice, e senza che tale consumatore
possa decidere di dissociarsi dall’azione collettiva. (Omissis)
«A proposito dei ‘‘mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di
clausole abusive’’. Tutela individuale e tutela collettiva»
di Nicolò Cevolani*
L’interpretazione della legge processuale domestica, che importi la sospensione obbligatoria di un giudizio
attivato dal consumatore - per censurare una clausola abusiva - nell’attesa che si definisca la causa
collettiva pregiudiziale osta all’obbligo degli Stati membri di fornire ‘‘i mezzi adeguati ed efficaci per far
cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori’’. Il
principio di autonomia processuale cede davanti al principio di effettività: assumendo la sospensione del
procedimento individuale, a fronte del pregiudiziale procedimento collettivo, come obbligatoria, si lede la
stessa effettività del diritto dell’Unione.
I. Il caso
La Corte di Giustizia misura la normativa processuale
domestica in materia di pregiudizialità civile, alla luce
di quei ‘‘mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra
un professionista e dei consumatori’’, che gli Stati
membri sono tenuti ad adottare, ex art. 7 § 1 della
dir. n. 13/93 CEE del Consiglio, del 5.4.1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i
consumatori (cfr. le Conclusioni generali dell’Avvocato generale M. SZPUNAR, presentate il 14.1.2016, punto 45). L’intervento della Corte muove da due cause
riunite, occasionate proprio dall’inserzione di clausole
abusive all’interno di contratti di adesione stipulati tra
* Contributo pubblicato in base a referee.
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professionisti e consumatori. Avviando autonomi procedimenti, i consumatori Sales Sinués e Drame Ba
impugnavano le clausole di tasso minimo, presenti
nei contratti di mutuo stipulati con gli istituti bancari
resistenti, rispettivamente Caixabank SA e Catalana
Caixa SA (le parti mutuanti sostanzialmente avevano
fissato una soglia oltre alla quale il tasso di interesse
non avrebbe potuto scendere, tenuto al riparo dalle
oscillazioni del mercato). Lamentando la natura abusiva delle clausole, i ricorrenti domandavano al Tribunale di commercio di Barcellona di dichiararne la nullità. Prima dei procedimenti in parola, l’associazione di
consumatori Adicae aveva già convenuto in giudizio,
davanti al medesimo Tribunale, una serie di istituti
bancari, tra i quali Caixabank SA e Catalana Caixa
SA resistenti nei procedimenti individuali: con azione
collettiva inibitoria, l’associazione domandava di vietare l’inserimento di clausole di tasso minimo nei contratti di mutuo, previo l’accertamento della relativa
natura vessatoria. Gli stessi istituti, nei procedimenti
individuali, eccepivano cosı̀ il rapporto di pregiudizialità tra le cause individuali e quella collettiva, considerata la omogeneità dei relativi oggetti. Ex art. 43 del
codice di rito civile spagnolo, domandavano al Tribunale di commercio la sospensione dei giudizi individuali, nelle more di quello collettivo. Sarebbe residuata, ai
ricorrenti, la mera chance di una partecipazione al procedimento collettivo. Il giudice spagnolo interroga
quindi la Corte di Giustizia: la norma domestica che
importi la sospensione obbligatoria di un giudizio attivato
dal consumatore - per censurare una clausola abusiva nell’attesa che si definisca la causa collettiva pregiudiziale
è compatibile con l’obbligo - in capo agli Stati membri - di
fornire ‘‘i mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori’’?
II. Le questioni
1. Tutela individuale e tutela collettiva, azioni individuali
ed azioni collettive.
Il ragionamento circa la compatibilità tra il diritto
processuale domestico e l’obbligo di spiegare gli idonei
mezzi per censurare le clausole abusive, è introdotto da
una diffusa disamina intorno al rapporto tra tutela individuale e tutela collettiva del consumatore. La Corte
ripercorre la propria giurisprudenza, sulla raison d’etre
della tutela tributata al consumatore: figura strutturalmente debole rispetto al professionista (in duplice considerazione del potere contrattuale del secondo sul primo, e della asimmetria informativa tra le due categorie:
v. CORTE GIUST. UE, 15.3.2012, C-453/10, Perenicová e Perenic, infra sez. III); occorre l’intervento di un
soggetto terzo per compensare il vantaggio del professionista sul consumatore: il giudice interno dovrà ac-
1158
certare, anche d’ufficio, l’eventuale natura abusiva delle clausole del regolamento negoziale (v., ad esempio,
CORTE GIUST. CE, 6.10.2009, C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones, infra, sez. III - la censura della clausola ha tuttavia natura dispositiva, il consumatore potrà rinunciarvi, secondo CORTE GIUST. UE,
21.2.2013, C-472/11, Banif Plus Bank, infra sez. III).
È in maniera del tutto diversa, agli occhi della Corte,
che le ‘‘persone o organizzazioni che hanno un legittimo interesse a tutelare i consumatori’’ si atteggiano nei
rapporti con i professionisti: il confronto tra associazioni di consumatori e professionisti non presenta squilibrio alcuno (CORTE GIUST. UE, 5.12.2013, C-413/12,
Asociación de Consumidores Independientes de Castilla y
León, infra, sez. IV: a confermarlo l’art. 4 § 1, dir. n. 22/
2009 CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
23 aprile 2009, relativa a provvedimenti inibitori a
tutela degli interessi dei consumatori, che radica la
competenza in capo al foro dello Stato del professionista resistente, e non dell’associazione ricorrente, in caso di controversie transfrontaliere all’interno dei confini dell’Unione). Le associazioni di consumatori che
convengano i professionisti mediante azione inibitoria
non si trovano in una condizione di svantaggio; non
necessitano di una tutela differenziale, come invece il
singolo consumatore: esse stesse stanno a difendere le
ragioni dei consumatori, manca uno squilibrio da bilanciare.
Simmetricamente, le azioni (individuali) di nullità e
le azioni (collettive) di inibitoria conseguono effetti e
perseguono obiettivi del tutto eterogenei. La Corte
aderisce alle considerazioni espresse dell’Avvocato generale (a sua volta riportava quanto suggerito dalla
Commissione, v. le Conclusioni generali, cit., punto
53): il rapporto tra azione individuale ed azione collettiva si atteggia a complementarietà, non a fungibilità, la seconda sussidiaria rispetto alla prima. L’azione
di nullità corrisponde allo strumento ordinario fornito
al consumatore per neutralizzare le clausole abusive.
L’azione inibitoria vale da complemento della tutela
offerta dall’azione individuale. L’esperimento di un’azione inibitoria non può condizionare l’esperimento di
una individuale, tantomeno sostituirvisi. A conclusioni pianamente sovrapponibili era già approdata la letteratura domestica: agire in nullità risponde all’esigenza di una tutela ‘‘successiva’’ (censurare la clausola
abusiva di un contratto già perfezionato), l’azione inibitoria persegue finalità preventive (l’Avvocato generale si esprimeva in termini identici), prescindendo da
una effettiva lesione di posizioni soggettive (BARTOLOMUCCI - PETRILLO - VACCARELLA, 656 e 662, infra,
sez. IV - in particolare, sul carattere schiettamente
preventivo dell’inibitoria, v. la bibliografia riportata
ivi, 662, n. 26; da ultimo, si v. anche IURILLI, 117
ss., sempre infra, sez. IV).
Eterogenee per obiettivi, natura ed effetti, tra l’azio-
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Sentenze commentate Parte prima
ne di nullità e l’azione inibitoria può correre esclusivamente una relazione improntata alla complementarità
(l’azione collettiva completa la tutela degli interessi dei
consumatori già spiegata dall’azione individuale), mai
alla fungibilità. Se l’Avvocato generale parla di un
generico legame, tra le due azioni, necessariamente
informato al favor verso il consumatore (v. il punto
35 delle Conclusioni), la Corte preferisce approfondire: il rapporto processuale tra nullità ed inibitoria rimane attestato su esigenze schiettamente processuali quale tipicamente la profilassi del contrasto tra giudicati -, che non possono interferire con la tutela del
consumatore (esigenza, questa, di natura non più processuale, ma già sostanziale). L’esigenza - processuale di scongiurare pronunce contraddittorie cede all’esigenza - sostanziale - di proteggere il consumatore dalle
clausole abusive, a mente dell’art. 7 § 1 dir. n. 13/93
CEE, che impone agli Stati membri di fornire ‘‘i mezzi
adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista
e dei consumatori’’. Tale obbligo, si osserva, non implica una armonizzazione delle misure con cui gli ordinamenti domestici sono chiamati a sanzionare l’inserzione di clausole abusive. Agli Stati membri rimane
una certa autonomia, circa la individuazione di tali
strumenti sanzionatori, nel solco del principio dell’autonomia processuale. Fatti salvi i princı̀pi di equivalenza e di effettività.
2. Principio di autonomia processuale, princı̀pi di
equivalenza e di effettività.
Si tratta di un motivo piuttosto ricorrente nella giurisprudenza della Corte. Ciascuno Stato gode di autonomia, nell’impostare la tutela delle situazioni giuridiche di vantaggio spettanti ai singoli in forza del diritto
UE; purché il tenore di tale protezione non si traduca
in una discriminazione, rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di matrice domestica. La Corte ne
approfitta per consolidare la propria giurisprudenza circa i rapporti tra principio di autonomia processuale,
principio di equivalenza, principio di effettività (v.
CORTE GIUST. CEE, 16.12.1976, C-188/76, ReweZentralfinanz e Rewe-Zentral, infra, sez. III: ‘‘in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, e‘ l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che [...]
stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese
a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza
delle norme comunitarie aventi efficacia diretta, modalità
che non possono, beninteso, essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale’’).
Sub specie, si tratta di capire se la sospensione del
procedimento individuale, nelle more del procedimento collettivo - scelta pianamente legittima, in astratto,
in forza del principio di autonomia processuale -, sia
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misura sfavorevole, rispetto al trattamento di cui beneficino analoghe posizioni di matrice domestica (in
violazione del principio di equivalenza); ovvero pregiudichi l’esercizio delle posizioni soggettive riconosciute ai consumatori dall’Unione (in violazione del
principio di effettività). L’ordinamento processuale
spagnolo supera la prova dell’equivalenza: non c’è discriminazione tra posizioni attribuite dal diritto interno
e posizioni attribuite dal diritto dell’Unione; la tutela
garantita è la medesima: l’art. 43 del codice di procedura spagnolo si applica alle controversie vertenti sul
diritto spagnolo al pari di quelle inerenti al diritto
dell’Unione.
A differenti esiti porta il test successivo. L’effettività
della norma processuale va misurata esaminando la
funzione della medesima norma in relazione al procedimento, alla luce dei princı̀pi sui quali si poggi il
sistema giurisdizionale nazionale (diritto di difesa e,
particolarmente qui, certezza del diritto e forza del giudicato: cosı̀ la consolidata giurisprudenza a partire da
CORTE GIUST., 14.12.1995, C-312/93, Peterbroeck,
infra, sez. III). L’interpretazione dell’articolo 43 della
Ley de enjuiciamiento civil, offerta dal giudice del rinvio
sulla scorta delle particolari circostanze del caso, obbliga alla sospensione del procedimento individuale; al
consumatore che non intervenga adesivamente al procedimento collettivo viene sottratta la possibilità di
ottenere tutela immediata in un procedimento individuale. Ricordata la eterogeneità tra azione individuale
ed azione collettiva (diverse complementari ed indipendenti, nelle parole dell’Avvocato generale, cui la
Corte mostra di aderire - cfr. le Conclusioni, al punto
68), la Corte ravvisa una interferenza intollerabile all’applicazione del diritto dell’Unione. Due le criticità
più cospicue: il consumatore rimane vincolato al giudizio collettivo, pur non avendovi preso parte; e senza
che il giudice del procedimento collettivo possa esaminare le circostanze del suo caso. Ancora, secondo
l’interpretazione del giudice del rinvio, questi sarà comunque tenuto a sospendere il procedimento individuale, senza poter apprezzare l’opportunità della medesima sospensione (i.e., sospensiva obbligatoria e non
discrezionale). Vieppiù che, anche quando il consumatore decidesse di associarsi al procedimento collettivo,
affronterebbe eccessivi oneri: su tutti, la competenza
territoriale attirata da un foro potenzialmente diverso
da quello del proprio domicilio e la piatta adesione alle
modalità in cui la associazione di consumatori abbia
condotto la causa, senza la possibilità di introdurre
altre domande; un mero intervento nel processo collettivo non regge il paragone con l’esercizio di un’azione individuale. Agli occhi della Corte la necessità processuale - di evitare il contrasto tra giudicati non
può giustificare un simile deficit - sostanziale - di effettività, anche considerando la eterogeneità tra causa
collettiva e causa individuale. Si rimette in dubbio,
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Parte prima Sentenze commentate
fondamentalmente, la stessa uniformità dei controlli
propri dei procedimenti collettivi ed individuali: un
sindacato generale ed astratto di una clausola abusiva,
nel procedimento collettivo, un sindacato concreto in
quello individuale; il giudice del secondo procedimento non dovrebbe essere direttamente influenzato dall’esito del primo - cosı̀ anche l’Avvocato generale, ai
punti 55 e 72 (l’osservazione era del Governo spagnolo, v. il punto 35).
È in questo senso che la sospensione obbligatoria del
ricorso individuale del consumatore - avente ad oggetto l’impugnazione di una clausola abusiva in un contratto B2C -, nelle more di quello collettivo - avente
ad oggetto la inibitoria dell’inserzione di clausole abusive nei contratti B2C -, con esclusione della possibilità, per il consumatore stesso, di dissociarvisi, mina
l’effettività della tutela approntata ai consumatori dall’ordinamento spagnolo; e si produce in una violazione
dell’art. 7 § 1 dir. n. 13/93 CEE. In positivo (cosı̀
preferiva esprimersi l’Avvocato generale nelle proprie
conclusioni: v. punto 74), la sospensione del procedimento individuale a fronte della definizione di quello
collettivo non pregiudica il diritto dell’Unione, in
quanto il giudice non vi sia automaticamente obbligato (i.e., in quanto non ne possa considerare l’opportunità, in base alle circostanze del caso concreto) e nella
misura in cui il consumatore sia libero di dissociarvisi.
La Corte mostra di apprezzare il confronto tra le diverse interpretazioni sviluppatesi sub art. 43 del codice di
rito: la sospensione contesa tra una concezione vincolante ed una facoltativa. Secondo la prima interpretazione (fatta propria dal giudice del rinvio) la stessa
sospensiva del procedimento individuale è effetto necessario dell’art. 43 del codice di rito. Al contrario,
secondo uno dei due ricorrenti (il sig. Sales Sinués),
la Commissione ed il Governo spagnolo si tratta di un
effetto facoltativo, attivabile ope iudicis a seconda delle
circostanze (v. le conclusioni generali dell’Avvocato
generale, punto 60). La dottrina della sospensione
automatica ed obbligatoria non è mai compatibile
con l’art. 7 § 1 dir. n. 13/93 CEE. La dottrina della
sospensione facoltativa potrà esserlo, quando al consumatore sia consentito di dissociarsi dall’azione collettiva pregiudiziale.
3. Rapporti tra azione collettiva ed azione individuale nel
rito italiano.
Se il legislatore italiano individua in un’unica disposizione, sub art. 36 cod. cons., il rimedio individuale
della nullità della clausola vessatoria, dedica un quadro
più articolato al rimedio collettivo dell’inibitoria. È
agli artt. 37 e 140 cod. cons., essenzialmente, che bisogna fare riferimento. La prima disposizione riguarda
in via esclusiva le clausole vessatorie La seconda disposizione reca invece una disciplina cornice del rime-
1160
dio inibitorio collettivo, attivabile a fronte di qualsivoglia violazione di un interesse collettivo dei consumatori tutelato dal codice (la si è chiamata ‘‘inibitoria
generalista’’, MINERVINI, 636, e 115 ss., infra, sez. IV):
le due prescrizioni si trovano in relazione di specialità
(ibidem). Volendo rintracciare la disciplina processuale, è all’art. 140 che va fatto riferimento; per quanto
qui interessa, i rapporti tra azione individuale ed azione
collettiva sono governati dal nono comma. Essenzialmente, la norma si limita ad un rinvio alle norme del
codice di rito: agli istituti di litispendenza, continenza
e connessione dei procedimenti. Nel caso di specie,
sembrerebbe trattarsi di continenza - rectius, pregiudizialità meramente logica; per una definizione di pregiudizialità, MANDRIOLI - CARRATTA, 344, infra, sez. IV.
Per una meditata ricostruzione dei rapporti processuali
tra i due giudizi, rimando a DONZELLI, 794 ss., infra,
sez. IV (si dibatte sull’attitudine della causa collettiva
inibitoria a spiegare effetti sul procedimento individuale in materia di nullità - in dottrina si è lamentato
proprio il silenzio della disposizione, a proposito dell’efficacia intersoggettiva del giudicato collettivo sul
processo individuale: MINERVINI, 659).
Effettivamente, occorre ricordare come né il Governo spagnolo né la Commissione ravvisassero, tra i ricorsi individuali di Sales Sinués e Drame Ba, e quello
collettivo dell’associazione Adicae, un vero rapporto di
pregiudizialità (sul solco di una giurisprudenza spagnola
- è contesa l’interpretazione dello stesso art. 43 della ley
de enjuciamiento -, v. le Conclusioni dell’Avvocato generale, ai punti 36 e s.). Il Governo spagnolo, in particolare, argomentava la differenza tra gli oggetti delle
due cause, a partire dalla - sintomatica - differenza tra
gli scrutini suscitati dai ricorsi: generale ed astratto, il
controllo inerente all’azione collettiva; esclusivamente
basato su circostanze concrete, il controllo relativo
all’azione individuale. Tra siffatti giudizi, del tutto indipendenti l’uno dall’altro, non potrebbe correre reale
pregiudizialità. Al più, sussisterebbe una pregiudizialità
meramente ipotetica, tale da escludere una necessaria
incidenza della domanda inibitoria su quella di nullità:
tale da escludere, cioè, un obbligo, in capo al giudice,
di sospendere la causa individuale (coerentemente con
la ventilata natura facoltativa della sospensione ex art.
43).
La Corte non prende posizione (né potrebbe farlo),
circa i rapporti processuali tra azione collettiva ed azione individuale nel diritto interno: si limita a censurare
l’interpretazione che obblighi il giudice a sospendere in forza della pregiudizialità - l’azione individuale, nelle
more del procedimento collettivo. Delle due l’una: se
manca tout court la pregiudizialità tra le due questioni,
nulla quaestio, i due procedimenti correranno indipendenti senza bisogno che l’uno ceda il passo all’altro.
Viceversa, se sussiste connessione, la sospensione del
procedimento individuale deve essere facoltativa e mai
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necessaria (il giudice deve poter apprezzare le circostanze del caso concreto). Il consumatore ricorrente,
dal canto suo, deve poter dissociarvisi.
III. I precedenti
1. Tutela individuale e tutela collettiva, azioni individuali
ed azioni collettive.
Per una panoramica sul rapporto tra consumatore e
professionista, equilibrio formale e disequilibrio v.
CORTE GIUST. CE, 27.6.2000, cause riunite da C240/98 a C-244/98, Océano Grupo Editorial SA, punto 27, in Eur. e dir. priv., 2000, IV, 1173 ss., con nota
adesiva di ORESTANO; CORTE GIUST. CE,
26.10.2006, C-168/05, Mostaza Claro, in Riv. dir.
proc., 2007, IV, 1086 ss., con nota adesiva di RICCI,
punto 26; CORTE GIUST. CE, 6.10.2009, C-40/08,
Asturcom Telecomunicaciones, punto 31, ibidem, III,
670 ss., con nota adesiva di RAITI; CORTE GIUST. UE,
15.3.2012, Perenicová e Perenic; CORTE GIUST. UE,
14.6.2012, C-618/10, Banco Español de Crédito, in I
contratti, 2013, I, 16 ss., con nota critica di D’ADDA,
punto 41; CORTE GIUST. UE, 26.4.2012, C-472/10,
Nemzeti Fogyasztovedelmi Hatosag c. Invitel Tavkozlesi Zrt, in Foro it., 2013, IV, 170 ss., punto 34. A
proposito della parità di armi tra associazioni di consumatori e professionisti, CORTE GIUST. UE, 5.12.2013,
C-413/12, Asociación de Consumidores Independientes de
Castilla y León, punto 50. Sulla azione collettiva inibitoria quale ‘‘mezz[o] adeguat[o] ed efficac[e] per far cessare
l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un
professionista e dei consumatori’’, v. sempre CORTE
GIUST. CE, 27.6.2000, cit., punto 27; CORTE GIUST.
CE, 24.1.2002, C-372/99, punto 15, Commissione c.
Italia; CORTE GIUST. UE, 26.4.2012, C-472/10, cit.,
punti 35 s.
2. Principio di autonomia processuale, princı̀pi di
equivalenza e di effettività.
Sulla dialettica tra principio di autonomia processuale, principio di equivalenza, principio di effettività,
rimando a CORTE GIUST. CEE, 16.12.1976, C-188/
76, Rewe-Zentralfinanz e Rewe-Zentral, punto 5; CORTE GIUST. CE, 14.12.1995, C-312/93, punto 12; CORTE GIUST. CE, 7.1.2004, causa C-201/02, Wells, punto 67; CORTE GIUST. CE, 19.9.2006, cause riunite C392/04 e C-422/04, Germany e Arcor, punto 57; CORTE GIUST. CE, 15.4.2008, C-268/06, Impact, punti 4446; CORTE GIUST. UE, 30.6.2011, C-262/09, Wienand Meilicke, punto 55; CORTE GIUST. UE,
18.10.2012, C-603/10, Pelati d.o.o., punto 23; CORTE
GIUST. UE, 21.2.2013, C-472/11, Banif Plus Bank;
CORTE GIUST. UE, 14.3.2013, C-415/11, Mohamed
Aziz, punto 50; CORTE GIUST. UE, 5.12.2013, C-413/
12, Asociacion de Consumidores Independientes de
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Castilla y Leon, punto 30; CORTE GIUST. UE,
30.4.2014, C-280/13, Barclays Bank, punto 37; CORTE
GIUST. UE, 19.6.2014, cause riunite da C-501/12 a C506/12, C-540/12 e C-541/12, Tomas Specht, punto
112; CORTE GIUST. UE, 6.10.2015, C-61/14, Orizzonte Salute - Studio Infermieristico Associato, punto 46;
CORTE GIUST. UE, 15.10.2015, C-310/14, Nike European Operations Netherlands BV, punto 28; CORTE
GIUST. UE, 29.10.2015, C-8/14, BBVA SA, già Unnim Banc SA, punto 24; CORTE GIUST. UE,
18.2.2016, C-49/14, Finanmadrid EFC SA, punto 40;
CORTE GIUST. UE, 16.4.2016, C-495/14, Antonio
Tita, punto 35; si v. anche le Conclusioni dell’avv.
generale H. SAUGMANDSGAARD ØE, in C-119/15,
Biuro podróży «Partner» Sp. z o.o, punto 41, n. 26.
Circa i parametri che governano l’esame dell’effettività, CORTE GIUST., 14.12.1995, C-312/93, Peterbroeck, punto 14; CORTE GIUST. UE, 6.10.2009, C40/08, Asturcom Telecomunicaciones, punto 39, cit.;
CORTE GIUST. UE, 5.12.2013, C-413/12, cit., punto
34; CORTE GIUST. UE, 3.4.2014, C-470/12, Pohotovost’, punto 51; CORTE GIUST. UE, 17.7.2014, C-169/
14, Sánchez Morcillo e Abril Garcı́a, punto 34; CORTE
GIUST. UE, 29.10.2015, C-8/14, BBVA, punto 26.
Tutti i provvedimenti della Corte giust. UE citt. si
trovano nel sito istituzionale: http://curia.europa.eu.
3. Rapporti tra azione collettiva ed azione individuale nel
rito italiano.
Non sono pervenuti precedenti interni che abbiano
statuito circa la relazione tra nullità individuale ed
inibitoria collettiva. Una recente ordinanza della Supr.
Corte (CASS., ord. 19.2.2016, n. 3323, in DeJure) dà
atto dei rilievi mossi in letteratura, circa gli ampi margini di miglioramento che ancora presenta l’assetto sub
artt. 140IX e 140 bis (a proposito dell’azione collettiva
risarcitoria).
IV. La dottrina
1. Tutela individuale e tutela collettiva, azioni individuali
ed azioni collettive.
Sul rapporto tra azione di nullità ed azione inibitoria,
in tema di diritto dei consumatori, nel senso di un’azione (i.e. tutela) collettiva ancillare verso un’azione
(i.e. tutela) individuale, rimando alle considerazioni
svolte da BARTOLOMUCCI - PETRILLO - VACCARELLA, I rimedi e la risoluzione stragiudiziale delle controversie,
ne I diritti dei consumatori, a cura di ALPA, nel Trattato
di diritto privato dell’Unione Europea, diretto da AJANI e
BENACCHIO, Giappichelli, 2009, III, 2, 656; PALMIERI, La tutela collettiva dei consumatori, Giappichelli,
2011, 25 ss. Per un ultimo contributo, in ordine di
tempo, rinvio allo studio di IURILLI, Interessi superindividuali e danno collettivo, Giuffrè, 2016, 117 ss. A pro-
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posito della tutela collettiva del consumatore predisposta dall’ordinamento spagnolo, il rimando è a BUSTO
LAGO, nel Comentario del texto refundido de la ley general para la defensa de los consumidores y usuarios y otras
leyes complementarias, a cura di BERCOVITZ RODRÍGUEZ-CANO, Aranzadi, 2015, sub art. 53 del Código
de Consumo, 640 ss.; cfr. altresı̀, ARIZA COLMENAREJO, La acción de cesación como medio para la protección de
consumidores y usuarios, Aranzadi, 2012. Esaminano la
relazione tra la tutela collettiva e la figura del consumatore CAPONE, Tutela collettiva: interessi protetti e modelli processuali, in Dall’azione inibitoria all’azione risarcitoria collettiva, a cura di BELLELLI, Cedam, 2012, 137
ss.; MINERVINI, Dei contratti del consumatore in generale,
Giappichelli, 2014, 113 ss. Più in generale, sulla rielaborazione giurisprudenziale delle tutele del consumatore, v. PAGLIANTINI, La tutela del consumatore nell’interpretazione delle Corti, Giappichelli, 2012, 3 ss.
2. Principio di autonomia processuale, princı̀pi di
equivalenza e di effettività.
Il principio di autonomia processuale ha origini pretorie. Lo elabora la giurisprudenza della Corte di Giustizia, ricavandone i confini ‘‘in negativo’’ (il concetto
è di TIZZANO, La tutela dei privati nei confronti degli Stati
membri dell’Unione europea, in Foro it., 1995, IV, 27),
dal rapporto con i princı̀pi di equivalenza e di effettività. Appare del tutto pertinente, in questo senso, l’analisi di chi accosta principio di autonomia processuale
e principio di attribuzione; l’assenza di armonizzazione
degli strumenti processuali risale al deficit di attribuzione comunitaria in materia: ‘‘non era il caso di cedere
a tentazioni di protagonismo in un settore «sensibile»
come quello della «giustizia», di gelosa prerogativa statuale, che gli autori del trattato avevano riservato all’autonomia dei legislatori nazionali’’, TROCKER, La
carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed il
processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, IV,
1189. Storicamente, i rinvii pregiudiziali avanzati dai
giudici amministrativi hanno dato grande impulso al
consolidamento dell’istituto: la primauté del diritto comunitario consentiva una disapplicazione diretta dei
provvedimenti amministrativi lesivi del diritto comunitario, ma non più impugnabili? O piuttosto prevaleva l’autonomia processuale degli Stati membri, la sorte
dei provvedimenti amministrativi ‘‘anticomunitari’’
consegnata alle regole processuali statali? La Corte di
Giustizia ha avuto occasione di ribadire i confini del
principio: per un’agile disamina circa i rapporti tra
giustizia amministrativa e principio di autonomia processuale, FRACCASTORO, Autotutela, processo e diritto
comunitario, in Corr. merito, 2013, III, 239 s.; GUELLA,
La collocazione della funzione giurisdizionale nazionale nel
quadro istituzionale europeo. Il giudice tra autonomia procedurale degli Stati membri e regime del giudicato interno in
1162
contrasto con il diritto dell’Unione, in Magistratura, giurisdizione ed equilibri istituzionali: dinamiche e confronti
europei e comparati, a cura di TONIATTI e MAGRASSI,
Cedam, 2011, 463 e la bibliografia indicata ivi, alla
nota 5.
3. Rapporti tra azione collettiva ed azione individuale nel
rito italiano.
Per uno sguardo sulla tutela collettiva predisposta dal
codice del consumo, rimando a MINERVINI, Contratti dei
consumatori e tutela collettiva nel codice del consumo, in
Contr. e impr., 2006, 635 ss. (l’a. descrive come ‘‘bipolare’’ l’assetto consegnato dagli artt. 37 e 140 del cod.
cons., v. ivi, 636; più di recente, ribadisce l’assunto: ID.,
Dei contratti, cit., 115 ss.); BARENGHI, nel Codice del
consumo, a cura di V. CUFFARO, Giuffrè, 2012, sub
art. 37, 282 ss.; ARMONE, ibidem, sub art. 140, 726 e
ss.; VULLO, nel Commentario breve al diritto dei consumatori, a cura di DE CRISTOFARO e ZACCARIA, Cedam,
2013, sub artt. 37 e 140, 418 ss. e 939 ss.; DE SANTIS, La
tutela giurisdizionale collettiva, Jovene, 2013, 482 ss. Accedendo ad un versante più schiettamente processualistico, la letteratura rappresenta la continenza tra cause
come una peculiare ipotesi di connessione oggettiva
(comunanza di oggetto o titolo tra le domande, fattispecie positive sub artt. 31-36 del codice di rito): peculiare,
per il legame di subordinazione di una causa verso l’altra, nel segno della pregiudizialità; per cui, l’esistenza di
un determinato rapporto (la violazione del divieto di
inserzione di clausole abusive) è pregiudiziale all’esistenza di una determinata posizione (la pretesa verso l’accertamento della nullità della clausola abusiva). Una
domanda si inserisce nell’iter logico di un’altra questione: non si può decidere la seconda senza affrontare la
prima. Rinvio a MANDRIOLI - CARRATTA, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali,
Giappichelli, 2016, I, 344, ed alla bibliografia ivi, in
nota 210. Suscita dibattito l’attitudine del giudizio inibitorio ad influenzare il giudizio sulla clausola abusiva.
Una dottrina la esclude, argomentando, al di là della
relatività del giudicato, a partire dal deficit di connessione oggettiva tra causa individuale e causa collettiva
(divergenti i profili oggettivi dei themata decidenda: divieto di inserzione di clausole abusive, contro la nullità
delle stesse). Ad adiuvandum, si atteggerebbero del tutto
eterogenei gli scrutinii sottesi ai due procedimenti: calato in una prospettiva generale, il sindacato del giudice
nel processo collettivo; ancorato ad una specifica vicenda contrattuale, il sindacato nel processo individuale.
Altra dottrina considera invece l’accertata abusività della clausola nel procedimento collettivo idonea ad influenzare l’accertamento dell’abusività nel procedimento individuale: per una esaustiva panoramica del dibattito, rinvio allo studio di DONZELLI, La tutela individuale
degli interessi collettivi, Jovene, 2008, 794 ss.
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Sentenze commentate Parte prima
n Contratti del consumatore
CASS. CIV., IV sez., ord. 10.2.2016, n. 2687 – FINOCCHIARO Presidente – SCARANO Estensore – CAPASSO
P.M. (concl. conf.). – Calistri (avv. Manenti) – Consorzio per la tutela del credito (avv. Di Rago) – Crif Spa (avv.
Imperiali)
CONTRATTI DEL CONSUMATORE – CONTROVERSIA IN MATERIA DI PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI – COMPETENZA TERRITORIALE – FORO DEL CONSUMATORE – APPLICABILITÀ (d. legis. 30.6.2003, n. 196, art. 152; d.
legis. 6.9.2005, n. 206, art. 33)
In tema di competenza territoriale, quando la tutela dei dati personali venga invocata nei confronti del titolare
del trattamento nell’ambito di un rapporto di consumo, prevale il foro del consumatore.
dal testo:
Il fatto. Il sig. Massimiliano Callisti propone istanza di
regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c., sulla base di
unico motivo illustrato da memoria, avverso l’ordinanza
Trib. Pistoia 20/11/2014 declinatoria della propria competenza territoriale, in favore di quella ‘‘dei tribunali nel cui
territorio hanno sede le singole parti convenute ex art. 152
d.lgs. 196/2003’’, in relazione a domanda dal medesimo proposta ex art. 702 bis c.p.c. nei confronti della società Consel
s.p.a., del Consorzio per la tutela del Credito, della società
C.R.I.F. s.p.a. e della società Experian Cerved Information
Services s.p.a. di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza dell’asseritamente ‘‘illecito trattamento dei propri
dati, inerenti al mancato pagamento di alcune rate del contratto di finanziamento n. 1149750 stipulato con la Consel
s.p.a. omettendo di procedere alle cancellazioni prescritte
dall’art. 8 bis d.l. n. 70/2011’’.
Declinatoria motivata argomentando dai rilievi che: ‘‘a) il
contratto di finanziamento concluso dal C. con la Consel
s.p.a. e richiamato nel ricorso introduttivo risulta essere
stato espressamente concluso dal primo nella qualità di professionista..., né dal tenore della scrittura negoziale in atti è
desumibile che l’attore lo avesse stipulato per scopi assolutamente estranei all’attività professionale...; b) l’attore non
ha azionato alcuna pretesa con specifico riguardo al contratto di finanziamento intercorso con la Consel s.p.a.’’ sicché
‘‘non ricorre connessione alcuna tra le dedotte violazioni in
tema di trattamento dei dati personali e l’adempimento delle obbligazioni scaturenti dal contratto di finanziamento
personale e l’adempimento delle obbligazioni scaturenti
dal contratto di finanziamento’’, con la conseguenza ‘‘che
non sussistono le ragioni per ritenere sussistente e, dunque,
prevalente, il c.d. foro del consumatore’’.
Resistono con separate memorie difensive il Consorzio per
la tutela del Credito e la società C.R.I.F. s.p.a.
Con requisitoria scritta del 7/7/2015 il P.G. presso la Corte
Suprema di Cassazione ha chiesto l’accoglimento dell’istanza
di regolamento di competenza, con conseguentemente declaratoria della competenza del Tribunale di Pistoia.
I motivi. Con unico complesso motivo l’istante denunzia
‘‘violazione e falsa applicazione degli artt. 38 c.p.c., 33 comma 2 lett. u), d.lgs. n. 206 del 2005, in riferimento all’art.
360, 1º co. n. 3, c.p.c.; nonché vizio di motivazione e travisamento dei fatti, in riferimento all’art. 360, 1º co. n. 5,
c.p.c.
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Si duole che la declaratoria d’incompetenza di cui all’impugnato provvedimento sia stata dal giudice ‘‘tardivamente
dichiarata d’ufficio’’, in quanto non emessa alla 1^ udienza,
con conseguente radicamento della competenza in capo al
giudice adito.
Lamenta che il giudice abbia erroneamente ritenuto trattarsi nella specie di contratto di mutuo stipulato in qualità di
professionista, e non già di consumatore, con conseguente
erronea esclusione dell’operatività del foro del consumatore.
Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito
indicati.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in
tema di competenza territoriale, quando la tutela contro il
trattamento dei dati personali nei confronti del titolare del
trattamento venga invocata nell’ambito di un rapporto di
consumo, come tale soggetto all’art. 33, lettera u), d.lgs. n.
206 del 2005, il foro previsto da tale norma prevale su quello
individuato dall’art. 152 d.lgs. n. 196 del 2003, in quanto la
sopravvenienza della prima disposizione ha derogato alla
seconda con riguardo alle controversie sul trattamento dei
dati personali, la cui titolarità origini da rapporti di consumo
(v. Cass., 14/10/2009, n. 21814; e, conformemente da ultimo, Cass., 9/10/2015, n. 20304).
Si è al riguardo altresı̀ precisato che quando il foro previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 150 del 2011, in materia di trattamento dei dati personali nei confronti del titolare del trattamento, venga invocato nell’ambito di un rapporto di consumo, come tale soggetto al foro speciale della residenza o
del domicilio del consumatore ex art. 33, lettera u), d.lgs. n.
206 del 2005, quest’ultimo prevale, in quanto stabilisce una
competenza esclusiva, alla luce delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto
del consumatore, sicché la competenza del tribunale del
luogo in cui ha la residenza il titolare del trattamento dei
dati, sancita dall’art. 10, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011,
cede di fronte a quella del foro del consumatore, la cui
specialità continua a prevalere sulla specialità della disposizione testé menzionata, la quale ha invero carattere meramente ricognitivo della disciplina già racchiusa nell’art. 152
d.lgs. n. 196 del 2003 (v. Cass., 12/3/2014, n. 5705).
Gli argomenti addotti dalle odierne resistenti, e in particolare dal Consorzio, si appalesano invero inidonei ad indurre a riconsiderare il maturato indirizzo ermeneutico, sostanzialmente riproponendo argomenti da questa Corte già
vagliati e disattesi per addivenire in particolare all’arresto
del 2009.
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Orbene, rilevata anzitutto la tempestività dell’impugnato
provvedimento, che alla stregua degli atti risulta emesso nei
limiti temporali ex art. 38 c.p.c., va per altro verso osservato
che diversamente da quanto ivi affermato dal giudice del
merito, dalla disamina degli stessi non è dato evincere che il
contratto di mutuo de quo sia stato dall’odierno ricorrente
stipulato non già nella veste di consumatore bensı̀ di professionista, stante il tenore letterale del medesimo e avuto in
particolare riguardo alla circostanza che il contratto risulta
intestato alla persona presso la sua abitazione di via (...)
(come confermato dalla circostanza che il carteggio intervenuto tra le parti in relazione alla vicenda de qua è stato ivi
indirizzato dalla stessa controparte società Consel s.p.a., e
non già presso l’indirizzo dello Studio di consulenza del
medesimo in via (...), l’indicazione ‘professionista’ risultando meramente formulata, a meri fini enunciativi, nel riquadro dedicato alla ‘‘Qualifica/Professione attuale’’ dal mede-
simo svolta), non recando nemmeno la partita I.V.A. o altre
indicazioni fiscali relative all’esplicazione di attività professionale o imprenditoriale.
Deve porsi ulteriormente in rilievo che le convenute all’epoca eccipienti - e in particolare le odierne resistenti non hanno d’altro canto al riguardo assolto all’onere su di
esse gravanti di provare che al contratto non si applichi il
foro del consumatore (cfr. con riferimento a differenti ipotesi, Cass., 20/3/2010, n. 6802; Cass., 20/8/2010, n. 18785;
Cass., 26/9/2008, n. 24262), la cui inapplicabilità non può
nemmeno essere dichiarata d’ufficio dal giudice a svantaggio
del consumatore (cfr. Cass., 3/4/2013, n. 8167; Cass., 16/04/
2012, n. 5974).
Va pertanto dichiarata la competenza nel caso del Tribunale di Pistoia, quale giudice del foro del consumatore.
Spese rimesse. (Omissis)
«Considerazioni a margine di un’ordinanza in tema di foro del consumatore»
di Angelo Barba
L’ordinanza in esame conferma la prevalenza del foro del consumatore su quello del titolare del trattamento dei dati personali. La motivazione offre anche la possibilità, movendo da due decisioni dell’Arbitro
Bancario e Finanziario, di una breve riflessione a margine circa il problema del professionista c.d. ‘‘di
rimbalzo’’.
I. Il caso
L’ordinanza in esame affronta, ancora una volta, la
questione processuale sollevata dal conflitto tra norme di
settore che individuano competenze esclusive. Da un lato,
l’art. 152 d. legis. n. 196/2003 all’art. 152, comma 2º,
che rinvia all’art. 10 d. legis. n. 150/2011, prevede la
competenza del Tribunale del luogo in cui ha la residenza il titolare del trattamento dei dati; dall’altro, la
lettera u) dell’art. 33 cod. cons. prevede, ancorché in
maniera implicita, la competenza territoriale del giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il
domicilio elettivo.
Nel caso in esame l’istanza di regolamento di competenza veniva proposta all’interno di un giudizio originato da un contratto di finanziamento, in relazione al
trattamento dei dati personali del debitore che non
aveva pagato alcune delle rate.
La qualificazione del finanziamento come rapporto di
consumo induce la Corte a confermare il più che consolidato orientamento per cui prevale il foro del consumatore su quello del titolare del trattamento.
II. Le questioni
1. Criterio temporale e criterio assiologico.
La prevalenza del foro del consumatore su quello del
titolare del trattamento dei dati costituisce principio
1164
ormai consolidato nella giurisprudenza che, tuttavia,
viene motivato in maniera differente.
L’ordinanza in esame preferisce evitare una scelta
argomentativa precisa, limitandosi a ribadire, da un
lato, la prevalenza del foro del consumatore ‘‘alla luce
delle esigenze di tutela’’ del consumatore ed in considerazione, dall’altro, del ‘‘carattere meramente ricognitivo’’
della disposizione contenuta nell’art. 10 d. legis. n.
150/2011.
In sostanza il giudice dimostra di percepire il senso ed
il valore della differenza tra le motivazioni dei precedenti in termini, ma sceglie di mettere insieme i profili
caratterizzanti le due differenti argomentazioni.
Invero con l’ord. 14.10.2009, n. 21814 (infra, sez.
III) la prevalenza del foro del consumatore su quello
del titolare del trattamento veniva argomentato in base al criterio della successione delle leggi nel tempo: la
specialità prevalente era individuata in base ad un
criterio temporale.
In tale direzione assume rilievo assai significativo,
nell’ordinanza in esame, il carattere solo ricognitivo,
non innovativo, dell’art. 10 d. legis. n. 150/2011. È
proprio tale carattere ricognitivo che consente, in base
all’argomentazione temporale, di riaffermare la prevalenza del foro del consumatore.
La strategia argomentativa accolta dall’ord.
12.3.2014, n. 5705, infra, sez. III, invece, risolve il
conflitto tra norme speciali, rispetto alla disciplina ge-
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Sentenze commentate Parte prima
nerale contenuta nel codice di procedura civile, utilizzando un criterio assiologico formalizzato mediante il
richiamo ad ‘‘una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni’’.
È l’esigenza di assicurare effettività alla tutela a giustificare la prevalenza della regola processuale che implica il costo minore per il consumatore.
L’alternativa tra criterio temporale ed assiologico
nella soluzione del conflitto tra norme speciali sembra
rivelare un profilo giuridico e culturale ben più esteso e
profondo, che in questa sede può solo essere menzionato.
Si tratta in realtà di riconoscere, mediante l’interpretazione orientata ai valori costituzionali, che il criterio
cronologico non può essere utilizzato per risolvere antinomie tra norme speciali. Il dato formale, ossia l’equipollenza tra le fonti, non resiste alla necessità, imposta
proprio dalla specialità della disciplina, di un bilanciamento tra le ragioni che giustificano le due differenti
deroghe alla regola generale.
2. Foro esclusivo e qualificazione delle parti del contratto.
Il presupposto sostanziale della questione processuale
è costituito dall’art. 33, lett. u) cod. cons. Si tratta
della regola per cui la clausola contrattuale che deroga
alla competenza esclusiva del giudice del foro del consumatore è valida solo se non vessatoria (art. 34 cod.
cons.).
Si tratta di una norma che era già contenuta nell’art.
1469 bis, comma 3º, n.19, e che le Sezioni unite della
Cassazione, con un’ordinanza del 2003, avevano interpretato nel senso dell’istituzione di una competenza
territoriale esclusiva del giudice del luogo di residenza
o domicilio elettivo del consumatore (CASS., sez. un.,
ord. 1º.10.2003, n. 14669, infra, sez. III).
La qualificazione processuale della norma implicava,
tra l’altro, il corollario per cui essa si applica alle cause
iniziate successivamente all’entrata in vigore, ancorché
derivanti da contratti stipulati in epoca anteriore.
È questo, a bene vedere, il principio di diritto che
viene affermato in maniera costante dalla giurisprudenza in termini della Cassazione e che trova, ancorché in modo indiretto e solo implicito, occasione di
conferma nell’art. 66 bis cod. cons. Infatti, l’inderogabilità della competenza territoriale esclusiva, prevista
da quest’ultima norma, si giustifica in considerazione
del carattere precontrattuale delle informazioni.
Il riferimento all’art. 33 cod. cons. introduce il delicato profilo della prova della trattativa individuale come requisito di validità della clausola che deroga alla
competenza territoriale esclusiva.
A riguardo la giurisprudenza è consolidata nel senso
che al consumatore che eccepisca l’incompetenza territoriale incombe l’onere di allegare che trattasi di
controversia concernente un contratto cui si applica
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la disciplina di tutela del consumatore; mentre è il
professionista che deve raggiungere la prova della trattativa individuale, se vuole avvalersi della clausola di
deroga.
Occorre tuttavia chiarire che il problema della prova
della trattativa individuale ai fini della validità della
clausola di deroga già implica l’applicazione della disciplina del consumatore. Si tratta dell’applicazione
dell’art. 34 cod. cons., che presuppone risolto in senso
affermativo la questione se sia o meno applicabile al
caso in esame la disciplina del consumatore. Ossia se il
caso rientri o meno nell’ambito soggettivo di applicazione della regola.
Vuol dirsi che l’interrogativo circa l’applicabilità o
meno del foro del consumatore, e dunque della validità
della clausola di deroga, presuppone, e non deve essere
sovrapposta, con la diversa e antecedente questione
relativa alla qualificazione delle parti del rapporto come consumatore e come professionista.
A tal riguardo l’ordinanza in esame offre un modello
argomentativo molto efficace sotto il profilo della chiarezza nella successione logica delle qualificazioni normative.
La questione della vessatorietà viene affrontata dopo
la qualificazione del contratto di finanziamento, quello
da cui traeva origine il caso deciso, come contratto
concluso tra un consumatore ed un professionista.
Anche a tal riguardo è sul professionista che grava
l’onere di dimostrare che la controparte non ha agito
nella qualità di consumatore. Si tratta, a bene vedere,
di una presunzione relativa di scopo di consumo che
trova giustificazione nella medesima esigenza di effettività della tutela ricordata in precedenza.
Nel caso in esame, proprio perché i resistenti, eccipienti nel giudizio di merito, non hanno raggiunto la
prova che il contratto di finanziamento fosse stato
concluso per fini che rientravano nell’attività professionale svolta dal finanziato, è possibile porre il problema relativo alla prova della trattativa individuale in
applicazione dell’art. 34 cod. cons.
Si tratta, in sostanza, del valore tecnico da riconoscere ad una definizione normativa, quella di consumatore, che è costruita solo sulla negazione della finalità imprenditoriale dell’azione svolta dalla persona fisica. In particolare, la finalità di consumo dell’azione
non costituisce un elemento della fattispecie che delimita l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina, è invece la sua negazione (scopi estranei), se provata dal professionista, che esclude l’applicabilità della
disciplina.
Un profilo di particolare rilevanza pratica, quest’ultimo, che l’osservatore può rintracciare anche in giurisprudenza, se prende in considerazione l’affermazione
per cui ‘‘le ragioni di fondo della protezione’’ accordata al
consumatore sono da individuare ‘‘in una presunzione di
inesperienza, scarsa informazione e soprattutto debolezza
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contrattuale’’ nei confronti del professionista (contenuta in CASS., 12.3.2014, n. 5705, cit.).
Nel giudizio di cassazione, il principio di autosufficienza del ricorso rende forse meno visibile l’aspetto
che è stato adesso richiamato. Tuttavia le indicazioni
utilizzate dal giudice di legittimità nell’ordinanza in
esame, e cioè, da un lato, l’indicazione dell’abitazione
privata del contraente, e dall’altro, l’assenza di indicazioni fiscali, costituiscono elementi di fatto dedotti dal
ricorrente (consumatore), che nel giudizio di merito
resisteva ad un’eccezione sollevata dalla controparte
(professionista).
3. Breve riflessione a margine: il fideiussore come
consumatore.
Il riferimento alla definizione di consumatore e quindi all’ambito di applicazione soggettiva della disciplina
di protezione, autorizza una breve riflessione a margine
dell’ordinanza in esame.
Si tratta, in particolare, di sottolineare come tale
definizione, in maniera del tutto coerente all’approccio
situazionale delle tutele, non ritrovi nella destinazione
dei beni e dei servizi alla persona del consumatore una
necessaria connotazione legale. In altri termini, la definizione di consumatore non autorizza l’interprete a
riconoscere nella corrispettività tra le prestazioni una
necessaria caratteristica del rapporto di consumo.
In adesione a tale impostazione, una recente sentenza di legittimità ha affermato il principio per cui la
nozione di consumatore deve essere intesa con riguardo ad una persona fisica che ha contratto obbligazioni
per far fronte ad esigenze personali o familiari o della
più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale, dunque
anche a favore di terzi.
A riguardo, per altro, è del tutto irrilevante la circostanza che tale nozione sia riferita alla disciplina della
situazione di indebitamento, dal momento che la definizione normativa contenuta nella l. n. 3/2012 non si
discosta da quella del codice del consumo.
Si tratta di una definizione che delimita un ambito
applicativo in grado di includere non solo le ipotesi
riconducibili al contratto a favore di terzo, ma anche
quelle che rientrano nella figura del contratto con obbligazioni per una sola parte.
In tale direzione, più che il fenomeno dell’assunzione
cumulativa del debito o quella del terzo datore di ipoteca - pure di rilievo pratico assai significativo - occorre
adesso menzionare la fideiussione e la necessità di superare un orientamento giurisprudenziale consolidato,
che tuttavia è molto lontano dalla realtà del sistema
positivo e dalla lettura che di questo offre anche la
Corte di giustizia.
Invero l’idea che la qualità di consumatore del fideiussore dipenda da quella del debitore garantito in
1166
ragione del carattere accessorio della garanzia personale, non solo contraddice l’impostazione situazionale
della disciplina di origine europea, ma si discosta anche
dalla motivazione della sentenza resa dalla Corte di
Giustizia nel caso Dietzinger (CORTE GIUST. CE,
17.3.1998, C-45-96, infra, sez. III).
Quest’ultima sentenza, che dovrebbe essere riletta e
meditata con avvertita consapevolezza non solo della
specificità della complessa questione pregiudiziale, ma
anche delle caratteristiche del diritto nazionale da cui
questa traeva origine, aveva utilizzato la categoria dell’accessorietà, ma sempre sul presupposto della (autonoma) qualificazione del fideiussore come consumatore.
Si tratta di una vicenda e, più in generale, di un tema
assai complesso che la personale riflessione cercherà di
affrontare in altra sede, adesso può essere utile limitarsi
a sottolineare come il problema del professionista ‘‘di
riflesso’’ o ‘‘di rimbalzo’’ - sono queste le formule, in
verità più suggestive che costruttive, utilizzate per evocare la questione giuridica appena esposta - sia stato
affrontato in maniera differente in alcune decisioni
dell’Arbitro Bancario e Finanziario.
In particolare, nella decisione n. 205 del 7.4.2010 ed
in quella n. 4109 del 26.7.2013, rese dal Collegio di
Roma (entrambe infra, sez. III), vi è chiara consapevolezza della necessità di distinguere il profilo oggettivo
immanente al collegamento tra garanzia personale e
rapporto principale, da quello soggettivo che è caratterizzato dall’esigenza di tutela determinata dalla situazione tipizzata dal legislatore (contratto concluso fuori
dei locali commerciali, contratto concluso a distanza,
predeterminazione di clausole contrattuali).
Tale consapevolezza, che tuttavia non riesce ancora
ad emancipare la decisione dal limite giuridico e culturale che affligge l’orientamento consolidato nella
giurisprudenza di legittimità, raggiunge un risultato
che comunque acquisisce un significativo progresso
in punto di effettività della tutela.
Si distingue l’ipotesi in cui la fideiussione sia stata
rilasciata per motivi che attengono al collegamento
esistente tra la posizione del garante e l’attività professionale del debitore principale, da quella in cui la garanzia sia stata rilasciata per ragioni del tutto diverse ad esempio per motivi coniugali o parentali- che nulla
hanno in comune con l’attività professionale del debitore garantito.
Nell’impostazione, il discorso ancora non supera l’idea che una caratteristica strutturale dell’atto (accessorietà della fideiussione) possa determinare la qualificazione soggettiva della persona (consumatore); qualificazione che il legislatore, invece, collega alla negazione dell’attività di impresa ed alla situazione ritenuta
meritevole di protezione.
Ma si tratta comunque di un prezioso contributo che
l’interprete deve raccogliere e sviluppare per costruire
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modelli di decisione più coerenti al dato positivo ed
alle effettive esigenze di tutela.
Il riferimento esplicito al ‘‘rapporto coniugale’’ e, più in
generale, la connotazione familiare della fideiussione, da
un lato, si fa carico di una reale esigenza che era emersa
anche nella complessa vicenda giurisprudenziale tedesca,
quella da cui aveva tratto origine la richiamata sentenza
Dietzinger, ma che non aveva trovato una compiuta
risposta, in punto di tutela, sotto il profilo dell’applicabilità del §138 BGB in relazione all’abuso di dipendenza
familiare; dall’altro, potrebbe aiutare a comprendere le
ragioni dell’ atteggiamento della Corte di Giustizia anche nella decisione del caso Kindl (CORTE GIUST. CE,
23.3.2000, causa C-208/98) circa l’applicazione della disciplina del credito al consumo alla fideiussione.
III. I precedenti
1. Criterio temporale e criterio assiologico.
L’ord. 14.10.2009, n. 21814, in Foro it., 2010, I,
2442, applicava il principio lex posterior specialis derogat
priori generali e, quindi, riteneva che il codice del consumo avesse derogato al codice in materia di protezione dei dati personali. Tale argomentazione conserva
rilievo, nella ordinanza che si annota, in ragione della
natura ricognitiva dell’art. 10, comma 2º, d. legis. n.
150/2011, che viene affermata già da CASS.,
12.3.2014, n. 5705, in Mass. Foro it., 2014, e che
l’ordinanza conferma.
Tale ultima norma, invero, ha in sostanza confermato la disposizione in origine già contenuta nel comma
2º dell’art. 152 d. legis. n. 196/2003.
Il criterio della successione delle leggi nel tempo è
utilizzato anche da CASS., 9.10.2015, n. 20304, ivi,
2015.
Nella motivazione di CASS., 12.3.2014, n. 5705, cit.,
si afferma invece che ‘‘di nessuna utilità... è il richiamo al
criterio della successione delle leggi, contenuto nell’arresto
21814 del 2009’’ e ciò anche in considerazione di ciò,
che la prevalenza del foro del consumatore ‘‘risponde ad
una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni
che la prevedono’’.
Circa il riferimento all’interpretazione assiologicamente orientata v., nella decisione di una diversa questione di diritto, CASS., 17.9.2015, n. 18214, in Dir.
civ. contemp., 2015, con un meditato commento di
MODICA.
2. Foro esclusivo e qualificazione delle parti del contratto.
Nel senso che l’art. 1469 bis, comma 3º, n. 19, cod.
civ. istituisce la competenza territoriale esclusiva del
giudice del luogo di residenza o domicilio elettivo del
consumatore v. CASS., sez. un., ord. 1º. 10. 2003, n.
14669, in Foro it., 2003, I, 3298. Si v. anche CASS.,
8.7.2015, n. 14288, in questa Rivista, 2015, I, 1106.
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Circa la prova della trattativa individuale v. CASS.,
20.8.2010, n. 18785, ivi, 2011, I, 99; cfr. altresı̀ CASS.,
20.3.2010, n. 6802, in Foro it. 2010, I, 2442 e la precedente CASS., 26.9.2008, n. 24262, ivi, 2008, I, 3528.
3. Breve riflessione a margine: il fideiussore come
consumatore.
La definizione di consumatore contenuta nell’art. 6,
lett. b) l. 27.1.2012, n. 3 è identica, nella sostanza, a
quella contenuta nell’art. 3, lett. a), cod. cons. Entrambe le definizioni sono costruite sul dato negativo dell’estraneità dell’azione all’attività imprenditoriale o
professionale eventualmente svolta. Si v. CASS.,
1º.2.2016, n. 1869, in Foro it., 2016, I, 1804.
La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel
senso che il carattere accessorio della fideiussione incide sulla qualificazione soggettiva del fideiussore in
termini di estensione della qualificazione del debitore
garantito, v. CASS., 11.1.2001, n. 314, in Foro it.,
2001, I, 891 e, tra le sentenze più recenti, CASS., 29.
11. 2011, n. 25212, in Mass. Giust. civ., 2011; CASS.,
28.1.2015, n. 1627, in Guida al dir., 2015, fasc. 20, 74.
Si v. anche CASS., 13.5.2005, n. 10107, in Mass. Foro
it., 2005.
La sentenza della Corte di Giustizia che decideva il
caso Dietzinger è del 17.3.1998, C-45-96, in Foro it.,
1998, IV, 129.
Le decisioni dell’AB.F., Coll. Roma, 7.4.2010, n.
205 e 26.7.2013, n. 4109 sono reperibili sul sito istituzionale www.arbitrobancariofinanziario.it.
La sentenza Kindl afferma il principio per cui la dir.
n. 102/87 CEE deve essere interpretata nel senso che
non rientra nel suo ambito di applicazione un contratto di fideiussione concluso a garanzia del rimborso di
un credito, quando né il fideiussore né il beneficiario
del credito hanno agito nell’ambito della loro attività
professionale: CORTE GIUST. CE, 23.3.2000, C-208/
98, in Foro it. 2000, IV, 201.
IV. La dottrina
1. Criterio temporale e criterio assiologico.
I temi della norma speciale e della soluzione del
conflitto tra norme sono affrontati da ZORZETTO, La
norma speciale. Una nozione ingannevole, Ets, 2010, passim, ma in part. 24 ss. e 84 ss.; sull’antinomia tra norme
dei codici di settore v. ZOPPINI, Sul rapporto di specialità
tra norme appartenenti ai codici di settore, in Riv. dir. civ.,
2016, 136 ss.
2. Foro esclusivo e qualificazione delle parti del contratto.
Circa il foro del consumatore si v., in generale,
MONTICELLI, Il c.d. foro del consumatore e la vessatorietà
della clausola di predeterminazione dell’organismo di me-
1167
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Parte prima Sentenze commentate
diazione, in Contratti, 2011, 856; PISTILLI, L’inderogabilità del foro del consumatore e vessatorietà delle clausole
difformi, ivi, 2013, 1168. Con riguardo all’interrogativo
se l’art. 33 cod. cons. rilevi anche per le ADR, v.
RECINTO, Foro del consumatore e clausole di predeterminazione dell’organismo ADR, in Nuove leggi civ. comm.,
2016, 119.
3. Breve riflessione a margine: il fideiussore come
consumatore.
Il leading case del 2001 veniva commentato da DI
MARZIO, Intorno alla nozione di consumatore nei contratti, in Giust. civ. 2001, 2151; DOLMETTA, Il fideiussore
può anche essere consumatore, in www.dirittobancario.it,
gennaio 2014.
n Contratto in genere
CASS. CIV., I sez., 24.3.2016, n. 5919 – NAPPI Presidente – DI MARZIO Estensore – SORRENTINO P.M. (concl.
conf.). – Intesa Sanpaolo S.p.A. (avv. Negro) – M.S. (avv.ti Antonucci e Vassalle) – Conferma App. Milano
31.5.2012
CONTRATTO IN GENERE – FORMA – FORMA AD SUBSTANTIAM – CONDIZIONI (cod. civ., art. 1325)
Il contratto formale in tanto si perfeziona ed acquista giuridica esistenza, in quanto le dichiarazioni di volontà
che lo creano siano state formalizzate.
dal testo:
Il fatto. 1. - M.S. ha convenuto in giudizio dinanzi al
Tribunale di Milano San Paolo IMI S.p.A., poi Intesa Sanpaolo S.p.A. e, dopo aver premesso di avere, in data 13
giugno 1991, conferito mandato alla convenuta per la negoziazione di strumenti finanziari, sottoscrivendo, in data 30
marzo 2001, un ordine di acquisto di 753.000 obbligazioni
‘‘Repubblica Argentina 9,25% 99/2002’’, con un esborso di
774.600,60, titoli colpiti dal default argentino del 21 dicembre 2001, ha dedotto: a) la nullità dell’operazione in quanto
posta in essere in assenza del contratto scritto di negoziazione di cui della L. n. 1 del 1991, art. 6 e D.Lgs. n. 58 del
1998, art. 23 e del regolamento Consob numero 11.522 del
1998; b) l’illecita sollecitazione all’investimento; c) l’omessa
acquisizione dei dati concernenti l’esperienza e la propensione al rischio nonché l’omessa consegna del documento
sui rischi generali; d) l’inadempimento all’obbligo informativo sulla specifica operazione; f) l’inadeguatezza dell’operazione non autorizzata ai sensi dell’art. 29 del citato regolamento; g) la violazione della normativa sui conflitti di interesse nonché del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 2; h)
la violazione del dovere di informare dei gravi e reiterati
declassamenti del rating argentino avvenuti nella seconda
metà del 2001; ii) la responsabilità solidale della banca ex
artt. 1228 e 2049 c.c., per il fatto del proprio dipendente
responsabile dell’operazione e dei contestati inadempimenti.
Su tali premesse, la M. ha concluso per la dichiarazione di
nullità ovvero per l’annullamento o la risoluzione del contratto di investimento nelle predette obbligazioni con condanna della convenuta alla restituzione ovvero al risarcimento commisurato all’entità della somma investita.
Intesa Sanpaolo S.p.A. ha resistito alla domanda.
2. - Il tribunale di Milano, con sentenza del 24 giugno
2008, ha rigettato la domanda e regolato le spese di lite.
3. - Contro la sentenza ha proposto appello la M., formulando cinque distinti motivi, il primo dei quali concernente
1168
la ritenuta inammissibilità, da parte del Tribunale, dell’eccezione di nullità dell’operazione per mancanza di un valido
contratto scritto di negoziazione.
4. - Nel contraddittorio di Intesa Sanpaolo S.p.A., che ha
resistito all’impugnazione, la Corte d’appello di Milano, con
sentenza del 31 maggio 2012, in totale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato la nullità, per l’assenza di un
valido contratto scritto di negoziazione, dell’operazione di
investimento nei titoli di cui si è detto (Omissis)
5. - Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione
Intesa Sanpaolo S.p.A. affidato a sei motivi.
M.S. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti
hanno depositato memoria.
I motivi. (Omissis) 7.1. - I primi cinque motivi del ricorso
possono essere simultaneamente esaminati, in ragione del
loro collegamento, dal momento che tutti sono volti a sostenere, sebbene da diversi angoli visuali, la tesi del perfezionamento del ‘‘contratto quadro’’ pur in mancanza della
produzione in giudizio della copia di esso sottoscritto dalla
banca.
Essi sono tutti infondati.
7.1.1. - L’ordine di acquisto di obbligazioni argentine di
cui si discute ha avuto luogo nel vigore dell’art. 23 Tuf
(D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), sulla base di un ‘‘contratto
quadro’’ del quale la M. ha dedotto la nullità per difetto del
requisito formale - stipulato in epoca in cui era vigente la L.
2 gennaio 1991, n. 1.
In particolare, l’originaria attrice ha agito in giudizio producendo il documento del 13 giugno 1991 recante il conferimento alla banca del mandato di negoziazione, predisposto
sotto forma di lettera diretta alla stessa banca, mancante
della sottoscrizione di quest’ultima, ma contenente la dicitura: ‘‘Prendiamo atto che una copia del presente contratto
ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi’’, seguita dalla sottoscrizione della M.
Nel corso del giudizio analogo documento è stato prodotto dalla banca.
7.1.2. - Orbene, il citato art. 23 stabilisce che i contratti
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Sentenze commentate Parte prima
relativi alla prestazione dei servizi di investimento debbano
essere redatti per iscritto a pena di nullità, ma già della L. 2
gennaio 1991, n. 1, art. 6, lett. c, secondo quanto più volte
ribadito da questa Corte, poneva il medesimo requisito di
forma per la stipulazione del ‘‘contratto quadro’’ (Cass. 7
settembre 2001, n. 11495; Cass. 9 gennaio 2004, n. 111;
Cass. 19 maggio 2005, n. 10598).
Tale previsione, dettata, secondo la prevalente opinione,
a fini protettivi dell’investitore (Cass. 22 marzo 2013, n.
7283), non è incompatibile con la formazione del contratto
attraverso lo scambio di due documenti, entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto dall’altro contraente.
Non v’è difatti ragione di discostarsi dall’insegnamento
più volte ribadito, secondo cui il requisito della forma scritta
ad substantiam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle
parti sono contenute in documenti distinti, purché risulti il
collegamento inscindibile del secondo documento al primo,
‘‘sı̀ da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo’’ (Cass. 13 febbraio 2007, n. 3088; Cass. 18 luglio
1997, n. 6629; Cass. 4 maggio 1995, n. 4856).
Ciò detto, vertendosi in tema di forma scritta sotto pena
di nullità, in caso di formazione dell’accordo mediante lo
scambio di distinte scritture inscindibilmente collegate, il
requisito della forma scritta ad substantiam in tanto è soddisfatto, in quanto entrambe le scritture, e le corrispondenti
dichiarazioni negoziali, l’una quale proposta e l’altra quale
accettazione, siano formalizzate. E, insorta sul punto controversia, vale la regola generale secondo cui, con riguardo ai
contratti per i quali la legge prescrive la forma scritta a pena
di nullità, la loro esistenza richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura (Cass. 14 dicembre 2009, n. 26174).
7.1.3. - La stipulazione del contratto non può viceversa
essere desunta, per via indiretta, in mancanza della scrittura,
da una dichiarazione quale quella nella specie sottoscritta
dalla M.:
‘‘Prendiamo atto che una copia del presente contratto ci
viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati
a rappresentarvi’’.
La verifica del requisito della forma scritta ad substantiam
si sposta qui sul piano della prova (è la stessa banca ricorrente, del resto, a riconoscerlo), ove trova applicazione la
disposizione dettata dal codice civile che consente di supplire alla mancanza dell’atto scritto nel solo caso previsto
dall’art. 2725 c.c., comma 2, che richiama l’art. 2724 c.c., n.
3: in base al combinato disposto di tali norme, la prova per
testimoni di un contratto per la cui stipulazione è richiesta
la forma scritta ad substantiam, è dunque consentita solamente nell’ipotesi in cui il contraente abbia perso senza sua
colpa il documento che gli forniva la prova del contratto.
E la preclusione della prova per testimoni opera parimenti
per la prova per presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c., nonché per il giuramento ai sensi dell’art. 2739 c.c.. Interdetta è
altresı̀ la confessione (Cass. 2 gennaio 1997, n. 2; Cass. 7
giugno 1985, n. 3435) quale, in definitiva, sarebbe la presa
d’atto, da parte della M., della consegna dell’omologo documento sottoscritto dalla banca.
D’altronde, la consolidata giurisprudenza di questa Corte
esclude l’equiparazione alla ‘‘perdita’’, di cui parla l’art. 2724
c.c., della consegna del documento alla controparte contrattuale. Nell’ipotesi prevista dalla norma, difatti, il contraente
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che è in possesso del documento ne rimane privo per cause a
lui non imputabili: il che è il contrario di quanto avviene
nel caso della volontaria consegna dell’atto, tanto più in una
vicenda come quella in discorso, in cui non è agevole comprendere cosa abbia mai potuto impedire alla banca, che ha
predisposto la modulistica impiegata per l’operazione, di redigere il ‘‘contratto quadro’’ in doppio originale sottoscritto
da entrambi i contraenti.
È stato al riguardo più volte ripetuto che, in tema di
contratti per cui è prevista la forma scritta ad substantiam,
nel caso in cui un contraente non sia in possesso del documento contrattuale per averlo consegnato all’altro contraente, il quale si rifiuti poi di restituirlo, il primo non può
provare il contratto avvalendosi della prova testimoniale,
poiché non si verte in un’ipotesi di perdita incolpevole
del documento ai sensi dell’art. 2724 c.c., n. 3, bensı̀ di
impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi
del precedente n. 2 di tale articolo (Cass. 26 marzo 1994,
n. 2951; Cass. 19 aprile 1996, n. 3722; Cass. 23 dicembre
2011, n. 28639, la quale ha precisato che l’esclusione della
prova testimoniale opera anche al limitato fine della preliminare dimostrazione dell’esistenza del documento, necessaria per ottenere un ordine di esibizione da parte del giudice
ai sensi dell’art. 210 c.p.c.; per completezza occorre dire che
c’è un precedente di segno diverso, Cass. 29 dicembre 1964,
n. 2974, ma si tratta di un’affermazione assai remota, isolata
e per di più concernente una fattispecie in parte diversa).
7.1.4. - Resta allora da chiedersi se la validità del ‘‘contratto quadro’’ possa essere ricollegata, come vorrebbe la
banca ricorrente, alla produzione in giudizio da parte sua
del medesimo documento ovvero a comportamenti concludenti posti in essere dalla stessa banca e documentati per
iscritto.
La ricorrente ha più volte richiamato, in proposito, nel
ricorso per cassazione, l’autorità di Cass. 22 marzo 2012, n.
4564 (massimata ad altro riguardo) nella quale si trova affermato, con riguardo ad una vicenda simile, pure involgente la stipulazione di un contratto bancario da redigersi per
iscritto:
1) che la dicitura contenuta nel documento mancante
della sottoscrizione proveniente dalla banca, secondo cui
‘‘un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato’’, rendeva ragionevole affermare che l’esemplare
consegnato recasse per l’appunto la sottoscrizione della banca;
2) che la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, muovendo dalla premessa che nei contratti per cui è
richiesta la forma scritta ad substantiam non è necessaria
la simultaneità delle sottoscrizioni dei contraenti, ha più
volte ribadito il principio secondo cui tanto la produzione
in giudizio della scrittura da parte di chi non l’ha sottoscritta, quanto qualsiasi manifestazione di volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto diretto
alla controparte, dalla quale emerga l’intento di avvalersi del
contratto, realizzano un valido equivalente della sottoscrizione mancante;
3) che, nella specie considerata, anche in mancanza di
una copia del contratto firmata dalla banca, l’intento di
questa di avvalersi del contratto risultava comunque, oltre
che dal deposito del documento in giudizio, dalle manifestazioni di volontà da questa esternate ai ricorrenti nel corso
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Parte prima Sentenze commentate
del rapporto, da cui si evidenziava la volontà di avvalersi del
contratto (bastando a tal fine le comunicazioni degli estratti
conto) con conseguenze perfezionamento dello stesso.
