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PREFAZIONE
Lo Stato Pallavicino ebbe, per un secolo esatto (dal 1479 al 1579), due capitali: Busseto e Cortemaggiore
(quest'ultima, "città creata" — e la sua struttura ancor oggi lo dimostra -, come scrive Marco Boscarelli,
uno dei maggiori studiosi della realtà storica magiostrina, nel suo testo "Istituzioni e costumi fra
Piacenza e Cortemaggiore, ed. Tipleco). Anzi, più che due capitali di uno Stato, Busseto e Cortemaggiore
furono al di là dei condizionamenti impliciti nel sistema feudale — le capitali di due Stati, per un intero
secolo — come detto — autonomi. E lo Stato Pallavicino (per non dire gli Stati Pallavicino) era, con lo
Stato Landi, uno dei due poli —entrambi di diritto feudale — delle "terre traverse": espressione coniata
da Giovanni Tocci ("Le terre traverse — Poteri e territori dei Ducati di Parma e Piacenza tra Sei e
Settecento", ed. Il Mulino) "come emblematica di una situazione peculiare dei Ducati di Parma e
Piac'enza, di uno Stato, cioè, condizionato nella sua storia dalla collocazione di quelle terre e dalla loro
funzione; poste di traverso geograficamente, ma anche economicamente". In una parola: due Stati che
erano due spine nel fianco dei Farnese (viepiù impegnati a rafforzare quello Stato moderno che il primo
duca, Pierluigi, s'era dato a costruire e contro il quale la feudalità si era coalizzata — fino a giungere alla
sua uccisione — perché essa sapeva, lucidamente, come sarebbe andata a finire: con la soppressione delle
libertà ed autonomie che la dirigenza politica di allora aveva saputo, fino al '500, difendere e preservare).
Due Stati (quello Pallavicino e quello Landi) sui quali il Ducato (meglio, Io Stato moderno, oggi tanto
discusso nella sua pervasità ed elefantiaca realtà oppressiva, non solo fiscale) ebbe la meglio: sul primo,
con il blitz — per dirla con Tocci, ancora — di Alessandro Farnese del 1586-7, e sul secondo — in buona
sostanza — col danaro, che portò al suo acquisto dai Doria dopo la morte — senza successori — di
Polissena Landi, che un Doria aveva sposato. Consacratosi il perpetuarsi del Ducato, la decadenza di
Piacenza continuò (salvo che in un breve periodo, quello risorgimentale, guidato nel suo compimento
proprio da Giuseppe Manfredi, di Cortemaggiore) perché inserita da Paolo III in una realtà territoriale che
non era (e non è) la sua, del tutto estranea com 'è alle tradizioni, ai costumi e alle secolari convenienze dei
piacentini. Tutta questa premessa per dire l'importanza (e la funzione: i suoi Statuti regolarono la vita
della comunità magiostrina ben oltre la realtà politica che ad essi aveva dato vita, fino al 1800) dello Stato
Pallavicino e, conseguentemente, della pubblicazione — edita nelle benemerite ed. LIR — di Luigi Chini,
"1 Pallavicino, la storia di una famiglia longobarda" (il suo ultimo discendente, il marchese Pierluigi, è
recentemente scomparso, com 'è noto).
Luigi Chini è conosciuto come un capace ricercatore, e s'è impegnato in più tematiche (da ultimo, con un
monumentale volume su Giuseppe Verdi). Ma questo suo libro, dedicato, come visto, ad uno dei poli delle
"terre traverse", è — davvero — una eccezionale carrellata su una terra la cui storia meritava di essere
illustrata in tutti i suoi particolari. Chini l'ha fatto egregiamente. Auguri — di cuore — di molti,
meritatissimi lettori.
Corrado Sforza Fogliani
IL TRAMONTO DELL'IMPERO ROMANO E LE INVASIONI BARBARICHE
All'inizio del V secolo d.C. l'impero romano d'Occidente era ormai al tramonto, mentre si
susseguivano in Italia le invasioni barbariche, che devastavano e saccheggiavano i territori
settentrionali. Il 28 agosto 476 Odoacre, capo degli Eruli, raggiunse a Piacenza il generale
romano Oreste e lo decapitò; dopo aver saccheggiato la città, depose Romolo Augustolo. La
città, che era stata la culla della prima imperatrice di Roma, la moglie di Cesare, fu la tomba del
suo ultimo imperatore d'occidente.,
Il dominio di Odoacre terminò con l'arrivo di Teodorico, il re degli Ostrogoti, che, cresciuto alla
Corte di Costantinopoli, diventò signore dell'Italia col titolo di Patrizio romano e il
riconoscimento dell'imperatore d'Oriente. Nel 546 i Goti conquistarono Piacenza, tormentando
spesso i paesi posti alla destra del Po. Viene attribuita da alcuni studiosi a Teodorico
l'edificazione di Fontana Fredda (denominata Fontana di Teodorico) e di Godi, località sempre
nel piacentino. Dopo la morte di Teodorico (526 d.C.), i bizantini tentarono di riconquistare i
territori italiani, ma nel 569 d.C., guidati da Alboino, scesero in Italia i Longobardi, provenienti
dalle grandi pianure danubiane e nell'arco di tre anni compirono la loro conquista. Nel 570
Piacenza cadde nelle loro mani, mentre nel 603 fu la volta di Cremona, presidio bizantino di
vitale importanza per il controllo delle due sponde del Po.
I Longobardi suddivisero i territori conquistati in una trentina di ducati, suddivisi in base ai
nuclei di parentela (fare) e, poco a poco, si organizzarono, dando vita ad uno Stato longobardo.
La testimonianza più consistente della loro presenza nel nostro territorio si ha nei toponimi e
nei vocaboli del nostro dialetto. Derivano dal longobardo le località con suffisso in "engo":
Gossolengo (nel piacentino), Vidalengo (Vidalenzo nel parmense); ed "enga": Ardenga di
Soragna, strada Ardenga a San Pietro in Ceno. Il nome Balsemano, località nel comune di
Busseto, deriva dal longobardo Waldemann. Sono parole longobarde: skranna (sedia), strak
(stanco), trin-kan (bere), groz (grosso), blank (bianco), skauz (scusai, grembiule), kàmo-la
(camola, tarlo). Possiamo distinguere la storia religiosa dei longobardi in tre periodi: il primo
inizia fuori dell'Italia, appena prima dell'invasione, e riguarda l'adesione dei capi al
cristianesimo ariano, mentre il popolo rimane legato alle credenze pagane. Il secondo periodo,
dal 568 d.C. al 671, è caratterizzato da un'alternanza di sovrani ariani e cattolici, mentre
l'adesione completa alla fede cattolica romana apre nel 671 l'ultimo periodo, dove ormai il sovrano interloquisce con la Chiesa. E fu la volontà di assicurarsi i servizi e
l'obbedienza dei vescovi, che spinse i sovrani longobardi a moltiplicare le liberalità,
confermando l'autorità episcopale sui monasteri e rafforzando così la potenza del vescovo sia
sul piano materiale sia su quello spirituale.
Questo comportamento provocò un conflitto con il Papato, che non poteva tollerare di vedere
diminuita la sua autorità sulle sedi episcopali. La lotta tra il Papa e il re longobardo Desiderio
ebbe il suo epilogo nella primavera del 773 allorché Adriano I, sentendosi minacciato a Roma
dai progetti d'espansione di Desiderio, chiese l'intervento di Carlo Magno e del suo esercito che,
oltrepassate le Alpi, sconfisse la dominazione longobarda.
Il periodo della dominazione carolingia in Italia (774-887) si accompagnò ad un notevole
tentativo di accentramento dello Stato, operato con la lotta contro i distretti rurali longobardi.
I Franchi non erano venuti in Italia come i Longobardi, non era stata l'immigrazione di un
popolo che cercava un territorio dove stabilirsi. Il sovrano carolingio aveva condotto i suoi
guerrieri, le sue schiere alla conquista d'un territorio, d'un regno, d'una terra di cui voleva
assicurarsi il controllo e le rendite. In mancanza di un'emigrazione massiccia, il sovrano stabilì
delle piccole unità militari nelle città, nelle zone dotate di un'importanza strategica. L'attività
dei re franchi fu limitata essenzialmente al Nord e alla Toscana, mentre l'Italia centromeridionale restò, in sostanza, istituzionalmente longobarda, con strutture pubbliche di marca
longobarda e permanendo in vastissime plaghe un'economia silvo-pastorale dello stesso
stampo.
I Bizantini erano ancora presenti al sud in lembi di terra fortificati e provvisti di porti, per
mezzo dei quali la potenza di Bisanzio, enormemente ridotta in terraferma, cercava di
restaurare una prevalenza navale nei confronti della prodigiosa espansione degli arabi.
Limite all'intervento carolingio in Italia fu, dunque, il numero inadeguato di funzionari stabili e
fidati e la discontinuità, generata dagli interessi fa-migliari, della loro azione politica.
Il logoramento e la decadenza delle famiglie dell'alta nobiltà franca, alle quali era legato
l'intervento in Italia, concorsero a determinare la crisi del potere centrale e fu per sostenere il
potere regio in declino che i sovrani carolingi cercarono di legare i vescovi alla loro politica, non
potendo più contare efficacemente su un valido appoggio dei conti, le cui famiglie si stavano
avviando in tanti casi alla decadenza ed all'estinzione.
Il tentativo di salvare il Regno con ogni mezzo portò ad una serie di compromessi e di
concessioni agli aristocratici laici e ai vescovi, determinando la rovina dello stesso. La fine della
dominazione carolingia in Italia (887) diede inizio ad una serie di lotte tra le varie dinastie per il
possesso del trono reale italiano. Il territorio piacentino, punto di passaggio obbligato per
l'attraversamento del Po, rappresentava una posizione chiave e diventò perciò teatro di lotte.
Il dramma si complicò col fatto che i pretendenti al trono norr esitarono a ricorrere,
all'occasione, all'aiuto di nuovi invasori: gli Ungari. Dall'898 al 955 si susseguirono nella pianura
padana 13 invasioni, descritte dalle cronache ecclesiastiche con toni apocalittici.
Di fronte alla minaccia rappresentata dalle incursioni ungare, accompagnata dalla fase di
anarchia, gli aristocratici laici ed ecclesiastici decisero di costruire delle fortezze. Il territorio del
comitato piacentino si copri così di castelli, destinati a proteggere le ricchezze delle chiese e dei
monasteri contro i saccheggi e a proteggere le popolazioni locali, servendo loro di rifugio.
Ma quando le invasioni ungare ebbero fine, il movimento d'incastellamento proseguì, le
relazioni tra il signore e le popolazioni "protette" si trovarono profondamente trasformate.
Le invasioni barbariche dal V al VII sec. d.C.
Il castello diventò poco a poco il centro d'una nuova dominazione.
Nel 951 Ottone I, re di Germania, scese in Italia e, dopo aver sconfitto Berengario Il, si appropriò
del titolo di Re d'Italia; mentre nel 962 venne dal papa Giovanni XII proclamato imperatore del
Sacro Romano Impero.
I MARCHESI OBERTENGHI NEI SECOLI X — XI
Il secolo X, con la profonda crisi che aveva investito l'alta nobiltà franca, incapace di adattarsi ai
tempi nuovi e al nuovo ruolo, registrò l'ascesa sociale della nobiltà longobarda, emarginata in
età carolingia dagli alti gradi del potere. La chiesa episcopale, con la quale le famiglie
longobarde avevano mantenuto l'antico legame, rappresentava per l'imperatore un alleato
potente e alternativo e costituì, nella sua nuova capacità contrattuale, uno strumento
validissimo di potere per le famiglie che ad essa erano strettamente legate. Tra il 940 e il 960
pertanto, nacquero e si organizzarono le grandi famiglie marchionali: gli Arduini in Piemonte,
gli Alarami in Piemonte e in Liguria e gli Obertenghi (così chiamati i discendenti del marchese
Oberto) nella zona tra la Liguria, la Toscana e l'Emilia occidentale, imponendo alle autorità
politiche il riconoscimento della loro esistenza.
Adalberto, capostipite della linea Adalbertina, da cui derivarono i Pallavicino. Collezione privata.
Dai figli di Oberto, ebbero inizio la linea Adalbertina (con Adalberto 1) e la linea Obertina (con
Oberto, capostipite degli Estensi, e Oberto-Obizzo dal quale ebbero origine i Malaspina).
Adalberto II, marchese di Massa e Governatore della Marca Toscana, è ritenuto da molti il
diretto antenato dei Pallavicino, che, a cavallo del Mille, iniziarono l'inserimento nelle vallate di
Parma e Piacenza e, attraverso una politica matrimoniale mirata, nell'Aucia a nord della "via
francigena".
Adalberto II, nipote di Adalberto I, ebbe nel 1016 il comando delle flotte genovese e pisana
contro i Saraceni. Vicende politiche legate agli avvenimenti del tempo, lo portarono alla perdita
del feudo della Marca Toscana, compensata nel 1026 dall'investitura che Adalberto II ricevette
dall'imperatore Corrado il Salico del governo di Piacenza e del Contado dell'Atleta (quale
nipote del defunto Lanfranco conte di Piacenza). Da allora Adal berto 11 si stabilì a Busseto,
ampliando il borgo, fortificandone le mura ed erigendovi un castello. Sposò Adelaide, figlia del
conte Bosone di Parma, con la quale concorse ad erigere nel 1033 il monastero di S. Maria a
Castiglione (l'attuale Castione Marchesi), conferendo al nuovo monastero il castello con la corte
di Castione e la corte di Marcaregia.
Chiesa di Castione dei Marchesi.
Monastero di Castione dei Marchesi.
Nel corso dell'XI secolo, si formò una complessa rete di vassalli: si trattava di famiglie
importanti, proprietari rurali di un certo spessore, ai quali l'autorità principale (re, principi,
vescovi, comuni) concedeva un feudo o altri benefici che servivano a suggellare delle alleanze
più o meno durevoli, o ad ottenere delle semplici promesse di non aggressione. Il feudo
corrispondeva in genere a una porzione di territorio, sul quale il feudatario veniva ad esercitare
il suo dominio (giurisdizione penale e civile, oltre a vari censi e imposte), in cambio quindi della
fedeltà vassallatica e più tardi semplicemente di denaro.1
A volte era il signore locale che si riconosceva vassallo del potere maggiore, consegnandogli la
sua signoria, che gli veniva restituita immediatamente come feudo, per un tempo determinato,
aumentato in genere di un altro bene. La durata della concessione era nella maggior parte dei
casi di tre generazioni; al termine di questo intervallo, il feudo doveva tornare all'autorità
maggiore in piena proprietà: molte di queste concessioni, accordate in modo palese per tre sole
generazioni, diventavano di fatto perpetue, per un tacito accordo, per dimenticanza, per
usurpazione.
Nessuna notizia si ha di Alberto (figlio di Adalberto II), che si assicurò la discendenza con
Oberto I, ricordato come signore dell'Aucia e della Marca di Genova. Ma il primo a portare il
soprannome di Pelavicino, divenuto poi cognome e modificato più tardi in Pallavicino, fu un
pronipote di Adalberto II, il marchese Oberto II (morto nel 1148).2
Oberto II con l'aggiunta di Pelavisinus lo si trova indicato per la prima volta nel placito tenuto
dall'imperatore in Reggio, e col titolo di Obertus Marchio Pelavisinus nell'investitura di una
pezza di terra oltre il Po fatta dai Delegati della città di Cremona nel 1120. Nel 1122 Oberto II si
firmava Comes Palatinus, per cui oltre ad essere stato Capitano imperiale fu conte
1 Il feudo era generalmente un territorio, ma poteva corrispondere semplicemente alla concessione di un diritto, un
privilegio, una carica.
2 Secondo alcuni storici, il termine deriva dal fatto che Oberto, bramoso di potere, si arricchì a spese dei vicini, ai
quali fece guerra, di qui il nome di "Pelavisinus", mutato poi in Palavicino. Secondo l'opinione di altri, (Pala vicino)
deriva da "vicino al palazzo". Oberto infatti ebbe il titolo di "conte del Palazzo", carica onorifica che comportava il
giudicare nelle cause della Regia Camera e dei vassalli.
di Palazzo. Nel 1141 il Comune di Piacenza concluse un accordo con gli abitanti della Val di
Taro, i quali consegnarono ai piacentini tutti i loro beni allodiali (proprietà libere da vincoli e
tributi feudali) e quelli tenuti a livello (in godimento perpetuo), s'impegnarono ad accogliere la
moneta piacentina e ad aiutare Piacenza in caso di guerra, fornendo, ogni casa, un uomo col suo
equipaggiamento. Da parte sua, il Comune s'impegnava a perdonare ai Valtaresi tutti i loro
torti, sollevandoli dal dover rendere conto ai marchesi Malaspina, Cavalcabò e Pallavicino dei
loro comportamenti (Registrum Magnum del comune di Piacenza-Doc.n.149, vol.I).
Nel 1143 il marchese Oberto II divise i suoi beni tra i figli Guglielmo e Delfino. Guglielmo, che
aveva sposato una piacentina della famiglia dei Della Porta, ricevette le terre dell'Aucia
Occidentale; Delfino le terre orientali nelle vicinanze del Comune di Parma. Quest'ultima
donazione venne revocata da Oberto, in quanto il figlio Delfino era passato dalla parte di coloro
che avevano ucciso Tancredi, altro figlio di Oberto e per aver mosso guerra contro il padre. Nel
1145 le stesse proprietà furono da Ober-to Pallavicino cedute a titolo di allodio (pien'a
proprietà) al Comune di Piacenza: si trattava delle Corti di Soragna, Borgo S. Donnino,
Fontanellato, Parola, Medesano ed altre' terre. 11 marchese Oberto giurò fedeltà al Comune di
Piacenza e i suoi Consoli lo investirono come feudatario di tutte queste terre, con uguale diritto
per i discendenti. Da parte sua il marchese s'impegnava ad aiutare il popolo di Piacenza contro
Parma e Cremona, mentre i Piacentini avrebbero aiutato Oberto a recuperare e conservare tali
beni. Soprattutto Borgo S. Donnino era importante, per la sua posizione strategica: da qui si
controllavano gli approvvigionamenti di sale provenienti da Salsomaggiore e la strada per
raggiungere la Lunigiana. Tuttavia i Pallavicino, come vassalli dell'imperatore, continuavano a
mantenere il possesso dei castelli di Borgo S. Donnino e Bargone.
Curtis Maior in Aucia. Il tratteggio indica il territorio dell'Aucia come risulta dai documenti che vanno dall'VIII al X secolo d. C.
LA CORTE REGIA DELL'AUCIA: CORTEMAGGIORE
L'Aucia venne nominata per la prima volta nel diploma dell'845, col quale Ludovico di Francia
conferiva a sua nipote Ermengarda alcune "curtes" nell'Italia settentrionale: "Concessimus...
Curtem Maiorem in Piacentino Comitatu et in Aucia... ". La stessa Ermengarda ne fece dono al
monastero di S. Sisto di Piacenza nell'anno 890. Nel 910 un placito del re Berengario si
pronunciò a favore del vescovo Lando di Cremona, in una controversia tra questi e il gastaldo
della Corte regia di Castenedulum (il nome romano di Cortemaggiore) situata in Auciae, a
proposito delle esenzioni sui beni che Io stesso vescovo di Cremona possedeva nell'Aucia.
Ancora nel 990 si menzionava il Comitatus aucensis in una rassegna di beni pertinenti
all'abbazia di S. Silvestro di Nonantola. Il contado aucense appariva ancora nell'XI secolo, per
scomparire successivamente come entità propria, passando probabilmente a far parte integrale
del Comitato piacentino. Gli storici non hanno trovato un accordo nel determinare i confini per
quanto riguarda l'antico comitato aucense, la maggior parte sembra indirizzata a ritenerlo
compreso tra la Bassa Chiavenna e' l'Ongina, il territorio di Fiorenzuola e quello di Monticelli:
capoluogo della Corte Aucia era Corte-maggiore. Allargati i suoi confini, questo Contado
dell'Aucia con Busseto cambierà titolo e nome assumendo quello di Marca Pallavicino.
L' 11 aprile 1136 Bernardo, abate dell'abbazia francese di Clairvaux (Cla-ravallis), fondò
l'Abbazia di Chiaravalle della Colomba. Bernardo era stato invitato dal vescovo di Piacenza
Arduino, in passato monaco benedettino, a fondare un monastero cistercense nel territorio della
diocesi, ed arrivava in Italia in un momento storico di scisma della Chiesa con l'elezione papale
di Anacleto II in contrapposizione a Innocenzo II. Per assicurare la sopravvivenza della
comunità, il vescovo e il Comune di Piacenza intervennero con importanti concessioni, mentre a
formare il primo nucleo di proprietà fondiarie contribuì il marchese Oberto II Pelavicino, che
donò, il 27 marzo 1136, quattro mansi di 12 iugeri ciascuno, situati nelle corti di Baselica Duce e
di Carretto (località chiamata poi Chiaravalle della Colomba). Tre mesi dopo fu Corrado
Cavalcabò a donare al monastero tutto ciò ché, a titolo di proprietà, possedeva nella corte di
Carretto.
Nel 1148 mori il marchese Oberto II e gli successe il figlio Guglielmo, il quale, alleato con i
piacentini, dovette subito affrontare una campagna di guerra contro il fratello Delfino, il
Comune di Cremona e Parma: questa città non poteva permettere che terre della sua diocesi
fossero in possesso dei piacentini. Fra tradimenti, devastazioni e battaglie, seguite da accordi di
pace immediatamente violati, si giunse al 1154, quando giunse fra noi il nuovo imperatore di
Germania Federico I (Barbarossa), che a Roncaglia tenne una Dieta (convegno), seguita da
un'altra Dieta generale nel 1158. Cominciò col privare dei loro beni i feudatari non comparsi alla
stessa, dando poi seguito a una serie infinita di violenze e saccheggi contro la Chiesa e i
Comuni.
Oberto Pallavicino, morto nel 1198.
Dal matrimonio di Guglielmo Pallavicino e Claramunda Della Porta di Piacenza, nacque
Oberto, che dal 1160, con la morte del padre, seguì fedelmente l'imperatore, rendendosi
complice delle distruzioni di Tortona, Spoleto, Crema e Milano, ma ottenendo in cambio ampia
investitura di tutti i beni già posseduti dai Pallavicino.
Queste crudeltà indussero alcuni Comuni ad unire le forze per costituire la Lega Lombarda, che
il 29 maggio 1176 affrontò a Legnano l'armata di Federico I Barbarossa e la distrusse. Sette anni
più tardi, Piacenza, che aveva combattuto nelle file della Lega, ospitò in S. Antonino l'incontro
per un accordo preliminare, sancito poi il 25 giugno 1183 nella Pace di Costanza, tra Federico I
Barbarossa ed i rappresentanti della Lega Lombarda. L'imperatore riconobbe la Lega e accordò
concessioni in ambito amministrativo, politico e giudiziario ai Comuni che la componevano.
Inoltre rinunciò alla nomina dei Podestà, riconoscendo i consoli nominati dai cittadini, i quali,
tuttavia, dovevano fare giuramento di fedeltà all'imperatore e ricevere da lui l'investitura. I
Comuni s'impegnarono a pagare un indennizzo una tantum di 15.000 lire e un tributo annuo di
2.000; a corrispondere all'imperatore il fodro (ossia il foraggio per i cavalli), o un'imposta
sostitutiva quando l'imperatore fosse sceso in Italia e la prerogativa imperiale di giudicare in
appello questioni di una certa rilevanza. La Lega inoltre s'impegnò a sostenere in Italia i diritti
imperiali, nei confronti di coloro che non appartenevano alla Lega. Si trattava di un
compromesso che segnava la rinuncia al dominio assoluto di Federico, con il riconoscimento ai
Comuni di una certa autonomia. Ai piacentini Federico riconobbe il diritto sul ponte del Po,
mentre la città accettò di corrispondere un'annua retribuzione a favore del monastero di S.
Giulia in Brescia. 11 24 ottobre 1196 Oberto Pallavicino, figlio di Guglielmo, per evitare
discordie intorno all'eredità, divise tra i figli Manfredo e Guglielmo i suoi beni.
Guglielmo Pallavicino, morto nel 1217.
Al primo andarono: Varano, Banzola, Mezzano, Noceto, Fontanellato, Ca-salbarbato, Parola,
Medesano; mentre a Guglielmo: Scipione, Salsomaggiore, Salsominore, Vigoleno, Grotta,
Pellegrino. Due anni dopo, Guglielmo fu responsabile di un grave incidente diplomatico, che
portò ad una forte reazione del nuovo pontefice Innocenzo III nei suoi confronti. Era successo
che il cardinale diacono Pietro Capuano, reduce dalla Legazione di Polonia, nell'attraversare il
contado piacentino per recarsi a Roma, era stato assalito dagli uomini del marchese Guglielmo e
spogliato di ogni bene che aveva con sé. 11 Cardinale ricorse ai Consoli piacentini i quali, per
evitare noie con il Pallavicino, evitarono d'intervenire a favore del danneggiato. Il Cardinale si
rivolse allora al Papa, il quale scrisse ai Piacentini perchè convincessero il Pallavicino a restituire
quanto sottratto. Di fronte alla minaccia di scomunica, i Consoli bandirono il marchese
Guglielmo dal loro territorio, ma il 18 ottobre 1198 questi si presentò davanti al Consiglio
Generale della città, riunito nel palazzo del Vescovo, impegnandosi a restituire al Cardinale
Capuano quanto sottratto e a versare ai consoli 100 lire imperiali per la festa di S. Andrea,
offrendo ipoteca sopra i suoi beni e quelli della moglie, garante dell'operazione. I consoli
piacentini ordinarono allora la revoca del bando.
A Guglielmo successero tre figli: Uberto (detto il Grande), che porterà la famiglia Pallavicino
alla massima potenza; Manfredo (capostipite del ramo di Scipione) e Pallavicino Pallavicino
(capostipite del ramo di Pellegrino). 11 26 febbraio 1227 i marchesi Uberto, Manfredo e
Pallavicino, figli del fu Guglielmo, divisero i loro beni situati nel Parmigiano e nel Piacentino.
Alla morte di Federico I, fu incoronato imperatore il figlio Enrico: la cerimonia si svolse a Roma
davanti al nuovo pontefice Celestino III, che dal 30 marzo 1191 sostituiva il defunto Clemente
III. Per poter compiere il viaggio a Roma, Enrico chiese un prestito di 2000 lire imperiali al
Comune di Piacenza, offrendo in pegno Borgo S. Donnino e Bargone.
Morto l'imperatore Enrico, la vedova Costanza propose il figlio Federico, ma alla corona
dell'impero concorrevano altri due pretendenti e cioè Filippo duca di Svevia (fratello del
defunto Enrico) e Ottone duca d'Aquitania (figlio dello stesso Enrico). Seguirono lunghe e
sanguinose guerre, durante le quali i vari sovrani d'Europa presero posizione nella lotta di
successione. Nel 1212 Piacenza si schierò con Milano e con i Marchesi Malaspina a favore di
Ottone, e combatté contro Pavia, Cremona e Parma, alleate di Federico (eletto poi imperatore).
Negli anni successivi a Piacenza si susseguirono lotte cruente fra Popolani e Nobili, con fasi di
tregua seguite dalla ripresa delle ostilità. Nel gennaio del 1233 Uberto si portò in aiuto dei popolani, utilizzando duecento cavalieri cremonesi contro i nobili fuoriusciti piacentini e questo
testimonia per la prima volta l'esistenza di relazioni tra Uberto e Cremona. In seguito ad un
ennesimo accordo, venne nominato Podestà di Piacenza Guglielmo Landi, mentre Uberto
Pallavicino fu scelto come "Capitano delle armi". Nel 1236 Uberto, che aveva preso le parti di
Federico II, venne coinvolto di nuovo nelle lotte civili e, prevalendo la fazione nobiliare legata
alla Chiesa, accusato di fomentare discordie interne per favorire l'intervento del nuovo
imperatore, venne cacciato dalla città. 11 Pallavicino, la cui famiglia fino a quel momento aveva
gravitato su Piacenza, si trasferì quindi a Cremona che, dalla Pace di Costania nel 1183, aveva
condotto ininterrottamente una politica filoimperiale. Iniziava così la sua carriera di funzionario
imperiale, che lo condurrà tra l'altro a ricoprire la carica di vicario imperiale in Lunigiana,
Versilia e Garfagnana e l'ufficio di podestà di Reggio. Furono anni di aperto contrasto tra
Uberto e il comune di Piacenza, testimoniato nella Cartula venditionis del Registrum Magnum:
Il 12 marzo 1246 il Consiglio comunale vende a Gerardo Anguissola tutti i beni che Piacenza possiede nel
territorio di Salsomaggiore, con divieto di rivendere i beni acquistati a chi non sia cittadino piacentino e
soprattutto ai marchesi Pallavicino o a persone che agiscano per conto di essi.
Monastero di San Sisto. Ha origini antichissime e risale probabilmente all'865, ai tempi dell'imperatrice Angilberga, moglie di Ludovico il Pio.
Basilica di Sant'Antonino, patrono della città. Ultimata nel 375 e distrutta durante le invasioni barbariche, fu ricostruita nel 1014. Nel 1183
ospitò l'incontro tra Federico Barbarossa e i rappresentanti della Lega Lombarda.
Palazzo vescovile: sorge a fianco del Duomo. Costruito nella prima metà del Cinquecento, durante le opere di rinnovamento volute da papa
Paolo III in vista dell'assegnazione del ducato di Parma e Piacenza al figlio Pier Luigi.
Duomo di Piacenza. Iniziato nel 1122 sulle fondamenta della cattedrale di S. Giustina, fu terminato nel 1233. Nel 1266 ospitò l'incontro dei
rappresentanti della città con Uberto Pallavicino, per un accordo di pace.
Lo Stato Pallavicino all'epoca di Uberto il Grande.
L'ASCESA DEL MARCHESE UBERTO PALLAVICINO IL GRANDE
Nel 1249 a Cremona i guelfi (sostenitori del Papa) presero il sopravvento sui ghibellini
(sostenitori dell'Impero) e Federico II, già in grave difficoltà per alcuni rovesci militari, incaricò Uberto, del quale conosceva le doti politico-militari, di
ristabilire le sorti imperiali nella città e nel suo distretto. Nel giro di due mesi, Uberto sconfisse i
guelfi e Federico 11, per ricompensare i suoi servigi, gli assegnò la carica di podestà di Cremona
e, nel maggio 1249, gli concesse un'ampia investitura che allargò notevolmente i domini paterni.
Nell'atto il Pallavicino, oltre alla conferma sulle terre e castelli già in suo possesso, si vide
riconosciuti diritti feudali su quasi tutto l'oltre Po cremonese, sul quale la sua famiglia non
aveva mai esercitato la signoria: in pratica Uberto venne a sostituire il suo dominio personale a
quello del comune di Cremona.
Uberto Pallavicino funzionario imperiale, ritratto quattrocentesco.
F. Robolotti, Storia di Cremona.
Con l'investitura del 1249 il Pallavicino ottenne oltre cinquanta località (22 castelli e trentadue
ville) tra le quali Busseto, Zibello, Santa Croce, Ragazzola, Polesine di S.Vito, Samboseto,
Besenzone...
Negli anni immediatamente successivi, ulteriori concessioni da parte dell'imperatore portarono
il territorio di cui Uberto era stato investito a costituire un vero e piccolo Stato di natura
feudale, che si estendeva dal Cremonese e dal Po fin dentro l'Appennino nelle valli del Ceno e
del Taro, tra i distretti di Parma e Piacenza. Nell'ottobre del 1250 l'investitura di Uberto venne
integrata da un privilegio che, dichiarando esenti da qualsiasi tipo d'imposizione le sue terre, i
suoi castelli e gli uomini (vassalli, coloni, rustici, massari ecc.) su di essi viventi, sottraeva in
pratica i suoi possessi alla giurisdizione delle città (Parma, Piacenza, Cremona ecc.) nei cui
distretti si trovavano disseminati.
I diritti accordatigli dal sovrano comprendevano la giurisdizione criminale (merum imperium)
e quella civile (mixtum imperium), col diritto di condannare a morte e di privare della libertà
(ius gladii) ed ogni altro tipo di giurisdizione.
L'assunzione e l'esercizio dei diritti signorili portarono alla conferma o alla sostituzione delle
"famiglie" locali con i suoi fedeli, mentre la riscossione dei tributi, l'esazione dei dazi e dei
pedaggi ecc. permise al Pallavi-cino d'investire gli ingenti introiti nell'acquisto di terre a titolo
allodiale, per dare una più salda base economica e militare al proprio potere: terre situate nei
territori di Busseto, S. Andrea, Spigarolo, Frescarolo, Vidalen-zo, Polesine, Villa Franca, Pieve
Ottoville, Castello Vecchio di Soragna (Castellina), Soragna, Roncole.
Questa politica di acquisti, seguita anche dai successori di Uberto, nessuno dei quali tuttavia
riuscirà ad eguagliarne la potenza e la ricchezza, condusse alla costituzione di un patrimonio
fondiario di grande consistenza nelle mani di un'unica famiglia.
In un manoscritto del XVI secolo3, redatto probabilmente in occasione di una controversia
relativa ai diritti feudali dei Pallavicino, si legge:
"Feudi in un sol corpo posseduti dalla Famiglia Pallavicino l'anno 1249; e che in parte possiede
anco al giorno d'hoggi, e questi sono segnati con *(croce): Busseto, Borgo San Donnino, Castello
di Gibello con le sue Ville*, Pieve Altavilla*, Ragazzola*, Santa Croce*, Cortemaggiore, Besenzone, Mercore, San Martino, Castello Arda, Villa nuova, Soarza, Cignano, San Bosseto,
Sant'Andrea, Roncole, Spigarolo, Polesino, Castello vetro, Monticelli d'Ongino, Corticella,
Polesino di San Vitto*, Santa Franca*, Vidalengo ecc... ". Il manoscritto si riferiva all'atto del 7
maggio 1249, di cui abbiamo parlato in precedenza, in cui l'imperatore Federico II concedeva
l'investitura a Uberto Pallavicino, figlio di Guglielmo, ed ai suoi eredi discendenti, di molti
castelli, loro territori e pertinenze, coi diritti di suprema giurisdizione, di mero e misto Impero.
