PREFAZIONE Lo Stato Pallavicino ebbe, per un secolo esatto (dal 1479 al 1579), due capitali: Busseto e Cortemaggiore (quest'ultima, "città creata" — e la sua struttura ancor oggi lo dimostra -, come scrive Marco Boscarelli, uno dei maggiori studiosi della realtà storica magiostrina, nel suo testo "Istituzioni e costumi fra Piacenza e Cortemaggiore, ed. Tipleco). Anzi, più che due capitali di uno Stato, Busseto e Cortemaggiore furono al di là dei condizionamenti impliciti nel sistema feudale — le capitali di due Stati, per un intero secolo — come detto — autonomi. E lo Stato Pallavicino (per non dire gli Stati Pallavicino) era, con lo Stato Landi, uno dei due poli —entrambi di diritto feudale — delle "terre traverse": espressione coniata da Giovanni Tocci ("Le terre traverse — Poteri e territori dei Ducati di Parma e Piacenza tra Sei e Settecento", ed. Il Mulino) "come emblematica di una situazione peculiare dei Ducati di Parma e Piac'enza, di uno Stato, cioè, condizionato nella sua storia dalla collocazione di quelle terre e dalla loro funzione; poste di traverso geograficamente, ma anche economicamente". In una parola: due Stati che erano due spine nel fianco dei Farnese (viepiù impegnati a rafforzare quello Stato moderno che il primo duca, Pierluigi, s'era dato a costruire e contro il quale la feudalità si era coalizzata — fino a giungere alla sua uccisione — perché essa sapeva, lucidamente, come sarebbe andata a finire: con la soppressione delle libertà ed autonomie che la dirigenza politica di allora aveva saputo, fino al '500, difendere e preservare). Due Stati (quello Pallavicino e quello Landi) sui quali il Ducato (meglio, Io Stato moderno, oggi tanto discusso nella sua pervasità ed elefantiaca realtà oppressiva, non solo fiscale) ebbe la meglio: sul primo, con il blitz — per dirla con Tocci, ancora — di Alessandro Farnese del 1586-7, e sul secondo — in buona sostanza — col danaro, che portò al suo acquisto dai Doria dopo la morte — senza successori — di Polissena Landi, che un Doria aveva sposato. Consacratosi il perpetuarsi del Ducato, la decadenza di Piacenza continuò (salvo che in un breve periodo, quello risorgimentale, guidato nel suo compimento proprio da Giuseppe Manfredi, di Cortemaggiore) perché inserita da Paolo III in una realtà territoriale che non era (e non è) la sua, del tutto estranea com 'è alle tradizioni, ai costumi e alle secolari convenienze dei piacentini. Tutta questa premessa per dire l'importanza (e la funzione: i suoi Statuti regolarono la vita della comunità magiostrina ben oltre la realtà politica che ad essi aveva dato vita, fino al 1800) dello Stato Pallavicino e, conseguentemente, della pubblicazione — edita nelle benemerite ed. LIR — di Luigi Chini, "1 Pallavicino, la storia di una famiglia longobarda" (il suo ultimo discendente, il marchese Pierluigi, è recentemente scomparso, com 'è noto). Luigi Chini è conosciuto come un capace ricercatore, e s'è impegnato in più tematiche (da ultimo, con un monumentale volume su Giuseppe Verdi). Ma questo suo libro, dedicato, come visto, ad uno dei poli delle "terre traverse", è — davvero — una eccezionale carrellata su una terra la cui storia meritava di essere illustrata in tutti i suoi particolari. Chini l'ha fatto egregiamente. Auguri — di cuore — di molti, meritatissimi lettori. Corrado Sforza Fogliani IL TRAMONTO DELL'IMPERO ROMANO E LE INVASIONI BARBARICHE All'inizio del V secolo d.C. l'impero romano d'Occidente era ormai al tramonto, mentre si susseguivano in Italia le invasioni barbariche, che devastavano e saccheggiavano i territori settentrionali. Il 28 agosto 476 Odoacre, capo degli Eruli, raggiunse a Piacenza il generale romano Oreste e lo decapitò; dopo aver saccheggiato la città, depose Romolo Augustolo. La città, che era stata la culla della prima imperatrice di Roma, la moglie di Cesare, fu la tomba del suo ultimo imperatore d'occidente., Il dominio di Odoacre terminò con l'arrivo di Teodorico, il re degli Ostrogoti, che, cresciuto alla Corte di Costantinopoli, diventò signore dell'Italia col titolo di Patrizio romano e il riconoscimento dell'imperatore d'Oriente. Nel 546 i Goti conquistarono Piacenza, tormentando spesso i paesi posti alla destra del Po. Viene attribuita da alcuni studiosi a Teodorico l'edificazione di Fontana Fredda (denominata Fontana di Teodorico) e di Godi, località sempre nel piacentino. Dopo la morte di Teodorico (526 d.C.), i bizantini tentarono di riconquistare i territori italiani, ma nel 569 d.C., guidati da Alboino, scesero in Italia i Longobardi, provenienti dalle grandi pianure danubiane e nell'arco di tre anni compirono la loro conquista. Nel 570 Piacenza cadde nelle loro mani, mentre nel 603 fu la volta di Cremona, presidio bizantino di vitale importanza per il controllo delle due sponde del Po. I Longobardi suddivisero i territori conquistati in una trentina di ducati, suddivisi in base ai nuclei di parentela (fare) e, poco a poco, si organizzarono, dando vita ad uno Stato longobardo. La testimonianza più consistente della loro presenza nel nostro territorio si ha nei