Ritiene però la Corte che al precedente non possa darsi
continuità.
7.1.4. - Questa Corte ha più volte ribadito che la mancata
sottoscrizione di una scrittura privata è supplita dalla produzione in giudizio del documento stesso da parte del contraente non firmatario che se ne intende avvalere (Cass. 5
giugno 2014, n. 12711 ove si precisa che, per il perfezionamento dell’accordo è necessario non solo che la produzione
in giudizio del contratto avvenga su iniziativa del contraente
che non l’ha sottoscritto, ma anche che l’atto sia prodotto
per invocare l’adempimento delle obbligazioni da esso scaturenti; Cass. 17 ottobre 2006, n. 22223; Cass. 5 giugno
2003, n. 8983; Cass. l luglio 2002, n. 9543; Cass. 11 marzo
2000, n. 2826; Cass. 19 febbraio 1999, n. 1414; Cass. 15
maggio 1998, n. 4905; Cass. 7 maggio 1997, n. 3970; Cass.
23 gennaio 1995, n. 738; Cass. 24 aprile 1994, n. 5868, ove
si precisa che il principio non trova applicazione allorché il
giudizio sia instaurato non nei confronti del sottoscrittore,
bensı̀ dei suoi eredi; Cass. 28 novembre 1992, n. 12781;
Cass. 7 agosto 1992, n. 9374; Cass. 24 aprile 1990, n.
3440; Cass. 7 luglio 1988, n. 4471; Cass. 11 settembre
1986, n. 5552, che ammette il principio solo quando il
contraente invochi in proprio favore il contratto ed intenda
farne propri gli effetti, e non quando la produzione in giudizio del documento esprima essa stessa la volontà contraria
ad alcuni suoi contenuti, come quando sia effettuata al fine
di dimostrare con la mancata sottoscrizione del documento
la non avvenuta conclusione del contratto contenutovi;
Cass. 18 gennaio 1983, n. 469; Cass. 8 novembre 1982, n.
5869; Cass. 23 aprile 1981, n. 2415, ivi, 1981, 2415; Cass. 8
gennaio 1979, n. 78).
In generale, il ragionamento posto a sostegno di tale indirizzo si riassume in ciò, che la produzione in giudizio da
parte del contraente che non ha sottoscritto la scrittura
realizza un equivalente della sottoscrizione, con conseguente
perfezionamento del contratto, perfezionamento che non
può verificarsi se non ex nunc, e non ex tunc (ed infatti
il contratto formale intanto si perfeziona ed acquista giuridica esistenza, in quanto le dichiarazioni di volontà che lo
creano siano state per l’appunto formalizzate), tant’è che il
congegno non opera se l’altra parte abbia medio tempore
revocato la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto
l’atto incompleto non è più in vita nel momento della produzione, perché la morte determina di regola l’estinzione
automatica della proposta (v. art. 1329 c.c.) rendendola
non più impegnativa per gli eredi (in senso diverso sembra
rinvenirsi soltanto Cass. 29 aprile 1982, n. 2707, secondo
cui la produzione in giudizio del documento sottoscritto da
una sola parte non determina la costituzione del rapporto ex
nunc, ma supplisce alla mancanza di sottoscrizione con effetti retroagenti al momento della stipulazione).
Va da sé che nel caso in discorso la produzione in giudizio
del contratto da parte della banca, la cui sottoscrizione difetta, avrebbe determinato il perfezionamento del contratto
solo dal momento della produzione, la quale, perciò, non
può che rimanere senza effetti, per i fini della validità del
successivo ordine di acquisto delle obbligazioni argentine,
1170
tale da richiedere a monte (e non ex post) un valido contratto quadro.
D’altro canto, far discendere la validità dell’ordine di acquisto dal perfezionamento soltanto successivo del ‘‘contratto quadro’’, non è pensabile, stante il principio dell’inammissibilità della convalida del contratto nullo ex art. 1423
c.c..
Il che esime dal soffermarsi sull’ulteriore questione se la
produzione da parte della banca possa determinare il perfezionamento del contratto, sia pure ex nunc, in presenza di
una condotta quale quella posta in essere dalla M., la quale
ha agito in giudizio per la dichiarazione di nullità dell’ordine
di acquisto in mancanza di un valido ‘‘contratto quadro’’,
avuto riguardo al rilievo che la domanda rivolta alla declaratoria di nullità è domanda di mero accertamento e, a
differenza di quelle costitutive, quali quelle di annullamento
o di risoluzione, non presuppone l’avvenuta conclusione del
contratto.
Per tali ragioni, dunque, il ‘‘contratto quadro’’ non può
dirsi utilmente perfezionato (sı̀ da sorreggere il successivo
ordine di acquisto) per effetto della sua produzione in giudizio da parte della banca.
7.1.5. - Il problema dell’anteriorità del perfezionamento
del ‘‘contratto quadro’’ non si porrebbe, invece, se potesse
attribuirsi rilievo alla volontà della banca di avvalersi del
contratto desumibile dalle contabili, attestati di seguito, eccetera, di cui è menzione anche nella sentenza impugnata.
Ma cosı̀ non è. In generale, nei contratti soggetti alla
forma scritta ad substantiam, il criterio ermeneutico della
valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto stesso, non può
evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello
scritto medesimo (Cass. 7 giugno 2011, n. 12297).
E, fin da epoca remota, questa Corte ha affermato che il
documento ha valore, per i fini del soddisfacimento del
requisito formale, ‘‘in quanto sia estrinsecazione diretta della
volontà contrattuale’’ (Cass. 7 giugno 1966, n. 1495). La
forma scritta, quando è richiesta ad substantiam, è insomma
elemento costitutivo del contratto, nel senso che il documento deve essere l’estrinsecazione formale e diretta della
volontà delle parti di concludere un determinato contratto
avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il documento sia stato creato al
fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti
diretta alla conclusione del contratto (Cass. 1 marzo 1967,
n. 453; Cass. 22 maggio 1974, n. 1532; Cass. 7 maggio 1976,
n. 1594; Cass. 9 marzo 1981, n. 1307; 30 marzo 1981, n.
1808; 18 febbraio 1985, n. 1374; Cass. 15 novembre 1986,
n. 6738; Cass. 29 ottobre 1994, n. 8937; Cass. 15 dicembre
1997, n. 12673; Cass. 6 aprile 2009, n. 8234; Cass. 30 marzo
2012, n. 5158; da ultimo Cass. 12 novembre 2013, n.
25424, secondo cui non soddisfa l’esigenza di forma scritta
ad substantiam l’attestazione di pagamento sottoscritta dall’accipiens e dal solvens).
Orbene, è di tutta evidenza che documentazione quale
quella in questo caso depositata dalla banca (contabili, attestati di seguito, eccetera), indipendentemente dalla verifica
dello specifico contenuto e della sottoscrizione di dette scritture (aspetti che nel caso di specie non risultano dal ricorso
per cassazione), non possiede i caratteri della ‘‘estrinsecazione diretta della volontà contrattuale’’, tale da comportare il
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Sentenze commentate Parte prima
perfezionamento del contratto, trattandosi piuttosto di documentazione predisposta e consegnata in esecuzione degli
obblighi derivanti dal contratto il cui perfezionamento si
intende dimostrare e, cioè, da comportamenti attuativi di
esso e, in definitiva, di comportamenti concludenti che, per
definizione, non possono validamente dar luogo alla stipulazione di un contratto formale.
7.2. - L’ultimo motivo è inammissibile.
Secondo la banca ricorrente, in breve, costituirebbe abuso
del diritto, da parte della M., l’essersi avvalsa dell’eccezione
di nullità del ‘‘contratto quadro’’, poiché mancante del requisito della forma scritta, pur avendo esso avuto esecuzione
per lunghi anni, nel corso dei quali la cliente aveva effettuato con successo investimenti per molti milioni di Euro,
cosı̀ da neutralizzare l’unico investimento per cosı̀ dire ‘‘sbagliato’’, facendone ricadere le conseguenze sulla banca.
In effetti, anche in dottrina si è sostenuto che una simile
eccezione costituirebbe il mascheramento di un recesso di
pentimento contra legem. E, talora, anche la giurisprudenza
di merito, ha ritenuto di cogliere una sproporzione tra il
rimedio azionato (la nullità dell’intero ‘‘contratto quadro’’)
e il risultato pratico avuto di mira (il recupero della somma
investita in titoli tossici).
Qui, tuttavia, non occorre approfondire l’argomento e
stabilire se la figura dell’abuso del diritto, in particolare sotto
forma di abuso dell’eccezione di nullità, possa dirsi ricorrente, o se invece l’investitore abbia invocato la nullità proprio
al fine per cui essa è prevista, per l’evidente considerazione
che tale argomento non risulta essere stato mai affrontato
nelle fasi di merito, non essendovene traccia nè nella sentenza impugnata e neppure nell’espositiva del fatto contenuta nel ricorso per cassazione.
A tal riguardo trova dunque applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza
impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne
una statuizione di inammissibilità per novità della censura,
non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al
giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di
autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar
modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità
di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta
questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).
8. - Le spese seguono la soccombenza. (Omissis)
CASS. CIV., I sez., 11.4.2016, n. 7068 – NAPPI Presidente – DOGLIOTTI Estensore – DEL CORE P.M. (concl.
diff.). – D.M.L. (avv.ti Capriolo e Pizzoli) – Banca Passadore & C. S.p.A. (avv.ti Marotta e Cataldo) – Cassa
App. Genova 28.1.2011
CONTRATTO IN GENERE – CONCLUSIONE MEDIANTE SCAMBIO DI PROPOSTA E ACCETTAZIONE – FORMA –
FORMA SCRITTA AD SUBSTANTIAM – CONDIZIONI (cod. civ., art. 1325)
Il requisito di forma scritta ad substantiam richiede necessariamente che siano formalizzate le dichiarazioni
negoziali di proposta ed accettazione.
dal testo:
Il fatto. D.M.L. proponeva ricorso D.Lgs. n. 5 del 2003,
ex art. 19, nei confronti della Banca Passadore & C.
SPA, chiedendo dichiararsi la nullità del ‘‘contratto di borsa’’, per vizio di forma, e la restituzione della somma di Euro
24.903,71, impiegata nell’acquisto di Bond Argentini.
Costituitosi il contraddittorio, la banca chiedeva il rigetto
della domanda.
Il G.I. disponeva il mutamento del rito, assegnando i
termini di cui all’art. 6 del predetto decreto legislativo.
Con sentenza in data 03/07/2007, il Tribunale di Genova
dichiarava la nullità per vizio di forma del contratto di
acquisto dei Bond Argentini e condannava la convenuta
alla restituzione della somma di Euro 24.903,71, ordinando
all’attrice di restituire alla banca i titoli suindicati.
Proponeva appello la banca. Costituitosi il contraddittorio, l’appellata ne chiedeva il rigetto. La Corte di Appello di
Genova, con sentenza in data 28/01/11, in riforma della
sentenza appellata, rigettava le domande della D.M. e la
condannava a restituire le somme a lei versate dalla Banca,
in esecuzione della sentenza del Tribunale.
Ricorre per cassazione la D.M.
Resiste, con controricorso, la banca (Omissis)
I motivi. (Omissis) Passando all’esame dei motivi e delle
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questioni in essi trattate, va precisato che dall’atto di appello
della banca e dalle conclusioni di essa contenute nella sentenza impugnata, emerge che la banca stessa intendeva che
fossero rigettate tutte le domande formulate dalla D. M., con
restituzione ad essa della somma trasferita alla cliente, in
virtù della provvisoria esecutività della pronuncia di nullità
del contratto. Nell’appello della banca era specificamente
indicato che, in pendenza del termine per l’impugnazione,
essa aveva dato esecuzione alla sentenza, con riserva di impugnarla, ricevendo in restituzione i titoli, e trasferendo,
come si diceva, alla D. M. il prezzo di acquisto maggiorato
degli interessi. Bene aveva fatto dunque il giudice a quo,
rigettando le domande della D. M. a condannarla alla restituzione della somma, senza violazione alcuna dell’art. 112
c.p.c.
Va altresı̀ precisato che le argomentazioni indicate dalla
ricorrente, per cui la produzione in giudizio del contratto
sostituirebbe la sottoscrizione solo nel caso che non fosse
stata manifestata la volontà di revoca, e comunque determinerebbe il perfezionamento del contratto, ex nunc (nella
specie, in tempo successivo agli acquisti de quibus) non
sono capi della sentenza bensı̀ come si diceva, mera argomentazioni di diritto, prive di autonoma individualità. Non
si può quindi parlare di passaggio in giudicato relativamente
a tali profili.
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Parte prima Sentenze commentate
Va invece accolta la tesi della ricorrente che aveva tempestivamente eccepito la nullità del contratto quadro per
vizio di formate non solo la nullità degli ordini di acquisto.
Dal contenuto del ricorso ex art. 19 emergeva la richiesta di
dichiarazione di nullità del ‘‘contratto di borsa’’ per assenza
di sottoscrizione, richiesta ad substantiam, richiamandosi
l’assenza di contratto scritto (violazione dell’art. 23
T.U.F.) e denunciandosi che non vi era stato alcun contratto di intermediazione nè alcun ordine scritto. Errata è
dunque l’affermazione che l’odierna ricorrente avrebbe eccepito la nullità del contratto quadro in epoca successiva.
Va dunque esaminato se, nella specie, il contratto di negoziazione debba ritenersi nullo. Esso è stato prodotto dalla
banca e reca la sottoscrizione della ricorrente, ma non del
rappresentante della banca stessa.
Al momento della stipulazione erano vigenti la L. n. 1 del
1991, e il D.Lgs. n. 58 del 1998. Com’è noto, la L. n. 1 del
1991, art. 6, confermato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23,
introduceva il requisito di forma scritta ad substantiam per il
contratto quadro (al riguardo Cass. N. 10598 del 2005; 11
del 2004).
E’ appena il caso di precisare che tale requisito richiede
necessariamente che siano formalizzate le dichiarazioni negoziali di proposta ed accettazione, in un unico contesto
ovvero anche in tempi e contesti diversi.
Sussistendo controversia, la prova dell’esistenza del contratto richiede necessariamente la produzione in giudizio
della relativa, o delle relative scritture (Cass. N. 26174 del
2009). Al contrario, la stipulazione non può essere desunta,
in via indiretta, da dichiarazioni di contenuto differente (ad
es. di scienza, di ricognizione, ecc.). Nè potrebbero all’evidenza, sopperire prove testimoniali, per presunzioni, il giuramento o la confessione (tra le altre, al riguardo Cass. N. 2
del 1997).
Orientamento consolidato di questa Corte (tra le altre:
Cass. N. 22223 del 2006; n. 12711 del 2014) precisa che
alla mancata sottoscrizione di una scrittura privata, può
sopperirsi con la produzione in giudizio del documento stesso da parte del contraente non firmatario che se ne intende
avvalere.
La giurisprudenza suindicata afferma che la produzione in
giudizio, realizza un equivalente della sottoscrizione, con
conseguente perfezionamento del contratto ex nunc, salvo,
in ogni caso, che l’altra parte abbia revocato la proposta
ovvero sia deceduta, determinando la morte; l’estinzione
automatica della proposta, che non sarebbe dunque impegnativa per gli eredi.
Giurisprudenza altrettanto consolidata di questa Corte
(tra le altre, Cass. S.U. n. 5395 del 2007) afferma che, dopo
la stipulazione del contratto di negoziazione, gli ordini di
acquisto e le operazioni di compravendita danno luogo ad
atti sicuramente negoziali, ma non a veri e propri contratti,
per di più autonomi rispetto all’originale contratto quadro di
cui essi costituiscono attuazione ed adempimento.
La nullità del contratto incide dunque sulla validità dei
successivi ordini di acquisto stante anche l’esclusione di
ogni forma di convalida del contratto nullo ex art. 1423 c.c.
Pertanto, nella specie, la produzione in giudizio del contratto di negoziazione da parte della banca, non rende validi
retroattivamente gli ordini di acquisto e le operazioni di
compravendita de quibus, con la conseguente necessità di
restituzione della somma impiegata dal cliente e dei titoli
alla banca.
Va pertanto accolto al riguardo il ricorso, rimanendo assorbita ogni altra questione proposta.
Va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di
Appello di Genova) in altra composizione, che pure deciderà sulle spese del presente giudizio di legittimità. (Omissis)
[I due provvedimenti che precedono sono oggetto di
commento in Parte Seconda, con Opinione di P. GAGGERO, p. 1220]
n Famiglia
CORTE COST., 7.4.2016, n. 76 – FRIGO Presidente – ZANON Relatore
FAMIGLIA – RICONOSCIMENTO DI SENTENZE E PROVVEDIMENTI STRANIERI – ADOZIONE – ADOZIONE DEL
FIGLIO MINORE DEL PARTNER – COPPIA DI PERSONE DELLO STESSO SESSO – ADOZIONE ‘‘INTERNA AD UNO
STATO STRANIERO’’ – DISCIPLINA INTERNA DELL’ADOZIONE – QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE –
INAMMISSIBILITÀ (Conv. eur. dir. uomo, artt. 8, 14; Conv. Aja, 29.5.1993, artt. 23, 24; Conv. dir. fanciullo,
20.11.1989, art. 3; Cost., artt. 2, 3, 30, 31, 117; l. 31.5.1995, n. 218, artt. 29, 41, 64, 65, 66, 67; l. 4.5.1983, n.
184, artt. 35, 36 comma 4º, 44; d. p. r. 3.11.2000, n. 396, art. 95)
È inammissibile - per difetto di motivazione sulla rilevanza in ordine all’esistenza della potestas iudicandi del
giudice rimettente, e altresı̀ per erronea applicazione al caso in oggetto della disciplina in tema di adozione
internazionale di minori - la questione di legittimità sollevata dal Tribunale rimettente in merito alla lamentata
violazione degli artt. 35 e 36 della l. 4.5.1983, n. 184, nella parte in cui, come interpretati secondo diritto
vivente, non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato
(all’estero), il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del
coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio stesso abbia prodotto effetti in Italia (come per la
fattispecie del matrimonio tra persone dello stesso sesso), in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31, 117 Cost.,
quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 Conv. eur. dir. uomo.
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Sentenze commentate Parte prima
dal testo:
Il fatto. 1.- Con ordinanza del 10 novembre 2014 il Tribunale per i minorenni di Bologna ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4
maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia),
«nella parte in cui - come interpretati secondo diritto vivente - non consentono al giudice di valutare, nel caso
concreto, se risponda all’interesse del minore adottato (all’estero), il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge del
genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio stesso
abbia prodotto effetti in Italia (come per la fattispecie del
matrimonio tra persone dello stesso sesso)», per violazione
degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo
in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848.
2.- Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a definire
un giudizio promosso dalla signora B.E.M., al fine di ottenere il riconoscimento della sentenza straniera di adozione
deliberata, in data 22 gennaio 2004, dal Tribunale di Prima
Istanza dello Stato dell’Oregon, Contea di Multnomah, negli Stati Uniti d’America, con la quale era stata disposta
l’adozione piena della minore J.B.S.E. in favore della ricorrente, con responsabilità genitoriale congiunta a quella della
madre biologica J.E.A. Il rimettente riferisce che la minore
J.B.S.E. è nata da J.E.A. in data 4 ottobre 2003, in seguito
ad inseminazione artificiale, allorché J.E.A. già conviveva
con B.E.M., nell’ambito, dunque, di uno specifico progetto
di genitorialità delle due madri (biologica e adottiva). Subito dopo la nascita di J.B.S.E., B.E.M. ha presentato domanda di adozione al Tribunale dello Stato dell’Oregon
che, dopo aver accertato l’idoneità della richiedente a svolgere il ruolo di madre e l’idoneità del nucleo familiare ad
ospitare la bambina, ne ha statuito appunto l’adozione. In
seguito, in data 6 giugno 2013, J.E.A. e B.E.M. hanno contratto matrimonio agli effetti della legge degli Stati Uniti
d’America. Il 27 marzo 2013 il Consolato Generale d’Italia
con sede a San Francisco ha attestato che B.E.M., cittadina
statunitense, è anche cittadina italiana per discendenza.
L’intero nucleo familiare risiede ora a Bologna. Ricorda,
infine, il giudice a quo che la ricorrente non ha presentato
domanda finalizzata ad ottenere l’adozione di J.B.S.E., bensı̀
ha richiesto, anche in nome della figlia adottata, il riconoscimento, in Italia, del provvedimento statunitense di adozione della minore.
3.- Il Tribunale per i minorenni di Bologna ricorda, quindi, come i provvedimenti di adozione siano riconoscibili, in
Italia, ai sensi dell’art. 41 della legge 31 maggio 1995, n. 218
(Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), il quale rinvia agli artt. 64, 65 e 66 della medesima
legge, ferme restando le norme speciali in materia di adozione dei minori (in particolare, gli artt. 35 e 36 della legge
n. 184 del 1983). Con riferimento alla fattispecie oggetto
del suo giudizio, il rimettente rileva che sussistono «tutte le
condizioni di carattere procedurale e processuale» richieste
dalla legge per il riconoscimento del provvedimento straniero, in quanto lo stesso si è perfezionato negli Stati Uniti
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d’America secondo legalità e sulla base della competenza
dell’autorità adita. Ritiene, tuttavia, che, nel caso di specie,
osti al riconoscimento della sentenza pronunciata all’estero
la sua contrarietà all’ordine pubblico, limite previsto dalle
disposizioni citate.
Assume, infatti, il Tribunale che, sulla scorta di una lettura - «da ritenersi prevalente e maggioritaria, di fatto corrispondente a ‘‘diritto vivente’’» degli artt. 41 della legge n.
218 del 1995 e 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184
del 1983 (relativo, quest’ultima disposizione, all’adozione, in
casi particolari, del figlio del coniuge) - debba escludersi che
un minore possa essere adottato da persona che sia coniuge
del genitore nell’ambito di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, costituendo la necessaria
diversità dei sessi un presupposto implicito e inderogabile
della disciplina adottiva, «cosı̀ cogente da dovere essere
collocato nell’ambito di quelli che si connotano per partecipazione all’area semantica dell’Ordine pubblico interno».
Ad avviso del giudice rimettente, tale interpretazione delle
disposizioni sopra citate costituirebbe l’approdo di un ‘‘diritto vivente’’ formatosi nell’applicazione degli artt. 35 e 36
della legge n. 184 del 1983. Viene ricordata, in particolare,
una pronuncia della Corte di cassazione (sezione prima civile, 14 febbraio 2011, n. 3572), secondo la quale l’adozione
disposta ai sensi dell’art. 36, comma 4, della legge n. 184 del
1983 - ossia l’adozione pronunciata all’estero su istanza di
cittadini italiani che dimostrino, al momento della pronuncia, di avere soggiornato continuativamente nel Paese straniero e di avervi avuto la residenza da almeno due anni non avrebbe introdotto alcuna deroga al principio generale
enunciato al comma 3 del precedente art. 35, ove si stabilisce che il riconoscimento del provvedimento di adozione di
un minore pronunciato all’estero non può avere luogo ove
contrario «ai principi fondamentali che regolano nello Stato
il diritto di famiglia e dei minori». Tra questi principi secondo il giudice a quo - vi sarebbe anche quello secondo
cui l’adozione è permessa solo a coniugi «uniti in matrimonio» ai sensi dell’art. 6 della legge n. 184 del 1983 (matrimonio che, nell’ordinamento italiano, è consentito solo a
persone di sesso diverso).
4.- Tanto premesso, il Tribunale per i minorenni di Bologna ritiene di non potersi discostare dall’orientamento giurisprudenziale indicato. Al tempo stesso, afferma di non
condividerlo, se applicato alla fattispecie oggetto del suo
giudizio, trattandosi di genitori (per quanto dello stesso sesso) con ventennale convivenza, poi confluita in un matrimonio regolarmente celebrato all’estero, in cui il coniuge
del genitore ha adottato il figlio di quest’ultimo.
Il giudice a quo muove, infatti, dal presupposto che il
matrimonio contratto all’estero tra persone del medesimo
sesso non possa più essere considerato contrario all’ordine
pubblico, in quanto detto matrimonio, nel nostro ordinamento, pur improduttivo di effetti giuridici, non sarebbe
inesistente (è citata la sentenza della Corte di cassazione,
sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184). Inoltre, il
giudice a quo evoca alcune decisioni in cui la Corte europea
dei diritti dell’uomo avrebbe affermato che la coppia formata da persone dello stesso sesso è da considerare ‘‘famiglia’’
(sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, e
sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria). Infine ricorda sempre il rimettente - la stessa Corte costituzionale
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Parte prima Sentenze commentate
avrebbe riconosciuto che la coppia omosessuale rientra tra le
formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 170
del 2014). Il Tribunale per i minorenni di Bologna ritiene
pertanto che la disciplina «in materia di riconoscimento
dell’adozione perfezionatasi all’estero» sia censurabile sotto
due distinti profili.
In primo luogo, gli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del
1983 violerebbero gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto, per la sola
omosessualità dei genitori, esse impedirebbero in modo assoluto alla famiglia formatasi all’estero di continuare ad essere ‘‘famiglia’’ anche in Italia. Il giudice a quo ricorda come
la Corte costituzionale abbia affermato che, pur spettando al
Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle
unioni omosessuali, è ad essa riservata la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni (sentenza n. 138 del
2010). Il rimettente, pur riconoscendo l’interesse dello Stato
a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio e
della famiglia, ritiene che non possa essere totalmente sacrificato il contrapposto interesse della coppia omogenitoriale
a che l’unione dei membri della famiglia non sia cancellata
in modo completo e irreversibile.
La questione non riguarda qui - precisa il Tribunale rimettente - il rapporto di coniugio tra persone dello stesso
sesso, ma esclusivamente il rapporto genitoriale e l’interesse
preminente del minore al suo riconoscimento.
In secondo luogo, il giudice a quo ritiene che la disciplina
censurata contrasti con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 Cost.,
quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della CEDU, in
quanto il divieto assoluto di riconoscimento della decisione
straniera cancellerebbe «in modo netto e irrazionale» la
possibilità, per il giudice italiano, di condurre un vaglio
sull’effettivo interesse del minore, vanificando principi di
matrice internazionale ed europea. Il rimettente, su tale
aspetto, ricorda anzitutto i principi espressi in alcuni trattati
internazionali: la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta
a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva
con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale «[i]n
tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle
istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» (art. 3, comma 1); la Convenzione
europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge
20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (art. 24,
comma 2). Dai trattati in questione emergerebbe la necessità che, in ogni atto comunque riguardante il minore, il suo
interesse debba sempre essere considerato preminente. Disposizioni come quelle censurate impedirebbero, invece, al
giudice di verificare quale sia l’interesse del fanciullo e,
dunque, si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto
il profilo della ragionevolezza, e con gli artt. 2, 30 e 31 Cost.,
che assicurano al minore il diritto fondamentale ad una
famiglia. Inoltre, l’impossibilità di riconoscere il provvedimento di adozione, formatosi all’estero, in favore di una
famiglia omogenitoriale, si paleserebbe in contrasto con gli
artt. 8 e 14 della CEDU. Il giudice a quo ricorda i principi
espressi dalla Corte EDU nella sentenza 19 febbraio 2013, X
1174
e altri contro Austria, e nella sentenza 28 giugno 2007,
Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo. In particolare, in
quest’ultima decisione, la Corte EDU avrebbe riscontrato
una violazione dell’art. 8 della CEDU da parte dell’autorità
che si era rifiutata di riconoscere una sentenza straniera di
adozione piena, poiché, quando si è già formata di fatto una
famiglia, è inammissibile un rigetto della richiesta di riconoscimento della sentenza straniera che contrasti con l’interesse del minore nel caso concreto: la Corte EDU avrebbe,
cioè, affermato che, «quando si è già formata di fatto una
famiglia, è inammissibile un rigetto della richiesta di exequatur che contrasti con l’interesse del minore nel caso
concreto».
5.- Espone, infine, il giudice a quo che le questioni prospettate sarebbero rilevanti, in quanto, in assenza di una
declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate, sarebbe preclusa allo stesso rimettente una valutazione del superiore interesse del minore ad ottenere il riconoscimento, anche nell’ordinamento italiano, del vincolo di
filiazione già regolarmente costituito per un ordinamento
giuridico straniero. In assenza di una pronuncia di accoglimento - secondo il giudice a quo - il ricorso andrebbe senz’altro rigettato.
6.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale
con atto depositato il 17 febbraio 2015, chiedendo che le
questioni siano dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza.
In particolare, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene
che il Tribunale per i minorenni di Bologna, omettendo la
doverosa ricerca di una soluzione costituzionalmente orientata della fattispecie sottoposta al suo giudizio, avrebbe erroneamente trascurato la possibilità di riconoscere la sentenza straniera secondo una disposizione diversa da quelle
censurate, e cioè l’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n.
184 del 1983, la quale consente l’adozione «in casi particolari», avuto specifico riguardo alla «constatata impossibilità
di affidamento preadottivo».
Dopo aver ricordato che, sulla base di tale disposizione, è
stata ammessa l’adozione internazionale da parte di una
persona singola, quando la stessa corrisponda all’interesse
del minore (è ricordata l’ordinanza della Corte costituzionale n. 347 del 2005), e assumendo che tale condizione rilevi
«per analogia» anche nel caso di «persona same sex coniugata in altro Paese con il genitore biologico», l’Avvocatura
generale dello Stato ritiene che, essendo ammessa l’adozione
internazionale da parte di persona singola, dovrebbe a maggior ragione concludersi che possa essere riconosciuta una
decisione in tal senso assunta dal giudice straniero.
Né - secondo l’Avvocatura generale dello Stato - tale
riconoscimento sarebbe impedito dall’obbligo, stabilito dall’art. 35, comma 3, della legge n. 184 del 1983, di osservanza
dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale in
materia di famiglia e minori. In particolare, riguardo al matrimonio contratto all’estero fra persone dello stesso sesso, la
difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ricorda che la
Corte di cassazione, pur avendo escluso che tale matrimonio
possa essere trascritto negli atti dello stato civile, avrebbe,
tuttavia, riconosciuto come lo stabile nucleo fondato su una
relazione omosessuale vanti un diritto alla protezione della
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vita familiare ai sensi dell’art. 8 della CEDU, e che da ciò
deriverebbe anche la possibilità di adire il giudice a tutela di
specifiche situazioni (è citata la sentenza della Corte di
cassazione, sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184).
Tale indirizzo giurisprudenziale sarebbe armonico rispetto
alle decisioni della Corte EDU (in particolare, alla sentenza
24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria). Sono, infine, richiamate anche le sentenze della Corte costituzionale
n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014, le quali avrebbero affermato la «rilevanza anche giuridica dell’unione omosessuale». D’altra parte - prosegue l’Avvocatura generale dello
Stato - la questione dell’adozione ad opera di persone singole e quella della relazione matrimoniale non suscettibile di
riconoscimento sarebbero contigue, ma non coincidenti,
aprendosi spazi per la soluzione dell’una indipendentemente
dalla disciplina della seconda. La giurisprudenza di merito
avrebbe già applicato l’art. 44, comma 1, lettera d), della
legge n. 184 del 1983 al caso dell’adozione, da parte di una
donna, della figlia naturale della sua compagna e coniuge, in
relazione ad un matrimonio celebrato all’estero (è citata la
sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma 30 luglio
2014, n. 299). La clausola dell’impossibilità dell’affidamento
preadottivo - se interpretata tale impossibilità come causata
da impedimenti di ‘‘diritto’’, oltreché da ostacoli ‘‘di fatto’’ sarebbe utilizzabile come «‘‘porta aperta’’ sui cambiamenti
che la nostra società ci propone». Tale soluzione si imporrebbe a maggior ragione nei casi in cui si tratti solo di
riconoscere un rapporto adottivo già istituito all’estero,
quando essa appaia corrispondere agli interessi del minore
preso in considerazione.
Non sarebbe, infine, d’ostacolo alla soluzione proposta la
decisione della Corte di cassazione secondo la quale non
potrebbero essere trascritti nei registri dello stato civile
provvedimenti esteri di adozione legittimante, se non con
riguardo a coniugi uniti in matrimonio (sezione prima civile,
14 febbraio 2011, n. 3572). In quel caso - sempre secondo
l’Avvocatura generale dello Stato - era stata rilevata la portata ostativa dell’effetto legittimante del provvedimento da
trascrivere, ma non era stata esclusa la possibilità di riconoscere l’adozione del singolo con effetti non legittimanti. E,
del resto, la Corte di cassazione avrebbe, in altra occasione,
ammesso finanche la possibilità di adozioni legittimanti, se
corrispondenti all’interesse del minore (è citata la sentenza
della sezione prima civile, 18 marzo 2006, n. 6078).
7.- In data 16 febbraio 2015 l’associazione Avvocatura per
i diritti LGBTI ha depositato «atto di costituzione e intervento nel giudizio di legittimità costituzionale», chiedendo
che le questioni sollevate dal Tribunale per i minorenni di
Bologna siano ritenute fondate. In apertura dell’atto, la citata Associazione riconosce che la giurisprudenza costituzionale tendenzialmente esclude l’ammissibilità dell’intervento
di soggetti che non siano parti del giudizio principale o
portatori di un interesse immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. È sollecitata, però,
un’apertura della giurisdizione costituzionale al contributo
di enti esponenziali volti alla tutela di diritti fondamentali
dei cittadini, come già avvenuto, in parte, grazie ad alcune
decisioni della Corte costituzionale (sono citate le sentenze
n. 45 del 2005, 76 del 2001 e 314 del 1992, nonché le
ordinanze n. 250 del 2007 e n. 389 e n. 50 del 2004). La
difesa e l’affermazione dei diritti delle persone omosessuali,
NGCC 9/2016
bisessuali e transessuali, anche con riguardo specifico a giudizi celebrati innanzi alle Corti nazionali e sovranazionali,
costituisce d’altra parte - osserva l’interveniente - uno specifico obiettivo statutario dell’Associazione.
L’atto di intervento prosegue con una diffusa esposizione
delle ragioni che imporrebbero il riconoscimento della sentenza statunitense cui si riferisce il giudizio principale, e
comunque esponendo le ragioni che dovrebbero indurre la
Corte costituzionale all’accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo.
I motivi. 1.- Il Tribunale per i minorenni di Bologna
solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35
e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore
ad una famiglia), «nella parte in cui - come interpretati
secondo diritto vivente - non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore
adottato (all’estero), il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del
coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio stesso abbia prodotto effetti in Italia (come per la fattispecie del matrimonio tra persone dello stesso sesso)», per
violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione,
quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il
4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848. Gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost. sarebbero
violati perché le disposizioni censurate determinerebbero
un’irragionevole compressione del diritto fondamentale del
minore alla conservazione del nucleo familiare in cui è stabilmente inserito. Le disposizioni censurate, inoltre, contrasterebbero con l’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14
della CEDU, nella parte in cui questi ultimi impediscono ad
un’autorità pubblica di interferire nella vita familiare - e, in
particolare, di ostacolare la vita familiare di un nucleo che si
è già formato - salvo che tale ingerenza sia prevista dalla
legge, persegua uno o più degli scopi previsti dalla norma
convenzionale, e sia necessaria, in una società democratica,
al fine di raggiungere tali finalità.
2.- In via preliminare, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento dell’associazione Avvocatura per i diritti
LGBTI. Tale associazione chiede che il suo intervento sia
dichiarato ammissibile, in quanto la difesa e l’affermazione
dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali,
anche con riguardo a giudizi celebrati innanzi alle Corti
nazionali e sovranazionali, costituisce uno specifico obiettivo statutario dell’associazione.
Non può che essere ribadito, tuttavia, il costante orientamento di questa Corte, secondo il quale non possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale i soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né
siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (ex plurimis, da ultimo, in relazione alla richiesta di intervento da
parte di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di
categoria, sentenze n. 221, n. 178 e n. 37 del 2015, n. 162
del 2014; ordinanze n. 156 del 2013 e n. 150 del 2012).
Nel caso in esame, appare evidente come la posizione
giuridica di tale associazione non risulti suscettibile di essere
pregiudicata in alcun modo dall’esito del giudizio di costituzionalità, in quanto il rapporto sostanziale dedotto in cau-
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Parte prima Sentenze commentate
sa concerne solo profili attinenti alla posizione dei soggetti
privati parti del giudizio a quo.
3.- La questione è inammissibile, non già per gli argomenti addotti dall’Avvocatura generale dello Stato, peraltro inconferenti rispetto alle questioni di legittimità costituzionale
sollevate, bensı̀ per le diverse ragioni di seguito illustrate.
3.1.- In primo luogo, trascurando di compiere una corretta
ricognizione del quadro normativo di riferimento, il Tribunale per i minorenni affronta in modo contraddittorio la
questione relativa all’esistenza della propria potestas iudicandi sulla fattispecie sottoposta a giudizio.
Nel suo iter logico-argomentativo, il giudice rimettente
opera, infatti, un immediato ma indistinto riferimento all’art. 41 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del
sistema italiano di diritto internazionale privato), in tema di
riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di
adozione.
L’articolo appena citato, tuttavia, nei suoi due commi,
prevede due ben diversi procedimenti per giungere a tale
riconoscimento.
Il comma 1 stabilisce, quale regola di carattere generale,
un riconoscimento ‘‘automatico’’ dei provvedimenti stranieri in materia di adozione, attraverso il rinvio agli artt. 64, 65
e 66 della medesima legge, relativi, rispettivamente, alle
sentenze straniere, ai provvedimenti stranieri e ai provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione.
Il comma 2, invece, stabilendo che «[r]estano ferme le
disposizioni delle leggi speciali in materia di adozione dei
minori», opera un riferimento alla disciplina contenuta nella legge n. 184 del 1983 e dunque, anzitutto, agli artt. 35 e
36 di tale legge, i quali prevedono che il riconoscimento in
parola sia subordinato ad un vaglio da parte del Tribunale
per i minorenni.
Il giudice a quo non distingue tra questi due diversi procedimenti di riconoscimento. Dapprima, infatti, egli afferma
che la sentenza statunitense di adozione - che è chiamato a
riconoscere - risponde a «tutte le condizioni di carattere
procedurale e processuale» previste dagli artt. 64, 65 e 66
della legge n. 218 del 1995, quelle a cui rinvia il comma 1
dell’art. 41 della medesima legge; immediatamente dopo,
però, aggiunge che l’adozione non può essere dichiarata
efficace in Italia perché non risponde ai requisiti previsti
dalla normativa interna in materia di adozione di minori,
in particolare, a quelli previsti agli artt. 35 e 36 della legge n.
184 del 1983, richiamati dal comma 2 del citato art. 41.
La contraddittorietà di tale percorso argomentativo risulta
evidente, poiché l’applicazione della legislazione speciale in
materia di riconoscimento della sentenza di adozione internazionale di minori - che richiede un previo vaglio giudiziale, ad opera del Tribunale per i minorenni - non può che
escludere il contemporaneo rinvio alle disposizioni ordinarie
sul riconoscimento ‘‘automatico’’ dei provvedimenti stranieri.
La giustificazione che il giudice a quo fornisce in ordine
all’esistenza della propria potestas iudicandi esibisce cosı̀ un
difetto di motivazione sulla rilevanza: se egli avesse ritenuto
che la sentenza straniera dovesse essere riconosciuta ‘‘in
modo automatico’’, ai sensi del comma 1 dell’art. 41 della
legge n. 218 del 1995, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda, poiché, in tale ipotesi, il provvedimento
straniero potrebbe essere direttamente presentato all’ufficia-
1176
le di stato civile per la trascrizione; se, invece, avesse adeguatamente motivato in ordine al fatto che la legge n. 218
del 1995 gli consentiva di svolgere un ‘‘giudizio’’ ai fini del
riconoscimento della sentenza di adozione pronunciata all’estero, avrebbe dovuto fare riferimento unicamente all’art.
41, comma 2, della legge n. 218 del 1995 e alle pertinenti
disposizioni della legge n. 184 del 1983.
3.2.- In realtà, richiamando la disposizione da ultimo citata, il giudice a quo ha erroneamente ritenuto applicabile al
caso oggetto del suo giudizio la disciplina in tema di riconoscimento delle sentenze di adozione internazionale di minori, riconducendo la fattispecie da cui origina il giudizio principale all’art. 36, comma 4, della legge n. 184 del 1983, che
estende il controllo giudiziale del Tribunale per i minorenni
ad una particolare ipotesi di adozione di minori stranieri in
stato di abbandono da parte di cittadini italiani.
Tale disposizione - relativa al riconoscimento di decisioni
di adozione assunte in Stati che risultano parti della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio
1993, ratificata e resa esecutiva con legge 31 dicembre 1998,
n. 476, o che abbiano stipulato specifici accordi bilaterali
con lo Stato italiano - stabilisce che «[l]’adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che dimostrino al momento della
pronuncia di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene
riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del
tribunale per i minorenni, purché conforme ai principi della
Convenzione».
Il rimettente, ricordando come la Corte di cassazione (sezione prima civile, 14 febbraio 2011, n. 3572) abbia ritenuto
che, anche in tale ipotesi, il giudice debba verificare se la
sentenza pronunciata all’estero contrasti con i «principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei
minori» - limite contenuto nel comma 3 dell’art. 35 - solleva le questioni di legittimità costituzionale in esame, assumendo che proprio quel limite impedirebbe il riconoscimento della sentenza pronunciata negli Stati Uniti d’America
come un’adozione in casi particolari del figlio del coniuge
(ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera b, della legge n. 184
del 1983) nell’ambito di una coppia dello stesso sesso.
Queste, dunque, le ragioni del sollevato dubbio di legittimità costituzionale, che, peraltro, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione coinvolge, nella loro interezza, gli artt.
35 e 36 della legge n. 184 del 1983; mentre, nella motivazione, si appunta soltanto sul comma 4 dell’art. 36 e sul
comma 3 dell’art. 35.
La fattispecie da cui ha avuto origine il giudizio di costituzionalità non è, però, correttamente riconducibile all’art.
36, comma 4, della legge n. 184 del 1983.
Il Tribunale per i minorenni di Bologna ritiene evidentemente determinante il fatto che la ricorrente sia - al momento del ricorso - cittadina italiana. Non considera, tuttavia, che, al momento dell’adozione, ella era solo cittadina
americana e che l’adozione pronunciata negli Stati Uniti
d’America nel 2004 riguardava una bambina di cittadinanza
americana. Ha quindi erroneamente ricondotto la fattispecie oggetto del proprio giudizio ad una disposizione - appunto il citato art. 36, comma 4 - volta ad impedire l’elusione,
da parte dei soli cittadini italiani, della rigorosa disciplina
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nazionale in materia di adozione di minori in stato di abbandono, attraverso un fittizio trasferimento della residenza
all’estero.
L’inadeguata individuazione, da parte del giudice rimettente, del contesto normativo determina, dunque, un’erronea qualificazione dei fatti sottoposti al suo giudizio, tale da
riverberarsi sulla rilevanza delle questioni proposte (ex plurimis, ordinanze n. 264 del 2015 e n. 116 del 2014).
P.Q.M.
La Corte Costituzionale dichiara l’inammissibilità delle
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36
della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad
una famiglia), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31
e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt.
8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il
4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, dal Tribunale per i minorenni di Bologna, con l’ordinanza indicata in epigrafe. (Omissis)
«Le sentenze straniere di stepchild adoption omogenitoriale. Il discrimine tra
automaticità del riconoscimento e giudizio di delibazione»
di Lucia Marzialetti*
La nota commenta la recente sentenza della Corte costituzionale n. 76/2016, che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal Tribunale dei minori di Bologna in ordine agli artt. 35 e 36 l. n.
184/1983, i quali non consentirebbero al giudice di valutare nel caso concreto se il riconoscimento del
vincolo di filiazione già costituito in un Paese straniero corrisponda al best interest of the child. La
sentenza, nonostante la pronuncia di inammissibilità, appare particolarmente interessante perché contribuisce a chiarire quale sia il rapporto tra norme generali di diritto internazionale privato e norme speciali in
materia di adozioni internazionali, attraverso la delimitazione dell’ambito di applicazione dell’art. 41 l. n.
218/1995 in tema di riconoscimento di un provvedimento straniero di adozione.
I. Il caso
X e Y sono due cittadine americane dello stesso sesso
che proseguono da oltre vent’anni una relazione di
convivenza stabile. Nel 2004, volendo costituire un
nucleo familiare più ampio, ricorrevano alle tecniche
di inseminazione artificiale per dare vita a due figli.
Subito dopo la nascita adottavano ciascuna il figlio
dell’altra, in forza di un procedimento giurisdizionale
svoltosi secondo le regole dello Stato dell’Oregon e a
garanzia del primario interesse del minore. Nel 2013 X
e Y contraevano regolare matrimonio nello Stato di
Washington, formalizzando la loro unione ad ogni effetto della legge statunitense. A seguito di un evento
luttuoso, la famiglia era costretta a trasferirsi a Bologna.
Una delle due donne, X, è, infatti, anche cittadina
italiana. Il soggiorno in Italia si protraeva più del previsto e X si rivolgeva al Tribunale per i minorenni di
Bologna per ottenere il riconoscimento del provvedimento di adozione pronunciato in Oregon, cosı̀ da
conferire la cittadinanza italiana anche alla minore Z
(figlia biologica di Y) e altresı̀ conseguire in Italia lo
status di genitore.
Il giudice adito qualificava il caso di specie come
ipotesi di riconoscimento di una sentenza di adozione
internazionale ex art. 36, comma 4º, l. n. 184/1983,
ritenendo determinante la circostanza secondo cui la
ricorrente fosse, al momento della domanda, cittadina
italiana. Il Tribunale osservava che, pur sussistendo
«tutti i presupposti per il riconoscimento della sentenza»,
era, tuttavia, di ostacolo all’esperibilità del procedimento di cui agli artt. 64 ss. l. n. 218/1995 la circostanza secondo cui l’adozione fosse «germinata da una
famiglia omogenitoriale», elemento che si porrebbe in
contrasto con il divieto di violazione dell’ordine pubblico come individuato dall’ordinamento nazionale.
Il giudice bolognese, quindi, rilevava ex officio il possibile contrasto degli artt. 35 e 36 l. n. 184/1983 con
gli artt. 2, 3, 30, 31, 117 Cost. - quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 Conv. eur. dir. uomo -, nella
parte in cui impediscono di valutare in qual modo nel
caso concreto possa essere realizzato l’effettivo interesse
del minore e quindi come possa essere salvaguardato il
diritto alla conservazione del nucleo familiare e alla
prosecuzione dei legami e degli affetti.
Il Giudice delle leggi ha ritenuto la questione inammissibile in considerazione della irrilevanza delle norme indicate dal Tribunale ai fini della decisione del
giudizio a quo, dal momento che dette norme non
erano applicabili alla concreta fattispecie in esame.
La sentenza appare particolarmente interessante, perché, nonostante la pronuncia di inammissibilità, contribuisce a chiarire quale sia il rapporto tra norme gene-
* Contributo pubblicato in base a referee.
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Parte prima Sentenze commentate
rali di diritto internazionale privato e norme speciali in
materia di adozioni internazionali, attraverso la delimitazione dell’ambito di applicazione delle due diverse tipologie di cui all’art. 41 l. n. 218/1995 in tema di
riconoscimento di un provvedimento straniero di adozione. Inoltre, sebbene la questione (correttamente)
non sia stata affrontata dalla Consulta, merita di essere
esaminato anche il tema della ammissibilità nell’ordinamento italiano delle sentenze straniere di stepchild adoption omogenitoriale in relazione al limite dell’ordine pubblico.
II. Le questioni
1. La corretta individuazione del quadro normativo di
riferimento. Il rapporto tra regole di diritto internazionale
privato e norme speciali in tema di adozioni internazionali.
Dopo aver ripercorso il ragionamento svolto dal giudice bolognese, la Corte esamina la questione di costituzionalità sollevata.
Con argomentazioni logiche e lineari (che forse si
contrappongono a quelle contraddittorie del giudice
remittente), la Corte dichiara la questione inammissibile seguendo un ragionamento che prende le distanze
da quello proposto dall’Avvocatura Generale dello
Stato, ritenendo le argomentazioni da questa addotte
«inconferenti rispetto alle questioni di legittimità sollevate».
Specificamente l’Avvocatura Generale, nel suo intervento, rimproverava al Tribunale bolognese di non
aver cercato una soluzione che fosse costituzionalmente orientata. Una siffatta soluzione poteva essere rintracciata, ad avviso dell’Avvocatura, nell’istituto di cui
all’art. 44, comma 1º, lett. d), l. n. 184/1983. La norma, infatti, essendo posta a chiusura del sistema (FERRANDO, 319, infra, sez. IV), si comporterebbe da clausola generale, consentendo l’adozione anche in tutti
quei casi in cui l’impossibilità dell’affidamento preadottivo derivi da ragioni di diritto. Sarebbe conseguentemente ammissibile da un lato l’adozione da parte di
persona singola e da parte di coppie same sex, dall’altro
il riconoscimento di una sentenza dello stesso tenore
pronunciata in un Paese straniero.
Giova ricordare, per completezza dell’esposizione,
che sul punto non vi è uniformità di pensiero in dottrina e in giurisprudenza.
Gli interpreti propongono, infatti, due diverse interpretazioni della norma suddetta. Una prima corrente
interpreta estensivamente i limiti posti dalla norma in
esame e ritiene che «la constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo» debba intendersi non solo come
impossibilità di fatto, ma anche come impossibilità di
diritto, la quale coinciderebbe con una generica impossibilità giuridica di procedere all’affidamento, dove,
purtuttavia, risulta nell’interesse del minore provvedere al riconoscimento di rapporti di genitorialità. Si
1178
rileva anzitutto che il dato letterale della norma non
prevede espressamente un limite fattuale alla impossibilità dell’affidamento, e che inoltre, «da un punto di
vista funzionale, una lettura restrittiva ostacolerebbe in
una molteplicità di situazioni il perseguimento dell’interesse del minore, che, invece, deve essere il principio
ispiratore anche dell’adozione in casi particolari», come peraltro ribadito dall’art. 57, comma 1º, n. 2, l. n.
184/1983 (SCALERA, 591, infra, sez. IV).
La lettura ampia dell’art. 44, comma 1º, lett. d), è
stata accolta anche da una giurisprudenza recente e che
guadagna sempre maggior credito (ex multis v. TRIB.
MIN. ROMA, 22.9.2015; APP. ROMA, 23.12.2015, entrambe infra, sez. III), al fine di garantire l’adozione a
vantaggio di minori che, pur non trovandosi in uno
stato di abbandono, abbiano, tuttavia, un interesse al
riconoscimento di legami genitoriali aggiuntivi (CORTE COST., 7.10.1999, n. 383, infra, sez. III).
A tale impostazione si contrappone l’interpretazione
restrittiva di quella dottrina che ritiene «palesemente
contra legem» una lettura estensiva dell’art. 44, comma
1º, lett. d). Si rileva che un’estensione dell’ambito di
applicazione della disciplina contrasterebbe con la funzione e la ratio della norma de qua, che è quella di
«evitare la ‘‘istituzionalizzazione’’ di un minore abbandonato e garantirgli comunque un rapporto genitoriale,
per quanto limitato sotto diversi profili, anche laddove
non si riesca a conseguire il risultato dell’adozione piena» (cfr. BILOTTI, Il riconoscimento, infra, sez. IV).
Inoltre, cosı̀ facendo, si correrebbe il rischio di un’indiscriminata apertura ad adozioni intese a sanare rapporti familiari di fatto precostituiti in altri ordinamenti
(TOMMASEO, 275, infra, sez. IV).
La Corte costituzionale, tuttavia, non scende nel
merito della questione, ritenendola irrilevante per la
soluzione del caso di specie, e anzi individua l’esistenza
di due precise motivazioni determinanti l’inammissibilità, entrambe originate dall’errata ricognizione del
quadro normativo di riferimento operata dal giudice
bolognese.
Il primo motivo di inammissibilità concerne il difetto di motivazione sulla rilevanza in ordine all’esistenza
della potestas iudicandi da parte del giudice a quo.
L’iter logico seguito dal Tribunale era viziato, ad avviso della Consulta, da un «indistinto riferimento» all’art. 41 l. n. 218/1995. Non era stato, infatti, tenuto
in considerazione il fatto che la norma disciplini due
diverse tipologie di riconoscimento: la tipologia di cui
al comma 1º, che racchiude una regola di carattere
generale e che prevede il riconoscimento automatico
dei provvedimenti stranieri di adozione attraverso il
rinvio agli artt. 64-67 della legge medesima; la tipologia prevista al comma 2º, che, invece, facendo salve le
disposizioni sulle leggi speciali in materia, rimanda agli
artt. 35 ss. della l. n. 184/1983, i quali prevedono un
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apposito procedimento di delibazione ad opera dell’organo interno.
Di talché, ove per la natura del provvedimento fosse
stato possibile procedere a riconoscimento ex artt. 64
ss. l. n. 218/1995, il giudice remittente avrebbe più
correttamente «dovuto dichiarare inammissibile la domanda di parte», perché il provvedimento è suscettibile di essere direttamente presentato all’ufficiale di
stato civile ai fini della trascrizione, e soltanto in caso
di diniego presentato davanti al Tribunale o alla Corte
di Appello competenti (art. 95 d.p.r. n. 396/2000 e art.
67 l. n. 218/1995). In caso contrario, ove si fosse trattato di adozione internazionale, allora il giudice a quo
avrebbe potuto esercitare un vaglio sul provvedimento
straniero di adozione come previsto dalla normativa.
Ne deriva logicamente che l’applicazione delle norme internazionali sul riconoscimento automatico del
provvedimento straniero non può che escludere il contemporaneo rinvio alle disposizioni speciali in materia,
e viceversa. Il legislatore, infatti, individua distintamente sia le autorità interne cui rivolgersi - in un caso
l’ufficiale di stato civile, nell’altro il tribunale dei minori - sia l’oggetto del controllo - nell’un caso la conformità all’ordine pubblico, nell’altro la non contrarietà ai «principi fondamentali che regolano nello Stato il
diritto di famiglia e dei minori» (art. 35, comma 3º, l.
n. 184/1983).
Ad avviso dei giudici costituzionali, invece, il Tribunale a quo non sembra aver colto la distinzione. È
evidente, infatti, dal testo dell’ordinanza di rimessione,
la volontà del giudice di ritenere applicabili al caso di
specie sia il comma 1º dell’art. 41 (in quanto il provvedimento risponderebbe a «tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale», tali da giustificare l’automaticità del riconoscimento), sia il comma 2º (rilevando, però, il mancato funzionamento del meccanismo poiché «l’adozione non risponde ai requisiti previsti
dalla normativa interna di adozione di minori»).
Appare palese, secondo la Corte, la contraddittorietà
del percorso argomentativo.
La fattispecie è, infatti, riconducibile alla tipologia di
riconoscimento di cui al comma 1º dell’art. 41 l. n.
218/1995, trattandosi di un’adozione ‘‘interna ad uno
Stato straniero’’ e non di un’adozione ‘‘internazionale’’.
Il secondo motivo di inammissibilità interessa l’erronea applicazione al caso di specie della disciplina in
tema di riconoscimento di sentenza di adozione internazionale di minori.
L’errore deriva, ad avviso dei giudici costituzionali,
dall’aver ricondotto la fattispecie nell’alveo dell’art.
36, comma 4º, l. n. 184/1983 - che disciplina l’ipotesi
di adozione di minori stranieri in stato di abbandono
da parte di cittadini italiani - sulla base della circostanza, determinante per il giudice a quo, che la ricorrente
fosse al momento della domanda anche cittadina italiana.
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La fattispecie, sostiene la Consulta, «non è però riconducibile all’art. 36, comma 4º, l. n. 184/1983».
Il caso di specie presenta, infatti, elementi di estraneità che valgono a giustificare l’applicazione al provvedimento straniero di adozione del complesso normativo di cui all’art. 41, comma 1º, l. n. 218/1995, e
dunque degli artt. 64 ss. della medesima legge.
Il provvedimento è stato, infatti, reso a favore di e tra
cittadine americane, e, poiché ai fini della qualificazione della fattispecie deve rilevare non il momento di
proposizione della domanda, ma il momento della pronuncia di adozione, ne discende la conseguente applicazione della normativa ordinaria sul riconoscimento
di provvedimenti interni a Stati stranieri.
Diversa è, inoltre, la ratio posta a base delle due
normative: mentre l’art. 36, comma 4º, l. n. 184/
1983 si propone di scoraggiare il ricorso a pratiche
elusive della rigorosa normativa attraverso un fittizio
trasferimento all’estero da parte di cittadini italiani
(elusività che non può rintracciarsi nel caso di specie),
gli artt. 64 ss. l. n. 218/1995, invece, intendono favorire la continuità delle situazioni giuridiche validamente costituite in ordinamenti stranieri.
È stata questa confusa ricognizione del contesto normativo da parte del Tribunale ad aver determinato, ad
avviso del Giudice delle leggi, il difetto di rilevanza
delle questioni sollevate, e quindi la loro inammissibilità.
Si segnala che tra i commentatori dell’ordinanza di
rimessione del Tribunale di Bologna, una parte degli
interpreti aveva già paventato la possibilità di una
pronuncia di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza: alcuni correttamente rilevando che
l’applicazione delle norme internazionali sul riconoscimento automatico del provvedimento straniero (art.
41, comma 1º, l. n. 218/1995) non poteva che escludere il contemporaneo rinvio alle disposizioni speciali
in materia (art. 41, comma 2º, l. n. 218/1995) (cfr.
BILOTTI, Il riconoscimento) - ricostruzione peraltro fatta
propria dalla stessa Corte Costituzionale nella pronuncia in commento; altri sulla base del diverso argomento
secondo cui al Tribunale remittente residuasse in realtà
una valutazione della corretta sussistenza dell’interesse
del minore al riconoscimento, in quanto «l’oggetto del
giudizio era l’adozione da parte di una single», fattispecie da cui, per analogia, potevano desumersi criteri e
canoni applicativi per il riconoscimento del provvedimento di adozione (GATTUSO, infra, sez. IV).
Altri annotatori dell’ordinanza di rimessione, invece,
superando le questioni pregiudiziali di rito, avevano
messo in evidenza esclusivamente il «ruolo che l’interesse del minore doveva avere quale controlimite rispetto ai divieti di genitorialità sul piano interno»
(FERRARI, 392 ss., infra, sez. IV), e, ritenendo la disciplina legislativa italiana censurabile in quanto comportante un «sacrificio integrale della relazione tra minore
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Parte prima Sentenze commentate
e ricorrente» (LOCCHI, infra, sez. IV), auspicavano
l’accoglimento da parte della Consulta della questione
di illegittimità sollevata.
2. L’ammissibilità dei provvedimenti stranieri di stepchild
adoption omogenitoriale nell’ordinamento italiano alla
luce del canone dell’ordine pubblico.
Nell’ordinanza che rimetteva la questione alla Corte
Costituzionale, il giudice a quo dubitava altresı̀ della
legittimità costituzionale della normativa italiana nella
misura in cui l’ordine pubblico, presidiando all’unicità
del modello familiare italiano, non permetteva la valutazione del best interest of the child nel caso concreto.
Il giudice, tuttavia, non rimettendo specificamente
alla valutazione della Consulta anche detta questione,
rendeva ex lege impraticabile una pronuncia sul punto.
Infatti, la circostanza per cui la questione fosse inammissibile sulla base di motivi prettamente di diritto,
non permetteva alla Corte di vagliare nel merito il
rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
Appare, tuttavia, opportuno, interrogarsi sulla conciliabilità del provvedimento straniero di adozione
omogenitoriale con l’ordinamento italiano alla luce
del principio dell’ordine pubblico.
In via preliminare occorre ricordare che, secondo il
costante insegnamento della Supr. Corte, l’ordine pubblico preso in considerazione ai fini internazional-privatisitci è quello internazionale, inteso come limite
che gli ordinamenti interni pongono all’ingresso di
provvedimenti e norme straniere, e che deve comporsi
sia dei valori condivisi dalla comunità internazionale
sia dei principi esclusivamente propri, purché fondamentali e irrinunciabili. Solo cosı̀ l’eccezione di ordine
pubblico può conservare quel ruolo di filtro e garanzia
della coerenza interna dell’ordinamento, e non di mero
giudizio di valore (v. CASS., 6.12.2002, n. 17349;
CASS., 26.11.2004, n. 22332; CASS., 22.8.2013, n.
19405; CASS., 11.11.2014, n. 24001; tutte infra, sez.
III).
In ordine alle risposte fornite al quesito di cui sopra si
segnala una recente sentenza della Corte di Appello di
Milano (APP. MILANO, 16.10.2015, infra, sez. III). La
questione sottoposta al giudizio del Collegio concerneva una fattispecie analoga a quella posta davanti al
Tribunale bolognese, tuttavia, i giudici milanesi proponevano una soluzione diversamente argomentata.
Fin da subito veniva pronunciata la non contrarietà
all’ordine pubblico dell’adozione omogenitoriale posta
in essere nello Stato straniero, ritenendo che, alla luce
del quadro normativo, «in un sistema plurale, di cui e‘
partecipe il nostro ordinamento, non può ignorarsi la
sinergia che proviene dall’interazione delle fonti sovranazionali con quelle nazionali».
La pronuncia si distingue per la novità delle argomentazioni. La Corte non riteneva l’adozione non
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contraria all’ordine pubblico in ragione della supremazia del best interest of the child, ma, separando le due
questioni, pronunciava due autonome statuizioni.
Da un lato reputava l’adozione conforme ad ordine
pubblico in via autonoma, alla luce della normativa di
riferimento, dall’altro riteneva il riconoscimento del
provvedimento posto al suo esame altresı̀ rispondente
al miglior interesse del minore. Rilevava il Collegio
che il principio in parola è radicato nel nostro ordinamento (art. 3 Conv. dir. fanciullo 1989; art. 24 della
Carta dir. UE; artt. 8 e 14 della Conv. eur. dir. uomo;
art. 23 del reg. CE n. 2201/2003; l’art. 25 l. n. 184/
1983) ed è posto a garanzia del rispetto del diritto del
minore alla stabilità della vita familiare, a prescindere
dalla composizione del nucleo parentale. Infatti, come
la Cassazione ha recentemente affermato, «costituisce
mero pregiudizio ritenere che sia dannoso per l’equilibrato
sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia
incentrata su una coppia omosessuale» (CASS.,
11.1.2013, n. 601, infra, sez. III). Il best interest of the
child potrebbe allora «limitare la possibilità degli Stati
di chiudersi al riconoscimento di sentenze straniere di
adozione, quando il rifiuto di concedere l’exequatur
della sentenza costituisce un’interferenza con il diritto
alla vita familiare protetto dall’art. 8 Conv. eur. dir.
uomo - interferenza di cui andrà valutata la legittimità» (cfr. LOCCHI, infra, sez. IV).
Sullo stesso tema, più recentemente, bisogna tener
conto anche della pronuncia della Corte di Appello di
Napoli, che ha specificato e delimitato l’area di intervento del giudice nazionale. Il Collegio in tale sede
precisava che la valutazione dei presupposti dell’adozione compete interamente all’organo (straniero) cui
l’adozione è richiesta, sicché al giudice italiano spetta il
solo esame della conformità ad ordine pubblico del
provvedimento reso. Egli, infatti, non deve compiere
nuovamente una valutazione dei presupposti della pronunciata decisione alla luce dei principi nazionali, ma
solo valutarne gli effetti in tema di consonanza con
l’armonia interna (APP. NAPOLI, 5.4.2016, infra, sez.
III).
Emerge, dunque, sia in dottrina sia in giurisprudenza,
la tendenza a riconoscere che l’ordine pubblico internazionale non possa costituire un ostacolo alla trascrizione di provvedimenti stranieri di adozione coparentale in coppia omogenitoriale, alla luce soprattutto
della tutela dell’affidamento dei singoli rispetto alla
conservazione e continuazione di diritti già acquisiti.
Una parte della dottrina auspica che in questa materia
il limite dell’ordine pubblico non assuma il concreto
significato di una misura nazionale che impedisca gli
effetti della libertà di circolazione - che i soggetti esercitano nell’accedere ad una disciplina vigente in un
altro ordinamento - e quindi non si sottragga ad un
giudizio di legittimità internazionale alla luce dei ca-
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Sentenze commentate Parte prima
noni di proporzionalità e ragionevolezza (CAGGIA,
699, infra, sez. IV).
In senso contrario si pongono, invece, quegli interpreti che ritengono fondamentale in materia un ricorso
rigoroso all’eccezione di ordine pubblico, quale strumento di garanzia e salvaguardia della coerenza e dell’armonia dell’ordinamento nazionale.
Il ragionamento muove dalla considerazione secondo
cui «la possibilità di impedire il riconoscimento e l’attuazione in Italia di sentenze e provvedimenti stranieri
che siano considerati produttivi di effetti contrari all’ordine pubblico» si pone a garanzia dell’ordinamento
italiano e dei principi nazionali informatori del diritto
di famiglia, di talché «non sembra invero dubitabile
che il riconoscimento di stepchild adoption da parte di
coniuge same sex del genitore biologico dell’adottato
sia in grado di turbare l’armonia interna dell’ordinamento nazionale» (BILOTTI, Il riconoscimento). Non
potendosi in Italia dar vita ad un rapporto di coniugio
tra persone dello stesso sesso, l’accesso alla stepchild
adoption è a priori irrimediabilmente precluso. Emergerebbe, inoltre, dal dato normativo un’opinione del legislatore contraria alla omogenitorialità, a garanzia del
diritto del minore ad un rapporto parentale formato da
due figure genitoriali «distinte e complementari». Il
riconoscimento della pronuncia straniera di adozione
omogenitoriale, quindi, «finirebbe inevitabilmente per
turbare l’armonia del sistema, introducendo in esso una
nota dissonante».
Nel caso di specie l’eccezione di ordine pubblico
avrebbe l’ulteriore funzione di evitare una inaccettabile discriminazione tra situazioni simili. Infatti, riconoscere il provvedimento straniero di adozione significherebbe attribuire giuridica rilevanza ad una situazione di adozione in contesto omogenitoriale, ancorché
previamente costituitasi in un diverso Stato. Ne deriva
che per evitare l’effetto discriminatorio tra la prosecuzione di un rapporto giuridicamente rilevante già costituitosi e la creazione nell’ordinamento italiano di
uno stesso rapporto sostanziale, dovrebbe conseguentemente accettarsi nell’ordinamento la possibilità di costituzione ex novo di un rapporto adottivo omogenitoriale, con le inammissibili conseguenze che ne deriverebbero.
In tal modo, infatti, il riconoscimento dell’omogenitorialità avverrebbe per vie traverse e surrettiziamente
ad opera della giurisprudenza.
III. I precedenti
1. La corretta individuazione del quadro normativo di
riferimento. Il rapporto tra regole di diritto internazionale
privato e norme speciali in tema di adozioni internazionali.
In riferimento all’individuazione della corretta normativa da applicare al procedimento di riconoscimen-
NGCC 9/2016
to di un provvedimento straniero di adozione omogenitoriale, unico precedente giurisprudenziale sembra
essere APP. MILANO, 16.10.2015, in www.articolo29.it,
la quale inquadra la fattispecie in esame (richiesta di
trascrizione dell’adozione omogenitoriale pronunciata
in Stato straniero a favore di X nei confronti del minore figlio biologico del coniuge) nell’ambito dell’art.
41, comma 1º, l. n. 218/1995, ritenendo di doversi
procedere a riconoscimento automatico di cui agli artt.
64 ss. l. n. 218/1995. Il Collegio dichiara, quindi, l’efficacia nella Repubblica italiana dell’ordinanza di adozione e ordina all’ufficiale di stato civile di procedere
alla trascrizione del provvedimento, poiché l’adozione
è ritenuta non contraria al canone dell’ordine pubblico.
In merito all’estensione dell’ambito di applicazione
dell’art. 44, comma 1º, lett. d), l. n. 184/1983 - e
limitatamente alla parte che in questa sede rileva - si
segnala una pronuncia della Corte costituzionale, la
quale per la prima volta ha rilevato che quando il
minore gode già di vincoli parentali idonei, al fine di
correttamente applicare il disposto di cui alla lett. c) odierna lett. d) - non è necessaria la constatazione
della impossibilità di un affidamento diverso da quello
in atto, perché la ratio della norma è quella di favorire
il consolidamento di rapporti preesistenti mediante
un’adozione effettiva, ancorché limitata negli effetti
(CORTE COST., 7.10.1999, n. 383, in www.giurcost.org). Sul tema anche TRIB. MIN. ROMA, 22.9.2015
e APP. ROMA, 23.12.2015, entrambe in www.articolo29.it. Altresı̀ si segnala la recente CASS., 26.5.2016,
n. 12962, supra, parte I, p. 1135, con commento in
parte II di G. FERRANDO, p. 1213, che ha respinto il
ricorso del procuratore generale avverso la pronuncia
della Corte di Appello di Roma (APP. ROMA,
23.12.2015, cit.), confermando, quindi, l’accoglimento
della domanda di adozione di una minore proposta
dalla partner della madre. La Supr. Corte ha spiegato
che l’adozione nei casi particolari prescinde da un
preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice caso per caso, realizzi
effettivamente il preminente interesse del minore.
2. L’ammissibilità dei provvedimenti stranieri di stepchild
adoption omogenitoriale nell’ordinamento italiano alla
luce del canone dell’ordine pubblico.
La Corte eur. dir. uomo si è pronunciata sulla possibilità di far valere l’eccezione di ordine pubblico stabilendo che il margine di discrezionalità lasciato agli
Stati al fine di proteggere i confini dei propri princı̀pi
fondamentali deve arrestarsi laddove vengano in rilievo aspetti fondamentali dell’identità degli individui e
dell’interesse superiore del minore (v. CORTE EUR.