Il 13 dicembre 1250 morì a 56 anni nel castello di Fiorentino, città della Puglia, l'imperatore
Federico 11. Con lui il Regno di Sicilia aveva conosciuto il massimo splendore e la corte di
Palermo era divenuta un centro europeo delle lettere e delle scienze. Profondamente ambizioso,
non aveva mai voluto riconoscere, di fatto, le concessioni fatte nella Pace di Costanza,
combattendo aspramente le città della Lega e l'autorità papale.
3 MSS.PALLASTRELLI, Famiglia Pallavicino - Fondo antico, Biblioteca Passerini di Piacenza.
Lo sostituì il figlio Corrado IV, designato dal padre, ma non riconosciuto da tutti i feudatari.
Scese in Italia come pretendente al trono di Sicilia, conquistò Napoli, ma nel 1254 morì a
Lavello, nei pressi di Potenza, a. soli 26 anni, lasciando come erede un figlio di due anni, detto
Corradino. Manfredi, figlio di Federico II, tentò di risollevare le forze ghibelline in Italia.
All'inizio degli anni '50 si andava rafforzando a Piacenza la fazione dei ghibellini, che ottenne il
ritorno in città di coloro che erano stati allontanati perché seguaci dell'imperatore. Tra questi i
Landi e anche Uberto Pallavicino, eletto nuovo podestà di Piacenza, il quale nel 1253 fu
chiamato a sedare lotte interne tra Nobili e Popolani, frutto di antichi rancori. Il marchese
Uberto, già vicario imperiale di Corrado IV e podestà perpetuo, aspirava ad incrementare il suo
potere sulla città e riuscì l'anno successivo a farsi eleggere Rettore e Signore di Piacenza.
La forte posizione raggiunta gli permise di accentuare l'ostilità nei confronti dei guelfi locali,
vietando anche agli ecclesiastici di recarsi a Roma, nel timore che potessero concordare col
Pontefice una congiura contro di lui. Insensibile ai moniti che gli venivano lanciati da papa
Alessandro IV, il Pallavicino accentuò la lotta contro i guelfi, facendo demolire i castelli di
Grintorto (Agazzano), Arcello (Pianello), Groppo (Piozzano), Pigazzano (Travo), Rivalta
(Gazzola), Gragnano, Travo, Bobbiano (Travo), Monte-santo (Ponte dell'Olio) ed altre rocche,
oltre le mura di Borgotaro. La durissima tassazione imposta al clero e la lotta feroce nei
confronti dei rivali cominciarono a provocare una dura reazione: il giovedì santo del 1257 il
papa lo scomunicò, mentre il 24 luglio Uberto Pallavicino venne cacciato da Piacenza insieme
alle sue truppe.
Anche Ubertino Landi, alleato del Pallavicino, fu costretto a lasciare Piacenza, rifugiandosi a
Cremona, ospite dell'amico. Frattanto i seguaci di Uberto si rifugiarono nel castello di Caorso,
da dove proseguirono la durissima lotta contro i guelfi piacentini.
Nel 1259 Uberto sconfisse la città guelfa di Brescia, divenendone Signore e ponendovi, come suo
Vicario, Ubertino Pallavicino dei marchesi di Pellegrino, già Podestà di Cremona. Uberto venne
inoltre acclamato Signore di Milano per cinque anni: accompagnato da 600 cavalieri ed altre
milizie, venne accolto con tutti gli onori nella città, dove lasciò come suo Vicario un altro nipote,
Arrigo Pallavicino dei marchesi di Scipione.
Pur essendo ormai ricco e potente, Uberto non rinunciava al progetto di ritornare a Piacenza: la
battaglia di Noceto fra i guelfi piacentini da una parte e 400 cremonesi a cui si erano aggiunti
alcuni ghibellini piacentini dall'altra, fece registrare la netta vittoria di questi, capitanati da
Guido e Ubertino Pallavicino. Piacenza, ritornata ghibellina, riaprì le porte a Uber-tino Landi, ai
marchesi Arrigo e Guido Pallavicino e a tutti gli altri in precedenza esiliati.
Il vescovo Fulgosio e Ubertino Landi convinsero i piacentini ad accogliere di nuovo, quale
Capitano e Signore, il marchese Uberto Pallavicino il quale, giunto a Piacenza con un forte
seguito di Cremonesi, ottenne nel 1261, per una durata di quattro anni, la Signoria della città.
Raggiunto lo scopo, lasciò qui come Vicario il nipote Visconte Pallavicino, mentre .un altro
nipote, Arrigo, occupava Tortona: Uberto, riconosciuto di nuovo podestà perpetuo di Piacenza
nel 1262, poté tornare a Cremona, dove già ricopriva la stessa carica. Nel 1263 il Consiglio
generale di Piacenza, alla presenza del marchese Pallavicino, cedette al ghibellino Ubertino
Landi, suo alleato, tutti i diritti di pedaggio sulle strade dei luoghi posti tra il Nure e la
Chiavenna e sugli stessi fiumi.
Fu questo il momento di massimo splendore per Uberto, le cui fortune erano però legate alle
sorti dell'impero4 Nel 1265 il papa Urbano IV si rivolse al re di Francia Luigi 1X "il Santo",
pregandolo di scendere in Italia per aiutarlo nella lotta contro la Casa Sveva e favorire così la
causa di tutta la cristianità. Giunse pertanto in Italia il figlio Carlo d'Angiò, conte di Provenza,
che il 26 febbraio 1266, a Benevento, sconfisse Manfredi. Nella battaglia persero la vita lo stesso
Manfredi e Arrigo Pallavicino, nipote di Uberto. 11 tramonto di questi era ormai iniziato e da
Milano, Alessandria ed altre città vennero cacciati i suoi Vicari. Nell'autunno del 1266, papa
Urbano IV inviò a Piacenza i suoi legati per cercare un accordo tra guelfi e ghibellini: Uberto
venne privato delle podesterie di Cremona e di Piacenza, ottenendo in cambio la revoca della
scomunica papale nei suoi confronti.
4 Nicolò Festasio, famoso scrittore modenese, descriveva Uberto di aspetto maestoso, sebbene di media statura, con
capelli neri e un volto bruno, nel quale risaltavano i denti bianchissimi: "... era ardito d'animo, possente ed umano
et di valore di corpo non vi fu che l'eguagliasse a quei tempi, versbgnuno cortesissimo et di profonda benignità, ma
ne' l'imprese importanti severo. Costumava vestire sempre di ferro. Gli si attribuisce in parte un nuovo metodo
nell'arma di cavalleria e l'introduzione delle compagnie di ventura. Di idee alte, mirò a vasto dominio, tiranno
talvolta, ma in corrispondenza agli odi dei tempi; fu condottiero temuto, salì alle più alte cariche e cadde con la
fortuna degli Svevi".
Inoltre il Pallavicino, in una solenne cerimonia nel Duomo a Piacenza s'impegnò con i propri
seguaci a mantenere la pace. Visto il momento, si spiega pertanto l'atto di vendita, fatto qualche
giorno prima della sua destituzione e dell'inevitabile confisca dei beni, di una proprietà a
Soarza, fatta a Ubertino Landi, suo alleato, il quale era riuscito per il momento a mantenere la
sua posizione a Piacenza.5
1266 novembre 2... Piacenza
Il marchese Uberto Pellavicino per 50 lire piacentine, residuo di un debito di 432 1.p. da lui
dovute ad Ubertino di Lando, gli cede 50 iugeri di terra boschiva a Soarza in vocabolo (località)
Bualengo.
Confinanti: i De Motaris (figurano già negli estimatori di Soarza nel 1225), Aimone di S.Pietro in
Cerro, conti di Montecucco. Testimoni: Opizone Balbo, Giovanni di Luxiardo, Giovanni Orsono
not., Gerardo Fumario, Opizone di Redulfo, Monachino di Regio. Roga: Antelmus de
Ronchove-teri notarius.6
Il 3 dicembre 1266 il ghibellino Uberto si rifugiò a Borgo San Donnino e poi, per maggior
sicurezza, nei suoi castelli di Landasio e Gusaliggio in val di Mozzola.
Il castello di Gusaliggio (o Gusaleggio) era costruito su un dirupo che si ergeva sopra il torrente
Mozzola, con uno strapiombo di duecento metri: oggi è solo un cumulo di ruderi. Uberto
Pallavicino lo aveva fatto "fortissimo e vasto", facendo scavare a forza di scalpello nella roccia
viva, ricavandone un grosso castello turrito con un'ampia corte al centro ed una capace
cisterna.7
5 Rientrato a Piacenza nel 1261 dopo la vittoria dei Ghibellini, Ubertino Landi pose il dominio sul vasto distretto a
est della città di Piacenza, tra il Po e la via Emilia (la Romea di allora), acquisendo proprietà nei territori di
Roncarolo, Fossadello, Caorso, S. Nazzaro, Monticelli d'Ongina, Polignano, Torre di Chiavenna, San Pietro in
Cerro, Cortemaggiore, Besenzone, S. Martino, Mercore, Fiorenzuola d'Arda, Alseno: il grosso dominio si collocava
significativamente a fianco del marchesato Pallavicino di Busseto e Borgo San Donnino.
6 Pergamena Landi n.1406(n.925-1405) - Archivio di Stato-Piacenza.
7 A frate Gherardino di Parma, mandato al castello per indurre Uberto a pentirsi, il Pallavicino rispose: "Non ho
rimorsi di coscienza, perché non ho roba altrui". Soltanto dopo la morte di Uberto, i nemici entrarono nel castello di
Gusaliggio e lo distrussero. Più tardi il feudo passò ai Pallavicino del ramo di Pellegrino, che lo ebbero fino al 1438,
anno in cui Niccolò Piccinino lo espugnò. Tornato ai Pallavicino nel 1450, resse l'assalto di Alessandro Sforza; nel
1472 passò, con tutte le terre della Val di Mòzzola, ai marchesi Sforza-Fogliani di Piacenza, e rimase in loro
possesso fino all'abolizione dei feudi.
Uberto Pallavicino, vicario imperiale di Federico II.
Il castello di Gusaliggio.
IL MARCHESE MANFREDINO IL PIO
La sconfitta dell'imperatore Manfredi, figlio naturale e successore di Federico II, da parte di
Carlo d'Angiò il 26 febbraio 1266, segnò il definitivo sopravvento della fazione guelfa su quella
ghibellina e il conseguente crollo delle fortune di Uberto Pallavicino.
Infatti Corradino, nipote di Manfredi ed ultimo rampollo della Casa Sveva, cercò la rivincita e
scese in Italia con poche migliaia di fanti e cavalli per riconquistare il regno di Sicilia. Ma il 23
agosto 1268 fu sconfitto da Carlo d'Angiò, che lo fece giustiziare due mesi dopo.
L'8 maggio 1269 morì, nella sua rocca di Gusaliggio, il marchese Uberto Pallavicino, che per
molti anni era stato Signore di Piacenza, Cremona, Milano, Alessandria, Tortona, Crema e
Brescia.
Fu un uomo di eccezionale forza e spiccata intelligenza, lasciava un figlio quindicenne e quattro
fanciulle: Maria, Giovanna, Margherita e Isabella. Nel suo testamento erano indicati i castelli
ancora in sua mano: oltre alle rocche di Gusalecchio e di Landasio in Val Mozzola, possedeva il
castello di Ravarano. Nessuno dei castelli dell'oltre Po cremonese gli era rimasto.
Manfredino, figlio e successore di Uberto, mantenne la linea politica filo-ghibellina e per questo
dovette attendere il 1311 quando, con la discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII e
l'occupazione di Cremona, Brescia e Piacenza, gli fu possibile iniziare il recupero dei
possedimenti paterni.
L'efficacia della sua azione, soggetta alle alterne vicende della guerra tra guelfi e ghibellini,
portò solo alla riacquisizione, nell'Oltre Po (rispetto a Cremona, corrisponde alla destra del Po),
di buona parte dei possessi allodiali acquistati, a suo tempo, dal padre; possessi che, rendendolo
il maggior proprietario fondiario dei luoghi nei cui territori erano situati, lo ponevano in una
posizione di preminenza. Infatti il 12 febbraio 1311 il vicario imperiale di Enrico VII riportò il
marchese Manfredino Pallavicino nel possesso di Gusaliggio, Ragazzola, Zibello, Parasacco ed
altri luoghi. Nei mesi successivi si moltiplicarono le sentenze del funzionario imperiale a favore
della restituzione a Manfredino di diritti e beni situati a: Soragna, Monte Pallero, Roncole,
Samboseto, Frescarolo. In alcuni casi furono i proprietari stessi a vendere a Manfredino loro
terre e diritti, anticipando forse sentenze favorevoli al marchese, come nel 1321, quando il
Pallavici-no acquistò dai marchesi Lupi di Soragna tutte le terre e i diritti da questi posseduti
nei luoghi di Roncole e Frescarolo al di là della Lavatura, mentre una precedente vertenza fra i
due si era risolta a favore del Pallavicino. L'opera di ricucitura svolta da Manfredino, pur con
qualche risultato, fu nel complesso modesta e confermava il declino politico della famiglia
Pallavi-cino. Essa va inquadrata in un periodo di sempre più decisa affermazione delle forme
signorili non più locali e comunali (piacentine, parmensi, cremonesi) ma in una forma più
ampia come quella viscontea, indirizzata non solo verso la Lombardia ma anche verso l'Emilia.
Le lotte tra le fazioni e le incessanti guerre segnarono i primi decenni del Trecento, nei quali si
scontrarono, ancora una volta, le mire egemoniche del Papato e dell'Impero: gravi le
conseguenze non soltanto sul piano politico e istituzionale, ma anche e soprattutto su quello
economico e sociale. Desolazione ed abbandono delle campagne, patimenti, tribolazioni e
gravissimi danni alle persone e ai patrimoni; calo demografico e forte diminuzione della
produzione agricola, intralci a non finire per i traffici e per l'esercizio di ogni altro tipo di
attività furono i naturali effetti di questa situazione. Dopo la cacciata di Alberto Scotti, Signore
di Piacenza dal 1290 al 1304, le famiglie aristocratiche ,ripresero le loro antiche rivalità,
dividendosi di nuovo nei due partiti tradizionali: i guelfi e i ghibellini. Questi nel 1306
s'impadronirono del potere, e l'anno successivo fu Visconte Pallavicino, del ramo di Pellegrino,
ad assumere la carica di governatore e reggente del Comune di Piacenza. Nel 1311 scendeva in
Italia l'imperatore Enrico VII ed il 6 ottobre entrò a Piacenza, dopo essersi impadronito di
Cremona e. di Brescia. Alcuni feudatari rinnovarono il giuramento di fedeltà all'imperatore,
ricevendo la conferma dell'investitura per i loro feudi. Tra questi Visconte Pallavicino di
Pellegrino, creato milites, alta onorificenza imperiale riservata ai nobilifide/es.
L'alternanza di epidemie e carestie ad intervalli quasi regolari, scontri tra fazioni, guerre, assedi,
saccheggi e distruzioni caratterizzarono anche gli anni successivi.
All'inizio del 1327 la fazione dei ghibellini piacentini, trovandosi in difficoltà per le molte
sconfitte subite, chiamò in Italia l'imperatore Ludovico il Bavaro. Questi il 17 maggio entrava
solennemente in Milano insieme alla moglie Margherita; il 31 dello stesso mese, ignorando
l'intervento del papa, ottenne da tre Vescovi, colpiti poi da scomunica, di essere incoronato,
nella Chiesa di S. Ambrogio, Re d'Italia con la corona di ferro. Alcuni nobili piacentini si
recarono a Milano per ottenere dal nuovo Re l'investitura dei loro feudi: tra questi Manfredino
Pallavicino, che il 2 luglio ottenne la conferma per i possedimenti in essere nelle vallate del
Ceno e del Taro e per i privilegi concessi a suo padre Uberto dagli imperatori Federico II e
Corrado IV. Il 7 gennaio 1328 Re Ludovico giunse a Roma per ottenere dal pontefice Giovanni
XXII la ratifica della sua investitura imperiale, ma il papa da Avignone gli rinnovò la
scomunica. A Roma venne allora proclamato un nuovo papa, Nicolò V, che lo confermò
imperatore. Nei mesi successivi questi era impegnato a recuperare il maggior denaro possibile,
specialmente presso coloro che a lui si rivolgevano per ottenere concessioni di feudi, esenzioni
fiscali ed altre agevolazioni. Questo atteggiamento finì per creare un ambiente ostile intorno a
lui e nel 1329 decise di tornare in Germania.
A Cremona la lotta fra le varie fazioni per la supremazia determinò una grave crisi delle
istituzioni e portò la città sotto la signoria viscontea, con la perdita nel 1334 dell'autonomia
comunale. Il nuovo Statuto, redatto nel 1339, offriva condizioni vantaggiose, per favorire la
ripresa, ai forestieri disponibili a vivere stabilmente nella zona per lo svolgimento di attività
produttive.
Tre anni prima (1336), nello Statuto della città di Piacenza8 erano state inserite norme che
concedevano immunità agli abitanti di Monticelli al confine con Cremona, da estendere agli
altri abitanti del territorio piacentino al confine tra il Comune di Piacenza e Cremona per meglio
indurli alla custodia dei confini o rendere più appetibile l'insediamento nel piacentino:
"deversus Cremonam et in burgo guaregnorum... ut confines inter Comune Placente et Comune
Cremone ad honorem ipsius Comunis Placentie custodiantur."
Nel 1348 una terribile pestilenza si abbatté su gran parte dell'Italia e dell'Europa, riducendo di
circa un terzo la popolazione esistente: a Piacenza uccise quasi la metà degli abitanti.
8 Statua Varia Civitatis Placentiae - p.413, Bibl. Passerini di Piacenza.
I FRATELLI OBERTO E DONNINO PALLAVICINO:
SEPARAZIONE DEI BENI E FORMAZIONE DELLE GIURISDIZIONI
DI BUSSETO E ZIBELLO
Alla sua morte, avvenuta nel 1328, Manfredino lasciò tre figli: Federico, Oberto e Donnino
Con la morte di Federico (1348), gli altri 2 fratelli si divisero il patrimonio familiare, che
superava le 5.000 biolche di terra. Ad Oberto andò il polo giurisdizionale di Busseto e Solignano
con le sue pertinenze, mentre a Donnino toccava quello di Zibello e Ravarano. L'anno
successivo, con la morte di Donnino, l'eredità passò ai figli Federico (Zibello) e Giovanni
(Ravarano). I legami tra i successori di Oberto e di Donnino rimasero assai stretti fino alla fine
del secolo, anche se il ruolo di guida venne assunto e mantenuto sempre dai marchesi di
Busseto, più capaci e dinamici dei loro cugini. Dal canto loro, i figli di Donnino si adattarono
per convenienza a svolgere una funzione gregaria.
Oberto Pallavicino, morto nel 1368.
Oberto, partendo da una posizione filoim-periale secondo tradizione, giudicò più attuabile e
quindi più conveniente da seguire il progetto politico dei Visconti, schierandosi con loro e
segnando con questo l'inizio di una fortunata carriera, resa possibile dal favore che venne a
godere presso i duchi di Milano. Nel 1351 Oberto Pallavicino
ottenne l'incarico di capitano delle truppe viscontee e luogotenente di Giovanni Visconti a
Bologna, dopo l'annessione della città al dominio visconteo. L'affermarsi di questa Signoria,
portò i Pallavicino, che ne erano sostenitori, ad un graduale ma incessante rafforzamento;
questo dovette però fare i conti con il tentativo del comune di Cremona di riprendere il
controllo sull'Oltre Po, basandosi sull'autorità e potenza dei Visconti che della città erano
diventati i signori.
INVESTITURA A FAVORE DI OBERTO PALLAVICINO
DA PARTE DELL'IMPERATORE CARLO IV
All'inizio del 1355 l'imperatore Carlo IV scese in Italia ed Oberto, con una scelta schiera di
cavalieri, andò ad incontrarlo a Peschiera, da dove lo seguì a Milano, accolto da Galeazzo e
Bernabò Visconti. Oberto accompagnò l'imperatore nel suo viaggio in Italia, e a Pisa ottenne la
promessa che, una volta ritornato da Roma, ove si stava recando per essere incoronato con la
Corona di ferro, lo avrebbe confermato nei suoi feudi. La cosa non riuscì e Oberto attese
pazientemente che si ripresentasse l'occasione; questa avvenne il 4 giugno del 1360, allorché,
recatosi a Praga a rendergli omaggio, ricevette da Carlo IV un ampio diploma di conferma di
tutti i feudi e privilegi concessi ai suoi antenati. Tra le terre che figurano nel documento ci sono:
Ravarano, Bargone, Soarza, Polesine, Busseto e le sue ville.
Nel 1355 il vescovo di Cremona Ugolino investì il marchese Oberto Palla-vicino e i suoi figli,
maschi e discendenti, del porto e traghetto sul Po allo sbocco dell'Arda, in uno colla villa di
Soarza:
"De anno 1355 fuit investitus Ubertus Marchio Pallavicinus... ad passel-lum quod est subtus
sabionellos et nunc usq: ad buccam arde et similiter portus Soartie... ».9
L'investitura venne conferMata nel 1365 allo stesso Oberto dal vescovo di Cremona Pietro
Capelli per la morte del predecessore Ugolino, e dal vescovo Capelli confermata, nel 1369, al
marchese Nicolò Pallavicino per la morte del padre Oberto. Il 12 febbraio 1361, tramite il
proprio figlio Nicolò, Oberto Pallavicino acquistò dal marchese Francesco Pallavicino di
Scipione il castello e il feudo di Tabiano e i pozzi di sale ad esso pertinenti. Nel 1364 il comune
di Parma accordava al marchese Oberto e al figlio Nicolò Pallavicino di acquistare castelli,
fortezze e vassalli nel distretto parmigiano, in deroga a quanto stabilito negli statuti della città.
Pur essendo una grande famiglia feudale d'investitura imperiale, i Pallavicino della montagna e
quelli della bassa piacentino-parmense si adattarono a servire i Visconti: nel 1362 Oberto
Pallavicino da Scipione era podestà di Pavia per conto di Galeazzo; Nicolò Pallavicino (figlio di
Oberto) era capitano d'armi nell'esercito visconteo durante il 1363.
9 SELETTI E., La città di Busseto - vol. III, p.23 : "Da una copia presso di me a mano del canonico Pietro Seletti, che
non segna da dove la prendesse".
IL MARCHESE NICOLÒ PALLAVICINO
Con la crescita della potenza viscontea, si andavano rafforzando anche i Pallavicino, che di
questa erano sostenitori. Ma un aumento eccessivo del peso politico, economico e militare dei
discendenti di Uberto non poteva riuscire gradito ai signori di Milano, nei quali, ad un certo
momento, sorse la preoccupazione di contenerlo e limitarlo; preoccupazione condivisa
pienamente anche dal comune di Cremona, che da sempre aveva teso a ridurre a proprio
vantaggio i diritti giurisdizionali dei feudatari sul contado dell'Oltre Po.
Bernabò Visconti e suo figlio Lodovico, nel 1366, ottennero dall'imperatore Carlo IV, quali suoi
vicari, il rilascio di un diploma che annullava tutte le precedenti immunità ed esenzioni
concesse. Forse anche per questo, i rapporti tra Nicolò Pallavicino e Bernabò Visconti
attraversarono un periodo di crisi, che portò Nicolò ad avvicinarsi a Gian Galeazzo e ad aiutarlo
nello spodestare Bernabò. Questi sottrasse al Pallavicino il castello di Bar-gone, le saline di
Salso, il palazzo che aveva a Milano a Porta Orientale. Nel 1374 Bernabò tolse Tabiano a Nicolò,
che nellb stesso anno lo riprese con un colpo di mano, provocando la rappresaglia del Visconti,
che ritornò in possesso del castello, e impose a Nicolò, che stava ristrutturando i suoi castelli di
Castellina e Costamezzana, di sospendere i lavori.10
Nel maggio 1385, dopo l'uccisione di Bernabò, diventò Signore di Milano Gian Galeazzo
Visconti, il quale assunse, rispetto al rivale, un diverso atteggiamento politico nei confronti di
Nicolò Pallavicino, riconoscendogli tutti i diritti, i domini, i privilegi concessi dagli imperatori e
consentendo che si continuassero le fortificazioni della Castellina e di Costamezzana. Inoltre il
Visconti inviò a Busseto, in funzione di paciere Bertolino Vitali, che riuscì a comporre la
vertenza fra Nicolò e suo cugino Giacomo, marchese di Pellegrino.
I patti stipulati nel 1391 tra Nicolò e Gian Galeazzo Visconti portarono i Pallavicino ad un
notevole rafforzamento della loro posizione politica ed economica: ancora una volta la scelta di
campo li aveva premiati.
10 Il 27 settembre 1369, dopo la morte di Oberto, il marchese Nicolò, proseguendo la politica di espansione delle
proprietà, acquistò tre pezze di terra a Soarza e il riconoscimento della Giurisdizione di Branceria. In quegli anni
Soarza e Brancere facevano parte del distretto di Busseto e vi rimasero fino al 1479, quando i fratelli Pallavicino e
Gian Ludovico divisero le loro proprietà.
Per la prima volta i Visconti che, pur apprezzando e valorizzando le capacità personali dei
discendenti di Uberto il Grande, avevano cercato di controllarne la crescente potenza politicomilitare, riconoscevano ai Pallavi-cino il diritto di godere nelle terre e nei castelli loro soggetti
quei privilegi e quelle esenzioni che gli imperatori, a cominciare dal 1249, avevano loro
concesso. Tale riconoscimento, ben più importante delle tarde investiture degli imperatori, la
cui autorità era ormai soltanto nominale, comportava in pratica per Cremona la perdita del
controllo di una parte del suo antico distretto, posto alla destra del Po.
Questa città vide per tutto il XIV secolo il permanere di continue lotte fra le varie fazioni
politiche, che portarono prima alla perdita dell'autonomia per opera della signoria viscontea e
che videro poi Gian Galeazzo Visconti, che nel 1385 aveva spodestato Bemabò, impegnato per
cinque anni nel condurre un'opera di normalizzazione e conciliazione degli interessi e delle
aspirazioni delle diverse forze sociali.
All'inizio del 1389, il capitano visconteo Nicolò Pallavicino partecipò alla spedizione in
Lunigiana, che si concluse con la sconfitta dei Malaspina e la consegna del territorio toscano alla
Signoria dei Visconti. Il sostegno ricevuto dal Pallavicino in questi anni portò Gian Galeazzo a
sottoscrivere quell'accordo del 1391; in esso Nicolò, che dei.Pallavicino era quello con maggiore
personalità, otteneva che i patti e le convenzioni fossero estese anche ai cugini Giovanni
(Ravarano) e Federico (Zibello).
Il 15 maggio 1394 da Pavia, su istanza del marchese Nicolò, Gian Gale-azzo Visconti, signore di
Milano, provvide a legittimare Rolando e Giovanna, figli naturali dello stesso marchese e,
rispettivamente, delle signore Agnese e Caterina. L'anno successivo l'imperatore Venceslao
confermava i diritti di Nicolò su: Busseto, Tabiano, Varano Melegari, Polesine, San Vito di
Zibello, Santa Croce e Ragazzola. Nel 1395 venne firmato un patto tra il marchese di Busseto
Nicolò e Giovanni, marchese di Ravarano, per il quale accordo nel caso che uno dei due fosse
morto senza avere figli maschi, la sua eredità sarebbe passata all'altro.
IL MARCHESATO DI SCIPIONE
Nel 1318 subentrarono: Enrico, Francesco, Bartolomeo (figli di Guglielmo) e Al-bertino detto
Marchesotto (figlio di Uberto detto Marchesotto, morto in precedenza, e nipote di Enrico e
Guidotto).
Nel 1359 si divisero il feudo: Ugolino del fu Enrico; Francesco (figlio di Guglielmo); Uberto,
Cabriono, Manfredo e Marco (figli di Bartolomeo); Giovanni e Pietro (figli di Albertino detto
Marchesotto).
Il castello di Scipione, che sorge in posizione dominante poco sopra Salsomaggiore, ha origine
assai remota: le prime fonti risalgono al 1025 e parlano di un castro già fondato ad opera di
Adalberto II Pallavicino, fondatore nel 1033 del Monastero di Castione (comune di Fidenza).
Discendente di Adalberto II e il primo a portare il soprannome di Pelavicino (che poi si
trasformerà in cognome) fu però il marchese Oberto II, vissuto tra XI e XII secolo.
Oberto II ebbe cinque figli: Guglielmo (proavo di Uberto il Grande), Delfino (capostipite del
ramo di Tabiano), Alberto Greco (capostipite del ramo di Soragna), Tancredi e Burgundione
(premorti al padre). Nel testamento del 22 febbraio 1144, la parte toccata a Guglielmo
comprendeva: omnem ius et potestatem de rebus illis omnibus quas habeo in episcopatu ve! co-mitatu
.Placentino a Grotta in ioso, sicuti est e Vigoleno, Scipione, Casale Albino, Seolo, Budrio, Basilica Ducis,
Castello de Arda vel in aliis locis a termino designato... Tutti i suddetti beni, insieme con altri situati
nei comitati di Parma e Piacenza, li ritroviamo annoverati nel complesso patrimoniale
appartenente al figlio di Guglielmo, Oberto Pallavicino, nel momento in cui questi lo divise tra i
suoi due rampolli, Manfredo e Guglielmo, il 24 ottobre 1196.11
La morte colse Guglielmo nel 1217, senza che egli avesse prima provveduto alla spartizione del
proprio asse ereditario tra i suoi figli: Uberto (il Grande), Pallavicino (cap. ramo Pellegrino) e
Manfredo (cap. ramo Sci-pione); spartizione che essi decisero di effettuare una decina d'anni più
tardi ed in base alla quale:
Uberto ebbe le rocche di Gusaliggio e di Landasio, il castello di San Martino, Castiolo e la quinta
parte delle mura e del sale, di spettanza dei fratelli, in Salsomaggiore e Salsominore.
Pallavicino ottenne i castelli di Pellegrino, Aguliano e Belvedere... oltre alla metà delle mura e
del sale di spettanza comune in Salsomaggiore e Salsominore, tolta la quinta parte di Uberto.
Manfredo ottenne il castello di Scipione e tutto quanto posseduto in comune a Tosca, Vigoleno,
Gropero, Salsomaggiore e Salsominore, Pozolo e Fontana Broccola, oltre alla metà delle mura e
del sale di spettanza comune in Salsomaggiore e Salsominore, tolta la quinta parte assegnata ad
Uberto. Interessa a noi la linea di Manfredo, capostipite dei marchesi che per molti secoli ebbero
nel castello di Scipione il centro della loro signoria. La loro storia ruota intorno ad un elemento
di fondamentale importanza: il controllo dei pozzi per la produzione di sale nella zona di
Salsomaggiore e dintorni, gestita fino all'inizio del XIII secolo in posizione quasi monopolistica.
Da allora, Parma e Piacenza cominciarono ad interessarsi più attivamente della lavorazione del
sale, dapprima acquistando dei pozzi da privati e gestendoli in forme più o meno dirette, poi
trasferendo la loro concorrenza sul piano più propriamente politico ed impegnando una serie di
lotte, ora contenute entro i limiti di vertenze giudiziarie, ora condotte con più o meno acuta
violenza; il tutto nel quadro del progressivo rafforzamento degli ordinamenti comunali e della
corrispondente erosione del feudalesimo. E' significativo il caso avvenuto nel 1275, quando
Obertano Boto e suo nipote Ansaldo vendettero al comune di Piacenza otto pertiche di terra in
Salsomaggiore: "Se nel terreno si troverà una vena d'acqua salsa se ne ricaverà un pozzo, dividendo tra
le controparti il diritto di sfruttamento", era stato convenuto.
Nell'atto i piacentini fecero inserire la clausola che tale diritto non avrebbe potuto dal venditore
essere ceduto a persone del distretto di Parma, né ai
11 Di Manfredo qui non ci occuperemo, in quanto egli è il capostipite del ramo dei marchesi di Varano.
Pallavicino, sotto pena di confisca da parte del comune di Piacenza. Gli anni della signoria di
Manfredo coincisero con una crescita della potenza e della ricchezza del marchese, anni che gli
consentirono di vivere in relativa sicurezza e tranquillità, secondo il suo carattere, descritto
come homo pacis et quasi religiosus... Et dabat salem omnibus regulis abundanter et sine mensura.
Era il periodo in cui il fratello Uberto il Grande percorreva quella brillante carriera di
funzionario imperiale che lo avrebbe portato a diventare dominus di un vero e proprio Stato di
natura feudale, esteso dal Cremonese e dal Po fin dentro l'Appennino nelle valli del Ceno e del
Taro. A dimostrazione di quanto fossero stretti, solidali ed amichevoli i rapporti fra i due
fratelli, pur così diversi per tendenze e temperamento, Uberto affidò il governo di alcune città a
figli e nipoti di Manfredo.12 Dopo b morte di questi, nel 1263 il cospicuo patrimonio
immobiliare venne assegnato ai quattro figli legittimi: Guglielmo, Guidotto, Enrico e Uberto,
senza procedere a suddivisione, lasciando che fossero i figli ad accordarsi. Le figlie, ancora
nubili, vennero tacitate con una congrua somma di denaro a titolo di dote. Una spartizione fra i
quattro figli, conclusa entro lo stesso anno, portò a definire i pozzi di sale: assegnati per metà a
Enrico e Uberto e per l'altra metà a Guglielmo e Guidotto. Un'ulteriore suddivisione fra questi
ultimi due portò a definire il complesso del loro comune cespite ereditario. A Guglielmo
spettavano tutti i beni con i relativi diritti feudali posseduti in Scipione, Fontanabroccola,
Salsomaggiore presso Brugnola; a Guidotto il territorio di Tabiano, Montemannulo,
Salsomaggiore, Soragna, Casale Albino, Alseno. La vittoria nel 1266 di Carlo d'Angiò
sull'imperatore Manfredi a Benevento segnò la fine della potenza di Uberto il Grande, con
effetti negativi anche sulla sorte del marchesato di Scipione. Nel 1267, con il sopravvento della
fazione guelfa su quella ghibellina, il castello venne semidistrutto dai piacentini, mentre due
anni dopo, gli uomini che difendevano Scipione si arresero ai guelfi parmigiani, ma a patto che
il castello non venisse distrutto. Era il momento per i comuni di Parma e Piacenza di
approfittare della loro supremazia militare per imporre il proprio diritto sulla produzione del
sale e costringere i marchesi a cedere quello prodotto nelle loro saline, dietro un compenso
stabilito per ogni quantitativo di merce mensilmente consegnata.
12 Allo stesso modo Uberto si comportò con i figli dell'altro suo fratello Pallavicino, marchese di Pellegrino:
chiamerà Visconte e Ubertino a ricoprire, rispettivamente, la carica di podestà di Piacenza e Cremona, al primo dei
due inoltre affiderà la tutela del proprio figlio Manfredino.
Negli anni successivi i marchesi di Scipione cercarono di recuperare gli antichi privilegi, finché
con una sentenza del 1318 venne attribuita al comune di Parma la proprietà della maggior parte
dei pozzi contesi, mentre molto ridotto era il numero di quelli riconosciuti come appartenenti ai
signori di Scipione. In questa circostanza venne fatto un inventario del patrimonio familiare,
riconosciuto ai figli di Guglielmo, Guidotto, Enrico e Uberto, ma sempre in modo congiunto.
Il 21 luglio 1354 fu Uberto Pallavicino di Scipione a rappresentare il monastero di Chiaravalle
della Colomba, i Pallavicino di Pellegrino (Pallavicino del fu Visconte, Corrado, Guglielmo e
Guido figli del fu Alessandro, Ugo-lino del fu Antoniolo) e quelli di Scipione (Francesco del fir
Guglielmo, Ugolino del fu Enrico, Manfredo e Uberto del fu Bartolomeo, Giovanni e Pietro del
fu Albertino detto Marchesotto) nella vertenza con il comune di Piacenza, che contestava la
sentenza che gli ingiungeva di non molestare le controparti nel possesso dei pozzi di
Salsomaggiore.
Liti e contrasti si riaccesero più volte, anche se ormai il terreno della lotta era circoscritto al solo
campo legale, senza ulteriori manifestazioni di violenza; la forza e l'importanza politica dei due
contendenti, i Pallavicino e i Comuni, si erano molto ridotte e un potere ben più forte, quello
della signoria dei Visconti, aveva Ormai imposto il suo dominio sul territorio. Nel 1359 i
marchesi di Scipione decisero di spartire il patrimonio di beni da loro posseduti in comune e
affidarono l'incarico di arbitro inappellabile a Oberto Pallavicino signore di Busseto, nipote di
Uberto il Grande. Il patrimonio venne ripartito in quattro parti:
-Francesco, figlio di Guglielmo, ottenne il castello di Tabiano con le ville di Pozzolo, di Cento
Pozzi e Castel Vernacio nell'episcopato di Parma.
-Giovanni e Pietro, figli di Albertino detto Marchesotto, ebbero il castello di Scipione e Casale
Albino nell'episcopato di Piacenza; Castel Ghibellino, Salsominore e Montebello nell'episcopato
di Parma.
-Uberto, Cabriono, Manfredo e Marco, figli del fu Bartolomeo: Salsomaggiore, Grotta e Poggio
Sant'Antolino.
-Ugolino, del fu Enrico: metà delle terre di Montemannulo, Rivo Sanguinario e Noceto.
Se, fino a questo momento, i discendenti di Manfredo avevano mantenuto unito il loro
patrimonio, attribuendo ai componenti il gruppo familiare solo delle quote ideali, la divisione
del 1359 pose fine al comune possesso su un complesso di beni immobili che era durato a lungo
e, una volta avvenuta l'assegnazione delle quote, ciascuna delle parti contraenti poté disporne a
proprio piacimento. E già due anni dopo il marchese Oberto di Busseto, che aveva presieduto in
qualità di arbitro alle divisioni, acquistò dal marchese Francesco il castello di Tabiano e i pozzi
di sale ad esso pertinenti. Solo nel 1366 però, Nicolò, a nome del padre Oberto, ne prenderà il
possesso, probabilmente dopo la morte di Francesco. La conseguenza della spartizione fu
certamente un indebolimento verso l'esterno: il complesso di fortezze, terre, uomini, fonti di
ricchezza come le saline fornivano l'immagine di un organismo signorile dotato di una sua
compattezza, di autonomia e di una potenzialità difensiva e offensiva che la divisione nei
quattro diversi nuclei certamente ridimensionava. Furono Giovanni e Pietro Pallavicino ed i
loro eredi i destinati alla continuazione della dinastia dei marchesi di Scipione e questo fino alla
sua estinzione nella seconda metà del settecento.
Nel 1403 il castello fu assediato dai soldati del conte Rossi di S. Secondo, ma l'arrivo delle
milizie di Rolando Pallavicino di Busseto costrinse i nemici e ritirarsi. Quattro anni più tardi
furono i soldati di Otto Terzi ad espugnare il castello di Scipione, restituito una decina di giorni
dopo al marchese Pietro, in seguito all'accordo del Terzi ancora con Rolando. Nel 1447
Lodovico e Giovanni Pallavicino, figli del marchese Pietro, ricostruirono il castello adottando le
più moderne tecniche difensive dell'epoca: il torrione con la forma cilindrica e le mura a scarpa
abbassate e rinforzate risultavano meno vulnerabili agli attacchi delle nuove armi da fuoco. Nel
1450 Lodovico e Giovanni, ottennero da Francesco Sforza, duca di Milano, la conferma dei loro
privilegi nel feudo di Scipione, oltre all'investitura del castello e della rocca di Specchio. I conti
Rossi, da diversi anni nemici dichiarati dei Pallavicino (vedi l'attacco al castello di Scipione nel
1403 e le lotte del potente conte Pier Maria Rossi, morto nel 1482, col marchese di Zibello), dopo
aver catturato Guido Pallavicino da Scipione, lo imprigionarono nel castello di S. Secondo e lo
rimisero in libertà solo dopo aver ottenuto un compenso di 5000 Filippi.
Dai tre figli di Pietro Pallavicino, discesero tre rami, estintisi rispettivamente nel 1613 (quello
originatosi da Nicolò), nel 1738 (quello derivato da Giovanni) e nel 1776 con il marchese
Giangirolamo (quello iniziato da Lodovico).
La nascita nel 1545 del ducato farnesiano di Parma e Piacenza segnò l'inizio della fine per la
famiglia Pallavicino. La politica antifeudale del primo duca Pier Luigi, con il suo tentativo di
impossessarsi dei vari feudi (quelli pallavicino compresi), provocò la reazione della nobiltà
piacentina. Due anni più tardi una congiura, a cui presero parte anche Girolamo, Camillo
e Alessandro di Scipione, nipoti di Nicolò Pallavicino, portò all'uccisione del duca. I marchesi di
Scipione non subirono confische ma, temendo forse la vendetta ducale, nel 1568 i figli di
Camillo (Giulio, Orazio e Rodolfo) cedettero a Ottavio Farnese tutti i beni da loro posseduti a
titolo feudale e allodiale in Grotta, Pellegrino, Salso, Vigoleno, Borla, Scipione e in altri luoghi
del piacentino. Il Famese cedette i luoghi, erigendoli in feudo, a Domenico Dalla Torre da
Verona, uno dei suoi Consiglieri. Il castello di Scipione venne acquistato nel 1969 dal barone di
von Holstein, sposato alla marchesa Maria Luisa Pallavicino.
Castello di Scipione dei Marchesi Pallavicino, com'è attualmente.
IL MARCHESATO DI PELLEGRINO
Nell'anno 981 Pellegrino, situato nell'alta valle dello Stirone, venne concesso dall'imperatore
Ottone II di Sassonia con titolo di marchesato ad Adalberto I di Baden, capostipite dei
Pallavicino, il quale diede inizio alla costruzione del Castello. Nel 1025 Corrado il Salico infeudò
Adalberto Il (fondatore del monastero di Castione M. nel 1033). Nel 1198 il castello fu riedificato
da Guglielmo Pallavicino e da questo momento la storia del Borgo si legò a quella del maniero.
A Guglielmo successero tre figli: Uberto (detto il Grande), che porterà la famiglia Pallavicino
alla massima potenza; Manfredo (capostipite del ramo di Scipione) e Pallavicino Palla-vicino
(capostipite del ramo di Pellegrino).
L'Il aprile 1222 da Fiorenzuola, quest'ultimo, ricevette da Mòrino, incaricato di tutelare gli
interessi di Piacenza, l'intimazione di non procedere oltre nei lavori di fortificazione in "Monte
Anguliani", nonché di demolire quanto era stato edificato dopo una precedente intimazione.
Morino proclamò la dipendenza della località dal comune di Piacenza e Pallavici-no accettò di
riconoscere tale dipendenza. Il 26 febbraio 1227 i marchesi Uberto, Manfredo e Pallavicino, figli
del fu Guglielmo, divisero i loro beni situati nel Parmigiano e nel Piacentino. A Pallavicino, nato
a Busseto intorno al 1205, toccò il feudo di Pellegrino, dove si stabilì dando origine al locale
ramo marchionale. Fu chiamato Il Trovatore, perché celebre fra i trovatori di canzoni,
com'erano ai suoi tempi chiamati i poeti provenzali e italiani, in quella lingua detta Romanza,
che dalla Sicilia s'era divulgata nelle altre regioni della penisola. Alla sua morte, dopo il 1250, gli
subentrarono i figli Ubertino, Guidone e Visconte. Nel 1259 il primo, dopo essere stato podestà
a Cremona, fu vicario dello zio Uberto come Signore di Brescia. A testimonianza degli ottimi
rapporti di Uberto il Grande con i parenti, nel 1261, ottenuta la Signoria di Piacenza, vi lasciò
come vicario un altro nipote, Visconte Pallavicino di Pellegrino. Questi nel 1304, e ancora nel
1307, respinse i feroci attacchi del piacentino Alberto Scotti, impegnato a sottomettere
Borgotaro, Bardi e Castell'Arquato.
Nel 1307 fu lo stesso Visconte (1237-1317) ad assumere la carica di governatore e reggente del
Comune di Piacenza. In quegli anni alcune casate piacentine fornivano gli abati ai vari
monasteri, il monastero di Tolla fu prerogativa dei marchesi di Pellegrino e delle famiglie con
loro imparentate. Nel 1321 vennero scelti arbitri per dirimere una controversia tra il marchese
Manfredino di Busseto da una parte e i marchesi Pallavicino e Alessandro Pallavicino, agenti a
nome di Antoniolo Pallavicino di Pellegrino dall'altra, riguardo ai castelli situati in montagna.
Per un'altra controversia tra Nicolò, marchese di Tabiano e Busseto, e il cugino Giacomo di
Pellegrino, Gian Galeazzo Visconti inviò nel 1389 a Busseto Bertolino Vitali, da cui trasse
origine una famiglia bussetana ricca di uomini illustri.
Il vuoto di potere, creatosi nel 1402 con la morte improvvisa di Gian Ga-leazzo Visconti, favori
il risorgere delle vecchie aspirazioni alla Signoria da parte di quelle famiglie che erano state
sconfitte dal Visconti. Abbiamo visto quindi l'assalto dei soldati di Rossi al castello di Scipione
nel 1403 e quello successivo di Otto Terzi, entrambi sventati dall'intervento di Rolando
Pallavicino di Busseto. Per tutelarsi da queste aggressioni, le famiglie feudatarie strinsero
alleanze difensive: un esempio è l'accordo stipulato nel 1404 dai marchesi Pallavicino di
Pellegrino con i nobili Scarpa di Via-nino. Tra il 1418 e il 1422 Filippo Maria Visconti confermò
la concessione feudale di Specchio a favore dei Pallavicino, marchesi di Pellegrino dove, nel
1424 venne fondato un convento di frati minori francescani ad opera di San Bernardino da
Siena. Nel 1428 il castello fu conquistato dal comandante di ventura Niccolò Piccinino, inviato
d'al Visconti dopo che Rolando Pallavicino era passato all'alleanza con i veneziani,
abbandonando il duca di Milano. Manfredo PallaVicino, marchese di Pellegrino, fu condotto in
catene a Milano ove, costretto a confessare di aver partecipato a una congiura contro lo stesso
Duca, fu ucciso il 20 agosto. La confisca dei suoi beni, colpì quindi anche il cugino Antonio
Pallavicino (ultimo marchese di Pellegrino) che, ridotto in povertà, si rifugiò a Busseto presso i
cugini. Antonio ebbe due figli: Giberto, il notaio che nel 1497 stipulò il testamento di Carlo
Pallavicino vescovo di Lodi, ed Ettore dal quale discese quel ramo Pallavicino, estinto nel 1795.
Nel 1438 Filippo Maria Visconti concesse al Piccinino il feudo di Pellegrino, che da marchesato
venne ridotto a contea, mentre il dominio effettivo del Piccinino risaliva al 1429. Importante
zona strategica per il controllo delle vie di comunicazione e di commercio con la Liguria e la
Toscana, ed anche come zona di passaggio dei pellegrinaggi diretti a Roma, il feudo di
Pellegrino venne conquistato nel 1472 da Alessandro Sforza, che lo cedette a Lodovico Fogliani,
la cui famiglia, con il nome di Fogliani Sforza, lo mantenne fino al 1750 (estinzione della
dinastia maschile). Nel 1759 venne trasmesso a Federico Meli Lupi di Soragna e in seguito entrò
a far parte del ducato di Parma e Piacenza.
La rocca di Pellegrino.
Pallavicino Pallavicino detto Il Trovatore.Ritratto di G. Levi nel Museo Civico di Busseto.
IL FEUDO DI TABIANO
La zona di Tabiano, proprietà della Mensa Vescovile di Parma, passò ai Pal-lavicino intorno al
1145 e qui, tre anni dopo, si combatté con accanimento, nel luogo detto "Monte della Battaglia",
tra Delfino Pallavicino da una parte, ed il fratello Guglielmo alleato ai Piacentini dall'altra. I
Piacentini, sconfitti, tornarono l'anno seguente e riuscirono questa volta a distruggere il castello
di Tabiano, che fu ricostruito nel 1153. Quando, nel 1180, Delfino morì senza lasciare eredi
diretti, testò a favore dei Canonici di Parma che, nel 1186, cedettero tre quarti della rocca a
Gherardo da Cornazzano. Entrato in possesso dei Pallavicino di Scipione, Tabiano subì le
vicende legate alle guerre tra guelfi e ghibellini. Dopo la morte di Manfredo, marchese di
Scipione, nel 1263 il suo cospicuo patrimonio immóbiliare venne assegnato ai quattro figli
legittimi: Guglielmo, Guidotto, Enrico e Uberto, senza procedere a suddivisione, lasciando che
fossero i figli ad accordarsi. A Guidotto spettavano i cespiti dei beni (indivisi) relativi al
territorio di Tabiano. Nel 1359 i marchesi di Scipione decisero di spartire realmente il
patrimonio di beni da loro posseduti in comune fino a quel momento, e affidarono l'incarico di
arbitro inappellabile a Oberto Pallavicino signore di Busseto. Il patrimonio venne ripartito in
quattro parti: Francesco ottenne il castello di Tabiano con le ville di Pozzolo e di Cento Pozzi e
Castel Vernacio nell'episcopato di'Parma. Due anni dopo, il marchese Oberto di Busseto, che
aveva presieduto in qualità di arbitro alle divisioni, acquistò, tramite il figlio Nicolò, dal
marchese Francesco il castello di Tabiano e i pozzi di sale ad esso pertinenti. Solo nel 1366 però,
lo stesso Nicolò, a nome del padre, ne prenderà il possesso, probabilmente dopo la morte di
Francesco. Tre anni dopo Nicolò, subentrato nel marchesato di Tabiano al padre Oberto
defunto, entrò in conflitto con i parenti di Scipione, Bargone e Pellegrino, e con Bernabò
Visconti, duca di Milano. Nel 1374 questi tolse Tabiano a Nicolò, che nello stesso anno riprese
Tabiano con un colpo di mano, provocando la rappresaglia del Visconti, che riprese il castello, e
impose a Nicolò, che stava ristrutturando i suoi castelli di Castellina e di Costamezzana, di
sospendere i lavori. Soltanto nel 1385, dopo la morte di Bernabò, si ricomposero rapporti
ottimali tra Nicolò Pallavicino e i duchi di Milano, con il nuovo sovrano Gian Galeazzo
Visconti, così che il primo ritornò in possesso del castello di Tabiano. Nel 1401, dopo aver
sconfitto più volte l'acerrimo nemico Ottobono Terzi, Nicolò Pallavicino morì avvelenato
insieme alla moglie. Nel 1444 il forte di Tabiano apparteneva a Damiano Orsini, ma dovette
tornare presto ai Pallavicino, dato che Rolando il Magnifico lo lasciò in eredità al figlio Oberto.
Da allora il castello rimase ai Pallavicino fino al 1756 quando, morto Odoardo, si estinse il ramo
dei feudatari di Tabiano: il feudo non poté essere trasmesso a parenti più o meno prossimi,
perché, oltre un secolo prima i Farnesi avevano decretato che, in mancanza di discendenza
diretta, i feudi sarebbero passati alla Camera Ducale.
Il castello di Tabiano.
IL FEUDO DI VARANO MARCHESI
Le prime notizie relative a Varano Marchesi (frazione del comune di Me-desano), risalgono al
1182, quando Oberto Pallavicino, figlio di Guglielmo e nipote di Oberto II, venne investito del
feudo. 1124 ottobre 1196 Oberto, per evitare discordie intorno alla sua eredità, divise i suoi beni
tra i figli Guglielmo e Manfredo, da quest'ultimo ebbe seguito il ramo Pallavicino di Varano. A
Manfredo seguì il figlio Delfino I e a questi Delfino Il. Dei suoi tre figli: Francesco, Ubertino e
Onofrio, il primo nel 1290 appariva nelle cronache come marchese di Varano; a Francesco
successe Delfino III. Nel 1249 l'imperatore Federico II aveva investito Uberto Pallavicino il
Grande del feudo di Varano Marchesi (Varano Marchionum). Nel 1322 i Pallavicino di Varano,
insieme a quelli di Scipione corsero in aiuto al cugino Manfredino, marchese di Busseto,
impegnato nell'assedio di Borgo San Donnino, che tolse alle milizie di Panna. Nel 1354 la chiesa
di Varano Marchesi, pur non essendo parrocchiale perché priva di battistero e del diritto
battesimale, per i quali dipendeva dalla chiesa pievana di Cella, pagava le decime per un
beneficio concesso dai marchesi Pallavi-cino. Si parla di un luogo fortificato per la prima volta
nel 1413, quando l'imperatore Sigismondo confermò l'investitura a Rolando Pallavicino il
Magnifico. Insieme con tanti altri castelli, Varano dei Marchesi venne dato al condottiero
milanese Niccolò Piccinino nel 1442, ma tornerà a Rolando nel 1450 per volere del Duca di
Milano. Nel 1458 il Pallavicino lasciò in eredità al figlio Nicolò il feudo, con "567 uomini sopra
miglia 22" e con Nicolò la chiesa divenne parrocchiale e le venne assegnato un vasto territorio
giurisdizionale, divenendo sede di vicariato foraneo con alle dipendenze la stessa chiesa
matrice di Cella e le altre di Banzola, San Giovanni in Contignaco e S. Vittore. La maggiore
importanza di Varano dal lato ecclesiastico procedette quindi di pari passo con quella politica.
Nel 1470 il marchese era presente a Milano, dove giurò fedeltà al duca, ricevendo in tale
occasione la conferma dell'investitura di Varano, Castelguelfo, Gali-nella, Corticelle e Castellina.
Qualche anno più tardi, due figli di Nicolò, Giulio e Giovan Antonio, vennero banditi dai
domini del duca di Milano, in quanto accusati di emettere monete false. Il 22 maggio 1472,
questo concedeva loro la grazia. Nicolò morì nel 1494 e, dei suoi dieci figli, solo Alessandro e
Giannantonio continuarono la discendenza. Nel 1499 Giulio e Cesare, figli di Nicolò, prestarono
giuramento di fedeltà a Milano a Lo-dovico XII re di Francia, che aveva spogliato la casa Sforza
dei suoi domini. Nel 1517 feudatari di Varano Marchesi erano Giannantonio, Brunorio e Nicola
Pallavicino, i quali fondarono nell'antico castello l'Oratorio della Natività di M V. Nel 1574 il
marchese Galeazzo Pallavicino istituì un pio legato all'altare dell'Oratorio; nel successivo anno
Brunorio Pallavicino dotò l'oratorio di beni stabili, dopo che nel 1567 era stato nominato primo
rettore Ruggero Ruggeri. L'oratorio seguì le sorti del castello, del quale non esistono oggi che
pochi ruderi e, già pericolante la costruzione, il beneficio che vi era annesso fu trasferito (nel
1828) nella chiesa parrocchiale. Dal marchese Galeazzo era nato nel 1523 Giuseppe Pallavicino,
medico e letterato, al quale nel 1547 la comunità di Borgo S. Donnino aveva affidato la missione
di recarsi ad Augusta per ottenere dall'imperatore Carlo V uno sgravio delle spese per le sue
milizie accampate in Borgo San Donnino. Insofferente del regime instaurato in questa città dal
delegato di Carlo V, ordì una congiura contro il barone di Sesnec, ma, scoperto, fu gettato a
languire per otto mesi in carcere, liberato per l'intervento di Ippolito Pallavicino di Scipione e
Girolamo Pallavicino signore di Busseto. Il ramo dei marchesi di Varano si estinse nel 1782 con
don Ercole, arciprete di Pieve Cusignano, e la loro eredità passò al casato dei Bergonzi. Il
castello, di cui rimangono solo i ruderi del mastio, sorgeva a sud del paese, in località La Valle.
Attualmente, a ricordo del passato, rimane anche un palazzo nobiliare nel centro del paese, che
fu residenza dei Pallavicino.
Il mastio del castello di Varano Marchesi.
IL FEUDO DI VARANO MELEGARI
L'importanza di Varano Melegari era legata alla sua posizione strategica per il controllo
dell'accesso alla valle del Ceno e delle vie che conducevano in Liguria e a Roma. Il nome del
paese fa riferimento alla famiglia dei Melegari, per lungo tempo notabili e ufficiali al servizio
dei Pallavicino. Il suo castello è menzionato per la prima volta nel 1087, ed era nelle mani di
Oberto I Pallavicino. Nel maggio 1249 a Pisa, l'imperatore Federico Il investì il marchese Uberto
Pallavicino il Grande di numerose terre e castelli, situati negli episcopati di Parma, Piacenza e
Cremona "Federicus divina favente clementia Romanorum imperator semper augustus faci-mus
universis Imperii fidelibus tam praesentis aetatis quam in posterum successurae, quod nos castrum
Buxeti de episcopatu Cremonae„ terram seu castrum Tablani, Bargonis, castrum vetus de Soranea, villas
seu terras de Samboseto, de Medesano, de Varano Marchionum, de Varano Melegariorum de episcopatu
Parmae... ".
Nel 1395 l'imperatore Venceslao confermò a Nicolò Pallavicino, marchese di Busseto e Tabiano,
anche il feudo di Varano Melegari. Dopo un periodo in cui Varano appartenne ai Terzi, nel 1413
l'imperatore Sigismon-do concesse a Rolando il Magnifico le investiture di Borgo San Donnino,
Busseto e Varano Melegari, confermando questi privilegi già precedentemente in essere, e
aggiungendo Monticelli d'Ongina con le ville di Castelvetro, Olza, San Giuliano e Isola dei
Corradi. Sequestrato per qualche anno dai Visconti, in seguito alle divergenze con Rolando,
Varano ritornò nel possesso del Pallavicino, che nel 1452 ristrutturò profondamente il castello,
rendendo le sue mura più idonee a sopportare l'attacco delle armi da fuoco. Nel testamento di
Rolando del 1453, modificato nel 1458 da Francesco Sforza su richiesta degli eredi, vennero
assegnati al figlio primogenito Nicolò: Varano Marchesi, Castel Guelfo, Galinella e la villa di
Miano. Non appare tra questi Varano Melegari, assegnato a Nicolò nell'originario testamento
del 1453, ma più tardi questo feudo risultò in possesso della Camera ducale milanese.
Successivamente, grazie ai buoni rapporti dei Pallavicino con Ludovico Sforza, Gian Francesco
Pallavicino, ultimo figlio di Rolando il Magnifico e Marchese di Zibello, fu investito dal duca di
Milano di Tizzano, Ballone, Serravalle, Varano dei Melegari (1481), Ruviano e Montesasso. Dei
cinque figli di Gian Francesco, quello che si occupò di Varano fu Bernardo, dottore in diritto
canonico e sacerdote, ma uomo violento e vizioso. In questa sua residenza portò Caterina
di Zibello, dalla quale ebbe tre figli: Uberto, Pallavicino e Sigismondo. Da allora il castello di
Varano Melegari rimase di proprietà dei discendenti di Gian Francesco (nel 1715 Alessandro
Pallavicino provvide a lavori di ristrutturazione con la costruzione dello scalone), fino al 1782:
estinzione del ramo della famiglia. Ma l'autonomia politica della famiglia era cessata già nel
1588 con l'annessione farnesiana al ducato di Parma e Piacenza. I Levacher, una nobile famiglia
francese, acquistarono nel 1805 il castello, che, con la morte di Valentina, fu ceduto all'asta nel
1965 all'industriale parmense Tanzi e poi nel 2001 al Comune di Varano Melegari, che ne iniziò
la ristrutturazione.
Il Castello di Varano de' Melegari.
LA SITUAZIONE POLITICA ALLA FINE DEL XIV
E ALL'INIZIO DEL XV SECOLO
Il milletrecento aveva portato la Signoria dei Visconti sulle città di Piacenza e Cremona, che
avevano perduto la loro autonomia. Alla fine del XIV secolo massiccia era ancora la presenza
della feudalità viscontea nel contado piacentino, soprattutto nelle zone strategiche di confine,
mentre la nobiltà piacentina conservava vaste zone centrali e della montagna, ottenute per
antiche investiture imperiali, anche se la sua autonomia si andava fortemente indebolendo.
A sud del Po e procedendo da est verso ovest c'erano i Pallavicino, fortemente attestati
nell'Oltrepo (alla destra del fiume), nella zona confinaria con Parma, nelle vallate dello Stirone,
dell'Ongina e dell'Arda; Fioren-zuola e Castell'Arquato erano ancora in mano agli Scotti; nelle
vallate del Vezzeno e del Riglio, a Gropparello, Sarmato, Gusano, Tonano, Seggiola erano
presenti i Fulgosi; a Rezzano e Badagnano c'era la signoria degli Arcelli. Gli Anguissola
controllavano già buona parte della val Nure e val Trebbia; l'alta val Taro e la val Ceno con
Borgotaro e Bardi erano in mano ai Landi che controllavano anche Rivalta, nonché Alseno,
Chiavenna Landi e San Pietro in Cerro.13
Alla morte improvvisa del duca Gian Galeazzo (3 settembre 1402), il dominio visconteo
attraversò un periodo di crisi: in tutto il Ducato le città assoggettate insorsero e riesplosero le
lotte tra guelfi e ghibellini. Nel piacentino, in mancanza di un soggetto politico in grado di
prevalere, i vari Signori cercarono di concludere tregue, accordi commerciali e anche alleanze
per cautelarsi contro possibili minacce. Un esempio fu la pace stipulata nel 1404 dai marchesi
Pallavicino di Pellegrino con i nobili Scarpa di Vianino, mentre, sempre nello stesso anno, una
lega univa i Pallavicino, i Malnepoti di Cortemaggiore, i Rossi per difendersi da Ottobono Terzi
che in quegli anni commetteva razzie nei confronti di ville e castelli del piacentino e del
parmigiano. Il 21 novembre 1404 il Comune e gli uomini di Pescarolo, avendo necessità di un
buon difensore, protettore e governatore contro i ribelli al duca di Milano, impegnato in difficili
guerre, donarono al marchese Rolando Pallavicino la terra, il castello e le pertinenze di Pescarolo.
A Cremona il vuoto di potere favorì il risorgere delle vecchie aspirazioni alla signoria da parte
di quelle famiglie che erano state sconfitte da Gian Galeazzo.
13 AUTORI VARI, Storia di Piacenza - VoI.III, p.82.
Tra il 1403 ed il 1420 si alternarono, nel dominio di Cremona, Ugolino Cavalcabò (1403-04),
Carlo Cavalcabò (1404-06) e Cabrino Fon-dulo (1406-20), tutti e tre cremonesi.
Nel 1406 "Orlando (Rolando) Pallavicino ebbe in quest'anno assai travaglio non solo dalla
guerra di Borgo San Donnino ma da Gabrino Fondulo altresì, il quale coi continui ladronecci
quasi condusse distruzione la terra di Cortemaggiore, e le ville di Soarza, di Besenzone e di S.
Martino (Hist. Pallav.Ms a.c.24 t)".
Per mantenersi al potere, Cabrino Fondulo si destreggiò nelle lotte dell'epoca, ora alleandosi
con i Visconti ed ora combattendoli secondo l'opportunità del momento e cercando il
riconoscimento della propria signoria dall'imperatore Sigismondo che egli invitò a Cremona,
insieme a papa Giovanni XXIII.14 Catturato da Filippo Maria Visconti fu decapitato il 12
febbraio 1425.15
14 Fu uno dei tre papi eletti contemporaneamente negli ultimi anni del grande scisma di occidente(1378-1417).
15 Prima che il boia alzi la scure, il confessore gli chiede: "Orribile peccatore, sterco del demonio, infame traditore;
di quali dei tuoi mille nefandi delitti più amaramente ti penti, ora che sei sulla soglia della morte?"
"Ah, risponde il condannato torcendo la testa a guardar fisso il frate, mi pento di quella volta che sono venuti a
Cremona l'imperatore e il papa, e io li ho accompagnati in cima al Torrazzo per fargli vedere il panorama, e avrei
potuto buttarli di sotto tutti e due e conquistare così gloria immortale a me e alla mia città. Ma mi è venuto in mente
solo quando eravamo già ridiscesi in piazza". L.MANINI, Memorie storiche della città di Cremona - 1819.
IL MARCHESE ROLANDO PALLAVICINO IL MAGNIFICO
Nel 1401 morì Nicolò Pallavicino, lasciando come unico erede Rolando; questi era nato a
Polesine P.se il 13.6.1394 da Nicolò e da una popolana del luogo: alla morte del padre, che lo
aveva legittimato, non aveva che sette anni. Preso a ben volere da Giovanni Maria Visconti,
signore di Milano, crebbe alla Corte ducale, ottenendo dallo stesso signore conferma, con due
distinti Diplomi del 3.5.1405 e 29.1.1410, dei beni e privilegi concessi dagli imperatori Carlo IV e
Venceslao.
Rolando operò senza sosta, anche con la spregiudicatezza propria dei secoli della "Signoria",
avendo come obiettivo primario il mantenimento della propria indipendenza e quella del
proprio Stato, la cui organizzaZione ed il cui ampliamento furono la sua preoccupazione
costante.
I suoi cambiamenti repentini di alleanze e anche certe azioni come la cattura e la detenzione nel
1410 del vescovo Branda, legato del Papa, e del suo seguito, rilasciato solo dopo il pagamento di
1.200 ducati d'oro di riscatto, somma che gli serviva per le spese di guerra e l'organizzazione di
una zecca per coniare monete false, miravano ad un unico scopo: ingrandire, rafforzare, rendere
compatti i suoi possedimenti.
Nel 1410 riuscì ad ottenere, dietro esborso di una forte somma, la cessione di Borgo San
Donnino da Cabrino Fondulo, signore di Cremona, il quale l'aveva da poco tolta ai Terzi:
quindici anni dopo, il duca Filippo Maria Visconti, confermandogli i diritti, privilegi, donazioni
e concessioni fatte a Rolando dal suo predecessore e fratello Giovanni Maria, gli chiese la
restituzione di Borgo San Donnino, con la giustificazione che questo era stato usurpato ai Duchi
di Milano dal condottiero Otto Terzi, e riteneva la signoria dei Pallavicino, nel frattempo, come
una fedele custodia mantenuta per il Duca.
Nel 1413 Rolando prestò giuramento di fedeltà all'imperatore Sigismon-do, il quale gli rinnovò
l'investitura, concessa dai precedenti sovrani, dei castelli di Borgo S. Donnino, Busseto e
Varano, aggiungendovi quella di Monticelli d'Ongina, che si dice avesse Rolando acquistato da
poco con mezzi illeciti, colle ville di Castel Vetro, S. Giuliano, Olza e Isola dei Cor-radi.