DIR. UOMO, 26.6.2014, ricc. 65192/11 e 65941/11,
1181
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Parte prima Sentenze commentate
Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia; CORTE
27.1.2015, ric. n. 25358/12, Paradiso
e Campanelli c. Italia, reperibili sul sito www.echr.coe.int). Nel panorama italiano sul tema si v. CASS.,
6.12.2002, n. 17349, in Arch. civ., 2003, 1081; CASS.,
26.11.2004, n. 22332, in Mass. Giur. Lav., 2005, 6,
457, con nota di FRANZA; CASS., 22.8.2013, n. 19405,
in Foro it., 2014, I, 2898; CASS., 11.11.2014, n. 24001,
in questa Rivista, 2015, I, 235, con nota di BENANTI.
Sul contenuto dell’interesse del minore, ex plurimis v.
CORTE COST., 23.2.2012, n. 31, in Giur. cost., 2012,
384; TRIB. MIN. BOLOGNA, 21.3.2102, in www.articolo29.it, 18.9.2014, con nota di BATTAGLIA. In merito
alla non contrarietà con l’ordine pubblico del riconoscimento di sentenza straniera di stepchild adoption
omogenitoriale, v. CASS., 11.1.2013, n. 601, in Giur.
it., 2013, 1038 ss., con nota di WINKLER; APP. MILANO, 16.10.2015, in www.articolo29.it, 10.12.2015;
APP. NAPOLI, 5.4.2016, in Ilfamiliarista.it, 11.4.2016.
Per una valutazione opposta e contraria, che ritiene
il rapporto di coniugio quale presupposto per l’adozione e conseguentemente la violazione del principio dell’ordine pubblico in presenza di un’adozione in contesto omegenitoriale, v. CASS., 18.3.2006, n. 6078, in
Dir. e giust., 2006, fasc. 16, 12; CASS., 14.2.2011, n.
3572, in Fam e dir., 2011, 701, con nota di ASTONE;
TRIB. MIN. PIEMONTE E VALLE D’AOSTA, 11.9.2015,
n. 258, in questa Rivista, 2016, I, 205, con nota di
NOCCO.
EUR. DIR. UOMO,
del partner e omogenitorialità tra interpretazione del diritto
vigente e prospettive di riforma, in Fam. e dir., 2016, 589;
TOMMASEO, Sul riconoscimento dell’adozione piena avvenuta all’estero, del figlio del partner di una coppia omosessuale, ibidem, 275 ss.; BILOTTA, Omogenitorialità,
adozione e affidamento famigliare, in Dir. fam. e pers.,
2011, 1398 ss. Per un’analisi critica v. anche MIOTTO,
Stepchild adoption omoparentale ed interesse del minore,
in Dir. civ. cont., 5.6.2015.
Per le opinioni dei commentatori dell’ordinanza di
rimessione bolognese e in particolare sulla infondatezza
della questione di illegittimità sollevata, v. BILOTTI, Il
riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri di stepchild adoption da parte del coniuge same sex del genitore
biologico: Il Tribunale per i minorenni di Bologna solleva la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36
della legge 184/1983, in Dir. civ. cont, I, 3, 2014; GATTUSO, Adozione negli U.S.A. da parte della co-madre: il
Tribunale minori di Bologna invia gli atti alla Corte Costituzionale, in www.articolo29.it, 12.11.2014.
Per diverse valutazioni sullo stesso punto v. FERRARI,
I legami omogenitoriali formatisi all’estero all’esame del
giudice delle leggi: come tutelare l’interesse del minore, in
questa Rivista, 2015, I, 387; LOCCHI, Di cosa parliamo
quando parliamo di best interest of the child: l’adozione
coparentale nell’ambito di una coppia omosessuale al vaglio
della Corte Costituzionale, nota a Trib. min. Bologna,
ord. 10.11.2014, in www.diritticomparati.it, 2014,12;
SCALISI, Le stagioni della famiglia nel diritto dall’unità
d’Italia ad oggi, in Riv. dir. civ., 2013, 1296 ss.
IV. La dottrina
1. La corretta individuazione del quadro normativo di
riferimento. Il rapporto tra regole di diritto internazionale
privato e norme speciali in tema di adozioni internazionali.
Per un’approfondita analisi in merito alla disciplina
delle adozioni internazionali, nella letteratura più recente v. ORLANDI, Le adozioni internazionali in Italia,
Giuffrè, 2006, 323 ss., 443-467, 509-515, 520-522;
BISIO, L’adozione internazionale di minori, Giuffrè,
2009, 87-92, 109-118. Sulla procedura di automatico
riconoscimento, PIZZOLANTE, Le adozioni nel diritto internazionale privato, Cacucci, 2008, 175-288.
Sul tema v. anche DAVÌ, voce ‘‘Adozione nel diritto
internazionale privato’’, nel Dig. IV ed., Disc. priv., sez.
civ., 1996, II, 385; ATTARDI, La nuova disciplina in tema
di giurisdizione italiana e di riconoscimento delle sentenze
straniere, in Riv. dir. civ., 1995, 6; BALLARINO, Manuale breve di diritto internazionale privato, Cedam, 2002,
180 ss; BONOMI, La disciplina dell’adozione internazionale
dopo la riforma del diritto internazionale privato, in Riv.
dir. civ., 1996, II, 385.
Per una ricostruzione del dibattito in dottrina in
ordine alla portata dell’art. 44, comma 1º, lett. d), l.
n. 184/1983 v. SCALERA, Adozione incrociata del figlio
1182
2. L’ammissibilità dei provvedimenti stranieri di stepchild
adoption omogenitoriale nell’ordinamento italiano alla
luce del canone dell’ordine pubblico.
Sul concetto di ordine pubblico e sulla sua estensione, v. ORLANDI, Le adozioni internazionali, cit., 318 s.;
FERACI, L’ordine pubblico nel diritto dell’Unione Europea,
Giuffrè, 2012, 11 ss.; C. IRTI, Digressioni attorno al
mutevole ‘‘concetto’’ di ordine pubblico, in questa Rivista,
2016, II, 481. Sulla funzione dell’eccezione di ordine
pubblico quale limite al riconoscimento di sentenze
straniere, v. MOSCONI, Diritto internazionale privato e
processuale. Parte generale e contratti, 7 ed., Utet, 2002,
100 ss.
Sul contemperamento dell’eccezione di ordine pubblico con gli altri principi fondamentali, sempre ORLANDI, op. cit., 317 ss.; CAGGIA, La convivenza, in
Diritto della famiglia, a cura di PATTI e CUBEDDU, Giuffrè, 2011, 683 ss.; RESCIGNO, Relazione introduttiva, nel
Convegno dell’Unione dei civilisti italiani ‘‘Giurisprudenza per principi e autonomia privata’’, tenutosi nell’Università degli Studi Roma Tre, 2015; MOROZZO DELLA ROCCA, La riforma dell’adozione internazionale, Utet,
1999, 87 ss., contro un uso «eccessivamente disinvolto
della clausola di ordine pubblico»; LOCCHI, Di cosa
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Sentenze commentate Parte prima
parliamo, cit.; FERRANDO, Diritti delle persone e comunità familiare nei recenti orientamenti della Corte Europea
dei diritti dell’uomo, in Fam. pers. e succ., 2012, 284 ss.;
CAMARDI, Diritti fondamentali e status della persona, in
Riv. crit. dir. priv., 2015, 31 ss.
Sull’irrilevanza dell’omosessualità e dell’identità di
sesso rispetto all’idoneità genitoriale v. FANTETTI, Il
diritto degli omosessuali di vivere liberamente una condizione di coppia, in Fam. pers. e succ., 2012, 857 ss.; LONG,
L’adozione in casi particolari del figlio del partner dello
stesso sesso, in questa Rivista, 2015, I, 117 ss.; RUO,
A proposito di omogenitorialità adottiva, in Fam. e dir.,
2015, 580 ss.
In senso opposto sulla contrarietà all’ordine pubblico
dell’adozione omogenitoriale, v. TOMMASEO, Sul riconoscimento, cit., 275 ss.; BILOTTI, Il riconoscimento in
Italia, cit.; sempre ID., L’adozione semplice del figlio del
convivente (dello stesso sesso), in Nuovo dir. civ., 2016,
in corso di pubblicazione.
Per una riforma dell’istituto dell’adozione, MORACE
PINELLI, Per una riforma dell’adozione, in Fam. e dir.,
2016, 7, 719 ss.; SCALERA, Adozione incrociata, cit.,
589 ss.
n Ipoteca
CASS. CIV., III sez., 5.4.2016, n. 6533 – AMENDOLA Presidente – CARLUCCIO Relatore – FUZIO P.M. (concl.
diff.). – T.M. (avv. Gargano) – Banca popolare di X soc. coop. Per azioni (avv. Laterza) – Cassa App. Bari,
28.6.2012
IPOTECA – IPOTECA GIUDIZIALE – DIRITTO DI CREDITO RIVELATOSI INESISTENTE – SPROPORZIONE RISPETTO
AL CREDITO – DIFETTO DI NORMALE DILIGENZA NELLA ISCRIZIONE ECCESSIVA – ABUSO DEL DIRITTO DELLA
GARANZIA PATRIMONIALE – RESPONSABILITÀ EX ART. 96, COMMA 2º, COD. PROC. CIV. – SUSSISTENZA (Cost.,
art. 111; cod. proc. civ., art. 96; cod. civ., artt. 2740, 2828, 2875, 2876, 2877)
Nell’ipotesi in cui risulti l’inesistenza del diritto di credito, è configurabile, in capo al creditore, la responsabilità ex art. 96, comma 2º, cod. proc. civ., quando egli non abbia usato la normale diligenza nell’iscrivere
ipoteca giudiziale sui beni per un valore proporzionato rispetto al credito garantito, secondo i parametri
individuati agli artt. 2875 e 2876 cod. civ., cosı̀ ponendo in essere, mediante l’eccedenza del valore dei beni
rispetto alla cautela, un abuso del diritto della garanzia patrimoniale in danno del debitore.
Il fatto. 1. La Banca Popolare di X, nel maggio del 1997,
ottenne decreto ingiuntivo in danno di T.M. e della moglie,
quale garante, per l’importo di quasi 105 milioni di lire per
saldi passivi di conto corrente bancario, oltre interessi, e
iscrisse ipoteca giudiziale, per 150 milioni di lire sull’intero
patrimonio immobiliare, facente parte della impresa del debitore finalizzata alla costruzione e vendita di immobili.
L’opposizione al decreto ingiuntivo, nel corso della quale
intervenne E. quale cessionaria del credito, venne accolta
dal Tribunale; ma, venne rigettata la domanda di danni ex
art. 96 c.p.c. proposta dall’opponente (sentenza del 2004).
L’impugnazione proposta da T., relativa solo alla domanda ex art. 96 c.p.c., venne rigettata dalla Corte di appello di
Bari (sentenza del 28 giugno 2012).
2. Avverso la suddetta sentenza, M.T. propone ricorso per
cassazione affidato a tre motivi, esplicati da memoria.
La banca Popolare di X resiste con controricorso.
E., ritualmente intimata, non si difende.
I motivi. 1. La Corte di merito, rilevato che con l’appello
l’originario opponente aveva censurato la sentenza, tra l’altro, per non aver tenuto conto che l’ipoteca giudiziale era
stata iscritta su tutti i beni aziendali, del valore di oltre 3
milioni di Euro, cosı̀ determinando la cessazione della propria attività imprenditoriale, ha argomentato il rigetto sulla
base delle seguenti essenziali argomentazioni.
a) Per l’affermazione della responsabilità ex art. 96, secon-
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do comma, deve essere accertata l’inesistenza del credito
vantato in giudizio e il difetto della normale prudenza nell’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.
L’inesistenza del credito azionato risulta dalla sentenza di
primo grado, non impugnata sul punto; occorre stabilire se
la banca, iscrivendo l’ipoteca nel maggio 1997, abbia agito
senza la normale prudenza.
b) Il risultato dell’indagine è negativo poiché l’inesistenza
del credito azionato non era sufficientemente probabile e
prevedibile al momento della richiesta di iscrizione. Infatti,
il credito era relativo a saldi passivi di conto corrente, acceso
nel 1982, e derivava dalla applicazione di clausole uso piazza
che prevedevano la capitalizzazione trimestrale degli interessi. All’epoca, nel 1997, la giurisprudenza non era concorde
nell’affermare l’invalidità di tali clausole. Non sussiste, pertanto, neanche la colpa lieve in capo al creditore procedente all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.
c) L’esclusione della colpa lieve esclude l’applicabilità del
primo comma dell’art. 96 c.p.c., che richiede la colpa grave
e il dolo.
d) Comunque, secondo la giurisprudenza di legittimità, il
creditore che abbia iscritto ipoteca per una somma esorbitante o su beni eccedenti l’importo del credito vantato, non
può essere chiamato, per ciò solo, a rispondere a titolo di
responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, secondo comma, c.p.c.; restando possibile, peraltro, configurare a carico
1183
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Parte prima Sentenze commentate
del medesimo una responsabilità processuale a norma dell’art. 96, primo comma c.p.c., qualora egli abbia resistito alla
domanda di riduzione dell’ipoteca con dolo o colpa grave.
Domanda, nella specie, non presentata.
2. Con il primo motivo, si deduce la violazione degli artt.
96 c.p.c. e 2043 c.c., nonché omessa motivazione in ordine
al comportamento temerario tenuto della Banca, quantomeno, nel corso del giudizio. Con il secondo motivo, si deducono vizi motivazionali per omessa e contraddittorietà della
motivazione in riferimento al mancato esperimento della
domanda di riduzione di ipoteca.
Con il terzo motivo, si deduce violazione dell’art. 96
c.p.c., nonché la violazione di tutti i vizi motivazionali in
ordine alla esistenza della prova documentale del danno.
2.1. I primi due motivi sono strettamente collegati, e
vanno esaminati congiuntamente.
Il fondo della censura, rivolta alla sentenza impugnata, si
sostanzia nella critica: - di aver fatto applicazione della giurisprudenza di legittimità che riconosce l’applicabilità dell’art. 96 primo comma c.p.c. nel caso di resistenza in giudizio
per la riduzione di ipoteca, sempre se si sia in presenza di
dolo o di colpa grave; - di non aver considerato, ai fini della
applicabilità del secondo comma dello stesso articolo, che
richiede solo la normale prudenza e, quindi, la colpa lieve, il
comportamento del creditore, qualificabile come abuso del
diritto, come eccesso dei mezzi di tutela, quando iscrive
ipoteca giudiziale su beni eccedenti di molto l’importo del
credito vantato e persiste a non addivenire ad un accordo
sulla restrizione dell’iscrizione a una parte soltanto dei beni;
tanto, nonostante, nel corso del giudizio fosse emersa, tramite la consulenza tecnica, l’inesistenza del credito e l’esorbitanza dei beni ipotecati rispetto al credito vantato. Esigenza di restrizione dei beni che il debitore aveva rappresentato,
nel corso di processo, con la richiesta, ex art. 700 c.p.c., che
era stata rigettata.
La censura va accolta.
3. La questione posta all’attenzione della Corte è ‘‘se,
nell’ipotesi in cui - come nella specie - risulti accertata
l’inesistenza del diritto per cui è stata iscritta ipoteca giudiziale e la normale prudenza del creditore nel procedere all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, sia o meno configurabile
in capo al suddetto creditore la responsabilità ex art. 96,
secondo comma c.p.c., per non aver egli usato la nomale
diligenza nell’iscrivere ipoteca su beni di valore sproporzionato rispetto al credito garantito, con conseguente eccedenza del valore dei beni rispetto alla cautela e abuso del diritto
della garanzia patrimoniale’’.
Il Collegio ritiene che al quesito debba darsi risposta positiva, nonostante un consolidato orientamento della Corte
di segno contrario. Tanto, in ragione delle linee di sviluppo
della giurisprudenza che, alla luce di principi costituzionali,
ha attribuito sempre maggior valenza al tema dell’abuso del
diritto, in particolare processuale, anche in collegamento
con la ragionevole durata del processo ai sensi dell’art.
111 Cost.
4. Costituisce principio tradizionale e consolidato nella
giurisprudenza di legittimità (dagli anni sessanta del secolo
scorso, cfr. Cass. n. 311 e 529 del 1967 e sino ad anni a noi
vicini, cfr. da ultimo, Cass. n. 17902 del 2010) quello secondo cui ‘‘Il creditore che abbia iscritto ipoteca per una
somma esorbitante o su beni eccedenti l’importo del credito
1184
vantato non può essere chiamato, per ciò solo, a risponderne
a titolo di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., restando possibile, peraltro,
configurare a carico del medesimo una responsabilità processuale a norma dell’art. 96, primo comma, cod. proc. civ.,
qualora egli abbia resistito alla domanda di riduzione dell’ipoteca, con dolo o colpa grave’’.
La ratio, ripetuta - anche rispetto a fattispecie nelle quali
non si era in presenza di un accertamento di inesistenza del
credito sopravvenuto alla iscrizione (cfr. Cass. nn. 17902 e
13107 del 2010; n. 16308 del 2007) - ha il suo epicentro
negli art. 2740 e 2828 c.c. Si sostiene che non è ravvisabile
illiceità nel comportamento del creditore che abbia iscritto
ipoteca su beni di valore eccedente l’importo del credito,
atteso che: - da un lato l’art. 2740 c.c. fissa il principio che il
debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri; - dall’altro l’art. 2828 c.c.
abilita il creditore ad iscrivere ipoteca su qualunque immobile del debitore. Si trova conferma nell’art. 2877 c.c. che,
nel disciplinare le spese per eseguire la riduzione di ipoteca
acconsentita dal creditore le pone a carico del richiedente, e
quindi del debitore che l’abbia domandata, quando la riduzione è stata chiesta adducendo il valore eccedente dei beni
compresi nella iscrizione rispetto alla cautela. Mentre, pone
le stesse spese a carico del creditore solo se la richiesta di
riduzione attiene all’eccesso nella determinazione del credito, con la conseguenza che non sarebbe possibile ammettere
una responsabilità per danni a favore del debitore, posto che
la stessa legge stabilisce espressamente (art. 2877, primo
comma c.c.) che, persino, le spese sostenute nella procedura
di riduzione consensuale devono essere sostenute dal debitore (cfr., in particolare, Cass. n. 4968 del 2001).
Contemporaneamente, si riconosce la possibilità che, in
applicazione della previsione generale, di cui al primo comma dello stesso art. 96, secondo la quale risponde di responsabilità processuale chi agisce o resiste in giudizio con colpa
grave o dolo, il creditore sia responsabile, ricorrendo i suddetti presupposti, nell’ambito del processo per la riduzione
dell’ipoteca iniziato dal debitore.
Il panorama della giurisprudenza è univoco, con l’esclusione di una isolata e antica decisione nella quale, con
riferimento al sequestro conservativo, si è riconosciuta l’applicabilità del secondo comma dell’art. 96 in argomento per
la sproporzione tra il credito per il quale sono sollecitate le
misure cautelari e il credito accertato, sostenendo che tale
sproporzione rientrava nella nozione di inesistenza del credito prevista dal codice (Cass. n. 9307 del 1994).
4.1. La tesi, riguardata alla luce della sopravvenienza dei
principi costituzionali di cui al novellato art. 111 Cost.,
come, nelle more della loro oramai non recente introduzione, si sono inverati nell’ordinamento, non è più convincente e suggerisce una interpretazione dell’art. 96, secondo
comma, che tenga conto della nuova prospettiva.
4.1.1. Innanzitutto, non c’è una ragione stringente per la
quale la funzione di generale garanzia per il creditore assolta
dall’intero patrimonio, presente e futuro, del debitore, (art.
2740 c.c.) non debba incontrare il limite dell’abuso del
diritto. Tanto più, nel diritto processuale dove i diritti sono
conferiti in ragione della strumentalità del mezzo rispetto al
fine del soddisfacimento del diritto sostanziale tutelato.
Inoltre, non si vede per quale stringente ragione si debba
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Sentenze commentate Parte prima
leggere l’art. 2828 c.c., che abilita il creditore ad iscrivere
ipoteca su qualunque immobile, presente e sopravvenuto del
debitore, e quindi a scegliere su quanti e quali immobili
iscrivere ipoteca, come abilitazione ad iscrivere ipoteca su
tutti gli immobili. Anzi, proprio la strumentalità della garanzia reale rispetto a crediti determinati autorizza a ipotizzare che, ferma la libertà di scelta tra quali immobili, il
valore degli stessi non possa non rapportarsi alla cautela
riconosciuta.
D’altra parte, nello stesso sistema di norme che disciplinano la materia, il profilo della sproporzione non è assente,
ma regolato, nell’ambito della riduzione giudiziale, con l’individuazione della misura eccedente. Cosı̀, le ipoteche giudiziali devono ridursi se i beni compresi nell’iscrizione hanno un valore, che eccede la cautela, superiore ad un terzo dei
crediti iscritti, accresciuto dagli accessori; se la somma determinata dal creditore nell’iscrizione ecceda di un quinto
quella che l’autorità giudiziaria dichiara dovuta.
4.1.2. L’art. 2877 c.c., poi, non offre una conferma sicura
della tesi tradizionale.
Posto che siamo nell’ambito della riduzione di ipoteca
‘‘consensuale’’ tra debitore e creditore e che si tratta unicamente delle spese per le ‘‘formalità ipotecarie’’ connesse alla
riduzione/restrizione di ipoteca già iscritta, la regolamentazione legislativa ha plausibili ragioni che non impattano
direttamente con il profilo della responsabilità processuale.
Ed, infatti, l’essere poste le spese della riduzione di ipoteca, chiesta per l’eccesso rispetto al valore dei beni ipotecati,
in capo al ‘‘richiedente’’ - che peraltro solo in linea di normalità coincide con il debitore - ha la sua ragionevole spiegazione, oltre che nell’interesse preponderante ed impellente che il debitore può avere a liberare beni vincolati e ‘‘fuori
mercato’’, anche nella difficoltà, e conseguente soggettività,
della valutazione dei beni da farsi da parte del creditore
senza procedere ad un accertamento tecnico. Cosı̀, come
l’essere le spese in argomento poste in capo al creditore,
quando la riduzione/restrizione dell’ipoteca è chiesta per
l’eccesso nella determinazione del credito garantito, ha
una plausibile ragione nell’essere egli il solo in condizioni
di conoscerne e di stimarne meglio l’ammontare (ragioni,
peraltro, non disconosciute dalle decisioni che hanno affermato l’indirizzo ora sottoposto a revisione, cfr. Cass. n. 4968
del 2001).
5. È pacifico nella giurisprudenza di legittimità che l’art.
96 c.p.c. disciplina una responsabilità per atti e comportamenti processuali. Una responsabilità in capo al soccombente che, all’interno del processo, abbia compiuto un’attività
qualificabile quale ‘‘illecito processuale’’, quando il comportamento assume modalità illecite sostanziandosi nell’abuso
del diritto di agire o resistere in giudizio. Una responsabilità
speciale rispetto alla generale norma di cui all’art. 2043 c.c.
e devoluta al giudice cui spetta conoscere il merito della
controversia (ex plurimis, Cass. n. 17523 del 2011). Responsabilità, la cui regolamentazione si è da ultimo arricchita (terzo comma dell’art. 96 c.p.c., come novellato dall’art.
45, comma 12, della legge n. 69 del 2009) con una norma
generale per lite temeraria, che ha alla sua base l’abuso del
processo. Responsabilità che presuppone la soccombenza
totale nell’azione o nella resistenza in giudizio e la determinazione di un pregiudizio alla controparte. Responsabilità
dove l’elemento psicologico richiesto è differenziato in ra-
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gione del diverso è più pregnante impatto che l’agire processuale può determinare negli interessi della controparte.
Infatti, è generalmente richiesta la mala fede o la colpa
grave (primo comma) ed, invece, con regola più severa, il
solo difetto della normale prudenza, e quindi, solo la presenza della colpa lieve, quando - per la tipologia delle ipotesi
previste attinenti a processi esecutivi e cautelari - l’atto o il
comportamento del creditore si presta ad essere potenzialmente foriero di danni, e sempre che il diritto vantato si sia
rivelato inesistente.
5.1. A partire dalla decisione delle Sezioni Unite del 2007
(n. 23726), il principio costituzionale del giusto processo ha
trovato numerose applicazione nel riconoscimento di un
abuso degli strumenti processuali, che l’ordinamento offre
alla parte nei limiti di una corretta tutela del suo interesse
sostanziale.
La sopravvenienza nell’ordinamento dell’art. 111 Cost.,
che nell’interpretazione delle norme processuali impone,
insieme, la ragionevolezza della durata del processo e la
giustezza del processo, quale risposta alla domanda della
parte, comporta che ‘‘giusto’’ non può essere un processo
frutto di abuso per l’esercizio in forme eccedenti, o devianti,
rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che individua la
ragione dell’attribuzione dei poteri processuali e, quindi, i
limiti dell’attribuzione della potestas al titolare. Proprio la
sopravvenienza di una norma costituzionale finalistica, sia
rispetto alla durata del processo sia rispetto al perseguimento
del bene della vita cui il processo è preposto, ha reso non più
consentiti quei comportamenti che, eccedenti rispetto alla
tutela accordata al diritto sostanziale perseguito, incidono
sulla possibilità del contenimento della durata del processo
in termini ragionevoli, per l’evidente antinomia tra la moltiplicazione dei processi e la durata degli stessi. In definitiva,
il principio del giusto processo, espresso dall’art. 111, primo
comma, Cost., non consente più di utilizzare, per l’accesso
alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con
valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed
equo funzionamento del servizio della giustizia. Impedisce,
perciò, di accordare protezione ad una pretesa priva di meritorietà e caratterizzata per l’uso strumentale del processo
(Cass. n. 28286 del 2011). Con la conseguenza, che le
norme processuali vanno interpretate in modo da evitare
lo spreco di energie giurisdizionali (cosı̀, da ultimo, Sez.
Un. n. 12310 del 2015).
5.2. In questa prospettiva, il creditore che iscrive ipoteca
giudiziale sui beni del debitore il cui valore sia eccedente la
cautela, discostandosi dai parametri normativi mediante l’iscrizione per un valore che supera di un terzo, accresciuto
dagli accessori, l’importo dei crediti iscritti (artt. 2875 e
2876 c.c.), pone in essere un comportamento di abuso dello
strumento della cautela rispetto al fine per cui gli è stato
conferito. Utilizza lo strumento processuale oltre lo scopo
previsto dal legislatore per assicurarsi la maggiore garanzia
possibile, ma determinando un effetto deviato in danno del
debitore.
Non può assumere rilievo dirimente la circostanza che il
debitore, a fronte di una iscrizione di ipoteca su beni il cui
valore ecceda la cautela, potrebbe evitare ogni danno addivenendo ad un accordo con il creditore per la riduzione o
chiedendo giudizialmente la riduzione con apposito procedimento (art. 2844 c.c.).
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Parte prima Sentenze commentate
Infatti, non vengono in rilievo i contrapposti interessi
considerati da una ottica soggettivistica, ma - in un’ottica
di sistema generale della tutela processuale - la mancanza di
tutela apprestata dall’ordinamento costituzionale al creditore quando l’utilizzo dello strumento processuale è effettuato
oltre i limiti della sua funzionalizzazione al perseguimento
del diritto per cui è stato conferito. E, costringere il debitore
a cercare un accordo e, soprattutto, costringerlo ad un autonomo diverso procedimento, si traduce in un abuso dello
strumento fornitogli per la sua tutela, con implementazione
dei procedimenti e conseguente impatto sulla efficienza della risposta alla domanda di giustizia sostanziale.
6. In definitiva, il primo e secondo motivo di ricorso sono
accolti sulla base del seguente principio di diritto ‘‘Nell’ipotesi in cui come nella specie - risulti accertata l’inesistenza
del diritto per cui è stata iscritta ipoteca giudiziale e la
normale prudenza del creditore nel procedere all’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale, è configurabile in capo al suddetto
creditore la responsabilità ex art. 96, secondo comma c.p.c.,
quando non ha usato la nomale diligenza nell’iscrivere ipoteca sui beni per un valore proporzionato rispetto al credito
garantito, secondo i parametri individuati nella legge (artt.
2875 e 2876 c.c.), cosı̀ ponendo in essere, mediante l’eccedenza del valore dei beni rispetto alla cautela, un abuso del
diritto della garanzia patrimoniale in danno del debitore’’.
7. L’accoglimento nei termini suddetti, comporta l’assorbimento di ogni altro profilo di censura in riferimento al
comportamento del creditore nel corso del processo, nonché
l’assorbimento del terzo motivo, attinente ai danni lamentati.
La sentenza impugnata è annullata, con rinvio alla Corte
di appello di Bari, in diversa composizione, che deciderà la
controversia in applicazione del suddetto principio e liquiderà le anche del giudizio di cassazione. (Omissis)
«Nuove prospettive in tema di ipoteca giudiziale eccessiva e responsabilità
aggravata del creditore»
di Valentina Bellomia*
Il creditore che iscriva ipoteca giudiziale su beni il cui valore superi ampiamente la cautela, pone in essere
un abuso del proprio diritto (sostanziale) alla garanzia patrimoniale nonché un abuso del proprio diritto
(processuale) alla iscrizione ipotecaria. Ciò abilita il debitore, anche nel caso in cui la scelta di iscrivere la
garanzia reale non possa essere rimproverata al creditore nemmeno a titolo di colpa lieve, a pretendere il
risarcimento del danno sofferto a titolo di responsabilità processuale aggravata ai sensi del comma 2º
dell’art. 96 cod. proc. civ. Una tale conclusione è imposta dalla crescente importanza assunta dal divieto di
abuso del processo, al fine della realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost. anche dal punto di vista
della correttezza dei comportamenti delle parti coinvolte. D’altra parte, nessuna norma dell’ordinamento
costituisce un ostacolo decisivo alla cennata tesi, ed anzi meriterebbe di essere riconsiderato anche il
presupposto della necessaria soccombenza totale o inesistenza del diritto sostanziale di cui sempre all’art.
96 cod. proc. civ.
I. Il caso
La banca Alfa otteneva un decreto ingiuntivo nei
confronti di Tizio e della di lui moglie e garante, Sempronia, per l’importo di 150 milioni di lire, a titolo di
saldi passivi di conto corrente bancario, derivanti dalla
applicazione di clausole c.d. uso piazza, con capitalizzazione trimestrale degli interessi. Alfa, pertanto, iscriveva ipoteca giudiziale sull’intero patrimonio immobiliare - del valore complessivo di 3 milioni di euro dell’impresa di costruzione dei due coniugi. Di conseguenza, l’attività imprenditoriale cessava. Nel corso del
giudizio, le suddette clausole venivano dichiarate invalide e, conseguentemente, il credito preteso da Alfa
giudicato inesistente (con sentenza sul punto mai appellata). I giudici di merito rilevavano però non esservi
stata colpa, neanche lieve, in capo alla banca, in quan-
to, all’epoca dei fatti, l’invalidità delle clausole de quibus non era affatto pacifica, per cui l’inesistenza del
relativo credito, al momento della iscrizione ipotecaria,
non poteva dirsi né probabile né prevedibile. Inoltre,
la Corte d’appello si rifaceva a quella consolidata giurisprudenza secondo cui il solo fatto di avere iscritto
ipoteca su una somma esorbitante o su beni di valore
eccedente l’importo del credito vantato, non espone il
creditore a responsabilità ai sensi del comma 2º dell’art. 96 cod. proc. civ., fatta salva l’applicabilità del
comma 1º qualora egli resista con dolo o colpa grave
alla domanda di riduzione dell’ipoteca, nella specie mai
presentata.
L’opposizione a decreto ingiuntivo spiegata da Tizio
e Sempronia veniva pertanto accolta, salvo che per la
domanda ex art. 96 cod. proc. civ., sia in primo che in
secondo grado.
* Contributo pubblicato in base a referee.
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Sentenze commentate Parte prima
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, si
discosta nettamente dalle cennate motivazioni dei giudici di merito, soffermandosi a valutare se, nel caso di un
credito la cui inesistenza non possa essere rimproverata al
creditore a titolo di colpa, il fatto di avere iscritto ipoteca
giudiziale su beni di valore sproporzionato rispetto al credito
garantito possa configurare, in capo al creditore medesimo,
una responsabilità ex art. 96, comma 2º, cod. proc. civ.
per difetto della normale diligenza. La sentenza, pertanto,
reinterpreta il comma 2º dell’art. 96 cod. proc. civ., sottoponendo a revisione critica il consolidato orientamento secondo cui l’ipoteca c.d. esorbitante non costituisce, di per sé, titolo di responsabilità processuale
aggravata. Ciò alla luce della costituzionalizzazione del
principio del giusto processo e della crescente importanza,
nel nostro ordinamento, dell’istituto dell’abuso del diritto, sostanziale e processuale. La decisione cui giunge la
Supr. Corte è che il creditore che iscrive un’ipoteca
giudiziale esorbitante per quanto concerne il valore dei
beni coinvolti, discostandosi ampiamente dai parametri normativi di cui agli artt. 2875 e 2876 cod. civ.,
abusa dello strumento processuale conferitogli, con
conseguente responsabilità ai sensi dell’art. 96, comma
2º, cod. proc. civ.
E se è vero che, nella fattispecie, era stata accertata la
definitiva inesistenza del credito azionato, con conseguente conformità della fattispecie, da questo punto di
vista, al dettato del richiamato art. 96, comma 2º, cod.
proc. civ., la Supr. Corte svolge, in motivazione, un
ragionamento di più ampio e generale respiro, che induce a riconsiderare anche il presupposto della radicale
inesistenza del diritto sostanziale (e della totale soccombenza in giudizio). Ciò al fine di rendere suscettibile di valutazione ed, eventualmente, di sanzione risarcitoria, il comportamento del creditore che abbia
colposamente proceduto ad una iscrizione ipotecaria
eccessiva e dannosa.
II. Le questioni
1. L’art. 96 cod. proc. civ. e l’abuso del processo.
La Corte di Cassazione fonda la propria innovativa
interpretazione dell’art. 96, comma 2º, cod. proc. civ.
sul principio, non espressamente normato, ma ormai
pacificamente ritenuto immanente all’ordinamento,
del divieto di abuso del diritto, sia sostanziale che processuale (amplissima, come noto, la bibliografia sul
tema: per alcuni richiami essenziali v. infra, sez. IV).
La Supr. Corte muove difatti dalla constatazione per
cui il creditore che iscriva ipoteca giudiziale per un
valore sproporzionato rispetto al credito da garantire
pone in essere un comportamento abusivo della propria garanzia patrimoniale, in danno del debitore, sia
sul piano sostanziale sia su quello processuale (CONS.
STATO, 6.8.2015, n. 3990, infra, sez. III; GHIRGA,
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Abuso del processo e sanzioni, 5 s., infra, sez. IV). Sul
piano sostanziale, perché egli abusa del proprio diritto
di credito, e sul piano processuale, perché realizza tale
abuso attraverso una iniziativa (quella, nella fattispecie, della iscrizione di ipoteca giudiziale) ‘‘collegata’’ al
processo.
Da quest’ultimo punto di vista, la norma che meglio
esprime, nel nostro ordinamento, il principio del divieto di abuso del processo è - soprattutto oggi, con il
terzo comma, introdotto dalla l. n. 69/2009 (per dei
minimi riferimenti bibliografici v. infra, sez. IV) - il
discusso art. 96 cod. proc. civ., ed in particolare, per
quanto riguarda l’iscrizione di ipoteca, il suo secondo
comma.
Come anticipato, sono molti i riconoscimenti, da
parte della giurisprudenza e della dottrina, di un divieto generalizzato di abusare degli strumenti processuali
(su cui v. la recente analisi di GHIRGA, Recenti sviluppi,
445 ss., infra, sez. IV), con comportamenti contrari ai
canoni di buona fede e correttezza nonché al giusto
processo, pena il risarcimento del danno causato. La
costituzionalizzazione di quest’ultimo principio, con
l’art. 111 Cost., ha contribuito notevolmente al consolidarsi ed al diffondersi della cultura del divieto di
abuso del giudizio, perché non può essere considerato
giusto un processo che venga utilizzato in modo distorto (id est: abusivo) attraverso iniziative ‘‘eccedenti o
devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che
segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo
titolare, della potestas agendi’’ (cosı̀ la celebre CASS.,
sez. un., 15.11.2007, n. 23726, in tema di frazionamento del credito; conf., da ultimo, CASS., 15.5.2015, n.
9935; CASS., 9.6.2014, n. 12914; tutte infra, sez. III. In
dottrina v. NICOTINA, passim; GHIRGA, Abuso del processo e sanzioni, 26; ASPRELLA, passim; CARIGLIA, 371
ss.; DONDI - GIUSSANI, 193 ss.; contra, per un recente
orientamento critico nei confronti dello stesso concetto di ‘‘abuso del processo’’, PANZAROLA, 23 ss.; tutti
infra, sez. IV).
Questo non solo perché abusare del processo significa comprometterne l’efficacia, la durata e l’idoneità
tecnica, in contrasto con gli intenti del legislatore costituzionale, ma anche perché, come autorevolmente
rilevato (COMOGLIO, Abuso del processo, 329, infra, sez.
IV), del giusto processo è parte una ‘‘essenziale componente «deontologica»’’, che attiene alla correttezza dei
comportamenti dei soggetti coinvolti. D’altronde, sulla
parte che agisce in giudizio incombe un espresso e
specifico dovere di lealtà e probità, ai sensi dell’art.
88 cod. proc. civ. (CASS., 23.3.2011, n. 6597, infra,
sez. III; sul rapporto tra gli artt. 88 e 96 cod. proc. civ.
v. MAZZOLA, 36-38, infra, sez. IV; e GHIRGA, Abuso
del processo e sanzioni, spec. 32. Cfr. anche SCARSELLI,
Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 91 ss.) e la più recente
giurisprudenza non ha mancato di sottolineare che i
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principi di buona fede e correttezza non attengono solo
al rapporto obbligatorio, ma costituiscono un canone
di comportamento cui deve conformarsi anche la parte
in giudizio (CASS., 22.12.2011, n. 28286, infra, sez. III;
in dottrina, in senso critico, v. TARUFFO, 832 ss., infra,
sez. IV; e PANZAROLA, 23 ss.).
I diritti di azione e di difesa in giudizio, pertanto, pur
costituzionalmente riconosciuti e tutelati, non per questo sono esenti dal potere essere giudicati abusivi, con
tutte le connesse conseguenze (cfr. PICARDI, 174;
MANDRIOLI, 432 ss.; e DONDI, 2010, 1, tutti infra,
sez. IV; quest’ultimo sottolinea la difficoltà con cui si
è pervenuti a tali conclusioni, quando scrive che ‘‘l’idea stessa di abuso, come riferita alle attività del processo, è a lungo apparsa estranea e, anzi, intimamente
confliggente con una concezione per cosı̀ dire liberale
classica del processo civile’’).
La necessità di bilanciare tali diritti con i principi di
giustizia ed effettività della tutela giurisdizionale, legittima misure ed interpretazioni che, pur avendo un’indubbia finalità dissuasiva (vi è chi, come SCARSELLI,
Sul c.d. abuso del processo, 1457, infra, sez. IV, ritiene
l’abuso del processo ‘‘solo un nuovo modo per contrarre e render più difficoltoso l’esercizio del diritto di
azione e di difesa, attribuendo per converso al giudice
il nuovo potere di sanzionare il comportamento processuale delle parti anche in ipotesi non predeterminabili’’), sono volte a ridurre il rischio dell’abuso del
processo e, quindi, alla migliore realizzazione del processo giusto (CASS., 18.3.2016, n. 5433, infra, sez. III;
in dottrina v. TOPPETTI, 1 ss., infra, sez. IV).
Una di queste misure è appunto rappresentata dall’art. 96 cod. proc. civ., in particolare dal comma 2º,
che qui più interessa, che mira alla repressione di un
abuso del processo (o, meglio, di alcune iniziative ad
esso collegate) a tutela dell’interesse privato della controparte danneggiata. Il collegamento con il ‘‘giusto
processo’’ ci sembra allora pertinente se lo si intende
nei sensi da ultimo indicati, privatistici e non pubblicistici, ossia come un processo che non diventi il mezzo
per creare, con propri scorretti comportamenti, ingiustificati danni alla controparte (sottolinea l’estraneità
dell’art. 96, commi 1º e 2º, rispetto all’art. 111 Cost.:
CORTE COST., 23.12.2008, n. 435, infra, sez. III; DALLA MASSARA, spec. 69, infra, sez. IV, evidenzia come,
invece, la previsione del comma 3º, dell’art. 96 cod.
proc. civ. abbia natura punitiva e sia posta a presidio di
‘‘un interesse pubblicisticamente caratterizzato’’).
L’articolo disciplina una ipotesi di lite temeraria,
qualificata dall’elemento soggettivo, e mira a sanzionare chi agisca in giudizio o assuma iniziative ad esso
connesse nella consapevolezza (o nella colpevole ignoranza) della chiara infondatezza della propria pretesa
(sul concetto di lite temeraria non può non rinviarsi a
CHIOVENDA, 321, infra, sez. IV). Esso pertanto disciplina un illecito processuale, che, rispetto alla ipotesi
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del comma 1º, si caratterizza per la diversità delle iniziative oggetto del comportamento abusivo della parte,
che riguardano anche atti lato sensu processuali, come
appunto l’iscrizione di ipoteca giudiziale (CORDOPATRI, L’abuso del processo, 364 s., infra, sez. IV).
Secondo un orientamento consolidato, l’art. 96 cod.
proc. civ. disciplina una ipotesi specifica di responsabilità civile (CORTE COST., 23.12.2008, n. 435, cit.),
speciale rispetto alla previsione generale di cui all’art.
2043 cod. civ. (BIANCA, 775; BONGIORNO, 1 ss.; contra, CALVOSA, 385, tutti infra, sez. IV), con esclusione
di un possibile concorso tra le due norme (ex multis,
CASS., 23.6.2011, n. 13827; CASS., 23.8.2011, n.
17523; CASS., 3.3.2010, n. 5069; CASS., 2.11.2010,
n. 22267; CASS., 24.7.2007, n. 16308; CASS.,
23.3.2004, n. 5734; CASS., 4.4.2001, n. 4968; tutte
infra, sez. III. V. anche, però, per l’ipotesi di trascrizione illegittima, il dibattito sul rapporto tra la domanda
ex art. 96, comma 1º, e quella ex art. 2043 cod. civ.,
come ricostruito e composto da CASS., sez. un.,
23.3.2011, n. 6597, cit. Parte della dottrina, nella richiamata ottica, qualifica senz’altro l’art. 96 cod. proc.
civ. come norma sostanziale, impropriamente situata
nel codice di rito: TOPPETTI, 5 ss.; MAZZOLA, 6.).
L’art. 96 cod. proc. civ. esaurisce, quindi, per comune
opinione, le ipotesi di responsabilità processuale previste dall’ordinamento, integralmente e compiutamente
disciplinate da tale disposizione, al di fuori della quale
è preclusa la possibilità di invocare la responsabilità
generale da fatto illecito ex art. 2043 cod. civ. (già
GRASSO, 93 ss., infra, sez. IV). Ciò significa che, salvi
gli elementi peculiari di cui all’art. 96, commi 1 e 2,
quali la soccombenza/inesistenza del diritto e l’elemento soggettivo, trovano per il resto applicazione, alle
ipotesi di responsabilità processuale, i principi generali
in tema di illecito aquiliano (DALLA MASSARA, 57
ss.).
Il comma 2º, rispetto alla fattispecie disciplinata dal
comma precedente, presuppone che la parte, oltre ad
affermare di vantare un diritto (‘‘inesistente’’), abbia
anche assunto una iniziativa di ‘‘aggressione’’ alla sfera
patrimoniale altrui, ad esempio iscrivendo ipoteca sui
suoi beni (CASS., sez. un., 23.3.2011, n. 6597, cit.).
Ciò giustifica, come vedremo, la rilevanza del difetto
della diligenza media, considerate le modalità particolarmente invasive dell’atto (COMOGLIO, sub art. 96,
1270 s., infra, sez. IV); l’iscrizione ipotecaria, ad esempio, certamente viene ad incidere in maniera significativa sull’altrui patrimonio, anche in termini di discredito sociale e commerciale, pregiudicandone la
commerciabilità (CASS., 30.7.2010, n. 17902, infra,
sez. III; TRIB. ROMA, 9.12.2010, in Giur. merito,
2011, 2699; BIANCA, 777).
Il primo presupposto dell’istituto è la soccombenza di
chi ha agito o resistito in giudizio (comma 1º) - che la
giurisprudenza assolutamente maggioritaria intende co-
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me soccombenza totale, con esclusione di ogni possibilità di applicazione della norma in caso di soccombenza reciproca o solo parziale (ex multis, CASS.,
6.6.2003, n. 9060; CASS., 2.3.2001, n. 3035; CASS.,
28.7.2000, n. 9897; tutte infra, sez. III) - o l’inesistenza
del diritto sostanziale (comma 2º).
A tale ultimo proposito, la giurisprudenza è concorde
nel ritenere che senza l’accertamento della inesistenza
sostanziale del credito per cui si è iscritta ipoteca non
può sussistere alcuna responsabilità ai sensi dell’art. 96,
comma 2º, cod. proc. civ., ferma restando l’applicabilità del comma 1º nel caso in cui il creditore resista
con mala fede o colpa grave nel giudizio di riduzione
intentato dal debitore (CASS., 29.4.2015, n. 8711;
CASS., 28.5.2010, n. 13107; CASS., 30.7.2010, n.
17902; CASS., 3.9.2007, n. 18533; CASS., 24.7.2007,
n. 16308; CASS., 7.5.2007, n. 10299; CASS.,
22.2.2006, n. 3952; CASS., 23.5.2003, n. 8171; CASS.,
4.4.2001, n. 4968; CASS., 14.9.1999, n. 9803; CASS.,
29.9.1999, n. 10771; CASS., 21.2.1985, n. 1545; tutte
infra, sez. III).
Al di fuori del caso del credito inesistente, quindi,
per la tesi tradizionale e maggioritaria, nessuna responsabilità può essere addossata al creditore che pure abbia
iscritto ipoteca su una quantità di beni di valore esorbitante (o per una somma di molto eccedente il credito). Anche la Corte di Cassazione, nella sentenza in
esame, non supera espressamente tale impostazione,
ma il suo ragionamento, ci sembra, ne rende opportuna
una rivalutazione critica, come si dirà.
L’elemento psicologico è differenziato a seconda delle fattispecie. Mentre per l’ipotesi regolata dal comma
1º è richiesta la mala fede o la colpa grave (v. MORANO CINQUE, 2015, 1168 ss.), con una deroga, quindi,
ai principi generali dell’illecito civile, giustificata dal
fatto che trattasi di una responsabilità connessa all’uso
(distorto) di un diritto costituzionalmente garantito,
per quella di cui al comma 2º è sufficiente accertare
che la parte abbia agito ‘‘senza la normale prudenza’’. Il
concetto è comunemente interpretato come colpa lieve, ossia la mancanza della prudenza tipica dell’uomo
di media diligenza (CASS., 25.10.2013, n. 24166,
CASS., n. 17523/2011, cit.; CASS., 17.1.1996, n.
342; CASS., 2.3.1995, n. 2398; tutte infra, sez. III;
FRANZONI, spec. par. 5, infra, sez. IV). La previsione
di cui al comma 2º, quindi, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, si inquadra perfettamente nella
disciplina generale della responsabilità aquiliana
(CASS., 23.3.2004, n. 5734, cit.), mentre il comma
1º ne delinea una ipotesi speciale di responsabilità
attenuata (BIANCA, 777).
La normale prudenza non deve essere valutata con
riferimento alla regolarità formale del titolo in base al
quale si è agito, ma alla infondatezza sostanziale del
diritto preteso, che la parte avrebbe potuto prospettarsi
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se avesse usato la diligenza che può ordinariamente
pretendersi da chi si trovi nella data situazione.
Secondo la Corte, tale valutazione va effettuata anche in relazione alla scelta della quantità di beni da
sottoporre al vincolo, ed anche nel caso in cui, come
nella fattispecie, non sia ravvisabile colpa, neanche
lieve, nella ponderazione della fondatezza del diritto
sostanziale e, quindi, nella scelta di iscrivere ipoteca.
Infine, secondo i principi generali, per il configurarsi
della responsabilità è necessario che sia accertato il
danno sofferto dalla parte che avanza l’istanza, quale
effetto diretto ed immediato dell’altrui comportamento.
In presenza dei cennati presupposti, la condotta processuale della parte è da qualificarsi abusiva anche
qualora motivata, come normalmente è, dalla sola volontà di assicurarsi una tutela particolarmente efficace
e pregnante, come nel caso di iscrizione di una ipoteca
molto elevata per garantirsi la maggiore garanzia possibile. In altri termini, il diritto di agire, se utilizzato
con finalità e modalità sproporzionate rispetto al fine
da raggiungere e, quindi, ingiustificatamente dannose
per la controparte, si trasforma in un abuso passibile di
condanna risarcitoria.
2. La tesi tradizionale, contraria alla applicabilità dell’art.
96, comma 2º, cod. proc. civ. nel caso di iscrizione
ipotecaria su beni di valore esorbitante.
Secondo una prima e consolidata tesi della giurisprudenza di legittimità, che la stessa sentenza in esame
definisce ‘‘univoca’’, il creditore che abbia iscritto ipoteca su beni il cui valore ecceda, anche grandemente,
la cautela, non può essere chiamato, per ciò solo, a
risponderne a titolo di responsabilità aggravata ex art.
96, comma 2º, cod. proc. civ. (né ex art. 2043 cod.
civ.), salva la possibilità - come si è anticipato - di
configurare un’ipotesi di responsabilità processuale a
norma del comma 1º del richiamato art. 96, in capo
al creditore procedente, qualora quest’ultimo abbia resistito con mala fede o colpa grave nel giudizio per la
riduzione dell’ipoteca instaurato dal debitore. Tale
orientamento fa riferimento alla più risalente giurisprudenza secondo cui l’eccesso di iscrizione ipotecaria su
beni del debitore non costituisce un illecito civile risarcibile ex art. 2043 cod. civ. (CASS., 3.11.1961, n.
2548, infra, sez. III).
La tesi si basa sul convincimento che, avendo il
creditore la facoltà di determinare liberamente i beni
da sottoporre alla garanzia reale ed avendo, di contro,
il debitore la possibilità di agire con l’azione di riduzione ipotecaria, non vi sarebbe margine per un giudizio di responsabilità risarcitoria del primo nei confronti
del secondo.
Una serie di motivazioni, ricorrenti in giurisprudenza, sorreggono tale conclusione.
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Parte prima Sentenze commentate
Innanzitutto, in contrasto con l’indicazione letterale
dell’art. 96, comma 2º, non si verserebbe in un caso di
inesistenza del credito sostanziale, in quanto l’ipotesi in
considerazione è quella del credito esistente a cui corrisponde una iscrizione ipotecaria sproporzionata.
Inoltre, un tale comportamento non sarebbe tacciabile di illiceità data la presenza, nell’ordinamento, di
diverse norme che lo consentirebbero.
Innanzitutto, l’art. 2740 cod. civ., che, nel fissare il
principio della responsabilità patrimoniale generica illimitata del debitore, legittima il creditore ad aggredire
il suo intero patrimonio.
Vi è poi l’art. 2828 cod. civ., che abilita il creditore
ad iscrivere ipoteca su qualunque immobile del debitore e non dispone alcun obbligo, in capo al creditore
medesimo, di commisurare la garanzia al credito.
Infine, e soprattutto, bisogna considerare l’art. 2877
cod. civ. che, come noto, pone sempre a carico del
richiedente le spese di riduzione dell’ipoteca, anche
qualora consentita dal creditore, salvo il caso in cui
la riduzione abbia luogo per eccesso nella determinazione del credito fatta dal creditore. Come potrebbe
ipotizzarsi una responsabilità per danni quando è la
stessa legge che, nella ipotesi data, prevede che le spese
per la riduzione della ipoteca, che il debitore ha il
diritto di chiedere ed ottenere, sono tuttavia a suo
esclusivo carico persino nel caso di riduzione consensuale (v. CASS., 4.4.2001, n. 4968, e le altre sentenze
citate infra, sez. III)? A fronte di un creditore che ha
tutto il diritto di garantirsi iscrivendo ipoteca sull’intero patrimonio della controparte - si afferma - la riduzione costituisce l’unico strumento offerto dal sistema al debitore per contrastare l’iscrizione esorbitante
(già CASS., 3.11.1961, n. 2548, cit.), senza nemmeno
il diritto alla refusione delle spese sostenute, né, quindi, a maggior ragione, al risarcimento dei danni patiti
(MONTEL, 741, infra, sez. IV).
3. Verso la responsabilità processuale ex art. 96, comma
2º, cod. proc. civ. nel caso di iscrizione ipotecaria
eccessiva.
Le motivazioni sopra brevemente ricordate sono
sembrate alla Corte di Cassazione suscettibili di un
ampio ripensamento, in linea con la sempre più avvertita esigenza di un processo giusto ed efficiente.
La proposta della Corte, che ci sembra senz’altro
meritevole di essere accolta, è di non limitarsi a valutare la legittimità formale del comportamento del creditore, senza valutare se esso violi i suddetti canoni di
correttezza, buona fede, divieto di abusare del giudizio,
per una propria esclusiva utilità, che risulti ingiustificata e dannosa alla luce della comparazione dei vari
interessi.
Innanzitutto, la sentenza che si annota si occupa di
demolire la ricordata giurisprudenza maggioritaria.
1190
Il primo argomento, si è detto, si appunta sull’art.
2740 cod. civ. che, come noto, identifica genericamente l’oggetto della responsabilità patrimoniale del
debitore con ‘‘tutti i suoi beni presenti e futuri’’. In
linea generale, e salve le limitazioni di responsabilità
cui fa riferimento il comma 2º dello stesso articolo,
nessun bene del debitore è sottratto alla funzione di
garanzia.
Tuttavia, il principio della garanzia universale ed
illimitata del debitore non è sottratto al limite dell’abuso del diritto e deve essere letto in conformità ai
principi di proporzionalità ed adeguatezza, che devono
connotare anche l’azione esecutiva del creditore (v.
MANFREDINI, 314, infra, sez. IV, ed i richiami bibliografici cui l’a. fa riferimento). Quest’ultimo ha sı̀ il
diritto di soddisfarsi su tutti i beni del debitore, ma
tale diritto non può essere interpretato in maniera
del tutto autonoma rispetto all’entità del credito vantato. La proporzione tra responsabilità del debitore e
valore del debito deve essere preservata anche nella
fase precedente l’esecuzione, in cui l’obiettivo dell’ordinamento è quello di conservare i beni del debitore in
vista del miglior soddisfacimento delle ragioni creditorie (MANFREDINI, 314).
Correttamente, pertanto, la sentenza in esame osserva che, nella fattispecie, avere iscritto ipoteca giudiziale su beni del valore di oltre tre milioni di euro, a
garanzia di un credito di centocinquanta milioni di
lire, rappresenta un abuso del diritto sostanziale alla
garanzia patrimoniale generica espresso dal richiamato
art. 2740 cod. civ., nonché un abuso del diritto processuale di iscrizione della ipoteca giudiziale.
L’altro ostacolo da superare è l’art. 2828 cod. civ.;
esso autorizza sı̀ il creditore ad iscrivere ipoteca su qualunque immobile, presente e futuro, del debitore, ed a
scegliere, quindi, su quanti e quali beni fare ricadere la
garanzia, ma, per le ragioni dianzi indicate, non può e
non deve essere letto nel senso di abilitare il creditore
ad iscrivere ipoteca senza considerare il valore degli
immobili stessi. Tale interpretazione - osserva la Supr.
Corte - si porrebbe in contrasto financo con l’essenza
della garanzia reale in questione, che risiede nella sua
strumentalità rispetto a crediti determinati (anche) nel
loro valore. Il favor creditoris cui la norma in questione
è certamente ispirata non toglie che debba sussistere
un ragionevole rapporto tra il valore del credito, l’importo iscritto ed il valore dei beni gravati dal vincolo,
pena la responsabilità del creditore consapevolmente o
colposamente scorretto (MANFREDINI, 315). Il principio della necessaria proporzionalità tra credito e garanzia, d’altra parte, come dedotto sempre dalla Supr.
Corte, è espressamente regolato nell’ambito della riduzione giudiziale di ipoteca. Difatti, è proprio con i parametri normativi di cui agli artt. 2875 e 2876 cod. civ.
che il legislatore ha fornito una imprescindibile indicazione circa il limite al di sopra del quale può valutarsi
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Sentenze commentate Parte prima
l’eventuale responsabilità aggravata del creditore. Tale
limite è oltrepassato quando il valore dei beni superi di
un terzo, tanto alla data della iscrizione quanto posteriormente, l’importo dei crediti iscritti, accresciuto degli accessori. Se al di sotto della indicata soglia il debitore non ha diritto di chiedere la riduzione della
garanzia, neppure si può ritenere che abbia diritto al
risarcimento del danno subı̀to. Evidentemente, difatti,
il legislatore ha ritenuto coerente con la protezione del
creditore (e sopportabile dal debitore) l’iscrizione che
sia contenuta entro il detto limite. Al di sopra, invece,
una aprioristica esenzione di responsabilità del creditore imprudente ci sembra ingiustificata.
Infine, la sentenza propone una diversa lettura del
già richiamato art. 2877 cod. civ. La disposizione, innanzitutto, ha un ambito di applicazione preciso e ben
delimitato, limitandosi a disciplinare il regime delle
spese per le formalità connesse alla riduzione della ipoteca, anche consensuale, tra debitore e creditore. Essa
inoltre, secondo la Corte, trova una ragionevole spiegazione che non interferisce con il diverso profilo della
responsabilità processuale. La ratio di avere posto tali
spese in capo al solo debitore richiedente risiede nella
preponderanza dell’interesse di quest’ultimo a concludere rapidamente l’operazione, nonché nella maggiore
difficoltà, per il creditore, di procedere ad una esatta
valutazione di beni non propri. La medesima ratio giustifica la regola inversa, posta sempre dallo stesso articolo, per il caso di riduzione giustificata dalla eccedenza dell’ammontare del credito garantito, che il creditore è in condizioni di meglio valutare (v. CASS.,
4.4.2001, n. 4968, cit.; in dottrina, v. GORLA, 415 e
conf. RUBINO, 493, entrambi infra, sez. IV).
Insomma, non sussiste alcuna ragione insuperabile,
desumibile dalle disposizioni richiamate, che giustifichi
una deviazione dai principi generali in tema di responsabilità da atto illecito e di responsabilità aggravata in
ambito processuale.
Come si è accennato, si è sostenuto che non vi possa
essere abuso quando la parte abbia a disposizione degli
strumenti per reagire all’altrui iniziativa, con l’effetto
di eliminarne le conseguenze dannose (PANZAROLA,
23 ss.). Il riferimento è all’istituto della riduzione delle
ipoteche, con cui il debitore, ai sensi degli artt. 2872 ss.
cod. civ., può reagire alla altrui iscrizione eccessiva.
Anche tale argomento, però, non sembra inconfutabile. Riduzione e risarcimento rispondono a logiche
affatto diverse; se con la riduzione possono certamente
contenersi i danni della iscrizione sproporzionata, liberando i beni dal vincolo, ciò non toglie che il danno
(già) subı̀to dal debitore, se e nella misura in cui risulti
provato, dovrà essere riparato. La soluzione all’abuso,
poi, non può essere quella di costringere il debitore
all’azione giudiziale (o ad un accordo con il creditore)
che si risolverebbe, a sua volta, in un abuso dello strumento previsto in sua tutela (con conseguente molti-
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plicazione delle iniziative giudiziali, già di per sé in
contrasto con i principi del giusto processo).
Sul presupposto che ogni diritto è suscettibile di essere abusato e che la scorrettezza può connotare anche
il comportamento della parte che ha ragione, il sistema
non impedisce ed, anzi, pretende, che l’iscrizione ipotecaria colposamente eccessiva sia suscettibile di sanzione risarcitoria. Tale conclusione è valida anche nel
caso di credito riconosciuto in parte esistente, oltre che
in quello, di cui alla sentenza in commento, di credito
inesistente, qualora, però, la scelta di procedere all’iscrizione ipotecaria non sia in alcun modo rimproverabile al creditore?
L’ostacolo letterale frapposto dai primi due commi
dell’art. 96 cod. proc. civ. è forte. Tuttavia, già una
significativa parte della dottrina sostiene che non è
necessario, ai fini della condanna per lite temeraria,
che la soccombenza sia totale, come invece ritenuto
dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria (COMOGLIO, Abuso del processo, 347 ss.; conf. GHIRGA,
Giudizio cautelare, spec. 1517, infra, sez. IV; v. anche
FRANZONI, 1063 ss.). Secondo tale tesi ‘‘sarebbe iniquo non sanzionare l’illecito processuale solo perché
chi lo ha compiuto è poi risultato, anche se solo parzialmente, vincitore’’ (GHIRGA, Giudizio cautelare)
Una tale conclusione avallerebbe ‘‘una pesante iniquità, in palese contrato con le garanzie costituzionali,
azzerando in pratica ogni possibilità di tutela (e di
sanzione) nei confronti di un accertato «abuso»’’ (cosı̀
COMOGLIO, Abuso del processo, 350).
E la necessità di una ‘‘emancipazione’’ tra condanna
e soccombenza integrale sarebbe particolarmente evidente proprio nei casi tipicamente previsti al comma
2º dell’art. 96 cod. proc. civ. (GHIRGA, Giudizio cautelare, 1518), dove trattasi di iniziative, come detto,
dalle potenzialità particolarmente dannose ed intrusive. Può una minima soccombenza giustificare l’esclusione della applicabilità della norma in questione? In
queste ipotesi, peraltro, sarebbe escluso anche il rinvio
al comma 1º della norma de qua, non ravvisandosi la
soccombenza totale in giudizio, nonché l’art. 2043 cod.
civ., per le ragioni che si sono dianzi illustrate. A rispondere affermativamente, quindi, il creditore si troverebbe legittimato ad iscrivere una ipoteca esorbitante, magari con il solo intento di danneggiare il proprio
debitore, certo della ‘‘impunità’’ del proprio comportamento.
Peraltro il comma 2º dell’art. 96 cod. proc. civ. non fa
riferimento, a differenza del comma 1º, alla soccombenza della parte ma solo alla inesistenza del credito. Secondo un isolato precedente, tale nozione sarebbe atta a
ricomprendere anche la notevole sproporzione tra il
quantum accertato e quello per cui sono state sollecitate
misure cautelari o iscritta ipoteca. Difatti, in assenza di
un dato letterale che qualifichi ulteriormente la nozione
di ‘‘inesistenza’’ del diritto, ‘‘l’accertamento di una diversa
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Parte prima Sentenze commentate
o minore entità del credito del sequestrante non afferisce
soltanto ad una mera delimitazione quantitativa del relativo
diritto (...) ma, investendo tale diritto, ne rivela sia pure «in
parte qua» l’inesistenza’’ (CASS., 2.2.1994, n. 1037, infra,
sez. III; in dottrina aderisce a tale orientamento COMOGLIO, sub art. 96, 1272).
La tesi, certo, è costretta a forzare il dato letterale, al
fine di un superamento della impostazione più restrittiva.
Sempre in tale ottica, è stato allora autorevolmente
osservato come la soccombenza in senso sostanziale non
è idonea a fungere da presupposto della responsabilità
processuale; la prima, difatti, attiene al merito della
pretesa dedotta in causa, mentre la seconda riguarda i
comportamenti delle parti nel giudizio (CORDOPATRI,
L’abuso del processo, 352 ss.). La soccombenza, nell’art.
96 cod. proc. civ., al pari della inesistenza del diritto,
non vanno riferite al diritto sostanziale, ma al ‘‘rapporto
tra soggetto agente e atto processuale compiuto’’ (ivi, 354)
ossia alla ‘‘posizione assunta dal soggetto, in sede di compimento dell’atto, verso gli obblighi e/o doveri incombenti, per
e nel processo, al soggetto agente’’ (ancora ibidem). In altri
termini, le nozioni di soccombenza e di inesistenza del
diritto, esprimono, nella norma in esame, lo stesso concetto e rinviano al comportamento della parte che abbia
utilizzato lo strumento processuale in modo distorto ed
abusivo. In sostanza, ‘‘l’apprezzamento delle ‘‘risultanze
processuali’’ - cui fa riferimento la parte prima del comma
1 dell’art. 96 cod. proc. civ. - è ben diverso dall’apprezzamento dell’esito finale del provvedimento: il primo si riferisce
evidentemente alla attività svolta dalla parte nel processo; il
secondo guarda alla portata della pronuncia’’ (CORDOPATRI, L’abuso del processo, 357). La responsabilità processuale è la valutazione, soggettiva, di un comportamento,
tutta fondata, come è, sulla scorrettezza dolosa o colposa
di tale comportamento, il che è tutt’altro dalla valutazione, oggettiva, che attiene alla soccombenza nel giudizio o alla inesistenza sostanziale del diritto di credito.
Per questo i due aspetti non possono influenzarsi in
maniera tanto decisiva come avviene nella lettura tradizionale della norma in questione.
Il rischio di concedere un potere discrezionale molto
ampio al giudice e di indebolire la essenziale funzione
di garanzia delle norme processuali (rischio evidenziato
da ultimo da PANZAROLA, 23 ss.) non è di poco conto
e va tenuto sempre presente, in primis dalla magistratura. Tuttavia, la proposta interpretazione dell’art. 96,
commi 1 e 2, cod. proc. civ. potrebbe costituire quella
‘‘interpretazione innovativa e coraggiosa’’ già da tempo
auspicata (PONZANELLI, I danni punitivi, in questa Rivista, 2008, II, 31), al fine di offrire la giusta riparazione a tutti i pregiudizi subiti dalla parte a causa del
doloso - o, aggiungiamo, colposo - comportamento
processuale altrui. I benefici che ne potrebbero derivare, anche alla ‘‘giustizia’’ del processo, ci sembrano
maggiori dei rischi.
1192
III. I precedenti
1. L’art. 96 cod. proc. civ. e l’abuso del processo.
In materia di abuso del processo non può prescindersi
da CASS., 15.11.2007, n. 23726, in Foro it., 2008, I,
1514 (in tema di frazionamento del credito), confermata, da ultimo, da CASS., 9.6.2014, n. 12914, in Dir.
e giust., 2014. Sul punto v. anche, tra le sentenze più
recenti, CASS., 18.3.2016, n. 5433, in Mass. Giust.
civ., 2016; CASS., 22.2.2016, n. 3376, ibidem; T.A.R.
TORINO, 12.11.2015, n. 1552, in Red. Giuffrè, 2015;
CASS., 21.10.2015, n. 21318, in Mass. Giust. civ.,
2015; CONS. STATO, 6.8.2015, n. 3990, in Foro
amm., 2015, 1934; CASS., 15.5.2015, n. 9935, in Foro
it., 2015, I, 2323; CASS., 9.3.2015, n. 4702, in Mass.
Giust. civ., 2015; CASS., sez. un., 15.6.2015, n. 12310,
in Foro it., 2016, I, 255 ss.; CASS., 9.6.2014, n. 12914,
in Dir. e giust., 2014; CASS., 22.12.2011, n. 28286, in
Mass. Giust. civ., 2011; CASS., 22.12.2011, n. 28286,
ibidem.
Sull’art. 96 cod. proc. civ. si è pronunciata la CORTE
COST., 23.12.2008, n. 435, in Giur. cost., 2008, 4925.
In particolare, sul rapporto tra l’art. 96 cod. proc. civ. e
l’art. 2043 cod. civ., cfr. CASS., 23.6.2011, n. 13827,
in Dir. ind., 2011, 490; CASS., sez. un., 23.3.2011, n.
6597, in Giust. civ., 2011, 2015 ss.; CASS., 23.8.2011,
n. 17523, in Mass. Giust. civ., 2011; CASS., 3.3.2010,
n. 5069, in ivi, 2010; CASS., 2.11.2010, n. 22267, in
questa Rivista, 2011, I, 344 ss.; CASS., 24.7.2007, n.
16308, in Mass. Giust. civ., 2007; CASS., 23.3.2004, n.
5734, ivi, 2004; CASS., 4.4.2001, n. 4968, ivi, 2001.
Sull’interpretazione del concetto di ‘‘normale prudenza’’ di cui sempre al comma 2º dell’art. 96 cod.
proc. civ.: CASS., 25.10.2013, n. 24166, in Dir. e giust.,
2013; CASS., 11.4.2013, n. 8913, in Mass. Giust. civ.,
2013; CASS., 17.1.1996, n. 342, ivi, 1996; CASS.,
2.3.1995, n. 2398, in Dir. ind., 1996, 89; CASS.,
20.10.1982, n. 5470, in Mass. Giust. Civ., 1982.
2. La tesi tradizionale, contraria alla applicabilità dell’art.
96, comma 2º, cod. proc. civ. nel caso di iscrizione
ipotecaria su beni di valore esorbitante.
Sono espressione della tesi maggioritaria: CASS.,
30.7.2010, n. 17902, in Giust. civ., 2011, 2106; CASS.,
28.5.2010, n. 13107, in Mass. Giust. civ., 2010; CASS.,
24.7.2007, n. 16308, ivi, 2007; CASS., 7.5.2007, n.
10299, ibidem; CASS., 4.4.2001, n. 4968, cit.; CASS.,
29.9.1999, n. 10771, in questa Rivista, 2000, I, 455 ss.;
CASS., 3.11.1961, n. 2548, in Foro pad., 1962, I, 740.
Sul requisito della necessaria soccombenza totale o
inesistenza del credito v. in particolare, CASS.,
29.4.2015, n. 8711, in Foro it., 2015, I, 3931 ss.;
CASS., 12.10.2009, n. 21590, in Mass. Giust. civ.,
2009; CASS., 3.9.2007, n. 18533, in Giust. civ.,
2007, 2402; CASS., 22.2.2006, n. 3952, in Mass.
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Sentenze commentate Parte prima
Giust. civ., 2006; CASS., 23.5.2003, n. 8171, ivi, 2003;
CASS., 6.6.2003, n. 9060, ibidem; CASS., 2.3.2001, n.
3035, ivi, 2001; CASS., 28.7.2000, n. 9897, ivi, 2000;
CASS., 14.9.1999, n. 9803, ivi, 1999; CASS., 2.2.1994,
n. 1037, ivi, 1994; CASS., 21.2.1985, n. 1545, ivi,
1985.