L'investitura venne confermata nel 1426 da Filippo Maria Visconti. Nell'ottobre 1415, tra il
marchese Rolando Pallavicino ed il marchese Francesco Lupi di Soragna, venne firmato un
impegno a vivere in pace, dopo il tentativo di alcuni uomini dello stesso marchese Francesco
d'impadronirsi del Castello Vecchio (Castellina) di Soragna, appartenente al Pallavicino. 11 10
maggio 1419, il duca Filippo Maria Visconti, spodestati gli Arcelli dalla Signoria di Piacenza,
conferì a Rolando il titolo di Cittadino di Piacenza: era un modo per legare sempre più a sé il
Pallavicino. Ma per la sicurezza del proprio Stato, Rolando non esitò nel 1427 a mutare
improvvisamente parte durante la guerra tra il ducato di Milano e la repubblica di San Marco,
quando, alleato dei Visconti, temendo il crollo della loro potenza, li abbandonò per passare a
Venezia.16 Alleandosi con i Veneziani, Rolando ottenne la promessa di essere protetto e difeso,
di essere insignito della nobiltà veneta e di entrare a far parte del consiglio di Venezia; di essere
aiutato a conquistare Borgo S. Donnino e Castel Guelfo, di poter estrarre sale dai propri pozzi e
di disporne liberamente, di poter continuare ad esigere i dazi sul Po.17 Per scongiurare
l'alleanza,. Filippo Maria Visconti promise a Rolando la restituzione di Castel Guelfo, ma i
giochi ormai erano fatti e al duca di Milano non restò che dichiarare ribelle il Pallavicino.
Il 19 aprile 1431 Filippo Maria Visconti pregò l'imperatore Sigismondo di far pressione sul
marchese Rolando affinché abbandonasse l'alleanza con i Veneziani e si unisse a lui. Il 5 gennaio
1432 venne concluso il patto tra il duca di Milano e il Pallavicino, il quale si impegnava ad
abbandonare l'alleanza con Venezia e a ritornare come fedele suddito all'ubbidienza del duca
stesso. In cambio il Visconti riconosceva a Rolando tutti i diritti riconosciuti in precedenza dai
veneziani, compreso il possesso di Castel Guelfo e Galinella.18
l6 Nel 1427 l'armata navale della Serenissima, risalendo il Po, giunse a Polesine, dove Rolando aveva un castello,
con 50 galeoni, due galere, dodici ganzere e trenta barche. Sbarcato l'esercito di terra, i Veneziani posero il quartiere
generale a Busseto, insediandosi con 400 uomini. Inoltre il 18 settembre Rolando Pallavicino diede libertà di
passaggio sul Po, presso Polesine, a 2000 soldati della Lega contro il Duca di Milano.
Il Visconti, pieno di rabbia per il tradimento del Pallavicino, fece pubblicare il 16 ottobre una grida, per rendere
noto come Rolando "ingrato ai ricevuti benefici da lui e da tutta la sua famiglia" si era ribellato ed associato ai
nemici e lo proclamava "violatore della fede, sprezzatore del proprio onore, infame traditore".
E. SELETTI, La città di Busseto - vol. I , p.125.
17 Ottenne inoltre la promessa dell'esenzione da qualsiasi tipo di oneri e tributi per i propri castelli e le proprie ville
e la separazione dei medesimi dalle città nei cui distretti essi si trovavano. I castelli e le ville ricordati erano:
Busseto con Besenzone e Castelvetro, Polesine, Ardola dei Rastelli e Isola dei Bozardi, Castel Vecchio di Soragna
detto Castellina, Tabiano, Solignano, Torre Marchesi detta Castel Guelfo, Varano Melegari con Banzola, Vessiano e
Monte Mamelo, Costa Mezzana, Samboseto, Castione Marchesi, Monticelli d'Ongina.
18 Filippo Maria s'impegnava poi ad operare per la conclusione dei matrimoni di uno dei figli, Nicolò, e di tre figlie
del marchese, rispettivamente con Dorotea Gambara, Gaspare Visconti detto Filippo Maria, Giovanni Anguissola e
Nicolò da Mirandola. Inoltre dal momento in cui Rolando avesse reso noto il proprio distacco da Venezia, suo figlio
Nicolò avrebbe avuto 25 lance al soldo del duca e lo stesso Rolando 200 fanti, lance e fanti destinati a proteggere, in
tempo di guerra, le terre del marchese. Quanto a Pescarolo, se Rolando fosse riuscito a prenderlo, ne avrebbe
ottenuta, come da lui desiderato, la signoria.
D'altra parte, Rolando non perdeva occasione, quando gli si presentava, per dare l'assalto a
castelli od occupare terre di signori limitrofi; quando poi terre, luoghi e castelli, che gli premeva
possedere, non poteva averli in altro modo, ricorreva al denaro: comprò Santa Croce (frazione
attuale di Polesine) nel 1423 e da suo cugino Antonio la metà di Zibello; nel 1439 acquistò in
Piemonte il feudo di Stupinigi.
Nel 1441 Filippo Maria Visconti ordinò al comune di Fiorenzuola di riconoscere come suo
signore il marchese Rolando; il 10 ottobre lo stesso duca gli vendette le ville di Corte Maggiore e
S. Protaso. Solo 9 giorni dopo, Niccolò Piccinino, consigliere di Filippo Maria Visconti, incolpò
Rolando d'infedeltà e il duca di Milano autorizzò il Piccinino ad occupare e a confiscare le terre
di Busseto e Fiorenzuola. Nel 1445 "restò persuaso il duca della fedeltà, schiettezza e generosità
d'animo del Marchese Rolando, lo accettò nuovamente nella sua grazia e gli restituì una parte
delle Terre e Castella, che dianzi, come a traditore, gli erano state confiscate".19
Dunque Rolando Pallavicino, esponente d'una famiglia di antica feudalità imperiale, se da un
lato vedeva confermare varie investiture concesse ai Pallavicino dall'impero, dall'altro lato, per
ineluttabile necessità storica, dovette accontentarsi di riceverle per investitura ducale, venendo
assoggettato anche a un vassallaggio verso Filippo Maria Visconti, che in quell'atto dichiarava
che quei luoghi appartenevano per diritto legittimo alla Camera Ducale.
Nel 1450 Francesco Sforza divenne duca di Milano, grazie anche all'aiuto prestatogli dai
Pallavicino, due dei quali, Gian Lodovico e Pallavicino, figli di Rolando, furono creati
nell'occasione Cavalieri. 11 duca di Milano intervenne poi, nominando un arbitro, nella lite tra
Raimondino Lupi e Rolando Pallavicino a motivo dei confini di Samboseto.
L'amicizia con Francesco Sforza gli garantì la sua protezione e l'aiuto nel riprendersi le terre che
gli spettavano, garantendogli alcuni anni di pace fino alla morte avvenuta il 5 febbraio 1457.
11 25 luglio 1453, nella rocca di Monticelli, aveva dettato, in rispetto della
19 C.POGGIALI, Memorie storiche della città di Piacenza - vol.I-5, Piacenza 1757-58. cit. VII p.136 s.
legge Longobarda, sotto cui vivevano i Pallavicino, il suo testamento, assegnando alla sua
morte ingenti somme per le otto figlie e ad ognuno dei sette maschi, avuti dalla seconda moglie
Caterina Scotti di Agazzano, una porzione dei suoi possedimenti.
Il Magnifico Rolando Pallavicino, nobile veneziano, in una tela del XVI secolo. Coll. Privata.
Stemma della famiglia Pallavicino. Litta: Albero genealogico dei Pallavicino — Biblioteca
Fondazione Cariparma Busseto. La corona indica il Titolo di Città, concesso dall'imperatore Carlo V a Busseto nel 1533.
GLI STATUTI PALLAVICINI
Più ancora che per l'abilità politica, per la capacità di giostrare tra i potentati dell'Italia padana e
per le sue doti di valente uomo di guerra, che gli permisero di concentrare nelle proprie mani
gran parte degli antichi domini aviti, Rolando, passato alla storia col titolo di "Magnifico",
merita di essere ricordato soprattutto per l'opera di riassetto e riorganizzazione interni del suo
"Stato", opera che culminò con l'emanazione di un corpo di norme note con il nome di "Statuti
Pallavicini" e destinate ad essere applicate per tre secoli.
Nel corso del XV secolo gli statuti svolsero una funzione importante nella vita giuridica degli
Stati, principalmente perché disciplinarono le istituzioni e le magistrature, ma anche perché
contribuirono a consplidare gli aspetti della tradizione giuridica locale e costituirono un freno
contro l'arbitrio di funzionari e ufficiali locali.
Tali caratteristiche furono proprie anche degli "Statuti Pallavicini", la cui compilazione risale al
1429, periodo dell'alleanza di Rolando con Venezia contro Filippo Maria Visconti. In quegli anni
il marchese Rolando sperava di potersi sganciare dai legami di subordinazione che lo tenevano
unito al Visconti, cercando di rafforzare la propria àutonomia e d'ingrandire i propri domini.
Il testo degli Statuti mostra come Rolando, all'epoca in cui videro la luce, si trovasse in una
condizione di totale indipendenza da qualsiasi potenza egemone. Non vi è infatti in esso alcun
riferimento ad un'autorità al di sopra di quella del marchese. Rolando, dunque, seppe cogliere il
momento più opportuno per dare un corpo di leggi al proprio feudo e alle comunità che lo
popolavano, giacché mai più come allora si trovò così libero di agire e di scegliere, libero dalla
necessità di sottoporre all'approvazione di un'autorità superiore un'opera così importante per la
vita interna del proprio Stato. Il giurista pisano Agapito Lanfranchi, vicario del marchese,
s'ispirò nella compilazione agli statuti di Parma e Cremona, nei cui distretti si trovava la
maggior parte dei domini del marchese e con le quali ebbe frequenti scambi economici e,
conseguentemente, anche rapporti legislativi e giuridici. Tipico esempio di legislazione
signorile, emanata cioè per volontà diretta del signore senza che le comunità rurali vi avessero
parte alcuna20, questo loro carattere va posto in relazione con l'esistenza di un potere dei
marchesi fondato su una diretta investitura imperiale, comprendente
20 E.NASALLI ROCCA, Gli statuti dello Stato Pallavicino e le "additiones" di Cortemaggiore
B.S.Pc, XXI, 1926, p.152.
anche l'autorità di emanare norme giuridiche. Una legislazione che era specchio fedele di
un'organizzazione sociale e politica a base rurale, che tale resterà perché nessuno dei castelli
pallavicini riuscì mai ad acquistare i caratteri e l'importanza di un centro commerciale e
industriale. C'è da dire che, ai tempi di Rolando, i giochi erano ormai fatti: gli stati regionali si
erano ormai definitivamente affermati e non c'era spazio per la crescita di una nuova signoria.21
Gli Statuta Pallavicinia sono divisi in due libri:
Il primo, "Super civilibus negotijs disponentum", è formato di 58 rubriche e contiene la materia
civile; il secondo, "Super causis criminalibus e damnorum datorum e aliorum extraordinarium",
78 rubriche, contiene la materia penale.
Materia civile: le norme stabilivano che nessuno potesse essere citato senza licenza del podestà
o di altro ufficiale a ciò deputato (Rub:1 e 24), il quale "sedeva al banco" un'ora di mattino, tra le
otto e le nove, e due ore verso sera. I contadini non potevano essere citati nei periodi nei quali si
svolgevano la raccolta delle messi (4 giugno-1 agosto) e la vendemmia (8 settembre-1 ottobre)
(Rub.20). Le cause che non superavano il valore di 5 lire imperiali venivano definite
informalmente, a discrezione del podestà; per le cause maggiori era prevista una rigida
procedura, in ogni caso dovevano essere terminate entro 60 gg. dal loro inizio (Rub.4-5).
Nei giorni di domenica ed in altri quarantatre giorni considerati festivi non si tenevano udienze
che sommariamente per le vedove, gli orfani, i poveri (Rub.20), categorie che, insieme con
quelle dei minori e dei mentecatti, risultavano esplicitamente protette.
Minore era considerato l'individuo che non aveva compiuto i 20 anni; fino a tale età non gli era
consentito di stare in giudizio da solo senza il padre o il tutore (Rub.17).
Alla sentenza doveva esser data al più presto esecuzione. Tuttavia, colui contro il quale era stata
ordinata aveva tempo tre giorni per opporvisi (Rub.28) e il giudice, che aveva emesso
pronuncia ingiusta, era obbligato all'indennizzo della parte lesa (Rub.19).
A chi moriva senza aver fatto testamento succedevano nell'ordine i figli, i parenti non oltre il
quarto grado, donne comprese, il Fisco, cioè la Camera marchionale (Rub.53).
21 G.CHITTOLINI, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Sec. XIV e XV - 1979, p.31.
Nessuno poteva essere escluso dall'eredità del padre o di alcun altro parente per non averne
vendicata l'uccisione (Rub.55). Con questa disposizione veniva superata la barbara
consuetudine, codificata in altri Statuti, che considerava ereditaria la vendetta e infame chi non
l'avesse attuata.
Era d'altra parte usato ogni mezzo, anche coercitivo, che potesse contribuire ad appianare e
comporre le liti fra parenti (Rub.26), che evidentemente erano numerose.
Nell'intento dichiarato di favorire un aumento della popolazione, erano concesse esenzioni da
oneri vari a coloro che fossero venuti ad abitare da altri luoghi (Rub.43-49-51).
Materia penale: Erano puniti con la morte per impiccagione il reo di furto per la terza volta
recidivo (Rub.25), il rapinatore che su strade pubbliche avesse rubato una somma superiore a 20
soldi imperiali (Rub.25), il reo di lesa maestà o di trame contro lo Stato (Rub.26), l'assassino
(Rub.28). Venivano decapitati l'omicida (l'assassinio rispetto all'omicidio era un reato commesso
con maggior efferatezza) (Rub.27), l'incendiario di case, chiese e conventi (Rub.30), il reo di
sequestro di persona che durasse più di tre giorni (Rub.42) e il colpevole di ratto con stupro, nei
confronti di una donna, vedova o sposata che fosse (Rub.41).22
Il sodomita (Rub.41), il falsificatore e il tosatore di monete (Rub.37) erano mandati al rogo.
Era prevista l'amputazione della mano destra per il ladro recidivo (Rub.25), per chi falsificava il
sigillo del Signore (Rub.38); l'amputazione del piede destro per chi avesse tenuto sotto
sequestro una persona per meno di tre giorni (Rub.42); della lingua per chi offendeva Dio e la
Madonna (Rub.10); del pollice destro per chi faceva le fiche contro Dio, la Madonna e i Santi
(Rub.12).
I condannati per tutti questi reati potevano evitare la menomazione corporale pagando forti
multe.
Era punito con il taglio della lingua chi testimoniava il falso o produceva falsi testimoni
(Rub.36).
La pena più comunemente applicata, quella pecuniaria, variava da un massimo di 200 lire
imperiali (Rub.42) ad un minimo di pochi soldi imperiali (Rub.53).
22 La pena non veniva applicata se lo stupro era seguito dal matrimonio, oppure era ridotta al pagamento di 50 lire
imperiali se lo stupro era avvenuto senza ratto (cioè consensuale) nei confronti di una donna che non fosse
notoriamente una meretrice, tale era considerata colei che si era data a due o più uomini. La pena per la donna era
la fustigazione. E.NASALLI ROCCA - 1927, p.22.
Veniva multato il giocatore d'azzardo e il biscattiere, l'oste che vendeva il vino al minuto in
recipienti non bollati, il fornaio che non faceva il pane bianco e a prezzo di calmiere, il macellaio
e il mugnaio disonesti, l'inquilino o il colono che rifiutasse di restituire l'immobile locato al
legittimo proprietario dopo scaduto il contratto, il camparo che tagliasse o permettesse di
tagliare legna dei boschi del signore senza sua licenza.
Per i delitti commessi i minori di 14 anni non potevano essere condannati né a morte né
all'amputazione di alcun membro del corpo.
Spettava ai consoli, eletti, uno per ciascun luogo o villa, dagli abitanti, ogni anno all'inizio di
gennaio (Rub.7), denunciare ai giudici i delitti entro cinque giorni dal momento in cui erano
stati compiuti; i campari invece, scelti allo stesso modo dei consoli, ma in numero maggiore,
avevano il compito di vigilare sulle campagne e di denunciare, entro tre giorni, i danni
apportati da uomini e animali alle colture, danni che venivano valutati dagli extimatores
(Rub.7-75).
La Rocca di Busseto, veduta anteriore.
L'accusato o il denunciato riceveva la comunicazione giudiziaria a mezzo di corriere e gli erano
concessi due o tre giorni per comparire davanti al giudice.
Se invece era forestiero, l'accusa o la denuncia nei suoi confronti veniva proclamata ad alta voce
in tribunale e nella piazza ed egli aveva cinque giorni per presentarsi (Rub.2).
In caso di mancata comparizione, l'accusato era considerato contumace e dichiarato bandito in
tutto il territorio dello Stato (Rub.2). Nelle cause penali, che dovevano concludersi nel termine
di quaranta giorni, non era ammessa possibilità di appello, le sentenze erano immediatamente
eseguite (Rub.55).
La Rocca di Busseto, veduta posteriore. Acquarello conservato nella Villa Verdi di Sant'Agata.
Con lo scopo di dare ordine e stabilità alle terre soggette alla sua signoria, Rolando pose il
castello come centro di funzioni sia difensive che amministrative-giurisdizionali. A questo
facevano capo alcune ville o comunelli. Nel castello il marchese teneva un certo numero di
ufficiali con compiti specifici: il podestà rappresentava il sovrano e a lui competeva in
particolare l'esercizio dell'autorità giudiziaria; al castellano veniva affidata la custodia del
castrum, incarico che richiedeva una speciale competenza militare. Vi era poi il connestabile,
preposto alla custodia delle porte del castello ed aveva normalmente alle sue dipendenze alcune
guardie, mentre il gastaldo sovrintendeva all'amministrazione dei beni del signore.
Busseto, oltre che capitale politico-militare del piccolo Stato, ne diventò, con Rolando, anche la
capitale economica e religiosa. Nel 1426, ad esempio, in un periodo di relativa tranquillità,
Rolando, per dare impulso al commercio, istituì una fiera da tenersi ogni anno nei primi tre
giorni di novembre nella piazza, sotto i portici e nelle vie adiacenti, stabilendo che vi potesse
essere esposta ogni tipo di mercanzia, tranne gli animali, per la vendita dei quali veniva messo
a disposizione uno dei prati che circondavano il castello. Erano esentate dal dazio le bestie che
entravano, tranne quelle da ghianda. Nei giorni della fiera anche i debitori e i delinquenti
potevano recarsi a Busseto, godendo dell'immunità.
LA COLLEGIATA DI SAN BARTOLOMEO
Nel 1336 Oberto Pallavicino aveva dato inizio alla costruzione di una chiesa a Busseto, che fosse
di maggior prestigio rispetto a quella in essere di S. Nicolò, per un paese che nel frattempo si
stava sviluppando sempre di più. Questa chiesa, dedicata a San Bartolomeo, fu retta per 100
anni da un parroco, con il titolo di rettore.
Nel 1432 Rolando Pallavicino presentò richiesta al Capitolo di Cremona (Busseto faceva parte
della Diocesi di Cremona) perché fosse assegnata alla Chiesa di Busseto la dignità Prepositurale
con un Preposto, quattro canonici e due Prebendari, offrendosi di fornire, a proprie spese, le
rendite necessarie per il mantenimento del clero e per il decoro del culto, con riserva però del
diritto di patronato; chiese inoltre che alcune chiese,venissero sottoposte a quella di Busseto,
promettendo di restaurarle e dotare le più povere.
Ottenuto il consenso dal vescovo di Cremona, il Pallavicino ricorse a Papa Eugenio IV per
ottenere la conferma della concessione, ed il Pontefice da Bologna il 9 luglio 1436 con sua Bolla
sancì l'erezione di San Bartolomeo in Collegiata. Le Chiese che vennero poste sotto la
giurisdizione della Collegiata di Busseto, con la dignità di Prepositura; furono le seguenti:
la chiesa della Pieve di Sant'Andrea, la chiesa di San Cristoforo nella villa di Vidalenzo, la chiesa
di Santa Maria del Bosco campestre e la chiesa di San Geminiano presso Busseto.
Le 22 chiese minori che, tolte dalla Chiesa cremonese, passarono nella giurisdizione della
Collegiata furono: S.Giovanni Battista di Pieve Otto Ville, S.Giuliano della Pieve di San
Giuliano, S.Pietro in Corte detta Prepositura, S.Niccolò di Castelletto dei Furgoni, S.Spirito di
Borgo Santo Spirito, S.Giovanni di Motaro, S.Maria delle Spine, S.Leonardo dei Malumbri,
S.Maria madre del Signore, S.Giovanni di Castel Vetro, S.Giorgio di Monticelli, S.Gregorio di
Spigarolo, S.Giovanni di Soar-za, SS.Gervasio e Protasio di Zibello, S.Pietro di Ragazzola,
S.Domenico dell'Isola dei Bozzardi, S.Vito di Polesine, S.Agata di S.Croce, S.Agata di Busseto,
S.Niccolò di Busseto, SS.Trinità di Busseto, S.Valeria di Olza. Rolando inoltre s'impegnò a
demolire la Chiesa di San Bartolomeo, per ricostruire su questa una Chiesa più ampia e di
fabbricare comode abitazioni al Preposto, ai Canonici e ai Beneficiati. Il marchese s'impegnò
molto per costruire questa importante realtà ecclesiastica a Busseto, motivo di prestigio e
riconoscimento di un importante potere politico.
La Collegiata di S. Bartolomeo.
Questo provvedimento sancì la decadenza delle chiese pievane di San Giuliano, di Sant'Andrea
e di Pieve Ottoville, le quali vennero declassate e assoggettate alla nuova collegiata. Un secolo
dopo la stessa sorte sarebbe toccata alla pieve di San Martino in Olza dopo l'erezione della
Collegiata di Cortemaggiore. La sorte delle pievi era la conseguenza dello sviluppo di altri
centri politici nel contado: Castelvetro per San Giuliano, Busseto per Sant'Andrea, Zibello per
Pieve Ottoville e Cortemaggiore per San Martino in Olza.
Rolando il Magnifico.
IL TESTAMENTO DEL MARCHESE ROLANDO
Alla sua morte, avvenuta il 5 febbraio 1457, Rolando possedeva tredici castelli che, fin dal 1453,
con disposizione testamentaria, aveva destinato ai suoi figli maschi, procedendo ad una
divisione che rispondeva al principio esplicitamente dichiarato di mantenere unito il nucleo più
consistente e compatto dei suoi domini. Di tali castelli infatti tre soltanto, Solignano, Varano
Marchesi e Costamezzana, vennero assegnati singolarmente ad altrettanti figli, gli altri, vale a
dire Busseto, Monticelli, Polesine, Zibello, Castellina, Torre Marchesi (Castel Guelfo), Tabiano,
Bargone e Gallinella, furono lasciati congiuntamente agli altri quattro, col divieto assoluto per
tutti di alienare la propria quota se non agli altri comproprietari e di non addivenire a divisioni
per un periodo di cento anni. Le ultime volontà di Rolando non vennero però rispettate. Alcuni
dei figli, che già avevano manifestato il proprio scontento e il proprio risentimento, quando egli
era ancora in vita, ed erano ricorsi al duca di Milano, affinché facesse pressione sul padre per
farle modificare, sentendosi lesi nei loro diritti, ne impugnarono la legittimità.
Ne nacque una contesa, ad arbitro inappellabile della quale venne eletto il duca di Milano
Francesco Sforza: una contesa che si rivelò rovinosa per le sorti della casa Pallavicino, i cui
domini, alla fine, persero il carattere di signoria autonoma e vennero sottoposti al controllo
della camera ducale. I risultati degli sforzi di Rolando, fautore di una concezione
dell'organizzazione del potere anacronistica, ma assai viva ancora nella seconda metà del '400,
che riteneva possibile la prospettiva di un assetto politico nel quale fosse garantita al piccolo
Stato signorile pieno diritto di cittadinanza nell'ambito dello Stato regionale, in cambio del
semplice riconoscimento della superiorità di un principe, si erano rivelati alla fine effimeri.
Lo Sforza, che ambiva a indebolire la potenza pallavicina, se mostrava formalmente la sua
grande amicizia, segretamente alimentava i dissensi tra i fratelli. Sulla base della sentenza,
redatta dal suo segretario Cicco Simonetta, i Pallavicino erano tenuti a chiedere l'investitura,
delle terre loro assegnate, allo Sforza, che non li confermò in tutti i privilegi ottenuti nei
Diplomi imperiali, riservando alla Camera Ducale alcuni dazi e tributi: si ebbe quindi la
trasformazione dei beni pallavicini da feudo imperiale a feudo camerale.
I fratelli, che avevano consegnato nelle mani dello Sforza il loro diritto, si sottomisero senza
alcuna riserva alla suprema potestà del duca di Milano, ottenendo successivamente da questi
l'investitura dei loro feudi. Lo Stato veniva ripartito in questo modo:
-A Nicolò spettò il feudo di Varano Marchesi, la Villa di Miano, Castelguel-fo e la Gallinella (22
miglia con 567 uomini d'arme). Con Nicolò ebbe origine il ramo detto dei Marchesi di Varano,
estinto nel 1782.
-Oberto ottenne Tabiano, la Castellina, metà di Solignano (miglia 17 con 491 uomini d'arme). Da
lui discese il ramo dei Marchesi di Tabiano, estinto nel 1756.
-A Gian Ludovico e a Pallavicino furono assegnate congiuntamente la Rocca di Bargone e Busseto
con le ville e pertinenze, tra cui Cortemaggiore.
-A Giovan Manfredo vennero date Polesine e Costamezzana; fu il capostipite dei Marchesi di
Polesine, estinti nel 1731.
-A Carlo, vescovo di Lodi, venne assegnato Monticelli d'Ongina. Con la sua morte, avvenuta nel
1497, Monticelli venne assorbito dalla Camera ducale.
-Giovan Francesco, ultimogenito di Rolando, ebbe Zibello e l'altra metà di Solignano; fu il
capostipite dei Marchesi di Zibello.
IL FEUDO DI POLESINE
Il primo documento in cui Polesine si trova nominato è un inventario dei beni dei monaci di
Nonantola dell'ultimo decennio del secolo X; beni tra i quali figurano: "Ad Polisinum massaricias
duas que detinet Obertus marchio cum suo nepote... ".23
All'inizio del XII secolo Polesine era sotto il controllo del vescovo di Cremona, mentre nel 1162
l'imperatore Federico I Barbarossa riconosceva tutta la zona dipendente dal comune di
Cremona.
Nel diploma d'investitura, concesso nel maggio del 1249 al marchese Uberto Pallavicino il
Grande, troviamo elencata la villa Polexini Sancti Viti. Dopo il crollo della potenza di Uberto,
Polesine tornò nelle mani del comune di Cremona e fu solo nel 1360 che l'imperatore Carlo 1V
ne riconobbe l'appartenenza a Oberto Pallavicino. Con Rolando il Magnifico Polesine si arricchì
di un castello e una rocca (1408); la sua costruzione corrispondeva all'esigenza di meglio
difendere il luogo ed i suoi abitanti e di proteggere il porto sul Po, la cui importanza era andata
aumentando nel corso del tempo: la fortezza è ormai scomparsa da secoli, inghiottita dalle
acque del Po.
Dopo la morte di Rolando (5 febbraio 1457), iniziò una contesa fra i figli, che contestavano la
legittimità del testamento e ricorsero al giudizio inappellabile del duca di Milano; la contesa si
rivelò rovinosa per le sorti della casa pallavicina, i cui domìni finirono per perdere la propria
autonomia e vennero sottoposti al controllo della Camera ducale. Con la divisione dei beni, a
Giovan Manfredo vennero assegnati Polesine e Costamezzana, ma la soluzione non sembrò
gradita al marchese, che negli anni successivi entrò spesso in conflitto con i fratelli, con il
frequente ricorso al duca di Milano perché intervenisse per un accordo definitivo. Il
comportamento di Giovan Manfredo, ispirato ad estrema diffidenza, influì negativamente sia
sulle relazioni con i sudditi che sui rapporti con la camera ducale, al punto da portare alla
confisca dei suoi beni da parte del duca "per le trasgressioni e i demeriti del fu signor Giovan
Manfredo".
La scomparsa del marchese (1486) venne accolta con sollievo dalla gente di Polesine, che per
molti anni aveva dovuto subire le sue pretese e le sue
23 Tiraboschi, doc.XCV, p.126. 1.:Oberto di cui il documento fa menzione è Oberto II della linea Obertina, quella
stessa linea dalla quale discendono gli Estensi ed i Malaspina; quanto al nipote, si tratta di Oberto della linea
Adalbertina, dalla quale discendono i Pallavici-no. La nota rivela come all'epoca la potente famiglia degli
Obertenghi si fosse già inserita nella zona, probabilmente come livellari.
imposizioni ingiuste e quando, nel 1488, suo figlio Gianottaviano riuscì a riavere il feudo, la
comunità del luogo si premunì contro ogni evenienza, stipulando col nuovo signore patti ben
chiari, relativi al rapporto feudatario-sudditi. L'accordo con la Camera ducale comportò
l'esborso da parte di Gianottaviano di una rilevante somma in denaro.
Nel 1498 il marchese, congiuntamente ai suoi 4 fratelli, decise di vendere il feudo di Polesine al
marchese Rolando Pallavicino di Cortemaggiore, probabilmente allettato dalla forte somma di
denaro offerta. L'operazione provocò una forte reazione da parte dei marchesi di Busseto, i
quali temevano che, saldandosi i due feudi di Cortemaggiore e Polesine, potesse essere
compromesso l'utilizzo di quello strettissimo lembo di terra, posto tra le due giurisdizioni, che
era il solo mezzo per Busseto di raggiungere il Po. Evidentemente convinto delle motivazioni, il
20 febbraio 1499 il duca di Milano annullò l'atto, restituendo il feudo a Gianottaviano. Cinque
anni più tardi fu Galeazzo, figlio di Pallavicino Pallavicino, signore di Busseto, ad acquistare in
permuta dal cugino Gianottaviano il feudo di Polesine, che rimase in possesso ai marchesi di
Busseto fino al 1569, quando si concluse una transazione tra il marchese Gerolamo, signo,re di
Busseto, e alcuni discendenti di Gianottaviano, i quali mai avevano rinunciato ai loro diritti su
Polesine e, con l'annullamento dell'atto di permuta del 1504, riacquistarono il feudo.
Il ritorno di Polesine ai discendenti di Giovan Manfredo seniore, segnò l'inizio di un periodo di
contrasti tra i marchesi e i loro sudditi, legati ai diritti sui mulini e sulle piarde del Po. Altra
controversia fu quella con il marchese Gerolamo di Busseto, il quale aveva posto alla bocca
dell'Ongi-na un porto, che veniva a danneggiare gli interessi dei signori di Polesine. 11 possesso
in comune di Polesine tra i cugini, marchesi Ottaviano, Pallavi-cino e Camillo, non durò a lungo
e, il 24 maggio 1572, essi procedettero al frazionamento del feudo in tre parti, in modo che
ognuno, separatamente, potesse esercitare il proprio potere signorile e avere i propri sudditi.
Dopo la morte del marchese Pallavicino Pallavicino, avvenuta nell'aprile del 1577, i suoi beni
feudali passarono nove anni dopo agli altri condomini di Polesine (Ottaviano e Camillo), una
volta appianata la vertenza col conte Antonio Maria Terzi, cognato del defunto e da questo
designato come erede universale in mancanza di figli maschi. Verso la fine del Cinquecento, i
Pallavicino vennero a trovarsi in contrasto con la Camera ducale milanese e anche con il
vescovo di Cremona (fino al 1601 Polesine fece parte della diocesi di Cremona, per passare da
tale data sotto la nuova diocesi di Fidenza): la posizione sul fiume con i tanti interessi collegati
sollecitava gli interessi di tanti, ed ogni volta i marchesi di Polesine erano chiamati a
documentare il loro buon diritto, derivante da concessioni e riconoscimenti imperiali.
Con l'inizio del Seicento, dei diversi feudi che componevano la fascia padana dello Stato
Pallavicino, ben poco era ancora sotto il controllo dei marchesi discendenti da Rolando il
Magnifico. Busseto, Cortemaggiore e Monticelli erano stati incamerati, nel 1587, dal duca
Alessandro Farnese e su Zibello signoreggiano i Rangoni, i quali restituiranno il feudo ai
discendenti del marchese Giovan Francesco seniore nel 1630. Sol9 Polesine continuava ad essere
posseduto dai discendenti di Giovan Manfredo, che lo avevano recuperato nel 1569. Ma sul
territorio, sul quale viveva una popolazione numericamente modesta, dominavano quattro
nuclei familiari, che diventarono sei nel corso del secolo: troppi per consentire una vita agiata a
tutti. A peggiorare la situazione concorse la politica del duca Ranuccio I Farnese, rivolta a
limitare il potere dei feudatari, e con l'emanazione di sentenze varie per crimini che
comportavano la confisca dei beni. Non per caso molti dei Pallavicino di Polesine, nel corso del
XVII secolo, cercarono la via per riuscire a condurre un'esistenza in linea con il loro titolo di
marchese, attraverso il matrimonio con rampolli di famiglie agiate, una collocazione a corte,
oppure percorrendo una brillante carriera ecclesiastica, come nel caso del marchese Ranuccio,
nominato cardinale nel 1706.
Era iniziato intanto quel processo che avrebbe portato, nell'arco di un secolo, all'estinzione del
ramo dei marchesi di Polesine, discendenti da Gio-van Manfredo seniore.