3. Verso la responsabilità processuale ex art. 96, comma
2º, cod. proc. civ. nel caso di iscrizione ipotecaria
eccessiva.
L’isolato precedente cui fa riferimento la sentenza in
commento (citandone però erroneamente il numero) è
CASS., 2.2.1994, n. 1037, cit.
IV. La dottrina
Sull’abuso del diritto, ci si limita a richiamare: RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, 205 ss.;
RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto,
Giuffrè, 2007; ORLANDI, Contro l’abuso del diritto (in
margine a Cass., 18.9.2009, n. 20106), in questa Rivista, 2010, II, 129 ss.; SCOGNAMIGLIO, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della
pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in questa Rivista, 2010, II, 139 ss.; MESSINETTI,
voce «Abuso del diritto», in Enc. dir., Agg.to, II, Giuffrè, 1998, 1 ss.; CASTRONOVO, Abuso del diritto come
illecito atipico?, in Europa e dir. priv., 2006, 1051 ss.; DI
BIASE, Frazionamento giudiziale del credito unitario e conseguenze giuridiche, in Contr. e impr., 2016, 41 ss.
Amplissima è poi la dottrina in tema di abuso del
processo, tra cui v. ANSANELLI, Abuso del processo,
nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., Agg.to III, Utet,
2007, 1 ss.; BONGIORNO, voce «Responsabilità aggravata», in Enc. giur. Treccani, Ed. Enc. it., 1991, 1 ss.;
CARIGLIA, L’infrazionabilità del credito tra limiti oggettivi
del giudicato e divieto di abuso del processo (nota a Trib.
Perugia, 19 ottobre 2015), in Giur. it., 2016, 371 ss.;
DONDI, voce «Abuso del processo (diritto processuale
civile)», in Enc. del dir., Giuffrè, Annali, III, 2010, 1
ss.; ID., Spunti di raffronto comparatistico in tema di abuso
del processo (a margine della l. 23-3-2001, n. 89), in
questa Rivista, 2003, II, 62 ss.; DONDI - GIUSSANI,
Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella
prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2007, 193 ss.; DE CRISTOFARO, Doveri di buona fede ed
abuso degli strumenti processuali, in Giusto proc. civ.,
2009, 1018; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I,
Giappichelli, 2012, 432 ss.; NICOTINA, L’abuso nel
processo civile, Aracne, 2005; PICARDI, Manuale del
processo civile, Giuffrè, 2006, 174; TROPEA, L’abuso
del processo amministrativo. Studio critico, Esi, 2015;
ASPRELLA, Il frazionamento del credito nel processo, Cacucci, 2015; CORDOPATRI, L’abuso del processo, Cedam, 2000; ID., L’abuso del processo nel diritto positivo
italiano, in Riv. dir. proc., 2012, 874 ss.; CATALANO,
NGCC 9/2016
L’abuso del processo, Giuffrè, 2004; GHIRGA, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Giuffrè, 2004; ID., Recenti
sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del
processo, in Riv. dir. proc., 2015, 445 ss.; ID., Abuso del
processo e sanzioni, Giuffrè, 2012; TOPPETTI, Il risarcimento del danno da lite temeraria, Giuffrè, 2014, 1 ss.;
PANZAROLA, Presupposti e conseguenze della creazione
giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc.
amm., 2016, 23 ss.; SCARSELLI, Sul c.d. abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2012, 1450 ss.; TARUFFO, Abuso del processo, in Contr. impr., 2015, 832 ss.
Nel testo, si è fatto riferimento a CHIOVENDA, La
condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901, rist. anast.,
Esi, 2001, 319 ss.
Sull’art. 96, comma 3º, v. BUSNELLI - D’ALESSANDRO, L’enigmatico ultimo comma dell’art. 96 cod. proc.
civ.: responsabilità aggravata o ‘‘condanna punitiva’’?, in
Danno e resp., 2012, 585 ss.; CORDOPATRI, L’abuso del
processo nel diritto positivo italiano, cit., 874 ss.; DALLA
MASSARA, Terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.:
quando, quanto e perché?, in questa Rivista, 2011, II,
55 ss.; PORRECA, L’art. 96, 3º comma, cod. proc. civ.:
tra ristoro e sanzione, in Foro it., 2010, 2242 ss.; SALVATORI, Tra abuso del diritto e funzione punitiva: una lettura
ricognitiva dell’art. 96, comma 3, cod. proc. civ. e prospettive de iure condendo, in questa Rivista, II, 2015,
630 ss.
Sui presupposti di applicabilità dell’art. 96, comma 2º,
cod. proc. civ.: C.M. BIANCA, Diritto civile. La responsabilità, 5, Giuffrè, 2012, 773 ss.; CALVOSA, La condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 385; COMOGLIO,
nel Commentario del codice di procedura civile, diretto da
COMOGLIO, CONSOLO, SASSANI e VACCARELLA,
Utet, 2012, sub art. 96, 1257 ss.; FRANZONI, La lite
temeraria e il danno punitivo, in Resp. civ. e prev.,
2015, 1063 ss.; GRASSO, Individuazione delle fattispecie
da illecito processuale e sufficienza dell’art. 96 cod. proc.
civ., in Giur. it., 1961, 93 ss.; MAZZOLA, Responsabilità
processuale, Utet, 2013, 5 ss.; MORANO CINQUE, Promozione del giudizio per «motivi pretestuosi»: malafede
processuale, abuso del processo e lite temeraria, in Resp.
civ. prev., 2015, 1168 ss.
Sul tema del rapporto tra necessaria soccombenza/inesistenza del diritto e responsabilità processuale v. in particolare CORDOPATRI, voce «Spese giudiziali», in Enc.
dir., 1990, XLIII, Giuffrè, spec. 351 ss.; COMOGLIO,
Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir.
proc., 2008, 320 ss.; GHIRGA, Giudizio cautelare e responsabilità aggravata, in Riv. dir. proc., 2013, 1515 ss.
Sulla riduzione di ipoteca esorbitante e responsabilità
processuale v. RAVAZZONI, Le ipoteche, nel Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, 2006, spec. 597 ss.; GORLA, Pegno. Ipoteca, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli - Foro it., 1968, sub artt. 2784-2899, 414 s.;
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Parte prima Sentenze commentate
RUBINO, L’ipoteca immobiliare e mobiliare, Giuffrè,
1956, 493; BUSANI, Responsabilità del creditore per eccessiva iscrizione ipotecaria su beni del debitore, in questa
Rivista, 2000, I, 617 ss.
Per una nota di commento all’orientamento maggioritario: MONTEL, Ancora in tema di responsabilità per
eccesso di iscrizione ipotecaria, in Foro pad., 1962, 741.
Si esprime invece senso critico rispetto all’impostazione tradizionale, anticipando alcuni degli argomenti
della sentenza in commento: MANFREDINI, La responsabilità per eccesso di iscrizione ipotecaria, in Notariato,
2000, 313 ss.
n Responsabilità civile
T.A.R. LOMBARDIA, III sez., 6.4.2016, n. 650 – DI MARIO Presidente – DE VITA Relatore – T. (avv.ti Angiolini,
Formilan e Basilico) – Regione Lombardia (avv. Schiena)
RESPONSABILITÀ CIVILE – PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO DELLA P.A. – NATURA SPECIALE DELLA RESPONSABILITÀ – CONFIGURABILITÀ – MODELLI NORMATIVI PROPRI DEL DIRITTO CIVILE – ESTRANEITÀ (cod. civ., artt.
1218, 2043)
La responsabilità da provvedimento illegittimo della P.A. ha natura speciale e non è riconducibile ai modelli
normativi propri del diritto civile. Rispetto alla responsabilità extracontrattuale, il comportamento illecito si
inserisce nell’ambito di un procedimento amministrativo ispirato al principio di legalità e come tale non
assimilabile alla condotta di chi - con un comportamento materiale o di natura negoziale - cagioni un danno
ingiusto a cose, a persone, a diritti, posizioni di fatto o altre posizioni tutelate ai fini risarcitori erga omnes dal
diritto privato. Rispetto alla responsabilità contrattuale, sono diverse le posizioni soggettive che si confrontano:
da un lato, dovere di prestazione (o di protezione) e diritto di credito, dall’altro, potere pubblico e interesse
legittimo o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo. Gli elementi costitutivi della responsabilità della p.a. sono rappresentati dall’elemento oggettivo, dall’elemento soggettivo (colpevolezza o rimproverabilità), dal nesso di causalità materiale o strutturale e dal danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di
interesse legittimo.
RESPONSABILITÀ CIVILE – PAZIENTE IN STATO VEGETATIVO PERMANENTE – ILLEGITTIMO RIFIUTO DELL’INTERRUZIONE DI ALIMENTAZIONE E IDRATAZIONE – RISARCIMENTO DANNI IURE PROPRIO E IURE HEREDITATIS –
SUSSISTENZA (Cost., artt. 2, 3, 13, 32; cod. civ., art. 2043)
Il genitore della persona cui è stata illegittimamente rifiutata l’interruzione del trattamento di alimentazione e
idratazione, ha diritto al risarcimento del danno sia a titolo di erede, per la lesione del diritto fondamentale di
autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute e la lesione del
diritto all’effettività della tutela giurisdizionale, sia di quello iure proprio, per lesione del rapporto parentale
risarcibile anche laddove la lesione del legame familiare non dipenda da una condotta penalmente illecita.
dal testo:
Il fatto. Con ricorso notificato in data 12 gennaio 2015 e
depositato il 22 gennaio successivo, il ricorrente ha chiesto
la condanna della Regione Lombardia al risarcimento dei
danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dagli atti
annullati con sentenza del T.A.R. Lombardia, Milano, Sez.
III, 26 gennaio 2009, n. 214, come confermata dal Consiglio
di Stato, Sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460.
Va premesso che il ricorrente, nella sua qualità di tutore
della propria figlia, in stato di coma vegetativo permanente,
ha impugnato avanti a questo Tribunale la nota della Regione Lombardia prot. n. M1.2008.0032878 del 3 settembre
2008, con la quale il Direttore Generale della Direzione
Generale Sanità aveva respinto la sua richiesta finalizzata
ad ottenere dalla Regione Lombardia la messa a disposizione
di una struttura per il distacco del sondino naso-gastrico che
alimentava e idratava artificialmente la predetta figlia, in
1194
ragione dell’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello
di Milano, con decreto del 9 luglio 2008. Questo Tribunale,
con sentenza n. 214 del 26 gennaio 2009, ha accolto il
ricorso e annullato il provvedimento impugnato.
Nella predetta sentenza, ritenuta la sussistenza della giurisdizione amministrativa, è stato evidenziato come il provvedimento impugnato abbia illegittimamente vulnerato il diritto costituzionale di rifiutare le cure, riconosciuto alla figlia
del ricorrente dalla sentenza della Cass. Civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, quale diritto di libertà assoluto, il cui
dovere di rispetto si impone erga omnes, nei confronti di
chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura,
non rilevando se operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata.
Successivamente al decesso della figlia del ricorrente, avvenuto il 9 febbraio 2009 a Udine, la Regione Lombardia ha
proposto appello avverso la sentenza di questo Tribunale;
con la decisione n. 4660 del 2 settembre 2014, la Terza
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Sentenze commentate Parte prima
Sezione del Consiglio di Stato, ritenendo la sussistenza dell’interesse ad una pronuncia di merito, ha rigettato l’appello
e confermato la sentenza di primo grado.
Con il ricorso proposto nella presente sede il ricorrente,
sia in proprio che nella sua qualità di tutore della propria
figlia defunta, ha chiesto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, che domandato già in occasione
del ricorso proposto nell’anno 2008 (sfociato nella sentenza
di questo Tribunale n. 214 del 2009), fu oggetto di rinuncia
in ragione della necessità di ottenere una decisione in forma
semplificata all’esito dell’udienza camerale cautelare.
A sostegno del ricorso viene dedotta la violazione dei
principi costituzionali e del diritto sovranazionale in materia
di garanzia dell’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, attesa la mancata volontaria attuazione da parte degli
Uffici regionali di prescrizioni discendenti da pronunce definitive sia della Corte di Cassazione che della Corte d’Appello di Milano; nel ricorso si procede poi a quantificare
l’entità sia del danno patrimoniale che di quello non patrimoniale.
Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, che ha
chiesto il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della
controversia, le parti hanno depositato memorie a sostegno
delle rispettive posizioni; la difesa della Regione Lombardia
ha altresı̀ sollevato alcune eccezioni di carattere preliminare,
sia con riguardo alla legittimazione ad agire del ricorrente in
qualità di tutore, sia con riferimento alla violazione dell’art.
30 cod. proc. amm.; la difesa del ricorrente ha replicato alle
predette eccezioni, chiedendone il rigetto.
Alla pubblica udienza del 19 novembre 2015, su conforme
richiesta dei difensori delle parti, il ricorso è stato trattenuto
in decisione.
I motivi. 1. In via preliminare va esaminata l’eccezione di
inammissibilità (e/o improcedibilità) del ricorso formulata
dalla difesa regionale e fondata sulla circostanza che la domanda risarcitoria sarebbe stata già proposta, e successivamente rinunciata, nel giudizio sfociato nella sentenza di
questa Sezione n. 214 del 2009, resa tra le stesse parti e
avente ad oggetto la medesima questione.
1.1. L’eccezione è infondata.
Il Consiglio di Stato, nel ritenere ammissibile l’appello
della Regione Lombardia avverso la citata sentenza di questo Tribunale, nonostante l’avvenuto decesso della figlia del
ricorrente, ha evidenziato come la Regione Lombardia avesse ‘‘un perdurante interesse a veder dichiarata in via definitiva la eventuale legittimità del potere in concreto esercitato
anzitutto, se non esclusivamente, nella vicenda che ne occupa, senza dire che il ricorrente potrebbe comunque chiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’accertata illegittimità della delibera regionale, stante anche il fatto che
egli aveva rinunciato alla domanda risarcitoria inizialmente
proposta avanti al T.A.R., ma non certo all’azione e, dunque, all’eventuale diritto di chiedere il ristoro dei danni in
ipotesi subiti, una volta passata in giudicato la sentenza di
annullamento’’ (sentenza n. 4460 del 2 settembre 2014).
1.2. Di conseguenza, il ricorso proposto nella presente
sede ed avente ad oggetto unicamente la pretesa risarcitoria
deve essere ritenuto ammissibile.
2. Sempre in via preliminare, va scrutinata l’ulteriore eccezione formulata dalla difesa regionale di inammissibilità
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dell’azione proposta dal ricorrente nella sua qualità di tutore
per carenza di legittimazione ad agire.
2.1. L’eccezione è fondata.
Il tutore svolge il suo ufficio nell’esclusivo interesse del
soggetto incapace e quindi non può agire in vece di quest’ultimo, laddove sia intervenuta la cessazione dell’incarico;
la morte dell’incapace determina certamente la cessazione
dall’incarico e quindi l’impossibilità di operare in via ultrattiva in tale veste. Del resto, trattandosi di un compito assunto nell’interesse di un altro soggetto, nessun danno potrebbe concretizzarsi direttamente nei confronti del tutore,
laddove sia posta in essere un’attività o un comportamento
in danno dell’incapace.
In tal senso si è pronunciato anche il supremo giudice
amministrativo, allorquando ha sottolineato che ‘‘la morte
dell’interdetto comporta la cessazione definitiva ed automatica di qualunque tipo di tutela; pertanto, una volta sopravvenuto il decesso, le situazioni giuridiche afferenti al patrimonio del defunto possono esser fatte valere unicamente
dagli eredi’’ (Consiglio di Stato, V, 29 agosto 2006, n.
5030).
2.2. Di conseguenza, deve essere dichiarata la carenza di
legittimazione ad agire del ricorrente nella qualità di tutore
della figlia defunta.
3. Va scrutinata nel merito invece la domanda di risarcimento formulata dal ricorrente nella qualità di padre della
persona deceduta e destinataria del provvedimento emanato
dalla Regione Lombardia, prot. n. M1.2008.0032878 del 3
settembre 2008, annullato da questo Tribunale con la sentenza n. 214 del 2009.
4. Il ricorso è fondato, secondo quanto di seguito specificato.
Trattandosi di una domanda proposta esclusivamente al
fine di ottenere il risarcimento del danno appare opportuno
richiamare la giurisprudenza che si è soffermata sulla natura
della responsabilità della pubblica amministrazione e sugli
elementi costitutivi della stessa, al fine di procedere al suo
inquadramento e di ricavarne le coordinate per farne applicazione nella concreta fattispecie.
Come già evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, ‘‘la responsabilità della pubblica amministrazione da
provvedimento illegittimo risponde ad un modello speciale
non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano
nel settore del diritto civile’’ (Cons. Stato, VI, 14 marzo
2005, n. 1047).
La responsabilità extracontrattuale, che rinviene il fondamento generale della sua disciplina nell’art. 2043 cod. civ.,
presuppone che l’agente non abbia normalmente alcun rapporto o contatto con la parte danneggiata. La norma citata,
infatti, impone, con clausola generale dotata di una sua
autonomia precettiva, il rispetto del dovere generale del
neminem laedere a tutela di qualunque posizione soggettiva
meritevole di protezione giuridica.
La responsabilità contrattuale è conseguenza della violazione di un rapporto giuridico che sorge non solo da un
contratto ma, esprimendo l’espressione impiegata una sineddoche, anche dalla legge o da contatto tra le parti che può
generare un rapporto contrattuale di fatto. Le posizioni soggettive sono riconducibili alla categoria del diritto soggettivo relativo.
La responsabilità della pubblica amministrazione ha natu-
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Parte prima Sentenze commentate
ra speciale non riconducibile ai modelli normativi di responsabilità sopra indicati.
In primo luogo, rispetto alla responsabilità civile, quella in
esame presuppone che il comportamento illecito si inserisca
nell’ambito di un procedimento amministrativo. L’amministrazione, in ossequio al principio di legalità, deve osservare
predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua azione. L’esercizio del potere autoritativo «non è assimilabile alla condotta
di chi - con un comportamento materiale o di natura negoziale - cagioni un danno ingiusto a cose, a persone, a diritti,
posizioni di fatto o altre posizioni tutelate ai fini risarcitori
erga omnes dal diritto privato (e la cui tutela è prevista dagli
articoli 2043 e ss. del codice civile)» (Cons. Stato, VI, n.
1047 del 2005).
In secondo luogo, rispetto alla responsabilità contrattuale,
sono diverse le posizioni soggettive che si confrontano: da
un lato, dovere di prestazione (o di protezione) e diritto di
credito, dall’altro, potere pubblico e interesse legittimo o,
nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo.
In definitiva, ‘‘la peculiarità dell’attività amministrativa che deve svolgersi nel rispetto di regole procedimentali e
sostanziali a tutela dell’interesse pubblico - rende speciale,
per le ragioni indicate, anche il sistema della responsabilità
da attività illegittima’’ (Consiglio di Stato, VI, 29 maggio
2014, n. 2792; altresı̀, 27 giugno 2013, n. 3521).
Gli elementi costitutivi della responsabilità della p.a. sono
rappresentati, quindi, dall’elemento oggettivo, dall’elemento soggettivo (colpevolezza o rimproverabilità), dal nesso di
causalità materiale o strutturale e dal danno ingiusto, inteso
come lesione alla posizione di interesse legittimo.
In particolare, il fatto lesivo deve essere collegato, con un
nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi
patrimoniali o non patrimoniali lamentati (cfr. Consiglio
di Stato, VI, 27 giugno 2013, n. 3521).
Va precisato poi che, laddove sia stata proposta, come nel
caso de quo, un’autonoma azione di responsabilità, il giudice
amministrativo «può effettuare un giudizio prognostico applicando, con gli esposti adattamenti, le regole elaborate in
ambito civilistico per ricostruire il nesso di causalità. Occorre, pertanto, accertare se vi è stato danno ingiusto valutando
se, in applicazione della teoria condizionalistica e della causalità adeguata, è ‘‘più probabile che non’’ che l’azione o
l’omissione della pubblica amministrazione siano state idonee a cagionare l’evento lesivo» (Consiglio di Stato, VI, 29
maggio 2014, n. 2792).
5. Nella fattispecie di cui al presente giudizio si possono
rinvenire tutti gli elementi costituitivi della responsabilità
della pubblica amministrazione, come in precedenza evidenziati.
5.1. Quanto all’elemento oggettivo della responsabilità,
ossia il fatto lesivo e la sua ingiustizia, esso consiste in primo
luogo nell’impedimento frapposto all’esecuzione dell’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello di Milano, con
decreto del 9 luglio 2008, emesso nel giudizio di rinvio
disposto dalla Corte di Cassazione, sez. I, 16.10.2007, n.
21748, e in sede di reclamo contro provvedimento del giudice tutelare del Tribunale di Lecco e divenuto ormai definitivo.
Anche la sentenza di questo Tribunale n. 214 del 26
gennaio 2009, confermata dal Consiglio di Stato con sen-
1196
tenza del 2 settembre 2014 n. 4460, che ha annullato il
diniego del Direttore Generale della Direzione generale Sanità della Giunta Regionale Lombardia del 3 settembre
2008 di accettare il ricovero della malata, è rimasta inadempiuta prima del decesso dell’interessata.
5.2. Anche l’elemento soggettivo e il nesso di causalità tra
comportamento della Pubblica Amministrazione e danno
ingiusto sono certamente sussistenti.
A fronte di un decreto della Corte d’Appello di Milano adottato il 9 luglio 2008 - di cui non può contestarsi l’efficacia di cosa giudicata (punto 66.3 sentenza n. 4460 del
2014 del Consiglio di Stato), contenente l’ordine di eseguire
la prestazione richiesta (punto 65.4 cit.), la Regione si è
rifiutata deliberatamente e scientemente di darvi seguito,
ponendo in essere un comportamento di natura certamente
dolosa.
Come evidenziato dalla pronuncia del Consiglio di Stato
(punto 23.1), la Regione ha inteso negare l’effettuazione
della richiesta prestazione sanitaria non con la semplice
inerzia o con un mero comportamento materiale, agendo
‘‘nel fatto’’, o adducendo a motivo di tale mancato adempimento l’impossibilità tecnica della prestazione richiesta o un
impedimento di ordine fattuale, bensı̀ con l’emanazione di
un espresso provvedimento, a firma del Direttore Generale
della Sanità Lombarda.
Non è possibile che lo Stato ammetta che alcuni suoi
organi ed enti, qual è la Regione Lombardia, ignorino le
sua leggi e l’autorità dei tribunali, dopo che siano esauriti
tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, in quanto questo
comporta una rottura dell’ordinamento costituzionale non
altrimenti sanabile.
Né, a tal fine, si possono invocare motivi di coscienza, in
quanto, come evidenziato dalla pronuncia del Consiglio di
Stato (punto 55.6), «a chi avanza motivi di coscienza si può
e si deve obiettare che solo gli individui hanno una ‘‘coscienza’’, mentre la ‘‘coscienza’’ delle istituzioni è costituita
dalle leggi che le regolano».
Anche il nesso di causalità sussiste in quanto l’inottemperanza al giudicato civile prima, ed a quello amministrativo
poi, ha determinato la protrazione di uno stato vegetativo
permanente in capo al soggetto interessato e contro la sua
volontà, con tutte le conseguenza che ne sono derivate.
6. A questo punto deve provvedersi alla liquidazione dei
danni sia nella componente patrimoniale che non patrimoniale (sul danno non patrimoniale legato allo svolgimento
di un’attività amministrativa, da ultimo, Consiglio di Stato,
IV, 21 settembre 2015, n. 4375).
6.1. Con riguardo al danno patrimoniale, il ricorrente ha
chiesto la liquidazione della somma complessiva di E
12.965,78, cosı̀ ripartita: E 647,10 legati al costo del trasporto della paziente; E 470,00 quale retta per la degenza; E
11.848,68 per costi legati al piantonamento fisso (all. 2 al
ricorso).
Tali costi possono essere certamente riconosciuti in favore
del ricorrente, atteso che in ragione della peculiare situazione che si era venuta a creare - anche a causa del rifiuto
regionale di interrompere le cure - e per la difficoltà di
individuare celermente una struttura fuori Regione, disposta
ad eseguire il trattamento di interruzione di alimentazione e
idratazione della figlia, non sarebbe stato concretamente
possibile effettuare approfondite verifiche in ordine ai costi
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dei vari servizi e alla loro eventuale rimborsabilità da parte
del S.S.N. (quest’ultimo certamente difficile da ottenere,
visto il complessivo comportamento regionale); quanto alle
spese di piantonamento, le stesse appaiono giustificate avuto
riguardo alla risonanza mediatica della vicenda, ampiamente
dimostrata dagli articoli di stampa allegati agli atti di causa.
6.2. Pertanto, a titolo di danno patrimoniale deve essere
liquidata al ricorrente la somma di E 12.965,78, oltre agli
interessi legali dal momento dell’esborso e fino alla data di
pubblicazione della sentenza.
7. Quanto al danno non patrimoniale, vanno sottolineati
alcuni aspetti preliminari.
7.1. Il ricorrente, nella veste di genitore della persona cui
è stata rifiutata l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione, ha diritto al risarcimento sia del danno a
titolo di erede, sia di quello iure proprio per lesione del
rapporto parentale.
7.2. In ordine al danno di natura non patrimoniale a
titolo ereditario (per la domanda relativa a siffatta voce di
danno si vedano le pagg. 25 e 44-45 del ricorso introduttivo
e la pag. 18 della memoria finale del ricorrente) va evidenziato come il comportamento della Regione Lombardia ha
leso il diritto fondamentale della sig.ra -OMISSIS- ad ottenere l’interruzione del procedimento di alimentazione artificiale, atteso che è stato riconosciuto in capo alla stessa,
come pure a ciascun individuo, il diritto assoluto a rifiutare
le cure ad essa somministrate in qualunque fase del trattamento e per qualunque motivazione (cfr. Cass. Civ., I, 16
ottobre 2007, n. 21748, riferita proprio al caso de quo), sul
presupposto della sussistenza di specifici presupposti (la cui
verifica è stata affidata alla Corte d’Appello di Milano che
ha pronunciato il decreto in data 9 luglio 2008).
A fronte dei predetti provvedimenti giurisdizionali che
hanno accertato la sussistenza del diritto ad ottenere l’interruzione del trattamento sanitario, il rifiuto espresso dalla
Regione Lombardia con l’atto dirigenziale del 3 settembre
2008, contenente il diniego di ricovero al fine di sospendere
il trattamento di idratazione e alimentazione artificiale annullato con la sentenza di questo Tribunale n. 214 del
2009, confermata dalla decisione del Consiglio di Stato n.
4460 del 2014 -, ha determinato la lesione del diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di
scelta di non ricevere cure, oltre che della salute, cosı̀ come
ricostruito nelle sentenze che li hanno riconosciuti (c.d.
diritto di staccare la spina: da ultimo, Cass., SS.UU., 22
dicembre 2015, n. 25767), e la lesione del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale; le lesioni sono state aggravate dalla circostanza che, nemmeno dopo la pronuncia di
questo Tribunale, la Regione ha messo a disposizione una
struttura per eseguire quanto statuito nelle diverse sedi giurisdizionali. Si tratta poi di danno conseguenza, ossia di
lesione che ha avuto degli effetti, seppure di tipo non patrimoniale, giacché non è stata rispettata la volontà del
soggetto interessato - per come ricostruita dalla Corte d’Appello - di voler mettere fine ad un trattamento sanitario; ciò
rappresenta una palese violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost.
(Corte costituzionale, sentenza n. 438 del 2008; Cass. Civ.,
III, 12 giugno 2015, n. 12205).
La quantificazione dei sopra richiamati danni, di tipo non
patrimoniale, che può avvenire soltanto attraverso una valutazione in via equitativa (Cass. Civ., III, 23 gennaio 2014,
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n. 1361), va effettuata tenendo conto sia della natura dolosa
del rifiuto regionale, pur a fronte delle numerose iniziative
giurisdizionali intraprese dal sig. (Omissis), sfociate nel decreto della Corte d’Appello del 9 luglio 2008, sia del non
brevissimo lasso di tempo - dalla predetta pronuncia - che la
sig.ra (Omissis) ha dovuto attendere prima della interruzione
del trattamento sanitario.
In ragione di ciò il risarcimento può essere determinato
nella somma complessiva di E 60.000,00 (sessantamila/00)
che, quale danno a titolo ereditario, va ridotto avendo riguardo alla possibile presenza di altri eredi, del cui numero
non vi è certezza (fatta eccezione per la madre; cfr. art. 571
c.c. sulla contemporanea presenza di più soggetti aventi
diritto all’eredità): pertanto appare equo ridurre la somma
ad un terzo, ossia ad E 20.000,00 (ventimila/00).
7.3. Non può essere riconosciuto invece quanto richiesto
dal ricorrente, iure proprio, a titolo di danno morale soggettivo (in tema, cfr. Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n.
26972; III, 12 maggio 2003, nn. 7281 e 7282), atteso che
lo stesso non ha ancorato la richiesta di danno morale alla
sussistenza di una, seppure ipotetica, illiceità penale direttamente collegata all’adozione del provvedimento impugnato,
ma ha individuato la genesi di tale categoria di danno non
patrimoniale nelle attività e nei comportamenti di alcuni
organi regionali o di altri soggetti, anche estranei all’apparato regionale - e per lo più svolgenti attività riconducibili
alla sfera dell’indirizzo politico - che avrebbero posto in
essere una vera a propria campagna diffamatoria e calunniatoria nei suoi confronti; appare tuttavia evidente che, seppure un collegamento effettivamente possa ritenersi sussistente, non vi è un nesso di causalità diretto tra l’atto regionale impugnato e gli eventuali danni subiti dal ricorrente
in ragione delle dichiarazioni e dei comportamenti dei vertici politici della Regione o di altri soggetti aventi un ruolo
pubblico, trattandosi di condotte di natura personale e poste
in essere da soggetti non aventi una propria specifica competenza nell’adozione degli atti e delle attività richiesti all’Amministrazione resistente. I danni asseritamente subiti a
causa di tali comportamenti possono essere fatti valere soltanto in un autonomo giudizio civile o attraverso la costituzione di parte civile in un procedimento penale. Ne discende che tale tipologia di danno, ossia quello morale soggettivo, non può essere riconosciuta nella presente sede.
7.4. Va invece riconosciuto il danno richiesto dal ricorrente, iure proprio, a titolo di lesione alle relazioni familiari
e al rapporto parentale.
Infatti si tratta di un pregiudizio a diritti fondamentali che
trovano la loro fonte diretta nella Costituzione, atteso che
nell’art. 2059 c.c. trova adeguata collocazione ‘‘anche la
tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti
inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n.
8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno
da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso
di morte o di procurata grave invalidità del congiunto)’’
(Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972).
Tale figura di danno, da collocare nell’ambito del danno
conseguenza non patrimoniale, risulta quindi pienamente
risarcibile, anche laddove la lesione del legame familiare
non dipenda da una condotta penalmente illecita.
Quanto al suo accertamento, trattandosi di pregiudizio ad
un bene immateriale, ‘‘il ricorso alla prova presuntiva è
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destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire
anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del
giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore
agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato
dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta
fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti
noti che consentano di risalire al fatto ignoto’’ (Cass.,
SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972; altresı̀ Cass. Civ.,
III, 20 agosto 2015, n. 16992).
Nel caso di specie, tenuto conto della peculiare situazione
legata alla persistenza dello stato vegetativo della sig.ra
(Omissis) per ben 17 anni, scaturito da un incidente stradale, il diniego regionale del 3 settembre 2008, assunto in
consapevole ed evidente contrasto con le richiamate pronunce giurisdizionali, ha aggravato le difficoltà e i turbamenti che hanno dovuto affrontare i genitori, in particolare
il padre, odierno ricorrente, che assunto anche la veste di
tutore, vanificando gli effetti del Decreto della Corte d’Appello di Milano del 9 luglio 2008.
In ragione di ciò la vita familiare, già sconvolta da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, è stata
ulteriormente turbata dall’ostruzionismo della Regione
Lombardia (cfr. Cass. Civ., III, 20 agosto 2015, n. 16992):
si è impedito quindi al ricorrente di dare seguito alla volontà
della figlia di non continuare a vivere quello stato di incoscienza permanente, essendo stata accertata con le più volte
citate pronunce giurisdizionali - rese sia in sede civile che
amministrativa e passate in giudicato - l’incompatibilità di
uno stato vegetativo con lo stile di vita e i convincimenti
profondi riferibili alla persona, correlati ai fondamentali di-
ritti di autodeterminazione e di rifiutare le cure (artt. 2, 13 e
32 Cost.).
La quantificazione del danno alla lesione del rapporto
parentale, di natura certamente catastrofale, non può che
avvenire in via equitativa pura in ragione della assenza di
criteri standardizzati o di riferimenti rinvenibili nell’ordinamento (sulla valutazione equitativa e sulla ‘‘personalizzazione della liquidazione’’, si veda Cass. Civ., III, 20 agosto
2015, n. 16992).
Anche in tale frangente va considerata rilevante la circostanza della natura dolosa del rifiuto regionale, che ha reso
ancora più gravosa la condizione esistenziale del ricorrente,
reputandosi pertanto equo liquidare allo stesso la somma di
E 100.000,00 (centomila/00).
8. In conclusione il ricorso va accolto secondo quanto
specificato in precedenza, liquidando al ricorrente le somme
di E 12.965,78, a titolo di danno patrimoniale, di E
30.000,00 (trentamila/00), a titolo di danno iure hereditatis
per lesione dei diritti fondamentali della sig.ra (Omissis), e
di E 100.000,00 (centomila/00), a titolo di danno non patrimoniale da lesione di rapporto parentale. Trattandosi di
debito di valore, sulla somma che lo esprime sono dovuti
interessi e rivalutazione dalla data di proposizione del ricorso
deciso con la sentenza di questa Sezione n. 214 del 2009
fino al saldo (cfr. Cass. Civ., II, 11 maggio 2011, n. 10349),
fatta eccezione per la somma liquidata a titolo di danno
patrimoniale (cfr. il precedente punto 6.2 del diritto).
9. Le spese in parte vengono compensate e in parte seguono il criterio della parziale soccombenza a carico della
Regione Lombardia, venendo liquidate in dispositivo.
(Omissis)
«La responsabilità della pubblica amministrazione nel caso Englaro»
di Chiara Favilli*
Dopo avere alimentato il dibattito in campo giuridico e bioetico in ordine all’attuazione delle scelte di fine
vita del soggetto incapace, il caso Englaro offre al giudice amministrativo - chiamato a rimediare alle
conseguenze del provvedimento regionale che ha impedito il tempestivo esercizio del diritto di rifiutare
le cure riconosciuto al termine di una lunga battaglia giudiziaria - l’occasione per aderire alla tesi della
natura speciale della responsabilità per lesione degli interessi legittimi, nonché per estendere il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, oltre le ipotesi consuete della morte e delle gravi
lesioni inferte al congiunto da terzi: alla violazione del diritto di autodeterminazione del familiare al quale
consegua il prolungamento di una condizione difforme dalla sua identità e dalla sua concezione sulla
dignità della vita.
I. Il caso
La pronuncia in commento apre una nuova fase della
tormentata vicenda attraversata dal padre e tutore di
Eluana Englaro al fine di ottenere l’autorizzazione a disporre l’interruzione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale che mantenevano in vita la figlia da
quando un incidente stradale l’aveva ridotta in stato
vegetativo permanente, sı̀ da conformarsi alla presumibile volontà, come ricostruita sulla base dei desideri di
lei, della sua personalità, del suo stile di vita, dei suoi più
intimi convincimenti. In esito a ripetuti e defatiganti
interpelli giudiziali il distacco dei presidi vitali viene
ammesso sul presupposto del diritto di rifiutare le cure
e, stante l’incapacità dell’interessata, al suo esercizio è
* Contributo pubblicato in base a referee.
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Sentenze commentate Parte prima
delegato il legale rappresentante a particolari condizioni
(assoluta irreversibilità della condizione patologica; elementi di prova chiari, univoci e convincenti circa la
corrispondenza della scelta interruttiva ai desideri della
paziente). A complicare ulteriormente l’iter si frappone,
però, la delibera regionale che respinge la richiesta diretta ad ottenere la messa a disposizione di una struttura
idonea a procedere alla sospensione dei trattamenti, secondo quanto prescritto dal giudice, con la conseguente
necessità di trasferire la paziente nella clinica di Udine
che aveva offerto la propria disponibilità, senza attendere
l’esito dell’impugnazione al tribunale amministrativo.
A seguito dell’annullamento dell’atto, il T.a.r. viene
chiamato nuovamente a decidere in ordine alla responsabilità della Regione Lombardia per i pregiudizi
in tal modo cagionati. Nell’opinione della Corte, il
deliberato e ingiustificato diniego, oltre ad avere inficiato la garanzia dell’effettività del diritto alla tutela
giurisdizionale, ha leso il diritto costituzionale di rifiutare
le cure riconosciuto alla paziente. Ne consegue il diritto
del ricorrente al risarcimento del danno patrimoniale, per
le spese sostenute per esercitare il diritto fuori Regione,
oltre che alla riparazione del pregiudizio non patrimoniale.
In particolare, la violazione dei suddetti diritti fondamentali assume rilevanza sia iure hereditario, sia iure
proprio, per la sua incidenza sulle relazioni familiari e
sul rapporto parentale, giacché l’ostruzionismo regionale, nel determinare il protrarsi dello stato vegetativo,
ha aggravato le difficoltà e i turbamenti dei genitori.
Viene, invece, escluso, in difetto di rilevanza penale
oltre che di collegamento eziologico con l’atto impugnato, il danno morale soggettivo iure proprio imputato
dal ricorrente ai vertici pubblici ritenuti artefici di una
campagna denigratoria nei suoi confronti.
II. Le questioni
1. La natura della responsabilità della pubblica
amministrazione per il danno da lesione di interessi
legittimi.
Il superamento della tradizionale immunità della p.a.
per la lesione degli interessi legittimi, a seguito della
svolta impressa da Cass., sez. un., n. 500/1999 (infra,
sez. III), rappresenta uno dei riflessi dell’affermazione
del concetto di ingiustizia del danno quale norma primaria e clausola generale, non più circoscritta pertanto
alla protezione delle posizioni riconducibili alla categoria del diritto soggettivo ma aperta alla tutela dell’intera
area delle situazioni giuridicamente rilevanti. Ciò malgrado, e nonostante la chiara scelta di campo dell’art. 30
del cod. proc. amm., la tesi extracontrattuale non ha
convinto la totalità degli interpreti, i quali, osservando
l’assetto multiforme dei rapporti tra privato e pubblica
amministrazione e il variare dei margini di discrezionalità nello svolgimento delle numerose funzioni e attività
NGCC 9/2016
ad essa imputabili, hanno elaborato una serie di proposte ricostruttive ulteriori. Alla alternativa contrattuale,
ascritta alla violazione di obbligazioni senza prestazione
nascenti dal contatto procedimentale, si sono aggiunti,
infatti, il richiamo all’art. 1337 cod. civ. nelle decisioni
relative all’illegittimità di procedure selettive - destinato
però a riaprire la medesima alternativa, stante l’esclusione di una propria valenza autonoma - e la riconduzione
a un tertium genus, un modello speciale, equidistante
dalle categorie tradizionali, secondo un orientamento
tracciato dal Consiglio di Stato.
A rendere significativa l’adesione a questa prospettiva
nella pronuncia in esame è il carattere peculiare dell’interesse fatto valere dal ricorrente. Il provvedimento illegittimo di diniego è stato adottato, infatti, nell’ambito
di un’attività vincolata non a livello normativo, ma
giudiziale. Se per motivare il rifiuto si è addotta l’esigenza di evitare il venir meno del personale sanitario
regionale ai propri obblighi professionali e di servizio,
«anche in considerazione del fatto che il provvedimento giurisdizionale di cui si chiede l’esecuzione non contiene un
obbligo formale a carico di soggetti o enti individuati», il
T.a.r. Lombardia (con la pronuncia del 26.1.2009, n.
214, in Foro it., 2009, III, 238 ss., con nota di PALMIERI,
confermata da CONS. STATO, 2.9.2014, n. 4460, in
questa Rivista, 2015, I, 74) sottolinea, invece, che «la
regola di diritto, ermeneuticamente desunta dall’ordinamento
giuridico ed applicata nel caso concreto dalla giurisprudenza,
non ha minore effetto conformativo dell’ordinamento generale di quella promanante dalle fonti scritte, almeno sino a
quando essa non sia sconfessata dal Legislatore». Una volta
riconosciuto il diritto di rifiutare le cure, quale diritto di
libertà assoluto, «il cui dovere di rispetto si impone erga
omnes» (T.A.R. LOMBARDIA, 26.1.2009, n. 214, cit.,
sulla scia di CASS., 16.10.2007, n. 21748, in questa
Rivista, 2008, II, 331 con nota di AZZALINI, Tutela
dell’identità del paziente incapace e rifiuto di cure: appunti
sul caso Englaro) e una volta indicata l’esecuzione, in
hospice o altro luogo di ricovero confacente, tra le «disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa» (APP.
MILANO, decr. 9.7.2008, in Foro it., 2009, I, 987, con
nota di MALTESE, Il falso problema della nutrizione artificiale), i margini di apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa regionale interpellata si sono ridotti all’identificazione della struttura idonea all’espletamento del diritto riconosciuto alla paziente.
L’interesse in gioco sembra poter essere inquadrato,
pertanto, nella categoria degli interessi legittimi c.d. a
«risultato garantito» (GRECO, 1999, 1128, infra, sez.
IV), giacché il ricorrente ha titolo all’effettivo conseguimento del bene della vita avuto di mira. Potrebbe,
altresı̀, ipotizzarsi la lesione di un diritto soggettivo
come si è sostenuto in presenza di un atto illegittimo
impeditivo della tempestiva esplicazione del diritto
(CASETTA, voce ‘‘Responsabilità civile della pubblica
amministrazione’’, nel Digesto IV ed., Disc. pubb., XIII,
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Parte prima Sentenze commentate
Utet, 1997, 218) e come ha implicitamente riconosciuto CONS. STATO, 2.9.2014, n. 4460, cit., nel confermare il giudizio di illegittimità del diniego quando
ha messo in luce che, pur in difetto di una normativa
di riferimento, consentire alla Regione di rifiutare di
rendere la funzione amministrativa cui è preposta equivale in sostanza a negare lo stesso diritto fondamentale
(sul punto anche R. FERRARA, Il caso Englaro innanzi al
Consiglio di Stato, in questa Rivista, 2015, II, 11). L’inquadramento nell’uno o nell’altro schema non inciderebbe comunque sulla competenza, trattandosi di materia rientrante nella giurisdizione esclusiva.
Incanalandosi sul modello francese (TORCHIA, La
responsabilità della pubblica amministrazione, in NAPOLITANO (a cura di), Diritto amministrativo comparato,
Giuffrè, 2007; LAZARI, Modelli e paradigmi della responsabilità dello Stato, Giappichelli, 2005, 87 ss.), la tesi
della natura speciale della responsabilità muove, come
già accennato, dalle stesse premesse critiche che hanno
indotto a intravedere un’«area di turbolenza tra contratto e torto», e a popolarla via via di diverse figure di
responsabilità: l’insoddisfazione per l’inquadramento
nell’alternativa tradizionale in tutte quelle ipotesi nelle
quali non sia possibile escludere pregresse relazioni tra
danneggiante e danneggiato ma neppure ravvisare gli
estremi dell’obbligazione. Per questa «peculiare figura di
illecito, qualificato dall’illegittimo esercizio del potere autoritativo» (CONS. STATO, 14.3.2005, n. 1047, infra, sez.
III), lo svolgimento del rapporto (procedimento amministrativo) all’interno del quale si inserisce la condotta
illecita secondo regole predefinite (ispirate dal principio di legalità) lascia trasparire, per un verso, il difetto
dell’estraneità e della genericità del dovere di neminem
laedere che caratterizzano la responsabilità aquiliana, e
per un altro verso, la presenza dell’abbinamento tra
potere pubblico e interesse legittimo/diritto soggettivo
in luogo del nesso tra dovere di prestazione/protezione
e diritto di credito che contraddistingue la responsabilità da inadempimento.
L’argomentazione addotta nella pronuncia in commento lascia aperta invero la possibilità di superare le
perplessità relative all’inquadramento aquiliano, giacché l’argomento descrittivo utilizzato, riflesso della responsabilità extracontrattuale intesa come responsabilità del «passante», del «chiunque», appare certamente
ridimensionato, se non addirittura smentito, dagli sviluppi normativi e giurisprudenziali più recenti. Essa
tuttavia non rende accessibile il percorso interpretativo speculare, che ambisce a dipingere la «zona grigia
tra contratto e torto» dei colori della responsabilità
contrattuale, mediante l’estensione dell’art. 1218 cod.
civ. all’inadempimento delle obbligazioni senza obbligo primario di prestazione nascenti dal contatto qualificato (Castronovo, 2006, 446 ss., infra, sez. IV) Critico circa il ricorso al contatto sociale e sostenitore della
sua inapplicabilità agli interessi legittimi: G. DI GIAN-
1200
DOMENICO,
Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale nella lesione di interesse legittimo, in DI GIANDOMENICO (a cura di), Il danno risarcibile per lesione di
interessi legittimi, E.S.I., 2004, 35 ss.). Si esclude, infatti,
testualmente la configurabilità di un dovere di protezione, oltre che di prestazione, a carico della P.A.
Rispetto ai precedenti, tra gli argomenti che compongono la pars destruens si trascura, invece, di richiamare a
mo’ di controprova l’omesso richiamo nell’art. 35 del
d.lgs. n. 80 del 1998 delle disposizioni del codice civile
oltre che delle nozioni fondamentali (diligenza, dolo,
colpa, ecc.) su cui si basano i sistemi della responsabilità
civile (cosı̀ CONS. STATO, 14.3.2005, n. 1047, cit.). A
questo riguardo si è correttamente osservato, innanzitutto, che l’assenza di una specifica disciplina rende necessario il ricorso a un modello di riferimento (l’art. 1218 o
l’art. 2043 cod. civ.) per evitare di affidarsi in toto all’opera creativa della giurisprudenza (CARINGELLA, 53,
infra, sez. IV); poi, che a differenza di quanto avviene
nel sistema francese, la specialità non implica la natura
oggettiva della responsabilità, ma postula ancora la colpa, sulla falsariga dell’art. 2043 cod. civ.
È quanto finisce per fare la pronuncia in commento
(ma già CONS. STATO, 27.6.2013, n. 3521, infra, sez.
III), nella pars construens che scandisce gli elementi
costitutivi della responsabilità speciale della p.a., i quali
a ben vedere ricalcano nel contenuto oltre che nella
forma, i presupposti della responsabilità aquiliana secondo la sentenza n. 500/1999.
Si richiede, infatti, la prova dell’elemento oggettivo,
«ossia il fatto lesivo e la sua ingiustizia», rappresentato
dall’impedimento frapposto dal provvedimento di diniego all’esecuzione dell’autorizzazione. Il danno ingiusto,
secondo le Sezioni Unite, è integrato dalla colpevole
adozione di un provvedimento amministrativo illegittimo che risulti lesivo dell’«interesse al bene della vita [meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo] al
quale l’interesse legittimo si correla». Nel caso di specie, è
indubbio che la delibera regionale illegittima abbia vulnerato l’interesse ad essere messo in condizione di esplicare il bene della vita rappresentato dal diritto (al rifiuto
delle cure) giudizialmente riconosciuto, oltre a ledere
quello all’effettività della tutela giurisdizionale. D’altra
parte, la tesi contrattuale avrebbe consentito il risarcimento anche a prescindere dalla lesione del bene della
vita, per l’inadempimento degli obblighi nascenti dal
contatto amministrativo qualificato.
Occorre poi la dimostrazione dell’elemento soggettivo, ravvisato nel rifiuto cosciente e deliberato della
p.a, quindi in un contegno non limitato alla mera
inerzia o a una condotta scusabile (riconducibile al
caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione
di una norma, di formulazione incerta di norme da
poco entrate in vigore, di rilevante complessità del
fatto, d’influenza determinante di comportamenti di
altri soggetti o di illegittimità derivante da una succes-
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siva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata) ma addirittura doloso. Anche le Sezioni Unite
nella richiamata sent. n. 500/1999 avevano sottolineato la necessità della prova del presupposto soggettivo e
il parallelo rifiuto della presunzione di colpa per l’adozione e l’esecuzione di atto amministrativo illegittimo.
In caso di opzione contrattuale il ricorrente sarebbe
esonerato dalla prova della colpa mentre sarebbe spettato all’amministrazione dimostrare la non imputabilità dell’inadempimento. La qualificazione aquiliana,
d’altro canto, non vale a ridurre il bacino del danno
risarcibile rispetto all’inquadramento nell’art. 1218
cod. civ. perché la connotazione dolosa apre al risarcimento del danno non prevedibile
Infine, si evoca il doppio giudizio di causalità: tra
comportamento della p.a. e lesione dell’interesse legittimo e tra quest’ultima e il pregiudizio immediato e
diretto inferto all’interesse, di natura patrimoniale e
non, correlato all’interesse legittimo. Tale giudizio si
ritiene superato alla luce del fatto che l’inottemperanza
della p.a. ha frustrato l’interesse (pretensivo) all’autorizzazione al distacco del sondino naso-gastrico e che il
prolungamento dello stato vegetativo della paziente ha
prodotto le conseguenze, patrimoniali e non, oggetto
della pretesa risarcitoria.
I requisiti per integrare la responsabilità speciale enucleata dalla pronuncia in commento ricalcano, insomma, i presupposti della responsabilità ex art. 2043 cod.
civ. Alla stregua di quest’ultima, si può semmai osservare che, relativamente all’ingiustizia del danno, l’indubbia legittimità della pretesa da parte del titolare
dell’interesse legittimo a «risultato garantito» di un
esito favorevole il comporta la altrettanto certa rilevanza dell’affidamento riposto dal richiedente nel risultato al quale può dirsi, a priori, avere diritto. Non
occorre, pertanto, avviare il complesso accertamento
prognostico circa la sussistenza di un legittimo affidamento nel provvedimento favorevole della p.a. che si
ha nell’ipotesi di esercizio della potestà discrezionale,
giudizio da basare sul dato normativo rapportato al
caso in esame e sull’idoneità della condotta della p.a.
di ingenerare di fatto un affidamento (NAVARRETTA,
Il danno ingiusto, 216 s., infra, sez. IV).
La peculiarità degli interessi in gioco nel caso di specie
rende sostenibile, peraltro, anche la tesi contrattuale,
fondata sulla lettura relazionale del procedimento amministrativo (il fondamento normativo del «contatto»
tra cittadino e pubblica amministrazione, viene rinvenuto nella l. 7.8.1990, n. 241 che consente ai privati di
partecipare al procedimento amministrativo e negli sviluppi normativi successivi) e diretta a identificare l’attività illegittima con l’inadempimento di un’obbligazione.
Nel caso dell’esercizio di un potere vincolato, il comportamento dovuto è rappresentato dall’adozione del
provvedimento della cui doverosità è fonte la legge
(o, nel nostro caso, un provvedimento giudiziale) per
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cui il cittadino si troverebbe a lamentare il mancato
soddisfacimento di un vero e proprio diritto di credito.
Sembra, pertanto, che nel caso in esame non sussistano le ragioni per respingere le alternative tradizionali: né per scartare la tesi contrattuale, posto che in
capo al ricorrente potrebbe essere ravvisata una vera e
propria facoltà di pretendere l’esecuzione delle prescrizioni statuite nella sentenza; né, tantomeno, la tesi
extracontrattuale ove si scelga di abbandonare, come
suggerito in dottrina, il collegamento univoco con la
pregressa estraneità tra le parti (NAVARRETTA, Il danno ingiusto, 236). A quest’ultima, d’altro canto, sembra
aderire di fatto la sentenza.
Va sottolineata, altresı̀, l’inutile evocazione della
specialità. La regola generale tende naturalmente ad
adattarsi al contesto applicativo e alla specificità degli
interessi in gioco senza bisogno di richiamare un concetto che implica eccezionalità.
2. Il danno non patrimoniale in caso di lesione del diritto di
rifiutare le cure e del diritto alla tutela giurisdizionale
effettiva.
Il contegno ostruzionistico della Regione Lombardia
viola un duplice ordine di diritti fondamentali.
Innanzitutto, il diritto di rifiutare le cure, fondato
sugli artt. 2, 3, 13, 32 Cost., sulla scorta, per un verso,
dell’opinione che riconduce la nutrizione e l’idratazione artificiale al novero degli atti medici in senso tecnico, anziché degli strumenti di sostegno vitale; per un
altro verso, della possibilità di esercizio da parte del
legale rappresentante del paziente incapace, in presenza di precisi presupposti.
Sul primo versante, infatti, è stata a lungo prevalente
l’opinione secondo la quale nutrizione e idratazione
rappresentano atti dovuti da un punto di vista etico
e giuridico in quanto indispensabili per garantire le
condizioni fisiologiche di base per vivere», non destinate a diventare ‘‘atti medici’’ o ‘‘trattamenti medici’’
in senso proprio solo perché somministrati da terzi per
via artificiale e perché messi in atto inizialmente e
monitorati periodicamente da operatori sanitari, tanto
che la prosecuzione non può essere ricondotta all’accanimento terapeutico mentre l’interruzione può essere
considerata una forma di ‘‘abbandono’’ del malato; opinione rinvenibile nel parere del Comitato di Bioetica
del 30.9.2005 su ‘‘L’alimentazione e l’idratazione dei
pazienti in stato vegetativo persistente’’ e nelle motivazioni delle pronunce che hanno respinto la richiesta
di autorizzazione). L’orientamento è stato abbandonato
da Cass., n. 21748/2007 secondo la quale nutrizione e
idratazione devono essere sempre considerati quali
trattamenti sanitari, in quanto la loro somministrazione presuppone specifiche competenze scientifiche, ancorché all’avvio da parte del personale medico, sia
possibile il subentro del personale ausiliario.
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Sul secondo versante, si tendeva a ritenere ostativa
l’inidoneità dell’interessata a formulare il proprio personale dissenso informato, libero e attuale alla prosecuzione dei trattamenti. La medesima pronuncia di
legittimità richiamata ha ammesso la possibilità di attribuire una legittimazione in tal senso al tutore nell’ambito del potere di cura, in caso di irreversibilità
dello stato vegetativo e in presenza di chiari, univoci
e convincenti elementi di prova circa la presunta volontà della persona in stato di incoscienza.
L’altro diritto leso è quello all’effettività della tutela
giurisdizionale fondato sull’art. 24 Cost. e sugli artt. 6 §
1 e 13 Conv. eur. dir. uomo, nonché sull’art. 47 Carta
dir. UE. Il diniego ha rappresentato, infatti, un ostacolo
alla realizzazione del diritto giudizialmente riconosciuto
e il successivo annullamento non è valso a emendare la
perdita di utilità che ne è scaturita. Invero, sembra possibile affermare che nel caso di specie, ove fosse risultata
ammissibile una richiesta contestuale di condanna della
p.a. all’emanazione del provvedimento illegittimamente
rifiutato (dibattuta dopo l’eliminazione della previsione
contenuta nel testo provvisorio dell’art. 40 cod. proc.
amm.) la particolare natura degli interessi coinvolti (da
considerarsi ‘‘a soddisfazione necessaria’’ nell’an) avrebbe consentito di ridurre le conseguenze negative. Se è
vero che per evitare un’ulteriore dilatazione dei tempi di
attesa (e l’aggravamento del danno), il tutore ha scelto
di procedere altrove, è anche vero che la delibera regionale ha ulteriormente aggravato i disagi procurati alla
famiglia della paziente da una battaglia giudiziaria protrattasi già da oltre 10 anni.
Da ciò la spettanza del diritto al risarcimento del
danno per equivalente per le conseguenze della lesione
dei diritti inviolabili richiamati.
Il profilo più singolare della pronuncia è legato al
riconoscimento del danno non patrimoniale al ricorrente, non soltanto iure hereditario, ma anche «iure
proprio a titolo di lesione alle relazioni familiari e al rapporto parentale», in considerazione del fatto che la «peculiare situazione legata alla persistenza dello stato vegetativo [...] ha aggravato le difficoltà e i turbamenti che hanno
dovuto affrontare i genitori».
Nell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione, infatti, il risarcimento del danno non patrimoniale postula
l’offesa ai diritti della persona, con un minimo di serietà
e nel rispetto di una soglia di tolleranza dell’agire altrui.
Se tali presupposti possono indubbiamente dirsi integrati relativamente al danno inflitto alla paziente, e quindi
al versante iure hereditario, appare meno solida la motivazione per quanto concerne il danno iure proprio.
E quel che appare ancor più significativo è che nella
liquidazione di questa voce di danno si è offerto un
risarcimento che è oltre tre volte l’entità del danno
non patrimoniale concesso iure hereditario (Euro
100.000 contro i 30.000 del primo).
Il primo problema concerne l’identificazione del di-
1202
ritto leso. Si dice che ad essere coinvolti sono per
espresso richiamo i «diritti della famiglia» (ricondotti
agli artt. 2, 29, 30 Cost.), categoria evocativa dei diritti
riconosciuti all’interno della Costituzione e nelle leggi
civili ma se cerchiamo di capire quale diritto del ricorrente riconducibile alla summenzionata protezione costituzionale sia stato inciso sembra da escludere la possibilità di affermare che i rapporti con la figlia o più in
generale interni alla famiglia sono stati lesi dal provvedimento di diniego e non piuttosto dalla tragica
vicenda iniziata con l’incidente e dal lungo percorso
che è stato necessario intraprendere per evitare di prolungarla fino al suo termine naturale. Inoltre, il riferimento al profondo sconvolgimento della vita familiare
e delle abitudini di vita dei componenti del nucleo
sembrerebbe evocare un diritto alla serenità e tranquillità familiare del quale è esclusa da sempre, tuttavia,
l’autonoma rilevanza giuridica.
Il secondo problema, anche ammettendo la possibilità di identificare la situazione rilevante, concerne
l’idoneità della condotta lesiva a coinvolgere il nucleo
inviolabile dell’interesse. La risarcibilità del danno non
patrimoniale presuppone, infatti, un accertamento sulla gravità dell’offesa in senso positivo, tale cioè da
scalfire il nucleo inviolabile dell’interesse (NAVARRETTA, Il danno non patrimoniale e la responsabilità extracontrattuale, in EAD., (a cura di), Il danno non patrimoniale, infra, sez. IV, 34 s.). Tale non sembra essere
quella arrecata dall’autorità regionale, che si è limitata
a frapporre un ostacolo aggiuntivo alla conclusione di
una vicenda di oggettiva e indubbia tragicità, ad aggiungere, come la stessa pronuncia riconosce, turbamento ad una vita familiare «già sconvolta da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita».
È chiaro, quindi, l’intento del T.a.r. di valorizzare
l’incidenza della connotazione dolosa sul piano emotivo per la sua idoneità ad aggravare i riflessi negativi
delle vicende pregresse e per il fatto che andava a
dilatare i tempi di un’attesa dolorosa che sembrava
giunta al termine.
Di conseguenza, l’attenzione avrebbe dovuto essere
spostata sulla componente del danno morale, la più
adatta a contemplare gli effetti di natura meramente
emotiva ed interiore dell’illecito. Non potendo assumere rilevanza autonoma in difetto di una fattispecie di
reato o di una normativa di riferimento e, come sembra,
della lesione di un diritto inviolabile riferibile al ricorrente, del danno morale doveva essere valorizzato il
ruolo ancillare nell’ambito della riparazione delle conseguenze lesive patite dalla paziente, essendo irrilevante
la circostanza che si trovasse in stato vegetativo permanente. Sarebbe stato opportuno, da questo punto di
vista, enfatizzare la volontarietà della condotta ostruzionistica sul piano della quantificazione del danno riconosciuto alla paziente e spettante al ricorrente iure hereditario dando voce alla funzione individual-deterrente
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Sentenze commentate Parte prima
del risarcimento (NAVARRETTA, Il contenuto del danno
non patrimoniale e il problema della liquidazione, in EAD. (a
cura di), Il danno non patrimoniale, cit., 93 s.).
III. I precedenti
1. La natura della responsabilità della pubblica
amministrazione per il danno da lesione di interessi
legittimi.
In giurisprudenza alla tesi della natura extracontrattuale della responsabilità della p.a. (CASS., sez. un.,
22.7.1999, n. 500, in questa Rivista, 2000, II, 423,
con nota di BARCA, La risarcibilità del danno per la
lesione di interessi legittimi: orientamenti dottrinali e revirement delle sezioni unite; CASS., sez. un., 23.3.2011,
n. 6594 e 6595, in Corr. giur., 2011, 934 ss., con nota
di DI MAJO, L’affidamento nei rapporti con la p.a.) è
stata contrapposta quella contrattuale da contatto sociale-provvedimentale (CONS. STATO, 6.8.2001, n.
4239, in Foro it., 2002, III, 1, con nota di CASETTA
e FRACCHIA, Responsabilità da contatto: profili problematici; CASS., 10.1.2003, n. 157, in Foro it., 2003, I,
1, 78 ss., con nota di FRACCHIA, Risarcimento del
danno causato da attività provvedimentale dell’amministrazione: la Cassazione effettua un’ulteriore (ultima);
CASS., 21.7.2011, n. 15992, in questa Rivista,
2012, I, 172, con nota di MONTANI, Tra responsabilità
civile e contrattuale: il contatto sociale). L’inquadramento nell’art. 1337 cod. civ. quale fonte di regole comportamentali di buona fede e correttezza, che l’amministrazione è tenuta a rispettare in aggiunta a quelle di
evidenza pubblica: CONS. STATO, 6.12.2006, n.
7194, in Guida al dir., 2007, fasc. 3, 85, con nota di
PONTE, Alla ricerca di un punto di equilibrio fra i diversi
interessi pubblici e privati. La natura speciale della responsabilità della pubblica amministrazione è stata
sostenuta da CONS. STATO, 27.6.2013, n. 3521, in
www.dejure.it in linea con il precedente di CONS.
STATO, 14.3.2005, n. 1047, in Foro amm. CDS,
2005, 1574, con nota di ROMEO, Alla ricerca dell’utile:
dall’interesse legittimo all’interesse al ricorso, poi seguita
da CONS. STATO, 29.5.2014, n. 2792, ivi, 2014, 1458
(s.m.) e da CONS. STATO, 10.12.2015, n. 5611, ivi,
2015, 3094 (s.m).
2. Il danno non patrimoniale in caso di lesione del diritto di
rifiutare le cure e del diritto alla tutela giurisdizionale
effettiva.
La giurisprudenza in materia di danno da lesione del
diritto di rifiutare le cure riguarda essenzialmente l’esclusione delle emotrasfusioni per motivazioni religiose. In particolare, si v. CASS., 23.2.2007, n. 4211, in
Resp. civ. e prev., 2007, 1885, con nota di FACCI, Le
trasfusioni dei Testimoni di Geova arrivano in Cassazione
(ma la S.C. non decide) e CASS., 15.9.2008, n. 23676,
NGCC 9/2016
in questa Rivista, 2009, I, 175 con nota di CRICENTI,
Il cosiddetto dissenso informato, che negano il risarcimento del danno ad un paziente, testimone di Geova,
emotrasfuso per salvargli la vita mentre si trovava in
stato di perdita di conoscenza malgrado la manifestazione di volontà contraria espressa nel primo caso al
momento del ricovero al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie e nel secondo mediante un
cartellino che giaceva sul suo corpo, in quanto il
dissenso deve essere manifestato in maniera diretta
tramite una dichiarazione espressa, inequivoca, informata ed attuale, formulata dopo essere stato edotto
dai medici sulla sua effettiva situazione medica. Nella
pronuncia di TRIB. FIRENZE, 2.12.2008, in La resp.
civ., 2009, 899, con nota di MIGHELA, Trasfusioni
eseguite contro la volontà del paziente e risarcimento del
danno da lesione della libertà di autodeterminazione, relativa all’azione di un paziente, testimone di Geova,
emotrasfuso malgrado il suo espresso consenso contrario, si riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale, mettendo in luce, però, per giustificare l’importo ridotto, la situazione di incertezza in materia
fino alla pronuncia n. 21748/2007 sul caso Englaro
e il convincimento dei medici di agire nell’interesse
del paziente e in conformità con il codice di deontologia. Nel caso deciso da TRIB. MILANO, 16.12.2008,
n. 14883, in questa Rivista, 2009, I, 639, con commento di CRICENTI, Il rifiuto delle trasfusioni e l’autonomia del paziente, e APP. MILANO, 19.8.2011, n.
2359, in Fam. pers. e succ., 2012, 185, con nota di
GHIDONI, Il trattamento sanitario tra protezione della
personalità e imposizione di valori etici, è stato invece
concesso il risarcimento agli eredi del paziente deceduto per uno scompenso cardiaco provocato dalla
somministrazione di emoderivati contro la sua volontà espressa in stato di capacità di intendere e di volere
in conformità con il proprio credo religioso.
Per quanto concerne le conseguenze non patrimoniali della violazione del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, la casistica autoctona si incentra sull’irragionevole durata del processo, su cui si rinvia alle
pronunce tabellate da CARBONARO e BIANCHI, in
NAVARRETTA (a cura di), Il danno non patrimoniale,
Giuffrè, 2010, 707 ss. In ottica sovranazionale, riconosce il danno morale per la violazione degli artt. 6 § 1 e
13 Conv. eur. dir. uomo, v. CORTE EUR. DIR. UOMO,
ric. 20400/03, 21.2.2008, Affaire Tunce at autres v.
Turquie, in hudoc.echr.coe.int.
IV. La dottrina
1. La natura della responsabilità della pubblica
amministrazione per il danno da lesione di interessi
legittimi.
La tesi extracontrattuale della responsabilità della
1203
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n
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Parte prima Sentenze commentate
p.a. è sostenuta da BUSNELLI, Dopo la sentenza n. 500.
La responsabilità civile oltre il ‘‘muro’’ degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, I, 335 e ID., La responsabilità
per esercizio illegittimo della funzione amministrativa vista
con gli occhiali del civilista, in Dir. amm., 2012, 531;
NAVARRETTA, Forma e sostanza dell’interesse legittimo
nella prospettiva della responsabilità, in Danno e resp.,
1999, 949; EAD., Il danno ingiusto, in Diritto civile, a
cura di LIPARI e RESCIGNO, IV, III, La responsabilità e il
danno, Giuffrè, 2009. Sulla qualificazione contrattuale
si v. CASTRONOVO, Responsabilità civile per la pubblica
amministrazione, in Jus, 1998, 651; ID., La nuova responsabilità civile, Giuffrè, 2006, 221 ss.; SCOGNAMIGLIO,
Lesione dell’affidamento e responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, in Resp. civ. e prev., 2011, 1749;
L. FERRARA, Dal giudizio di ottemperanza al processo di
esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa,
Giuffrè, 2003. Sulla responsabilità precontrattuale della p.a. si v. RACCA, La responsabilità precontrattuale
della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza,
Jovene, 2000; ILACQUA, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione. Evoluzioni giurisprudenziali, in Giust. amm., 2009, 418 ss. Sulla tesi della
responsabilità speciale si v. CARINGELLA, La responsabilità della pubblica amministrazione, Dike Giuridica,
2012, 52; SAVIOTTI, La natura speciale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione. Incompatibilità
con i modelli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Il Diritto marittimo, 2015, 605 ss.
In generale, sulla tutela risarcitoria degli interessi
legittimi e sulla natura della responsabilità della p.a.,
si v. FIORILLO, La natura giuridica della responsabilità
della pubblica amministrazione per lesione degli interessi
illegittimi prima e dopo il codice del processo amministrativo, in Giur. it., 2012, 602 ss. e, tra i lavori monografici:
ZITO, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo,
Editoriale scientifica, 2003, 101 ss.
Sulla tutela dell’affidamento del privato nell’operato
della p.a. e sulla tutela risarcitoria, si v. GIANI, Funzione amministrativa ed obblighi di correttezza. Profili di tutela
del privato, Editoriale scientifica, 2005, 181 ss., spec.
251 ss.
L’espressione posizioni a «risultato garantito» è di
GRECO, Interesse legittimo e risarcimento dei danni: crollo
di un pregiudizio sotto la pressione della normativa europea
e dei contributi della dottrina, in Riv. it. dir. pubb. com.,
1999, 1128 e ripresa da FRACCHIA, Risarcimento dei
danni da c.d. lesione di interessi legittimi: deve riguardare
i soli interessi a «risultato garantito»?, in Foro it., 2000,
III, 479.
1204
2. Il danno non patrimoniale in caso di lesione del diritto di
rifiutare le cure e del diritto alla tutela giurisdizionale
effettiva.
Sull’autodeterminazione del paziente nelle scelte di
fine-vita, BALESTRA, L’autodeterminazione nel «fine vita», in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 1009; CASTRONOVO, Autodeterminazione e diritto privato, in Eur. e dir.
priv., 2010, 1037 ss.; GIACOBBE, Autodeterminazione,
famiglie e diritto privato, in Dir. fam. pers., 2010, 297;
NIVARRA, Autonomia (bio)giuridica e tutela della persona, in Eur. e dir. priv., 2009, 719.
Sul diritto di rifiutare le cure: ZATTI, Consistenza e
fragilità dello ius quo utimur in materia di relazione di cura,
in questa Rivista, 2015, I, 20 ss.; TRIPODINA, Nascere e
morire tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, in CAVINO - TRIPODINA (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: ‘‘casi
difficili alla prova’’, Giuffrè, 2012, 41 ss. Sui limiti dell’obiezione di coscienza alla quale fa cenno la pronuncia
in esame per escluderne la rilevanza quale causa giustificativa del provvedimento di diniego regionale: AMITRANO ZINGALE, L’obiezione di coscienza nell’esercizio
della funzione sanitaria, in Giur. cost., 2015, 1098.
Sul tema è d’uopo, inoltre, il rinvio al d.d.l. «Norme
in materia di relazione di cura, consenso, urgenza medica, rifiuto e interruzione di cure, dichiarazioni anticipate» (Atto Sentato n. 13, XVII Legislatura a firma
del sen. Luigi Manconi), che recepisce le linee propositive emerse dal gruppo di lavoro coordinato da P.
Zatti, che ha messo in dialogo giuristi, medici e studiosi
di bioetica attorno al blog ‘‘Per un diritto gentile in
medicina’’: https://undirittogentile.wordpress.com/.
Sul danno per lesione del diritto di rifiutare le cure si
v. BRIGNONE, Punti fermi, questioni aperte e dilemmi in
tema di rifiuto di cure: la prospettiva civilistica, in Dir.
fam. e pers., 2010, 1342 ss.; PASQUINO, Consenso e
rifiuto nei trattamenti sanitari: profili risarcitori, in La resp.
civ., 2011, 165 ss., spec. 172.
Sul diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, PIVA,
Il principio di effettività della tutela giurisprudenziale del
diritto dell’Unione europea, Jovene, 2012; ORIANI, Il
principio di effettività della tutela giurisdizionale, Editoriale
Scientifica, 2008.
Sul danno non patrimoniale derivante dall’irragionevole durata del processo, si v. BIANCHI, Il danno non
patrimoniale da irragionevole durata del processo, in NAVARRETTA (a cura di), Il danno non patrimoniale, cit.,
401 ss.; GIROLAMI, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, in Responsabilità civile. Danno
non patrimoniale, diretto da PATTI, a cura di DELLE
MONACHE, Utet, 2010, 533 ss.
NGCC 9/2016
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Sentenze commentate Parte prima
n Società
TRIB. SPOLETO, decr. 11.2.2016 – SALCERINI G. Un. – V.M.B. – M.D.
SOCIETÀ – SOCIETÀ DI PERSONE – TRASFORMAZIONE IN SOCIETÀ DI CAPITALI – DECISIONE A MAGGIORANZA
DEI SOCI – APPLICABILITÀ – ESCLUSIONE (cod. civ., artt. 2500, 2500 bis, 2500 ter)
L’art. 2500 ter cod. civ. si applica anche alle società di persone costituite prima del 1º gennaio 2004; in esse
la decisione sulla trasformazione in società di capitali va assunta non a maggioranza dei soci bensı̀ all’unanimità.
dal testo:
Il fatto. Il sig. M.B.V. propone ricorso d’urgenza ex art.
700 cod. civ., affinché l’adito Tribunale di Spoleto inibisca
al socio accomandante di maggioranza della società C.
(Omissis) sas di V.M.B. di procedere alla trasformazione
della predetta in società a responsabilità limitata sulla base
del disposto dell’art. 2500 ter cod. civ. e, quindi a maggioranza e non all’unanimità.
Il Tribunale, con decreto inaudita altera parte, rilevata la
sussistenza dei requisiti del fumus boni iuris della domanda
cautelare e del periculum in mora, visti gli artt. 669 sexies e
700 cod. proc. civ., ha inibito al sig. M.D., in qualità di
socio accomandante di maggioranza di procedere alla trasformazione delle società C. (Omissis) sas sulla base del disposto dell’art. 2500 ter cod. civ. e quindi a maggioranza e
non all’unanimità. È stata, inoltre, fissata udienza di comparizione delle parti ed assegnato al ricorrente termine per la
notifica del ricorso e pedissequo decreto.
Si è costituito il sig. M.D. eccependo l’incompetenza del
Tribunale di Spoleto a favore del Tribunale delle Imprese e
l’inammissibilità del ricorso d’urgenza.
Il Tribunale di Spoleto, con ordinanza, ha confermato il
provvedimento emesso inaudita altera parte e condannato il
convenuto al rimborso delle spese di lite sostenute dal ricorrente.
I motivi. Rilevato che la ricorrente ha chiesto all’adito
Tribunale di inibire a M.D. in qualità di socio (accomandante) di maggioranza della (Omissis) di procedere alla
trasformazione della detta società in società a responsabilità limitata sulla base del disposto dell’art. 2500 ter cod.
civ., e quindi a maggioranza e non all’unanimità; rilevato,
peraltro, che la (Omissis) è stata costituita il 21.06.2000
(Omissis) allorché per le modifiche del contratto sociale
occorreva il consenso di tutti i soci, giusto il disposto dell’art. 2252 cod. civile; rilevato che, effettivamente, l’applicabilità dell’art. 2500 ter cod. civile alle società costituite
prima dell’entrata in vigore della riforma costituisce questione abbastanza controversa, dato che ove venisse affermata tale applicabilità si finirebbe per attribuire all’art.
2500 ter cod. civ. efficacia retroattiva contro il disposto
dell’art. 11 delle preleggi (tanto più che la trasformazione
della società incide direttamente sull’assetto contrattuale
voluto dalle parti e, quindi, sul fatto generatore e non
semplicemente sugli effetti che quel contratto presupponga); rilevato, inoltre, che l’art. 11 dell’atto costitutivo della
(Omissis) contiene un richiamo per relationem alle leggi in
allora vigenti e, dunque, alle regole di unanimità previste
per la trasformazione, né può attribuirsi all’art. citato l’efficacia di mera clausola di stile, visto che vi veniva espressamente formulata la volontà di cristallizzare in ambito
negoziale tutte le norme vigenti, o quanto meno di non
derogarvi; rilevato, dunque, che sussiste il fumus boni iuris
della domanda cautelare; rilevato inoltre, quanto al requisito del periculum in mora, che una volta operata la trasformazione ed eseguita la pubblicità presso il registro delle
imprese non può essere più pronunciata l’invalidità dell’Atto di trasformazione ed il soggetto che si è opposto a
tale trasformazione può solo chiedere il risarcimento del
danno (art. 2500 bis c.c.); rilevato, a tale riguardo, che la
convocazione innanzi al notaio (Omissis) per il 12.2.2016 è
funzionale alla detta trasformazione (Omissis), onde nel
tempo occorrente ad instaurare il contraddittorio potrebbero verificarsi modifiche irreversibili; rilevato che, pertanto, ricorrono le condizioni per emettere il provvedimento richiesto inaudita altera parte
P.Q.M.
Visti gli artt. 669 sexies e 700 c.p.c. inibisce a M.D., in
qualità di socio (accomandante) di maggioranza della C. sas
(Omissis), di procedere alla trasformazione della detta società in società a responsabilità limitata sulla base del disposto
dell’art. 2500 ter cod. civile, e quindi a maggioranza e non
all’unanimità. (Omissis)
TRIB. SPOLETO, ord. 9.3.2016 – SALCERINI G. Un. – V.M.B. – M.D.
SOCIETÀ – SOCIETÀ DI PERSONE – TRASFORMAZIONE IN SOCIETÀ DI CAPITALI – CONTROVERSIE RELATIVE A
TRASFORMAZIONE NON ANCORA COMPIUTA – COMPETENZA (d. legis. 27.6.2003, n. 168, art. 1)
In materia di controversie relative alla trasformazione di società di persone in società di capitali è competente il
Tribunale Ordinario e non il Tribunale delle Imprese qualora la trasformazione debba ancora essere compiuta.
NGCC 9/2016
1205
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Parte prima Sentenze commentate
dal testo:
(Omissis) Il G.I., a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 24.2.16, esaminati gli atti del ricorso ex art. 700
cpc proposto da V.M.B. nei confronti di M.D. osserva quanto segue: il decreto emesso inaudita altera parte l’11.2.2016
merita di essere integralmente confermato; infatti la difesa
del resistente M.D. non ha apportato elementi di valutazione di segno contrario a quelli che emergevano sulla base
della documentazione allegata al ricorso introduttivo, poiché:
- la dedotta incompetenza del Tribunale di Spoleto (per
essere competente il Tribunale delle Imprese) fa leva sul
fatto che la società di persone stava per essere trasformata
in società a responsabilità limitata, ma proprio per il fatto
che la trasformazione non fosse (sia) ancora compiuta la
competenza è quella del Tribunale ordinario, tanto più se
si considera che la stessa parte resistente ha affermato che la
riunione straordinaria oggetto di lite era stata indetta ‘‘per
discutere ed eventualmente decidere sulla trasformazione’’
(Omissis), sicché è a dir poco contraddittorio sostenere
che si applichi la disciplina prevista per le società a responsabilità limitata quando sia ancora all’ordine del giorno la
discussione in ordine alla relativa trasformazione;
- non è revocabile in dubbio il fatto che alla ricorrente
siano stati concessi termini ristrettissimi per decidere in merito ad una decisione cosı̀ importante come la trasformazione della struttura societaria (con tutto quello che ne consegue); si tenga solo a mente che la raccomandata con cui
veniva indetta la riunione straordinaria è pervenuta alla
destinataria l’8.2.16 (Omissis) e la riunione era fissata il
12.2.16.
Tra l’altro non va sottaciuto che si tratta di una società
che ha una storia significativa (quasi 16 anni di vita; (Omissis) e valutare una trasformazione come quella prospettata
(ivi compreso l’esercizio del possibile recesso) in cosı̀ poco
tempo risulta fin troppo penalizzante per la socia (oltre che
ingiustificato);
- la tesi per cui sia inammissibile il ricorso d’urgenza nella
fattispecie in esame non è condivisibile, data la residualità
del rimedio (e comunque si pone nel senso dell’ammissibilità la prevalente giurisprudenza);
- nel merito (requisiti del fumus boni iuris e periculum in
mora), le argomentazioni del convenuto non scalfiscono le
considerazioni espresse nel decreto impugnato;
rilevato, che, pertanto, il provvedimento emesso inaudita
altera parte merita piena conferma; rilevato infine che, nella
fattispecie, la pronuncia è idonea ad anticipare la sentenza
di merito, onde è applicabile il combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 669 octies cpc, condanna il convenuto al
rimborso delle spese di lite sostenute dalla ricorrente che,
tenuto conto del valore della causa (indeterminato) e dell’assenza della fase istruttoria, liquida come da dispositivo;
P.Q.M.
Conferma il provvedimento emesso inaudita altera parte
l’11.2.2016; visto l’art. 669 octies cpc condanna il convenuto al rimborso delle spese di lite sostenute dalla ricorrente
che liquida in E 488,00 per spese, E 3.400,00 per compensi
professionali, oltre al rimborso forfettario ed accessori di
legge (Omissis)
«Principio dell’unanimità e competenza del Tribunale delle Imprese nella
trasformazione di società di persone costituite prima della riforma»
di Melissa Sartori*
I provvedimenti in esame pongono la necessità di approfondire la questione relativa all’applicabilità del
principio di maggioranza di cui all’art. 2500 ter cod. proc. civ. alla trasformazione di società di persone
costituite prima del 1º.1.2004, data di entrata in vigore della riforma delle società di capitali, e il cui atto
costitutivo contenga un richiamo alle leggi vigenti. Il Tribunale ha ritenuto che la problematica rientri
nell’ambito della propria competenza, e non in quella del Tribunale delle Imprese, ed ha altresı̀ stabilito
che l’applicazione dell’art. 2500 ter cod. proc. civ. contrasta con l’art. 11 delle preleggi e deroga a quanto
prescritto dall’art. 2252 cod. civ. Il presente commento evidenzia, inoltre, come il principio di maggioranza
possa essere pregiudizievole per i soci accomandatari di minoranza.
I. Il caso
Il socio accomandante di maggioranza di una società
in accomandita semplice ha indetto una riunione
straordinaria al fine di decidere in merito alla trasformazione di detta società in società a responsabilità
limitata.
L’accomandatario e socio di minoranza, con ricorso
d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., ha adito il Tribunale di Spoleto chiedendo che sia inibito al socio di
maggioranza di procedere alla trasformazione sulla base
del disposto normativo di cui all’art. 2500 ter cod. proc.
civ. ossia a maggioranza anziché ad unanimità.
Il fumus boni iuris della domanda del ricorrente è
ravvisato nel fatto che alla trasformazione della società
di persone, costituita nel 2000, non può ritenersi ap-
* Contributo pubblicato in base a referee.
1206
NGCC 9/2016
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Sentenze commentate Parte prima
plicabile l’art. 2500 ter cod. proc. civ. dal momento
che trattasi di norma introdotta dal d. legis.
17.1.2003 ed entrata in vigore il 1º.1.2004 e, quindi,
in epoca successiva alla data di costituzione della società.
Il requisito del periculum in mora è rappresentato dal
pregiudizio che il socio di minoranza, contrario alla
trasformazione, sarebbe costretto a subire qualora l’operazione straordinaria fosse decisa e l’onere della pubblicità assolto; infatti, una volta eseguito quest’ultimo
incombente l’eventuale invalidità dell’atto di trasformazione non potrebbe più essere dichiarata con la sola
possibilità del socio dissenziente di agire per ottenere il
risarcimento del danno.
Con decreto ex artt. 669 sexies e 700 cod. proc. civ.
pronunciato inaudita altera parte, il Tribunale di Spoleto ha accolto la domanda del ricorrente ritenendo
che non possa applicarsi l’art. 2500 ter cod. civ. alle
società costituite prima del 1º.1.2004, data di entrata
in vigore della riforma societaria che ha introdotto la
norma.
Il Tribunale ha rilevato che attribuire efficacia retroattiva a detta norma contrasterebbe con quanto
prescritto dall’art. 11 delle preleggi e che l’applicazione
del principio di maggioranza, di cui all’art. 2500 ter
cod. civ., nell’ambito della trasformazione di società
di persone derogherebbe a quanto sancito dall’art.
2252 cod. civ. che, per le modifiche del contratto
sociale, prescrive il necessario consenso di tutti i soci.
Il commento si concentra sulla questione di maggior
interesse trattata dai provvedimenti in esame circa l’applicabilità del principio di maggioranza prescritto dall’art.
2500 ter cod. civ. alla trasformazione di società di persone
in società di capitali ed in particolare alle società di persone
che, come quella del caso in commento, sono state costituite prima del 1º.1.2004, data di entrata in vigore del d.
legis. 17.1.2003 n. 6 recante la riforma organica della
disciplina delle società di capitali.
II. Le questioni
1. Applicabilità dell’art. 2500 ter cod. civ. alle società
costituite prima del 1º.1.2004.
L’art. 2500 ter cod. civ. prescrive che la trasformazione di società di persone in società di capitali sia
decisa con il consenso della maggioranza dei soci e
attribuisce al socio, che non concorre alla decisione,
il diritto di recedere. Quest’ultimo rappresenta l’unico
strumento di tutela riconosciuto dal legislatore a quei
soci che non abbiano partecipato alla decisione di trasformazione.
Il tema dell’applicabilità della norma alle società costituite prima dell’entrata in vigore della riforma societaria è molto controverso ed il Tribunale di Spoleto,
nel provvedimento de quo, ha aderito alla tesi di quella
NGCC 9/2016
parte della dottrina e della giurisprudenza che sostengono l’applicabilità del principio unanimistico nelle
trasformazioni di società di persone costituite prima
del 1.1.2004.
Il Giudicante ha motivato la propria decisione ritenendo che l’attribuzione di efficacia retroattiva all’art.
2500 ter cod. civ. contrasterebbe con l’art. 11 delle
preleggi ed, inoltre, che il richiamo per relationem, nell’atto costitutivo della società in accomandita semplice
alle leggi vigenti, costituita antecedentemente all’entrata in vigore della riforma societaria, giustificherebbe
il ricorso al principio unanimistico.
Tuttavia è necessario evidenziare che un generico
rinvio alle norme di legge, senza un espresso e specifico
richiamo all’art. 2252 cod. civ. - che appunto richiede
il necessario consenso unanime per le modifiche del
contratto sociale - potrebbe significare null’altro che
l’indifferenza dei soci all’applicazione dell’una regola in
luogo dell’altra, con la conseguenza che potrebbe trovare facile attuazione il principio maggioritario di cui
all’art. 2500 ter cod. civ.
Il Tribunale di Milano, con provvedimento datato
11.12.2004, in Riv. notar. 2005, 115 ss., ha sottolineato
l’applicabilità del principio maggioritario anche laddove l’atto costitutivo della società di persone ‘‘si limiti a
rimettere la disciplina di quanto dallo stesso non regolato
alle norme di legge previste per il tipo societario adottato dai
soci’’. Detto rinvio, infatti, ‘‘non evidenzia necessariamente l’intento di recepire, elevandole a disposizioni pattizie, le norme disciplinanti il modello di società prescelto’’.
Al contrario, invece, il Tribunale di Roma ha stabilito che il generico rinvio a norme di legge, e quindi
l’assenza di un esplicito richiamo dell’art. 2252 cod.
civ., non determina automaticamente il fatto che la
decisione di trasformazione possa essere adottata a
maggioranza. In tal caso sarà il Giudice a dovere procedere ad una ricostruzione ed interpretazione della
volontà delle parti ‘‘al fine di accertare se, pur in assenza
di un espresso richiamo, le parti non abbiano inteso richiamare ‘‘per relationem’’ la regola di unanimità per la decisione di trasformazione’’ in modo da inglobarla nel patto
contrattuale’’. Il Tribunale di Roma ha ritenuto che la
volontà delle parti, alla luce dell’assetto complessivo
del patto, si fosse espressa nel senso di voler applicare
la regola dell’unanimità anche per la decisione di trasformazione integrandosi, in tal modo, la diversa contraria pattuizione che rende inoperante la regola maggioritaria introdotta dall’art. 2500 ter cod. civ. (TRIB.
ROMA, 21.7.2006, in Riv. dir. comm., 2006, fasc. 7-8-9,
96).
Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui vi fosse un preciso
richiamo all’art. 2252 cod. civ., lo stesso non sarebbe
da solo sufficiente ad escludere l’applicazione del principio maggioritario dal momento che, sovente, negli
atti costitutivi di società di persone detto richiamo
rappresenta una mera clausola di stile.
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Parte prima Sentenze commentate
L’interpretazione, quindi, di quest’ultima clausola
costituisce uno dei punti nodali della questione attinente all’efficacia retroattiva dell’art. 2500 ter cod. civ.
In merito il Consiglio Notarile di Milano, con la
massima n. 55 del 19.11.2004 reperibile all’indirizzo
web http://www.scuoladinotariatodellalombardia.org, non
ha riconosciuto alla clausola meramente riproduttiva
dell’art. 2252 cod. civ. l’effetto di derogare all’art. 2500
ter cod. civ.
Al fine di approfondire la questione in esame si rende, pertanto, necessario concentrare l’attenzione sull’interpretazione della clausola di rinvio contenuta nell’atto costitutivo, nonché verificare se la data di sottoscrizione dello stesso sia antecedente al 1º.1.2004,
giorno di entrata in vigore della riforma organica delle
società, oppure successiva.
Nel caso di costituzione di società dopo il 1º.1.2004,
il richiamo all’art. 2252 cod. civ. pone evidentemente
il problema di individuare il principio applicabile:
quello unanimistico come, del resto, il rinvio all’art.
2252 cod. civ. richiederebbe o, al contrario, quello
maggioritario, quale principio vigente trattandosi di
società costituite dopo la riforma.
Infatti, nel caso di costituzione di società dopo il
1º.1.2004, il richiamo all’art. 2252 cod. civ. può essere
interpretato in senso derogativo alla disciplina di cui
all’art. 2500 ter cod. civ.
Ciò in quanto il fatto che nell’atto costitutivo di una
società di persone sia stato inserito un riferimento alla
regola di cui all’art. 2252 cod. civ., in un periodo in cui
l’art. 2500 ter cod. civ. era già in vigore, potrebbe
rappresentare la volontà sociale di derogare al principio maggioritario sancito da quest’ultima norma in favore di quello unanimistico.
In definitiva, il mero richiamo alle norme vigenti
nelle società costituite prima del 1º.1.2004, potrebbe
essere interpretato nel senso di far ritenere prevalente
il principio maggioritario, mentre in quelle costituite
successivamente rappresenterebbe una deroga allo stesso.
Proprio per il fatto che detto rinvio può essere qualificato come una mera clausola di stile, non si può
ritenere che esso valga come deroga all’art. 2500 ter
cod. civ. e che, pertanto, alcuna società di persone
costituita prima dell’entrata in vigore della riforma
possa trasformarsi con il consenso della maggioranza.
Contrariamente il Tribunale di Milano, con sentenza
del 8.7.2005, in Giur. merito 2006, 949, ha statuito che
la clausola di rinvio alle leggi vigenti contenuta nei
patti sociali di una società di persone costituita anteriormente alla riforma del diritto societario determina
l’applicabilità del principio unanimistico di cui all’art.
2252 cod. civ., non trovando, pertanto, applicazione la
disciplina dell’art. 2500 ter cod. civ.
Autorevole dottrina ritiene, comunque, che pur essendo necessario concentrare l’indagine circa l’origina-
1208
ria volontà dei contraenti al momento della sua manifestazione non si possa prescindere dal riesame del contratto di società qualificato come contratto di durata
per il quale non è praticamente incongrua né difforme
dal presumibile intento delle parti una interpretazione
della volontà di queste che si adegui alle mutate circostanze di fatto (OPPO, Profili dell’interpretazione oggettiva
del negozio giuridico, Zanichelli, 1943, 16 s.).
In pratica, la qualificazione del contratto di società
quale contratto di durata determina la necessaria consapevolezza che le parti devono avere circa il fatto che
il quadro normativo vigente all’epoca della costituzione è suscettibile di variare nel tempo.
Ulteriore aspetto da evidenziare è relativo al fatto
che l’art. 2252 cod. civ. stabiliva, e stabilisce tuttora,
che il contratto sociale possa essere modificato soltanto
con il consenso di tutti i soci ‘‘se non è convenuto diversamente’’; mentre la formulazione dell’art. 2500 ter
cod. civ. ha modificato il rapporto tra regola ed eccezione, laddove ha stabilito che la trasformazione debba
essere decisa con il consenso della maggioranza dei soci
‘‘salvo diversa disposizione del contratto sociale’’.
Il legislatore, con l’introduzione del principio maggioritario, ha sostanzialmente perseguito l’obiettivo di
semplificare la trasformazione delle società a base personale in quelle di capitali preferendo evidentemente
queste ultime; tuttavia, introducendo nell’art. 2500 ter
cod. civ. la dicitura ‘‘salvo diversa disposizione del contratto sociale’’ ha voluto tutelare i soci che potrebbero
essere esposti a mutamenti radicali della società per
effetto della decisione della maggioranza.
Ai sensi, quindi, dell’art. 2500 ter cod. civ., per evitare che sia applicato il principio di maggioranza nella
trasformazione di società di persone in società di capitali è indispensabile che nel contratto sociale sia
espressamente pattuita la necessità dell’unanimità dei
consensi.
Ora, la mancanza nell’atto costitutivo di una precisa
deroga alla disciplina legale e, quindi, la mera presenza
di una clausola di rinvio alla normativa vigente non
determina, in modo chiaro e preciso, la volontà dei
soci di sottrarsi all’applicazione del principio maggioritario.
In conclusione, si può ritenere che la questione relativa all’irretroattività del principio maggioritario sia
al centro di un contrastato dibattito giurisprudenziale.
Da un lato, infatti, l’irretroattività trova fondamento
nel principio sancito dall’art. 11 delle preleggi, tesi
quest’ultima alla quale si è uniformato anche il Tribunale di Spoleto. Al contrario, vi è un orientamento più
possibilista che ritiene di non porre limitazioni, soprattutto di ordine temporale, all’applicabilità della norma
de qua, qualificandola norma di carattere speciale e,
pertanto, prevalente rispetto a quella generale di cui
all’art. 2252 cod. civ.
La problematica relativa all’individuazione del prin-
NGCC 9/2016
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Sentenze commentate Parte prima
cipio applicabile - unanimistico o maggioritario - è
difficilmente riscontrabile nelle società costituite dopo
la riforma del 2004 nei confronti delle quali deve,
infatti, trovare applicazione il principio di maggioranza
- salvo che il contratto sociale non disponga diversamente - ed in cui il correttivo a detto principio è
determinato dal riconoscimento del diritto di recesso
al socio che non ha concorso alla decisione.
Ciò premesso è da ritenere condivisibile il provvedimento de quo laddove il Tribunale di Spoleto ha voluto ritenere applicabile il principio unanimistico alla
società in accomandita semplice in quanto costituita
prima del 2004 e quindi in forza di un generico richiamo alle leggi vigenti e in mancanza di un preciso rinvio
all’art. 2252 cod. civ.
Ulteriore aspetto da evidenziare, seppur non affrontato dal Tribunale di Spoleto, attiene al fatto che l’applicazione, in ogni caso, del principio maggioritario
potrebbe configurare un pregiudizio per i soci di minoranza.
Infatti, nelle società in accomandita semplice in cui i
soci accomandanti detengano partecipazioni idonee a
conseguire la maggioranza questi ultimi potrebbero,
d’accordo fra loro, stabilire di trasformare la società
in società di capitali senza il consenso del socio accomandatario e, dunque, eludere l’applicazione dell’art.
2319 cod. civ. che esige il necessario consenso dello
stesso accomandatario per la revoca della facoltà di
amministrare; e cosı̀ attribuire l’amministrazione della
società trasformata ad un soggetto diverso dall’accomandatario sgradito, al quale viene riconosciuta la sola
possibilità di esercitare il diritto di recesso.
La minoranza dissenziente può trovare tutela nell’istituto del recesso che, però, implica un obbligo informativo a favore di ciascun socio affinché anche i soci
non amministratori possano partecipare alle scelte di
natura straordinaria a causa delle quali un socio accomandatario potrebbe essere esonerato dalla funzione di
amministratore.
Nel senso di non esigere il consenso dell’accomandatario il Tribunale di Roma si è pronunciato determinando l’applicabilità dell’art. 2500 ter cod. civ. anche
alle società di persone costituite ante riforma (TRIB.
ROMA, 2.5.2006, in Riv. notar., 2007, 188 ss.) in tal
modo configurando la possibilità di decidere la trasformazione in pregiudizio di quei soci che non hanno
partecipato alla decisone.
In particolare il Tribunale ha ritenuto che la ‘‘mancata convocazione del socio accomandatario (titolare di una
quota di partecipazione agli utili pari allo 0,01%) presso il
notaio, nel giorno in cui i soci accomandanti (titolari di
quote complessivamente pari al 99,99%) hanno deciso la
trasformazione in s.r.l., sia irrilevante, non avendo la volontà contraria dell’accomandatario alcun effetto impeditivo
della validità della trasformazione’’.
Il principio di maggioranza previsto dall’art. 2500 ter
NGCC 9/2016
cod. civ. potrebbe, insomma, prestarsi allo scopo di
configurare un vero e proprio abuso del diritto da parte
dei soci di maggioranza, con un conseguente pregiudizio per il socio dissenziente o astenuto, situazione questa che potrebbe configurarsi sia nelle società costituite
prima della riforma del 2004 sia in quelle successive
alla riforma stessa, ossia in tutti i casi in cui la decisione circa la trasformazione sia assunta con il principio
maggioritario anziché con quello unanimistico.
Occorre soggiungere che, una volta eseguita la pubblicità con le formalità prescritte dall’art. 2500 cod.
civ., l’invalidità dell’atto di trasformazione non potrebbe più essere dichiarata, secondo quanto stabilito dall’art. 2500 bis cod. civ., con l’unica possibilità per l’accomandatario di ottenere il risarcimento del danno.
In merito si è pronunciato sempre il Tribunale di
Roma stabilendo che la decisione di trasformare una
società in accomandita semplice in società a responsabilità limitata, indipendentemente dall’applicabilità o
meno della regola di maggioranza, qualora sia stata
adottata dai soli soci accomandanti, pur rappresentanti
la quasi totalità del capitale sociale, in assenza e all’insaputa dell’unico accomandatario, inficia all’origine la
decisione stessa e la rende radicalmente inefficace ‘‘Pur
non essendo necessario, nelle società di persone, dar corso
ad un procedimento assembleare, è, infatti, in ogni caso
indispensabile, ai fini della formazione della decisione, un
atto d’impulso a tanto finalizzato che promani dal soggetto
a cui tale potere istituzionalmente compete (nella specie
l’accomandatario), in modo che tutti i soci siano messi in
condizione di esprimersi, anche semplicemente per far valere il proprio dissenso’’ (TRIB. ROMA, 21.7.2006, cit.).
In definitiva, onde evitare di attribuire la possibilità
ai soci di maggioranza di decidere di trasformare la
società, con conseguente pregiudizio per gli accomandatari di minoranza e, quindi, di aggirare il principio di
inamovibilità dell’amministratore, è opportuno ricorrere all’unico strumento di tutela riconosciuto dall’art.
2500 ter cod. civ., laddove nel precisare ‘‘salvo diversa
disposizione del contratto sociale’’ prevede la possibilità di
inserire nel contratto sociale il ricorso al principio
unanimistico.
2. Competenza del Tribunale delle Imprese.
L’art. 2 del d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito, con modificazioni in l. 24.3.2012, n. 27, sotto la rubrica ‘‘Tribunale delle imprese’’ ha istituito la nuova figura delle
sezioni specializzate in materia di impresa.
L’art. 3 del d. legis. 26.6.2003, n. 168, nell’elencare
le materie di competenza delle sezioni specializzate, al
comma 2º, precisa che queste ultime sono competenti,
relativamente alle società di cui al libro V, titolo V,
capi V, VI e VII, e titolo VI, del codice civile per le
cause e i procedimenti relativi al trasferimento delle
partecipazioni sociali o ad ogni altro negozio avente ad
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Parte prima Sentenze commentate
oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti (lett.
b).
L’elencazione compiuta dall’articolo 3 del d. legis. in
esame si ritiene sia di natura meramente esemplificativa più che tassativa, e ciò induce a sostenere che alle
controversie ivi precisamente elencate se ne possano
aggiungere altre in via interpretativa.
Lo stesso termine ‘‘negozio’’ di cui all’art. 3, comma
2º, lett. b), lascia presumere che si possa ivi comprendere tutta una serie di questioni non necessariamente
derivanti da un contratto.
Il fatto, inoltre, che nella suddetta norma si faccia
riferimento sia alle ‘‘cause’’ che ai ‘‘procedimenti’’ è da
interpretarsi nel senso che nella competenza del Tribunale delle Imprese rientrino sia controversie di carattere contenzioso che di volontaria giurisdizione.
Nell’ordinanza in commento il Tribunale di Spoleto
respinge l’eccezione di incompetenza per materia sollevata dal socio accomandante a favore del Tribunale
delle Imprese, e motiva la propria decisione sul fatto
che la trasformazione societaria non era ancora stata
compiuta.
La decisione trova fondamento sulla circostanza che
la società di cui si sta discutendo è una società di
persone, non essendo, ancora stata trasformata in società a responsabilità limitata, ed in quanto tale è
esclusa dalla competenza delle sezioni specializzate.
Il legislatore, infatti nel precisare, nell’art. 3, comma
2º, d. legis. 27.6.2003, n. 168, che dette sezioni sono
competenti relativamente alle società di cui al libro V,
titolo V, capi V, VI e VII e titolo VI del codice civile
ha voluto espressamente limitare detta competenza alle
sole società di capitali, ovvero s.p.a., s.r.l., s.a.p.a., cooperative, società europee, escludendo in tal modo le
società di persone.
Interpretando, quindi, letteralmente il testo della
norma è evidente che, nel caso in commento, la competenza sia del Tribunale ordinario dal momento che
la società di cui si discute è una società di persone.
Tuttavia, trattandosi di atti prodromici alla trasformazione, la norma potrebbe anche essere oggetto di
un’interpretazione estensiva con la conseguenza che
competente a decidere sarebbe il Giudice specializzato,
di certo più idoneo a trattare la materia.
L’unica possibilità che le cause ed i procedimenti
relativi alle società di persone possano essere ricomprese nella competenza del Tribunale delle Imprese è data
dal fatto che queste ultime esercitino o siano sottoposte a
direzione o coordinamento rispetto a società di capitali o
cooperative.
Ciò premesso, non si può non evidenziare che l’eterogeneità delle materie attribuite alla competenza del
Tribunale delle Imprese, con le conseguenti difficoltà
di individuare i limiti della stessa, abbia come unica
conseguenza quella di assistere alla presentazione di
1210
numerosi regolamenti di competenza in cui si sia rilevato l’erroneo ricorso a tale organo.
III. I precedenti
1. Applicabilità dell’art. 2500 ter cod. civ. alle società
costituite prima del 1º.1.2004.
La questione attinente all’applicabilità o meno del
principio maggioritario di cui all’art. 2500 ter cod. civ.
è stata oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali.
Sull’irrettroattività dell’art. 2500 ter cod. civ. si veda
TRIB. REGGIO EMILIA, 13.1.2006, in Riv. notar. 2006,
1603 ss., con nota critica di CUPINI; TRIB. VARESE,
21.8.2014, in Società, 2014, 1419.
Sulla necessità del consenso unanime dei soci, onde
evitare la lesione di diritti soggettivi degli stessi, si veda
TRIB. ROMA, 2.1.1987, ivi, 1987, 430.
Si veda anche APP. TORINO, 20.1.2010, in Riv. notar., 2011, 907, in merito all’applicazione della disciplina della trasformazione vigente al momento della
trasformazione stessa e non con riferimento alla data
di costituzione della società.
Sull’applicabilità dell’art. 2500 ter cod. civ. alle società costituite prima del 1º.1.2004 ove nel contratto
sociale vi sia un mero rinvio alle norme di legge, si
veda TRIB. ROMA, 30.4.2006, in Riv. dir. comm., 2006,
7-8-9, 95.
In merito alla necessità che nell’atto costitutivo il
rinvio sia effettuato nei confronti di norme determinate ed esattamente individuate si veda CORTE COST.,
9.7.1993, n. 311, in Giur. cost., 1993, 2547.
Sulla derogabilità della trasformazione a maggioranza
di una società di persone in società a responsabilità
limitata ove sia stata pattuita la variabilità dei patti
sociali a maggioranza si veda TRIB. CASALE MONFERRATO, 26.2.1982, Riv. notar., 1983, 523.
In merito alla nullità della decisone di trasformazione
presa a maggioranza ed il conseguente diritto al risarcimento del danno riconosciuto al socio di minoranza,
si veda TRIB. AGRIGENTO, 4.11.2004, in Giur. comm.
2007, 1, 222 con nota di CAMELLINI.
2. Competenza del Tribunale delle Imprese.
Sulla competenza del Tribunale delle imprese si veda
CASS., 9.7.2015, n. 14369 in Mass. Giust. civ., 2015.
Sull’inammissibilità del regolamento di competenza
si veda CASS., 9.11.2006, n. 23891, in Giust. civ.,
2007, 1, 69; CASS., 22.11.2011, n. 24656, in Mass.
Giust. civ., 2011.
IV. La dottrina
1. Applicabilità dell’art. 2500 ter cod. civ. alle società
costituite prima del 1º.1.2004.
Sul contrasto tra la disciplina dell’art. 2500 ter cod.
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Sentenze commentate Parte prima
civ. e quella dell’art. 2252 cod. civ. si veda MISEROCCHI, La trasformazione, in AA.VV., Il nuovo ordinamento
delle società. Lezioni sulla riforma e modelli statutari, Ipsoa, 2003, 357.
Per un commento sull’art. 2500 ter cod. civ. si rimanda a BOLOGNESI, nel Commentario delle società, a cura
di GRIPPO, Utet, 2009, sub art. 2500 ter cod. civ.,
1200.
In merito all’applicabilità o meno del principio maggioritario alle società costituite prima del 1º.1.2004 si
veda MONTALENTI, La riforma delle società di capitali:
prospettive e problemi, in Società, 2003, 343, e si veda
anche IANNIELLO, S.r.l. e nuova disciplina delle trasformazioni, in La nuova disciplina della s.r.l., a cura di V.
SANTORO, Giuffrè, 2003, 289; MENTI, nel Commenta-
NGCC 9/2016
rio Cian-Trabucchi, Cedam, 2004, sub artt. 2498-2500
novies, 2742 ss; MARASÀ, Spunti sulla nuova disciplina di
trasformazioni e fusioni, in Giur. comm., 2004, 784.
2. Competenza del Tribunale delle Imprese.
Sulla non tassatività dell’elenco delle materie rientranti nella competenza del Tribunale delle imprese si
veda DALFINO, in I procedimenti in materia commerciale,
a cura di COSTANTINO, Cedam, sub art. 1, 2005, 18;
MONTANARO, nel Commentario dei processi societari, a
cura di ARIETA - DESANTIS, Utet, 2007, sub art. 1, 15;
CELENTANO, Le sezioni specializzate in materia di impresa, in Società, 2012, 817.
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Letture e Opinioni Parte seconda
Il problema dell’adozione del figlio
del partner
Commento a prima lettura della sentenza della Corte di cassazione
n. 12962 del 2016
di Gilda Ferrando
SOMMARIO: 1. Il caso. - 2. L’adozione in casi particolari nell’evoluzione normativa e applicativa. - 3. L’adozione in casi particolari e la formalizzazione dei rapporti familiari di fatto. - 4. La ‘‘constatata impossibilità di
affidamento preadottivo’’ tra criteri ‘‘di fatto’’ e ‘‘di diritto’’. - 5. Genitori dello stesso sesso. - 6. La legge n.
76/2016. - 7. La mancata nomina del curatore speciale del minore.
1. Il caso.
accertato in fatto - secondo il disposto dell’art. 57 l.
adoz. - che il ricorso all’adozione, sia pur nella sua
forma ‘‘minor’’, corrisponda al preminente interesse
del bambino, in quanto formalizzazione di una relazione affettiva già esistente e valutata nel corso dell’istruttoria come elemento positivo nella sua crescita 3.
Con sentenza del 22 giugno scorso la Supr. Corte
conferma la decisione della Corte d’appello di Roma
che aveva ritenuto ammissibile l’adozione in casi particolari da parte della compagna della madre della
bambina generata nell’ambito di un comune progetto
parentale e fin dalla nascita amata e accudita da entrambe come figlia (c.d. stepchild adoption) 1.
Due sono le questioni affrontate: quella delle condizioni di ammissibilità dell’adozione ex art. 44, lett. d), l.
4.5.1983, n. 184 e quella della mancata nomina, nel
relativo procedimento, di un curatore speciale della minore. Nel confermare, sotto l’uno e l’altro profilo, la
decisione di merito, la Supr. Corte sviluppa argomenti
di grande rilevanza nel solco della giurisprudenza interna
ed europea ed alla luce dei principi costituzionali, della
tutela del preminente interesse del bambino, del suo
diritto alla famiglia, del principio di non discriminazione.
Per quanto riguarda l’adozione da parte della compagna della madre sia il Tribunale che la Corte d’appello
di Roma 2 avevano pronunciato l’adozione a norma
della lett. d) dell’art. 44 ritenendo che la nozione di
‘‘impossibilità di affidamento preadottivo’’ comprenda
non solo l’impossibilità ‘‘di fatto’’ - che sussiste quando
un bambino dichiarato in stato di abbandono non può
essere collocato in adozione piena per problemi legati
alle sue condizioni di salute, di età, o altro - ma anche
l’impossibilità ‘‘di diritto’’ - intendendosi tale quella
derivante dalla mancanza dei presupposti giuridici per
procedere all’adozione ‘‘piena’’ -, e sempre che risulti
Il punto di partenza per giungere ad un’interpretazione ‘‘coerente con la lettera e la ‘ratio’ dell’istituto’’, con il
‘‘contesto costituzionale e convenzionale’’ è la messa a
fuoco dell’evoluzione normativa ed applicativa dell’art.
44 a partire dal testo originario del 1983 per giungere a
quello attuale, attraverso le modifiche che lo hanno
interessato con le riforme operate dalla l. 28.3.2001, n.
149 (riforma dell’adozione ) - che ha introdotto la lett.
c) (minore con handicap grave, orfano dei genitori),
facendo slittare alla lett. d) la ‘‘constatata impossibilità
di affidamento preadottivo’’ - , dal d. legis. 8.12.2013,
n. 154 (riforma della filiazione) - che ha eliminato nel
comma 2º il riferimento ai figli ‘‘legittimi’’- , dalla l.
19.10.2015, n. 173 (diritto alla continuità affettiva) che ha previsto alla lett. a) che il rapporto stabile e
duraturo tra adottante ed orfano di entrambi i genitori
possa essere maturato anche nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento preadottivo -.
Il testo attuale dell’art. 44 risulta pertanto differente da
quello originariamente contenuto nella l. n. 184/1983, il
che giustifica una lettura non rigidamente ancorata alle
1 Cass., 22.6.2016, n. 12962; la sentenza è pubblicata supra, Parte
prima, p. 1135.
2 Trib. Roma, 30.7.2014; App. Roma, 9.4.2015.
3 Nello stesso senso, v. Trib. min. Roma, 2.3.2016 - adozione in-
crociata da parte di una coppia di co-mamme - e Trib. min. Roma,
23.12.2015 - adozione in casi particolari a favore del compagno del
padre biologico del figlio generato con GPA (gravidanza per altri)
all’estero - in questa Rivista, 2016, p. 976, con nota di Farina.
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2. L’adozione in casi particolari nell’evoluzione normativa e applicativa.
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Parte seconda Letture e Opinioni
intenzioni del legislatore di trent’anni fa. Per giungere ad
una corretta lettura della ‘‘impossibilità di affidamento
preadottivo’’ si deve inoltre tener conto della disciplina
complessiva dell’adozione semplice, delle regole generali
valide per tutte le ipotesi previste dall’art. 44, del fatto
che in ogni caso è richiesto l’assenso del genitore dell’adottando (art. 46, comma 1º), che il tribunale deve
verificare, nei modi puntualmente indicati dall’art. 57,
che l’adozione realizzi il preminente interesse del minore,
senza trascurare che presupposto generale dell’adozione
semplice posto in apertura dell’art. 44 è quello per cui ‘‘i
minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni indicate dall’art. 7’’ per l’adozione
piena dei minori e quindi anche in presenza di minori
che non siano stati dichiarati in stato di adottabilità in
quanto non si trovano in situazione di abbandono.
La lettura della ‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’, limitata alle situazioni di impossibilità di fatto, di prolungata istituzionalizzazione del
bambino senza che ne sia seguito e ragionevolmente
ne possa seguire l’affidamento preadottivo ad una coppia con i requisiti per l’adozione piena, secondo l’interpretazione proposta dalla dottrina in una prima lettura
della l. n. 183/1984, non tiene conto dell’evoluzione
legislativa ed applicativa dell’istituto nell’attuale quadro costituzionale e convenzionale.
La consapevolezza che il primo diritto del minore è il
diritto alla propria famiglia (art. 1 l. n. 184/1983) ha
nel tempo portato ad intendere in senso sempre più
rigoroso la nozione di ‘‘stato di abbandono’’ che la
recente riforma fa dipendere dalla constatazione della
‘‘irrecuperabilità delle capacità dei genitori in tempi
ragionevoli’’ [art. 15, lett. c), legge adoz., sostituita
dall’art. 100 d. legis. n. 154/2013]. La legge tende a
privilegiare, rispetto agli interventi sostitutivi della famiglia di origine, quelli di sostegno che favoriscono il
recupero, anche parziale, dei rapporti con i genitori 4.
Le situazioni familiari difficili trovano cosı̀ sempre più
spesso una risposta nell’accoglienza da parte di parenti
o nell’affidamento familiare (artt. 2 ss. l. adoz.). Si
creano in tal modo legami affettivi tra il minore e gli
affidatari che sarebbe crudele spezzare per procedere ad
adozione piena nei confronti di coppie che ne abbiano
fatto richiesta. Ed appare preferibile ricorrere ad una
forma di adozione più elastica che non spezza completamente i rapporti con la famiglia di origine e che può
essere pronunciata anche a favore di persone singole.
Fin da anni ormai lontani, parte della giurisprudenza
di merito ha cosı̀ applicato quella che allora era la let-
tera c) dell’art. 44 [divenuta lett. d) con la riforma del
2001] allo scopo di rendere possibile la formalizzazione
dei rapporti parentali di fatto esistenti con il passaggio
dall’affidamento all’adozione a favore degli affidatari in
quei casi in cui la situazione di abbandono definitivo si
manifesta tardivamente, dopo che tra minore e affidatario si è stabilito un rapporto familiare meritevole di
protezione 5. Altre volte la norma è stata impiegata per
fronteggiare situazioni di ‘‘semiabbandono permanente’’ 6; per formalizzare i rapporti nati all’interno di ‘‘famiglie ricostituite’’ 7; per rendere efficaci in Italia adozioni
compiute da persone singole all’estero 8. Ancora si è
fatto ricorso all’adozione semplice per dare veste giuridica, in Italia, a rapporti costituiti all’estero sulla base di
istituti, come la kafalah di diritto islamico, sconosciuti
alla nostra tradizione giuridica 9. È stato in circostanze di
questo tipo che ha preso forma quella nozione di impossibilità di affidamento preadottivo ‘‘di diritto’’, che si
verifica ogni volta in cui l’adozione piena non realizza
adeguatamente l’interesse del bambino o non è possibile
perché non sussiste uno stato di abbandono conclamato
(si parla a volte di abbandono soltanto ‘‘relativo’’).
Andando oltre quelle che erano le intenzioni del
legislatore del 1983, l’applicazione giurisprudenziale
dell’art. 44 l. adoz. ha sfruttato i margini di elasticità
dell’istituto per dare una risposta alle molteplici situazioni in cui la formalizzazione del rapporto con gli
adottanti andava incontro all’interesse del minore ad
ottenere certezza e garanzia del suo status.
La Corte costituzionale 10 ha condiviso questa impostazione quando ha affrontato la questione se sia ammissibile l’adozione in casi particolari del bambino abbandonato dai genitori, ma accudito da parenti entro il
quarto grado, proprio a favore di quei parenti che,
supplendo alle carenze parentali, si sono presi cura di
lui. Il problema nasce dal fatto che l’assistenza prestata
da parenti stretti esclude lo stato di abbandono. Da un
lato dunque, non è possibile la dichiarazione di adottabilità, dall’altro una lettura limitativa dell’art. 44
impedirebbe ai parenti di procedere ad adozione semplice. Una interpretazione della lett. c) [ora lett. d)]
che ne consenta l’applicazione solo nei confronti dei
bambini dichiarati adottabili, ma per i quali di fatto
l’affidamento preadottivo è impossibile, non avrebbe
consentito di pronunciare l’adozione semplice. Ma non
è questa, a sentire la Corte, la corretta lettura della
norma in questione. L’art. 44 costituisce infatti ‘‘una
sorta di clausola residuale’’ per ‘‘i casi speciali non inquadrabili nella disciplina dell’adozione ‘legittimante’, consen-
4 V. Cass., 24.11.2015, n. 23979, in questa Rivista, 2016, I, 669,
con nota di Cinque; Cass., 18.12.2015, n. 25526, ibidem, 680.
5 V. Trib. min. Roma, 18.3.1985, in Dir. fam. e pers., 1985, 620;
Trib. min. Genova, 14.10.1995, in Fam. e dir., 1996, 346; Trib. min.
Roma, 22.6.1987, in Dir. fam. e pers., 1988, 947.
6 App. Genova, 1º.12.1995, in Fam. e dir., 1996, 147.
7 Trib. min. Milano, 28.3.2007; App. Firenze, sez. min.,
4.10.2012.
8 Cass., 14.2.2011, n. 3572, in Foro it., 2011, I, 728.
9 Trib. min. Trento, 5.3.2002 e Trib. min. Trento, 10.9.2002,
in questa Rivista, 2003, I, 149.
10 Corte cost., 7.10.1999, n. 383.
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tendo l’adozione ‘anche quando non ricorrono le condizioni
di cui al primo comma dell’art. 7’’’. In questo contesto,
‘‘la lettera c) fornisce un’ulteriore ‘valvola’ per i casi che
non rientrano in quelli più specifici previsti dalle lettere a) e
b)’’. Diversamente da quella ‘legittimante’, l’adozione
ex art. 44 ‘‘non recide i legami del minore con la sua
famiglia di origine, ma offre allo stesso la possibilità di
rimanere nell’ambito della nuova famiglia che lo ha accolto,
formalizzando il rapporto affettivo instauratosi con determinati soggetti che si stanno effettivamente occupando di
lui’’. Alla Corte appare quindi destituita di fondamento
l’interpretazione letterale tale per cui per far ricorso
alla lett. c) ‘‘occorre necessariamente la previa dichiarazione dello stato di abbandono del minore e quindi la declaratoria formale di adottabilità, nonché il vano tentativo del
predetto affidamento’’. È vero invece che ‘‘l’art. 44 è tutto
retto dalla ‘assenza delle condizioni’ previste dal primo
comma del precedente art. 7 della medesima legge n. 184’’.
La Corte costituzionale imposta dunque in modo
chiaro i rapporti tra adozione piena e adozione particolare: solo la prima ha come presupposto indefettibile lo
stato di abbandono, la seconda, invece, intende realizzare il diritto del minore ad una famiglia in casi in cui,
pur se non ricorrono le condizioni per l’adozione piena
del minore, è comunque necessario od opportuno procedere all’adozione dando veste giuridica a relazioni familiari già esistenti di fatto. Si delinea cosı̀ una distinzione tra adozione (piena) dei minori in stato di abbandono ai quali occorre dare una famiglia sostitutiva di
quella di origine, e adozione (semplice) dei minori non
in stato di abbandono per i quali occorre dare veste
giuridica a rapporti familiari di fatto. Si tratta di un’impostazione che, sia detto per inciso, la Corte mantiene
ferma anche in più recenti sentenze dove la distinzione
tra adozione di minori in stato di abbandono e adozione
di minori non in stato di abbandono viene ribadita al
fine di identificare la disciplina applicabile al riconoscimento del provvedimento di adozione pronunciata all’estero a favore della compagna della madre 11.
3. L’adozione in casi particolari e la formalizzazione
dei rapporti familiari di fatto.
A questa interpretazione si conforma la Corte di
cassazione nella odierna sentenza. Nel nostro ordinamento vi sono ‘‘due modelli di adozione, quella legittimante, fondata sulla condizione di abbandono del
minore e quella non legittimante, fondata su requisiti
diversi sia in ordine alla situazione di fatto nella quale
versa il minore, si in ordine alla relazione con il richiedente l’adozione’’.
Il fatto che l’assenza di stato di abbandono costituisca
il presupposto comune a tutte le ipotesi contemplate
dall’art. 44, si desume non solo dall’incipit della norma,
ma anche dall’art. 11, comma 1º, della legge ove si dice
che, in relazione al minore orfano di entrambi i genitori,
e privo di parenti entro il quarto grado che abbiano con
lui rapporti significativi, il tribunale per i minorenni
deve dichiarare lo stato di adottabilità ‘‘salvo che esistano istanze di adozione ai sensi dell’art. 44’’, confermando dunque che la formalizzazione rapporti affettivi già
esistenti ha carattere prioritario rispetto all’adozione
(piena) a favore di una coppia di estranei.
In altri termini, l’adozione in casi particolari è stata
introdotta dalla l. n. 184/1983 proprio per realizzare il
diritto del minore ad una famiglia in casi in cui, pur se
non ricorrono le condizioni per l’adozione piena del
minore, è comunque necessario od opportuno procedere all’adozione. Si tratta di ipotesi di adozione particolari, ma non eccezionali, in quanto anche questo
tipo di adozione, al pari dell’adozione piena, mira a
tutelare il preminente interesse del minore, inserendolo in una famiglia che si prenda cura di lui. All’interno
di tali ipotesi, le prime tre sono tipizzate in modo più
circostanziato mentre l’ultima è connotata da margini
maggiori di elasticità, ciò che ne rende possibile l’applicazione di più ampio raggio.
Alla luce di queste considerazioni, appare destituito
di fondamento anche l’altro argomento che sostiene
l’interpretazione letterale della ‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’, vale a dire il timore
che, attraverso una lettura estensiva si giunga ad aggirare la condizione limitativa imposta dalla legge che
riserverebbe al coniuge (e solo a lui) la facoltà di adottare il figlio dell’altro (lett. b). È vero che al coniuge
del genitore è stata riservata, per cosı̀ dire, una corsia
preferenziale, tenuto conto del fatto che, di solito, chi
sposa persona che ha già il un figlio instaura con lui un
rapporto qualificato, cosicché, nel ricorrere delle altre
condizioni di legge [interesse del minore (art. 57) e
consenso dell’altro genitore (art. 48)], la prova del
rapporto familiare di fatto è, per cosı̀ dire, facilitata.
Se questo è vero, è però altrettanto vero che ciò non
significa che la legge riservi ‘‘in via esclusiva’’ al coniuge del genitore la facoltà di adottare con adozione
semplice il figlio dell’altro. È vero invece il contrario:
l’adozione semplice è possibile anche al fine di formalizzare altri tipi di relazioni familiari ‘‘di fatto’’, dovendosi in tal caso dare la prova della loro esistenza e
consistenza (questa volta non presunta, come nel caso
di rapporto di coniugio) oltre che, naturalmente, dell’interesse del bambino (art. 57) e sempre che sussistano i consensi ed assensi previsti dalla legge (artt. 46,
48). Ed è stato seguendo questo modulo interpretativo
11 Corte cost., 7.4.2016, n. 76, pubblicata supra, Parte prima, p.
1172.
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che la giurisprudenza ha ammesso, ad esempio, l’adozione semplice a favore degli zii, del compagno della
madre, o nel caso di kafalah di diritto islamico 12.
L’adozione semplice è quindi strumento per garantire
la continuità delle relazioni affettive del minore e renderne possibile la formalizzazione. Da questo punto di
vista, osserva la Supr. Corte essa si pone in linea di
continuità con i recenti interventi normativi in tema
di filiazione ed adozione. Anche la riforma della filiazione, stabilendo solo per il figlio l’imprescrittibilità delle azioni di impugnativa della paternità e prevedendo
invece per gli altri legittimati un termine ‘‘tombale’’ di
cinque anni esprime un’opzione che ‘‘evidenzia il riconoscimento del rilievo delle relazioni instaurate e consolidate nel tempo tra genitore e figli’’. Ed altrettanto
deve dirsi per la l. 19.2.2004, n. 40 che preclude il
disconoscimento al marito che abbia dato il consenso
alla fecondazione eterologa della sua compagna. In modo ancor più significativo la riforma dell’adozione ad
opera della l. n. 173/2015 intende garantire il diritto
delle bambine e dei bambini alla continuità delle relazioni affettive privilegiando l’adozione piena da parte di
coloro che hanno accolto i bambini in affidamento
familiare. La stessa disciplina dell’adozione in casi particolari dà rilevanza alle relazioni familiari già esistenti tra
adottante e adottato. Al riguardo, la Supr. Corte fa
notare che l’art. 57, comma 3º, lett. a), - nel testo
sostituito dalla l. n. 149/2001, art. 29 - stabilisce che
‘‘il tribunale per i minorenni, al fine di verificare, oltre
alla sussistenza dei requisiti normativi astratti, anche
l’effettiva rispondenza dell’adozione richiesta all’interesse del minore, deve operare una specifica valutazione
della ‘idoneità affettiva’ del genitore adottante, valutazione la quale non può che essere effettuata sulla base di
una relazione preesistente adottante-minore, come tale
incompatibile con una situazione di abbandono’’.
Anche la Corte eur. dir. uomo, d’altra parte, da
tempo riconosce include nella nozione di ‘‘vita familiare’’, meritevole di protezione secondo l’art. 8, anche
le relazioni familiari di fatto. Questo principio si va
sempre più consolidando specie in casi che riguardano
proprio i procedimenti adottivi nel senso che il rapporto affettivo esistente all’interno di un nucleo familiare merita considerazione e protezione anche a prescindere dalla sua corrispondenza con rapporti giuridicamente riconosciuti 13. E talvolta la Corte ha censurato il ricorso a forme di adozione che interrompono
completamente i rapporti con i genitori, quando sia
possibile, in alternativa, l’impiego di strumenti più elastici che, da un lato conservano, almeno in parte, que12
V. infra, § 2.
Corte eur. dir. uomo, 27.4.2010, ric. 16318/07, Moretti e
Benedetti c. Italia; 27.1.2015, ric. 25358/12, Paradiso e Campanelli c.
Italia.
14 Corte eur. dir. uomo, 21.1.2014, ric. 33773/11, Zhou c. Italia;
13
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sti rapporti e, dall’altro, favoriscono il consolidarsi di
situazioni di fatto esistenti 14.
4. La ‘‘constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’ tra criteri ‘‘di fatto’’ e ‘‘di diritto’’.
In apparente dissonanza con il filone interpretativo
che si è cercato di ricostruire si segnalano talune pronunce della Supr. Corte 15 che, tuttavia, a ben vedere,
non costituiscono precedenti del caso odierno. Il principio di diritto enunciato in queste sentenze - secondo
cui ‘‘l’impossibilità di affidamento preadottivo’’ va intesa
come ‘‘mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante’’ e non anche come ‘‘ipotesi di contrasto
con l’interesse del minore’’- si riferisce infatti a fattispecie
del tutto diverse da quella oggetto dell’odierna decisione, a fattispecie in cui, in presenza di accertato stato di
abbandono, era già stata pronunciata la dichiarazione di
adottabilità e disposto l’affidamento preadottivo a favore di coppia in possesso dei requisiti richiesti dalla legge.
Si tratta di casi in cui la domanda di adozione ex art. 44
da parte delle persone che avevano avuto in affidamento familiare i minori era sopravvenuta quando la procedura di adottabilità aveva già fatto il suo corso. Anche
con riguardo a situazioni di questo tipo la Supr. Corte
ha tuttavia premura di far rilevare come la l. n. 173/
2015 abbia modificato il quadro normativo, essendo
stata introdotta ‘‘anche al fine di evitare conflittualità quali
quelle alla base delle due richiamate pronunce’’.
Del tutto differente si presenta il caso odierno dove
la domanda di adozione si riferisce ad una bimba che
non è abbandonata, ma accudita amorevolmente dalla
madre e dalla sua compagna. La domanda di adozione
in casi particolari ha come scopo la formalizzazione di
una situazione familiare già esistente e ritenuta in fatto,
con ampia motivazione dai giudici di primo grado e di
appello, pienamente soddisfacente dal punto di vista
relazionale ed educativo.
La formalizzazione del rapporto di filiazione da parte
del compagno o della compagna del genitore mira ad
ottenere le garanzie giuridiche che lo mettano al riparo
dai rischi (ad esempio, per il caso di morte del genitore
biologico, o di rottura della vita comune) e dalle incertezze che lo caratterizzano nei confronti dei terzi (si pensi
alle istituzioni scolastiche o sanitarie). Intende garantire
la stabilità degli affetti e la continuità delle relazioni
affettive esistenti di fatto, non diversamente da quanto
prevede, per l’affidamento familiare, la l. n. 173/2015.
Seguendo la distinzione chiaramente fatta dalla Corte costituzionale tra adozione semplice di un minore
13.10.2015, ric. 52557/14, S.H. c. Italia, in questa Rivista, 2016, I,
683, con commento di Lenti, ibidem, II, 785.
15 Cass., 27.9.2013, n. 22292 (est. Bisogni) e Cass., 2.2.2015, n.
1792 (est. Acierno, relatrice anche della presente).
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abbandonato, ammissibile quando vi sia di fatto impossibilità di affidamento preadottivo, ed adozione
semplice di minore non abbandonato, finalizzata a dare
veste giuridica a rapporti familiari di fatto e per la
quale, dunque, l’impossibilità di affidamento preadottivo riguarda la carenza dei presupposti ‘‘di diritto’’
dell’adozione piena, è chiaro che il caso in esame rientra nella seconda alternativa. In questo caso, seguendo
l’insegnamento della Corte costituzionale, ‘‘l’interpretazione della nozione di ‘‘impossibilità di affidamento preadottivo’’ da prescegliere non può che essere quella adottata
dalla Corte d’Appello di Roma’’ secondo cui ‘‘deve ritenersi sufficiente l’impossibilità ‘‘di diritto’’ di procedere ad
affidamento preadottivo’’. Non è necessario in questi casi
che sussista la c.d. ‘‘impossibilità di fatto’’ 16.
5. Genitori dello stesso sesso.
Non costituisce ostacolo il fatto che, in seguito all’adozione da parte della compagna della madre la responsabilità genitoriale venga ad essere esercitata da
una coppia di genitori dello stesso sesso. Si tratterebbe
infatti di una discriminazione ingiustificata che la
Supr. Corte anche in altra occasione ha avuto modo
di stigmatizzare, in quanto appoggiata su argomenti
‘‘alla base dei quali non sono poste certezze scientifiche o
dati di esperienza, bensı̀ il mero pregiudizio che sia dannoso
per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in
una famiglia incentrata su una coppia omosessuale’’ ed in
forza dei quali ‘‘si dà per scontato ciò che invece è da
dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare
per il bambino’’ 17.
Come notavamo in apertura, è il principio di non
discriminazione l’altro pilastro su cui poggia la sentenza
e che ha alla sua base l’insegnamento della Corte eur.
dir. uomo 18 che ha riconosciuto sussistere la violazione
del principio di non discriminazione (art. 14, in relazione all’art. 8 Conv. eur. dir. uomo), una ingiustificata
disparità di regime giuridico tra coppie eterosessuali ed
omosessuali, nel fatto che la legge nazionale ammetta
le coppie di fatto all’adozione c.d. ‘‘coparentale’’ solo se
formate da persone di sesso diverso e non invece quando composte da persone dello stesso sesso. Gli Stati
godono di margini di discrezionalità nell’ammettere o
non ammettere le coppie non sposate all’adozione c.d.
‘‘coparentale’’ 19, ma, se le ammettono, non possono
trattare diversamente quelle dello stesso sesso rispetto
a quelle di sesso diverso. In caso di discriminazione
16 Come invece ritenuto da Trib. min. Piemonte-Valle d’Aosta, 11.9.2015, in questa Rivista, 2016, I, 205 ss., con nota di Nocco,
riformata da App. Torino, 27.5.2016.
17 Cass., 11.1.2013, n. 601.
18 Corte eur. dir. uomo, 19.2.2013, ric. 19010/07, X c. Austria.
19 Corte eur. dir. uomo, 31.8.2010, ric. 25951/07, Gas e Dubois
c. Francia.
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fondata sul sesso o sull’orientamento sessuale, infatti,
il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati è
limitato e l’Austria non ha fornito ‘‘motivi particolarmente solidi e convincenti idonei a stabilire che l’esclusione
delle coppie omosessuali dall’adozione coparentale aperta
alle coppie eterosessuali non sposate fosse necessaria per
tutelare la famiglia tradizionale’’ (§ 151 della sentenza).
Si tratta di una sentenza che si inscrive in un orientamento inaugurato nel 2008, quando la Corte 20 - operando un sostanziale revirement rispetto a quanto affermato sei anni prima 21 - aveva condannato lo Stato
convenuto per violazione dell’art. 14 Conv. eur. dir.
uomo in combinato disposto con l’art. 8 per aver considerato una persona single inidonea all’adozione in
ragione della sua omosessualità 22.
In coerenza con questi principi, con affermazione di
grande rilievo, la Corte conclude che, dato che all’adozione ex art. 44 possono accedere sia persone singole,
sia coppie non sposate, ‘‘l’esame dei requisisti e delle
condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (‘‘la constatata impossibilità di affidamento preadottivo’’), sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore imposta dall’art.
57, c.1, n. 2), non può essere svolto - neanche indirettamente - dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente ed alla conseguente natura della relazione da questo
stabilita con il proprio partner’’.
6. La legge n. 76/2016.
La Corte ha cura di sottolineare che nel caso di
specie non trova applicazione la legge 20.5.2016, n.
76 (entrata in vigore il 5.6.2016) che regolamenta le
unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze, lasciando in tal modo impregiudicata la questione di quale sia la soluzione dei casi che si porranno nel
vigore della nuova legge.
Come è noto, la l. n. 76/2016 garantisce alle coppie
dello stesso sesso il diritto di ottenere il riconoscimento
solenne e formale dell’unione, e uno status analogo a
quello coniugale. Le ‘‘unioni civili’’, pur costituendo
un istituto distinto dal matrimonio, condividono con
il matrimonio i tratti essenziali, sia per quel che riguarda il momento costitutivo (il profilo dell’‘‘atto’’) sia per
quanto riguarda la relazione interpersonale (il profilo
del ‘‘rapporto’’) e la rilevanza nei confronti dei terzi e
della collettività.
Dal punto di vista della disciplina, la principale differenza rispetto al matrimonio riguarda i rapporti con i
20
Corte eur. dir. uomo, 22.1.2008, ric. 43546/02, E.B. c. Fran-
cia.
21
Corte eur. dir. uomo, 26.2.2002, ric. 36515/97, Fretté c. Fran-
cia.
22 Successivamente, v. Corte eur. dir. uomo, 2.3.2010, ric.
13102/02, Kozak c. Polonia.
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figli, in particolare per il fatto che il testo definitivamente approvato non prevede più la possibilità che il
partner possa adottare il figlio dell’altro secondo quanto dispone, per il coniuge, l’art. 44, lett. b), l. adoz.
(c.d. stepchild adoption).
Il dibattito parlamentare si è purtroppo focalizzato
sulla condotta dei genitori, prospettandosi da alcuni
come preminente l’esigenza di rafforzare la sanzione
penale per il ricorso alla maternità surrogata all’estero 23. In tal modo si ripropone quella logica - che speravamo ormai estranea al sistema - per cui il diritto dei
figli allo status ed alla relazione con i genitori viene
condizionato dalla supposta esigenza di sanzionare e/o
prevenire condotte dei genitori ritenute ‘‘devianti’’. Si
tratta di una logica ormai completamente abbandonata
dal legislatore, persino in quelle situazioni - come l’incesto - in cui la condotta dei genitori suscita particolare riprovazione sociale (v. art. 251 cod. civ.). Prevale
infatti la considerazione che il bambino, con la nascita,
acquista piena dignità di persona e merita quindi piena
tutela anche con riguardo alla costituzione dello status
filiationis che è aspetto fondamentale dell’identità individuale 24. Anche la Corte costituzionale 25 ha rifiutato
ogni logica sanzionatoria quando ha escluso che la
condanna per il reato di alterazione di stato giustifichi,
come sanzione accessoria, l’automatica decadenza dalla
potestà/responsabilità dei genitori, dovendo anche in
tal caso il giudice valutare, nell’esclusivo interesse del
bambino, l’effettiva qualità della relazione e l’opportunità di salvaguardarla. Ci si chiede dunque perché tale
logica riemerga oggi per sanzionare il ricorso alla gestazione per altri all’estero in Paesi (come il Canada e
la California) che la ammettono e la disciplinano. Anche nel caso di GPA, l’attenzione deve focalizzarsi sui
diritti del bambino non sulla condotta dei genitori.
Tutto ciò senza contare che l’adozione coparentale
non riguarda solo la GPA, riguarda anche l’adozione
del bambino nato da precedenti relazioni eterosessuali,
o matrimoni, riguarda, nel caso di coppia formata da
due donne, il bimbo nato con fecondazione eterologa.
Di qui un problema di ragionevolezza della mancata
estensione dell’art. 44, lett. b), l. adoz alle coppie dello
stesso sesso, problema che in questa sede non è possibile approfondire.
Eliminato il riferimento esplicito all’ammissibilità
della c.d. ‘‘stepchild adoption’’, la disciplina definitivamente approvata è tutta racchiusa nel comma 20º dell’art. 1 della l. n. 76/2015 il quale, in termini generali,
sancisce l’applicabilità alle unioni civili di tutte le disposizioni (esclusa la legge sull’adozione), ‘‘che si riferiscono al matrimonio’’ o che contengano ‘‘le parole
‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ri23 Come è noto, l’art. 12, comma 6º, l. n. 40/2004 già prevede
sanzioni penali per la maternità surrogata.
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corrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei
regolamenti nonché negli atti amministrativi o nei
contratti collettivi’’. Per quel che riguarda il codice
civile, invece, si applicano soltanto le norme espressamente richiamate dalla legge. Con specifico riferimento all’adozione, lo stesso comma 20º dispone che ‘‘resta
fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti’’.
Dato che la lett. b) dell’art. 44 l. adoz, prevede l’adozione da parte del coniuge del figlio dell’altro, è
chiaro che, secondo il tenore letterale del comma
20º, questa disposizione non si applica alle unioni civili. Questa esclusione non riguarda tuttavia la lett. d).
Mentre la lett. b) contiene una disciplina specifica per
l’adozione da parte del coniuge, la lett. d), invece,
contiene una disciplina di carattere generale per i casi
di ‘‘impossibilità di affidamento preadottivo’’, da intendersi nel senso precedentemente illustrato.
L’ampio riferimento contenuto nella seconda parte
del comma 20º a quanto (espressamente) ‘‘previsto’’ e a
quanto ‘‘consentito’’ (secondo l’interpretazione corrente) conforta nel ritenere che questa lettura dell’art. 44,
lett. d), legge adoz., sviluppata dalla odierna sentenza
della Supr. Corte, vada mantenuta ferma anche dopo
l’approvazione della nuova legge.
Il fatto che la legge non disciplini espressamente
l’adozione del figlio da parte del partner finisce dunque
per demandare ai giudici il compito di garantire il
diritto dei figli alla certezza e stabilità del rapporto
con coloro che effettivamente esercitano la funzione
genitoriale. Ma l’intervento giudiziale, necessariamente episodico, frammentario e incerto nei suoi esiti, solo
in modo imperfetto può attuare il diritto dei bambini
alla famiglia (art. 1 l. n. 184/1983).
7. La mancata nomina del curatore speciale del minore.
Il principio di non discriminazione costituisce argomento fondamentale per confutare anche l’altro motivo di ricorso che si appuntava sulla mancata nomina di
curatore speciale del minore e sul conflitto di interessi
esistente tra la madre (in veste di rappresentante legale
del minore) ed il minore stesso.
Secondo la tesi del PM ricorrente, infatti, la domanda proposta da una delle persone componenti la coppia
per l’adozione del figlio minore dell’altra - ex art. 44,
comma 1º, lett. d), l. adoz. - determinerebbe ex se un
conflitto di interessi, anche solo potenziale, tra la madre ed il minore adottando. Tale conflitto di interessi
sussisterebbe principalmente per il fatto che l’adozione
è voluta per soddisfare l’aspirazione delle due donne
24
25
Corte cost., 28.11.2002, n. 494.
Corte cost., 23.2.2012, n. 31; Corte cost., 23.1.2013, n. 7.
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(l’adottante e madre della minore) ‘‘a vivere la bigenitorialità nell’ambito del rapporto di coppia come consolidamento dello stesso’’ (frase riportata dal ricorso
introduttivo). Tale conflitto sarebbe ‘‘potenziale’’,
‘‘dal momento che la madre agisce nel proprio interesse
e ritiene che tale interesse coincida con quello della
minore’’, sicché la decisione di merito, anche se formalmente tesa a salvaguardare l’interesse della minore,
sarebbe in realtà sostanzialmente ispirata da una concezione ‘‘adultocentrica’’.