Nella divisione di Polesine del 1572, un terzo ciascuno era andato a Palla-vicino, Ottaviano e
Camillo. Con la scomparsa nel 1577 del marchese Pal-lavicino Pallavicino, si estinse la sua linea
non avendo avuto figli maschi; nel 1699 morì il marchese Carlo, ultimo rappresentante della
linea che faceva capo a Ottaviano. Il marchese Camillo, a cui era toccato il quartiere di San
Rocco, la parte mediana del feudo, aveva sposato anni prima Margherita, figlia del marchese
Girolamo Pallavicino di Crema, che gli aveva portato in dote 8.000 scudi. Nel 1680, in mancanza
di eredi maschi, fu il marchese Ranuccio, uno dei più illustri prelati della Chiesa romana, ad
ereditare sia i beni feudali che allodiali. L'esistenza del cardinale Ranuccio,
Polesine in una carta realizzata su rilievi di Smeraldo Smeraldi. Tra gli edifici sono raffigurati tre palazzi appartenenti rispettivamente ai
marchesi Giulio, Ercole e Camillo Pallavicino
(Archivio di Stato di Parma, Mappe e disegni, vol. 31/5).
Porto e Rocca di Polesine: da una mappa della seconda metà del XVI secolo (Archivio di Stato di Parma, mappe e disegni, vol. 31, n.° 20/49).
Da Nelle terre dei Pallavicino, Polesine di Carlo Soliani.
Palazzo delle Due Torri di Polesine, compreso nei beni lasciati in eredità dal marchese Vito Modesto alla figlia Dorotea. Venne dalla Camera
ducale ceduto al marchese Alessandro Pallavicino di Zibello, che reclamava i beni allodiali lasciati in eredità da Vito Modesto, marchese di
Polesine.
Enrichetta d'Este, 1728, moglie del duca Antonio Farnese e, in seconde nozze, del principe Leopoldo d'Assia Darmstadt, signora di Polesine tra
il 1748 ed il 1764 (pastello eseguito da Rosalba Carriera e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze).
nato a Polesine nel 1632, si concluse nel 1712; nel suo testamento lasciò i beni sia feudali che
allodiali a Vito Modesto, in quanto "discendente da un ramo de' marchesi di Polesine sul
Parmigiano, stato Pallavicino". 11 marchese, che aveva solo 14 anni, riunì nelle sue mani l'intero
feudo, di cui ottenne l'investitura dal duca Francesco Farnese. Con lui, che terminò la sua breve
esistenza nel 1731, si estinse la linea discendente dal marchese Giovan Manfredo seniore,
capostipite dei marchesi di Polesine. Dettò le sue ultime volontà il 14 luglio di quell'anno,
istituendo erede universale dei suoi beni, diritti feudali compresi, il ventre pregnante della
moglie, marchesa Ottavia Pallavicino. I126 novembre 1731 nacque la figlia di Vito Modesto, alla
quale venne dato il nome di Dorotea; la Camera ducale, proprio in quanto Dorotea era una
femmina, ritenne, in mancanza di un erede maschio, di dover incamerare i feudi del marchese.24
Inutilmente la giovane marchesa tentò di recuperare il feudo di Polesine, mentre la Camera
ducale lo vendette, nel 1748, alla principessa Enrichetta d'Este, vedova di Antonio Farnese.
Dorotea, andata sposa al marchese cremonese Girolamo da Soresina Vidoni, ottenne solo alcuni
beni allodiali compresi nel testamento del padre. Morì nel 1818, mantenendo sempre contatti
con Polesine, nel cui territorio possedeva àlcuni poderi.
24 Nel 1721 era morta Anna Maria Pallavicino, altra figlia di Vito Modesto Pallavicino, signore di Polesine. Venne
sepolta nell'oratorio di Santa Franca di Polesine.
IL FEUDO DI MONTICELLI D'ONGINA
Nel 966, in una transazione tra il vescovo di Cremona Liutprando e il conte Wilfredo, c'è il
primo accenno alla presenza a Monticelli di un castello, inteso come complesso di edifici, centro
dell'economia locale, delimitato da mura o un fossato. In seguito, probabilmente intorno al XIII
secolo, sorse la prima Rocca, una costruzione massiccia edificata più a scopo militare che
abitativo e punto centrale del castrum di Monticelli. Situato al confine tra Piacenza e Cremona,
il territorio era conteso tra queste due realtà. Nel 1335 il comune di Cremona perse la sua
autonomia e passò sotto il dominio di Gian Galeazzo Visconti: Monticelli diventò feudo del
ducato di Milano. Nel 1413 Rolando Pallavicino prestò giuramento di fedeltà all'imperatore
Sigismondo, il quale gli rinnovò l'investitura, concessa dai precedenti sovrani, dei castelli di
Borgo S. Donnino, Busseto e Varano, aggiungendovi quella di Monticelli d'Ongina, che si dice
avesse Rolando acquistato da poco con mezzi illeciti, colle ville di Castelvetro, S. Giuliano, Olza
e Isola dei Corradi. L'investitura venne confermata nel 1426 da Filippo Maria Visconti. E'
all'iniziativa di Rolando il Magnifico, che Monticelli deve la costruzione della sua Rocca,
l'imponente costruzione dalla struttura quadrata, con i torrioni rotondi angolari e il mastio
all'ingresso. Nel 1453, nel castello di Monticelli, il marchese dettò il suo testamento, con il quale
assegnava ai sette figli tutti i suoi possedimenti; cinque anni dopo, a seguito delle ripetute
contestazioni degli eredi, il duca di Milano Francesco Sforza provvide con suo lodo
inappellabile alla spartizione: Monticelli con la rocca venne assegnato a Carlo Pallavicino, sesto
figlio del Magnifico, vescovo di Lodi dal 1456. Carlo era nato a Monticelli nel 1427, studiò
all'Università di Bologna, proseguendo gli studi a Parigi, dove si laureò alla Sorbona. Iniziata la
carriera diplomatica al servizio del re di Francia, si vide subito affidare importanti incarichi. Il
desiderio di seguire la via del sacerdozio lo indusse però a lasciare la vita diplomatica e già a 27
anni il papa Nicolò V lo nominò suo Elemosiniere e poi Protonotario Apostolico. Il nuovo papa
Callisto III gli confermò la fiducia di cui godeva con il suo predecessore e il 21 giugno 1456 lo
nominò vescovo di Lodi.
Pur assorbito dalla cura della grande diocesi lombarda, mons. Carlo Palla-vicino non dimenticò
il suo paese e, nel 1469, rivolse domanda al pontefice Paolo II, perché autorizzasse l'erezione di
una Chiesa collegiata sotto il titolo di San Lorenzo in Monticelli. In accoglimento della supplica,
con due bolle, rispettivamente del 1470 e del 1471, il pontefice autorizzò la costruzione della
nuova chiesa, che doveva essere officiata da un prevosto e da un capitolo di quattro canonici,
quattro prebendari e due chierici. A don Matteo Bottazzi, primo canonico prevosto della
Collegiata, subentrò nel 1513 don Giovambattista Pallavicino (diventato in seguito cardinale),
appartenente al ramo genovese del nobile casato.
La nuova chiesa collegiata prepositurale, costruita a spese di mons. Carlo, venne completata e
benedetta nel 1480 e ad essa furono assegnate le chiese di: S. Pietro in Corte (S.Pedretto), S.
Giorgio (allora dipendente dai benedettini di Nonantola) e S. Giovanni (dipendente dalla
plebana di Polignano) entrambe di Monticelli; S.Maria delle Spine, S.Maria Mater Domini (la
Chiesa di Mezzano Chitantolo), dello Spirito Santo (la Basti-da), S.Giuliano (l'antica pieve),
Castelvetro, Olza, Castelletto, S.Nicolò degli Arciboldi e l'Isola dei Corradi.
A Busseto, che oltre a Monticelli perdeva altre nove chiese, venne assegnata, come indennizzo,
un'annuale simbolica offerta di un cero votivo, in occasione della festa del Santo, a carico della
collegiata di Monticelli. Il marchese Carlo Pallavicino morì a Monticelli il 1° ottobre 1497, in
fama di santità, e i canonici di Lodi si azzuffarono con quelli di Monticelli per il possesso della
salma, che alla fine resterà nel paese di origine, custodita nella sua collegiata.25 Nel testamento il
vescovo lasciava la giurisdizione del feudo al nipote Antonio Maria, con l'obbligo di scegliere il
successore tra i figli maschi e di conservare integro il feudo stesso. Nel 1557 Sforza Pallavicino
riunificò lo Stato Pallavicino (diviso un'ottantina di anni prima tra i figli di Rolando); in quel
periodo nel castello di Monticelli era insediato il marchese Polidoro Pallavicino, che morì dieci
anni dopo senza eredi maschi. La Camera Ducale farnesiana rivendicò allora il diritto sui due
terzi del Feudo, lasciando il rimanente alla figlia di Polidoro, Lidia Pallavicino, che andò sposa
al cavalier Gregorio Casali, il quale diventò così feudatario di una parte del territorio
monticellese. Nel 1567 Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, investì del feudo Michele
Casali, figlio di Lidia Pallavicino, con il titolo di Conte (innalzato alla dignità di marchese da
Ranuccio II Farnese, dieci anni dopo); il 24 maggio 1650, Francesco Casali, pronipote di
Gregorio, comperò dalla camera ducale Farnese
25 I resti di Carlo Pallavicino furono riesumati tre volte. La prima, il 12 giugno 1546, portò a constatare lo stato
incorrotto della salma. La seconda ricognizione avvenne nel 1686 con lo stesso risultato, mentre l'ultima, il 20
settembre 1916, fu compiuta alla presenza del vescovo di Lodi, dei parenti del marchese Pallavicino e diverse
autorità civili. Questa volta il corpo risultò decomposto, mentre dal cranio aperto si intuiva la presenza di un ragno.
(Mons. Carlo Pallavicino vescovo di Lodi, ed. Il Pomerio-Lodi, 1997).
la metà dei due terzi del feudo che gli stessi Farnese avevano avocato a sé, accentrando nelle
sue mani quasi tutto il primitivo territorio del feudo pallavicino di Monticelli.
Francesco Casali rimase anche Conte di Castelvetro Piacentino fino al 1691, quando vendette
quelle terre al nobile piacentino Federico II Cop-palati.
La Rocca di Monticelli O. L'edificio è di forma rettangolare, con quattro torri rotonde agli angoli ed il mastio sul portone d'ingresso.
Nel 1967 la parrocchia di Monticelli acquistò dal marchese Casali la Rocca, per utilizzarla per le
Opere parrocchiali. Un sopralluogo, effettuato dal parroco con alcuni incaricati della
sovraintendenza ai Beni Culturali per le province di Parma e Piacenza, accertò l'esistenza di un
piccolo vano, dalla struttura singolare, dove qualche screpolatura dell'imbiancatura lasciava
intravedere zone colorate sottostanti. Compiuti gli opportuni assaggi tecnici, ci si convinse di
trovarsi di fronte alla Cappella di Corte. Consacrato vescovo di Lodi e diventato Signore del
feudo di Monticelli, Carlo Palla-vicino aveva voluto che la cappellina della Rocca, nella quale
era solito celebrare la Santa Messa durante la sua permanenza in paese, venisse abbellita
secondo precise idee catechistico-liturgiche. L'opera di affrescatu-ra fu affidata a Bonifacio
Bembo, affermato pittore bresciano del tempo, che aveva già dato prove delle sue capacità in
diverse chiese di Cremona e in case signorili dei vari potenti dell'epoca. L'opera pittorica fu
condotta a termine dal Bembo, che si avvalse forse verso la fine dell'aiuto del fratello Benedetto,
dopo la metà del Quattrocento: nella cappella della Rocca di Monticelli abbiamo così uno dei
cicli migliori della pittura italiana quattrocentesca, con episodi della vita di San Bassiano,
predecessore di Carlo Pallavicino sulla cattedra vescovile di Lodi, affreschi della vita di Gesù,
della Madonna e dei Santi. In una spalla della finestra è raffigurato in abito prelatizio con
mantellina Carlo Pallavicino, committente della cappellina.
Il vescovo Carlo Pallavicino. Affresco di R. De Longe.
La facciata originale della Basilica, in stile gotico-lombardo, e prima della nuova facciata del 1877.
I MARCHESI PALLAVICINO SIGNORI DI ZIBELLO
Con l'investitura del 1249 da parte di Federico II, Uberto Pallavicino il Grande ottenne oltre
cinquanta località (22 castelli e trentantadue ville), tra le quali Busseto, Zibello, Santa Croce,
Ragazzola, Polesine Manfre-di, Polesine S.Vito, Samboseto, Solignano, Ravarano... Con la
sconfitta dell'Impero, Uberto perse il piccolo Stato e, dopo la sua morte, fu Manfredino, suo
figlio e successore, a tentare una difficile opera di recupero, che iniziò a concretizzarsi solo a
partire dal 1311, con la discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII, che reintegrò il Pallavicino
nel possesso di Zibello, Ragazzola ed altri luoghi. Dopo la morte di Manfredino, la divisione del
patrimonio familiare assegnò ad Oberto il polo giurisdizionale di Busseto e Solignano con le
loro pertinenze, mentre a Donnino Toccava quello di Zibello e Ravarano. Nel 1349, alla morte di
Donnino, la sua eredità passò ai figli Federico (Zibello) e Giovanni (Ravarano).
Con il marchese Rolando il Magnifico, che provvide a organizzare il proprio piccolo Stato,
dotandolo di un corpo di leggi dette Statuti Pallavicini, il feudo di Zibello giunse a
comprendere anche i comunelli di Santa Croce, Ragazzola e Pieve Ottoville.
Dopo la sua morte, avvenuta il 5 febbraio 1457, nacque tra i sette figli di Rolando una contesa
per la divisione dell'eredità, che portò al giudizio inappellabile di Francesco Sforza signore di
Milano, che provvide alla ripartizione. All'ultimogenito Giovan Francesco, nato nel 1439, toccò
in eredità Zibello, che diventò così la capitale della sua minuscola signoria, e metà di Solignano.
Durante i 40 anni del suo governo, Giovan Francesco mostrò fermezza ed equilibrio,
conquistando stima e rispetto da parte dei propri sudditi.
Le sue doti vennero apprezzate anche alla corte di Milano, dove divenne prima cameriere
(1476) e poi consigliere ducale (1480). Con Giovan Francesco si estese il feudo di Zibello, che
arrivò a comprendere anche Stagno, Tolarolo, Polesine Manfredi (1480), Tizzano, Varano
Melegari (1481), Roccabianca e Fontanelle del Pizzo (1483). Giovan Francesco intraprese una
serie di opere nel castello di Zibello, ristrutturando la rocca e trasformandola, da baluardo
esclusivamente militare, nel centro della vita anche culturale della piccola corte. L'opera di
sistemazione urbanistica continuò poi con la costruzione, entro le mura del castello, della
monumentale chiesa dei SS. Gervaso e Protaso e in seguito con la fondazione del monastero di
S. Maria delle Grazie. Se i rapporti tra Giovan Francesco e i sudditi di Zibello si mantennero
sempre buoni, qualche problema gli procurò l'esistenza, nel suo feudo, di proprietà
appartenenti a cittadini cremonesi (in particolare i Sommi, i quali non avevano ancora
rinunciato all'idea di poter recuperare il loro feudo di Pieve), che avanzavano ingiustificate
pretese di esenzione dagli oneri. Ma le maggiori difficoltà derivarono dall'essere il feudo di
Zibello confinante con terre appartenenti a Pier Maria Rossi, signore di San Secondo. I loro
rapporti, già tesi per vecchi rancori dinastici, andarono via via peggiorando, soprattutto quando
Pier Maria procedette alla costruzione del castello di Roccabianca, quasi sul confine fra le due
giurisdizioni. I due, fino allora fedeli alleati degli Sforza, si trovarono schierati in campi opposti
nella guerra per Ferrara: Giovan Francesco con Lodovico il Moro, Pier Maria con Venezia; una
guerra che costò la vita allo stesso Pier Maria e che segnò la fine dell'autonomia della signoria
ros-siana, forte di ben venti castelli. La vittoria degli Sforza ed il crollo della potenza dei Rossi
regalarono alla signoria di Zibello anni di tranquillità e prosperità, rendendo possibile
realizzare quelle opere edilizie di cui si è in precedenza parlato. Alla morte del marchese (1497),
i suoi feudi vennero divisi fra i cinque figli. Federico ottenne Zibello, il castello più ambito, con
l'impegno però della tutela di Gaspare, al quale furono destinati i feudi di Tizzano e Ballone. A
Bernardo lasciò i castelli di Solignano, Varano Melegari e S. Andrea; a Rolando il castello di
Roccabianca con le ville di Rezenoldo, Fontanelle, Stagno, Tolarolo e Polesine Manfredi; a
Polidoro la terza parte del castello di Monticelli O., che Giovan Francesco aveva ereditato pochi
mesi prima dal fratello Carlo. Spettò dunque a Federico il feudo di Zibello, e dopo di lui al figlio
Giovan Francesco iuniore, morto senza figli maschi nel 1514: questa circostanza portò a
conseguenze fortemente negative negli anni successivi. Nel 1515 e ancora nel 1529, Zibello subì
assedi e saccheggi, cambiando più volte signore nello spazio di pochi anni. Dal 1530 fu oggetto
di un'interminabile contesa tra i Pallavicino e i Rangoni; questi riuscirono a tenere il feudo per
circa un secolo senza dedicarvi alcuna cura, imitati nel comportamento dai Pallavicino quando
ne ritornarono in possesso. Solo l'ultimo feudatario, il marchese Antonio Francesco (1775-1805),
s'impegnò nel realizzare opere di contenuto civile e sociale e a mantenere più strette relazioni
coi propri sudditi. Fu lui, nel 1804, ad aprire al pubblico il teatro situato nel Palazzo Vecchio,
che porta ancora oggi il nome di Teatro Pallavicino. In epoca napoleonica, con la soppressione
dei feudi, Zibello diventò capoluogo di Cantone, ma il suo territorio comunale era ridotto a
quello del comunello del capoluogo, con
Il marchese Giovan Francesco Pallavicino, capostipite del ramo di Zibello: ritratto d'epoca tardo cinquecento.
l'aggiunta della sola frazione di Pieveottoville, mentre i comunelli di Ra-gazzola e Santa Croce
erano stati aggregati rispettivamente a Roccabianca e Polesine.
Pur avendo perduto il loro ruolo di dòmini e trasferita a Parma o a Busseto la loro residenza, i
discendenti del marchese Giovan Francesco mantennero ancora a lungo solide relazioni con
Zibello. All'inizio dell'Ottocento i Pallavicino vi possedevano ancora 125 biolche di terre, la
tenuta delle Ghiare (quasi 500 biolche), erano proprietari del Palazzo Vecchio che si affacciava
sulla piazza principale del paese e alcuni edifici. Ad essi appartenevano sei dei sette mulini
natanti lungo la riva del Po; erano inoltre titolari dell'attività di distillazione del vino, "con una
macchina costruita dall'egregio sig. Fioruzzi di Piacenza". Nel 1810 il marchese Alessandro
Pallavicino fu nominato da Napoleone a presiedere l'Assemblea del Cantone di Zibello fino al
1813 e nel 1821 il medesimo Alessandro venne
Stampa ottocentesca raffigurante i ruderi della rocca di Zibello e del suo torrione principale o mastio.
designato dal Consiglio degli Anziani di Zibello come proprio deputato a difendere gli interessi
del Comune. Ancora per diversi anni, dopo la fine dell'ancien régime, continuarono ad essere
usati, a livello quotidiano, pesi e misure propri del sistema metrico in vigore quando i marchesi
vi esercitavano a pieno titolo la signoria. Ulteriore testimonianza del solido legame con Zibello
è il fatto che solo nel 1947 i Pallavicino rinunciarono al giuspatronato sulla chiesa parrocchiale
del capoluogo.
Palazzo Pallavicino o Palazzo Vecchio, situato sulla piazza di Zibello.
1735, il corso del Po. Appare indicato lo Stato Pallavicino con Zibello feudo dei Rangoni e Soarza dei Rangoni (Soarzo Rangons).
Archivio di Stato di Cremona.
La chiesa parrocchiale di Zibello, intitolata ai SS. MM. Gervaso e Protaso.
IL FEUDO DI BUSSETO: GIAN LODOVICO E PALLAVICINO
Nella divisione dei beni di Rolando il Magnifico, ai due figli Gian Lodovi-co e Pallavicino
vennero assegnati, congiuntamente, Bargone con il feudo di Busseto e le sue pertinenze. I due
fratelli, al pari degli altri, dovettero chiedere l'investitura delle terre; nell'atto di concessione
delle stesse, Francesco Sforza concesse tutti i diritti e privilegi relativi, l'indipendenza da ogni
altra città (specificando Panna, Piacenza e Cremona); il mero e misto impero per essi e i loro
legittimi discendenti maschi, con riserva per il Duca della tassa del sale e cavalli, e nello stesso
tempo ricevette dai due fratelli Pallavicino il giuramento di fedeltà e di omaggio, con l'offerta
inoltre delle loro anni al Magnanimo Protettore. Un mese dopo, il 4 luglio 1458, aggiunse che,
morendo uno dei fratelli senza maschi legittimi, a quello sarebbe subentrato di pieno diritto
l'altro fratello o suoi discéndenti; solo nel caso in cui entrambi fossero morti senza figli legittimi
avrebbero potuto accedere gli altri fratelli.
Con tale investitura, con la quale i Pallavicino scendevano dal grado di feudatari imperiali a
quello di feudatari camerali, e dal tenore delle successive rinnovazioni d'investitura, appare
chiara l'evoluzione politica iniziata dalla Casa Pallavicino.
Il 17 novembre 1458 i marchesi Pallavicino, figli di Rolando il Magnifico, inviarono al vescovo
di Cremona la "Carta protestationis", con la quale asserivano che i loro predecessori erano stati,
almeno dal 1355, vassalli dei vescovi di Cremona, dai quali avevano ottenuto l'investitura dei
porti sul fiume Po, nel tratto del fiume compreso tra la foce dell'Adda e la foce dell'Arda,
insieme con i diritti di pesca ed altre onoranze e regalie a detti porti e a detto tratto di fiume
pertinenti. Produssero gli atti che giustificavano tale loro asserzione e chiedevano la conferma
dell'investitura.
Nel gennaio 1474, una lettera del duca di Milano ammoniva i fratelli Gian Lodovico e
Pallavicino a voler provvedere di un "officiale idoneo, fedele e sufficiente per l'esercizio al porto
de mezo" (Soarza), avvertendo che, in caso fosse stato trascurato l'avviso, il duca avrebbe
mandato egli "uno ad vostre spese". E in simili termini scrisse al vescovo di Lodi Carlo Pallavicino per i porti di Olza e di Cremona, così a Giovan Manfredo per il porto di Polesine e a
Giovan Francesco per quello di Sommo (feudo di Zibello). L'eccitazione venne rinnovata il 7
marzo 1475, per il gran passaggio di persone che si prevedeva in occasione del Sacro Giubileo:
dal tenore della lettera si è portati a pensare che i traghetti sul Po fossero piuttosto trascurati.
Questo l'elenco dei porti nel Po, appartenenti al Ducato di Milano, e dei rispettivi ufficiali o
portinari addettivi, sempre nel 1474:
"Portus Olzate (Olza): è del reverendo signore vescovo di Lodi marchese Palavicino (Carlo)
Portus Cremone (Porto della Bastida di Castelvetro): è del reverendo signore vescovo di Lodi
Portus de Mezo (Soarza): è dominio di Gian Lodovico e Palavicino, fratelli Pallavicino
Portus Polesini: è dominio di Giovan Manfredo marchese Pallavicino Portus Sumi (Sommo): è
dominio di Giovan Francesco marchese Pallavicino.,,
SANTA MARIA DI VILLANOVA E
SANTA MARIA DEGLI ANGELI DI BUSSETO
La costruzione di una chiesa, con conseguente acquisizione del giuspatro-nato su di essa,
rappresentava motivo di grande prestigio per i signori di quel tempo, ed è per questo che, dopo
la morte di Rolando il Magnifico (1457), i due fratelli Gian Lodovico (n.1425) e Pallavicino
(n.1426) iniziarono una serie di opere che portarono, in poco più di 20 anni, alla fondazione
delle parrocchie di Spigarolo (1450), Villanova (1475), Bersano (1476), Frescarolo (1484); alla
edificazione nella chiesa di S. Domenico in Cremona di una cappella intitolata a S. Martino e
alla costruzione della chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli in Busseto (1475).
Il 31 agosto 1475, con atto di Pietro de' Brunelli, notaio pubblico di Bus-seto, venne redatto l'atto
di fondazione della chiesa di Villanova, con l'assegnazione della dote relativa.26
Come rettore della stessa chiésa venne indicato don Guglielmo de' Ruffoni di Miano, la cui
nomina spettava ai due fratelli Pallavicino, in quanto patroni di detta chiesa. L'elezione venne
poi confermata nel Palazzo vescovile di Cremona, alla cui diocesi apparteneva Villanova (lo
sarà fino al 1601, fondazione della diocesi di Fidenza).
Rolando Pallavicino, sentendosi vicino alla morte, dispose per testamento che anche a Busseto
dovesse risiedere una Comunità di Frati Minori della Regolare Osservanza, disponendo un
legato per l'erezione di una chiesa e un convento da donare loro. I figli vollero rispettare la
volontà del padre, portando a termine la costruzione nel 1475 e dedicandola a Santa Maria degli
Angeli. Alla cerimonia d'insediamento dei religiosi erano presenti
26 CHINI L.,Villanova dall'VIII giorno al XX secolo, 2006: "Nel nome del Signore nostro Gesù amen. Nell'anno della
natività Mille quattrocentosettantacinque, indizione ottava, nell'ultimo giorno di agosto, i Magnifici Marchesi Gian Lodovico
e Pallavicino, fratelli Pal-lavicini, figli del Magnifico Rolando Marchese Pallavicino, Signori del castello di Busseto e sue
pertinenze, per ordine dei quali venne fondata e costruita di recente ("noviter") la chiesa parrocchiale in Villanova, territorio di
Busseto e diocesi di Cremona, come patroni della stessa chiesa, fondata sotto il nome ("vocabolo") " Santa Maria sempre
Vergine", in dote, come dote e a titolo di dote della chiesa predetta, assegnarono alla predetta chiesa, e a me notaio come
pubblico ufficiale stipulante e ricevente a nome e in luogo della medesima chiesa e del Rettore della medesima pro tempore, le
seguenti pezze di terra e ciascuna di esse (prese singolarmente), e in primo luogo una pezza di terra già boschiva e ora
coltivabile, disboscata ("Roncata") in nome della chiesa e sulla quale è costruita la detta chiesa posta in Villanova suddetta al di
là dell'Arda... la quale pezza è di quattro biolche. Inoltre (donano) una pezza di terra Boschiva di 6 biolche posta in territorio di
Busseto presso il dosso di Bonifacio ... si aggiunge che il rettore pro tempore possa godere liberamente e disporre di quanto
donato... ".
Gian Lodovico e Pallavicino Pallavi-cino, con i fratelli Giovan Francesco e Carlo, che pure
avevano concorso alla spesa di costruzione del complesso edilizio. Pallavicino Pallavicino,
anche dopo essere diventato il solo feudatario di Busseto, protesse il convento, che con
testamento del 1484 dotò di mezzi sufficienti per il sostentamento di quindici religiosi.
All'interno della Chiesa, in una cappella, è presente un capolavoro della scultura emiliana del
'400, il Compianto sul Cristo morto (1477) di Guido Maz-zoni, gruppo in terracotta policroma, a
grandezza naturale, con sette figure dolenti che fanno corona al Cristo, rese con straordinaria
introspezione psicologica ed intensità emotiva. Nelle figure laterali, raffiguranti Giuseppe
d'Arimatea e Nicodemo, si possano riconoscere proprio i ritratti dei due marchesi, Gian
Lodovico e Pallavicino.
La vecchia chiesa parrocchiale di Santa Maria di Villanova.
Chiesa francescana di S. Maria degli Angeli di Busseto.
La chiesa dei Padri Francescani di Busseto.
Chiesa di S. Maria degli Angeli di Busseto, Compianto, gruppo in terracotta policroma, di Guido Mazzoni (1450-1518), modellato nel 1477.
Sono, da sinistra: Giuseppe d'Arimatea, S. Giovanni, Maria Salomè, la Madonna, Maria di Cleofa, Maria Maddalena, Nicodemo. Nelle figure
laterali, raffiguranti Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, si possano riconoscere proprio i ritratti dei due marchesi, Gian Lodovico e Pallavicino.
Nel 1472 i due fratelli avevano iniziato la costruzione dell'antico Ospedale, che verrà però
completato qualche anno dopo, insieme con la chiesa di S. Maria, che per due secoli farà parte
dello stesso ospedale.
In quegli anni non ci furono episodi particolari da segnalare, i fratelli Pal-lavicino governarono
il proprio feudo in stretto contatto con il duca di Milano, il quale comunicò loro nel 1472 di aver
graziato i nipoti Giulio e Gio-van Antonio (figli del marchese Nicolò, marchese di Varano),
espulsi dai suoi domini per l'emissione di monete false. Si richiedeva però l'impegno di Gian
Lodovico e Pallavicino a garantire con una cauzione di duemila ducati d'oro che, in caso di
recidiva del reato, avrebbero consegnato i due nipoti nelle mani del duca stesso. Nel 1477 Gian
Galeazzo Maria Sforza nominò il marchese Pallavicino suo consigliere e governatore, mentre
Ga-leazzo, il primogenito dello stesso marchese, fu fatto cavaliere.
Per un attentato alla vita di Gian Lodovico e di suo figlio Rolando Pallavicino, venne processato
nel luglio 1478 a Milano tale Giovanni Maria. Il duca Gian Galeazzo Sforza lo consegnò al
Pallavicino perché provvedesse alla sanzione più opportuna. Tutta questa disponibilità del duca
aveva però un prezzo, e in quei giorni lo Sforza chiese ai suoi feudatari un contingente di
soldati per domare la ribellione di Genova ed ai marchesi di Busseto venne ordinato di
equipaggiare 200 fanti che si dovevano trovare il 28 luglio a Tortona.
Da qualche anno erano sorti contrasti tra i due fratelli sul modo di governare, e siccome le
ostilità andavano accentuandosi (dal 24 luglio 1475 entrambi abitavano nella Rocca di Busseto,
ma in settori ben separati), il Duca si propose come mediatore fra le parti, proponendo di
spartire lo Stato. Sulla base dell'investitura ducale del 1458, dopo di aver stabilito che,
all'estinguersi di una delle discendenze dei due fratelli, la linea superstite sarebbe succeduta nei
beni dell'altra, fissarono il cavo Ongina per confine dei due nuovi Stati, assegnando Busseto col
suo territorio al marchese Pallavicino, e a Gian Lodovico il castello di Bargone, il territorio di
Cortemaggiore e 10.000 scudi d'oro. Il piccolo Stato di Cortemaggiore venne formato dalle terre
seguenti: Bersano, Vidalenzo, Sant'Agata, Soarza, Villanova, San Martino in Olza, Besenzone,
Castel d'Arda, Zapparola, Levato e Cignano.
PICCOLO STATO FEUDALE E GRANDE STATO REGIONALE:
LA COLLOCAZIONE DELLO STATO PALLAVICINO
DI CORTEMAGGIORE ALL'INTERNO DELLA REALTÀ
STORICO-POLITICA DEL TEMPO
Verso la metà del Quattrocento si poteva ancora pensare al piccolo Stato signorile come a un
obiettivo realizzabile, ed era avvertita ancora come possibile la prospettiva di un assetto politico
che gli garantisse pieno diritto di cittadinanza, in cambio del semplice riconoscimento della
superiorità di un principe. Era certamente una concezione anacronistica dell'organizzazione del
potere, antitetica a quella che si stava affermando proprio in questi decenni, in cui il grande
Stato regionale, pur fra incertezze e contraddizioni, si sforzava di esercitare un governo il più
possibile diretto su tutti gli abitanti dei suoi territori, eliminando la mediazione. di terre
separate e feudatari.
Come collocare allora, tra i grandi stati regionali, il piccolo Stato di Cortemaggiore, la cui
nascita risale proprio a questi anni?
L'Emilia, nell'Italia del tardo '400, era come un "vuoto di potenza", riempito in parte
dall'allargarsi degli stati confinanti più forti. In particolare, si trovavano sotto l'influenza
milanese quei territori situati tra Parma, Piacenza e Cremona in cui nacque lo Stato Pallavicino
di' Cortemaggiore; tuttavia l'autorità del ducato non si espandeva in modo uniforme e
incontrastato su tutti i territori del suo dominio. 'Vi erano zone in cui esistevano insiemi di
autonomie e giurisdizioni particolari che mantenevano con il potere centrale rapporti non ben
chiari e definiti. Questi signori e feudatari esercitavano sui sudditi, abitanti di ville e castelli,
poteri molto ampi e di diversa natura, rivendicando una propria autonomia nei confronti
dell'autorità superiore. Tra questi signori e feudatari ricordiamo i Lupi, Rossi, Correggio,
Fieschi, Cavalcabò, Landi, Anguissola ed in modo particolare i Pallavicino. Nella lotta contro
tali forme di particolarismo i Visconti non cercarono di eliminare ogni forma di potere locale.
Tentarono di disciplinarlo e ciò avvenne mediante lo strumento giuridico più idoneo: il Feudo,
che da un lato rendeva legittimi i diritti giurisdizionali e signorili dei potenti locali, dall'altro
rendeva salva la superiorità dei Visconti, definendo tra le due entità un rapporto di
dipendenza.27 Rolando Pallavicino, esponente di una famiglia di antica feudalità imperiale, se
da un lato vedeva confermate varie investiture concesse ai Pallavicino dall'Impero, dall'altro
lato, per inevitabile necessità storica e pur destreggiandosi per conservare e ampliare i suoi
domini, veniva assoggettato anche a un vassallaggio verso
27 G.CHITTOLINI, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado-Secoli XIV e XV.
Filippo Maria Visconti, vassallo a sua volta dell'impero. Chiamato a dirimere le controversie
sorte alla morte di Rolando, nel 1458 ciascuno dei figli ricevette da Francesco Sforza una nuova,
specifica investitura, per cui nessuno di loro poteva invocare diritti e immunità fondati su
precedenti investiture imperiali o sull'investitura viscontea del 1445, e così si trovava ad essere
vassallo esclusivo dello Sforza: il che ebbe un riflesso concreto quando, morto nel 1497 Carlo
Pallavicino vescovo di Lodi, i suoi beni di Monticelli furono avocati dalla Camera ducale.