Tali argomenti vengono confutati sulla base della
ricostruzione del sistema normativo interno (art. 78
cod. proc. civ.) e convenzionale (artt. 3 e 12 Convenzione di New York 1989; artt. 4 e 9 Convenzione di
Strasburgo 1996) e dei precedenti giurisprudenziali
(Corte cost., 15.11.2000, n. 528; 16.1.2002, n. 1;
7.3.2011, n. 83).
In estrema sintesi, si desume dal quadro normativo
convenzionale la necessità che possa essere rappresentata autonomamente la posizione del minore nei giudizi che lo riguardano, in particolare per quanto riguarda i procedimenti sulla responsabilità genitoriale e
quelli adottivi, restando riservato tuttavia ai legislatori
nazionali di stabilirne le modalità.
In questo contesto, la scelta operata dal legislatore
italiano corre su un duplice binario: da un lato la ‘‘predeterminazione normativa di alcune peculiari fattispecie
nelle quali è ipotizzabile in astratto, senza dover distinguere
caso per caso, il conflitto d’interessi, con conseguente necessità di nomina del curatore speciale a pena di nullità del
procedimento per violazione dei principi costituzionali del
giusto processo (cfr., ad esempio, art. 244 cod. civ., comma 6, art. 247 cod. civ., commi 2, 3 e 4, art. 248 cod.
civ., commi 3 e 5, art. 249 cod. civ., commi 3 e 4, art.
264 cod. civ.)’’; dall’altro, la previsione di un generale
potere di nomina del curatore speciale in tutte le diverse concrete fattispecie di conflitto d’interessi potenziale, dovendo il giudice del merito verificare in concreto, nei giudizi riguardanti diritti dei minori, ‘‘l’esistenza potenziale di una situazione d’incompatibilità tra gli
interessi del rappresentante e quello preminente del minore
rappresentato’’ (art. 78, comma 2º, cod. proc. civ.).
In coerenza con il sistema binario descritto, la Supr.
Corte ha di volta in volta individuato le ipotesi in cui il
conflitto di interessi è in re ipsa, con conseguente obbligo
del giudice di provvedere, pena la nullità del procedimento (Cass., 26.3.2010, n. 7281; 19.5.2010, n. 12290;
14.7.2010, n. 16553; 19.7.2010, n. 16870; 22.5.2014, n.
11420), da quelle in cui è invece soltanto potenziale, e la
cui individuazione è rimessa in via esclusiva al giudice di
merito con giudizio insindacabile in cassazione (Cass,
13.4.2001, n. 5533; 19.10.2011, n. 21651, relativa ad
una fattispecie di adozione in casi particolari).
Con riguardo al caso di specie, ‘‘in carenza d’indici
normativi specifici’’, si deve escludere che, ‘‘in via ermeneutica’’, possa essere ravvisata in generale un’incom-
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patibilità d’interessi ‘‘quale conseguenza dell’applicazione
della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d)’’. Si
tratta di una ipotesi di adozione in casi particolari la
cui ratio è proprio quella ‘‘di consolidare, ove ricorrano le
condizioni dettate dalle legge, legami preesistenti e di evitare
che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto
giuridico adeguato’’, una ratio evidentemente incompatibile con l’ipotesi di un conflitto d’interessi in re ipsa,
desumibile dal modello adottivo astratto. A ciò si deve
aggiungere che la previsione normativa (art. 46 l. adoz)
della necessità dell’assenso del genitore dell’adottando
costituisce un evidente ‘‘indice normativo contrario alla
configurabilità, in via generale ed astratta, di una situazione di conflitto d’interessi anche solo potenziale’’ tra il genitore e il minore.
Resta la possibilità di esistenza di un conflitto d’interessi in concreto che si manifesti nel corso del procedimento di adozione e del quale il giudice, se sollecitato da una delle parti o dal pubblico ministero, deve
verificare l’esistenza nella fattispecie dedotta in giudizio. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte d’appello ha
escluso con motivazione esauriente, incensurabile in
Cassazione, l’esistenza di un tale conflitto.
Al di là di tutto, la Corte non manca di cogliere e
confutare la vera e unica ragione su cui si basa la tesi
dell’incompatibilità di interessi tra la madre (in veste
di rappresentante legale) ed il minore, vale a dire il
fatto che, con l’adozione la madre miri ‘‘al consolidamento giuridico del proprio progetto di vita relazionale e
genitoriale’’. Al riguardo la Corte è molto chiara. O,
infatti, si ritiene che sia proprio la natura omoaffettiva
della relazione tra le due donne ad essere potenzialmente in contrasto con l’interesse della bambina, o
invece si deve escludere che il desiderio dei genitori
di ‘‘consolidare’’ la propria relazione di coppia sia da
valutare negativamente, dato che è nel DNA di questo
tipo di adozione quello di favorire, con la formalizzazione giuridica della situazione familiare, anche il
‘‘consolidamento’’ della relazione di coppia tra i genitori, non diversamente, d’altra parte, da quanto accade
anche nel caso di adozione da parte del coniuge del
genitore, dato che il fatto di avere figli in comune
viene solitamente visto come circostanza che rafforza
e cementa il rapporto di coppia.
Se quindi il problema vero è la natura ‘‘omoaffettiva’’
della relazione tra le due donne, bisogna allora dire a
chiare lettere che una ‘‘valutazione negativa fondata
esclusivamente sull’orientamento sessuale della madre della
minore e della richiedente l’adozione’’ è ‘‘inammissibile’’, ha
esclusivamente ‘‘natura discriminatoria’’ e, nel caso di
specie, è ‘‘comunque priva di qualsiasi allegazione e fondamento probatorio specifico’’.
Ed è questo il messaggio importante che conclusivamente la Corte ci consegna: l’inammissibilità di ogni
discriminazione fondata su ragioni di genere e di orientamento sessuale.
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Parte seconda Letture e Opinioni
Dalla nullità relativa alla forma
dimidiata?
di Paolo Gaggero
SOMMARIO: 1. Forma scritta del contratto e manifestazioni della volontà negoziale. - 2. Forma scritta del
contratto e manifestazioni esplicite della volontà negoziale. - 3. Forma scritta e sottoscrizione del contratto. - 4. Forma scritta, sottoscrizione e struttura del contratto.
Le speciali discipline dettate per specifiche figure
contrattuali possono alterare l’ordinario regime d’istituti classici. Si tratta, tuttavia, d’una mera eventualità,
sicché parrebbe semplificante e sconveniente un aprioristico approccio alle regole di settore che la desse per
scontata; e abdicasse a verificarne la coerenza (e la
concorrenza) con il diritto comune.
Da qualche tempo, in particolare, s’è posto l’interrogativo se la sottoscrizione (anche) dell’intermediario
che presti servizi di investimento sia necessaria affinché possa dirsi integrato il requisito della forma scritta
del contratto quadro di cui formino oggetto, che è
preteso dall’art. 23 t.u.f. E sulla questione si confrontano due indirizzi applicativi: uno, più aderente alla
concezione tradizionale della forma richiesta per la validità dell’atto negoziale 1; un altro, più liberale, che si
accontenta della sottoscrizione del solo cliente 2.
La vulgata sulla forma solenne dei negozi giuridici 3,
ancorché - anche per tratti di notevole momento - non
sia uniforme 4, parrebbe solido sostegno del primo in-
dirizzo interpretativo. La c.d. forma ad substantiam è
ritenuta elemento costitutivo del negozio 5 che, quando ne difettasse, non potrebbe essere - per congruente
corollario - convalidato, bensı̀ solo rinnovato, siccome
inutili ne sarebbero la ripetizione e l’accertamento ché
riguarderebbero un atto nullo.
La portata dell’istituto, nei modelli interpretativi,
conosce invero attenuazioni ed espansioni, che dipendono, in primo luogo, dalla definizione del suo ambito
applicativo. A tale ultimo proposito, risulta la tendenza ad accontentarsi e, segnatamente, a ritenere che la
prescrizione formale riguardi il contenuto minimo di
ciò a cui sia predicata 6 e, dunque, se riferita a un atto
negoziale, possa rivestire le sole pattuizioni relative agli
effetti che lo caratterizzano sul piano tipologico 7. Tuttavia, con rigore, quanto debba risultare con una forma
vincolata deve necessariamente esserne rivestito sicché, in ipotesi di imposizione della forma scritta, dovrà
sgorgare dal testo 8; e il testo dovrà essere in tale forma
imputabile ai contraenti, i.e. in essa esser fatto da quelli proprio.
Sotto il primo dei due profili da ultimo accennati,
1 Cfr. App. Bologna, 8.3.2012, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10079.php; App. Milano, 27.3.2013, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10081.php; Trib. Bologna, 6.2.2013, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=9286.php; Trib. Prato, 26.8.2013, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10143.php; Trib. Reggio Emilia,
16.9.2013, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10167.php.
2 Cosı̀, Trib. Milano, 12.11.2013, in www.dirittobancario.it/sites/
default/files/allegati/tribunale_di_milano_13_novembre_2013_n._14268.pdf.
3 La letteratura è molto estesa: per alcune efficaci sintesi, cfr. Gentili, La forma, in Lezioni sul contratto, a cura di Orestano, Giappichelli, 2009, 69 ss.; Pagliantini, Dei contratti in generale, nel Commentario Gabrielli, a cura di Navarretta e Orestano, II, Utet, 2011,
sub art. 1350, 5 ss.; Sica, Atti che devono farsi per iscritto, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 2003, sub art. 1350.
4 Si allude, ad es., al dibattito che ha diviso la dottrina, più che la
giurisprudenza, relativo all’esistenza o meno del principio generale della
libertà di forma: per un riassunto del non recente dibattito, v. Cataudella, I contratti. Parte generale, Giappichelli, 4a ed., 2014, 124 s.
5 V., ad es., Verdicchio, Le forme convenzionali nell’opera di G.
Setzer, in Studi in onore di Giovanni Giacobbe, I, Giuffrè, 2010, 218 ss.
e 228 ss.
6 Non di rado la giurisprudenza ha ritenuto che il requisito di forma
riguardi - e possa essere soddisfatto con riguardo a - i soli elementi
essenziali: ad es., v. Cass., 24.6.1982, n. 3839, in Mass. Giust. civ.,
1982.
7 Diversamente orientata, forse, Modica, Vincoli di forma e disciplina
del contratto. Dal negozio solenne al nuovo formalismo, Giuffrè, 2008, 262.
8 Ciò, tuttavia, non significa che sia ‘‘messa al bando’’ la relatio nei
negozi formali, né che la prescrizione di requisiti di contenuto (minimo) e di forma (vincolata) si traduca in una regola di ‘‘necessaria
determinatezza dell’oggetto’’ (entrambe le tesi sono sostenute da Modica, op. ult. cit., 263), neppure con riguardo ai soli contenuti indefettibili per positiva previsione. La combinata imposizione dei detti
requisiti dell’atto negoziale, infatti, sembra che non ponga in crisi
neppure l’indirizzo ammissivo, a date condizioni, delle clausole di rinvio
anche nei negozi formali (per una sintesi, sia consentito il rinvio a La
modificazione unilaterale dei contratti bancari, Cedam, 1999, 192 ss., e cfr.
Betti, Teoria generale del negozio giuridico, nel Trattato Vassalli, XV, 2,
Utet, 2a ed., 3a rist., 1960, 286 ss.
1. Forma scritta del contratto e manifestazioni della
volontà negoziale.
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riordinando preliminarmente sul piano nominalistico
alcuni predicati, si può muovere dal dato semantico; si
può convenientemente (evitare l’ossimorico accostamento contenuto nel sintagma ‘‘espresso tacitamente’’
e) riferire l’endiadi espressa-tacita a(i modi de)lla manifestazione di volontà e i qualificativi esplicito, chiaro, inequivoco, trasparente et similia a(i modi de)lla
dichiarazione negoziale, sull’assunto che, per sua natura, quest’ultima appartenga al genere delle comunicazioni linguistiche, dunque delle manifestazioni espresse
di volontà; e si può prendere posizione sulla netta contrapposizione tra due modelli ricostruttivi di matrice
giurisprudenziale, l’uno, e dottrinale, l’altro.
Si allude, per un verso, all’interpretazione eterodossa
profilata dalla Supr. Corte secondo cui il contenuto
dell’atto negoziale che debba soddisfare il requisito
della forma scritta non deve necessariamente risultare
dal testo, siccome accade che il diritto positivo pretenda nel contempo la manifestazione espressa di volontà
e la forma scritta di essa (arg. ex art. 2879, comma 1º,
cod. civ. 9); per ciò la (prescrizione della) forma scritta
della manifestazione di volontà non postula che quest’ultima debba senz’altro essere espressa nella sua interezza direttamente dal testo; il requisito formale è
soddisfatto anche in relazione alle manifestazioni volitive tacite, risultanti da contegni, purché riconoscibili
e ricollegabili alla scrittura. Il tutto in asserita coerenza
con il principio di libertà di forma 10.
E si allude, per altro verso, all’indirizzo dottrinale più
restrittivo che pretende che risulti dal testo il contenuto della manifestazione volitiva che debba essere
ornata dalla forma scritta, che vi sia cioè diretta corrispondenza tra l’uno e l’altro, osservando che la prescrizione della scrittura implica quella della dichiarazione
espressa; e che, concedendo che la qualità formale in
considerazione sia integrata (anche) da (e con riguardo
a) manifestazioni volitive non risultanti dal testo purché a esso ricollegabili, si finirebbe per ammettere che
il requisito della forma scritta possa essere soddisfatto
solo virtualmente ossia, del tutto erroneamente, che la
forma scritta sussiste là dove invece difetta 11.
Per questo, del ricordato modello giurisprudenziale si
può conservare l’asserto che prescrivere la forma scritta
dell’atto negoziale è altro dal disporre la manifestazione
espressa di volontà, dunque dell’inesistenza d’una simmetria tra quest’ultima e la scrittura che, dal punto di
vista logico, è soltanto una delle possibili forme della
prima e, persino se prescritta, s’impone per il solo contenuto minimo che caratterizza l’atto. Si può pure ammettere che l’atto negoziale in forma scritta non sia,
necessariamente, soltanto rivelazione di volontà esplicita: la scrittura è dichiarazione che, per definizione, è
manifestazione espressa di volontà, ma abbisogna dell’interpretazione, che può svelare contenuti impliciti,
poiché testo e contesto interferiscono 12; può dunque
incorporare segmenti del regolamento negoziale pur
sempre risultanti dallo scritto, ancorché non immediatamente, e a essi trasmettere la propria forma; non
muta per ciò natura di manifestazione espressa di volontà e implicita, indiretta(mente desumibile) o, se
proprio si vuole, tacita, in questi casi, è (una parte
de) la volontà, il contenuto, il significato della dichiarazione, non la dichiarazione in sé che, in quanto
(complesso di fonemi o corrispondenti segni grafici
con precipuo scopo di) comunicazione linguistica,
non si accoppia facilmente a tali predicati senza rischi
di fraintendimento. E si può infine concedere che la
prescrizione della forma scritta della manifestazione di
volontà non postula che l’unica volontà negoziale giuridicamente rilevante sia solo quella risultante esplicitamente dalla scrittura 13, per almeno due ragioni: la
prima la si è appena accennata e attiene ai riflessi
dell’interpretazione della dichiarazione, alla circostanza cioè che la dichiarazione può avere anche contenuti
impliciti; la seconda è che, se persino il contenuto
effettivo eccedente il minimo dell’atto assoggettato a
forma vincolata è aperto all’integrazione di manifestazioni volitive prive di quella, salvi i limiti della prova
che però occupano un piano diverso, in linea generale
il regolamento risultante dall’atto scritto può allora
ritenersi permeabile a volizioni non scritte, persino
tacite 14.
9 La manifestazione di volontà espressa, in altri luoghi, è invece
prescritta senza l’aggiuntiva imposizione della forma scritta: v. ad es.
gli artt. 1268, 1273, 1456 e 1936 cod. civ.
10 Cfr. Cass., 10.5.1996, n. 4400, in questa Rivista, 1997, I, 196 ss.,
a cui sembra aderire Modica, op. ult. cit., 155 s. e 157. Per il contrario
indirizzo applicativo, v. Cass., 19.1.1954, n. 92, in Riv. dir. civ., 1955,
473 ss.; Cass., 24.7.1964, n. 1995, in Foro it., 1964, I, 1780 ss.; Cass.,
14.5.1993, n. 5486, in Riv. giur. edil., 1994, I, 37 ss.
11 Per primo, v. Sacco, in Sacco-De Nova, Il contratto, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, I, Utet, 1996, 622. Cfr. Di Majo,
Esiste o meno la forma ‘‘virtuale’’ del contratto?, in Corr. giur., 1996, 1115
ss., e Nuzzo, Forma e procedura del licenziamento, ne I licenziamenti
individuali e collettivi nella giurisprudenza della Cassazione, a cura di De
Luca Tamajo e Bianchi D’Urso, Giuffrè, 2006, 299 ss. e 305.
Diversamente orientato, prossimo al più liberale indirizzo della citata
giurisprudenza di legittimità, Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Giuf-
frè, 2000, 296, in relazione al precedente contributo Id., In tema di
forma solenne, in Riv. dir. civ., 1955, 480 ss.
12 Per tutti, Irti, Testo e contesto, Cedam, 1996, passim.
13 Non potrebbe, invero, negarsi rilevanza almeno a plurimi documenti formati dalle parti che possano riallacciarsi gli uni agli altri: cfr.
Liserre-Jarach, Forma, in Il contratto in generale, a cura di Alpa,
Breccia e Liserre, nel Trattato Bessone, XIII, 3, Giappichelli, 1999,
395 ss. e 420.
14 Fin che si resti sul piano dell’interpretazione della dichiarazione, i
significati che le si attribuiscano ne hanno la forma (cfr. Di Majo,
Esiste o meno la forma ‘‘virtuale’’ del contratto?, cit., 1120; e Sacco,
L’interpretazione, in Alpa-Guarneri-Monateri-Pascuzzi-Sacco,
Le fonti del diritto italiano. Le fonti non scritte e l’interpretazione, nel
Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, II, Utet, 1999, 165 ss., spec.
239, 292, a proposito della creazione dottrinale e giurisprudenziale del
diritto, per cui si resta sul terreno dell’interpretazione se non si sconfini
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2. Forma scritta del contratto e manifestazioni esplicite della volontà negoziale.
Non sembra, invece, che ci si possa spingere fino a
ritenere che il requisito della forma proprio del testo
negoziale si estenda sino ad abbracciare anche volontà
tacitamente risultanti da contegni, neppure se siano
riallacciabili alla scrittura e, in questo senso, indirettamente riconducibili al regolamento negoziale che essa
esprima. Il risultato appare precluso dalla circostanza
che siffatte volizioni non appartengono al significato
della dichiarazione (qui scritta), neppure quali suoi
contenuti impliciti, siccome sono rivelate da fonti intrinsecamente extratestuali. Quando si desuma da elementi estranei alla comunicazione linguistica del regolamento negoziale a cui siano in qualche modo collegati, la volontà non può dirsi manifestata dalla dichiarazione, poiché lo è da fatti estrinseci che, alieni ai
significanti di cui quest’ultima si compone, esprimono
contenuti contrattuali ulteriori, diversi rispetto a quelli
proclamati 15; e, non essendovi una dichiarazione che
possa dirsi manifestazione del segmento di contratto in
questione, non può neppure sussisterne la forma in
relazione a esso, che non ha che quella propria del
fatto che lo disvela.
Il ricordato indirizzo giurisprudenziale, del resto, non
trova maggior fondamento enfatizzando la ritenuta esigenza - che intende soddisfare - di assicurare, là dove
siano congiuntamente disposte la manifestazione
espressa di volontà e la forma scritta di essa, un’autonoma portata prescrittiva a entrambe le regole. Non
solo poiché il fine non è in grado di vincere le segnalate criticità dell’argomentazione della norma che lo
realizzerebbe 16, ma soprattutto perché, se la previsione
della forma scritta implica una manifestazione volitiva
espressa nel significato ortodosso della locuzione e,
quindi, si potrebbe evitare di prescrivere separatamente la seconda, ciò non significa che disporle entrambe
sia una superfetazione inutile. Infatti, la scrittura è solo
una delle forme della manifestazione espressa di volontà, che si serve della comunicazione linguistica; i due
fenomeni non si equivalgono, essendo l’uno inscritto
nell’altro; dunque, i significati delle disposizioni prescrittive dell’una e dell’altra non coincidono, ma corrispondono a regole niente affatto ripetitive, bensı̀ diverse, che procedono dal generale al particolare e la cui
congiunta formulazione va a beneficio della chiarezza,
facendosi apprezzare perché agevola la ricostruzione
dogmatica.
Al fine di assicurare un’autonoma portata e utilità
alla prescrizione che imponga la ‘‘manifestazione
espressa di volontà’’ e si aggiunga all’imposizione della
forma scritta dell’atto, dunque, non occorre allontanarsi dall’accezione classica della locuzione; assegnarle, in
dettaglio, il significato di esplicitazione ‘‘non equivoca’’
della volontà negoziale; conseguentemente postulare
che sola si opponga all’inclusione nel contenuto negoziale proprio della dichiarazione, persino quando debba
soddisfare il requisito della forma scritta sotto pena
d’invalidità, anche delle manifestazioni volitive tacite
risultanti da contegni che siano indirettamente riconducibili a quella espressa. Tali assunti, del resto, non
sembrano corroborati dal richiamo operato al principio
di libertà di forma, in cui non possono trovare conforto
siccome, per un verso, esso è già derogato dalla prescrizione della forma scritta e, per altro verso, l’inequivocità della comunicazione linguistica non pare attenga alla forma dell’atto; non appaiono funzionali al superamento del preteso equivoco dell’identificazione
della volontà espressa con quella manifestata in forma
scritta 17, che pare inconsistente se non si confondono
illogicamente volizioni espresse e scritte; danno essi
invece corpo ad ambiguità, a causa dell’istituzione d’una equivalenza tra espresso e non equivoco, dunque tra
espressività e inequivocità della manifestazione volitiva che, però, non sussiste 18.
La manifestazione di volontà che sia espressa per la
sua forma non è invariabilmente né, tantomeno, necessariamente chiara, esplicita, inequivoca, trasparente, et similia; cosı̀ come i contegni che manifestino
volontà non lo fanno necessariamente e invariabil-
in quello dell’arbitrio, ossia finché il processo ermeneutico- ancorché
articolato, non orientato soltanto alla fonte scritta e al suo testo - possa
essere ricollegato a elementi che trovino legittimazione nella dichiarazione, altrimenti l’interprete non interpreta, ma pone senz’altro una
regola assumendo le vesti d’autore.
15 Per l’articolata ricostruzione del rapporto tra consenso, silenzio,
manifestazione tacita e fatti concludenti, v., ad es., Sacco, in SaccoDe Nova, I costituenti del contratto, Il contratto, nel Trattato di diritto
civile, diretto da Sacco, I, Utet, 1993, 81; nonché, per il più generale
rilievo che la libertà di creare regole, eventualmente estesa alla scelta
della procedura con cui crearle, richiede una seppur minima attività di
esteriorizzazione dell’atto di autonomia, Id., voce «Autonomia nel diritto privato», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., I, Utet, 1987, 517
ss. e 518. La diversa natura della manifestazione di volontà si associa a
diversi gradi di discrezionalità interpretativa, i cui confini sono particolarmente indagati con riguardo all’interpretazione degli enunciati
normativi: sulla differenza tra interpretazione (della disposizione) e
(radicale) creazione del diritto a opera dell’interprete, ossia tra attività
interpretativa (ancorché contrassegnata da un’accentuata discrezionalità) che produce norme e attività tout court creativa di regole (che
sconfina nell’arbitrio) dell’interprete, v. Sacco, L’interpretazione, cit.,
239, 292; Fabiani, voce «Clausola generale», in Enc. del dir., Annali,
V, Giuffrè, 2012, 183 ss. e spec. 221 ss.; nonché Di Marzio, Interpretazione giudiziale e costrizione. Ipotesi sulla legittimazione della discrezionalità interpretativa, in Riv. dir. civ., 2006, 395 ss. e 398 per l’opzione di
confinare l’interpretazione alla discrezionale scelta tra possibili opzioni
di significato, comunque finite.
16 Per l’inclusione dell’argomentazione tra le fonti del diritto, v.
Gentili, Il diritto come discorso, Giuffrè, 2013, 15 s., 21.
17 Cosı̀, parrebbe, Modica, op. ult. cit., 157.
18 In tal senso, approvando l’indirizzo giurisprudenziale qui disapprovato, Id., op. ult. cit., 156, che, tuttavia, non può poi mancare di
riconoscere che la scrittura (dunque la dichiarazione) non è affatto
sinonimo di inequivocità (chiarezza, comprensibilità, e cosı̀ via: 157).
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mente in modo equivoco. Forma e significatività (o,
più in generale, significazione) occupano piani distinti,
il che si lascia anche inferire dalle disposizioni della
disciplina del contratto che, ormai frequentemente,
prescrivono che il regolamento negoziale abbia i menzionati attributi. Il quesito residuale s’essi attengano
alla forma della manifestazione di volontà 19, pertanto,
merita una risposta negativa 20 siccome appaiono predicati del regolamento negoziale (o di sue parti); è
quest’ultimo a essere, ad esempio, più o meno chiaro
oppure senz’altro oscuro, ossia il nome a cui si riferiscono i menzionati qualificativi; dette qualità dipendono dai significanti impiegati e dal relativo assemblaggio, piuttosto che dalla forma che essi assumano, e
pongono questioni di contenuto, in ipotesi, della comunicazione linguistica 21. Generalizzando, l’equivocità, l’opacità e altri analoghi connotati della manifestazione volitiva, al pari dei contrari, non dipendono dall’elemento strutturale che consiste nella forma di quella, bensı̀, in una prospettiva semiotica e, più in generale, semiologica, dai significanti e, estensivamente,
dai segni utilizzati, nonché dalle consecuzioni in cui
li si organizzi. Come dimostra, casomai ve ne fosse
bisogno, l’inequivocità del messaggio trasmesso da un
semaforo, quel che rende chiara, comprensibile, indubbia, completa, trasparente una manifestazione di volontà non ne è la forma, bensı̀ sono le relazioni di
significazione che dipendono dai segni e dalle reciproche interrelazioni dei segni impiegati, di modo che non
si pone una questione di forma del regolamento contrattuale, ma semmai di contenuto dell’atto manifesta19 In tal senso parrebbero Danese, Commento alla direttiva 93/13/
CEE sulle clausole abusive. Una prospettiva per l’attuazione nell’ordinamento interno, in Resp. civ. e prev., 1995, 427, 446; Cian, Il Nuovo capo
XIV-bis (Titolo II, Libro IV) del Codice civile, sulla disciplina dei contratti
con i consumatori, in Studium Juris, 1996, 417 ss., 418; Masucci, in La
nuova disciplina delle clausole vessatorie nel codice civile, a cura di Barenghi, Jovene, 1996, sub art. 1469-quater, 135 ss., 141; Modica, op. ult.
cit., 155, 156 s., che, tuttavia, finisce per riferire al contenuto del
contratto le disposizioni prescrittive della chiarezza del regolamento
del rapporto (157); più sfuggente Senigaglia, Buona fede e trasparenza
contrattuale nella disciplina dei consumi, Jovene, 2004, 141, 252, che
reputa che le regole sulla trasparenza del regolamento negoziale riguardino la struttura del contratto con riferimento sia al contenuto sia alla
forma dell’atto.
20 Con Breccia, La forma, in Formazione, a cura di Breccia, Granelli e Roppo, nel Trattato del contratto, diretto da Roppo, I, Giuffrè,
2006, 463 ss., 553, e Roppo, voce «Clausole vessatorie (nuova normativa)», in Enc. giur. Treccani, VI, Ed. Enc. it., 1996, 1 ss., 4, che non
esita a collocare forma dell’atto e trasparenza del regolamento su piani
del tutto distinti.
21 Di ciò sembra potersi trarre conferma dalla giurisprudenza della
Corte del Lussemburgo formatasi sull’art. 4, § 2, direttiva del Consiglio,
5.4.1993, n. 13/93 CEE: v. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa C-26/
13, sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ex art. 267
TFUE, dalla Kúria ungherese, nel caso Árpád Kásler e Hajnalka Káslerné
Rábai c. OTP Jelzálogbank Zrt.
22 Ciò che preclude, di conseguenza, l’inclusione nella categoria dei
negozi formali dei contratti in relazione ai quali siano stabiliti vincoli
modali consistenti nella chiarezza, nella completezza, nell’intelligibilità,
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tivo 22. Tanto più che la rubrica delle disposizioni prescrittive degli attributi in esame non ha particolare
peso 23; e che il legislatore non ha poteri che gli consentano di intervenire magicamente sull’ontologia dei
fenomeni 24 oltrepassando il limite della ragionevolezza. Donde l’inopportunità di riconoscere rango formale
alle prescrizioni di contenuto 25, lasciandosi all’incontro preferire la rigorosa distinzione tra (ciò che attiene
al)la forma dell’atto e (quanto inerisce al)la sostanza
del suo significato, più in generale del suo contenuto,
compreso quello minimo di volta in volta preteso 26.
3. Forma scritta e sottoscrizione del contratto.
Sotto il secondo dei due profili in considerazione,
l’atto negoziale che debba manifestarsi in una forma
vincolata, dovendo necessariamente esserne rivestito,
dev’esser pure nella prescritta forma imputabile a,
quindi fatto proprio da chi sia il soggetto dell’atto, cioè
da colui al quale quest’ultimo si profili riconducibile,
ossia del quale l’atto sia proprio; che lo abbia voluto e,
cosı̀, posto in essere; dal quale l’atto provenga e che sia
artefice dell’atto e dei relativi effetti, che gli sono allora
ascrivibili. Sicché in ipotesi di imposizione della forma
scritta del contratto, non soltanto il contenuto (minimo) del regolamento convenzionale dovrà sgorgare dal
testo, ma quest’ultimo dovrà essere nella medesima
forma fatto proprio dai contraenti. Da qui la necessità
della sottoscrizione quale tecnica di manifestazione in
forma scritta della volontà del contratto e dei relativi
effetti, sul rilievo che la firma è astrattamente idonea
nella comprensibilità, nella trasparenza, e cosı̀ via del regolamento
convenzionale (inserimento profilato da Modica op. ult. cit., 156
s.), fino al limite di disposizioni che immediatamente regolino le caratteristiche formali dei significanti (come la dimensione o il colore dei
caratteri della comunicazione linguistica) che, tuttavia, in principio
sottenderanno o s’aggiungeranno alla prescrizione della scrittura (che
comporta già di per sé quell’inclusione: per tutti, v. Nicolò, La relatio
nei negozi formali, in Riv. dir. civ., 1972, 117 ss.).
23 Contra, v. Modica, op. ult. cit., 155, con particolare riguardo al
rilievo, ai fini di cui al testo, della rubrica dell’art. 35 cod. cons., a cui
potrebbe aggiungersi, almeno, l’art. 35 d. legis. 23.5.2011, n. 79, c.d.
codice del turismo. Ma cfr., tra gli altri, Porzio, La rubrica dell’art.
2247 del codice civile, in Giur. comm., 1994, I, 1000 ss.
24 Cfr. Belvedere, I poteri semiotici del legislatore (Alice e l’art. 12
preleggi), in Scritti per Uberto Scarpelli, a cura di Gianformaggio e
Jori, Giuffrè, 1997, 85 ss., e, sul carattere vincolante o meno delle
definizioni legislative, Sacco, L’interpretazione, in Le fonti del diritto
italiano. Le fonti non scritte e l’interpretazione, cit., 165 ss., ivi 267.
25 Cosı̀, invece, Modica, op. ult. cit., 262. Quel riconoscimento è
equivoco; e non appare un’appropriata traduzione dell’ormai diffusa
tendenza delle discipline del contratto di diritto speciale a prescrivere
requisiti cc.dd. di forma-contenuto: cfr. Roppo, Il contratto, nel Trattato Iudica-Zatti, 2001, 224.
26 Ciò senza negare l’attitudine delle discipline afferenti i due profili
a interferire nel quadro del c.d. neo-formalismo negoziale (per un’analisi dell’articolazione di fini di quest’ultimo da cui muovere, v. Alessi,
Luci e ombre del nascente diritto europeo dei contratti, in Diritto europeo e
autonomia contrattuale, a cura di Alessi, Flaccovio, 1999, 7 ss., 23 ss.).
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ad assumere il significato di approvazione dell’atto a
cui sia aggiunta e di consenso a esso da parte di chi la
apponga; e a configurarsi, dunque, come l’ordinaria
modalità con cui l’autore, in forma scritta, rende riconducibile l’atto a sé, facendolo proprio in uno con gli
effetti di quello 27.
La necessità che la forma vincolata dell’atto debba
assisterne l’imputabilità all’autore, del resto, appare
persino più evidente per la forma vincolata prescritta
per la validità. In tal caso, infatti, il requisito formale
positivamente imposto si configura come uno dei costituenti della fattispecie negoziale, siccome risulta attratto alla categoria degli elementi essenziali dell’atto
dall’art. 1325 cod. civ. sicché, se la forma scritta sul
piano oggettivo è la modalità con cui l’atto deve esteriorizzarsi e, dal punto di vista soggettivo, è il modo
con cui la volontà delle parti deve manifestarsi all’esterno, sul piano strutturale la sottoscrizione è il segmento conclusivo del procedimento di valido perfezionamento del vincolo contrattuale. Per ciò, ove sia prevista la forma scritta del contratto, la sottoscrizione di
tutti i contraenti è, in principio, indispensabile, mentre non lo è la redazione del testo a cui può provvedere
anche un terzo, fino al limite del biancosegno.
La natura della sottoscrizione che, in ambito negoziale
e dal punto di vista funzionale, si configura come un
segno significante che in forma scritta esprime consenso
al regolamento contrattuale, spiega del resto la rilevanza
strutturale che la sottoscrizione può assumere. L’accennato significato che appare connaturato alla sottoscrizione
si associa alla funzione che può esserle riconosciuta secondo un criterio di regolarità 28. Per questo, in difetto di
sottoscrizione delle parti del rapporto o d’una di esse, si
possono congruentemente dare le alternative per cui
manca un segmento essenziale di modo che il contratto
non può dirsi perfezionato; o è nullo se la forma scritta sia
prevista per la validità; o non si può dimostrare se non
con limitati mezzi. E, in vece del rilievo che il difetto di
forma può assumere sul terreno dell’inesistenza del con-
tratto, si può profilare l’alternativa tra la figura della
forma (positivamente) vincolata per la validità; e quella
stabilita per la prova, la cui mancanza lascia impregiudicata la validità, l’efficacia, l’esecuzione, la ricognizione
dell’atto, bensı̀ implica solo limiti endoprocessuali.
Ciò non esclude che, ove manchi sul documento in
cui si raccolga il regolamento contrattuale, la sottoscrizione abbia equipollenti 29, siccome essa non fa parte di
quest’ultimo, né occorre la contestualità delle firme dei
contraenti. Cosı̀, ad esempio, alla sottoscrizione - in
ipotesi mancante - del contratto si può parificare la
produzione in giudizio del documento contenente il
regolamento negoziale non firmato dal contraente
che a essa provveda per avvalersi dell’atto e accreditare
il rapporto, grazie al medio logico della sottoscrizione
della procura al difensore; e con i limiti derivanti in
particolare dalla caducazione degli effetti della proposta conseguente alla revoca, dall’incapacità sopravvenuta del proponente o dalla morte del destinatario 30.
Tanto più che conviene analiticamente riconoscere la
differenza tra l’accettazione e la comunicazione di quest’ultima 31 a cui solitamente si associa il perfezionamento del contratto 32, secondo una distinzione posta
a fondamento dell’orientamento applicativo per cui,
quand’anche per la validità del contratto sia prescritta
la forma scritta, l’accettazione dell’oblato può essere
portata a conoscenza del proponente con modalità
che ne prescindono, poiché la comunicazione dell’accettazione se, da un lato, dev’essere provata, dall’altro,
non richiede la forma pretesa ad substantiam 33.
Ma, per l’appunto, in ipotesi di imposizione della
forma scritta del contratto, ove sul documento in cui
si raccolga il regolamento contrattuale manchi la sottoscrizione, occorrono equipollenti.
E, tuttavia, non ostante, cioè, il rilievo che la forma
vincolata per la validità dell’atto e - ove sia contemplato
il vestimentum della scrittura - le sottoscrizioni dei contraenti hanno dunque tradizionalmente assunto nel quadro della (ricostruzione della) struttura della fattispecie
27 Ad es., v. Landini, Formalità e procedimento contrattuale, Giuffrè,
2008, 58 e 64 s.; e Carpino, Scrittura privata, in Enc. dir., XLI, Giuffrè,
1989, 805 ss. A questo proposito, chi registra la ‘‘crisi della sottoscrizione’’ allude alle (ritenute) finzioni a cui si affida l’individuazione di
equipollenti (v. Pagliantini, Dei contratti in generale, nel Commentario
Gabrielli, cit., 99 ss.) o alla crisi della sottoscrizione autografa siccome
quest’ultima (al pari del documento cartaceo) è sostituita da un ‘‘apparato tecnico’’ nella funzione attributiva dello scritto a un soggetto (Id.,
op. ult. cit., 102 ss.; e Id., La forma nei Principi Acquis del diritto comunitario dei contratti: Textform, forme di protezione e struttura del contratto,
in I «princı̀pi» del diritto comunitario dei contratti. Acquis communautaire
e diritto privato europeo, a cura di G. De Cristofaro, Giappichelli,
2009, 95 ss.).
28 Il tema dell’imputazione del testo all’autore è trattato ampiamente
da Orlandi, La paternità delle scritture. Sottoscrizione e firme equivalenti,
Giuffrè, 1997; in giurisprudenza, sull’essenziale profilo funzionale della
sottoscrizione, cfr. Cass., 30.5.1989, n. 2588, in Notiz. giur. lav., 1989,
761, e Cass., 26.1.1987, n. 720, in Giust. civ., 1988, I, 242 ss.
29 Il tema è articolato e pone questioni che formano oggetto di
ampio, risalente dibattito: v., ad es., Sacco, La forma, in Sacco-De
Nova, Il contratto, nel Trattato Rescigno, 10, II, Utet, 2002, 291 ss. e
301.
30 Sugli accennati limiti ritorna Cass., 24.3.2016, n. 5919, pubblicata supra, Parte prima, p. 1168 che si segnala anche per l’illustrazione
dei caratteri che debbono contrassegnare la documentazione affinché la
produzione di quest’ultima in giudizio possa ritenersi equipollente della
sottoscrizione del contratto.
31 Già se ne occupano, tra gli altri, Boileux, Commentaire sur le code
napoléon, IV, 6e ed., Paris, 1856, 16 ss.; e Durma, La notification de la
volonté. Rôle de la notification dans la formation des actes juridiques, Paris,
1930.
32 Sulle alternative, v., ad es., Benedetti, Autonomia privata procedimentale. La formazione del contratto fra legge e volontà delle parti, Giappichelli, 2002, 49 e passim.
33 Cfr. Cass., 12.7.2011, n. 15293, in Contratti, 2012, 369 ss.; Cass.,
1º.9.1997, n. 8328, in Rep. Foro it., 1997, voce «Contratto in genere»,
n. 312; e Trib. Roma, 8.7.2014, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/civ.php?id_cont=10854.php.
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contrattuale, in aderenza a stringenti e sperimentati modelli interpretativi 34 ricalcati da quelli applicativi 35,
parte della recente giurisprudenza ha mostrato disinteresse, se non noncuranza per questi ultimi, esprimendo
un indirizzo più liberale. Si allude agli orientamenti che
si sono formati con riguardo ai contratti aventi per oggetto operazioni e servizi bancari e finanziari 36, da un
lato, o, dall’altro, (taluni) servizi d’investimento o accessori a questi ultimi 37; che sono rispettivamente fondati sugli artt. 117, commi 1º e 3º, t.u.b. e 23, comma
1º, t.u.f. che, con formule sovrapponibili, disciplinano il
contratto disponendo ch’esso dev’essere redatto per
iscritto e che nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo; e che reputano che la prescrizione della forma scritta a pena di nullità del contratto sia rispettata quando esso sia redatto per iscritto e
sia sottoscritto (anche soltanto) dal cliente, siccome tale
forma sarebbe sancita nel di lui interesse, in quanto
andrebbe intesa quale forma c.d. di protezione.
4. Forma scritta, sottoscrizione e struttura del contratto.
Tale indirizzo non è del tutto disinteressato, radicalmente noncurante dell’accennata incidenza della for34 Cfr., tra i molti, Gentili, La forma, cit., 69 ss.; Venosta, Tre
studi sul contratto, Giuffrè, 2008, 21; Lener, Forma contrattuale e tutela
del contraente «non qualificato» nel mercato finanziario, Giuffrè, 1996,
173; Mazzamuto, Il problema della forma nei contratti di intermediazione
mobiliare, in Contr. e impr., 1994, 37 ss. e 40 s. L’accennato rilievo
strutturale non sembra inciso dalla riferita ‘‘crisi della sottoscrizione’’
nell’anzidetto significato che l’espressione assume (cfr. Pagliantini,
La forma nei Principi Acquis del diritto comunitario dei contratti, cit., 95 ss.,
e Id., La forma del contratto: appunti per una voce, in Studi Senesi, 2004,
105 ss.). Sulla necessità delle sottoscrizioni di tutti i contraenti, ad es.,
già Barbero, Sulla produzione in giudizio della scrittura privata non sottoscritta, in Foro pad., 1951, 1251 ss. e 1253 s.
35 Che la forma vincolata, quando sia richiesta ad substantiam, sia
elemento costitutivo, strutturale del contratto è - come chiarisce Cass.,
24.3.2016, n. 5919, cit. - il presupposto dell’orientamento che esige per
la validità dell’accordo da farsi per iscritto ch’esso risulti da documenti
costituenti l’estrinsecazione formale diretta della volontà contrattuale
delle parti e aventi il fine specifico di manifestare tale volontà (in tal
senso, tra le altre, Cass., 9.3.1981, n. 1307, in Mass. Giust. civ., 1981, e
Cass., 12.11.2013, n. 25424, ivi, 2013).
36 Nel senso che sia sufficiente la sottoscrizione d’uno dei contraenti
e, segnatamente, del cliente v. Trib. Messina, 8.5.2015, in Redaz.
Giuffré, 2016; Trib. Reggio Emilia, 28.4.2015, ivi, 2015; Trib. Napoli, 24.2.2015, in Banca, borsa tit. cred., 2016, II, 16; Trib. Mantova 21.4.2007, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/ban.php?id_cont=605.php (v. pure Trib. Mantova, 28.10.2015, in Redaz. Giuffré,
2016, che si spinge a ritenere che l’onere formale sia soddisfatto sol che
il cliente della banca dichiari di avere ricevuto copia del contratto; e
Trib. Massa, 26.6.2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, 683, per
cui un contratto bancario potrebbe essere validamente concluso persino
per facta concludentia, sol che accessorio rispetto ad altro). Contra, v.
Trib. Mantova 13.3.2006, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/
ban.php?id_cont=332.php; Trib. Reggio Emilia, 25.8.2015, in Redaz.
Giuffré, 2016; e Trib. Napoli, 22.1.2015, in Banca, borsa tit. cred.,
2016, II, 17).
37 Nel senso che sia sufficiente la sottoscrizione d’uno dei contraenti
e, segnatamente, del cliente v. Cass., 22.3.2012, n. 4564, in Mass.
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ma scritta e della sottoscrizione nel momento genetico
del vincolo, ma è contrassegnato da una marcata eccentricità rispetto alla tradizione sotto un duplice profilo. Infatti, da un lato, svaluta la rilevanza strutturale
dell’una e dell’altra, ponendola sullo fondo, accreditando un’inconsueta prevalenza del connotato funzionale della previsione del requisito formale che trascura
che neppure il rifiuto di una visione rigidamente normativa e strutturale conduce al primato di un approccio squisitamente funzionale 38. Dall’altro lato, opera
una riduzione dell’articolazione (o complessità) delle
funzioni della forma vincolata, risolvendola nell’esclusività del fine di protezione d’una delle parti del rapporto negoziale.
La discontinuità rispetto alla teoria generale classica si avvantaggia della moltiplicazione di micro-sistemi legislativi in cui trova spazio (anche) la disciplina
di specifiche figure contrattuali, a due dei quali appartengono le citate disposizioni; dell’associata idea
che il fenomeno dia luogo a una de-costruzione che
marginalizza il ruolo del diritto comune di derivazione codicistica, ossia a singoli micro-sistemi contraddistinti dall’autoreferenzialità, ciascuno espressivo di,
e retto da principi e logiche proprie 39; della conseguente connessa opportunità di liberare il discorso
Giust. civ., 2012; App. Venezia, 28.7.2015, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=13567.php; Trib. Milano, 12.11.2013,
cit.; Trib. Mantova, 16.2.2016, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=14278.php; Trib. Rimini, 3.3.2016, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=14945.php. Contra, v. Cass.,
24.3.2016, n. 5919, cit.; Cass., 11.4.2016, n. 7068, pubblicata supra,
Parte prima, p. 1171; App. Torino, 20.1.2012, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=7177.php; App. Bologna, 8.3.2012,
cit.; App. Milano, 27.3.2013, cit.; App. Bologna, 14.5.2015, in
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=12701.php; Trib.
Mantova, 22.3.2007, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=594.php; Trib. Torino, 5.1.2010, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=1994.php; Trib. Bari, 15.7.2010, http://
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=2360.php;
Trib. Torino, 29.9.2010, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/
fin.php?id_cont=2445.php; Trib. Alba, 2.11.2010, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=2660.php; Trib. Mondovı̀,
9.11.2010, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=2658.php; Trib. Parma, 4.5.2011, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=5743.php; Trib. Rimini, 27.10.2011, in
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=7496.php; Trib.
Napoli, 14.11.2011, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=7155.php; Trib. Bologna, 27.3.2012, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=7118.php; Trib. Bologna,
6.2.2013, cit.; Trib. Firenze, 31.5.2013, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=9185.php; Trib. Prato, 26.8.2013, cit.;
Trib. Reggio Emilia, 16.9.2013, cit.; Trib. Forlı̀, 14.10.2013, in
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10173.php; Trib.
Torino, 25.6.2014, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10772.php; Trib. Roma, 29.9.2014, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=12626.php; Trib. Mantova, 16.2.2016, in
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=14278.php.
38 Cfr. Modica, op. ult. cit., 26.
39 Cfr. Irti, «Codici di settore»: compimento della «decodificazione», in
Dir. e soc., 2005, 131 ss.; e Id., Leggi speciali (dal mono-sistema al polisistema), in Riv. dir. civ., 1979, 145 ss.
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meta-legislativo incentrato su quelli da sovrastrutture
teoriche riflettenti modelli interpretativi più risalenti. Sennonché, l’autoreferenzialità dipende dal grado
di autosufficienza, dunque di chiusura che argomentatamente si assegni al singolo micro-sistema; e, più
in generale, non può senz’altro assumersi che il diritto comune abbia abdicato alla sua funzione di dettare
regole generali con cui quelle speciali concorrono 40,
poiché il rapporto tra le due tipologie di fonti ben
può ricostruirsi componendo un sistema stellare in
cui il codice civile conserva una posizione di centralità 41.
L’indirizzo applicativo in esame non sembra che
sgorghi da una meditata riflessione su queste preliminari questioni, né da un ponderato confronto tra le
disposizioni di fonte speciale e il bagaglio che accompagna gli istituti e le regole tradizionali ch’esse altererebbero, atteso che l’autosufficienza delle prime è puramente sottintesa e il secondo è ignorato; e, dunque,
già per questo pare affetto dal limite dell’incompiutezza 42. La specialità dell’enunciazione normativa diviene
presupposto d’una inspiegata indipendenza della fonte
e dell’interpretazione che se ne offre; e d’una libertà di
quest’ultima che passa per l’affrancamento dal passato
e travalica nell’arbitrio, che si appoggia alla reticenza e
si giova e si risolve in un discorso che si svolge per
asserzioni sovente apodittiche 43, come se il dire dell’interprete fosse esso stesso autosufficiente, ossia bastasse all’essere del diritto. Ciò che si nota anche in
relazione all’innalzamento della protezione del creditore della prestazione caratteristica (il ‘‘cliente’’) a fine
esclusivo, più che prevalente delle regole applicate,
non ostante il (trascurato) più ampio catalogo positivamente esplicitato degli interessi in vista della cui
tutela sono poste le discipline speciali a cui esse appartengono (v. artt. 5 t.u.f. e 5 t.u.b.); e residuino ambiti
in cui lo scopo in considerazione continua a essere un
obiettivo indiretto della normazione 44.
Sotto questi profili, quell’indirizzo ne ricorda un altro 45, di cui sembra avviato a seguire anche le sorti 46.
D’altro canto, esso sembra reggersi, implicitamente,
sull’idea che l’imposizione legislativa di requisiti di forma-contenuto segni il passaggio da una forma di ‘‘efficacia’’ a una forma di ‘‘protezione’’ 47, la quale tuttavia
40 Cfr. Peltier, Marchés financiers & droit commun, Paris, 1997,
spec. 146 ss. e 170 ss.
41 V. Alpa, I contratti dei consumatori e la disciplina generale dei contratti e del rapporto obbligatorio, in Riv. dir. civ., 2006, 351 ss., e Schlesinger, Codice civile e sistema civilistico: il nucleo civilistico ed i suoi
satelliti, ivi, 1993, 403 ss.
42 Cfr. Gentili, Il diritto come discorso, cit., 26.
43 Esemplare, per i difetti dell’argomentazione, appare Trib. Milano, 12.11.2013, cit., per cui, ricomponendo il testo della decisione in
modo da migliorarne la leggibilità, ‘‘[c]onformemente all’evoluzione del
diritto comunitario, infatti, la forma non è più solo finalizzata a responsabilizzare l’esplicitazione del consenso delle parti in taluni contratti di particolare
incisività nelle relazioni sociali, ma è destinata, piuttosto, a dare rilievo alla
trascrizione delle regole contrattuali, perché siano note a quei contraenti che si
trovino in posizione di inferiorità rispetto ad altri (...). Nel regime previsto
dall’art. 23 TUF (...) il Tribunale evidenzia come la prescrizione, a pena di
nullità, della forma scritta del contratto quadro vada intesa nella prospettiva
di garantire al cliente il rispetto dei canoni di chiarezza e trasparenza nell’apprendere (e comprendere) le regole del rapporto che instaura con la controparte bancaria (...). È nell’esclusivo interesse del cliente che tale regola di
forma viene sancita, a tutela del suo interesse sostanziale alla certa conoscibilità delle regole del mandato di negoziazione dato alla banca (la forma per il
cliente, e solo per lui, equivale a sostanza) (...) diviene essenziale: da un lato,
la redazione da parte della banca di un atto che comprenda le regole minime
normativamente prescritte; dall’altro, la sottoscrizione di tale atto da parte del
cliente, che in tal modo viene, sia responsabilizzato circa la serietà dell’impegno negoziale che va ad assumere, sia informato circa il contenuto e la
portata dell’attività di intermediazione e negoziazione che demanda alla banca
(...). Di fatto, quindi, l’assenza della firma della banca non priva di contenuto il contratto redatto per iscritto o la sua conoscibilità da parte del cliente
delle regole in esso comprese (di certa provenienza dalla banca), né può
ritenersi che la banca abbia un suo sostanziale interesse a sottoscrivere un
modulo che essa stessa ha predisposto e quindi ben conosce (la sottoscrizione
della banca rileva in termini di consenso alla ricezione dell’incarico di negoziazione, ma nelle controversie quale quella di cui al presente procedimento,
non si assume che la banca si sia sottratta al mandato ricevuto o che lo
disconosca, ma che l’abbia eseguito in termini difformi dalle regole che lo
governano) (...). In tal senso, -conclude il Tribunale- ove il contratto,
completo nel suo contenuto cartaceo, sia unicamente privo della sottoscrizione da parte della banca, non potrebbe il cliente rinvenire in ciò alcuna lesione
del proprio interesse sostanziale, atteso che, da un lato, è mancanza che non
priva di contenuto il contratto e la conoscibilità per il cliente delle regole in
esso scritte, e dall’altro la mera carenza formale di firma non potrebbe in ogni
caso legittimare la banca, nè ad impugnare il contratto quadro dalla stessa
predisposto, sottraendosi -per tale ragione- alle regole in esso sancite (il che è
vietato dall’art. 23 comma 3 TUF), né ad impugnare la singola operazione
negoziale già posta in essere in adempimento di detto mandato’’. Su queste
basi, il Tribunale ha ritenuto che la prescrizione della forma scritta a
pena di nullità dei contratti bancari e finanziari possa ritenersi rispettata quando il contratto redatto in forma scritta sia sottoscritto dal solo
cliente, nel cui interesse tale forma sarebbe sancita; e che, in tal senso,
la mancanza della sottoscrizione della banca sia circostanza di per sé
inidonea a inficiare la validità del contratto quadro, atteso che la
prescritta redazione per iscritto di esso dovrebbe intendersi quale forma
c.d. di protezione in favore del cliente, da ritenersi rispettata se sottoscritto dal cliente.
44 Cfr. Alpa, nel Commentario al Testo unico delle disposizioni in
materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione,
Cedam, 1998, sub art. 21, 213.
45 Si allude all’orientamento che inclinò a configurare come ipotesi
di nullità virtuale dei contratti, in particolare aventi a oggetto la prestazione di servizi di investimento, la violazione di regole di comportamento dettate con riguardo alla fase anteriore al perfezionamento del
vincolo contrattuale: nell’ampia letteratura, v. D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir.
civ., 2002, 37 ss.; Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond & tango bond), in Danno e resp., 2005,
604 ss.; Roppo-Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere:
punti fermi della Cassazione su nullità virtuale e responsabilità precontrattuale, ivi, 2006, 25 ss.; Cottino, Una giurisprudenza in bilico: i casi
Cirio, Parmalat, bonds argentini, in Giur. it., 2006, 537 ss.; Franzoni,
La responsabilità precontrattuale: una nuova stagione, in Resp. civ., 2006,
295 ss.; Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi
sviluppi della responsabilità precontrattuale, in Foro it., 2006, 1105 ss.;
Sicchiero, Un buon ripensamento della S.C. sulla asserita nullità da
inadempimento, in Giur. it., 2006, 1602 ss.
46 Cfr. Cass., 24.3.2016, n. 5919, cit., e Cass., 11.4.2016, n. 7068,
cit.
47 V. Chiné, Il diritto comunitario dei contratti, in Il diritto privato
dell’Unione Europea, a cura di Tizzano, nel Trattato Bessone, XXVI,
1, Giappichelli, 2006, 745 ss, 754. Similmente, sembra di capire, Putti, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, Esi, 2002, 308, sic-
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appare una semplificante sineddoche 48, non soltanto
perché le prescrizioni formali, immediatamente, continuano a investire l’atto sul piano strutturale 49; e perché la forma vincolata non perde le funzioni tradizionali, ma ne aggiunge casomai di nuove. L’enfasi con
cui si accredita la funzione protettiva delle prescrizioni
formali caratteristiche della moderna disciplina dei
contratti appare invero inconsapevole della molteplicità dei fini di quelle 50, che non si esauriscono affatto
nella funzione di salvaguardia dell’interesse negoziale
della parte in tesi debole, ma - almeno in astratto abbracciano finalità ulteriori di conformazione 51 dell’attività d’impresa, nella prospettiva del mercato 52 e,
segnatamente, della concorrenza che si giova della conoscibilità dei regolamenti contrattuali dei competitori
di cui permette il confronto 53; o del controllo di tali
attività 54.
Non è necessario prendere posizione sull’esistenza o
meno del principio della libertà delle forme; né occorre
negare (o semplicemente svilire) la rilevanza della dimensione funzionale della forma 55, né che l’analisi
funzionale delle prescrizioni di requisiti formali possa
occupare uno spazio prevalente e, in questo senso, un
primato rispetto alle analisi strutturali 56. Ciò non è
necessario per rifiutare l’assunto, che pare suggestivo,
che detta dimensione sia esclusiva o tanto prevalente
da offuscare, fino a elidere, il rilievo strutturale della
forma vincolata dell’accordo 57, che costituisce deriva
che non sembra che possa essere giustificata alla luce
del ritenuto ‘‘polimorfismo che interviene innegabilmente a connotare la dimensione tutta postmoderna
del contratto’’ 58, secondo una visione marcatamente
nichilista che scambia la causa con l’effetto.
Tanto più se, come accade in seno alle discipline
speciali a cui ci si è riferiti, le prescrizioni che impongono il requisito della forma scritta ad substantiam si
accompagnino a ulteriori regole che accrescono il catalogo delle moderne nullità speciali in relazione alle
quali la tradizionale assolutezza del rimedio lascia il
posto all’inderogabilità relativa 59 (artt. 23 t.u.f. e 127
t.u.b.). Qui, infatti, l’alterazione dell’istituto della nullità rispetto alla configurazione classica, per modellarlo
sul fine di protezione dell’interesse d’uno dei contraenti 60, parrebbe già sufficiente a perseguire tale finalità;
ed esenta dell’aggiungere, alla crisi della dicotomia tra
nullità e annullabilità ch’essa alimenta, l’ulteriore risultato di dimidiare il ruolo strutturale della forma
vincolata consustanziale all’integrità e necessaria per
l’integralità dell’accordo.
come la nullità per difetto di forma non sarebbe sanzione comminata
per una deficienza dell’atto, bensı̀ per una condotta scorretta.
48 Cfr. Alessi, op. ult. cit., 23 ss.; Gentili, I principi del diritto
contrattuale europeo: verso una nuova nozione di contratto?, in Riv. dir.
priv., 2001, 20 ss., 31; e Modica, op. ult. cit., 264.
49 Correlativamente, non sembra che si debba necessariamente abbandonare la tradizionale classificazione delle regole prescrittive di requisiti di forma vincolata tra le norme ordinative o di configurazione
(v., rispettivamente, Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del
contratto, Giuffrè, 1970, 159 s., e Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Jovene, 2003, 203 ss.), oppure senz’altro
qualificative (v. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, nel Trattato
Vassalli, XV, 2, Utet, 2a ed., 3a rist., 1960, 12; e Irti, Idola libertatis.
Tre esercizi sul formalismo, Giuffrè, 1985, 83): ci si può piuttosto domandare se esse siano ancora ‘‘eminentemente’’ ordinative o qualificative.
50 Cfr. Modica, op. ult. cit., 265.
51 La finalità ‘‘informativa’’ del consumatore e quella ‘‘conformativa’’
dell’attività d’impresa si affiancano, ad es., già in Jannarelli, La
disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e
consumatori, in Diritto privato europeo, a cura di Lipari, II, Cedam,
1997, 489 ss., poi Id., La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra
imprese e tra imprese e consumatori, nel Trattato di diritto privato europeo, a
cura di Id., III, Cedam, 2003, 13 ss., 15. V. altresı̀ Alessi, op. ult. cit.,
23 ss., e Nigro, La legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi
bancari e finanziari: note introduttive, in Dir. banca e merc. fin., 1992, 432
ss., 423.
52 Per l’idea che la disciplina del contratto sia (mediatamente) strumentale a quella del mercato, v. Irti, L’ordine giuridico del mercato,
Laterza, 1998, 69, e cfr. Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività:
i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Diritto privato europeo,
loc. ult. cit., poi Id., La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra
imprese e tra imprese e consumatori, nel Trattato di diritto privato europeo,
cit., 3 ss.; Camardi, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della
concorrenza, in Eur. e dir. priv., 2001, 703 ss.; Gabrielli, Mercato
contratto e operazione economica, in Rass. dir. civ., 2004, 1044 ss.
53 Cfr. Jannarelli, op. ult. cit., 15.
54 Cfr. Alessi, op. ult. cit., 23 ss.
55 Essa è posta in luce, tra gli altri, da Cian, Forma solenne e interpretazione del negozio, Cedam, 1969, 2 s. e nt. 3 ss., in uno con la
pluralità dei fini che alle prescrizioni di requisiti formali possono essere
sottesi.
56 Cfr. Perlingieri, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti, Esi,
1987, 54 ss. e passim, e Breccia, La forma, cit., 504.
57 Cfr. Pagliantini, Forma e formalismo nel diritto europeo dei contratti, Ets, 2009, 102, a proposito del ‘‘(discutibile) iato tra forme ad
evidenza strutturale (rilevanti in termini di nullità testuale, assoluta e
definitiva) e forme ad evidenza informativa (serventi una nullità virtuale, relativa e di pleno iure)’’.
58 Cosı̀ Modica, Formalismo negoziale e nullità, in Le invalidità nel
diritto privato, a cura di Bellavista e Plaia, Giuffrè, 2011, 465 ss. e
476.
59 Cfr. Macario, Norme in attuazione di direttive comunitarie in tema
di credito al consumo, in Nuove leggi civ. comm., 1994, 745 ss. e 767.
60 Sulle nullità di protezione quale specie della nullità relativa, cfr.
Gentili, La ‘‘nullità di protezione’’, in Eur. e dir. priv., 2011, 77 ss., e
Pagliantini, La nullità di protezione tra rilevabilità d’ufficio e convalida:
lettere da Parigi e dalla Corte di Giustizia, in Riv. dir. priv., 2009, 139 ss.
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Parte seconda Letture e Opinioni
Chi è il consumatore sovraindebitato?
Aperture e chiusure giurisprudenziali
di Enza Pellecchia
SOMMARIO: 1. La nozione di consumatore rilevante ai fini della l. n. 3/2012: le aperture della Cassazione con
la sentenza 1º.2.2016, n. 1869. - 2. La non colpevolezza del sovraindebitamento per l’accesso al piano del
consumatore: le chiusure dei giudici di merito e le possibili aperture normative. - 3. Una piccola provocazione: è utile un regime specifico per il consumatore sovraindebitato?
La specifica considerazione del sovraindebitamento
del consumatore è il frutto, com’è noto, dell’incisivo
intervento di riforma della l. 27.1.2012, n. 3, realizzato
con l’art. 18 del d.l. 18.10.2012, n. 179 1 per correggere
alcuni dei più evidenti limiti di una disciplina tanto
attesa quanto, poi, sostanzialmente inutilizzata 2.
La iniziale previsione - criticabile e criticata - nella l.
n. 3/2012 di un’unica procedura destinata a categorie
eterogenee di debitori (civili, commerciali ma esclusi
dalle procedure concorsuali, enti collettivi) 3, è stata
dunque successivamente abbandonata, predisponendo
un regime specifico per il consumatore con conseguente disarticolazione interna dell’ampia platea dei debitori non assoggettabili alle procedure concorsuali 4. Siffatta disarticolazione della disciplina in chiave soggettiva - certamente necessaria per superare uno dei limiti
principali della l. n. 3/2012 - è stata realizzata assumendo come criterio di selezione il riferimento al consumatore, definito dall’art. 6, comma 2º, lett. b), l. n. 3/
2012 come la ‘‘persona fisica che ha assunto obbliga-
1 La l. 27.1.2012, n. 3 è il punto di approdo di un percorso lungo,
accidentato e a tratti paradossale, avviato nel 2001 da un progetto di
legge depositato dall’Adiconsum presso il CNEL, ripreso e poi interrotto in sede di riforma della legge fallimentare, rilanciato nel 2008 all’interno di un disegno di legge per la riforma della disciplina dell’usura
(c.d. disegno Centaro, dal nome del senatore proponente), bruscamente
accelerato dal Governo alla fine del 2011 con ricorso alla decretazione
d’urgenza, giunto infine a compimento con la parallela e ravvicinata
approvazione non di uno bensı̀ di due provvedimenti: la l. n. 3/2012,
recante «disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di
composizione delle crisi da sovraindebitamento» e il d.l. 22.12.2011,
n. 212 « recante disposizioni urgenti in materia di composizione delle
crisi da sovraindebitamento e disciplina del processo civile ». In sede di
conversione in legge il decreto è stato prima interamente riscritto - con
un emendamento presentato dal Governo che si traduceva nella introduzione di una specifica normativa sul sovraindebitamento del consumatore da coordinare con la disciplina generale dettata dalla l. n. 3/
2012 per tutti i debitori non assoggettabili alle procedure concorsuali e poi amputato della parte relativa al sovraindebitamento, riproposta da ultimo - con l’art. 18 d.l. 18.10.2012, n. 179 del (c.d. decreto
sviluppo bis), convertito (con modifiche) nella l. 17.12.2012, n. 221.
2 Lo strumento previsto dalla iniziale versione della l. n. 3/2012 era
un accordo con i creditori, su proposta del debitore, sulla base di un piano
di ristrutturazione dei debiti - redatto con l’ausilio degli organismi di
composizione della crisi costituiti ad hoc da enti pubblici e iscritti in
apposito registro - che assicurasse il regolare pagamento dei creditori
non aderenti all’accordo e dei titolari di crediti privilegiati. In sede di
riforma si è avuta una radicale trasformazione del procedimento in
chiave concordataria, con estensione degli effetti dell’accordo di ristrutturazione concluso con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per
cento dei crediti complessivi pure ai creditori che non aderiscono alla
proposta di accordo, e con possibilità di soddisfacimento non integrale
anche dei crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca (allorché ne sia
assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile in
caso di liquidazione dei beni sui quali insiste la causa di prelazione,
avuto riguardo al valore di mercato ad essi attribuibile). Sono state
inoltre anticipate le misure di protezione del patrimonio del debitore,
con il blocco delle procedure esecutive individuali già a partire dal
deposito della proposta di accordo.
3 Per un commento alla prima versione della l. n. 3/2012 v. Di
Marzio, Macario e Terranova (a cura di), Composizione della crisi
da sovraindebitamento, Giuffrè, 2012.
4 La nuova disciplina prevede non una sola procedura di composizione della crisi, ma tre, disposte in una sorta di schema a ipsilon, lungo
un tracciato a volte comune a volte specifico. Sono infatti contemplate
tre forme di composizione della crisi: l’accordo del debitore, il piano del
consumatore e - in alternativa o, in talune specifiche ipotesi, in consecuzione ad entrambe le procedure - la liquidazione del patrimonio.
L’accordo del debitore (che può essere proposto da tutti i soggetti
«non fallibili») ha per oggetto la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti sulla base di un piano che - approvato da una
maggioranza qualificata di creditori - è vincolante anche per i dissenzienti. Il piano del consumatore prevede, analogamente all’accordo del
debitore, la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, ma è
riservato al solo debitore persona fisica che abbia assunto obbligazioni
esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta: prescinde da un accordo con i creditori,
essendo soggetto solo all’omologazione da parte del giudice. Infine, la
liquidazione del patrimonio (che può essere proposta da tutti i debitori
non fallibili), consiste - sulla falsariga della liquidazione fallimentare nella liquidazione di tutti i beni del debitore, compresi quelli sopravvenuti nei quattro anni successivi, ad eccezione dei beni aventi carattere personale: viene eseguita da un liquidatore con il ricorso a procedure competitive e, come il piano del consumatore, prescinde da un
accordo con i creditori, in quanto è soggetto soltanto all’omologazione
da parte del giudice.
1. La nozione di consumatore rilevante ai fini della l.
n. 3/2012: le aperture della Cassazione con la sentenza 1º.2.2016, n. 1869.
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Letture e Opinioni Parte seconda
zioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta’’.
La casistica giurisprudenziale relativamente all’attribuzione della qualità di consumatore ai fini dell’accesso alla procedura ‘‘dedicata’’ (un piano sottoposto direttamente al giudizio di omologazione) ha riguardato
soprattutto i casi di insolvenza ‘‘ibrida’’ (nella quale
confluiscono debiti ‘‘da consumo’’ e debiti di impresa)
e le ipotesi di soggetti ‘‘non professionali’’ che abbiano
prestato fideiussione.
Rispetto alla prima questione, è prevalso l’orientamento secondo cui ‘‘ai fini dell’ammissibilità di una domanda di composizione della crisi da sovraindebitamento ex
art. 6 l. n. 3/2012, per consumatore deve intendersi solo il
debitore persona fisica il cui indebitamento non sia riconducibile ad un’attività imprenditoriale o libero professionale’’ 5.
Con riguardo invece alla estensibilità al fideiussore
della qualità di consumatore, tale estensibilità è stata
negata, in applicazione del principio secondo il quale
la qualità del debitore principale ‘‘attrae’’ quella del
fideiussore, con la conseguenza che ‘‘non può essere
ammesso al beneficio del sovraindebitamento il soggetto
gravato da obbligazioni derivanti anche e soprattutto dalla
prestazione di garanzie personali (nella specie fideiussioni)
nell’interesse di società esercente attività di impresa’’ 6.
Su entrambe le questioni influisce una recente sentenza della Corte di cassazione 7, la quale ha stabilito
che ‘‘la nozione di «consumatore abilitato al piano», quale
modalità di ristrutturazione del passivo e per l’esercizio delle
altre prerogative previste dalla l. n. 3 del 2012, pur non
escludendo il professionista o l’imprenditore - attività non
incompatibili purché non residuino o, comunque, non siano
più attuali obbligazioni sorte da esse e confluite nell’insolvenza - comprende solo il debitore, persona fisica, che abbia
contratto obbligazioni, non soddisfatte al momento della
proposta di piano, per far fronte ad esigenze personali,
familiari ovvero attinenti agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale e, dunque, anche
a favore di terzi, ma senza riflessi diretti in un’attività
d’impresa o professionale propria, salvi solo gli eventuali
debiti di cui all’art. 7, 1º comma, terzo periodo (tributi
costituenti risorse proprie dell’Unione europea, imposta sul
valore aggiunto e ritenute operate e non versate) che vanno
pagati in quanto tali, sulla base della verifica di effettività
solutoria commessa al giudice nella sede di cui all’art. 12
bis, 3º comma, l. n. 3 del 2012’’ 8.
5
V. ad esempio Trib. Milano, sez. II, 16.5.2015, in www.ilcaso.it.
Cosı̀ ad esempio Trib. Foggia, 23.7.2015, in Fallimento, 2015,
fasc. 11, 1259.
7 Tra i giudici di merito, nello stesso senso v. Trib. Bergamo, sez.
fall., 12.12.2014, in ilcaso.it: ‘‘anche l’imprenditore o il libero professionista
possono avere la qualifica di ‘‘consumatore’’ a condizione che le obbligazioni
scadute e non adempiute, e che abbiano determinato il ‘‘sovraindebitamento’’, non siano riferibili in alcun modo all’attività d’impresa o professionale
svolta’’.
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Il dato decisivo, dunque, non è rappresentato da una
qualità relativa al soggetto, bensı̀ dalla consistenza qualitativa dell’insolvenza: le obbligazioni scadute e non
adempiute, che abbiano determinato il sovraindebitamento, non devono essere riconducibili all’attività
d’impresa o professionale svolta. Non è necessaria
una ‘‘matrice omogenea assoluta dell’insolvenza’’, il richiamo è piuttosto ‘‘alla qualità dei debiti da ristrutturare che
la connotano, in sé considerati e nella loro composizione
finale’’ 9.
Si profila dunque la possibilità, per l’imprenditore e
per il professionista, di utilizzare il piano del consumatore (in presenza, ovviamente, dei requisiti prescritti
dall’art. 12-bis), per rimodulare quella parte della esposizione debitoria colorata dalla causa di consumo 10,
‘‘lasciando sullo sfondo i rapporti d’impresa o pendenti
con i terzi e quale professionista’’ 11 e utilizzando ‘‘beni e
redditi per ristrutturare il resto dei suoi debiti’’ 12.
La Corte si raffigura la possibile obiezione - e cioè
che si determinerebbe ‘‘un mutamento sostanziale delle
garanzie generiche offerte dal proprio patrimonio, in concreto utilizzato per la ridefinizione di una massa passiva
che, assente da ogni ricognizione segregata o autonoma
pregressa (perché in capo alla persona fisica nessuna distinzione in tal senso sarebbe configurabile, ogni bene apparendo destinato naturalmente a soddisfare debiti d’impresa
o di professione alla pari dei debiti di consumo), verrebbe
separata nella opportunità liquidatoria o comunque nella
vocazione satisfattiva a vantaggio solo dei debiti c.d. comuni’’ - , ma ritiene che tale obiezione possa essere superata rinviando alle ‘‘opportunità contestative, sul profilo
della convenienza, rimesse a qualunque interessato (dunque anche ai creditori d’impresa o da professione, non
coinvolti nel piano) e, prima ancora, ai controlli giudiziali
sulle cause del sovraindebitamento e la serietà dei propositi
compositivi ex art. 12 bis, rispettivamente commi 4 e 3’’ 13.
L’altra questione su cui la Cassazione ha operato una
‘‘apertura’’, riguarda la situazione del fideiussore, implicitamente evocato dal richiamo a debiti derivanti dall’assunzione di obbligazioni correlate alla ‘‘estrinsecazione della propria personalità sociale, dunque anche a favore
di terzi, ma senza riflessi diretti in un’attività d’impresa o
professionale propria’’ 14.
Sembrano trovare accoglimento, in questo inciso, le
considerazioni svolte da una parte della dottrina 15,
critica rispetto alla dominante teoria del ‘‘professionista di riflesso’’, formulata sulla base del profilo - assunto
8
Cass., 1º.2.2016, n. 1869, in questa Rivista, 2016, p. 989.
Cass. n. 1869/2016, cit.
10 Alecci, I rigidi confini della nozione di «consumatore» nella composizione della crisi da sovraindebitamento, in Dir. civ. cont., 2.3.2016.
11 Cass. n. 1869/2016, cit.
12 Cass. n. 1869/2016, cit.
13 Cass. n. 1869/2016, cit.
14 Cass. n. 1869/2016, cit.
15 Un’attenta ricostruzione si può leggere in Vizzoni, Verso una
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Parte seconda Letture e Opinioni
come costitutivo di tutta la disciplina - della accessorietà della garanzia fideiussoria rispetto all’obbligazione
principale 16: si aprirebbe dunque ora la strada per consentire l’accesso al piano del consumatore anche al
fideiussore non professionale sovraindebitato 17.
Questa apertura potrebbe aiutare a mitigare una delle
criticità della l. n. 3/2012, cioè la mancata considerazione del sovraindebitamento dei nuclei familiari. Una
considerazione del livello complessivo di indebitamento della famiglia sarebbe stata quanto mai opportuna
sol che si ponga mente al fatto che spesso altri componenti del nucleo familiare sono coobbligati del debitore principale (soprattutto imprenditore), in virtù di
garanzie personali prestate ai creditori. La non estensibilità ai garanti degli effetti di ristrutturazione realizzati
tramite una procedura di composizione della crisi conclusa dal debitore principale (art. 11, comma 3º, e art.
12-ter, comma 3º) e l’applicazione della teoria del ‘‘fideiussore di riflesso’’ per escludere il familiare garante
di un imprenditore (a propria volta) sovraindebitato
dai benefici che sarebbero derivati dalla possibilità di
presentare un piano del consumatore, hanno finora
pesantemente inciso sulle effettive possibilità di arginare il problema dell’insolvenza ‘‘a cascata’’ del coobbligato familiare, impedendo a molte famiglie di interrompere la spirale del debito 18.
2. La non colpevolezza del sovraindebitamento per
l’accesso al piano del consumatore: le chiusure dei
giudici di merito e le possibili aperture normative.
Per accedere ai benefici del piano del consumatore,
non è sufficiente addurre una condizione di sovraindebitamento, ma è necessaria l’indicazione delle cause
dell’indebitamento e della diligenza impiegata dal consumatore nell’assumere volontariamente le obbligazioni, l’esposizione delle ragioni dell’incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte, nonché il
resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ultimi
cinque anni. L’omologazione è subordinata alla ‘‘valutazione di meritevolezza’’ effettuata dal giudice, il quale
tutela ‘‘consumeristica’’ del fideiussore: spunti di riflessione, in Contratti,
2015, 195 ss.
16 La tesi del professionista ‘‘di riflesso’’ è sostenuta, fra le altre, da
Cass., 11.1.2001, n. 314, in Corr. giur., 2001, 891 ss., con nota di
Conti, La fideiussione rispetto alle clausole vessatorie; da Cass.,
6.10.2005, n. 19484, in Dir. prat. soc., 2006, 72 ss., con commento
di Longhini, ‘‘Factoring’’ e fideiussione rilasciata da socio della società
cedente: profili di tutela, e più di recente; da Cass., 29.11.2011, n. 25212,
in Dir. e giust., 2011, 506 ss., con nota di Bortolotti, Il fideiussore di
una società non è un consumatore.
17 Un’apertura verso la ‘‘tutela consumeristica’’ del fideiussore era già
stata operata da A.B.F. Roma, 2.2.2012, n. 300.
18 Galletti, Insolvenza civile e «fresh start»: il problema dei coobbligati, in L’insolvenza del debitore civile. Dalla prigione alla liberazione, a cura
di Presti-Stanghellini e Vella, in Analisi giuridica dell’economia, II,
2004, 397. Gli ‘‘effetti rovinosi’’ delle fideiussioni omnibus prestate da
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omologa il piano ‘‘quando esclude che il consumatore
ha assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposamente
determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di
un ricorso al credito non proporzionato alle proprie
capacità patrimoniali’’.
L’applicazione di questi parametri si è rivelata tutt’altro che agevole.
Il sovraindebitamento è, di norma, un processo graduale. La legge non offre criteri per stabilire la soglia al
di là della quale si passa da un indebitamento ‘‘fisiologico’’ ad un indebitamento ‘‘eccessivo’’ e perciò non
sostenibile. Proprio in questo spazio indeterminato si
collocano condotte - omissioni di informazioni, pratiche commerciali sleali, negligenti valutazioni del merito di credito - che possono contribuire ad innalzare il
livello di indebitamento del soggetto per l’accumularsi
degli esiti di una contrattazione ‘‘scorretta’’. Talvolta in
questo processo di indebitamento ‘‘patologico’’ ha un
peso significativo il finanziamento erogato ad un soggetto già indebitato. Certo questa constatazione non
autorizza generalizzazioni e semplificazioni: altrettanto
spesso, infatti, la richiesta di finanziamento è funzionale alla necessità di fronteggiare un dissesto economico determinato da fattori non controllabili dal debitore
e nemmeno imputabili ad altri a titolo di responsabilità. Per molti debitori vittime di eventi sfortunati l’ulteriore indebitamento è quasi un percorso obbligato,
nel tentativo di fermare la spirale del debito che invece
nella maggior parte dei casi si avvita ulteriormente ed
ineluttabilmente.
Rischia di verificarsi una situazione paradossale: e
cioè che molti debitori, in situazione di grave sofferenza economica, non possano accedere alla procedura
‘‘premiale’’ del piano del consumatore e debbano tentare la più difficile via dell’accordo di ristrutturazione
perché dalla sproporzione tra redditi disponibili e ammontare del debito si deduce pressoché automaticamente la natura colposa dell’indebitamento, con il
conseguente rifiuto dell’omologazione in caso di piani
proposti da consumatori che, già in condizione di diffamiliari sono state oggetto di particolare attenzione in Germania, dove
la Corte costituzionale - in una nota decisione del 1993 - ha statuito
che ‘‘nel diritto tedesco, nei rapporti contrattuali caratterizzati da una strutturale disparità delle parti e dalla notevolissima onerosità degli obblighi assunti
dalla parte debole, il giudice, nel determinare il contenuto delle clausole
generali di correttezza e buona fede e di contrarietà al buon costume, deve
utilizzare il precetto costituzionale della garanzia dell’autonomia negoziale dei
privati ed operare a tale stregua un controllo del contenuto del contratto’’: la
decisione del BVerfG, 19.10.1993, 1 BVR 567/89 e 1044/89, è pubblicata in questa Rivista, 1995, I, 197 ss., con nota di Barenghi, Una
pura formalità. A proposito di limiti e di garanzie dell’autonomia privata in
diritto tedesco. Sull’argomento v. anche Colombi Ciacchi, Le fideiussioni rovinose: un nuovo campo di applicazione delle clausole generali del
BGB a tutela della parte debole, in Annuario del dir. tedesco, 1999, I, 149
ss.
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schiacciati dal peso di un debito divenuto insopportabile. In tale ottica si è quindi optato per l’inserimento
di requisiti negativi, ostativi ai benefici di legge, individuati nella mala fede o nel compimento di atti di
frode (la mala fede tendenzialmente rilevante nel momento della contrazione del debito, la frode normalmente operante nelle fasi precedenti o successive all’ammissione alla procedura).
Un significativo cambio di passo potrebbe aversi poi
con riguardo alla valutazione della condotta dei finanziatori che erogano ‘‘cattivo credito’’, cioè credito a
soggetti già ampiamente in difficoltà. La Commissione
Rordorf, infatti, nel prendere atto che ‘‘alla determinazione di una situazione di sovraindebitamento del consumatore concorre spesso il creditore, mediante la violazione di specifiche regole di condotta’’, ha prospettato ‘‘la necessità di responsabilizzare il soggetto concedente il credito attraverso la predisposizione di sanzioni, eventualmente anche di tipo processuale (limitando, ad esempio, le sue facoltà di impugnazione ed opposizione)’’. Se questa strada - come si auspica - venisse
percorsa, si consoliderebbe una prospettiva di erogazione responsabile del credito che gioverebbe al sistema
creditizio nel suo complesso.
ficoltà economica - e talvolta proprio nel tentativo
estremo di gestire queste difficoltà - avevano chiesto
e ottenuto finanziamenti, aggravando la propria situazione: ma mentre nessuna responsabilità è stata ravvisata in capo ai soggetti finanziatori (per avere concesso
credito a soggetti che probabilmente non presentavano
un livello adeguato di merito creditizio), maggiore severità è stata usata nei confronti dei consumatori, ai
quali è stata preclusa la via del piano e lasciata solo la
meno agevole opzione dell’accordo con i creditori 19.
Con il rischio quindi di un cortocircuito tra la disciplina del sovraindebitamento e la disciplina del credito
al consumo: l’una, severa nella valutazione della ‘‘meritevolezza’’ del debitore con riguardo alla natura non
colposa del sovraindebitamento; l’altra, generica e indeterminata sul piano dei rimedi con riguardo alla negligente valutazione, da parte del creditore, del c.d.
merito di credito del richiedente il finanziamento 20.
Qualche novità potrebbe arrivare in sede di riforma
delle discipline delle crisi d’impresa e dell’insolvenza,
secondo le linee dello schema di disegno di legge delega elaborato dalla c.d. Commissione Rordorf 21.
Nel corso dei lavori della Commissione molto si è
discusso sul come configurare - soprattutto con riguardo all’esdebitazione - i requisiti di meritevolezza del
debitore. A fronte di un’opinione che, paventando il
rischio di troppo facile abuso dell’istituto, avrebbe preferito un regime più severo, è prevalso l’orientamento
di chi, in linea con le legislazioni dei paesi (anche
extraeuropei) che vantano il più alto indice di applicazione delle procedure di composizione delle crisi da
sovraindebitamento, ha scelto di non esigere requisiti
soggettivi troppo stringenti. A ciò ha indotto la considerazione, da un lato, dell’eterogeneità qualitativa dei
soggetti destinatari (spesso privi di livelli culturali idonei per rendersi conto del progressivo sovraindebitamento), dall’altro dell’oggettiva difficoltà di individuare rigorosi criteri, sicuramente verificabili, in rapporto
all’estrema varietà delle situazioni di vita che possono
determinare situazioni individuali di grave indebitamento, senza rischiare di generare un contenzioso dalle
proporzioni difficilmente prevedibili o senza, altrimenti, finire per restringere a tal punto la portata dell’istituto da frustrare sostanzialmente le finalità di politica
economica ad esso sottese: finalità consistenti non tanto in una forma di premialità soggettiva quanto piuttosto nel consentire una nuova opportunità a soggetti
Per concludere, un (provocatorio) spunto di riflessione circa la persistente utilità di un regime specifico che
riguardi il consumatore o l’opportunità di un regime
che riguardi piuttosto, in senso ampio, il debitore civile.
È stato opportunamente osservato in dottrina che la
disciplina del sovraindebitamento è ‘‘una disciplina
sulla responsabilità patrimoniale e non - come il legislatore ci ha abituati con la pervasiva legislazione consumeristica dell’ultimo ventennio - sul rapporto contrattuale’’ 22.
Osservando la l. n. 3/2012 in questa prospettiva, non
si può fare a meno di rilevare che innestare la logica
consumeristica nella disciplina del sovraindebitamento
- e dunque della responsabilità patrimoniale - implica
alcuni rischi. L’interprete sa bene, infatti, che ‘‘il diritto dei consumatori è un diritto dell’impresa’’ 23 e che
evocare la figura del consumatore significa evocare il
contesto nel quale quel soggetto si muove: il mercato, e
le sue logiche.
19 V. ad esempio Trib. Pistoia, 28.2.2014, in Banca, borsa e tit.
cred., 2014, 537 ss.
20 Del tutto insoddisfacente, a tale riguardo, è la formulazione dell’art. 124-bis del Testo Unico Bancario, il quale impone l’obbligo di
procedere - prima della concessione del finanziamento - ad una valutazione del merito di credito del consumatore richiedente, ma nulla
dice circa le conseguenze della omessa valutazione o della concessione
di credito a soggetti che, già indebitati, abbiano ricevuto il finanzia-
mento e si siano trovati poi sovraindebitati.
21 Cfr. il d.d.l. C. 3671-bis, Delega al Governo per la riforma delle
discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza.
22 Macario, Finalità e definizioni, in La «nuova» composizione della
crisi da sovraindebitamento, a cura di Di Marzio, Macario e Terranova, Giuffrè, 2013, 18.
23 Somma, Il diritto dei consumatori è un diritto dell’impresa, in Pol.
dir., 1998, 679 ss.
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3. Una piccola provocazione: è utile un regime specifico per il consumatore sovraindebitato?
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Parte seconda Letture e Opinioni
Ma se regole speciali possono avere un senso in materia di contratti dei consumatori - nella prospettiva
del superamento delle asimmetrie informative che si
traducono in asimmetrie di potere contrattuale e fallimenti del mercato - riesce più difficile comprendere
le ragioni della creazione di un ‘‘diritto speciale delle
obbligazioni’’ per il debitore-consumatore: questo diritto speciale - costruito nell’ottica dell’efficienza del mercato - avrebbe un effetto eversivo del diritto generale
delle obbligazioni, perché per garantire (tramite la ristrutturazione dei debiti) il rapido recupero della ragion d’essere del consumatore - ovvero ritornare a consumare il più possibile per alimentare il circuito della
domanda e dell’offerta - si interverrebbe sulla fisionomia stessa dell’essere debitore 24.
In sintesi e provocatoriamente si potrebbe dire che le
esigenze del mercato premono affinché il soggetto sia
sempre meno debitore per poter essere sempre più consumatore: anche intervenendo sulla responsabilità patrimoniale e sacrificando gli interessi dei creditori.
Ebbene, se si ritiene che non abbia senso (e sia anche
pericoloso, dal punto di vista della complessiva tenuta
del sistema) iniziare a costruire un regime speciale del
rapporto obbligatorio funzionale alle esigenze del mercato, ha grande importanza verificare invece se attraverso il riferimento al sovraindebitamento del consumatore non si sia inteso, piuttosto, regolare vicende
che prescindono dalla qualità di consumatore (e dal
ruolo che esso gioca in una logica di mercato) e attengono alle ragioni del sovraindebitamento e alla gestione delle sopravvenienze.
Per accedere ai benefici del piano del consumatore,
non è infatti sufficiente addurre una condizione di
sovraindebitamento, ma è necessaria l’indicazione delle cause dell’indebitamento e della diligenza impiegata
dal consumatore nell’assumere volontariamente le obbligazioni, l’esposizione delle ragioni dell’incapacità del
debitore di adempiere le obbligazioni assunte, nonché
il resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ul-
timi cinque anni. L’omologazione è subordinata alla
‘‘valutazione di meritevolezza’’ effettuata dal giudice,
il quale omologa il piano ‘‘quando esclude che il consumatore ha assunto obbligazioni senza la ragionevole
prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposamente determinato il sovraindebitamento, anche per
mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle
proprie capacità patrimoniali’’.
In questa prospettiva, il regime ‘‘premiale’’ è riservato
al debitore ‘‘onesto ma sfortunato’’: per proporre il piano, in altre parole, non è tanto decisivo essere consumatore, è piuttosto determinante essere debitore diligente e incolpevolmente sovraindebitato.
Se la specialità attiene alla qualità del sovraindebitamento (incolpevole) e non al debitore (consumatore), non si vede per quale ragione il debitore civile non
consumatore - parimenti diligente e incolpevolmente
sovraindebitato - non possa avvalersi della medesima
procedura.
Detto altrimenti: ferma la opportunità di un percorso
specifico per l’insolvenza civile, non sarebbe sistematicamente più coerente individuarne il presupposto soggettivo nell’ampia nozione di debitore civile, piuttosto
che nella nozione di consumatore? Questa opzione non
introdurrebbe fratture nel sistema (con il rischio di
creare un regime speciale della responsabilità patrimoniale del consumatore): attraverso la rilevanza data alle
cause del sovraindebitamento e alle ragioni che determinano l’incapacità di adempiere sarebbe possibile l’assorbimento, all’interno della disciplina del rapporto
obbligatorio, di vicende sopravvenute che riguardano
la situazione del debitore. Le feconde intuizioni e le
lungimiranti elaborazioni teoriche in materia di impossibilità soggettiva, impossibilità relativa, inesigibilità
della prestazione troverebbero cosı̀ una compiuta realizzazione 25. Varrebbe la pena, in vista della nuova
riforma del sovraindebitamento, provare a vagliare almeno dal punto di vista della riflessione - questa
strada.
24 Sia consentito il rinvio a Pellecchia, Dall’insolvenza al sovraindebitamento. Interesse del debitore alla liberazione e ristrutturazione dei
debiti, Giappichelli, 2012, 228.
25 Mengoni, voce «Responsabilità contrattuale (diritto vigente)»,
in Enc. del dir., XXXIX, Giuffrè, 1988, 1087; Id., La parte generale delle
obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 518; Natoli, L’attuazione del
rapporto obbligatorio, XVI, Il comportamento del debitore, 2, Giuffrè, 1984,
71 ss. e 11 ss.
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Saggi e Aggiornamenti Parte seconda
La posizione giuridica del garanteconsumatore: dalle novità europee
alle recentissime aperture interne
di Lavinia Vizzoni*
SOMMARIO: 1. Introduzione. Lo scenario di riferimento. - 2. La possibile configurazione di un fideiussoreconsumatore fra decisioni della Cassazione e prospettive europee. - 3. La recente risposta positiva della
Corte di giustizia dell’UE. - 4. Segue: il limite alla soluzione positiva: il collegamento funzionale con il
debitore garantito. - 5. La pronuncia della Corte di giustizia dell’UE nell’ottica del principio di effettività. - 6.
Da ultimo: una possibile svolta della Cassazione?
1. Introduzione. Lo scenario di riferimento.
La figura del fideiussore - con specifico riguardo alla
posizione concretamente rivestita da tale contraente incontra, nell’ordinamento italiano, un sostanziale disinteresse da parte del legislatore.
In effetti, la disciplina della garanzia personale per
eccellenza, che può vantare origini antichissime 1, dopo essersi conformata nel diritto romano, è confluita
nel cod. civ. del 1865 e poi in quello del 1942 senza
subire modifiche di rilievo 2.
L’unica eccezione a tale immobilismo normativo è
rappresentata dalle revisioni operate nel 1992 3, quando - nel contesto di una complessiva riforma volta ad
attuare il valore fondamentale della trasparenza banca-
ria - si è inciso in funzione limitativa sugli aspetti dubbi
della fideiussione omnibus 4, ossia sull’ampiezza eccessiva del suo oggetto, con conseguente violazione del
requisito di determinatezza, o almeno determinabilità,
dell’oggetto del contratto, e, più in generale, sull’abusività delle condotte spesso poste in essere dalla banche
nell’esercizio dell’attività di concessione del credito,
contro le quali si è da più parti invocato il principio
di salvaguardia della buona fede 5.
Ora, se è vero che grazie alla riforma del 1992, per
quanto essa sia relativa alla sola fideiussione omnibus,
taluni dei più rilevanti rischi di abusi a danno del
fideiussore sono stati contenuti, è altrettanto vero
che la figura del garante non appare sufficientemente
considerata, quanto meno a livello normativo, soprat-
* Contributo pubblicato in base a referee.
1 Come segnalato a titolo di curiosità da Macario, in Sacco-De
Nova, Garanzie personali, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco,
II, 4, Utet, 2009, le origini della fideiussione si potrebbero far risalire
addirittura ai poemi omerici, dove sembrano rinvenirsi tracce della
garanzia, poiché Nettuno figurerebbe come fideiussore di Vulcano.
2 Cfr. l’analisi storica di Campogrande, Trattato della fideiussione
nel diritto odierno, Torino, 1902, passim, e Talamanca, voce «Fideiussione (storia)», in Enc. del dir., XVII, Giuffrè, 1968, 326 ss.
Sull’evoluzione della fideiussione dal diritto romano ad oggi, con
particolare riguardo al profilo dell’accessorietà della garanzia, v. anche
Mannino, Fideiussione e accessorietà, in Eur. e dir. priv., 2001, 907 ss.
3 Per una disamina approfondita delle relative vicende, cfr. Di Biase, La fideiussione omnibus a ventun’anni dalla legge sulla trasparenza
bancaria: alla ricerca dei ‘‘limiti’’ all’impegno del garante, in Nuove leggi
civ. comm., 2014, I, 169 ss., sopr. 182 ss., in cui l’a. fa un bilancio
complessivo della riforma del 1992.
4 Sugli aspetti dubbi della garanzia omnibus, v. già Rescigno, Il
problema della validità delle fideiussioni c.d. omnibus, in Banca, borsa,
tit. cred., 1972, II, 27 ss.
5 Sull’operatività del limite della buona fede in tema di fideiussione
v. fra gli altri, Senofonte, Buona fede e fideiussione per obbligazione
futura, in Giust. civ., 1990, I, 134 ss.; Munari (a cura di), Fideiussione
omnibus e buona fede, Giuffrè, 1992, che ripercorre gli orientamenti al
riguardo a pochi mesi dalla modifica legislativa.
In tema di buona fede, sono state inoltre esemplari le applicazioni
talvolta operate dalla giurisprudenza. In tal senso, v. Cass., 18.7.1989,
n. 3362, in Foro it., 1989, I, 2750 ss., con osservazioni di Pardolesi e
note di Di Majo, La fideiussione ‘‘omnibus’’ e il limite della buona fede, e
Mariconda, Fideiussione ‘‘omnibus’’ e principio di buona fede. Tale pronuncia, insieme ad altre quattro sentenze coeve, è stata definita ‘‘devastante’’ da Pardolesi, nelle sue osservazioni, cit., 2751. La portata
rivoluzionaria delle pronunce è stata evidenziata anche da Bussoletti,
La Cassazione e le fideiussioni bancarie, in Banche e banchieri, 1990, 51,
che ne parla come di un ‘‘terremoto giurisprudenziale’’. Tale giurisprudenza pone chiaramente in luce come la buona fede - intesa in senso
etico, quale requisito della condotta - costituisca uno dei cardini della
disciplina delle obbligazioni e formi oggetto di un vero e proprio dovere
giuridico, che viene violato non solo ove la parte agisca col proposito
doloso di recare pregiudizio, ma anche se il suo comportamento non sia
stato improntato alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede. Tuttavia, attenta
dottrina ha mosso rilevanti critiche alle (invero talora molto singolari)
applicazione giudiziali della buona fede. Tra gli altri, cfr. Barcellona,
La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in Il contratto e le tutele.
Prospettive di diritto europeo, a cura di Mazzamuto, Giappichelli, 2002,
324 ss. e Belfiore, La presupposizione, nel Trattato Bessone, Giappichelli, 2003, XIII, 4, sopr. 30.
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tutto laddove si tratti di un soggetto per cosı̀ dire ‘‘privato’’, che agisce cioè in veste non professionale.
In effetti, non si può che constatare come la normativa codicistica in materia di fideiussione non contenga
alcuna considerazione di quel garante che - stante una
sua peculiare qualifica soggettiva - si trovi ad agire,
nella complessa operazione economica realizzata, in
condizioni particolari, connotate soprattutto da debolezza contrattuale.
Cosı̀, nell’impianto del codice, il fideiussore viene in
rilievo solo laddove l’art. 1936 si incentra proprio sulla
figura del garante, descritto come il soggetto che assume, nei confronti del terzo creditore, l’obbligazione di
garantire l’adempimento di un obbligo altrui, cosı̀ rimarcando il carattere personale della garanzia stessa.
Per il resto, la legislazione dettata si rivolge ai vari
profili di funzionamento della fideiussione, senza operare alcuna differenziazione della disciplina applicabile
in considerazione del ‘‘tipo’’ di garante.
Solo qualche accenno compare nella legislazione
speciale, per la quale si ricorda l’inapplicabilità al fideiussore ‘‘privato’’ della disciplina in materia di commercio elettronico 6. Il quadro normativo risulta dunque caratterizzato, in tal senso, da una certa staticità.
Eppure, non mancano interrogativi che, in senso
contrario, pongono in luce la necessità di operare differenziazioni fra le varie connotazioni che il garante
può assumere.
Già nei primi anni del ‘900, nella vigenza del codice
di commercio parallela a quella del codice civile, taluni
tendevano a distinguere fra fideiussione prestata per
obbligazioni commerciali e per obbligazioni non commerciali, con conseguente possibile distinzione della
disciplina applicabile 7.
Sulla stessa linea, suonano nette le parole di quella
dottrina 8 che, in epoca successiva, evidenziava, non
senza qualche estremizzazione, come il rilascio di fi-
deiussione determinasse, non di rado, a carico di un
soggetto chiamato ‘‘privato’’, una vera e propria ‘‘sopraffazione’’ 9 a suo danno.
In tal senso, veniva già opportunamente evidenziata
la profonda differenza intercorrente fra la situazione in
cui è una banca a prestare la garanzia e quella in cui si
rende fideiussore un soggetto operante al di fuori di
un’attività imprenditoriale o professionale 10: nel primo
caso, un soggetto esercente un’attività economica organizzata è certamente in grado di ridurre l’entità del
rischio assunto con l’assunzione della garanzia tramite
l’adozione di appositi accorgimenti tecnico-aziendali;
nel secondo caso, può invece accadere che il garante
risulti ‘‘impreparato’’ di fronte all’operazione economica in cui si trova coinvolto 11.
Cosı̀ ragionando, l’angolatura di osservazione del fenomeno si sposta dalla fideiussione al fideiussore, dal
versante oggettivo a quello soggettivo della garanzia, e
la relativa prospettiva di indagine si appunta sulla possibile applicazione al fideiussore di specifiche normative, aventi prevalente funzione di tutela, ma forse capaci al contempo di realizzare una maggiore coerenza
sul piano dell’analisi economica del diritto.
6 L’art. 11 d. legis. 9.4.2003, n. 70 esclude infatti dall’ambito di
applicazione del decreto proprio i ‘‘contratti di fideiussione o di garanzie
prestate da persone che agiscono a fini che esulano dalle loro attività
commerciali, imprenditoriali o professionali’’. A questo può aggiungersi
che il rilascio di taluni tipi di garanzie fideiussorie è in alcuni casi
espressamente riservato a soggetti qualificati, quali quelli elencati dall’art. 3 d. legis. 20.6.2005, n. 122.
7 Cfr. Campogrande, op. cit., 82 ss., che ripercorre il dibattito in
questione.
8 Si fa riferimento all’approfondita analisi critica di Simonetto, La
fideiussione prestata da privati, Cedam, 1985. L’autore, significativamente, accostava già - in un periodo in cui la disciplina italiana a tutela del
consumatore doveva ancora vedere la luce - la materia della fideiussione al settore delle clausole vessatorie, rivendicando una funzione più
incisiva per le clausole generali, in primis la buona fede, che al contempo stava assumendo un ruolo sempre più centrale nel dibattito già in
corso relativo alla fideiussione omnibus.
9 Cfr. Id., op. cit., 4.
10 Sul punto, ancora Id., op. cit., 24 ss.
11 Per utilizzare le parole dal forte impatto utilizzate dall’autore, il
fideiussore privato si trova ‘‘preso alla sprovvista e intrappolato’’: Id.,
op. cit., 26.
12 Nella quasi sconfinata bibliografia sul consumatore cfr., fra gli
altri, De Strobel, La sovranità del consumatore, Cedam, 1970; Aa.Vv.,
Il consumatore e l’Europa: recenti sviluppi, Jovene, 1994, e, negli anni più
recenti, Macario, Dalla tutela del contraente debole alla nozione giuridica
di consumatore nella giurisprudenza comune, europea e costituzionale, in
Obbl. e contr., 2006, 872 ss.; Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte
generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ.,
2008, 536 ss.; Granelli, Il codice del consumo a cinque anni dalla sua
entrata in vigore, in Obbl. e contr., 2010, 731 ss. Sulle modifiche più
recenti alla relativa disciplina, v. l’analisi di Id., ‘‘Diritti dei consumatori’’
e tutele nella recente novella del codice del consumo, in Contratti, 2015, 59
ss.
Con specifico riguardo all’applicazione delle tutele consumeristiche
al garante, v. la riflessione critica di Monticelli, Accesso al credito e
tutela del consumatore: questioni nuove e problemi irrisolti, in Giust. civ.,
2012, 527 ss. Sul tema, sia inoltre consentito rinviare a Vizzoni, Verso
una tutela ‘‘consumeristica’’ del fideiussore: spunti di riflessione, in Contratti, 2015, 195 ss.
Più in generale, v. la ricognizione delle differenti categorie soggettive
che il garante può assumere operata da Macario, Garanzie personali,
cit., 104 ss.
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2. La possibile configurazione di un fideiussore-consumatore fra decisioni della Cassazione e prospettive
europee.
Fra le qualifiche soggettive che il garante può rivestire un ruolo di primo piano spetta sicuramente alla
categoria che negli ultimi decenni ha rivoluzionato
l’intero diritto privato, imponendo il ripensamento di
taluni importanti dogmi, ossia quella di consumatore 12.
Da un punto di vista oggettivo, bisogna premettere
che la fideiussione rientra senz’altro nell’ambito di applicazione dell’art. 1469-bis cod. civ., poi confluito nel
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codice del consumo; è infatti ormai definitivamente
superata la relativa diatriba sullo specifico profilo grazie
all’intervento della l. 21.12.1999, n. 526, la quale ha
espunto il problematico riferimento ai soli contratti
che abbiano ‘‘per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi’’ 13.
A questo punto, la domanda che ci si pone è, in
sintesi: può un fideiussore che rivesta i connotati di
un consumatore, e cioè sia persona fisica che agisce
al di fuori dello svolgimento di una qualsiasi attività
professionale, essere considerato giuridicamente tale e
dunque essere destinatario delle relative discipline?
La risposta sinora fornita dalla nostra giurisprudenza
di legittimità è stata negativa: com’è noto, la Suprema
Corte si mantiene fedele all’impostazione per cui stante il legame di accessorietà intercorrente tra contratto di fideiussione e rapporto principale - la qualifica
di consumatore non deve essere autonomamente ricercata nel garante, in riferimento alla vicenda fideiussoria stessa, bensı̀ tale qualifica viene derivata, ‘‘di riflesso’’, da quella del debitore garantito.
La forza dell’accessorietà è dunque ritenuta tale da
produrre i suoi effetti anche sulle qualifiche dei soggetti
coinvolti, nel senso che se il debitore garantito è un
professionista, dovrà essere considerato tale, seppur indirettamente, anche il fideiussore, nonostante si tratti
di un soggetto ‘‘privato’’, che non agisce in veste professionale 14.
Almeno in una occasione, la questione si è direttamente incentrata proprio sull’applicabilità, al fideiussore che opera al di fuori dell’esercizio di attività professionale, di ciò che rappresenta il vero e proprio
‘‘cuore’’ della disciplina consumeristica, ossia la normativa in materia di clausole abusive: cosı̀, la Cassazio-
ne 15 ha precisato che la vessatorietà di una clausola
deve essere valutata anche con riguardo alle ‘‘circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre
clausole del contratto medesimo o di un altro collegato da
cui dipende’’. Si è dunque valorizzata la caratteristica
propria della fideiussione, consistente nell’essere un
contratto funzionalmente collegato a quello principale,
con conseguente affermazione del valore ‘‘assorbente’’
del legame di accessorietà.
In via dissonante rispetto a tale orientamento unanime della Cassazione, si pongono, oltre ad un’isolata
pronuncia di merito 16, talune recenti decisioni 17 di un
soggetto - l’Arbitro Bancario Finanziario - che, sebbene non giurisdizionale, è deputato a risolvere conflitti
riguardanti i soggetti che più di frequente sono coinvolti nel rilascio di fideiussioni, ossia gli istituti bancari
e creditizi.
Tali decisioni, che hanno peraltro incontrato il favore di attenta dottrina 18, rifiutano l’automatica estensione al garante della qualifica soggettiva propria del
debitore principale, e ritengono di circoscrivere l’ambito di operatività del collegamento tra i due negozi al
solo versante oggettivo, relegandolo comunque in secondo piano ed anzi vanificandolo sostanzialmente
quando il profilo soggettivo evidenzi una specifica esigenza di tutela dei soggetti coinvolti.
A livello europeo, sul versante giurisprudenziale viene in gioco, in primo luogo, la sentenza Berliner Kindl
Brauerei 19, nella quale si discuteva circa la possibilità
di applicare la dir. n. 102/87 CEE, in materia di credito
al consumo, all’ipotesi di un garante che agisce al di
fuori dello svolgimento di attività professionale.
In tale caso, la Corte ha optato per la soluzione
negativa, in considerazione del dato letterale, nonché
13 Sulla questione cfr. Stella, Le garanzie del credito, Giuffrè, 2010,
127 ss.
14 La tesi del professionista ‘‘di riflesso’’ è sostenuta, fra le altre, da
Cass., 11.1.2001, n. 314, in Corr. giur., 2001, 891 ss., con nota di
Conti, La fideiussione rispetto alle clausole vessatorie; da Cass.,
6.10.2005, n. 19484, in Dir. e prat. soc., 2006, 72 ss., con commento
di Longhini, ‘‘Factoring’’ e fideiussione rilasciata da socio della società
cedente: profili di tutela, e in Contratti, 2007, 225 ss., con nota di Guerinoni, Quando il fideiussore è consumatore; e più di recente, da Cass.,
29.11.2011, n. 25212, in Dir. e giust., 2011, 506 ss., con nota di Bortolotti, Il fideiussore di una società non è un consumatore.
15 Si tratta di Cass., 11.1.2001, n. 314, cit. In proposito, cfr. Stella, Le garanzie personali del credito, in Il Draft Common Frame of Reference del diritto privato europeo, a cura di Alpa, Iudica, Perfetti e
Zatti, Giuffrè, 2009, 281 ss., specie 290 ss.
16 Cfr. Trib. Palermo, 13.12.2005, in Corr. merito, 2006, 317 ss.,
con commento di Conti, Il fideiussore non è sempre professionista ‘‘di
rimbalzo’’.
17 Cfr., fra le altre, A.B.F. Roma, 26.7.2013, n. 4109, in www.arbitrobancariofinanziario.it/decisioni/categorie/Apertura%2520di%2520credito/Garanzie/Dec-201307264109.pdf.
18 Cosı̀ Rabitti, La qualità di ‘‘consumatore-cliente’’ nella giurisprudenza e nelle decisioni dell’arbitro bancario finanziario, in Contr. e impr., 2014,
201 ss., A.A. Dolmetta, Il fideiussore può anche essere consumatore. A
proposito di Abf Roma, n. 4109/2013, in www.dirittobancario.it/spunti-
dall-abf/garanzie, il quale afferma provocatoriamente, ma in maniera
condivisibile, che ‘‘non è dato comprendere cosa c’entri la regola di
accessorietà con la nozione di consumatore’’, ed aggiunge altresı̀ che
‘‘anzi, a bene vedere, la tesi della Cassazione si risolve piuttosto nell’allegazione di una (insussistente) regola di simmetria: e, per vero, e non
meno dell’altra non afferente alla materia in questione (della riconosciuta veste di consumatore, appunto)’’.
Già Tucci, Contratti negoziati fuori da locali commerciali e accessorietà
della fideiussione, in Banca, borsa, tit. cred., 1999, 136 ss., con specifico
riguardo al caso Dietzinger (su cui v. infra), aveva prospettato la necessità di valutare in concreto le esigenze di tutela del contraente debole,
richiamando le soluzioni applicate nell’ordinamento tedesco alle fideiussioni ‘‘rovinose’’ del coniuge/familiare.
19 Si tratta della sentenza della Corte giust. UE, 23.3.2000, causa
C-208/98, Berliner Kindl Brauerei c. Siepert, in Foro it. 2000, IV, 201 ss.,
con nota di Palmieri. Nella dottrina tedesca, cfr. l’ampia riflessione di
Sölter, Die Verbraucherbürgschaft Zur Anwendbarkeit des Verbraucherkreditgesetzes auf die Bürgschaft, Berlin, 2001, che si interroga sull’applicabilità, in generale, della normativa consumeristica in favore del fideiussore che rilasci garanzie sulla spinta di circostanze contingenti e/o
emozionali, senza prestare particolare attenzione al contenuto della
garanzia stessa. L’autrice dimostra, in generale, di fornire al quesito
una risposta che tendenzialmente equipara consumatore e garante ‘‘privato’’ (der private Bürge). Sullo specifico caso Berliner Kindl Brauerei c.
Siepert, v. Ead., op. cit., 95 ss.
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della ratio stessa della normativa europea, che deve
intendersi come non estesa anche al contratto di fideiussione 20.
Un’altra pronuncia significativa è quella resa dalla
Corte giust. UE sul caso Dietzinger 21, che si è posta il
problema dell’applicabilità della dir. n. 577/85 CEE, in
materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali, ad un contratto a favore di terzi, e più precisamente ad un contratto di fideiussione concluso in seguito a una vendita a domicilio, con specifico riguardo
alla possibilità di esercizio dello ius poenitendi.
Anche qui, la risposta fornita dalla Corte è stata
negativa poiché il credito garantito dalla fideiussione
era stato richiesto in correlazione all’esercizio di un’attività commerciale.
Come osservato 22, in tale occasione la Corte ha attribuito un rilievo forse eccessivo allo scopo dell’operazione di garanzia - considerata in stretta correlazione
rispetto al rapporto principale - e ha riservato invece
un’attenzione soltanto marginale al profilo strettamente soggettivo rivestito dal fideiussore. Tuttavia, la Corte giust. UE non ha escluso a priori la possibilità che
un fideiussore potesse beneficiare delle tutele previste
dalla normativa in esame 23.
Per quanto attiene al versante della soft law europea,
lo stesso Draft Common Frame of Reference, nel Capitolo 4 del Libro IV, Parte G (relativa alle Personal
Securities), detta Special rules for personal security of
consumers, precisa espressamente che le regole - delle
quali è inoltre esclusa la derogabilità in senso sfavorevole al garante - ivi previste debbano trovare applicazione ‘‘when a security is provided by a consumer’’, cosı̀
dimostrando, come osservato 24, che è la persona del
20
V. Macario, op. ult. cit., 107.
Corte giust. UE, 17.3.1998, causa C-45/96, Bayerische Hypotheken Wech Selbank AG c. Dietzinger, in Foro it., 1998, IV, 129 ss., con
nota di Palmieri, in Danno e resp., 1998, 330 ss.; con nota di Sesta,
Direttiva comunitaria, contratto di fideiussione e tutela dei consumatori, in
Corr. giur., 1998, 769 ss.; con nota di M. Graniero, Natura accessoria
della fideiussione nei contratti conclusi fuori dei locali commerciali, in Guida
al dir., 1998, 17, 74 ss.; con nota di Moreschini, Chi presta garanzia a
un professionista perde la tutela «europea» per i consumatori - La fideiussione è regolata dalle norme nazionali se assiste un credito di natura «non
privata»; nonché in Banca, borsa, tit. cred., 1999, 129 ss., con nota di
Tucci, cit. In proposito v. anche Lobuono, Contratto e attività economica nelle garanzie personali, Esi, 2002, 45 ss.
Sulla pronuncia Dietzinger, nella dottrina tedesca, in senso adesivo,
v. Pfeifer, Die Bürgschaft unter dem Einfluss des deutschen und europäischen Verbraucherrechts, in ZIP, 1998, 1129 ss. Peraltro, lo stesso autore
rifletteva sull’applicabilità della disciplina in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali prima dell’emanazione della sentenza
Dietzinger. Cfr. Id, Haustürwiderrufsgesetz und Bürgschaft - Ein Beitrag
zur causa ‘‘kausaler’’ Sicherungsgeschäfte und zum europäischen Zivilrecht,
in ZBB, 1992, 1 ss.
22 Cosı̀ Alpa, Ancora sulla definizione di consumatore, in Contratti,
2001, 205: ‘‘qui non si prende in considerazione lo status soggettivo del
fideiussore - che la Corte ammette essere consumatore, cioè un soggetto
che non aveva agito nell’ambito della sua attività professionale - ma si
prende in considerazione lo scopo per cui aveva agito il debitore prin21
1236
garante ad assumere un rilievo decisivo nella valutazione relativa alla sussistenza di un contraente che
riveste la qualifica di consumatore 25.
3. La recente risposta positiva della Corte di giustizia
dell’UE.
Dopo le due sentenze europee da ultimo indicate - le
quali forniscono sı̀ una risposta negativa ai relativi
quesiti, ma facendo leva, più che sul principio di accessorietà della garanzia, ampiamente invocato invece
dalla Cassazione italiana, su ragioni concrete riferite
all’ambito di applicazione di normative settoriali - è
giunta, di recente, una decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea che si segnala per un deciso
cambiamento di rotta.
Si tratta più precisamente dell’ordinanza datata
19.11.2015, originata da un rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte d’appello di Oradea (Romania) 26.
Il caso di specie ha ad oggetto due contratti - genericamente definibili di garanzia - stipulati da una coppia di coniugi in favore della società individuale di cui
il di loro figlio risultava socio unico e amministratore.
Proprio su richiesta del figlio - che intendeva ottenere
un aumento della linea di credito già accordata alla
propria società da una banca - i genitori avevano da
un lato costituito ipoteca a favore della banca su un
bene immobile di loro proprietà, e, dall’altro, si erano
resi fideiussori garantendo il pagamento di quanto ottenuto dalla società del figlio a titolo di finanziamento.
In seguito, i coniugi adirono il tribunale competente
chiedendo l’annullamento dei due contratti di garanzia
stipulati e, in via subordinata, delle clausole, ritenute
abusive, in essi contenuti. Gli attori videro la loro
cipale, la controparte del professionista. E poiché il contratto principale
era stato concluso dal debitore con intenti professionali, anche il contratto accessorio è considerato assoggettato alla disciplina di diritto
comune, privando cosı̀ il fideiussore della tutela accordata dal consumatore. Non è quindi la valutazione oggettiva che rileva - il contratto
di fideiussione in sé - quanto lo scopo di quel contratto collegato con lo
status del contraente del contratto principale’’.
Analogamente, nella dottrina tedesca, si dimostrano critici nei confronti della sentenza Dietzinger, in un’ottica tendenzialmente favorevole
ad un’estensione applicativa, che consideri maggiormente il profilo
soggettivo del garante Reinicke-Tiedtke, Schutz des Bürgen durch
das Haustürwiderrufsgesetz, in ZIP, 1998, 893 ss.
23 Come puntualmente osservato da Camardi, Tecniche di controllo
dell’autonomia contrattuale nella prospettiva del diritto europeo, in Eur. e
dir. priv., 2008, 870, la pronuncia della Corte di giustizia ‘‘propone
un’applicazione estensiva della Direttiva, prospettando uno spiraglio
di tutela che solo in fatto non viene accordata’’.
24 Cfr. Stella, op. ult. cit., 289.
25 Id., ivi, 302, ritiene che, in punto di qualifica soggettiva del consumatore, la soluzione adottata dal Draft, incentrata esclusivamente
sulla figura del garante, sia preferibile a quella sostenuta dalla Cassazione italiana, che ricava la qualifica del fideiussore ‘‘di riflesso’’ da
quella del debitore garantito.
26 La pronuncia è pubblicata in lingua italiana in G.U.U.E. 2016, C
38/68.
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domanda respinta in primo grado, in base all’art. 1, § 1,
della legge rumena n. 193/2000 27, che circoscrive
l’ambito di applicazione della disciplina in materia di
clausole abusive ai contratti aventi a oggetto la vendita
di un bene o la fornitura di un servizio ad un consumatore: quest’ultima condizione non venne ritenuta
integrata nel caso di specie, stante la natura di società
commerciale del soggetto beneficiario del credito, cosı̀
come delle garanzie prestate.
Il tribunale individuò anche una seconda ragione per
ritenere i due contratti di garanzia esclusi dall’ambito
di applicazione della l. 22.6.2000, n. 193, corrispondente al loro carattere accessorio rispetto al contratto
di credito, stipulato fra la banca e la società, priva della
qualità di consumatore.
È stato il giudice di secondo grado, a cui i coniugi
ricorsero in appello, a sottoporre alla Corte due questioni
pregiudiziali, in realtà riducibili ad una sola - ed infatti
risolta come tale dalla Corte giust. UE - concernente
l’interpretazione dell’art. 1, § 1, dir. n. 13/93 CEE.
In particolare, al giudice europeo si chiedeva se tale
disposizione dovesse essere interpretata nel senso di
includere nel relativo ambito di applicazione anche i
contratti accessori, quali, in primis, quelli di garanzia,
laddove il soggetto garantito sia una società commerciale, se la stipula della garanzia è avvenuta da parte di
persone fisiche che hanno agito per scopi estranei all’attività professionale eventualmente svolta, ed altresı̀
in mancanza di collegamenti con l’attività esercitata
dal professionista che beneficia della garanzia.
Per quanto ovvia, è opportuno premettere una prima
osservazione relativa al contesto normativo: invero, la
disciplina rumena di riferimento, che ha recepito la
dir. n. 13/93 CEE, appare del tutto analoga a quella
italiana oggi contenuta nel codice del consumo 28.
La decisione della Corte giust. UE opera una ricostruzione dettagliata dei fatti, evidenziando anche come, nel caso di specie, i genitori si siano resi garanti
solo in considerazione della posizione - di socio unico e
amministratore della società beneficiaria del credito del loro figlio, e come questi adirono il tribunale sulla
base della convinzione di aver agito in qualità di consumatori.
La pronuncia pone poi in luce come, in base a giurisprudenza consolidata della Corte stessa 29, l’ambito di
applicazione della disciplina in materia di clausole abusive sia da riferire a qualsiasi contratto stipulato tra un
professionista e un consumatore che non sia stato oggetto di negoziato individuale fra le parti.
È a questo punto che le affermazioni della Corte
giust. UE si fanno di particolare interesse: la Corte sebbene con toni sbrigativi e in alcuni passaggi assai
assertivi - sostiene che l’indagine volta ad verificare la
sussistenza di un contratto che ricade nell’ambito di
applicazione in questione dovrà rivolgersi non all’oggetto del contratto stesso (che viene definito addirittura ‘‘irrilevante’’ 30 a tal fine), bensı̀ alla qualità dei
contraenti, valutando se gli stessi agiscano o meno
nell’ambito della loro attività professionale.
Il criterio incentrato sulla qualità delle parti viene
peraltro significativamente ricondotto alla ratio che
costituisce il fondamento del sistema di tutela istituito
dalla direttiva in questione in favore del consumatore,
ossia la collocazione del consumatore stesso in una
situazione di inferiorità rispetto alla controparte professionista, con riguardo sia al potere nelle trattative sia
al piano informativo, e che si traduce in un’induzione
ad aderire alle condizioni contrattuali unilateralmente
predisposte dal professionista, senza poter incidere sul
relativo contenuto 31.
La Corte riferisce poi, più specificamente, l’individuato ambito di tutela ai contratti di fideiussione conclusi fra un istituto di credito e un consumatore: in
questi casi l’esigenza di protezione si fa ancora più
consistente, poiché la stipulazione comporta l’assunzione di un impegno personale da parte del garante, che si
vincola all’adempimento dell’obbligazione altrui, con
relativo rischio economico non sempre agevolmente
calcolabile. Ciò comporta quindi la nascita, in capo
al fideiussore, di ‘‘obblighi onerosi che hanno l’effetto di
gravare il suo patrimonio di un rischio finanziario spesso
difficile da misurare’’.
27 Di implementazione della dir. 13/93 CEE del Consiglio, 5.4.1993,
concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
28 L’unica nota distintiva è rappresentata, invero, dal riferimento
che la definizione di ‘‘consumatore’’ contenuta nella legge rumena
compie, oltre che alla persona fisica, anche al ‘‘gruppo di persone fisiche
costituite in associazione’’.
29 V. la recente Corte giust. UE, 15.1.2015, causa C-537/13, Šiba,
richiamata dall’ordinanza nei Considerando nn. 20, 21, 23 e 24.
30 Fatte salve le eccezioni indicate al decimo Considerando della dir.
13/93 CEE, ossia i contratti di lavoro, i contratti relativi ai diritti di
successione, i contratti relativi allo statuto familiare, i contratti relativi
alla costituzione ed allo statuto delle società (Considerando n. 22).
31 Considerando n. 24. Si potrebbe osservare che la Corte giust. UE
assume un’impostazione piuttosto semplicistica, nonché di stampo
esclusivamente paternalistico. Soprattutto, un tale atteggiamento si
avverte laddove la Corte intende rafforzare ed espandere le tutele in
favore di un soggetto ritenuto strutturalmente ed irrimediabilmente
debole.
Come è noto, l’approccio paternalistico non è andato esente da
critiche, ed è stato accusato di escludere in radice la capacità di autoregolamento del consumatore stesso. V. soprattutto Sacco, in SaccoDe Nova, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da Sacco, I, Utet,
3a ed., 2004, 488. Piuttosto, si è quindi suggerito di considerare l’obiettivo di rendere la condotta del consumatore virtuosa, come funzionale
ad un efficiente funzionamento delle stesse dinamiche di mercato. In
tale prospettiva, gli istituti a tutela del consumatore acquistano una
matrice concorrenziale, e la stessa concorrenza del mercato diventa il
bene giuridico tutelato. In tale prospettiva, cfr. Camardi, La protezione
dei consumatori tra diritto civile e regolazione del mercato. A proposito dei
recenti interventi sul codice del consumo, in Jus civile, 2013, 305 ss.
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Riguardo al profilo dell’accessorietà, la Corte osserva,
in primis, che il contratto di fideiussione presenta senz’altro, in riferimento al proprio oggetto, carattere ‘‘accessorio’’ rispetto al contratto principale; tuttavia, ancora una volta, la vicenda deve essere guardata dal
punto di vista delle parti contraenti: allora, ben si
osserva che il contratto di garanzia è distinto dal rapporto principale perché stipulato tra soggetti diversi.
Pertanto, anche la qualifica di professionista ovvero
di consumatore dovrà essere indagata con esclusivo
riguardo alle parti del contratto di garanzia 32.
Nel prosieguo, la decisione ricorda che la nozione di
consumatore deve essere valutata alla luce di un criterio funzionale volto ad analizzare se il rapporto contrattuale in esame si collochi al di fuori dell’esercizio di
una professione; una valutazione che spetta al giudice
nazionale investito della relativa controversia.
Anche nel caso di specie, quello di una persona fisica
che garantisca l’adempimento delle obbligazioni di una
società commerciale, sarà il giudice nazionale a verificare in primo luogo se il garante abbia agito o meno
nell’ambito della sua attività professionale, nonché se
sussistano indici che lo ricollegano funzionalmente al
debitore garantito, oppure al contrario, se il fideiussore
abbia agito per scopi di natura privata 33.
La conclusione della Corte è che la normativa in
materia di clausole abusive nei contratti dei consumatori può trovare applicazione anche a un contratto di
fideiussione 34 stipulato tra una persona fisica e una
banca per garantire le obbligazioni assunte da una società commerciale, ‘‘quando tale persona fisica ha agito
per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non
ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta
società’’ 35.
L’ordinanza in questione, pur riconoscendo l’esistenza di un’innegabile accessorietà che collega i due piani
contrattuali, assegna alla garanzia un certo livello di
autosufficienza, quanto meno limitatamente alla valutazione autonoma circa la sussistenza della qualità di
consumatore; verifica che dovrà infatti avvenire, come
sancito chiaramente, con esclusivo riguardo alle parti
del contratto di garanzia. Due sono infatti i profili da
individuare e distinguere: il primo, relativo all’oggetto
del contratto di garanzia, evidenzia la dipendenza funzionale della fideiussione rispetto al rapporto principale; il secondo, relativo invece al profilo soggettivo delle
parti contraenti, mostra come il rapporto di garanzia,
intercorrente fra fideiussore e creditore, sia ben distinguibile da quello principale, intercorrente fra debitore
principale e creditore.
Indipendentemente da quale che sia la qualifica soggettiva del debitore principale all’interno del rapporto
principale (normalmente un contratto di credito), il
fideiussore assumerà una qualità ‘‘propria’’, misurata
in riferimento alla vicenda fideiussoria.
Non si può negare che una certa propensione ad
indagare il contesto di riferimento, in cui il garante
agisce, alla luce della ratio e della normativa della cui
applicabilità al fideiussore si discute piuttosto che sull’esclusiva considerazione del rapporto garantito, era
già emersa in precedenti decisioni della Corte europea
stessa 36.
La pronuncia in questione adotta quindi una posizione assai netta, volta a prospettare una tutela del
fideiussore in chiave consumeristica, in presenza di
determinate condizioni.
Di certo, dall’ordinanza, forte della sua efficacia che
va ben oltre il caso di specie 37, si trae uno spunto
significativo - valevole soprattutto per l’ordinamento
italiano, il quale manifesta particolare resistenza in
proposito - per considerare la possibile diversificazione
delle qualifiche soggettive che il fideiussore può assumere all’interno della vicenda economica complessiva
in cui si inserisce la prestazione della garanzia 38. Non è
dunque escluso, in tale prospettiva, che si possa ipotizzare, anche nel perseguimento dell’armonizzazione del
diritto europeo, un’incidenza diretta di tale pronuncia,
in ottica conformativa, sulle soluzioni che nel nostro
ordinamento in futuro verranno fornite al problema in
esame, cosı̀ aderendo a prospettazioni che, in verità,
erano già state avanzate, senza che fossero però accolte
dalla giurisprudenza di legittimità 39.
32 Molto chiara l’affermazione della Corte: ‘‘È dunque in capo alle parti
del contratto di garanzia o di fideiussione che deve essere valutata la qualità in
cui queste hanno agito’’, Considerando n. 26.
33 ‘‘Quali l’amministrazione di quest’ultima o una partecipazione non
trascurabile al suo capitale sociale’’, Considerando n. 29.
34 O anche di garanzia immobiliare: i due casi sono infatti trattati
congiuntamente dall’ordinanza.
35 Considerando n. 30.
36 Si tratta dei già citati casi Dietzinger e Berliner Kindl Brauerei.
Significativa, inoltre, in tale ottica, anche se rimasta lettera morta, la
proposta di direttiva europea sul credito ai consumatori del 2002,
COM/2002/443, in G.U.C.E. 2002, C 331 E/200, che provvedeva ad
estendere espressamente il relativo ambito di applicazione anche al
fideiussore. In proposito, sia consentito rinviare a Vizzoni, op. cit.,
200 ss.
37 Riguglio, voce «Pregiudiziale comunitaria», in Enc. giur. Treccani,
XXIII, Ed. Enc. it., 1997, 1 ss. Non manca neppure chi ipotizza una vera e
propria efficacia ‘‘normativa’’ delle pronunce pregiudiziali: in questi termini
cfr. Martinico, Le sentenze interpretative della Corte di giustizia come forme
di produzione normativa, in Riv. dir. cost., 2004, 249 ss.
38 Peraltro, l’orientamento espresso dalla Corte giust. UE sembra
essere stato già recepito da Trib. Milano, 4.4.2016, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/14729.pdf: nel caso di specie, relativo ad
una fattispecie di anatocismo bancario, in cui peraltro era dubbia la
stessa natura - autonoma o fideiussoria - della garanzia prestata, la
pronuncia di merito, senza scandagliare ulteriormente la questione, in
maniera forse semplicistica, si limita a sostenere che si deve procedere
con l’applicazione delle tutele consumeristiche, ‘‘anche nell’ipotesi di
qualificazione della garanzia in termini di contratto autonomo’’, e richiama,
in proposito, proprio quanto sancito dall’ordinanza della Corte giust.
UE del novembre 2015.
39 Circa il contrasto di posizioni fra Cassazione e ABF, cfr. in parti-
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4. Segue: il limite alla soluzione positiva: il collegamento funzionale con il debitore garantito.
Secondo la soluzione adottata da ultimo dalla Corte
giust. UE, non ogni fideiussore ‘‘privato’’, che agisca
cioè al di fuori dell’esercizio di un’attività professionale, può essere automaticamente trattato alla stregua di
un consumatore.
La decisione individua infatti, per quanto sinteticamente, un secondo requisito necessario ai fini dell’attribuzione della qualità di consumatore, ossia l’insussistenza di ogni tipo di collegamento di natura funzionale con il debitore-professionista garantito.
Tale aspetto chiama in causa un ulteriore profilo, ad
esso strettamente connesso, ossia la possibilità che sussista un interesse patrimoniale del garante stesso al
rilascio della garanzia: è evidente infatti che laddove
sussista suddetto collegamento fra fideiussore e debitore principale, si evidenzierà anche un interesse proprio
del garante a rendersi tale.
La presenza di un interesse proprio del garante alla
conclusione del negozio di garanzia è un fattore che ha
esplicato un certo peso nelle decisioni assunte in altri
ordinamenti, soprattutto in materia di fideiussioni prestate dal coniuge o familiare del debitore garantito, a
condizioni particolarmente gravose 40.
Cosı̀, già nella sentenza del Bundesverfassungsgericht 41 più nota al riguardo, la quale - constatata, a
carico del contraente-garante, una situazione di ‘‘squilibrio sociale ed economico’’ (‘‘soziales und wirtschaftliches
Ungleichgewicht’’) 42, e facendo diretta applicazione dei
principi costituzionali (c.d. Drittwirkung) per il tramite
delle clausole generali - ebbe l’esito ‘‘clamoroso’’ di
sancire la nullità della fideiussione prestata dalla figlia
ventunenne e nullatenente del debitore garantito: con
colare Rabitti, op. cit., 217 ss., che rigetta una visione antagonistica
del rapporto fra giurisprudenza della Corte di legittimità e decisioni
dell’Arbitro, proponendo fra i due poli un’interazione costruttiva.
40 Con particolare riguardo all’ordinamento tedesco, v. l’analisi di
Nappi, Prestazioni fideiussorie inadeguate alle condizioni patrimoniali del
garante: gli interventi del Bundesverfassungsgericht ed un ‘‘distinguo’’ del
Bundesgerichtshof, in Id., Studi sulle garanzie personali, Giappichelli,
1997, 115 ss.
41 Si tratta di BVerfG, 19.10.1993, in NJW, 1994, 36 ss., la cui
traduzione italiana è pubblicata in questa Rivista, 1995, I, 197 ss., con
nota di Barenghi, Una pura formalità. A proposito di limiti e di garanzie
dell’autonomia privata in diritto tedesco. Una traduzione italiana della
pronuncia, a cura di Di Nella e Favale è pubblicata anche in Rass.
dir. civ., 1994, 594 ss., con il commento, di particolare interesse, di
Honsell, Fideiussione e corresponsabilità di congiunti privi di reddito e di
patrimonio. Sulla sentenza cfr. anche Macario, op. ult. cit., 119 ss.;
Calderale, Autonomia contrattuale e garanzie personali, Cacucci, 1999,
110 ss. e, con specifico riguardo ai profili ‘‘familiari’’ della garanzia
rovinosa, Catanossi, Le fideiussioni prestate dai prossimi congiunti. Saggio
di diritto comparato, Iseg, 2007, 17 ss., Colombi Ciacchi, Le fideiussioni rovinose: un nuovo campo di applicazione delle clausole generali del
BGB a tutela della parte debole, in Annuario di Diritto Tedesco 1999, a
cura di Patti, Giuffrè, 2000, 161 ss., Favale, La fideiussione prestata dai
familiari insolventi nel modello tedesco, in Annali del Dipartimento di Scienze Giuridico-sociali e dell’amministrazione, n. 3/2001, Università del Mo-
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ciò, l’elemento della (in)sussistenza di un interesse del
garante stesso venne ritenuto determinante 43.
Peraltro, vale la pena osservare come tale pronuncia
abbia goduto di un’estesa considerazione nell’ordinamento tedesco 44, dove ha dato adito ad un dibattito di
più ampio respiro soprattutto per quanto attiene ai
profili di compressione dell’autonomia privata insiti
nell’estensione del sindacato sul contenuto contrattuale, il c.d. Inhaltskontrolle 45. Da parte di alcuni 46, si è
addirittura sostenuto che la decisione avrebbe creato
una clausola generale volta a sanzionare con la nullità
il contratto integrato da clausole vessatorie a pregiudizio del contraente debole. Non sono mancati rilievi di
paternalismo, rivolti alla sentenza, laddove la stessa
attribuisce un significato determinante - nella direzione della compressione della libertà di scelta del contraente-garante - a profili quali la giovane età e l’impreparazione del fideiussore stesso, nonché il legame di
parentela con il debitore principale 47.
Ancora con riguardo al profilo dell’interesse del fideiussore al rilascio della garanzia, nelle sentenze successive, il Bundesgerichtshof ha individuato, nel novero
delle circostanze che escludono la contrarietà al buon
costume della fideiussione rilasciata - nonostante la
presenza della suddetta sproporzione, ed in cui quindi
non si giustifica il ricorso alla sanzione della nullità proprio la sussistenza di un giustificato interesse del
creditore alla corresponsabilità familiare 48.
D’altronde, le stesse pronunce tedesche in materia,
pur non giungendo alla stessa soluzione fatta propria
dalla Corte giust. UE nel caso di specie, perché tendenzialmente incentrate su aspetti diversi, manifestano
un grande rilievo alla luce della decisione in esame, nel
punto in cui focalizzano l’attenzione su un elemento
lise, ESI, 2002, 207 ss.
42 In particolare, gli elementi della inferiorità del garante e della
gravosità delle condizioni contrattuali vengono ricondotti al carattere
omnibus della fideiussione, che non indicava quali fossero l’importo
massimo garantito, né gli interessi o le spese. Cfr. Honsell, op. cit.,
611.
43 Cfr. Catanossi, op. cit., 20-21 ss.
44 V. il commento di Wiedemann, Anmerkung zu BVerfG JZ 1994,
408, in JZ 1994, 411 ss.
45 Isensee, Vertragsfreiheit im Griff der Grundrechte - Inhaltskontrolle
von Verträgen am Maßstab der Verfassung, in Festschrift für Bernhard
Großfeld zum 65. Geburtstag, Heidelberg, 1999, 485 ss.
46 Cosı̀ Adomeit, Die gestörte Vertragsparität - ein Trugbild, in NJW,
1994, 2467 ss. In senso contrario, Rittner, Die gestörte Vertragsparität
und das Bundesverfassungsgericht, in NJW, 1994, 3330 ss., il quale nega
che la Corte costituzionale abbia enunciato una siffatta clausola generale. Tuttavia lo stesso a. rileva criticamente come il Bundesverfassungsgericht taccia in merito alle modalità di esercizio della correzione giudiziale del contenuto del contratto di fideiussione. In proposito, cfr.
anche Grunsky, Vertragsfreiheit und Kräftegleichgewicht, Berlin-New
York, 1995, 10.
47 Cfr., sul punto, Enderlein, Rechtspaternalismus und Vertragsrecht,
Sondereinband, 1996, 54 ss. e 141 ss.
48 V. Colombi Ciacchi, op. cit., 174 ss.
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terminati indici, laddove un coniuge/familiare presti
fideiussioni in maniera sistematica in favore dell’altro
coniuge/familiare, che eserciti un’attività commerciale
- è possibile individuare una società occulta che coinvolge garante e garantito, tale che può esserne dichiarato il fallimento, con conseguente coinvolgimento
anche del fideiussore nella relativa procedura 51.
È evidente che ci si trova dinanzi a situazioni ben
diverse da quelle sinora considerate, in cui l’esigenza
primaria non è più quella di tutelare il fideiussore,
bensı̀ piuttosto quella di garantire la soddisfazione dei
creditori.
meritevole di particolare interesse, ma ancora scarsamente considerato dalla nostra Cassazione, ossia la situazione ‘‘personale’’ del garante: esse, dunque, valorizzano il profilo soggettivo di questi, all’interno della
vicenda economica di riferimento, tratteggiando uno
specifico ‘‘statuto fideiussorio’’.
In particolare, nelle pronunce straniere viene attribuita rilevanza al legame di parentela sussistente fra
fideiussore e debitore garantito, presente anche nel
caso deciso dalla Corte di Giustizia, in cui, in effetti,
i garanti erano genitori del debitore garantito esercente
l’attività imprenditoriale: si tratta di situazioni che,
nell’ordinamento tedesco, sono state oggetto di decisione e di discussione con riguardo al profilo della
‘‘rovinosità’’ della garanzia 49; con tale espressione facendo espressivamente riferimento alle fattispecie in
cui l’assunzione di una fideiussione particolarmente
gravosa è riconducibile essenzialmente al vincolo di
coniugio o di parentela esistente fra debitore e garante.
Al contrario, la giurisprudenza italiana si è occupata
di tale aspetto solo con riguardo ad un profilo molto
specifico, facendo derivare dal rapporto di coniugo/parentela che lega garante e garantito proprio l’elemento
determinante ai fini dell’esclusione dall’ambito di applicazione delle relative tutele, ossia il collegamento
funzionale fra garanzia prestata e professionista garantito, con conseguente emersione di un interesse del
fideiussore stesso nella vicenda considerata 50.
In tal senso, si è sostenuto che - in presenza di de-
Tornando a considerare l’ordinanza del 19.11.2015
della Corte giust. UE e spostando la riflessione sul
piano argomentativo, non si può non osservare come
la stessa concretizzi una plastica espressione del tanto
discusso ed anche osteggiato principio di effettività,
caratteristico delle pronunce della Corte di giustizia 52.
In primo luogo, appare significativo lo stesso utilizzo
della forma dell’ordinanza, in aderenza all’art. 99 del
regolamento di procedura della Corte giust. UE, secondo il quale ove la risposta a un quesito pregiudiziale
non dia adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte,
previo rispetto di determinate condizioni procedurali,
può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata 53.
49 In generale, sul contratto di fideiussione nel diritto tedesco cfr.
Barillà, Fideiussione «a prima richiesta» e fideiussione «omnibus» nella
giurisprudenza del Tribunale federale tedesco, in Banca, borsa, tit. cred.,
2005, 337 ss., e Sangiovanni, La fideiussione nel diritto tedesco, in
Contratti, 2009, 190 ss.
Per un’analisi comparata delle garanzie personali riferita agli ordinamenti tedesco e italiano, v. Demuro, Die persönlichen Kreditsicherheiten
im italienischen und deutschen Recht. Eine rechtsvergleichende Untersuchung, Konstanz, 2008.
Sul tema specifico delle fideiussioni rovinose nel contesto familiare
v. Gerhübner, Ruinöse Bürgschaften als Folge familiärer Verbundenheit,
in JZ, 1995, 1086 ss. L’a. si interroga sulla stessa opportunità di consentire le fideiussioni familiari, in considerazione delle pressioni psicologiche che in ambito familiare risultano particolarmente avvertite.
All’a. si deve, peraltro, la stessa definizione di ‘‘fideiussioni rovinose’’.
Sulla stessa linea, v. anche Teubner, Ein Fall von struktureller Korruption? Die Familienbürgschaft in der Kollision unverträglicher Handlungslogiken, in Kritische Vierteljahresschrift für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, 2000, 83 ss., che considera le ‘‘garanzie familiari’’ come il
punto di emersione di un vero e proprio conflitto istituzionale fra la
famiglia, contesto animato da spinte solidaristiche, e il mercato, mosso
invece da logiche strettamente utilitaristiche.