LA FONDAZIONE DEL FEUDO Dl CORTEMAGGIORE
I due fratelli Gian Lodovico I e Pallavicino governarono assieme per una ventina d'anni, dopo
di che i dissensi sul modo di governare, gli interessi delle rispettive famiglie e chissà quanti altri
motivi, aggravarono talmente il disaccordo fra i due che, per porre fine alle liti, nel 1479 fu
necessario arrivare alla formazione di due feudi separati, quello di Busseto che fu assegnato a
Pallavicino e quello di Cortemaggiore che andò invece a Gian Lodovico I.
"1479 - 114 settembre, a tarda sera, mentre la campagna è ancora avvolta nei tiepidi vapori di un
nostalgico tramonto, il marchese Gian Lodovico, con la sua piccola corte, parte dalla rocca di
Busseto e si trasferisce a Cortemaggiore, dando ufficialmente inizio alla sua signoria. Lo
accompagnano la moglie Anastasia Torelli, il figlio Orlando II con la giovane sposa Laura
Caterina Landi e cinque famiglie: quella di Gian Bartolomeo Carmi-nati da Cremona, di Gian
Lodovico Mani, di Gregorio Passara da Milano, di Girolamo Ferrarini e di Davide Porci da
Pavia, nonchè la servitù...". Nasce così, distinto da Busseto, lo Stato di Cortemaggiore, che
durerà per un secolo fino al 1579 quando, estintasi la linea bussetana dei Pallavicino, Sforza,
marchese di Cortemaggiore, riunirà sotto il suo potere, in virtù della clausola che sappiamo, i
territori assegnati rispettivamente a Pallavicino e Gian Lodovico Pallavicino.
E mentre il residuo Stato di Busseto si trovava ad avere una capitale degna e una consistenza
istituzionale e sociale ben definite, il nuovo Stato di Cortemaggiore doveva ancora esserne
dotato.
In un documento del 1495 viene descritto lo stato di abbandono in cui si trovava, prima che vi si
stabilissero i Pallavicino, il territorio di Cortemaggiore che, del suo illustre passato, conservava
solamente poche cose: un grande nome, Curtis Regia o Major, due edifici sacri, uno dedicato a
S. Lorenzo, l'altro a S. Giuseppe, tutti e due in precarie condizioni per la loro vetustà, un castello
medioevale detto "Il Giardino", piuttosto mal ridotto, alcuni poveri casolari, boschi, acquitrini e
poco altro28. L'edificazione della nuova Cortemaggiore, d'altra parte, fu sollecita: il grandioso e
complesso progetto pallaviciniano venne affidato all'ing. ducale Maffeo Carretto da Como, in
collaborazione con l'architetto-costruttore piacentino Gilberto Manzi e già 1'11 ottobre 1479
iniziarono i lavori." L'ing. Carretto volle il corso principale ampio e fiancheggiato da portici. La
piazza centrale, di fronte alla chiesa maggiore, quadrata, e le mura che cingevano l'area del
paese provviste di quattro porte meniate, indicate' dai nomi dei santi: porta S. Giovanni, porta
S. Giuseppe, porta S. Francesco e porta S. Lorenzo. Non volle costruzioni di case fuori della
cinta, perché in caso di guerra avrebbero impedito la vista del nemico. Il convento dei frati
francescani, posto nella zona della porta di S. Francesco, per la stessa ragione lo volle
distanziato e messo fuori mano. Il marchese volle imporre alla sua piccola
28 G.FERRARI, La singolare Storia di Cortemaggiore - p.168-170: "Gian Lodovico venne ad abitare e porre sede nel
proprio Palazzo di Cortemaggiore situato in un luogo denominato, anche oggidì, il Giardino". Tale denominazione,
rimasta inalterata fino ad oggi, indica il podere dové tuttora parte dell'antico edificio e sul cui terreno, dal 1979 al
1980, si sviluppò un quartiere residenziale. Eautore ritiene che una descrizione così squallida dell'ambiente sia stata
un po' enfatizzata nell'antico manoscritto del Vescovo Marliani, per esaltare la grandezza e lo splendore delle
nuove opere.
29 La planimetria del nuovo centro consisteva in un tessuto strutturato su di un asse principale con orientamento
nord/sud, al quale si assestavano dei percorsi secondari ortogonali che portavano ad uno schema a scacchiera; i
rapporti con il territorio venivano garantiti dalle quattro porte che si aprivano nella cinta difensiva in
corrispondenza dell'asse principale e di quello ad esso ortogonale: esse immettevano nei percorsi che conducevano
a Piacenza, Cremona, Fiorenzuola e Busseto. La novità maggiore sta nell'aver separato la rocca dal palazzo del
marchese colla sua corte, secondo una tendenza che stava emergendo di completa separazione fra l'architettura
militare e quella civile residenziale, che portò a trasformare il castello medioevale in fortezza esclusivamente
militare.
capitale il nome nuovo di Castel Lauro (Castrum Laurum), sia per onorare la nuora Laura
Caterina Landi, sposa di Rolando II, sia per una pianta di alloro situata nel bel mezzo di
Cortemaggiore. Questo nome però non ebbe fortuna e venne sempre subordinato a quello
antico di Cortemaggiore.
Il 7 luglio 1481, a soli 56 anni e dopo nemmeno due anni di governo, morì Gian Lodovico; la
realizzazione dell'imponente complesso di opere venne proseguita dal figlio Rolando II,
coadiuvato validamente dalla madre Anastasia Torelli, e portata a termine intorno al 1500.
Gian Lodovico Pallavicino, primo marchese di Cortemaggiore, fu, quasi certamente, il figlio
prediletto di Rolando il Magnifico, ed era lui a figurare in quasi tutti gli atti di governo relativi
agli anni tra il 1457 (morte di Rolando) e il 1479 (separazione Busseto-Cortemaggiore). Inoltre
nella descrizione della serie dei ritratti delle gallerie pallavicine, a differenza del fratello
Pallavicino, signore di Busseto, rappresentato come un arcigno guerriero, armato di tutto punto
e raffigurato di profilo, come quasi tutti i condottieri medioevali, Gian Lodovico è raffigurato di
fronte, con una veste pacifica e signorile, quella di Consigliere ed Ambasciatore Ducale, di un
uomo di larghe vedute, avvezzo a viaggiare e conoscere, sicuramente colto e sensibile.
Abbiamo visto come nel 1475 Gian Lodovico e Pallavicino, marchesi di Busseto, portarono a
termine la costruzione della Chiesa, donata ai Frati Minori della Regolare Osservanza,
rispettando la volontà del padre Rolando il Magnifico. Nel 1499 Rolando II, marchese di
Cortemaggiore, inaugurò la nuova chiesa dei Frati Minori Osservanti. Ma qual è il motivo di
questa particolare devozione nei confronti dell'ordine francescano? A partire dalla fine del XIII
secolo, il modello di vita monastica propugnato dai benedettini non allettava più la popolazione
come nei secoli precedenti e questo lo si vide tanto nel rallentamento delle professioni
monastiche quanto nel calo di donazioni testamentarie verso gli enti benedettini. Chi invece si
avvantaggiò di questo lento declino furono gli ordini mendicanti, con i "Predicatori" e i "Minori"
in testa, nati proprio nel Duecento, installatisi all'interno dei centri urbani, dove sempre più si
accentrava l'intera vita sociale, politica ed economica del tempo, visti con particolare favore
dalla gente, proprio in virtù della loro viva e attiva presenza nella città, attraverso
l'insegnamento, la predicazione ed anche il loro stile di vita incarnato nell'umiltà, nella povertà
e nella "perfetta letizia", qualità queste che fecero ottenere loro cospicui donativi per mezzo dei
lasciti testamentari ed un gran numero di nuovi frati e di seguaci che seguirono così le orme di
San Domenico e San Francesco. E così i Pallavicino, che nel 1136 avevano contribuito a dare una
consistenza patrimoniale al nuovo Monastero cistercense di Chiaravalle, decisero di dedicare le
loro attenzioni all'Ordine francescano.
Gian Lodovico e Rolando Pallavicino dei marchesi di Cortemaggiore, da un dipinto sul muro nella sacrestia dei Minori Osservanti di
Cortemaggiore (Litta, Albero genealogico dei Pallavicino-Biblioteca Fond. Cariparma Busseto).
Stemma di Cortemaggiore. La didascalia latina alla base dello scudo dice Comunità di Castel Lauro di Cortemaggiore, mentre il motto sullo
svolazzo afferma: Non vi è niente di più santo della retta fede accompagnata dalle virtù sorelle. Il putto illuminato dal sole rappresenta la
nuova Comunità, mentre la pianta di alloro allude alla gloria dei Pallavicino e a Laura Caterina Landi, sposa di Rolando II. G. FERRARI, La
singolare Storia di Cortemaggiore — Biblioteca Cortemaggiore.
ROLANDO 11: LA CASA DELLA MISERICORDIA
E LE REFORMATIONES ET ADDITIONES
Dopo la morte del padre, Rolando portò a compimento la "creazione della città" con la
costruzione della Rocca,30 la chiesa dei Frati Minori Osservanti (1487-99) e la chiesa di S. Maria
delle Grazie (iniziata nel 1481, eretta in parrocchiale nel 1495 e collegiata nel 1513). Le varie
chiese, pur costruite o ricostruite per motivi pastorali, servivano anche come monumenti che
qualificavano la presenza del signore. Ideato da Gian Lodovico al suo arrivo a Cortemaggiore
come residenza della Corte, anche il Palazzo Pallavicino fu completato dal figlio Rolando II. La
struttura, severa e di tipo più difensivo che gentilizio, era anticamente circondata da un fossato
con un'unica angusta apertura a ponte levatoio; all'interno lo stile è bramantesco.31
Per di più Cortemaggiore diventò ben presto un fervido centro di vita anche culturale sotto il
saggio governo di Rolando II, che raccolse una preziosa biblioteca aperta al pubblico, istituì una
tipografia affidata a Benedetto Dolcibello di Carpi (dalla quale usciranno preziosi incunaboli) e
fu celebrato come dotto mecenate dai suoi contemporanei. Tenendo fede alle volontà
testamentarie non solo del padre Gian Lodovico o, ma anche dell'avo Rolando il Magnifico, il 27
ottobre 1495 venne fondata la Casa della Misericordia. Il suo scopo non era solo quello di
portare aiuto ai poveri e dare assistenza ai malati ma soprattutto di essere ricovero per i
pellegrini. L'Istituzione venne riccamente dotata di beni di esclusiva proprietà personale di
Rolando II; ai molti beni e ricche rendite logicamente corrispondevano altrettante condizioni
onerose: provvedere ai religiosi del convento francescano e al clero della chiesa parrocchiale;
dotare convenientemente le giovani povere che si maritavano. Provvedere agli orfani, al
soddisfacimento di vari legati di sante messe, ai poveri in particolari, ad erigere un ospedale per
i pellegrini, a donare alla madre del bambino nato nel giorno più vicino al Santo Natale se
maschio, o alla Natività della Beata Vergine Maria se femmina, frumento, vino, danaro e tutto il
corredo per la culla.
30 Si trattava di una rocca quadrilatera a torrioni rotondi angolari, distrutta nel 1809.
31' Dai Pallavicino il Palazzo passò al Ducato di Parma e nel 1752 lo acquistarono i principi Leopoldo Darmstad ed
Enrichetta d'Este; da allora il Palazzo fu conosciuto anche come il Palazzo della Principessa. Nei primi decenni
dell'800 fu abbattuta una metà del Palazzo, riempiti i fossati e dismesso il ponte levatoio. E' oggi di proprietà
privata e mantiene circa la metà dell'originario corpo di fabbrica.
A questi adempimenti erano chiamati i sette Rettori, scelti fra gli uomini più stimati e probi di
Cortemaggiore.
Le "Reformationes e Additiones": per quanto riguarda l'ordinamento giuridico, nello Stato di
Cortemaggiore trovarono applicazione gli "Statuta Pallavicinia", emanati nel 1429 da Rolando il
Magnifico. Ben presto peraltro, nel 1494, Rolando II formò il Corpo Comunitativo, composto di
24 membri scelti tra i cittadini più stimati e competenti; tra questi ne venivano sorteggiati otto
quali Deputati alla pubblica amministrazione, mentre tra gli altri sedici, detti Deputati Rurali,
figuravano i rappresentanti delle Ville soggette a Cortemaggiore.
Il Corpo Comunitativo era presieduto dal Podestà, scelto fra i migliori giurisperiti, affinché
esercitasse il potere in nome del marchese e secondo le norme statutarie.
Nel frattempo Rolando II programmava e preparava nuove leggi, ad integrazione dei vecchi
Statuti, la cui elaborazione terminò sul finire del 1499 cosicché il 9 gennaio 1500 fu possibile
pubblicare in Cortemaggiore il nuovo Corpo Statutario col titolo: Reformationes et Additiones
Statutorum Castri Lauri Antiquorum.
Chiesa francescana di Cortemaggiore, terminata e consacrata nel 1499.
Chiesa Collegiata di Cortemaggiore.
Il Corpo Statutario, con l'emissione dei Capitoli da parte di Sforza Palla-vicino nel 1584, rimase
in essere fino all'inizio dell'Ottocento, in periodo napoleonico.
Gli Statuti Pallaviciniani sono considerati fra i più civili e moderni dell'epoca, in essi il Corpo di
Comunità, pur dipendendo dal marchese, godeva
di un'autorità e di un'autonomia molto ampie, relative al potere giudiziario, al potere di polizia,
a quello della Soprintendenza all'annona, all'edilizia, alla sanità e alle scuole. S'intende d'altra
parte che tutto il potere politico e legislativo era accentrato nelle mani del Signore.
Infine Rolando II, affinché il Corpo di Comunità fosse politicamente autonomo, lo volle tale
anche economicamente, pertanto lo dotò di rendite sufficienti assegnandogli in proprietà
l'antico palazzo del Giardino con i terreni annessi, i quattro mulini del Bosco, di Besenzone, del
Castellazzo e di Cortemaggiore, concedendogli inoltre il diritto ai proventi derivanti dalle
locazioni del Macello, dei Forni e dei Torchi da pasta.
Rolando II, oltre a provvedere Cortemaggiore di leggi opportune e di un organo di governo, gli
assegnò pure lo stemma corrispondente alla denominazione di Castel Lauro, composto da una
pianta di alloro con un puttino tra le fronde. Lo stemma è tuttora il simbolo della Comunità, ma
il nome di Castel Lauro, come è già stato osservato, non prevarrà mai su quello antico di
Cortemaggiore.
Le registrazioni delle convocazioni del consiglio iniziarono dal 1502, mentre nel 1507 fu
convocato il Consiglio generale con la partecipazione dei rappresentanti delle seguenti Ville:
Sant'Agata, Bersano, Soarza, Villanova, San Martino in Olza, Besenzone, Castel d'Arda,
Vidalenzo e Mercore.32
32 CHINI L., Villanova dall'VIII giorno al XX secolo - Ed. Fantigrafica, 2006.
Palazzo Pallavicino di Cortemaggiore, parte ovest (entrata).
Palazzo Pallavicino di Cortemaggiore, parte est (retro).
Frontespizio dell'edizione 1582, a stampa, degli Statuti Pallavicini (Biblioteca Fond. Cariparma Busseto).
IL TESTAMENTO DI ROLANDO II IL GOBBO
Rolando, che dalla consorte Laura Landi aveva avuto Gian Lodovico II, Marc'Antonio,
Manfredo, Francesca, Francesco e Gaspare, dettò il I maggio 1508 il suo testamento, ratificato
dal duca di Milano Massimiliano Sforza e in seguito dal Pontefice Leone X.
In esso lasciava a Marc'Antonio il feudo di Fiorenzuola, che aveva acquistato nel 1502 dal
maresciallo francese P. di Rohan per 10.000 scudi d'oro; a Manfredo un compenso in denaro e in
beni allodiali; a Gian Lodovico II e Gaspare il feudo di Cortemaggiore; a Francesco proprietà e
beni allodiali a Villanova (1357 biolche), i fondi Palazzo e Giardino a Cortemaggiore con le case
esistenti sulle dette proprietà, escluso il mulino del Castellazzo che abbiamo visto assegnato al
Corpo di Comunità. Lasciava,inoltre una proprietà di 339 biolche e un'altra di 98, entrambe a
Villanova... "tutte queste pezze di terra siano e debbano essere di totale diritto della predetta
sig.ra sua Consorte, cosicché di queste essa liberamente possa decidere e fare testamento come
della sua dote". Ai parroci di Villanova, Soarza e S. Agata lasciava alcune pertiche di terra e
anche al parroco della chiesa di S. Bernardino in Cignano assegnava 2 pertiche di terra,
nonostante su quella chiesa non avesse il giuspatronato, facente capo a quattro famiglie del
luogo.
L'ingresso est di Cortemaggiore (sulla strada per Busscto) con il ponte sul torrente Arda e a destra la chiesa francescana. Sullo sfondo l'abitato
di Vila Nova (Villanova sull'Arda). Mappa dell'epoca, Istituto Comprensorio di Busseto.
Abbiamo visto dal testamento di Rolando 11 come molte fossero le sue proprietà, infatti dalla
fondazione del nuovo Stato di Cortemaggiore, i Pal-lavicino avevano cercato con acquisti e
permute d'incrementare i possedimenti, anche se l'acquisto del feudo di Polesine, effettuato nel
1498 dal marchese Rolando II, era stato annullato dal duca su sollecitazione dei marchesi di
Busseto, interessati a loro volta all'operazione. Consigliere di Stato a Milano per diversi anni,
Rolando ottenne nel 1495 la conferma dell'investitura di Bargone e Cortemaggiore, ai quale si
aggiunse tre anni dopo l'investitura dei feudi di Rezinoldo e Fontanelle nella diocesi di Parma; e
anche di Stagno, Tollarolo, Mezzano e Polesine dei Manfredi in quella di Cremona.
GIAN LODOVICO II: TERZO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE
Con la morte di Rolando II, avvenuta nel 1509, terminò il periodo più felice e fecondo
d'iniziative pubbliche della signoria di Cortemaggiore.
Gian Lodovico 11, rimasto solo a governare per la morte nel 1511 del fratello Gaspare, unì a
Cortemaggiore il feudo di Fiorenzuola, ereditato dall'altro fratello Marc' Antonio defunto.
Nel 1513 sollecitò ed ottenne da Papa Leone X l'elevazione della nuova grande chiesa
parrocchiale alla dignità di Insigne Collegiata, trasferendo da San Martino l'intero corpo
capitolare. Il Marchese mantenne le leggi e gli indirizzi generali di governo del padre; mentre,
più portato al mestiere delle armi rispetto a Rolando I1, militò quale comandante al servizio del
re francese Francesco I, il quale per confortarlo dell'uccisione'del fratello Manfredo" e del nipote
Cristoforo (signore di Busseto) gli donò una preziosa reliquia: la Santa Spina che Gian
Lodovico, a sua volta, donò alla Collegiata.
Nel 1515 Francesco I, recandosi a Bologna per incontrare il Pontefice, accolse l'invito dei fratelli
Pallavicino e si fermò a pranzo nella Rocca di Cortemaggiore.
All'inizio del 1525 il re di Francia scese in Italia per riprendere i suoi possedimenti, ma a Pavia si
scontrò il 24 febbraio con Carlo V e subì una sconfitta totale. A difendere il castello di
Casalmaggiore, per ordine di Francesco I, fu il marchese di Cortemaggiore Gian Lodovico II con
un presidio di 2 mila fanti e 400 cavalli: sconfitto venne fatto prigioniero. Liberato dal carcere
un anno dopo, fece ritorno a Cortemaggiore, dove morì il 23 settembre 1527 e fu sepolto nella
chiesa di S. Francesco in Cortemag-giore. Sulla tomba, un'epigrafe in latino lo ricorda così: "A
Gian Ludovico Pallavicino —figlio di Orlando II — perfetto in ogni ramo dell'arte militare — scelto
comandante — da Francesco I re di Francia — poscia dai Veneti — morì l'anno 1527 — il dì 23
settembre — Virginia — unica figlia — lasciò a noi ed ai posteri — questa dolente memoria33.
33 Nel luglio 1521, Manfredo era al servizio del duca di Milano Francesco Sforza e combattè contro i francesi.
Catturato da questi venne condotto a Milano, gli furono confiscati i beni e fu squartato vivo sulla piazza del castello
Sforzesco. Aveva sposato Ginevra Bentivoglio, vedova di Galeazzo Sforza. Manfredo era il padre di Sforza
Pallavicino, sesto marchese di Cortemaggiore.
GEROLAMO PALLAVICINO: QUARTO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE
Con la morte di Gian Lodovico II, che lasciava la sola figlia Virginia, la Signoria di
Cortemaggiore passò al nipote Gerolamo, figlio di Gaspare Pallavicino morto nel 1511.
Gerolamo è noto per aver concesso ospitalità agli ebrei, entrati in gran numero in Italia, dopo
essere stati messi al bando in Spagna dal re cattolico Ferdinando. Continuò la politica
governativa dei suoi predecessori, attendendo tranquillamente al governo del piccolo Stato. Ma
a toglierlo dalla tranquillità desiderata apparve sulla scena della vita feudale Pier Luigi Farnese,
figlio naturale del papa Paolo III.
Pier Luigi Farnese (1503-47). Olio su tela di I.G.Levi - Biblioteca Fond. Cariparma Busseto.
PIER LUIGI FARNESE, DUCA DI PARMA E PIACENZA
La famiglia Famese è originaria della località di Farnese o Farneto, posta nella zona tra Orvieto
e Siena. Nella città di Orvieto, dove i Farnese avevano ricoperto importanti cariche, erano
conosciuti come i signori "de Farneto". Le prove di fedeltà, nei confronti della Corte papale,
valsero loro una serie di privilegi e la possibilità di imparentarsi con le maggiori famiglie
dell'epoca (gli Orsini, i Colonna, gli Sforza di Santa Fiora). Grazie al matrimonio di Pier Luigi
Famese con Giovannella Caetani, si trovarono imparentati con una discendente di papa
Bonifacio VIII e quindi con gran parte della nobiltà romana. Da questo matrimonio nacque il 28
febbraio 1468 Alessandro (il futuro papa Paolo III), il quale scelse d'intraprendere la carriera
ecclesiastica e in breve tempo ottenne, pur non essendo ancora sacerdote, un gran numero di
prebende e di cariche. Nel 1499 fu nominato vescovo di Montefiascone e Corneto; nel 1509
vescovo di Parma (carica ricoperta in modo non continuativo per la necessità di mantenersi a
contatto con la curia romana) e, pur vantando da tempo numerose cariche ecclesiastiche, solo
nel 1509 pronunciò i voti sacerdotali, curando da allora di mantenere una condotta morale
esteriore più consona al suo nuovo stato. In precedenza, infatti, si era comportato come un
grande signore laico, celibe e senza inibizioni e da una sua lunga relazione erano nati vari figli:
Pier Luigi (1503), Paolo (1504), Ranuccio e Costanza. I primi due furono legittimati da papa
Giulio II nel 1505, mentre Costanza venne sistemata assai onorevolmente in matrimonio con
Bosio Sforza conte di Santa Fiora e signore di Castell'Arquato. Le speranze paterne furono da
subito rivolte a Pier Luigi che, per carattere e attitudini, venne avviato alla carriera militare, in
cui ebbe modo di distinguersi. A 16 anni si unì in matrimonio con Girolama Orsini,
appartenente ad una famiglia della nobiltà romana, e da cui ebbe cinque figli: Alessandro,
Ottavio, Ranuccio, Orazio e Vittoria. Intanto il cardinale Alessandro percorreva i gradini della
carriera ecclesiastica, grazie al suo ingegno, alla sua cultura e alla protezione di papa
Alessandro VI e poi del suo successore Clemente VII. Alla morte di questo, venne eletto al
soglio pontificio, dopo appena ventiquattro ore di conclave, col nome di Paolo III.
Il nuovo papa mostrò subito le sue intenzioni relative alla politica familiare, concedendo la
porpora cardinalizia ai suoi due giovani nipoti: Alessandro Farnese, figlio di Pier Luigi, e Guido
Ascanio Sforza di Santa Fiora, figlio della figlia Costanza. Nello stesso tempo però Paolo III si
curava della sistemazione di Pier Luigi e del suo secondogenito Ottavio, per i quali cercava una
soluzione di assoluto prestigio. Fallito il tentativo, troppo ambizioso, di ottenere dall'imperatore
Carlo V il Ducato di Milano per Ottavio Famese, l'attenzione si fermò sui due ducati, tra loro
confinanti, di Piacenza e Parma, posseduti dalla Santa Sede, ma separati dalla Romagna
pontificia, per la presenza in mezzo del ducato estense di Modena e Reggio. C'era da superare
un primo problema, in quanto Carlo V era interessato a sua volta al possesso delle due città,
appartenute in precedenza al ducato di Milano, del quale al momento era signore. Al progetto
del papa però l'imperatore non si oppose, pur non riconoscendone formalmente la validità. Il
secondo ostacolo da superare era quello della curia romana, in quanto veniva ritenuto di fatto
uno spossessamento di una parte cospicua del patrimonio pontificio. Per rendere in qualche
modo accettabile tale operazione, il papa cedette in cambio alla Santa Sede i ducati di Camerino
e Nepi, prevedendo inoltre il pagamento di 9 mila ducati d'oro da versare ogni anno alla Santa
Sede: con tale proposta, vennero superati i dissensi di alcuni cardinali ostili al Farnese. Con
bolla del 26 agosto 1545, Paolo III creò il ducato di Piacenza e di Parma, investendo il figlio Pier
Luigi come Signore delle due città. Il 10 novembre 1549 morì Paolo III, uno dei papi più grandi
e controversi della storia della Chiesa. Il suo pontificato fu segnato soprattutto dalla reazione
contro il protestantesimo; approvò l'ordine dei gesuiti, costituì la Congregazione del
Sant'Uffizio (Inquisizione romana, 1542) e infine, nel dicembre 1545, convocò il concilio di
Trento. Fu grande mecenate, ma è passato alla storia anche come uno dei campioni del più
sfrenato nepotismo.
Ritratto di Paolo III senza camauro, berretto rosso riservato al Sommo Pontefice. Fu eseguito da Tiziano nel 1543 a Busseto, in occasione
dell'incontro di Paolo III con l'imperatore Carlo V ed è conservato a Napoli nel Museo di Capodimonte.
Per il Governo del ducato di Piacenza e Parma, Pier Luigi Farnese chiamò persone d'indiscusso
prestigio, mentre si circondò di segretari e fedeli, scelti fra persone fidate e tra queste Sforza
Pallavicino, signore di Fiorenzuola, a lui legato da vincoli di parentela.
Il suo obiettivo principale era quello di porre un limite al potere dei signori feudali, piacentini
soprattutto, titolari di vasti patrimoni fondiari ed arbitri assoluti nei territori di loro
competenza. Come primo atto impose l'obbligo a tutti i feudatari, allo scopo di controllarli
meglio, di stabilirsi in città, proibendo la residenza nelle terre e castelli di loro proprietà, sotto
pena di confisca dei beni ed altri provvedimenti punitivi. Disprezzando ogni regola, il duca
tentò d'impadronirsi dei feudi vicini: nel 1546 ai danni di Luisa Pallavicino, moglie di Sforza
Sforza di Santa Fiora, nipote di Pier Luigi, che si diceva fosse morto mentre stava combattendo
in Germania. Il Farnese mandò subito a richiedere il suo castello di Castelsangiovanni, che però
non riuscì a farsi consegnare perché si scoprì nel frattempo che lo Sforza era ancora vivo.
Sostenendo che il feudo di Romagnese era in territorio piacentino, ne tentò l'occupazione a
spese della nobile famiglia dei Dal Verme, provocando la reazione del ducato di Milano e
dell'imperatore Carlo V, al quale il ducato e Romagnese erano sottoposti. Lo stesso anno 1546,
approfittando dell'assenza da Cortemaggiore del marchese Gerolamo Pallavicino, tentò
d'impadronirsi del feudo, imprigionando nel vescovado di Piacenza la moglie Camilla e la
madre, e lasciando nella rocca di Cortemaggiore una sua guarnigione. Lo scopo del duca
farnese era d'impedire che Gerolamo avesse figli e quindi incamerare i feudi, si scoprì invece
che la marchesa Camilla era già incinta e dunque inutile risultava la sua prigionia.
11 15 luglio 1547 il marchese Sforza Pallavicino, pur consigliere personale del duca Pier Luigi,
fu chiamato a dimostrare la legittimità dei diritti dei Pallavicino sui territori di Cortemaggiore e
Castelvetro, contro i tentativi del Farnese.
"Il Sig. Giovanni Antonio, procuratore dell'In. Sig. Sforza Marchese Pal-lavicino, accusò di
contumacia i sig.ri Fiscali di non fare opposizione contro le lettere ducali presentate al detto sig.
Giovanni e di non fare le cose di loro incombenza e ripeté una seconda volta e fece come risulta
nella scrittura consegnata: Davanti ai magnifici Signori Presidente e maestri delle entrate ducali,
il Sig.Giovanni Antonio Raino, procuratore dell'Ill.sig. Sforza, replica alle domande al fine di
dimostrare più chiaramente i suoi diritti, ma soprattutto per dimostrare che il luogo, la terra e
tutto il territorio di Cortemaggiore con tutti i suoi paesi, cioè Bersano, Vidalenzo, S.Agata,
Soarza, Villa Nova, S.Martino di Besenzone, Castel d'Arda, Ceparola, Cignano ed altri paesi,
erano appartenuti al distretto, alle pertinenze e al territorio della terra di Busseto sia nel tempo
della vita che dopo la morte del fu Magnifico Sig.Rolando Pallavicino senior, come anche dopo
la vita e la morte, tuttavia prima della divisione e separazione di quei luoghi dal luogo e dalla
terra di Busseto, e che al tempo della detta divisione e separazione anche il luogo di Castelvetro
era stato ed era ancora del distretto e delle pertinenze di Monticelli, e che tutte queste cose
erano tenute e possedute dal fu Ill.mo Sig. Rolando senior, Marchese Pallavicino al tempo della
sua vita e della sua morte, e dopo di lui dai defunti Sig.ri Giov.Lodovico e Pal-lavicino e dal
Rev.mo sig.Carlo Pallavicino, vescovo di Lodi".
Nell'agosto 1547, un mese prima che la congiura dei nobili piacentini portasse all'eliminazione
del duca, questi ordinò a Tommaso Avogadro, suo Consigliere, di compiere una ricognizione
nella zona di Busseto e Cor-temaggiore compilando una relazione della sua visita (questo
sempre in vista del progetto di occupazione della zona).
L'ostilità che si era creata tra la nobiltà piacentina e l'odio del governatore di Milano Ferrante
Gonzaga per il tentativo del Farnese di occupare i suoi territori convinsero Carlo V
dell'opportunità di eliminare il duca Pier Luigi. L'imperatore non partecipò al piano ma fece
capire che non sarebbe intervenuto a seguito di qualsiasi iniziativa fosse stata presa.
La congiura, con a capo il conte Giovanni Anguissola di Grazzano, ebbe l'adesione di una
trentina di gentiluomini, fra i più attivi dei quali figuravano tre fratelli Pallavicino di Scipione:
Camillo, Gerolamo e Alessandro. 11 10 settembre 1547 venne ucciso il duca Pier Luigi Famese e
l'annuncio fu immediatamente inviato al duca di Milano don Ferrante Gonzaga, il quale due
giorni dopo entrò a Piacenza. Tra i personaggi al suo seguito figurava Gerolamo Pallavicino,
che si vide così restituire il suo Stato di Cortemag-giore, nella cui rocca era ancora presente un
presidio dei Farnese. Il primo tentativo dei Farnese d'impossessarsi dei feudi dei Pallavicino era
dunque fallito, ma un altro capitolo si sarebbe aperto a breve.
Ritornato in possesso del feudo di Cortemaggiore, Gerolamo governò in sufficiente tranquillità,
proteggendo poeti e scrittori e coltivando la sua passione per gli studi. Morì in Cortemaggiore il
12 gennaio 1557 lasciando Camilla, già vedova di Ottaviano Pallavicino di Busseto, sposata in
seconde nozze, e due figlie Vittoria e Isabella. In prime nozze aveva sposato Camilla Rossi,
figlia naturale del marchese di S. Secondo, morta nel 1543.
Avanzi del Castello di Pier Luigi Farnese. La costruzione, iniziato nel 1545, fu interrotta
per l'uccisione del duca farnese e poi distrutta nel 1840. Coll. Arcelli.
La Cittadella, fatta costruire nel XIV secolo da Galeazzo Visconti per la difesa di Piacenza. Nel 1547 fu teatro della congiura dei nobili
piacentini contro P. L. Farnese, conclusa con la sua uccisione.
BUSSETO E I MARCHESI PALLAVICINO
La seconda metà del Quattrocento vide affermarsi sempre più decisamente l'autorità dello Stato
regionale nei confronti delle autonomie signorili e feudali, che gli Sforza cercavano di fiaccare e
di combattere. I domini Pallavicino, dopo la morte di Rolando (1457), furono ridotti al rango di
feudi camerali. Ma quando ormai le piccole signorie sembravano destinate ad essere assorbite
in un più grande e moderno organismo statale, il lungo periodo di guerre e di anarchia,
iniziatosi con la calata in Italia di Carlo VIII (1494) e protrattosi per alcuni decenni, venne a
creare una situazione nuovamente favorevole ai potentati minori. Di questa situazione
approfittarono, come altri signori feudali, anche i Pallavicino, i quali, dalla debolezza per non
dire talvolta dall'assenza di un potere centrale in grado di governare con sicurezza ed energia,
furono spinti a cercare di sviluppare una loro autonoma azione politica.
Furono i marchesi di Busseto a dimostrarsi i più abili, i più capaci di cogliere le opportunità che
si presentavano loro e di trarne vantaggio. Dopo la separazione dal fratello Gian Lodovico,
trasferitosi a Cortemaggiore nel 1479, il marchese Pallavicino Pallavicino rimase l'unico signore
di Busseto, ricevendone l'investitura nel 1481 da Gian Galeazzo Maria Sforza, insieme con
Castione Marchesi.
Il Pallavicino cercò di sfruttare la sua influenza presso la Corte di Milano, prestando
giuramento di fedeltà ed ottenendo dopo Castione Marchesi anche il castello di Vianino (posto
sulla riva sinistra del torrente Ceno) e liberandosi di Pier Maria Rossi di Parma, suo nemico
dichiarato.34
A conferma dell'influenza di Pallavicino presso lo Sforza, è l'iniziativa degli abitanti di Borgo
San Donnino, i quali presentarono ricorso al marchese di Busseto perché ottenesse loro dal duca
di Milano una dilazione al pagamento dei censi già scaduti, e che non erano in grado di pagare
sia per la forte somma che per la carestia sopraggiunta. Il Pallavicino godeva di forte
considerazione anche fuori della Corte di Milano, al punto che molti Signori e Comuni gli
affidavano il giudizio su cause relative ai loro interessi e come arbitro nelle varie liti. Alla sua
morte, avvenuta a Busseto nel 1486, Pallavicino lasciò quindici figli, nove femmine e sei maschi:
Galeazzo, Cristoforo, Ottaviano, Girolamo, Antonio Maria (nel 1486 Antonio Maria Pallavicino
era al servizio del duca di Milano e combatté prima contro lo Stato pontificio, poi contro la
Francia e contro Venezia) e Nicola. I sei figli maschi governarono in comune lo Stato di Busseto.
Nel 1498, alla morte di Carlo VIII, la corona di Francia passò al duca d'Or-leans, che assunse il
nome di Luigi XII. Questi l'anno successivo scese in Italia per conquistare il ducato di Milano: a
novembre i francesi erano padroni di tutto il ducato. Ludovico Sforza, arrestato presso Novara
il 17 aprile 1500, venne inviato in Francia, dove morì nel 1508 nel castello di Loches. Antonio
Maria Pallavicino, alleato nell'agosto '99 con il duca di Milano, a settembre era passato al
servizio dei francesi e in ottobre entrò in Milano a fianco del re Luigi XII, che gli concesse il
collare dell'ordine di San Michele ed assegnò a lui ed ai fratelli il feudo di Borgo San Donnino
(Fidenza). Nel 1507 il re di Francia concesse al marchese Antonio Maria Pallavicino, per la sua
fedeltà e alleanza, il feudo di Castelsangiovanni. Nel 1510 papa Giulio II avanzò pretese di
riavere il dominio su Piacenza e Parma, in quanto città anticamente comprese nell'Esarcato di
Ravenna e nella donazione della contessa Matilde. L'intervento dei Veneziani e degli Svizzeri, a
sostegno delle richieste papali, consigliò il re Luigi XII di far rientrare il suo esercito in Francia.
Tutte le fortezze e le città del ducato furono libere, ad eccezione di Castelsangiovanni che
rimase in potere di Antonio Maria Pallavicino.
34 Forte della sua influenza presso la Corte di Milano, Pallavicino ordì una trama per gettare sospetti e discredito
su Pier Maria Rossi, fino a quel momento fedele alleato degli Sforza. Lodovico il Moro lo convocò a Milano per
fornire giustificazioni ma, per la mancata presentazione, il Rossi fu dichiarato ribelle (1482) e costretto a difendersi
per non essere catturato dai milanesi. Riuscì a sfuggire all'assedio di S. Secondo e si rifugiò a Torrechia-ra, dove
morì il 1° settembre 1482, profondamente amareggiato per l'ingiustizia subita, mentre esultava il Pallavicino che si
era liberato di un rivale presso la Corte di Milano. Nel 1486, alla morte del marchese di Busseto, si dubitò che la
causa fosse il veleno e che i colpevoli andassero cercati nell'ambito della famiglia Rossi.
Nel febbraio 1514 scoppiarono aspri scontri a Piacenza fra i guelfi e i ghibellini, con morti e
feriti. Con l'intervento del Governatore Pontificio (la città era diventata possesso della Santa
Sede) e del marchese di Busseto Ottaviano Pallavicino venne raggiunto un accordo: da una
porta della città se ne andarono i ghibellini, dall'altra i Guelfi. Il 30 dicembre 1514 il papa Leone
X confermò il feudo di Fiorenzuola al marchese Marc'Antonio Pal-lavicino di Cortemaggiore,
con l'annuo canone di 5 libre di cera.
Nella primavera del 1515, Francesco I re di Francia, successore di Luigi XII (morto nel gennaio
1515), scese in Italia per riprendersi il ducato di Milano. Il 14 settembre 1515 si svolse a
Melegnano una grande battaglia tra i francesi e gli svizzeri (al servizio del ducato di Milano).
Massimiliano Sforza, sconfitto, cedette il ducato e si ritirò a Parigi, dove morì il 10 giugno del
1530. Il papa Leone X, visti i rapporti di forza, giudicò òpportuno firmare un trattato di pace e
di alleanza, col quale cedette Piacenza e Parma al sovrano francese (confesserà in seguito
d'averlo fatto per evitare guai peggiori). Il 5 dicembre 1515 Francesco I si recò a Cortemaggiore
in visita al marchese Gian Lodovico II.
Carta topografica raffigurante il nostro territorio. La stesura in spagnolo di alcuni termini colloca la carta intorno al 1521, quando Parma fu
conquistata dall'esercito ispano-papale. GUIDOTTI, Strenna Piacentina - 1991.
Furono anni veramente difficili per il territorio: alle dure condizioni di vita create dalla perdita
del raccolto si aggiungevano i danni causati dalle scorribande, nelle campagne, dei soldati del
condottiero francese Lautrec e le varie contribuzioni ordinarie e straordinarie imposte dai
funzionari di Francesco I (... erreno tanto superbi i Franzesi che da tuto, o la maggior parte,
errano odiati e molto poco respecto havevano cussì a grandi corpo a piculi). L'elezione nel 1519
di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, riaccese il progetto di un'alleanza anti-francese. All'inizio del 1521 si preparò a Reggio un convegno tra piacentini, parmigiani e milanesi per
la formazione di una Lega che, scacciando i francesi dall'Italia, consegnasse a Francesco Maria
Sforza, fratello di Massimiliano, il ducato di Milano. Contemporaneamente il papa Leone X
strinse un patto con Carlo V sperando, con la sconfitta dei francesi, di riottenere Piacenza e
Parma.
Di fronte a questa mobilitazione Francesco I inviò in Italia le truppe e invase lo Stato Pallavicino
di Busseto, facendo arrestare e decapitare il marchese Cristoforo Pallavicino, fedele agli Sforza
(11 novembre 1521). L'arrivo dell'esercito imperiale e pontificio, costrinse i francesi a lasciare
Piacenza, dove il papa riaffermò la sua signoria.
Galeazzo Pallavicino, marchese di Busseto e signore di Polesine negli anni 1504-20 (Coll. privata).
In una situazione così altalenante era difficile prendere posizione in relazione alle prospettive di
vittoria ed anche tra i fratelli Pallavicino, marchesi di Busseto, i comportamenti non furono
univoci: morto Nicola (1495), Antonio Maria passò nel 1499 dall'alleanza con il duca di Milano a
quella con la Francia, alla quale rimarrà fedele; Cristoforo corse in aiuto agli Sforza; Galeazzo,
nominato nel 1483 Consigliere presso la Corte ducale e sposo di Elisabetta Sforza in prime
nozze, non esitò nell'agosto del 1499 ad abbandonare il duca al suo destino e a passare dalla
parte di Luigi XII, che lo ricompensò donandogli i feudi di Fontanella, Soresina e Romanengo;
non volle però seguire i francesi nei loro rovesci, fingendosi malato ogni volta che lo si voleva
coinvolgere e chiudendosi nel suo castello di Busseto. Ottaviano combatté nel 1514 a fianco
degli Sforza, mentre Girolamo, creato vescovo di Novara da papa Sisto IV, fu consigliere, molto
ascoltato, dello Stato di Milano e delegato nel 1489 a far parte della scorta d'onore che
accompagnò la duchessa Bianca, sorella di Gian Galeazzo Sforza, in Ungheria in occasione delle
sue nozze. Nel 1499, quando i francesi, invitati da Lodovico il Moro, conquistarono il ducato
milanese, mons. Pallavicino intervenne al solenne giuramento di fedeltà a Lodovico II, entrando
a far parte del senato del nuovo Stato, fino alla sua morte, avvenuta nel 1506.
Cristoforo Pallavicino, marchese di Busseto, decapitato nel 1521 dai francesi. Quadro nel palazzo dei marchesi Pallavicino a Busseto.
Tra il 1518 e il 1521 morirono gli ultimi 4 fratelli Pallavicino e subito si creò il problema della
successione nel marchesato di Busseto. Morto prematuramente Nicola, Ottaviano e Girolamo
non generarono che femmine. Da Antonio Maria nacquero Ugolino e Pallavicino e nessuno dei
due ebbe figli maschi. Alla morte di Pallavicino, la figlia Luisa fu privata del feudo di
Castelsangiovanni (che Pallavicino aveva ereditato dal padre Antonio Maria), preso in possesso
dalla Camera Apostolica, ancora per mancanza di discendenti maschili. Galeazzo, oltre a due
figlie, Laura e Beatrice, ebbe anche un figlio, naturale però, cui pose il nome di Adalberto e che
egli si preoccupò di legittimare per assicurare una discendenza. Ad effettuare la legittimazione
fu il conte palatino Berengario da Carpi, e questa conferma fu più volte richiesta e concessa da
sovrani e da pontefici su istanza dei parenti più prossimi. Singolari le vicende matrimoniali di
Galeazzo che, dopo le nozze con Elisabetta Sforza e la nascita delle due figlie, sposò in seconde
nozze Eleonora Pico della Mirandola, dalla quale peraltro si separò perché, secondo la versione
offerta da Nicolò Festasio, podestà di Busseto nel 1536, "l'onorata virtù dell'animo di Galeazzo
Pallavicino fu oscurata da disonesta vita, perciocché, chiamata Leonora, donna di eccellenti
virtù et ottimi costumi, la quale, conosciuta la vita lasciva di lui subito si partì e se ne andò a
casa sua, et mai più vi tornò; alcuni dicono che la prima notte ch'ella giacque con lui, sonando
matutino, come nodrita del timor di Dio et devotissima del suo nome, levatasi da letto a
celebrarlo, fu la matina mandata a casa sua; sia come si voglia, egli subito fece intendere alla
Bianca sua amica, sposata allora allora a un altro, che non andasse né giacesse col marito in
conto alcuno". La Bianca, richiamata con affannosa sollecitudine da Galeazzo Pallavicino dopo il
precipitoso ritorno a casa di Eleonora Pico, sua seconda moglie, diede al Pallavicino un figlio,
Adalberto, che mori nel 1570 e fu legittimato, come visto in precedenza, per particolari ragioni
politiche.
Quanto a Cristoforo (fu in Busseto generoso benefattore della Chiesa e del Convento di
S.Chiara; in Samboseto eresse un palazzo per villeggiare, adornandolo con gusto e ricchezza;
quel palazzo era il ritrovo degli amici del Pallavicino, ove si passavano in feste intere giornate),
ebbe tre figli maschi: Gerolamo, Francesco ed Ermete, e furono loro, a partire dal 1522, a reggere
la signoria di Busseto e, in seguito, essendo morto precocemente Francesco, i soli fratelli
Gerolamo ed Ermete congiuntamente.
Insieme a Busseto anche il feudo di Polesine passò ai figli di Cristoforo. I marchesi di Busseto,
che nel 1499 si erano opposti all'acquisto di Polesine da parte di Rolando Il di Cortemaggiore,
avevano acquistato loro stessi il feudo nel 1504 e lo terranno fino al 1569. Per Busseto era molto
importante questa zona, perché permetteva l'accesso al fiume Po, importante via di
comunicazione per il traffico commerciale e militare (spesso i trasferimenti via terra risultavano
difficile per lo stato delle strade).
Agli inizi degli anni trenta la situazione italiana si era assestata; sconfitti duramente i francesi, il
6 gennaio 1530 venne stipulato a Bologna un accordo tra Carlo V (imperatore di Spagna e
Germania), papa Clemente VII, Venezia, Francesco Sforza, i marchesi di Mantova, i duchi di
Savoia e la Repubblica di Siena, i quali sancirono il nuovo assetto politico dell'Italia.
BUSSETO ERETTA CITTÀ
Il 4 marzo 1533 alle ore 22, l'imperatore Carlo V, diretto a Piacenza, si fermò a Busseto a far
visita ai fratelli Gerolamo ed Ermete Pallavicino, suoi fedeli sudditi. Giunto alla porta di
mezzodì, avendo scorto infissa su quella torre un'aquila in marmo nero, segno dell'antica
devozione dei Pallavicino al Sacro Romano Impero, Carlo V esclamò: "esta non salta",
aggiungendo "acqua non la scarsa", volendo indicare come la fede Pallavicino non sarebbe mai
venuta meno. A ricevere l'imperatore gli erano andati incontro i marchesi Gerolamo ed Ermete,
insieme al popolo festante, e l'imperatore rispose all'entusiastica accoglienza salutando Busseto
col titolo di Città: per i Pallavicino era il riconoscimento dell'antica fedeltà alla parte ghibellina.
Con questa investitura Carlo V concesse che alla testa dell'aquila, presente nello stemma del
borgo, venisse aggiunta la corona d'oro e in mezzo al petto in un piccolo scudo d'argento una
croce azzurra (i Farnese vi aggiunsero poi la corona ducale). Soggiornò nella Rocca la notte e
tutto il giorno successivo e, alla sua partenza, lo seguì Baldassare Marri, che aveva l'incarico di
ritornare a Busseto solo con il promesso Diploma di Città. Finalmente il 24 marzo ad
Alessandria, Carlo V firmò il decreto, mentre il Marri, per rispetto, continuò a seguirlo ancora
per qualche giorno, fino all'imbarco da Genova per la Spagna da parte del Sovrano. Il 18
maggio Mani giunse a Busseto, dove era atteso con ansia, e nella chiesa di San Bartolomeo si
tenne una solenne cerimonia per festeggiare l'evento.
L'imperatore Carlo V tornò in Italia nel 1543 e, ricordando l'accoglienza ricevuta e per la fedeltà
del marchese Gerolamo,35 scelse la città di Busseto per un incontro col Papa Paolo III Farnese, e
questo incontro avvenne il 21 giugno: "Il 20 Paolo III pranzava in Soragna ed il 21 alle ore 12
entrava in Busseto, seguito da 24 Cardinali, da Vescovi, da un gran numero di signori e
Gentiluomini, da 600 fanti italiani, dalla guardia dei Lanzi, e da 300 cavalli... il Pontefice appena
arrivato, spedì i cardinali e i Prelati incontro all'Imperatore, che si sapeva, fosse partito da
Cremona nello stesso mattino. Seguivano Carlo V il Duca di Mantova, il Marchese del Guasto, il
Principe di Piemonte, il Governatore dello stato di Milano Don Ferrante Gonzaga, il Duca
Ottavio Farnese colla moglie Margherita d'Austria, moltissimi altri Signori e Duchi di Spagna,
con un migliaio di armati".36
35 Girolamo
nato a Busseto nel 1508, in diverse occasioni militò con onore nelle Fiandre
al servizio di Carlo V.
36 E.SELETTI, La Città di Busseto - vol. II p.30.
Paolo III accolse l'imperatore con molta cordialità, abbracciandolo, e gli concesse
l'appartamento migliore nella Rocca. 11 papa, che da tempo voleva questo incontro, cercò in
ogni modo, inutilmente, di convincere Carlo V a concedere il ducato di Milano al nipote Ottavio
Farnese. Per sottrarsi a nuove richieste, Carlo V fece ritorno in Germania. In quei giorni era
presente a Busseto il pittore Tiziano Vecellio, giunto al seguito di papa Paolo III. Sulla facciata
di una casa Tiziano aveva dipinto l'incontro tra i due Potenti, con papa Paolo III seduto alla
destra di chi guardava, e l'imperatore in piedi vestito di verde con pizzo d'oro secondo il
costume spagnolo. Questo dipinto, esposto alle intemperie, andò via via rovinandosi ed oggi
non è rimasto nulla.
La Rocca Pallavicino di Busseto, esterno, che ospitò nel 1543 l'incontro tra l'imperatore Carlo V e il papa Paolo III Farnese.
IL 20 dicembre 1554 venne stipulato un accordo tra i fratelli Gerolamo ed Ermete Pallavicino,
signori di Busseto, e Sforza Pallavicino, signore di Fiorenzuola, che pose fine a una lite in essere
per il possesso di Borgo San
Interno della Rocca Pallavicino di Busseto.
Donnino: "... Al fine di sedare la lite, si conviene che il Sig.Sforza cede ai detti fratelli tutti i
paesi, le terre, le giurisdizioni, i dazi, i diritti feudali ecc. che possedeva la detta Donna Luisa37 e
dall'altra parte i detti Sig.fratelli cedono e trasferiscono al sig.Sforza la metà della città di Borgo
S.Donnino e della giurisdizione col reddito annuo di 500 scudi d'oro sui dazi del sale e sugli
altri redditi del detto Borgo. Inoltre per benevolenza ecc... cedono al medesimo (Sforza) l'altra
metà del detto Borgo, della rocca, della giurisdizione ecc... col residuo dei redditi a patto che
alla morte del detto Sig. Sforza senza figli maschi legittimi e naturali e non legittimati, tutta la
detta terra con la giurisdizione, la rocca e tutti i crediti ritorni ai detti fratelli o ai loro figli
maschi come sopra. In cambio della detta metà del borgo, come sopra, il Sig.Sforza dà e cede ai
detti fratelli Villa nova e Soarza con le loro giurisdizioni ecc.ecc. con i loro redditi, dazi, sale e
porto ed altro... e con il patto che morti i detti Sig.ri fratelli senza figli legittimi e naturali e non
legittimati, il Sig. Sforza o i suoi figli legittimi come sopra, siano eredi
37 Si trattava di Luisa Pallavicino, figlia di Pallavicino Pallavicino, figlio a sua volta di Antonio Maria, marchese di
Busseto. La signora Luisa, in disaccordo con Gerolamo ed Ermete, aveva lasciato al momento della sua morte
(1552) i suoi diritti a Sforza Pallavicino. In precedenza Luisa aveva chiesto e ottenuto anche una parte del feudo di
Polesine; dopo la sua morte, nel 1552, tutto il feudo era tornato ai fratelli Gerolamo ed Ermete, marchesi di Busseto.
L'incontro di Paolo III con Carlo V, 1543. Dipinto di Biagio Martini
(1761-1840), Biblioteca Fondaz. Cariparma Busseto.
Nel 1584 il bussetano Girolamo Boccelli fece scolpire una lapide perché rimanesse il ricordo dell'incontro tra l'imperatore Carlo V e papa Paolo
III, ottenendo di farla porre sulla facciata della Collegiata.
di Busseto e delle sue giurisdizioni, e della Rocca e dei redditi, esclusi soltanto i poderi, i prati, i
boschi, i palazzi ed altri edifici". L'accordo stabilito era subordinato al beneplacito del
"Serenissimo Duca Ottavio Farnese (figlio e successore di Pier Luigi) in vista del quale consenso
essi stessi fanno supplica e si costituiscono reciprocamente procuratori". Ottavio Farnese, duca
di Parma e Piacenza, in seguito alla petizione di Sforza Pallavicino confermò la transazione.
Una volta definita la vertenza con Luisa e Sforza Pallavicino, Gerolamo ed Ermete, in
disaccordo tra di loro, decisero di separare i beni in comune: "11 giorno 9 gennaio 1555 dalla
nascita del detto Signore Gesù, Gerolamo ed Ermete Pallavicini, fratelli, divisero i loro beni e
nella parte di Ermete venne la metà di Busseto con la metà della Rocca, della giurisdizione di
Polesine e Vianino, Villanova e Soarza di qua e di là dal Po; a Gerolamo toccò l'altra metà di
Busseto, con la metà della Rocca, Castione e la III parte di Monticelli, restando invece comuni e
indivisi (proprietà di tutti e due) i porti e i dazi."38
Da questo momento, e fino alla sua morte (1562), Villanova e Soarza appartennero a Ermete, che
ordinò un censimento del territorio e provvide ad emanare tutti gli atti relativi al suo feudo.
Dopo la morte di Ermete fu Gerolamo a subentrare nelle proprietà e diritti feudali del fratello.
38 Fondo Archivio Famiglia Pallavicino - p.29 Archivio di Stato-Parma.
Anno 1558 - Grida
"Da parte dell'ill. Sig.Hermes (Ermete) Pallavicino Marchese di Busseto Sig.re di Villanova et
Soarza e Brancere: Si fa pubblica Grida, Bando e Commandamento, che non sia persona alcuna
di qual grado, stato e condizione esser si sia che si osi portar armi d'Asta, Archibugi, Balestre né
altri Arme offendibili salvo che la spada alle chiese, né alle feste così pubbliche come private di
essi luoghi intendendo però che li forestieri non possono portare armi da asta né Archibugi in
dette Ville salvo che per viaggio ma se in caso che venissero in esse Ville et si affermassero in
quelle non possano portare né tenere arme di sorta alcuna, salvo che la spada et il pugnale
stando sotto la pena di scudi dieci senz'altra solennità di processo e credevasi a ciascun
accusatore con duoi testimoni degni di fede quale guadagnerà la quarta parte di tale pena sarà
tenuto secreto.
Non sia persona alcuna che osi farsi maschera né imbavarsi in modo da maschera in dette Ville
né di giorno né di notte sotto pena di detti scudi I O d'oro".39
Grida fatta pubblicare dal Sig. Marchese Pallavicino "acciò gli abitanti di Villanova, Soarza e
Branciere non diano ricovero alli Banditi e Rei di qualche delitto".
Grida che "si leva agli Insolenti ogni occasione di scandalo e di insolentie in quali incorre per la
Licenziosa abbusione del Carnevale".
"Dal Podestà di Villanova, Soarza e Branzere et de espressa Commissione dell'Ill.Hieronimo
Pallavicini che non sia persona alcuna che ardisca portare sulle feste, ai Balli nel Contado
Archibugi, né cime da Asta sotto pena di Scudi 6 d'oro".
Anno 1565: "Havendo convenuto insieme gli Ill.mi Sig.Geronimo Patron nostro e lo Sig.Sforza
Patron delle ragioni del Macinare alli uomini di Villanova, Soarza et Braciere si ritrova il
Sig.Sforza essergli in molto comodità et utilità che gli abitanti in Villanova, Soarza e Brancere
vadano a maccinare alla Piarda del Po e non ad aggiunti molini terranei ancorché siano di esso
Ill.mo sig.Sforza, avendo però intenzione che gli uomini siano ben serviti dalli Molinari del Po."
L'industria molitoria, fin dal medioevo, era correlata all'esercizio di un
39 Fondo Confini - Busta 171 Archivio di Stato-Panna.
diritto feudale che i Pallavicino esercitavano da tempo immemorabile. Nel territorio di
Villanova e Soarza, se escludiamo il molino del Castellazzo che già nel 1499 Rolando II
Pallavicino aveva assegnato, come proventi, al Consiglio di comunità di Cortemaggiore, gli altri
erano tutti natanti, solidamente attraccati alla piarda di Soarza da robuste gomene. L'affitto dei
molini costituiva un'entrata cospicua per il signore, ma i margini economici della molitura
consentivano agli affittuari di sublocare, a loro volta, i molini ai molinari che avevano il
compito di governarli assieme ai loro garzoni. Ai mugnai era addossato, in genere, l'onere del
trasporto dei grani dalle case dei contadini nelle campagne fino ai molini e di provvedere
quindi alla restituzione delle farine macinate, salvo il diritto, riconosciuto ai committenti, di
assistere alla molitura delle loro biade ed, eventualmente, di scopare attorno alle tramogge ed
alle mole per recuperare il prodotto residuo.
Mulino sul Po, tramonto. Dipinto del 1856 di Guido Carmignani (Parma, Museo Glauco Lombardi). Compreso in: Nelle terre dei Pallavicino di
Carlo Soliani-Graf. Step Parma, 2012. I diritti sui mulini del Po furono oggetto di contrasti tra i marchesi di Polesine e i loro sudditi.
Un altro monopolio dei Pallavicino era la concessione in locazione delle peschiere e delle
ghiacciate. Per la concessione della pesca nel Po veniva concluso un contratto che prevedeva,
oltre al prezzo stabilito, la consegna al marchese di un certo quantitativo di pesce. La
"ghiacciata" era un tipo di pesca molto antico e praticato d'inverno nelle lanche, sulla cui
superficie a causa del freddo si formava uno strato di ghiaccio. Per poter "fare una ghiacciata" lo
strato doveva essere spesso e capace di portare il peso degli uomini che vi dovevano camminare
sopra. Per pescare si tagliava il ghiaccio e si catturavano grandi quantità di pesce, che vi
rimaneva imprigionato. La difficoltà nello stabilire i limiti territoriali delle proprietà, gli
interessi in gioco e l'esistenza di pescatori di frodo, facevano sì che anche le "ghiacciate" fossero
oggetto di controversie varie.
Interno d'un mulino sul Po di Guido Carmignani (Parma, Museo Glauco Lombardi), anno 1857.
CESARE PALLAVICINO: QUINTO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE
Nel 1557 morì Gerolamo Pallavicino e, non avendo figli maschi, gli successe per breve tempo
Cesare, figlio di Marc'Antonio (secondogenito di Rolando II, morto nel 1517 a trentatre anni).
Nel 1528 Cesare aveva sposato Camilla Pallavicino, figlia di Ottaviano dei marchesi di Busseto,
la quale morì senza prole, per non aver mai il marito consumato il matrimonio per impotenza
congenita dello stesso Cesare. Dolorosa è la testimonianza di Ludovica, vedova di Gaspare
Pallavicino e zia di Cesare, secondo cui "al tempo che il Sig. Cesare tolse per moglie la Signora
Camilla non curava d'accompagnarsi seco, anzi facea ogni cosa per menarla più alla longa che
potea". Quanto a Cesare Pallavicino, la marchesa Ludovica confortandolo, si sentì rispondere
"che era meglio per lui che morisse, atteso che non era da far mente a questo mondo, per essere
impotente a far figlioli". Lo stesso Cesare, qualche giorno prima della morte, fece chiamare la
marchesa e le disse: "Satio di questo mondo e contentissimo di morire, non atto ad haver figlioli,
e addoloratissimo di lasciare la Signora sua consorte sola che non ha padre né madre".
Nel 1536 combatté con l'Impero contro la Francia, agli ordini di Ferrante da San Severino, al
comando di una compagnia di cavalli.
LA COMUNITÀ EBRAICA NEGLI STATI PALLAVICINO
Degli Ebrei nel piacentino s'iniziò a parlare durante il Quattrocento; in tale secolo e in quello
seguente svolsero una notevole attività commerciale sia a Piacenza che in alcuni centri della
Bassa Padana, dove si erano stanziati con l'appoggio dei Pallavicino.
Nel 1456 il duca Francesco Sforza confermò agli Ebrei il permesso di abitare nei paesi a lui
soggetti perché "erano utili prestando denaro in tempo nel quale vi era scarsezza".
Nel 1545 un rilevante numero di Ebrei venne espulso dalle città di Piacenza e Cremona, e nel
piacentino, dal 1562 sino al 1803, ebbero la loro residenza coatta nei tre centri di Fiorenzuola
d'Arda, Monticelli d'Ongina e Cortemaggiore, favorevolmente accolti dai Pallavicino e dai
Farnese, che li autorizzarono a concludere prestiti feneratizi (con interessi) a condizioni date. Il
motivo che indusse i governanti ad accogliere gli Ebrei in quelle località del contado può forse
essere considerato, così come per il duca Francesco Sforza, l'intenzione di favorire, mediante
prestiti, le popolazioni agricole di quelle plaghe che, nella seconda metà del sedicesimo secolo,
si trovavano in condizioni di estrema miseria.
La fondazione del Monte di Pietà di Busseto (1537), di I. G. Levi, olio su tela. Il padre francescano G. A. Maiavacca legge il documento alla
presenza di Gerolamo, Francesco ed Ermete Pallavicino.
L'esercizio del presto a usura, nei riguardi dei ceti meno abbienti, portò costoro a nutrire nei
riguardi degli esosi creditori sentimenti di profondo rancore, che talvolta sfociavano, con il
pretesto della diversità etnica e religiosa, in atti di ostilità non solo a livello popolare, ma anche
da parte delle autorità statali ed ecclesiastiche che non cessavano di vessare gli ebrei con ogni
genere di divieti e di discriminazioni, che talvolta venivano aggirati mediante l'esborso di
elargizioni di denaro a favore delle autorità stesse (II commercio di denaro era svolto sia da
Banchi di prestito che da singoli individui. I saggi d'interesse erano in media sul 30 per cento
annuo ma potevano toccare anche punte del 130 per cento).
Per combattere la piaga dell'usura, si giunse nel 1537 alla fondazione del Monte di Pietà di
Busseto, per volontà dei marchesi fratelli Gerolamo, Ermete e Francesco Pallavicino su
ispirazione del francescano P. Giovanni Antonio Maiavacca. Nel 1582 papa Gregorio XIII ne
confermò canonicamente l'erezione.
Nel 1585 a Cortemaggiore, grazie alle offerte del marchese Sforza Palla-vicino, della Comunità e
del Capitolo della Collegiata, venne fondato il Monte di Pietà, che nel 1588 fu dotato di una
sede propria, grazie alla donazione di una casa da parte del nobile Domizio Torricella. Due anni
dopo la fondazione, lo Stato dei Pallavicino passava ai Farnese.
Nel 1597, espulsi dal Ducato di Milano, una forte comunità di Ebrei si trasferì da Cremona a
Monticelli dove, ricchi, industriosi e intraprendenti, non ebbero alcuna difficoltà ad inserirsi
nelle strutture sociali del territorio, accattivandosi la simpatia dei Feudatari ai quali prestavano
ingenti somme di denaro a tassi significativamente alti. Per l'attività che svolgevano, gli Ebrei
furono sempre osteggiati dalla popolazione: il 4 aprile 1706 una lettera rilevava le angherie
compiute con pignoramento dei loro beni ed altre misure coercitive e sempre in tale data veniva
fornito l'elenco dei residenti in Monticelli. Questi i cognomi più comuni: Sforni, Soavi,
Ottolenghi, Foà, Muggia, Fenzi. Nel 1750 venne pubblicata una grida contenente le solite
restrizioni contro gli Ebrei. Tre anni più tardi, un nuovo Documento vietava di maltrattarli,
deriderli in vari modi, molestarli e costringerli con la forza ad entrare nelle Chiese cristiane per
ascoltarvi i sermoni e le prediche.
A Cortemaggiore la presenza degli Ebrei e la loro attività è testimoniata nel verbale di riunione
del Consiglio generale del 19 dicembre 1596, "convocato e congregato" per discutere sopra un
ricorso fatto dagli Ebrei di Cortemaggiore che avevano prestato denaro al Sig. Pietro Antonio e
"non essendo mai stato sotisfatto alli detti hebrei essi hebrei hanno proveduto di ragione contra
detto Pietro Antonio". In tale riunione si invitarono i rappresentanti delle Ville, appartenenti
allo Stato di Cortemaggiore, a dimostrare i pagamenti fatti agli Ebrei. 40
In una grida del 1661 si ordinava perentoriamente che essi non dovessero essere molestati in
tempo di carnevale, né di giorno, né di notte, né quando seppellivano i morti. Le gride
dell'epoca erano unanimi nel raccomandare indirettamente di cercare di "guadagnare gli Ebrei
alla legge cristiana con buoni esempi" piuttosto che con la violenza. La conversione al
cattolicesimo degli ebrei, con il coinvolgimento delle istituzioni e la solennità dei riti sacri e
profani, è la testimonianza dell'importanza che tale avvenimento rappresentava a quel tempo.
La conferma è in una lettera del 28 aprile 1724, scritta da Parma al duca Francesco Farnese:
"Ser.ma Altezza, Giacobbe vita Landi Padre del Giovine ebreo, che vuole abbracciare la nostra
Santa Fede, desidera, che detto suo figliuolo, anche senza l'intervento di suo padre, e di altro
ebreo sia interrogato da qualche Padre della Comp.a di Gesù della quale totalmente si fida,
accioché si veda, se veramente abbia esso suo figliolo tale vocazione; e di più che avendola, la
funzione del Battesimo non si faccia a Cortemaggiore per divertire i sconcerti, che in tal caso dal
Popolo, che nodrisce somma antipatia contro gli ebrei, potriano cagionarsi. All'incontro il Padre
Guardiano de Minori Osservanti di Cor-temaggiore, et il figliolo medesimo vorrebbe che detta
funzione si facesse in Cortemaggiore, e che colà si solennizzasse... ".
Nel 1787 la conversione dell'ebrea Benvenuta Carmi venne citata nel corso di tre Consigli di
Comunità con l'invito ad una generale partecipazione alla cerimonia del battesimo.