50 Tale elemento è stato inoltre oggetto di attenta considerazione
anche da una parte della dottrina italiana. Secondo Lobuono, op. cit.,
100 ss., sopr. 105, il vero elemento determinante nella valutazione circa
l’attribuzione al fideiussore della qualifica di consumatore deve essere la
sussistenza di un interesse proprio del garante al rilascio della garanzia.
Qualora questo sussista, alla causa di garanzia vera e propria si affianca
la causa di finanziamento, il che porterebbe, secondo l’autore, ad escludere che il garante possa classificarsi come consumatore. A tale tesi
potrebbe però obiettarsi che la causa di finanziamento ben può affian-
carsi, tanto più nella complessità dei traffici giuridico-economici contemporanei, alla causa di garanzia, senza che, per ciò solo, si possa
individuare un interesse del fideiussore alla prestazione della garanzia
stessa. Ciò avviene, emblematicamente, proprio in quelle situazioni in
cui è un familiare del debitore principale a garantire quest’ultimo, al
fine di fargli ottenere credito, senza però che si evidenzi alcun collegamento del garante con l’attività imprenditoriale del garantito.
Sull’affiancamento fra causa di garanzia e causa di finanziamento, nel
senso che la fideiussione, intrinsecamente connotata da una causa di
garanzia, diviene (anche) strumento imprescindibile di accesso al credito, v. Macario, op. ult. cit., 150.
51 Sulla fideiussione rilasciata dal coniuge (ma lo stesso problema si
pone, più in generale, per le garanzie prestate nell’ambito familiare)
quale possibile indice dell’esistenza di una società occulta, cfr. Biscontini, in Valentino, Dei Singoli Contratti, nel Commentario Gabrielli,
IV, Giuffrè, 2011, sub art. 1936, 409 ss., e sopr. 421 ss.; e Macario, op.
ult. cit., 121 ss., Petti, La fideiussione e le garanzie personali del credito,
Cedam, 2006, 274 ss.
In giurisprudenza cfr., fra le altre, già Cass., 22.2.1957, in Banca,
borsa, tit. cred., 1957, 341 ss., con nota di Simonetto, e, più di
recente, Cass. 14.2.2001, n. 2095, in Fallimento, 2001, 1230 ss., con
nota di Patini, e Cass., 22.2.2008, n. 4529, in Fallimento, 2008, 911
ss., con nota di Barbieri, L’estensione del fallimento del socio occulto o di
fatto.
52 Su cui v. le riflessioni di Lipari, Il problema dell’effettività del diritto
comunitario, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, 887 ss., che definisce, in
via generale e preliminare, l’effettività come ‘‘una esistenza giuridica
valutata nella concretezza dei comportamenti praticati’’.
53 In generale, sulla rilevanza della soluzione delle questioni pregiudiziali da parte della Corte giust. UE, v. Sorrentino, Principi costituzionali e complessità delle fonti, in La metafora delle fonti e il diritto privato
1240
5. La pronuncia della Corte di giustizia dell’UE nell’ottica del principio di effettività.
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Saggi e Aggiornamenti Parte seconda
Peraltro, l’ordinanza si caratterizza, come già accennato, per essere assai breve, concisa e netta nel sostenere le proprie conclusioni; forse persino sbrigativa
laddove si tratta di argomentare determinate soluzioni.
Essa fa inoltre particolare riferimento alla ratio che
supporta ed ispira la disciplina dettata a tutela del
consumatore.
È assai chiaro che la pronuncia compie un’applicazione dei principi del diritto dell’UE - recepito nella
normativa interna - al caso di specie, ricavandone una
regola di interpretazione con valore autentico e vincolante, nell’ottica del perseguimento di un obiettivo che
appare centrale, ossia l’effettività della tutela, (forse) a
discapito dell’argomentazione giuridica sottesa. Con
evidenza la Corte procede in un ragionamento per
principi, secondo una logica di stampo ‘‘sostanzialistico’’, in vista della garanzia di effettività della tutela
della parte coinvolta.
Si tratta di affermazioni non prive di implicazioni,
che inducono ad una riflessione profonda - in questa
sede consentita solo per brevi cenni - relativa, innanzitutto, allo stesso sistema delle fonti.
La Corte di Giustizia dell’UE dimostra spesso di prediligere l’atteggiamento meramente ermeneutico a
quello strettamente dogmatico 54, in ciò spinta soprattutto dall’esigenza di pervenire all’uniforme applicazione del diritto europeo, ed invoca l’effettività della tutela in situazioni in cui, si è detto in chiave fortemente
critica, ‘‘la soluzione adottata nel caso concreto non
trova altra soluzione che in se stessa’’ 55.
Ma anche le Corti nazionali stanno effettuando
un’applicazione diretta e quanto mai ‘‘disinvolta’’ dei
principi 56. Basti pensare alle note decisioni con cui la
Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di
legittimità riguardante l’assenza di una norma sulla riduzione giudiziale della caparra confirmatoria di am-
montare eccessivo, e che hanno statuito il potere-dovere del giudice di rilevare e dichiarare, anche d’ufficio, la nullità, totale o parziale, ex art. 1418 cod. civ.,
della clausola contrattuale che preveda una caparra
confirmatoria ‘‘manifestamente eccessiva’’, per contrasto con il con il principio di ‘‘solidarietà sociale’’ di cui
all’art. 2 Cost. 57.
Il parametro costituzionale fa in tal modo diretto
ingresso all’interno del regolamento contrattuale e impone l’applicazione dello strumento del bilanciamento,
in relazione alle circostanze del caso concreto, senza
passare necessariamente attraverso l’intermediazione
della legge 58.
Come osservato, anche criticamente, da una simile
impostazione il sistema delle fonti esce disgregato, in
nome del conseguimento di una giustizia contrattuale
intrinseca 59 e lo stesso sistema positivo emerge destrutturato, sostituito da un insieme di principi, norme spesso prive di una fattispecie che esigono un bilanciamento fra valori diversi 60.
Ci troviamo innegabilmente di fronte ad un incisivo
mutamento della ‘‘giuridicità’’ e dello stesso sistema
delle fonti 61; tutto sta nella prospettiva da cui considerarlo.
Da un lato vi è chi considera tutto ciò sintomatico di
un’inesorabile ‘‘eclissi’’ a cui il diritto civile è ormai
condannato; al punto che l’atteggiamento della Corte
giust. UE - giudice che non disdegna di jus condere,
ancora nell’ottica rimediale del perseguimento di una
non meglio precisata tutela effettiva - viene ritenuto il
vero e proprio emblema del declino, in grado di far
venir meno persino il significato del sintagma ‘‘ordinamento giuridico’’ 62.
Dall’altro lato, non manca chi considera il fenomeno
piuttosto sul versante del recupero di un certo legame
diretto fra diritto e società; il che porta con sé neces-
europeo. Giornate di studio per Umberto Breccia, a cura di Navarretta,
Giappichelli, 2015, 8.
54 Cosı̀ Castronovo, Eclissi del diritto civile, Giuffrè, 2015, 3.
55 Id., op. cit., 4.
56 Principi, i quali perdono senz’alto il loro limitato significato primigenio, quello cioè di strumento interpretativo utilizzabile solo in caso
di lacune e vengono utilizzati per operazioni ermeneutiche - tanto del
testo legislativo quanto dello stesso comune sentire - che consentono al
giudice di rendersi interprete del tessuto socio-economico, nonché del
patrimonio di diritti e di valori della civiltà giuridica. Da strumento
ermeneutico con funzione originariamente residuale, i principi generali
sono visti come doveroso momento di raccordo fra il diritto ed il suo
necessario fondamento di giustizia e equità: in questi termini Lipari,
Intorno ai ‘‘principi generali del diritto’’, in Riv. dir. civ., 2016, 28 ss. e 39,
che ricostruisce i profondi mutamenti intervenuti nel sistema delle
fonti e nella stessa cultura giuridica civilistica, per lungo tempo fortemente condizionata dal modello del positivismo e dai relativi vincoli.,
evidenziando come sia ormai assodato che l’argomentazione giuridica
non si esaurisce in mere operazioni logico-formali, assiologicamente
neutrali, bensı̀ coinvolge operazioni valutative e scelte di valore.
57 Si tratta di Corte cost., ord. 13.10.13, n. 248 e ord. 26.3.2014,
n. 77, su cui v. le note di Astone, Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in termini di ‘‘penale’’ e nullità per
violazione del dovere generale di solidarietà e di buona fede, in Giur. cost.,
2013, 3770 ss.; D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e
nullità della caparra confirmatoria ‘‘eccessiva’’, in Contratti, 2014, 927 ss.;
e, anche in ottica comparatistica, con particolare riguardo alle soluzioni
conseguite dalla giurisprudenza tedesca, cfr. l’analisi di F.P. Patti, Il
controllo giudiziale della caparra confirmatoria, in Riv. dir. civ., 2014, 685
ss. (ma v. anche, dell’a., più ampiamente, La determinazione convenzionale del danno, Jovene, 2015, 400 ss.).
58 Cfr Vettori, Controllo giudiziale del contratto ed effettività delle
tutele. Una premessa, in Pers. e merc., 2014, 102.
59 Cfr. D’Amico, op. cit., 927, che pone in luce il pericolo consistente nell’immolare sull’altare della c.d. giustizia del caso concreto
regole e principi fondamentali del diritto contrattuale; il che può produrre effetti definiti ‘‘destabilizzanti’’.
60 Cosı̀, ma in chiave non critica, Vettori, Contratto giusto e rimedi
effettivi, in Pers. e merc., 2015, 5 ss., specie 11, dove l’a. sostiene che
‘‘L’asse della giuridicità si sposta dall’assolutismo della legge alla centralità dell’interprete’’.
61 Rileva che la fonte perde veste formale, per ‘‘segnare il predominio
della sostanza sulla forma’’, Di Majo, Diritto dell’Unione Europea e tutele
nazionali, in La metafora delle fonti e il diritto privato europeo, cit., 123.
62 Castronovo, op. cit., 5.
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sariamente l’erosione del predominio legislativo statale, e la differenziazione delle fonti del diritto 63, sul
presupposto che le istanze ed i giudizi valoriali non
siano privi di fondamento razionale: anzi, questo convincimento errato viene ritenuto un dogma ingiustificato imposto dal positivismo 64.
In tale ottica, il declino della post modernità è evidente; si va però oltre il nichilismo stesso per affidarsi
piuttosto ad un atteggiamento di stampo realista, che,
anche nel diritto, guardi alla dimensione concreta del
presente 65.
Ed è pur vero che soprattutto il diritto dell’UE spinge
verso la ricerca del rimedio effettivo, ma il contesto
all’interno di cui ciò deve avvenire è un sistema che si
costruisce a partire dal dialogo fra norma e giudici 66.
Ne risulta eroso il valore della certezza del diritto 67,
che, comunque, anche storicamente non trova il suo
unico referente nella legge.
Di fronte a tutto ciò, il lavoro del giurista, lungi dal
subire interruzioni o limitazioni, piuttosto cambia forma, prosegue, ma con nuovi orizzonti, imposti dalla
necessità di compiere una riflessione ‘‘su come applicare diritti, principi e clausole generali in base a fonti
giuridiche che diversificano le posizioni soggettive dei
privati e inducono a percepire le differenze e la fonte
generatrice delle diseguaglianze’’ 68. Tale riflessione dovrà avvenire grazie ad una tecnica argomentativa nuova, ma rigorosa al pari della dogmatica tradizionale 69.
Per tornare all’ordinanza in esame, si può affermare
che un esame più approfondito di essa svela il suo
essere sintomatica di una modalità di ius dicere assai
caratteristica delle corti europee, fortemente orientata
verso la ricerca di un principio di effettività della tutela, che privilegia l’aspetto assiologico della vicenda, a
63
ss.
Vettori, Regole e principi. Un decalogo, in Pers. e merc., 2015, 51
64
Id., Contratto giusto e rimedi effettivi, cit., 15.
V. ancora Id., op. ult. cit., 11, secondo cui ‘‘Il giurista è sempre
meno appagato da un ossequio al linguaggio e alle procedure per ricercare la verità parziale del proprio tempo, capace di orientare e determinare l’opera dell’interprete, condizionato sempre più da un’oggettività legata ad una dimensione concreta del presente e dell’esserci’’.
66 In proposito, con particolare riguardo al ruolo della giurisprudenza, anche nell’ottica di una crescente convergenza degli ordinamenti di
civil law e di quelli di common law, v. S. Patti, L’interpretazione, il ruolo
della giurisprudenza e le fonti del diritto privato, in La metafora delle fonti e il
diritto privato europeo, cit., 163 (anche in Foro it., 2014, IV, 114 ss.).
67 Sul cui valore e i relativi punti di ‘‘rottura’’, fra cui, in primis, il
diritto dell’UE, v. l’accurata analisi di. Lipari, I civilisti e la certezza del
diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 1115 ss.
68 Cosı̀ ancora Vettori, op. ult. cit., 11.
69 Lo stesso a., in più di uno scritto (cfr. sopr. Regole e principi. Un
decalogo, cit., 56, ma anche Contratto giusto e rimedi effettivi, cit., 11 ss.)
individua precisi ‘‘antidoti’’ contro il rischio di fare abuso dei principi.
Tra questi, in primo luogo il fatto e l’argomentazione - nel senso che la
ricostruzione puntuale della fattispecie dovrà indicare subito i termini
entro cui si articola la conseguente risposta al problema della vita e sarà
la tecnica argomentativa a dare conto di come dovranno essere impiegate le regole e i principi - ma anche la distinzione fra due piani spesso
65
1242
discapito dell’intermediazione legislativa, nonché forse
della stessa argomentazione giuridica 70.
In effetti, soprattutto nella parte della decisione fondamentale ai fini della risoluzione del caso - in
cui si distingue fra rapporto principale e rapporto di
garanzia, il profilo relativo all’accessorietà del secondo
rispetto al primo viene scarsamente considerato, e quasi ‘‘messo da parte’’ ai fini che qui interessano. Le implicazioni giuridiche dell’accessorietà risultano, in effetti, quanto meno tralasciate.
Eppure, proprio tale aspetto rappresenta il fulcro argomentativo delle decisioni che la Cassazione ha finora fornito sul punto, sebbene non manchino, sul punto, altre pronunce della stessa Corte di legittimità che
limitano l’operatività della regola di accessorietà della
garanzia, dimostrando che non di un principio assoluto
si tratta 71.
Invero, quanto osservato con riguardo al principio di
effettività non significa comunque che la soluzione,
sostenuta dalla Corte nel caso di specie - per quanto
insufficientemente motivata - non abbia un fondamento scientifico solido. Non a caso tale prospettazione
non è nuova né alle pronunce giurisdizionali di altri
paesi, né allo stesso panorama italiano, in cui pur tuttavia risulta ancora minoritaria.
6. Da ultimo: una possibile svolta della Cassazione?
Una recentissima sentenza dei giudici di legittimità
sembra muoversi in direzione opposta rispetto alla salda adesione all’assorbente principio di accessorietà della garanzia, manifestando un’apertura decisamente
maggiore in proposito, che forse segna una vera e propria svolta giurisprudenziale 72.
confusi: quello del diritto ad un ricorso effettivo, inteso quale possibilità
di agire, attivando una tutela giurisdizionale effettiva, e quello del
diritto ad rimedio effettivo, che consente di ottenere nel processo tutte
le tutele che consentano la piena soddisfazione del diritto azionato.
70 Nella decisione sembra cioè emergere con evidenza quella confusione e sovrapposizione fra diritti fondamentali e principi generali,
denunziata da Alpa, I ‘‘principi fondamentali’’ e l’armonizzazione del
diritto contrattuale europeo, in Contr. e impr., 2013, 825 ss., il quale
osserva proprio come la Corte di giustizia dell’UE tenda, nelle proprie
decisioni, a utilizzare i diritti fondamentali quali principi generali di
diritto contrattuale. Cfr. sopr. 834 ss.
71 Cosı̀, di recente, Cass., sez. un., 5.12.2011, n. 25934, il cui testo è
reperibile all’indirizzo www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=7224#.VK5aESuG98E, cosı̀ massimata: ‘‘Pur se fra loro collegate,
l’obbligazione principale e quella fideiussoria mantengono una propria
individualità sia oggettiva che soggettiva, con la conseguenza che la
disciplina della prima non può refluire sulla seconda, per la quale
continuano perciò a valere le normali regole, comprese quelle sulla
giurisdizione’’.
In precedenza, le sezioni unite si erano già pronunciate in tal senso
con Cass., sez. un., 5.2.2008, n. 2655. Per un’analisi dei contenuti della
pronuncia cfr. Gianniti-Bonamassa-Grande (a cura di), Sentenze
scelte in materia civile e penale. Aggiornamento 2008, Utet, 2008, 77 ss.
72 Si tratta di Cass., 1º.2.2016, n. 1869, in Giur. it., 2016, 817 ss.,
con nota di Capoccetti, La nozione di ‘‘consumatore’’ nella disciplina
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In tale occasione, la Cassazione è stata chiamata a
pronunciarsi sui requisiti necessari ai fini dell’accesso
alla procedura in favore del ‘‘debitore civile’’ sovraindebitato, introdotta dalla l. 27.1.2012, n. 3 73.
Il relativo ricorso viene ritenuto inammissibile per la
genericità delle contestazioni con esso avanzate, nonché perché rivolto a censurare una pronuncia priva di
carattere decisorio. Eppure, il Collegio ha ritenuto che
la questione giustificasse, per la sua particolare importanza, l’enunciazione ai sensi dell’art. 363, comma 3º,
cod. proc. civ. del principio di diritto circa la delimitazione della nozione di consumatore, rilevante al fine
dell’accesso ai benefici di cui alla l. n. 3/2012.
Nonostante il carattere sintetico, ed in alcuni passaggi quasi ermetico, la pronuncia della Cassazione che è senz’altro destinata a suscitare ampio dibattito in
tema di legittimazione all’accesso alle procedure di
esdebitazione in favore del debitore civile - presenta,
al fine che qui interessa, un carattere particolarmente
significativo laddove osserva come, ai fini dell’attribuzione della qualifica di consumatore, meritino di essere
considerate anche ‘‘le esigenze personali o familiari o della
più ampia sfera attinente agli impegni derivanti dall’estrinsecazione della propria personalità sociale’’. Viene posta
dunque particolare enfasi sul piano soggettivo della
vicenda, in linea, d’altronde, con le suggestioni provenienti dal contesto europeo, e, da ultimo, proprio dalla
recente ordinanza della Corte giust. UE esaminata.
La sentenza della Cassazione si dimostra inoltre di
particolare interesse laddove, nel definire ulteriormente la nozione di consumatore, aggiunge altresı̀ che i
‘‘suddetti impegni’’ possono essere ‘‘anche a favore di ter-
zi’’, purché ‘‘senza riflessi diretti in un’attività d’impresa o
professionale propria’’.
Con tale significativo inciso, la Suprema Corte sembra aprire l’accesso alla procedura di esdebitazione anche per i debiti derivanti da impegni presi a favore di
terzi, quali proprio le fideiussioni, purché essi non producano riflessi su una propria attività d’impresa, andando di contrario avviso rispetto alla giurisprudenza
di merito, che aveva finora fermamente negato tale
possibilità 74.
In sostanza, la sentenza sembra per la prima volta
includere nella nozione di consumatore, essenziale ai
fini dell’applicazione della disciplina in questione, anche il fideiussore che agisca quale ‘‘privato’’, cioè in
assenza di ogni collegamento con l’attività professionale eventualmente svolta. La portata di tale decisione,
resa in materia di sovraindebitamento, è in realtà ben
più ampia perché incide sulla stessa delimitazione della
nozione di consumatore, ed apre nuovi scenari per la
configurazione a pieno titolo di un garante-consumatore.
Non è escluso, pertanto, che l’impostazione accolta
dalla pronuncia possa provocare un allineamento più
deciso della giurisprudenza nazionale a quella della
Corte di giustizia europea, lungo il percorso dell’attenuazione del peso (finora ritenuto determinante) del
carattere accessorio della garanzia, per favorire - in
un’ottica più pragmatica, benché accompagnata dalle
dovute cautele - un’indagine rivolta al profilo ‘‘personalista’’ del soggetto sulla cui qualifica ci si interroghi,
con particolare attenzione alla vicenda economica
complessivamente considerata.
della crisi da sovraindebitamento; e in Fallimento, 2016, 405 ss., con
commento di Ferro, Accesso di professionisti e imprenditori al piano del
consumatore.
73 In proposito, v. Pellecchia, Dall’insolvenza al sovraindebitamento:
interesse del debitore alla liberazione e ristrutturazione dei debiti, Giappichelli, 2012; Di Marzio-Macario-Terranova (a cura di), Composizione della crisi da sovraindebitamento: in vigore dal 29 febbraio 2012,
Hoepli, 2012; Cerini, Sovraindebitamento e consumer bankruptcy: tra
punizione e perdono, Giuffrè, 2012.
74 Cfr. Trib. Bergamo, decr. 12.12.2014, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/11822.pdf, secondo il quale la qualità del debitore principale attrae quella del fideiussore, e non può quindi essere ammesso
alla procedura del sovraindebitamento il soggetto gravato da obbligazioni derivanti anche dalle garanzie personali prestate nell’interesse di
una società esercente attività di impresa.
Sulla stessa linea, Trib. Milano, ord. 16.5.2015, in www.ilcaso.it/
giurisprudenza/archivio/13047.pdf, secondo cui la verifica circa la sussistenza del requisito di cui all’art. 6 l. n. 3/2012 - ossia la qualifica di
consumatore del soggetto che chiede di essere ammesso alla procedura
di composizione della crisi da sovraindebitamento - deve essere effettuata intendendo in senso stretto e rigoroso il rapporto di funzionalità al
privato consumo delle obbligazioni contratte. In particolare, l’obbligazione fideiussoria contratta dal socio unico e amministratore unico per
assicurare finanziamenti alla relativa società non viene considerata
attinente alla sfera personale e familiare del soggetto, il quale non
può quindi qualificarsi come consumatore ai fini dell’accesso alla procedura.
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La giurisprudenza della Corte
di giustizia dell’Unione europea
in tema di rilievo officioso dell’abusività
di una clausola contrattuale
e le sue ricadute sul piano interno
di Nicola Rumine*
SOMMARIO: 1. I precedenti della Corte di giustizia in punto di rilievo officioso dell’abusività di una clausola
contrattuale nei contratti del consumatore. - 2. Una recente pronuncia della Corte di giustizia, 16.2.2016,
causa 49/14, c.d. Zambrano. - 3. Il dialogo con la giurisprudenza nazionale e i profili di contrasto. - 4. Segue:
i limiti di ammissibilità delle c.d. nullità di protezione virtuale.
Una recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (Corte giust. UE, 16.2.2016, causa
C-49/14, c.d. Zambrano), apportando significative novità al dibattito giurisprudenziale sorto intorno al rilievo officioso del carattere abusivo di una clausola nei
contratti del consumatore 1, offre l’occasione per ripercorrere le tappe principali di tale dibattito 2 e, in secondo luogo, per esaminare il suo grado di penetrazione nell’ordinamento interno ed individuare alcune
possibili linee di approfondimento per l’operatore.
La pronuncia, che si segnala nella parte in cui la
Corte afferma per la prima volta la necessità di derogare al principio dell’intangibilità del giudicato in nome dell’esigenza del rilievo d’ufficio di una clausola
abusiva 3, costituisce infatti l’ultima tappa di un percorso giurisprudenziale a sua volta articolato e per varie
ragioni innovativo rispetto ai principi e alle regole del
diritto interno, sia di carattere sostanziale che processuale.
In premessa è utile segnalare che i parametri normativi utilizzati nei citati arresti sono costituiti dall’art. 6
della direttiva n. 93/13 CEE del Consiglio 4, del 5 aprile 1993, a mente del quale le clausole abusive non
vincolano il consumatore alle condizioni stabilite dalle
legislazioni nazionali, e dall’art. 7 della medesima direttiva 5, secondo cui gli Stati membri sono chiamati
* Contributo pubblicato in base a referee.
1 Per introdursi al tema del rilievo d’ufficio e, più in generale, delle
nullità di protezione: Di Majo, Il contratto in generale, nel Trattato
Bessone, VII, Utet, 2002, 127 ss.; Roppo, Il contratto, nel Trattato
Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, 705 ss.; Mantovani, I rimedi, nel Trattato
del contratto Roppo, II, Giuffrè, 2006, 1 ss.
2 Per una rassegna delle sentenze della Corte di giustizia in tema di
rilievo officioso e per un esame delle relative criticità, anche nel confronto con la giurisprudenza nazionale: Girolami, Le nullità dell’art.
127 t.u.b. (con l’obiter delle Sezioni unite 2014), in Banca, borsa, tit.
cred., 2015, 172 ss.; Alessi, Nullità di protezione e poteri del giudice tra
Corte di giustizia e sezioni unite della Corte di Cassazione, in Eur. e dir.
priv., 2014,1141 ss.; Della Negra, Il controllo d’ufficio sul significativo
squilibrio nella giurisprudenza europea, in Pers. e merc., 2014, 71 ss.;
Valle, La nullità delle clausole vessatorie: le pronunce della Corte di
giustizia dell’Unione europea e il confronto con le altre nullità di protezione,
in Contr. e impr., 2011, 1366 ss.; Prisco, Il rilievo d’ufficio delle nullità
tra certezza del diritto ed effettività della tutela, in Rass. dir. civ., 2010,
1227 ss.
Ulteriori riferimenti bibliografici circa la suddetta giurisprudenza in
Carrano, Clausole vessatorie e rilevabilità d’ufficio delle nullità di protezione, in questa Rivista, 2014, II, 727 ss., De Hippolytis-Palmieri, In
tema di clausole abusive nei contratti dei consumatori, in Foro it., 2014, I,
40 ss.; De Hippolytis, Sui poteri del giudice in tema di clausole abusive di
un contratto, in Foro it., 2013, IV, 202 ss.
3 Sul rapporto col principio di giudicato, ripercorrendo la giurisprudenza della Corte di giustizia, si veda per tutti Lo Schiavo, La Corte di
giustizia ridimensiona progressivamente il principio nazionale di cosa giudicata, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2010, I, 287 ss.
4 Art. 6, § 1º: ‘‘Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive
contenute in un contratto stipulato tra il consumatore e un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro
legislazioni nazionali e che il contratto resti vincolante per le parti
secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le
clausole abusive’’.
5 Art. 7, § 1º: ‘‘Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei
1. I precedenti della Corte di giustizia in punto di
rilievo officioso dell’abusività di una clausola contrattuale nei contratti del consumatore.
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ad adottare mezzi adeguati ed efficaci per far cessare
l’inserzione delle clausole abusive tra professionisti e
consumatori.
Si è soliti ricondurre l’avvio del filone giurisprudenziale in esame alla sentenza c.d. Océano Grupo Editorial
SA (Corte giust. CE, 27.6.2000, cause da C-240/98
a C-244/98) 6, ove la Corte afferma per la prima volta,
con riferimento alla clausola che aveva stabilito un
foro di competenza esclusiva a favore del professionista, che a fronte del citato art. 6 il principio di effettività attribuisce al giudice la facoltà del rilievo officioso
dell’abusività.
Com’è noto il principio di effettività, insieme a quello di equivalenza, è ritenuto limite alla libertà procedurale degli Stati membri e comporta il dovere di questi ultimi di non rendere impossibile o eccessivamente
difficile l’esercizio di un diritto attribuito dalla normativa dell’Unione; la relativa valutazione va però compiuta tenendo conto di altre esigenze e valori processuali, in particolare i principi fondamentali della tutela
del diritto di difesa, della certezza del diritto e del
rispetto del contraddittorio.
L’intervento di un terzo sarebbe dunque imposto dal
principio di effettività, quale unico strumento che permette di riequilibrare il rapporto contrattuale, in considerazione della situazione di debolezza in cui versa il
consumatore, apprezzabile sia sotto il profilo delle informazioni, sia per quanto concerne il potere nelle
trattative. Infatti il consumatore, in virtù di tale situazione, ad esempio per il fatto di ignorare la portata dei
suoi diritti, ma anche per evitare di sostenere i costi
della lite, potrebbe non far valere l’abusività di fronte a
un giudice. La Corte, in definitiva, intende affermare
che, essendo l’intera direttiva posta a protezione di una
parte debole, risulterebbe contraddittorio non agevolare il rilievo d’ufficio, lasciando l’iniziativa alla parte
debole stessa 7.
Il mezzo è inoltre giudicato coerente con l’art. 7,
producendo un effetto dissuasivo simile a quello delle
azioni collettive inibitorie.
I principi appena visti sono confermati, con identica
motivazione, nella successiva pronuncia c.d. Cofidis
(Corte giust. CE, 21.11.2002, causa C-473/00) 8,
in cui la Corte era stata chiamata ad esaminare la
clausola contrattuale che impediva al consumatore di
rilevare la vessatorietà di una clausola decorso il termine di due anni dalla conclusione del contratto.
Profili di novità sono invece presenti nella sentenza
c.d. Mostaza Claro (Corte giust. CE, 26.10.2006,
causa C-168/05) 9, ove la Corte, a fronte del dubbio
sollevato dal rimettente circa la possibilità di effettuare
il rilievo in sede di impugnazione del lodo arbitrale,
all’interno del quale il consumatore non aveva peraltro
prospettato alcuna questione in punto di abusività,
pare per la prima volta affermare l’obbligo - dunque
non più la sola facoltà - della rilevazione d’ufficio.
Ulteriore motivo di interesse è dato dal fatto che l’art.
6 della direttiva è qualificato come norma di ordine
pubblico, cui aveva fatto riferimento anche l’Avvocato
generale nelle conclusioni della sentenza c.d. Océano
discorrendo, precisamente, di ordine pubblico economico.
Nella sentenza c.d. Pannon (Corte giust. CE,
4.6.2009, causa C-243/08) 10, dando seguito all’arresto
appena visto, si afferma chiaramente che il giudice
nazionale ha l’obbligo di rilevare l’abusività di una
clausola ed è infatti la pronuncia cui generalmente si
attribuisce la paternità dell’affermazione. Tale obbligo,
si aggiunge, sussiste a partire dal momento in cui il
giudice dispone degli elementi necessari, pur non chiarendosi se questi possa, a tal fine, azionare i poteri
officiosi. Si precisa, infine, che a mente dell’art. 6 la
clausola abusiva sopravvive nel caso in cui il consumatore manifesti una volontà contraria alla caducazione.
Con la sentenza c.d. Asturcom (Corte giust. CE,
6.10.2009, causa C-40/08) 11 si stabilisce un livello
ancora più elevato di tutela, concludendosi, con riferimento alla clausola attributiva della competenza a un
collegio arbitrale, che il predetto obbligo sussiste anche
concorrenti professionali provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati
tra un professionista e dei consumatori’’.
6 In Eur. e dir. priv., 2000, 1173 ss., con nota di Orestano, Rilevabilità d’ufficio della vessatorietà delle clausole.
7 Questa la formula che compare ormai tralaticiamente nelle motivazioni della Corte, presente anche nella sentenza c.d. Océano, al § 25º:
‘‘(...) si deve ricordare che il sistema di tutela istituito dalla direttiva è fondato
sull’idea che il consumatore si trovi in situazione di inferiorità rispetto al
professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di
informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte
dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse. L’obiettivo
perseguito dall’art. 6 della direttiva, che obbliga gli Stati membri a prevedere
che le clausole vessatorie non vincolino i consumatori, non potrebbe essere
conseguito se questi ultimi fossero tenuti a eccepire essi stessi la illiceità di tali
clausole’’. Circa l’evoluzione della nozione di consumatore nella giurisprudenza europea, si veda Della Negra, Il diritto del consumatore ed i
consumatori nel quadro giuridico europeo. Alcuni spunti di riflessione sui
recenti orientamenti della Corte di giustizia, in Pers. e merc., 2013, 309 ss.
8 In Foro it., 2003, IV, 16.
9 In Danno e resp., 2007, 875 ss., con nota di Pastorelli, Rilevabilità della nullità della clausola compromissoria in sede di impugnazione del
lodo.
10 In Contratti, 2009, 1115 ss., commentata da Monticelli, La
rilevabilità d’ufficio condizionata delle nullità di protezione: il nuovo ‘‘atto’’
della Corte di giustizia. Si riporta il passaggio di maggior interesse: ‘‘(...) il
ruolo cosı̀ attribuito al giudice nazionale dal diritto comunitario nell’ambito di
cui trattasi non si limita alla semplice facoltà di pronunciarsi sull’eventuale
natura abusiva di una clausola contrattuale, bensı̀ comporta parimenti l’obbligo di esaminare d’ufficio tale questione, a partire dal momento in cui
dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, incluso il caso
in cui deve pronunciarsi sulla propria competenza territoriale’’.
11 In Corr. giur., 2010, II, 170 ss., con nota di Lo Schiavo, op. cit.,
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in fase di esecuzione del giudicato. Si ritiene violato il
principio di equivalenza, sulla base della considerazione che l’ordinamento spagnolo permette di superare il
giudicato qualora siano state violate norme di ordine
pubblico. Il principio di equivalenza, come già osservato, costituisce il secondo limite alla libertà procedurale degli Stati ed impone infatti di non realizzare discriminazioni nell’applicazione delle norme di diritto
interno rispetto a quelle europee del medesimo rango.
In definitiva il riferimento all’ordine pubblico permette di rafforzare l’idea che il rilievo d’ufficio non è
solo un presidio del consumatore, ma è anche posto a
tutela di interessi generali. Medesima conclusione si
rinviene nella successiva ordinanza c.d. Pohotovost
(Corte giust. UE, 16.11.2010, causa C-76/10) 12.
Una delle affermazioni più discusse, per i problemi che
suscita negli ordinamenti nazionali con riferimento al
principio dispositivo, è quella contenuta nella pronuncia
relativa al caso c.d. Penzugyi (Corte giust. UE,
9.12.2010, causa C-137/08) 13, in cui la Corte sostiene,
superando i dubbi lasciati aperti dalla sentenza c.d. Pannon, che il giudice è tenuto ad adottare misure istruttorie
d’ufficio per accertare che la clausola, nel caso di specie
attributiva di un foro esclusivo, rientri nell’ambito di
applicazione della direttiva e quindi, secondo quanto
chiarito dalla Corte stessa, se essa sia stata o meno oggetto di trattativa. La soluzione, che non si segnala per
una motivazione articolata, pare supportata dal mero
riferimento all’art. 6 e dalla funzione, che attraverso di
esso si persegue, di riequilibrare il rapporto contrattuale.
In tempi recenti la sentenza c.d. Banco Español de
Crédito (Corte giust. UE, 14.6.2012, causa C-618/
10) 14 ha esteso l’obbligo di rilevazione anche al procedimento ingiuntivo, con riferimento a un caso giudiziario in cui la competenza ad emanare il relativo
decreto era ancora affidata a un giudice. In proposito
è d’interesse segnalare le vibranti critiche mosse dall’Avvocato generale all’estensione dei principi espressi
dalla giurisprudenza pregressa, in particolare dalla sentenza c.d. Penzugyi, a tale procedimento, che risponde
invece a esigenze di speditezza.
La sentenza si sofferma inoltre, per la prima volta,
sulla possibilità di integrare il contratto in seguito alla
dichiarazione di abusività e fornisce una risposta recisamente negativa, spinta a tale conclusione sia dalla lettera degli artt. 6 e 7, sia dallo scopo della direttiva (si
veda anche il considerando 21 15). D’altra parte il profes-
sionista, come è stato efficacemente notato, potrebbe
addirittura ‘‘tentare la fortuna’’, sperando che un giudice
intervenga in modo a lui comunque favorevole.
Gli effetti della conclusione del contratto sono esaminati dalla Corte di giustizia anche nella sentenza c.d.
Perenicova (Corte giust. UE, 15.3.2012, causa C453/10) 16, ove si osserva che la decisione giudiziale
circa il mantenimento in vita del contratto deve essere
condotta alla stregua di una valutazione obiettiva, che
tenga cioè in considerazione non soltanto gli interessi
dei consumatori, imponendo tale conclusione esigenze
di certezza dei traffici. Ciò, comunque, non impedisce
agli Stati di garantire un livello più elevato di tutela
per il consumatore e quindi anche di prevedere la
caducazione dell’intero contratto.
Mentre la distinzione tra rilievo e dichiarazione dell’abusività non risultava chiaramente tracciata nella
giurisprudenza precedente, si deve alla pronuncia c.d.
Banif Plus Bank (Corte giust. UE, 21.2.2013, causa
C-472/11) 17 la precisazione che il giudice, in ossequio
al principio di contraddittorio, è tenuto a informare le
parti dell’esistenza di una clausola abusiva prima di
dichiararla. Il giudice, peraltro, è abilitato alla dichiarazione anche in assenza di una domanda del consumatore, dovendo in definitiva ritenersi il silenzio del
consumatore equivalente al tacito assenso.
L’importanza del principio del contraddittorio, come
l’impossibilità di integrazione del contratto, anche soltanto per mezzo di norme dispositive, sono ribadite
dalle sentenze cc.dd. Asbeek Brusse (Corte giust.
UE, 30.5.2013, causa C-488/11) 18 e Joros (Corte
giust. UE, 30.5.2013, causa C-397/11) 19.
Per concludere il percorso giurisprudenziale occorre
infine osservare che nella sentenza c.d. Aziz (Corte
giust. UE, 14.3.2013, causa C-415/11) 20 si dichiara
che la direttiva comunitaria osta a una normativa nazionale che non permette al giudice del merito che sia
investito della questione dell’abusività di una clausola,
nel caso di contemporanea pendenza di un procedimento di esecuzione, di adottare misure provvisorie
per garantire l’efficacia della sua decisione.
12 In Obbl. e contr., 2011, 227 ss., con nota di Pagliantini, L’interpretazione più favorevole per il consumatore ed i poteri del giudice, in Riv.
dir. civ., 2012, 291 ss.
13 In Contratti, 2011, 113 ss., con nota di Patti, Oltre il caso Pannon:
poteri istruttori del giudice.
14 Ivi, 2013, 16 ss., con nota di D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e
‘‘massimo effetto utile’’ per il consumatore: nullità (parziale) necessaria della
clausola abusiva e integrazione del contratto.
15 Considerando 21: ‘‘(...) se (...) tali clausole figurano in detti contratti,
esse non vincoleranno il consumatore, e il contratto resta vincolante per le
parti secondo le stesse condizioni, qualora possa sussistere anche senza le
clausole abusive’’.
16 In Foro it., 2013, IV, 171 ss. Cfr. in proposito Pagliantini,
L’interpretazione più favorevole, cit., 291 ss.
17 Ivi, 2014, IV, 5 ss.
18 Ibidem, 3 ss.
19 Ibidem, 3 ss.
20 Ibidem, 5 ss.
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2. Una recente pronuncia della Corte di giustizia,
16.2.2016, causa 49/14, c.d. Zambrano.
È in questo contesto che si inserisce dunque la sentenza c.d. Zambrano, la cui novità, come già detto, è
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costituita dall’affermazione secondo cui al giudice nazionale è imposto il rilievo dell’abusività anche in sede
esecutiva.
Per quanto riguarda, innanzitutto, i fatti che hanno
occasionato il procedimento pregiudiziale, una società
di finanziamento aveva agito giudizialmente per il recupero del credito nascente da un contratto di mutuo,
poi risolto a causa del prolungato inadempimento del
consumatore.
La Corte di giustizia era stata dunque interrogata
circa la compatibilità del divieto di rilevare l’abusività
di una clausola contrattuale (dal contesto della sentenza si evince che la clausola sospettata di vessatorietà
concerneva gli interessi) in fase esecutiva, anche se
successiva al procedimento monitorio, che una modifica al codice di procedura spagnolo aveva riservato al
Secretario Judicial, ausiliario paragonabile al cancelliere,
precludendogli di chiedere l’intervento del giudice al
di fuori del caso in cui ritenesse non corretto l’importo
richiesto dall’istante.
Il giudice rimettente, per quel che più rileva, aveva
inoltre prospettato il contrasto rispetto al divieto incombente sul Secretario (contrasto rilevato, pur incidentalmente, anche dall’Avvocato generale), ma la
Corte ritiene di dover reinterpretare la domanda in
modo tale che il divieto di rilievo in sede esecutiva
sia valutato ‘‘tenuto conto’’ della fase giudiziale precedente.
Un dubbio interpretativo era stato infine posto rispetto all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali 21:
la Corte afferma di non potersi pronunciare in mancanza di elementi utili e non offre dunque chiarimenti
circa i rapporti con i principi di effettività e di equivalenza 22.
Giungendo al punto di maggior interesse, l’impostazione della Corte, del tutto coerente con i precedenti,
è estremamente pragmatica 23 e a dispetto delle dichiarazioni formali rivela una scarsa propensione a scendere a patti con le disposizioni processuali, anche fondamentali, dei singoli Paesi membri; si è al proposito
autorevolmente notato che la Corte di giustizia non
conosce concetti, ma politiche 24.
Il pragmatismo della Corte si palesa dunque, di nuovo, nel riferimento al principio di effettività: l’art. 6
della direttiva, nella parte in cui stabilisce che le clausole abusive non vincolano il consumatore, imponendo il rilievo giudiziale della clausola abusiva, determina
anche la necessità di superare il principio del giudicato
(e il connesso principio di certezza del diritto), che la
Corte aveva però a più riprese individuato come patrimonio degli Stati membri, ma anche dell’Unione.
Nel caso c.d. Asturcom, al contrario, la Corte aveva
invocato il principio di equivalenza, anche se, è appena il caso di aggiungere, non aveva espressamente
escluso la violazione del principio di effettività.
Ai paragrafi da 43º a 45º, in particolare, la Corte
spiega le ragioni del contrasto e offre l’occasione di
evidenziare ulteriormente il pragmatismo che ispira le
sue decisioni: ‘‘(...) per quanto riguarda il principio di
effettività, la Corte ha ribadito più volte che ciascun caso
in cui si pone la questione se una disposizione processuale
nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta disposizione nell’insieme del
procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello
stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali
(...). Sotto tale profilo, si devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale
nazionale, quali la tutela dei diritti di difesa, il principio
della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (...). Nella fattispecie, occorre osservare che lo
svolgimento e le peculiarità d’ingiunzione di pagamento
spagnolo sono tali che, in assenza di circostanza che comportino l’intervento del giudice, (...) tale procedimento è
chiuso senza possibilità che venga eseguito un controllo
dell’esistenza di clausole abusive in un contratto stipulato
tra un professionista e un consumatore. Se, pertanto, il
giudice investito dell’esecuzione dell’ingiunzione di pagamento non è competente a valutare d’ufficio l’esistenza di
tali clausole, il consumatore, di fronte a un titolo esecutivo,
potrebbe trovarsi nella situazione di non poter beneficiare,
in nessuna fase del procedimento, della garanzia che venga
compiuta una tale valutazione. Orbene, alla luce di quanto
considerato, occorre constatare che un simile regime processuale è tale da compromettere l’effettività della tutela
voluta dalla direttiva 93/13’’.
Occorre a questo punto domandarsi quali siano le
reali motivazioni che hanno spinto la Corte a rivedere
21 L’art. 47, § 1º, cosı̀ recita: ‘‘Ogni individuo i cui diritti e le cui
libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un
ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni
previste nel presente articolo’’.
22 Si vedano intanto le conclusioni dell’Avvocato generale, paragrafi
da 89º a 91º: ‘‘A tale riguardo, benché io sia giunto alla conclusione che la
direttiva 93/13 e il principio di effettività ostano alle norme nazionali in
questione, una siffatta conclusione non può, a mio avviso, essere tratta dal
solo articolo 47 della Carta. Tale divergenza si spiega con il fatto che il livello
della tutela giurisdizionale dei diritti che i consumatori attingono dalla direttiva 93/13 è più ampio di quello che deriva, per qualsiasi parte di una controversia civile che coinvolge il diritto dell’Unione, dall’articolo 47 della
Carta. Infatti, come rileva correttamente la Commissione, l’articolo 47 della
Carta non osta, in generale, a che alcune decisioni rientranti nell’esercizio
della funzione giurisdizionale siamo emesse da un organo non giurisdizionale,
purché esse possano formare oggetto a posteriori di un controllo giurisdizionale’’.
23 In proposito utili riferimenti in Tesauro, Alcune riflessioni sul
ruolo della Corte di giustizia nell’evoluzione dell’Unione europea, in Dir.
un. eur., 2013, 483 ss. e, soprattutto, in Trocker, Il diritto processuale
europeo e le ‘‘tecniche’’ della sua formazione: l’opera della Corte di giustizia,
in Eur. e dir. priv., 2010, 361 ss.
24 Gentili, La ‘‘nullità di protezione’’, in Eur. e dir. priv., 2011, 77 ss.
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la propria giurisprudenza e se, conseguentemente, essa
possa trovare applicazione al di là della situazione particolare che l’ha determinata.
Risulta innanzitutto rilevante che nella pronuncia
sia stata data continuità all’affermazione che il consumatore è parte debole anche in termini processuali e
dunque soggetto al quale è necessario offrire supporto:
per la Corte non è sufficiente che al consumatore sia
data la possibilità di proporre opposizione, potendo
questi essere scoraggiato da una pluralità di circostanze,
non ultima l’ignoranza dei propri diritti.
Rilievo centrale, non sempre enfatizzato dalla Corte,
va poi attribuito anche al coinvolgimento di interessi
generali dell’Unione. D’altronde, se si esaminano i
considerando della direttiva, in particolare 2 25, 5 26 e
6 27, si evince che scopo della stessa è prima di tutto
quello di evitare distorsioni della concorrenza e di facilitare le contrattazioni del consumatore negli altri
Paesi membri, che in mancanza di una legislazione
comune sulle clausole abusive sarebbe fortemente scoraggiata. Dalla direttiva, in particolare, si desume l’idea
che il mercato dell’Unione potrà divenire realmente
unico soltanto quando il consumatore sarà consapevole che non sussistono taluni ostacoli relativamente alle
contrattazioni realizzate al di fuori dei confini nazionali. Solo in seconda istanza è indicata l’esigenza di tutela
del consumatore.
Interessi generali al fianco di quelli particolari, comunque, secondo uno schema motivazionale già sperimentato.
Un ruolo ugualmente significativo paiono poi svolgere le peculiarità del caso concreto e l’esigenza di
offrire una risposta utile al giudice rimettente, tra l’altro già sottolineata dall’Avvocato generale. Secondo
quest’ultimo, che lamentava criticità corrispondenti,
tra l’altro, alla verosimile mancanza degli elementi in
fatto necessari a compiere la valutazione di abusività
(che dovrebbe quindi determinare il giudice dell’esecuzione ad adottare misure istruttorie d’ufficio) e al
pregiudizio arrecato al principio di autorità della cosa
giudicata (pensiamo, tra l’altro, agli inconvenienti pratici conseguenti alla disapplicazione della norma interna che sancisce il principio), doveva affermarsi l’obbligo di un controllo nella fase esecutiva solo ‘‘a titolo di
eccezione e in mancanza di una soluzione migliore’’.
A tal proposito osserviamo che la Corte era inoltre a
conoscenza del fatto che il legislatore spagnolo stava
apprestandosi a modificare il codice di procedura in
modo tale che il cancelliere fosse tenuto a informare
il giudice in caso di sospetto dell’abusività di una clausola.
Volendo riassumere, la sentenza resa nel caso c.d.
Zambrano si colloca nel solco della giurisprudenza precedente, specialmente per il riferimento alla situazione
di debolezza del consumatore e all’intervento di riequilibrio del giudice, mentre presenta profili di novità per
quanto riguarda il superamento del giudicato, anche se
ne sono incerti gli sviluppi. Resta dunque da comprendere meglio quale ruolo abbiano svolto le particolarità
del caso concreto, soprattutto in considerazione dell’importanza che è stata a più riprese attribuita al giudicato dalla medesima Corte.
La Corte subordina invero il superamento del giudicato alla circostanza che non vi sia stato un giudice
abilitato a eseguire il controllo di abusività, eventualità
dunque del tutto peculiare e allo stato inidonea a conferire valore dirompente alla sentenza in commento.
La pronuncia ha però il merito di aver posto con forza
il problema, per la prima volta, anche agli studiosi e
agli operatori in materia, che dovranno dunque domandarsi se il bilanciamento tra i valori in gioco possa
in futuro concludersi diversamente: è ad esempio immaginabile, anche in dipendenza di ulteriori sviluppi
nel processo di armonizzazione e dunque del nuovo
ruolo attribuito al bene concorrenza, che il rango di
norma di ordine pubblico riconosciuto all’art. 6 della
direttiva citata porti la Corte ad ammettere il superamento del giudicato anche ove risulti dagli atti che un
giudice, pur avendone la possibilità, non abbia concretamente affrontato il problema dell’abusività. Indicazioni utili potrebbero nel frattempo giungere dal caso
c.d. Aktiv Kapital Portfolio Investment, causa C-122/11,
concernente questione identica a quella esaminata nella sentenza c.d. Zambrano, sui cui la Corte si pronuncerà a breve.
25 Considerando 2: ‘‘Considerando che le legislazioni degli Stati
membri relative alle clausole nei contratti stipulati tra il venditore di
beni o il prestatario di servizi, da un lato, ed il consumatore, dall’altro,
presentano notevoli disparità, con il risultato che i mercati nazionali
relativi alla vendita di beni ed all’offerta di servizi ai consumatori
differiscono l’uno dall’altro e possono manifestarsi distorsioni di concorrenza tra i venditori di beni e i prestatari di servizi soprattutto in caso
di commercializzazione in altri Stati membri’’.
26 Considerando 5: ‘‘Considerando che normalmente i consumatori
non conoscono le norme giuridiche che disciplinano, negli Stati membri diversi dai loro, i contratti relativi alla vendita di beni o all’offerta di
servizi; che tale ignoranza può distoglierli dalle transazioni dirette per
l’acquisto di beni o la prestazione di servizi in un altro Stato membro’’.
27 Considerando 6: ‘‘Considerando che, per facilitare la creazione del
mercato interno e per tutelare il cittadino che acquisisce, in qualità di
consumatore, beni o servizi mediante contratti disciplinati dalla legislazione di Stati membri diversi dal proprio, è indispensabile eliminare
le clausole abusive da tali contratti’’.
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3. Il dialogo con la giurisprudenza nazionale e i profili
di contrasto.
Intendiamo adesso verificare se le conclusioni principali raggiunte dalla sentenza in commento e da quelle che l’hanno preceduta siano effettivamente penetrate nell’ordinamento interno e soltanto accennare ad
alcuni problemi aperti in tema di rilievo d’ufficio della
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nullità di protezione, che, come è noto, costituisce lo
strumento cui ha fatto ricorso il nostro ordinamento,
fin dall’emanazione del c.d. codice del consumo, per
sanzionare l’inserimento di clausole abusive.
Pare opportuna una riflessione preliminare. L’accenno appena fatto alla libertà degli Stati di stabilire le
condizioni alle quali le clausole abusive non vincolano
il consumatore consente di osservare che, se le istituzioni dell’Unione Europea non hanno volutamente
compiuto scelte dogmatiche sul punto (abbiamo già
notato che questa conosce politiche e non concetti e
ricordato che l’art. 6 della direttiva n. 93/13 CEE fa in
proposito riferimento alle condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali), la Corte però, con la sentenza in
commento, sembra di fatto optare decisamente per una
forma grave di invalidità, tendenzialmente non in grado di produrre effetti e che può essere infatti rilevata
anche dopo la formazione del giudicato.
Orbene, l’obiettivo di misurare il grado di ricezione
delle regole europee conduce ad osservare che, sul piano interno, un tentativo di ordinare la materia delle
nullità di protezione, da sempre oscillanti tra il polo
della nullità e quello dell’annullabilità, è stato recentemente compiuto da Cass., sez. un., 12.12.2014, nn.
26242-26243 28, che costituiscono punto di riferimento
per le considerazioni che seguono.
Dalle suddette pronunce emerge la necessità di distinguere il momento della rilevazione, di carattere
obbligatorio, e quello della dichiarazione, quest’ultimo
meramente eventuale e comunque subordinato all’instaurazione del contraddittorio secondo gli strumenti
processuali di cui il giudice nazionale è stato recentemente dotato (art. 101, comma 2º, cod. proc. civ.,
inserito dalla l. 18.6.2009, n. 69). Nella fase del contraddittorio, infatti, il professionista potrebbe convincere il giudice della non abusività della clausola, ovvero dell’esistenza della trattativa, cosı̀ come il consumatore potrebbe esprimere la volontà di conservare la
clausola.
Devo però aggiungersi che per la Suprema Corte,
diversamente da quanto affermato nella sentenza c.d.
Banif Plus Bank, la declaratoria è subordinata alla proposizione della relativa domanda da parte della persona
fisica, dovendo altrimenti il giudice accogliere o rigettare la domanda per altro motivo. Secondo la Cassazione, inoltre, non si produce in questo caso l’effetto di
giudicato, in ragione delle peculiarità delle nullità di
protezione 29.
Un secondo elemento di confronto è dato dall’affermazione che le nullità speciali sono poste a presidio,
oltre che di interessi particolari, anche di interessi generali, conclusione utilizzata per spiegare l’obbligo generalizzato del rilievo officioso 30. Tra gli interessi generali di cui la Suprema Corte fa espressamente menzione vi sono il corretto funzionamento del mercato e
l’uguaglianza non solo formale tra contraenti forti e
deboli, che vengono però ricondotti al testo costituzionale (rispettivamente agli artt. 41 e 3 Cost.) e non ai
principi comunitari. Le sezioni unite, dando seguito ad
autorevole dottrina e spinte dall’esigenza di ricondurre
a unità la materia, ritengono dunque di poter rinvenire
interessi generali sul piano interno; sollevano comunque perplessità nella parte in cui ammettono che tali
interessi sono riscontrabili in qualsivoglia ipotesi di
nullità di protezione, caratterizzate invece, come diremo ancora, dalla molteplicità delle forme.
Porre l’accento sull’esistenza di interessi generali anche al di fuori dell’ambito applicativo della direttiva è
utile alla Corte, come appena detto, per giustificare il
rilievo officioso generalizzato. È possibile allora sottolineare che la Corte innova fortemente, non solo per
quanto concerne il rilievo delle nullità in generale,
tema rispetto al quale sono a tutti noti il tradizionale
orientamento contrario della giurisprudenza, solo isolatamente contrastato (recentemente da una pronuncia delle sezioni unite, che gli aveva però riconosciuto
un ambito applicativo limitato, corrispondente al giudizio in cui fosse stata proposta domanda di risoluzione
del contratto 31), e le variegate opinioni presenti nel
dibattito dottrinale, ma anche rispetto alle nullità c.d.
speciali o di protezione 32.
Terzo punto di riflessione attiene alla possibilità di
28 Cass., sez. un., 12.12.2014, nn. 26242-26243, in questa Rivista,
2015, I, 299 ss., con note di Pagliantini, Spigolando a margine di
Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243: le nullità tra
sanzione e protezione nel prisma delle prime precomprensioni interpretative,
185 ss.; di Scognamiglio, Il pragmatismo dei principi: le sezioni unite ed
il rilievo officioso delle nullità, 197 ss.; e di Rizzo, Il rilievo d’ufficio della
nullità preso sul serio, 315 ss.
29 Cfr. il § 7.3 delle sentenze appena citate.
30 Il rapporto tra interessi generali e particolari è indagato in particolare da Gentili, La ‘‘nullità di protezione’’, op. cit., 79, che ravvisa
finalità di protezione anche nelle ipotesi tradizionali di nullità, e Polidori, Nullità di protezione e interesse pubblico, in Rass. dir. civ., 2009,
1019 ss.
31 Un precedente autorevole, richiamato dalle medesime sezioni unite, è Cass., sez. un., 4.9.2012, n. 14828, in questa Rivista, 2013, I, 15
ss., ove tra l’altro si ripercorrono i termini essenziali del dibattito pre-
cedente, commentato da Scognamiglio, Il giudice e le nullità: punti
fermi e problemi aperti nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
32 Nella pronunce citate, al punto 3.13.2, si legge infatti: ‘‘Nullità che
non a torto è stata definita, all’esito del sopravvento del diritto europeo, ad
assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrata sull’assetto di
interessi concreto, con finalità essenzialmente conformativa del regolamento
contrattuale, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi e valori
fondamentali, che trascendono quelli del singolo. Si è cosı̀ osservato che, se le
nullità di protezione si caratterizzano per una precipua natura ancipite,
siccome funzionali nel contempo alla tutela di un interesse tanto generale
(l’integrità e l’efficienza del mercato, secondo l’insegnamento della giurisprudenza europea) quanto particolare/seriale (quello di cui risulta esponenziale la
classe dei consumatori o dei clienti), la omessa rilevazione officiosa della
nullità finirebbe per ridurre la tutela di quel bene primario consistente nella
deterrenza di ogni abuso in danno del contraente debole’’.
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‘‘convalida’’ data al consumatore, cui si è già accennato
e che costituisce a nostro avviso il profilo più delicato
tra quelli presi in considerazioni dalla Suprema Corte.
Le sezioni unite, anche sulla scorta del dato normativo
interno (in particolare l’art. 36 del c.d. codice del
consumo), confermano il potere di convalida e ne
fanno anzi una regola generale 33: la posizione di debolezza, infatti, basterebbe a giustificare, anche al di fuori
dell’ambito di applicazione della normativa consumeristica, la rinuncia alla tutela di interessi generali.
Il tema della ‘‘convalida’’, per la verità, porta con sé
ulteriori problemi, a cui è possibile fare solo un cenno,
quali il coordinamento con la regola della contumacia
e il silenzio del consumatore dopo il rilievo (situazione
nella quale le sezioni unite, come detto, escludono che
il giudice debba procedere alla dichiarazione della nullità speciale), gli effetti sostanziali della ‘‘convalida’’ (di
cui è però lecito dubitare, in mancanza di una norma
espressa, recependo il nostro ordinamento, come detto,
le diverse logiche dell’ordinamento comunitario), la
possibilità di ‘‘convalidare’’ prima del processo, l’ammissibilità di integrazione, giudiziale o legale, in caso di
caducazione della clausola 34.
Le sezioni unite accolgono però soluzioni anche notevolmente difformi da quelli della sentenza c.d. Zambrano e della giurisprudenza precedente.
L’osservazione riguarda in primo luogo la possibilità
di superare il giudicato 35: dagli arresti della Suprema
Corte si desume infatti con chiarezza che la formazione
del giudicato è stata fino ad oggi considerata limite
ultimo per il rilievo della nullità, anche di protezione.
Spetta peraltro agli studiosi del diritto costituzionale
indicare se, presente un simile contrasto sul piano interno, vi siano i presupposti per azionare i c.d. controlimiti di fronte alla Corte costituzionale 36.
All’affermazione, poi, che il giudice nazionale dovrebbe adottare misure istruttorie d’ufficio per verificare l’esistenza di una trattativa, le sezioni unite replicano che la nullità deve emergere ex actis. Al di là dei
tentativi di offrire letture minimaliste della sentenza
c.d. Penzugyi, cioè relative alle sole clausole determinative della competenza, si è giustamente notato che la
questione è spesso sdrammatizzata dal deposito in giudizio del contratto, circostanza che dovrebbe infatti
valere a verificare l’esistenza della trattativa.
Le risposte a tali ultimi interrogativi dipendono però,
come detto, dal fatto che si riconosca la possibilità di
applicare i relativi principi di diritto al di là delle situazioni particolari che hanno occasionato la loro
enunciazione.
33 Oltre alla dialettica interessi generali e particolari, che segna l’intera motivazione, cfr. specificamente il § 3.13.2, ove la Corte di cassazione pare voler trasferire sul piano interno le conclusioni raggiunte
dalla giurisprudenza europea. Con riguardo ai rapporti tra rilievo d’ufficio e opposizione del consumatore alla dichiarazione di nullità: Pagliantini, La nullità di protezione tra rilevabilità d’ufficio e convalida:
lettere da Parigi e dalla Corte di giustizia, in Riv. dir. priv., 2009, 139
ss.; Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice:
alcuni punti fermi dopo le sentenze Joros e Asbeek Brusse, in Jus civile,
2013, 18 ss.; Passagnoli, Note critiche in tema di sanabilità e rinunziabilità delle nullità di protezione, in Obbl. e contr., 2013, 409 ss. Quest’ultimo autore pone l’accento sulla mancanza di effetti sostanziali dell’opposizione del consumatore; nello stesso senso Monticelli, op. cit.,
1119 ss. Sul punto si rinvia anche a Perlingieri, La convalida delle
nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, Edizioni Scientifiche
Italiane, 2011, oltre che al recente studio di Rizzuti, La sanabilità delle
nullità contrattuali, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, in particolare
108 ss.
34 Circa il mantenimento in vita e l’eventuale integrazione del contratto, dispositiva o giudiziale: Guadagno, Squilibrio contrattuale: profili
rimediali e intervento correttivo del giudice, in questa Rivista, 2015, II, 744
ss., che si segnala anche per riferire della soluzione, favorevole all’integrazione, adottata da taluni progetti di codificazione europea; Pagliantini, L’integrazione del contratto tra Corte di giustizia e nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il segmentarsi dei rimedi, in Contratti,
2013, 406 ss.; D’Adda, Giurisprudenza comunitaria, op. cit., 22 ss.
Sui rapporti col principio dispositivo dopo il caso c.d. Penzugyi:
Pagliantini, L’interpretazione più favorevole, cit., 291 ss.
35 Cfr. ancora Trocker, op. cit., 405 ss.
36 È a tutti noto il dibattito sorto intorno alla collocazione del giudicato tra i principi fondamentali, i soli evocati dalla giurisprudenza
costituzionale, specialmente a partire da Corte Cost., 27.12.1973, n.
183, c.d. Frontini, nell’ambito della c.d. teoria dei controlimiti. In questa sede pare opportuno ricordare che nella Carta fondamentale non è
presente alcun riferimento al principio del giudicato, ma che esso è
stato talvolta annoverato dalla dottrina tra i valori fondamentali invocando altre norme, segnatamente gli artt. 24 e 111 Cost. Per riferimenti
giurisprudenziali e per alcune possibili linee di sviluppo del dialogo tra
le Corti si veda Pulvirenti, Intangibilità del giudicato, primato del diritto
comunitario e teoria dei controlimiti costituzionali, in Riv. it. dir. pubbl.
comun., 2009, II, 341 ss. e Di Seri, Primauté del diritto comunitario e
principio della res iudicata nazionale: un difficile equilibrio, in Giur. it.,
2009, 2835 ss. Per una panoramica generale sulla c.d. teoria dei controlimiti cfr. Villani, I ‘‘controlimiti’’ nei rapporti tra diritto comunitario e diritto italiano, in Studi in onore di Vincenzo Starace, Editoriale
Scientifica, 2008, II, 1295 ss.
37 Sull’applicazione analogica della disciplina delle nullità di protezione sono fondamentali i contributi di Alessi, Nullità di protezione,
cit., e De Cristofaro, Le invalidità negoziali di protezione nel diritto
comunitario dei contratti, in Studi in onore di Giorgio Cian, a cura di De
Cristofaro, De Giorgi e Delle Monache, Cedam, 2010, I, 667
ss., che insiste sulle cautele che devono circondare l’operazione. Si
veda, in particolare, 692: ‘‘Siamo dunque ancora molto lontani non
solo dal poter predicare l’esistenza di una categoria generale di ‘invalidità negoziale’ comunitaria, ma anche dal poter prospettare - sulla base
del vigente diritto comunitario - l’esistenza di una categoria unitaria di
invalidità parziale ‘di protezione’ valevole per tutti i rapporti contrattuali caratterizzati da asimmetrie informative e disparità di potere contrattuale fra le parti, o anche soltanto per i rapporti contrattuali tra
consumatori e professionisti (...)’’. Nel medesimo senso, tra gli altri,
Nuzzo, Riflessioni in tema di nullità speciali, in Liber amicorum per Francesco Busnelli, a cura di Ponzanelli, Giuffrè, 2008, II, 233 ss.
Sulle nullità di protezione per violazione di norma imperativa (c.d.
nullità virtuale di protezione), cioè derivanti dalla violazione di una
1250
4. Segue: i limiti di ammissibilità delle c.d. nullità di
protezione virtuale.
Dopo avervi fatto cenno a più riprese, vogliamo infine porre l’accento sull’estensione della disciplina prevista dalla direttiva in considerazione ad altre ipotesi di
nullità, le c.d. nullità di protezione virtuale 37, avendo
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la giurisprudenza italiana compiuto passi ulteriori rispetto a quelli imposti dall’appartenenza all’Unione
Europea.
Con tale locuzione si fa riferimento alla possibilità di
applicare la disciplina delle nullità poste a protezione
della parte debole, quale risultante da una serie di
disposizioni esterne al tessuto codicistico, a partire dall’art. 36 del c.d. codice del consumo, oltre i casi espressamente considerati: infatti, alcuni tratti di disciplina
delle nullità di protezione, in considerazione della loro
sempre più frequente ricorrenza nella legislazione speciale, non potrebbero più essere considerati eccezionali
e quindi insuscettibili di applicazione analogica 38. Non
avrebbero più pregio, in definitiva, argomenti come
quello che fa leva sull’art. 1421 cod. civ., a mente
del quale dovrebbe ammettersi la legittimazione relativa all’azione di nullità nei soli casi previsti dalla legge 39.
Il nostro ordinamento, invero, conosce numerose
ipotesi di nullità di protezione, a partire da quelle di
stretta derivazione consumeristica (distinguibili al loro
interno a seconda che l’ordinamento nazionale abbia o
meno stabilito un livello di tutela più ampia) fino a
quelle inserite autonomamente dall’ordinamento nazionale. Fanno cosı̀ parte delle prime, oltre al fondamentale e già citato art. 36 del c.d. codice del consumo, agli artt. 134, comma 1º, e 143, comma 1º, del
medesimo codice, ad esempio l’art. 124, comma 1º, d.
legis. 1º.9.1993, n. 385; rientrano nelle seconde, citando di nuovo solo alcune ipotesi significative, gli artt. 4,
5, 6 e 9, comma 3º, l. 18.6.1998, n. 192, sulla subfornitura nelle attività produttive, l’art. 13 l. 9.12.1998,
n. 431 sulla locazione di immobili urbani destinati a
uso abitativo, l’art. 2, comma 1º, d. legis. 20.6.2005, n.
122 relativo alla tutela degli acquirenti degli immobili
in costruzione.
Ciò che allora preme sottolineare è che le varie previsioni normative possono differire tra loro notevolmente in punto di disciplina, prevedendosi ad esempio
in alcuni casi, come conseguenza della dichiarazione di
nullità, la caducazione dell’intero contratto in luogo
della singola clausola, oppure dandosi solo occasionalmente rilievo alla previa trattativa individuale tra le
parti.
La Corte di cassazione, come già detto, chiedendo
peraltro ausilio al principio di effettività della tutela,
ritiene però comune a qualsiasi ipotesi di nullità speciale il rilievo officioso e la possibilità della convalida,
per il modo particolare in cui si relazionano interessi
generali e particolari. Tali regole dovrebbero applicarsi
a ciascuna ipotesi di nullità di protezione, in assenza di
una disciplina specifica o completa, pur a fronte della
varietà delle forme caratterizzanti le nullità di protezione presenti nel nostro ordinamento, anche quelle di
origine comunitaria.
Il riferimento offre allora l’occasione per sottolineare
che l’interprete nazionale che andasse in cerca di ulteriori regole generali dovrebbe innanzitutto valutare se
alla loro formazione contribuiscano in modo decisivo
la normativa e la giurisprudenza dell’Unione; considerando che queste presidiano esigenze e logiche peculiari, peraltro molto varie, e che la Corte di giustizia ci
ha abituato a sviluppi imprevedibili, spinta anche dalla
necessità di rispondere alle esigenze del caso concreto,
dovrebbe quindi procedere con assoluta cautela.
presunta norma imperativa, in assenza della sanzione specifica della
nullità: Pagliantini, Nullità virtuali di protezione?, in Contratti, 2009,
1040 ss., e D’amico, Nullità virtuale - Nullità di protezione (Variazioni
sulla nullità), in Contratti, 2009, 732 ss., entrambi dubbiosi circa la loro
ammissibilità. Nello stesso senso le notissime sentenze Cass., sez. un.,
19.12.2007, nn. 26724-26725, in questa Rivista, 2008, II, 432 ss.
38 In tal senso, diffusamente, Passagnoli, Nullità speciali, Giuffrè,
1995.
39 Si legge al § 3.13.4 delle sentenze in commento: ‘‘Senza dire, poi,
come le nuove species di nullità esemplifichino casi totalmente ignoti al
legislatore del 1942, onde l’interrogativo su quanto sia (poco) razionale
invocare la nominatività dell’incipit dell’art. 1421 al fine di escludere un
non certo irragionevole ricorso al procedimento di integrazione analogica.
La riconduzione ad unità funzionale delle diverse fattispecie di nullità - lungi
dal risultare uno sterile esercizio teorico - consente di riaffermare a più forte
ragione l’esigenza di conferire al rilievo d’ufficio obbligatorio il carattere della
irrinunciabile garanzia dell’effettività della tutela dei valori fondamentali dell’organizzazione sociale’’.
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Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
ISSN 1593-7305
9
2016
La NUOVa
giurisprudenza
Civile commentata
anno XXXII
a cura di
Guido alpa e paolo zatti
La Rivista contribuisce a sostenere la ricerca
giusprivatistica nell’Università di Padova
9/2016
edicolaprofessionale.com/NGCC
Avvocato stabilito: dispensa dalla prova attitudinale
(Cass., sez. un., n. 5073/2016)
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
00202451
la nuova giurisprudenza civile commentata
RIVISTA mensilE
Autonomia processuale e tutela del consumatore
(Corte giust. UE, 18.2.2016, causa C-49/14)
Caso Englaro: responsabilità della P.A.
(T.A.R. Lombardia, 6.4.2016)
Ipoteca giudiziale eccessiva
(Cass., n. 6533/2016)
Foro del consumatore
(Cass., n. 2687/2016)
Adozione del figlio del partner
[In Parte prima Cass., n. 12962/2016]
Forma scritta e nullità
[In Parte prima Cass., n. 5919/2016 e Cass., n. 7068/2016]
Consumatore sovraindebitato
€ 30,00 i.v.a. inclusa
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