Il I ° aprile 1803 gli Ebrei a Cortemaggiore erano 78 e i nomi più ricorrenti erano: Carmi,
Vigevani, Levi, Foà, Muggia, Forti, Laudi, Sacerdoti. Nel 1865 gli Ebrei erano 66 e 32 nel 1881.
Successivamente la comunità di Cortemaggiore, ormai numericamente ridotta, fu aggregata a
quella di Modena, mentre nel 1925 la comunità di Monticelli, per la quasi estinzione della
presenza ebraica, fu aggregata a quella di Parma.
Gli Ebrei del piacentino furono sempre considerati stranieri ed in base a tale classificazione
venne inibito loro l'accesso ad ogni carica pubblica, civile o militare. Costituivano insomma un
nucleo che, estraneo alla religione
40" B I - Archivio Storico di Cortemaggiore.
ufficiale dello Stato, doveva conservarsi tale anche nei confronti dello Stato stesso e degli altri
sudditi, senza possibilità alcuna di difendere validamente i propri diritti ed i propri interessi.
Ma il 12 luglio 1803, il commissario francese Moreau de Saint Mery emanò una grida che
stabiliva e decretava che tutti gli Ebrei, domiciliati negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla,
erano e si intendevano parificati agli altri cittadini dei suddetti Stati a tutti gli effetti civili,
politici e sociali e affermava che tutti i cittadini erano ugualmente "sotto la protezione della
legge nello stesso modo che erano sotto la sua spada". Fu però un'equiparazione di poca durata.
Cessato il dominio francese, sotto il governo di Maria Luigia, vennero ripristinate le antiche
norme circa il domicilio forzato degli Ebrei e il divieto di mandare i loro figli alle scuole
pubbliche.
La situazione migliorò nella breve parentesi quarantottesca, per 'ritornare come nei peggiori
tempi di Maria Luigia sotto i restaurati Borboni. Così che, in definitiva, gli Ebrei non ebbero
interi i diritti di cittadinanza che all'atto della costituzione del Regno d'Italia.
SFORZA PALLAVICINO: SESTO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE
Per la morte del cugino Cesare, avvenuta nel 1561, Sforza Pallavicino, già Signore di
Fiorenzuola, diventò il 6° marchese di Cortemaggiore; nell'occasione, le rimostranze avanzate
da Camilla, vedova di Gerolamo, e dalle sue figlie e dalla moglie di Cesare Pallavicino furono
ben presto appianate per la speciale protezione di cui godeva lo Sforza, che aveva sposato
Giulia, la nipote del papa Paolo III Famese. Sforza Pallavicino era nato nel 1519 da Manfredo
(marchese di Cortemaggiore e fratello di Gian Lodovico II) e Ginevra (già vedova di Galeazzo
Sforza). Nel 1521, dopo l'uccisione di Manfredo da parte dei francesi, Ginevra si rifugiò presso
Francesco Sforza portando il piccolo con sé. Nel 1536 Sforza Pallavicino era agli ordini
dell'impero e combatté contro i francesi. Sposò Giulia, figlia di Bosio Sforza, conte di Santa Fiora
e signore di Castellarquato, e quindi parente di Paolo III.
Nel 1542 eccolo quindi alla guida dei soldati pontifici nella difesa di.Vien-na contro i Turchi e
l'anno successivo investito del feudo di Fiorenzuola dal papa Farnese. La benevolenza di cui
godeva presso Paolo III fu confermata nel marzo del 1542, quando il papa concesse a Sforza
Pallavicino "la facoltà di poter esigere tutto il prezzo del sale fatto per S.S.ma in tutto lo Stato
della chiesa, in tutte le terre sottoposte al Signor Sforza cioè Fiorenzuola, Bargone, Contignaco,
Costamezzana; Soarza e Villanova,41 mettendolo in luogo della chiesa in dette sue terre per
riscuotere detto aug. to. Comandando che in detta esazione non fosse molestato dalli ministri
della sede apostolica et in fu espeditto per breve app. col piombo."
Nel 1545 si trovava a Piacenza ad accogliere il nuovo duca Pier Luigi Far-nese e ne diventò
confidente e consigliere: lo stesso anno venne mandato dal duca in missione diplomatica presso
l'imperatore Carlo V. S'ipotizza che, per ragioni d'eredità, sia stato complice con Pier Luigi
Farnese nel tentativo di assorbire il feudo di Cortemaggiore, facendo imprigionare a Piacenza la
moglie di Gerolamo Pallavicino. Nel 1547 fu maestro di campo generale dell'esercito pontificio e
Paolo III gli concesse il feudo di Sant'Arcangelo di Romagna. Qualche anno dopo era capitano
generale di fanteria agli ordini della repubblica veneta. Nel 1562, con la morte del cugino Cesare
Pallavicino, diventò marchese di Cortemaggiore; ma ben
41' Nel 1542 Sforza Pallavicino esercitava giurisdizione su Soarza e Villanova; il fatto è da collegare al testamento di
Gaspare e Marc'Antonio Pallavicino, fratelli del padre Manfredo.
presto riprese le sue missioni al servizio di Venezia, in lotta contro i turchi. Cinque anni dopo
vendette Borgo San Donnino al duca Ottavio Famese per 48.500 scudi: il potere e la pressione
del Famese non sembrano estranei a tale decisione.
Nel 1569 Gerolamo, marchese di Busseto, e Sforza Pallavicino, marchese di Cortemaggiore,
stipularono un patto successorio: essendo entrambi senza prole maschile, quello di essi che
fosse sopravvissuto all'altro sarebbe divenuto signore del marchesato appartenuto al defunto.
Dichiararono inoltre che proprio Adalberto (figlio naturale di Galeazzo, zio di Gerolamo), unico
superstite della loro diramazione, doveva essere il loro successore nei rispettivi feudi e, per
ribadire e convalidare la legittimazione di questi, ottennero 1'8 maggio 1570 l'emanazione di
una bolla da parte di papa Pio V. Tutto questo tuttavia non permise ad Adalberto e ai suoi
discendenti di entrare in possesso dei feudi appartenenti a Gerolamo e Sforza, infatti Adalberto
morì prima dei due (1570) e non assistette allo sviluppo delle vicende successorie.
Il 23 maggio 1579 morì il marchese Gerolamo Pallavicino di Busseto e, con lui, ebbe fine il ramo
legittimo dei marchesi di Busseto e l'ultima fase della sua vita politica autonoma.
In mancanza di eredi maschi, Gerolamo lasciò erede universale di tutti i beni feudali e allodiali
il marchese Sforza di Cortemaggiore.42 Per entrare in possesso dei beni, lo Sforza doveva però
rispettare una clausola inserita da Gerolamo nel testamento, in base alla quale, se non fosse stata
data esecuzione ai legati disposti in favore della moglie Eleonora Viritella e dell'Ospedale di
Milano, sarebbe subentrato al suo posto Ottavio Famese. Questa clausola provocò una tensione
tra Sforza Pallavicino e il duca di Parma, seguita da una controversia giudiziale.43
42 Nel 1554, in occasione della cessione di Fidenza a Sforza, era stato firmato un accordo tra i fratelli Ermete e
Gerolamo di Busseto e Sforza Pallavicino per cui, in mancanza di eredi diretti di un ramo l'altro avrebbe ereditato
tutto.
43 Non si sa il motivo dell'inserimento della clausola dell'eventuale sostituzione dello Sforza da parte di Ottavio,
ma sembra evidente in questo una iniziativa del Farnese. Sforza Pallavicino chiese l'annullamento del testamento
contenente tale clausola, sostenendo che in ogni caso il suo diritto successorio derivava già dal 1479, al momento
della divisione del feudo di Busseto, da cui aveva avuto origine il marchesato di Cortemaggiore. La sentenza diede
ragione allo Sforza e il duca Ottavio non impugnò le sentenza, perché nel frattempo era subentrato un accordo fra i
due.
I rapporti tra i due, fino ad allora ottimi (Sforza si era sempre mostrato devoto ai Farnese),
tornarono a ricomporsi dopo breve tempo con la firma di un accordo (per favorire tale accordo
il duca Ottavio Farnese fece incarcerare lo Sforza nel castello di Piacenza). Il patto prevedeva
che lo Sforza avrebbe adottato il marchese Alessandro Pallavicino del ramo di Zibello, destinato
a sposare Lavinia Farnese, figlia naturale di Ottavio. L'annessione al ducato di Parma e Piacenza
dello Stato Pallavicino, tentata invano una prima volta con la violenza da Pier Luigi Famese,
maturava così lentamente attraverso l'evolversi delle condizioni politiche, l'accorta diplomazia
dei matrimoni, l'astuzia e l'immancabile violenza fisica e morale. A questo punto per i Famese
impossessarsi del marchesato diventava un'impresa molto più facile.
Ottavio Farnese, ritratto olio su tela di I.G. Levi — Biblioteca Fond. Cariparma Busseto.
Sistemata quindi la sua successione, Sforza Pal-lavicino ritornò al servizio di Venezia,
occupandosi delle forze armate ed ottenendo anche la nomina a governatore di Verona. Morì il
4 febbraio 1585 nella sua villa di Salò; trasferita la salma a Cortemaggio-re, un cronista presente
così descrisse la magnificenza dei funerali: "... Vi parteciparono la compagnia dei Battuti
(o flagellanti), i preti di Monticelli, Busseto, Fiorenzuola con quelli del contado. Frati, circa
cinquanta. Vi erano sei trombettieri a cavallo con tamburi, sei cavalli da sella coperti da
gualdrappe, sei alfieri con gli stendardi tirati per terra... dodici alabardieri che si tiravano dietro
le alabarde. Dopo questi vi erano alcuni putti con torcioni di sei libbra l'uno, e poi il cataletto
recato dal mastro di casa e da altri cortigiani di detto signore, accompagnati da gentiluomini e
moltitudine grandissima... ".
Agri Cremonensis Typus, descritto dal pittore cremonese Antonio Campi nel 1579. Archivio di Stato di Cremona.
L'ORDINAMENTO DELLO STATO DI CORTEMAGGIORE,
I CAPITOLI DEL MARCHESE SFORZA PALLAVICINO
Sforza Pallavicino, dopo essere stato famoso condottiero militare, fu anche un valido
governante. Con lui si riunificò in buona parte il vecchio Stato Pallavicino di Rolando il
Magnifico e Cortemaggiore raggiunse la sua massima importanza politica: nel 1580 possedeva
Cortemaggiore, Fioren-zuola, Monticelli, Castelvetro, San Rocco, Busseto, Vidalenzo, Sant'Andrea, Samboseto, Frescarolo, Salsomaggiore, Bargone, Costa Mezzana, Soarza e Villanova.
Per quanto riguarda l'ordinamento giuridico-amministrativo, nello Stato di Cortemaggiore
trovarono applicazione gli "Statuta Pallavicinia" emanati nel 1429 da Rolando il Magnifico,
integrati dalle "Reformationes et additiones" di Rolando II. Ovviamente gli organi indicati in
questi testi legislativi non avevano che funzioni giudiziarie o amministrative, dato che tutto il
potere politico e legislativo era accentrato nelle mani del Signore, così come richiedeva da un
lato la qualità dei tempi, e dall'altro lato era implicito nella tradizione feudale dei domini
Pallavicino.
Abbiamo visto come negli "Statuti Pallavicini" •l'amministrazione della giustizia fosse affidata
al Podestà direttamente, o attraverso suoi incaricati, come i giudici, presso i quali si doveva
istruire il processo. Spesso il ricorso alla giustizia si fermava alla fase di denuncia o querela,
poche infatti erano le cause che si concludevano con un processo e una sentenza; il motivo
andava probabilmente ricercato nelle carenze dell'apparato giudiziario, con la mancanza di
risorse tecniche e di tempo per poter svolgere un'efficace attività investigativa. I reati più
comuni riguardavano liti e percosse, mentre le sanzioni pecuniarie erano in genere applicate
anche in sostituzione delle pene corporali. A fronte delle contestazioni del giudice, in possesso
di un bagaglio culturale più elevato, gli uomini del popolo si difendevano ricorrendo ad una
loro cultura, formatasi nell'ambiente familiare, nelle Chiese, nelle strade e sulle piazze,
ricorrendo spesso alla reticenza.44 Ad integrazione dell'ordinamento amministrativo in essere, il
2 luglio del 1584 Sforza Pallavicino emanò i "Capitoli del Consiglio di Comunità di
Cortemaggiore". Nel preambolo, sotto l'intestazione "Sforza Pallavicino Marchese di
Cortemaggiore et Governatore Generale dell'Ar-mi del Serenissimo Dominio veneto", il
Marchese dichiarava di aver voluto
44 M.G. GIOVELLI, Un feudo e nove ville. La giustizia in un feudo: Cortemaggiore dal 1580 al 1587. Ed.I Fiori di
campo, Mandriano(Pv), 2006 p.57.
emanare i nuovi capitoli "avendo noi più volte per relazione di molti inteso, et poi per
esperienza chiaramente visto et conosciuto, li tanti disordini occorsi per li tempi passati nelle
cose della Comunità nostra di Cor-temaggiore... quali si possono attribuire al poco ordine, con il
quale essa communità fin a hora è stata governata".45 I Capitoli, che presero il nome da Sforza
Pallavicino, ressero il consiglio di Comunità di Cortemaggiore fino a che il Consiglio ebbe vita,
cioè per più di due secoli, fino al 1806. Senonché sembra molto probabile che quei Capitoli non
abbiano mai trovato applicazione sotto il governo del Marchese che ebbe a promulgarli, infatti
si ritiene che la prima seduta del Consiglio di Comunità, vigenti i nuovi Capitoli, sia stata quella
del 1° gennaio 1586, con la quale iniziano i resoconti.
45 Le disposizioni sono raccolte in trentasei capitoli, integrati dal preambolo già ricordato. E' previsto che il
Consiglio si componga di trentasei uomini della "Terra" di Cortemag-giore, tutti scelti dal Marchese. Altri requisiti
per l'appartenenza al Consiglio, oltre alla cittadinanza della "Terra" di Cortemaggiore, sono indicati nell'età minima
(vent'anni), nella "integrità e sufficentia". La carica di consigliere è incompatibile con la titolarità di un qualsiasi
"officio dipendente dalla Comunità"; la durata in carica dei consiglieri è prevista per il tempo di tre anni, ma con
riserva, da parte del Marchese, "di poter in fine di detti tre anni confirmare la detta elettione in tutto o in parte, et
come meglio a noi piacerà".
ALESSANDRO PALLAVIC1NO:
SETTIMO ED ULTIMO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE
Il 4 febbraio 1585 morì il marchese Sforza, lasciando come suo successore ed erede universale
Alessandro Pallavicino dei marchesi di Zibello. Alessandro, adottato nel 1581, aveva tre anni
dopo sposato Lavinia Famese, figlia naturale del duca Ottavio. Essendo ancora minorenne, era
nato a Zibello nel 1570, lasciò in procura le sue terre e i suoi beni al padre Alfonso e raggiunse le
Fiandre, per mettersi al servizio di Alessandro Farnese, impegnato al comando delle truppe
spagnole di Re Filippo Il. A Ottavio Farnese, morto il 18 settembre 1586, successe il figlio
Alessandro, Signore del ducato di Parma e Piacenza. Nell'impossibilità di abbandonare le
operazioni militari in Francia e in Belgio, incaricò il figlio Ranuccio di rappresentarlo in
permanenza come "Reggente lo Stato".
Alessandro Farnese, olio su tela di I.G. Levi. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto.
Ranuccio I Farnese, olio su tela di I. G. Levi. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto.
Ranuccio II Farnese, olio su tela di Jacob Denis, 1671. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto.
LA CONQUISTA FARNESIANA DELLO STATO PALLAVICINO
E LA SUA SOPPRESSIONE
Il 2 settembre 1587 Alessandro Farnese scrisse da Bruxelles al figlio di prendere possesso di tutti
i beni che erano appartenuti al marchese Sforza Pallavicino: "Hò risoluto che senza mandare il
negotio più a lungo, ne faciate pigliare il possesso senza dar retta a chi osasse avanzare pretese
o diritti, libero poi ognuno di ricorrere al consiglio di giustizia". Il marchese Alessandro
Pallavicino protestò inutilmente, in tutti i modi, contro la violenza del Farnese: rinchiuso nella
Rocchetta di Parma, il Pallavicino ottenne la libertà solo dopo aver ordinato ai castellani delle
sue rocche di consegnarle ai Farnese (presa di possesso eseguita il 27 e 28 settembre). La Casa
Farnese, con l'intervento di un compiacente Tribunale, ottenne una sentenza con cui si
dichiarava che "i domini di Cortemaggiore, Busseto e Fiorenzuola sono devoluti al Fisco"
(camera ducale).
Con il 1587 finiva quindi lo "Stato Pallavicino", che per alcuni secoli aveva avuto un ruolo nella
storia d'Italia: ai Pallavicino subentrò il regime ducale, con il governo della Comunità di
Cortemaggiore e delle altre affidato ai cittadini che il sovrano Farnese scelse per amministrare
la cosa pubblica. Il solo riferimento esplicito alla vicenda si trova in calce al verbale del
Consiglio di Comunità di Cortemaggiore, dove una mano ignota, diversa da quella del
cancelliere verbalizzante, scrisse: "Qui cessa il dominio dei Pallavicini e sottentrano i Duchi
Farnesi".
Alessandro Farnese volle che il Governatore del suo ducato si chiamasse: "Governatore di
Parma, suo Territorio e Vescovado, Governatore speciale dello Stato Pallavicino". Formalmente
e per un motivo politico il Farnese tenne separato lo Stato Pallavicino dal Ducato, questo
perché, se in seguito lo Stato pontificio avesse preteso la restituzione di Parma e Piacenza,
questa pretesa non avrebbe coinvolto lo Stato Pallavicino. Se questo cessò quindi di esistere
quale entità politica, continuò a sopravvivere come entità amministrativa, con un'autonomia
che si esprimeva attraverso la particolare disciplina di tutto un complesso di rapporti: gli
Statuta Pallavicinia di Rolando, le Additiones di Rolando II e i Capitoli di Sforza Pallavicino
continuarono ad essere in vigore, come rimase tutta una serie di esenzioni e privilegi. Sta di
fatto comunque che con l'andar del tempo "il signore duca Ranuccio II, considerando che
finalmente lo Stato Pallavicino non era che una pertinenza dell'una o dell'altra città lo suppresse
l'anno 1678, 31 dicembre".
LE RIVENDICAZIONI DELLO STATO DI BUSSETO E
CORTEMAGGIORE DA PARTE DEI PALLAVICINO
La soppressione violenta del secolare dominio feudale, indusse i membri della famiglia
Pallavicino, esponenti di due diversi rami, ad addentrarsi in controversie giudiziarie per il
recupero del territorio. Dopo la liberazione dalla prigione farnesiana, Alessandro Pallavicino si
ritirò nella sua villa di Salò, dove iniziò una causa contro i duchi di Parma e Piacenza durata 47
anni, ed al suo esame e studio presero parte i migliori ingegni del tempo. La causa terminò nel
1633 grazie a una transazione propiziata dal cardinale Francesco Barberini, per la quale
Alessandro Pallavicino e i suoi figli, monsignor Sforza (poi cardinale) ed Alfonso, rinunciavano
a ogni loro pretesa su ciò di cui erano stati spogliati, mentre il duca Odoardo Farnese si
obbligava a cedere in cambio tanti beni nell'Italia centrale (Castiglione della Teverina, la tenuta
di Cervara e Sant'Angelo in diocesi di Tivoli) per un valore di centomila scudi romani: il tutto
con la necessaria ratifica di papa Urbano VIII con bolla del 1635. Alessandro Pallavicino morì a
Roma nel 1645, all'età di 75 anni.
Un'altra controversia, per rivendicare la sovranità sullo Stato Pallavici-no, venne portata avanti
contro Alessandro di Zibello (e di conseguenza contro i Farnese) da Gerolamo Galeazzo III
Pallavicino, figlio del defunto Galeazzo 11 (morto nel 1582) e nipote di quell'Adalberto al cui
ramo una convenzione intervenuta nel 1569 tra Sforza di Cortemaggiore e Gerolamo di Busseto
destinava i domini degli stipulanti qualora fossero morti senza figli maschi. Nel 1613 Gerolamo
Galeazzo III ottenne dalla Sacra Rota di Roma, come risultato platonico, una pronuncia a lui
favorevole "secondo cui i diritti di un figlio adottivo", cioè Alessandro Pallavicino, "non
potevano turbare le leggi di successione". Inoltre Gerolamo Galeazzo, allo scopo di poter
sostenere le gravissime spese richieste nella causa contro il parente Alessandro, vendette il
feudo della Castellina a Gian Pietro marchese di Soragna. Le pretese di Galeazzo III sullo Stato
Pallavicino incontrarono nel 1633 l'interesse della corte imperiale, alla quale il Pallavicino si era
rivolto chiedendo protezione. 117 marzo 1636, mentre era in corso una campagna militare, con
Odoardo Farnese schierato contro l'imperatore Ferdinando II, questo rilasciò un diploma al
Pallavicino col quale riconosceva le sue ragioni e lo investiva dello Stato di Busseto. Per
Galeazzo Pallavicino e i figli Alessandro e Carlo c'erano dunque formalmente le "carte in
regola" e le spalle coperte, quali pretendenti a quello Stato. Quando nell'agosto 1636 le truppe
spagnole occuparono Busseto e Cortemaggiore, cacciando le forze farnesiane, sembrava
veramente giunto il momento sperato. 11 13 settembre a Busseto: "Essendo stato esposto et
significato dall'Ill.mo nostro Podestà sì come l'Ill.mo Sig. Marchese Galeazzo e Sig.ri suoi
consorti de Pallavicini per investitura ottenuta da sua sacra maestà Cesaria... è per pigliar
l'attuai e corporal possesso qui di Busseto, così bisogna dargli e prestargli il giuramento di
vassallaggio et di fedeltà". Dunque pieno riconoscimento da parte del Podestà e del Consiglio
comunitativo, l'uno e l'altro nominati dallo spodestato duca Farnese, di una nuova, ripristinata
sovranità dei Pallavicino.
Odoardo Farnese, ritratto di I. G. Levi. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto.
Ma il 4 febbraio 1637, si presentò al Consiglio di comunità di Busseto il Villaroel, vice
comandante delle truppe spagnole occupanti, comunicando "'a detti Signori Congregati che è
seguita la pace et agiustamento tra il Ser. mo Sig. Ducca di Parma et la Maestà Cattolica, et che
torneremo sotto al tanto da noi bramato et desiato fedelissimo dominio del Ser.mo Sig. Duca
Odoardo Famese". I deputati si dissero pronti a eseguire gli ordini "subito e molto volentieri
venendo il tutto dal Ser.mo duca Odoardo Farnese nostro Signore e Padrone clementissimo, per
il quale e per tutta sua casa Ser.ma questa Comunità, et il popolo tutto, sarà sempre prontissima
spender robba, vitta e figli et quanto hanno, e per quali ordini... ".
Niente di simile nel Consiglio dei convocati di Cortemaggiore, muti intorno alla partenza degli
Spagnoli e al ripristino della sovranità farnesiana. Passarono due mesi di silenzio, finché il
Consiglio si riunì l'8 aprile limitandosi a fissare il calmiere per alcune derrate alimentari, in
assenza definitiva del sig. Gio. Antonio Nigrotti, che era stato inserito d'autorità nel Consiglio
dai Pallavicino.
11 23 febbraio 1637, dopo la firma del patto col quale il Famese si dichiarava suddito e
sottomesso all'imperatore, le truppe spagnole partirono dallo Stato pallavicino, aprendo il
ritorno al duca. Questi decise d'infliggere un colpo mortale alle residue speranze dei
Pallavicino: con un editto obbligava ad abitare nei suoi domini chiunque vi possedesse beni,
sotto pena di confisca degli stessi. Il 21 luglio 1638, il Farnese confiscò i beni allodiali posseduti
nei domini farnesiani da Galeazzo III, il quale, ridotto in ristrettezze economiche, morì lo stesso
anno. Inutilmente i suoi successori, trasferitisi nel milanese, continuarono a lottare, con
speranze ormai ridotte al lumicino; finché il trattato della "quadruplice alleanza" (Londra, 1718),
destinò i Ducati di Parma e di Piacenza a don Carlo, primogenito di Filippo V di Spagna e di
Elisabetta Farnese, qualora si fossero estinti i Famese, come avverrà nel gennaio del 1731.
Giovanni Pio Luigi Galeazzo VII (1744-1815) fu l'ultimo a tentare il recupero dello Stato
pallavicino di Busseto, ma l'imperatore Giuseppe II lo persuase che senza cannoni era follia il
voler pretendere la sovranità, e Galeazzo VII pensò allora di ritirarsi in campagna, alla Torre
Pallavicino, ove Morì nel 1815, occupandosi dei suoi campi.
Con il figlio Giuseppe Galeazzo VIII, si estinse il ramo principale dei Pallavicino, Signori dello
Stato di Busseto.
LA VILLA PALLAVICINO DI BUSSETO
Una prima testimonianza sulla Villa, in relazione alla famiglia Pallavicino, viene da un atto
notarile del 1579, il testamento del marchese Gerolamo, ove fra i beni lasciati in eredità figura
"Totum et integrum usufructum Pa-latij appellati di Boffalora", frutto di un acquisto del
Pallavicino da Giorgio Marmetti (noto anche come Mani o Della Marra) e fratelli. Significativo
anche il nome "Boffalora", cioè "Boffa l'aura", con esplicita allusione alla funzione di diletto e
svago della costruzione.
Un documento notarile del 1518 attesta il privilegio con cui i marchesi Pallavicino accordavano
a Matteo Mani il permesso di servirsi delle acque del canale di Busseto, a seguito della licenza
rilasciata al medesimo di costruire uno o più edifici di fronte al convento dei francescani
(proprio dov'è situata la Villa Pallavicino). Si può quindi ipotizzare intorno a quella data la
costruzione della Villa. Nel 1633 il marchese Alessandro Pallavicino di Zibello, genero di
Ottavio Farnese, e i suoi figli Sforza e Alfonso, rinunciarono ai beni e diritti "feudali, regali,
giurisdizionali" sui territori dello Stato pallavicino, ottenendo dal duca il mantenimento del
feudo di Zibello (come vassalli dei duchi di Parma, fino all'abolizione del feudalesimo) e alcune
proprietà allodiali sia a Zibello che a Busseto, con la conseguente ricomposizione dei rapporti
con i Farnese. Inoltre il duca Odoardo s'impegnava a sostenere tutte le spese per la causa
promossa contro lo stesso Marchese dai suoi parenti, discendenti da Adalberto Pallavicino. Il
mutato clima politico, permise così ad Alessandro Pallavicino di riprendere il possesso della
Villa, dando vita a una serie di trasformazioni, per le quali furono chiamati i migliori artisti
della Corte ducale. La ristrutturazione e ampliamento proseguì con Alfonso Pallavicino e
soprattutto con suo figlio Alessandro II (morto nel 1749), impegnato nel 1741 a dotare di statue
il giardino della Boffalora. Nel 1869 Giuseppe Verdi acquistò sei di queste statue per arredare il
parco di Sant'Agata. Sembra che il marchese Palla-vicino fosse stato costretto a vendere le statue
per saldare debiti di gioco. Con l'estinzione del ramo di Busseto, il ramo di Zibello tornò a
pretendere la titolarità dello Stato Pallavicino, riconosciuta dalla Corte imperiale di Vienna nel
1729. Al marchese Alessandro II fece seguito il figlio Uberto Ranuzio (1705-75), poi Filippo e,
sempre appartenente al ramo di Zibello o di Parma (così detto perché molti Pallavicino si erano
trasferiti a Parma), il figlio marchese Giuseppe Pallavicino (1802-84), che trascorse buona parte
della vita al servizio della Corte e dei pubblici uffici a Parma. A trentaquattro anni fu nominato
da Maria Luigia, di cui era ciambellano, presidente del Magistrato degli studi; nel 1848 rese
pubbliche nella piazza di Parma in tumulto le concessioni della Costituzione strappata dal
popolo al duca Carlo II. Riconfermato nei vari incarichi da Carlo III, la reggente consorte Luisa
Maria lo nominò ministro dell'Interno, della Difesa e degli Esteri. Nel 1859, allo scoppio della
Seconda guerra d'Indipendenza, seguì la duchessa e il principe Roberto nell'esilio in Svizzera.
Ritornato a Parma nel 1860, lasciato ogni incarico pubblico, visse per lo più nella Villa
Pallavicino di Busseto con la moglie Leopoldina e gli otto figli maschi (le tre figlie si erano già
sposate), interessandosi, da esperto di agricoltura, dei suoi fondi a Zibello e Busseto. Le lettere
di Giuseppe Ferrari e Pietro Rivaldi, agenti del marchese rispettivamente a Zibello e a Busseto,
scritte al Pallavicino fra aprile 1848 e aprile 1849, danno diretta testimonianza degli umori della
popolazione. La prima lettera risale al 14 aprile e informa il marchese di un atteggiamento ostile
di una parte della popolazione nei confronti della famiglia Pallavicino: "A Polesine e Fontanelle
(osteria) non sono veduti volentieri gli Stemmi della famiglia. A Polesine specialmente si medita
di farne bersaglio di fucilate... Io avrei fatto levare volentieri questi stemmi se non avessi
creduto di dare con ciò una sciocchissima consolazione a certi sciocchi e cattivi". Probabilmente
la causa di tale ostilità era legata alla posizione del marchese Pallavicino, funzionario della
Corte ducale di Parma. Nel 1859 lo storico Emilio Seletti lamentava che "Il popolo di Busseto a
far mostra di patriottismo e di odio al casato Pallavicino, avendo il marchese Giuseppe seguito
la Duchessa nella terra d'esilio, pretese che fossero atterrate le Torri—Porte della città ricordanti
un'epoca del passato Pallavicino".
Palazzo Pallavicino di Busseto, acquistato dai marchesi nella prima metà del Cinquecento.
Statua del parco di S. Agata, una delle sei acquistate da Verdi e provenienti dalla Villa Pallavicino di Busseto. Nel 1871 Verdi riferì al
piacentino G. Maloberti, incaricato di procurargli delle statue per il giardino: "Per quanto riguarda le statue non ne ho più bisogno. Ho tenuto
sei statue colossali di 2 metri ciascuna senza il piedistallo".
Parma aprile 1875 — Cortile di Palazzo Santafiora. Gruppo di famiglia dei marchesi Giuseppe e Leopoldina Pallavicino in occasione delle loro
nozze d'oro. In piedi da sinistra: i figli marchesi Luigi e Adalberto con accanto la moglie Eleonora dei principi Rasini di San Maurizio, il
cavalier Francesco Biondi, la figlia marchesina Anna con accanto il marito conte Giovanni Simonetta di Torricella, la figlia marchesina Vittoria
moglie del cav. Francesco Biondi, i figli marchesi Pietro, Antonio, Sforza, Filippo e Carlo. Sedute da sinistra: la duchessa Clelia Fogliani
d'Aragona moglie di Luigi, i festeggiati marchesi Giuseppe e Leopoldina Pallavicino, la marchesa Maria Cavriani moglie di Sforza, la contessa
Luigia Benassi moglie del marchese Filippo e da ultimo il marchese Lodovico.
Giuseppe Pallavicino, coli. Privata. Compreso in: Nelle terre dei Palla-vicino di Carlo Soliani. Graf. Step Parma, 2012.
PIER LUIGI PALLAVICINO, ULTIMO MARCHESE DEL RAMO DI ZIBELLO
Nel 1962 si tennero a Parma le celebrazioni dei mille anni del casato Pal-lavicino; anima della
riunione di famiglia era stata Carolina, sposata nel 1919 con il marchese Annibale Pallavicino
(1883-1942), marchese del ramo di Zibello: dal loro matrimonio era nato l'anno successivo Pier
Luigi Pallavicino. Complesse vicende patrimoniali e la volontà di assicurare alla Villa un futuro
che la preservasse nel tempo, costrinsero il marchese, all'inizio degli anni Cinquanta, ad alienare
al Comune di Busseto la Villa Pallavicino. La consapevolezza che la salvezza dell'archivio
sarebbe stata la base per conservare la storia della famiglia portò nel 1975, poi nel 1986 e infine
nel 2004 (da parte della vedova Maria Gabriella) a una donazione dei documenti a favore della
Biblioteca del Monte di Pietà di Busseto, diretta dal prof. Corrado Mingardi. Pier Luigi
Pallavicino morì a Parma il 14 settembre 2003, e con lui si estinse l'ultimo marchese parmense
del ramo di Zibello.
I marchesi Maria Gabriella e Pier Luigi Pallavicino al teatro Regio di Parma.
Nelle terre dei Pallavicino di Carlo Soliani. Graf. Step Parma, 2012.
Il nostro lungo viaggio, in compagnia dei marchesi Pallavicino, è terminato. Insieme a loro
abbiamo percorso mille anni di storia, dallo Stato feudale allo Stato regionale, con i tentativi dei
signori feudali di sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole, mentre l'Impero faceva
sentire una presenza sempre più lontana, sfumata. All'inizio dell'Ottocento, con l'arrivo dei
francesi, si giunse all'abolizione dei feudi, la cui presenza era ormai ridotta ad un ambito
strettamente locale, priva di qualsiasi peso politico. Il 14 settembre 2003 si spense Pier Luigi
Pallavicino, ultimo marchese Pal-lavicino in provincia di Parma, appartenente al ramo di
Zibello. La notizia non ebbe certamente grande risonanza, limitata probabilmente all'ambito
familiare e ai pochi cultori di Storia. Il tempo, la successione degli avvenimenti, i cambiamenti
politici avevano coperto di oblio anche il ricordo di quella che era stata una delle famiglie più
famose e potenti della nostra Italia.
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