toponimi e nei vocaboli del nostro dialetto. Derivano dal longobardo le località con suffisso in "engo": Gossolengo (nel piacentino), Vidalengo (Vidalenzo nel parmense); ed "enga": Ardenga di Soragna, strada Ardenga a San Pietro in Ceno. Il nome Balsemano, località nel comune di Busseto, deriva dal longobardo Waldemann. Sono parole longobarde: skranna (sedia), strak (stanco), trin-kan (bere), groz (grosso), blank (bianco), skauz (scusai, grembiule), kàmo-la (camola, tarlo). Possiamo distinguere la storia religiosa dei longobardi in tre periodi: il primo inizia fuori dell'Italia, appena prima dell'invasione, e riguarda l'adesione dei capi al cristianesimo ariano, mentre il popolo rimane legato alle credenze pagane. Il secondo periodo, dal 568 d.C. al 671, è caratterizzato da un'alternanza di sovrani ariani e cattolici, mentre l'adesione completa alla fede cattolica romana apre nel 671 l'ultimo periodo, dove ormai il sovrano interloquisce con la Chiesa. E fu la volontà di assicurarsi i servizi e l'obbedienza dei vescovi, che spinse i sovrani longobardi a moltiplicare le liberalità, confermando l'autorità episcopale sui monasteri e rafforzando così la potenza del vescovo sia sul piano materiale sia su quello spirituale. Questo comportamento provocò un conflitto con il Papato, che non poteva tollerare di vedere diminuita la sua autorità sulle sedi episcopali. La lotta tra il Papa e il re longobardo Desiderio ebbe il suo epilogo nella primavera del 773 allorché Adriano I, sentendosi minacciato a Roma dai progetti d'espansione di Desiderio, chiese l'intervento di Carlo Magno e del suo esercito che, oltrepassate le Alpi, sconfisse la dominazione longobarda. Il periodo della dominazione carolingia in Italia (774-887) si accompagnò ad un notevole tentativo di accentramento dello Stato, operato con la lotta contro i distretti rurali longobardi. I Franchi non erano venuti in Italia come i Longobardi, non era stata l'immigrazione di un popolo che cercava un territorio dove stabilirsi. Il sovrano carolingio aveva condotto i suoi guerrieri, le sue schiere alla conquista d'un territorio, d'un regno, d'una terra di cui voleva assicurarsi il controllo e le rendite. In mancanza di un'emigrazione massiccia, il sovrano stabilì delle piccole unità militari nelle città, nelle zone dotate di un'importanza strategica. L'attività dei re franchi fu limitata essenzialmente al Nord e alla Toscana, mentre l'Italia centromeridionale restò, in sostanza, istituzionalmente longobarda, con strutture pubbliche di marca longobarda e permanendo in vastissime plaghe un'economia silvo-pastorale dello stesso stampo. I Bizantini erano ancora presenti al sud in lembi di terra fortificati e provvisti di porti, per mezzo dei quali la potenza di Bisanzio, enormemente ridotta in terraferma, cercava di restaurare una prevalenza navale nei confronti della prodigiosa espansione degli arabi. Limite all'intervento carolingio in Italia fu, dunque, il numero inadeguato di funzionari stabili e fidati e la discontinuità, generata dagli interessi fa-migliari, della loro azione politica. Il logoramento e la decadenza delle famiglie dell'alta nobiltà franca, alle quali era legato l'intervento in Italia, concorsero a determinare la crisi del potere centrale e fu per sostenere il potere regio in declino che i sovrani carolingi cercarono di legare i vescovi alla loro politica, non potendo più contare efficacemente su un valido appoggio dei conti, le cui famiglie si stavano avviando in tanti casi alla decadenza ed all'estinzione. Il tentativo di salvare il Regno con ogni mezzo portò ad una serie di compromessi e di concessioni agli aristocratici laici e ai vescovi, determinando la rovina dello stesso. La fine della dominazione carolingia in Italia (887) diede inizio ad una serie di lotte tra le varie dinastie per il possesso del trono reale italiano. Il territorio piacentino, punto di passaggio obbligato per l'attraversamento del Po, rappresentava una posizione chiave e diventò perciò teatro di lotte. Il dramma si complicò col fatto che i pretendenti al trono norr esitarono a ricorrere, all'occasione, all'aiuto di nuovi invasori: gli Ungari. Dall'898 al 955 si susseguirono nella pianura padana 13 invasioni, descritte dalle cronache ecclesiastiche con toni apocalittici. Di fronte alla minaccia rappresentata dalle incursioni ungare, accompagnata dalla fase di anarchia, gli aristocratici laici ed ecclesiastici decisero di costruire delle fortezze. Il territorio del comitato piacentino si copri così di castelli, destinati a proteggere le ricchezze delle chiese e dei monasteri contro i saccheggi e a proteggere le popolazioni locali, servendo loro di rifugio. Ma quando le invasioni ungare ebbero fine, il movimento d'incastellamento proseguì, le relazioni tra il signore e le popolazioni "protette" si trovarono profondamente trasformate. Le invasioni barbariche dal V al VII sec. d.C. Il castello diventò poco a poco il centro d'una nuova dominazione. Nel 951 Ottone I, re di Germania, scese in Italia e, dopo aver sconfitto Berengario Il, si appropriò del titolo di Re d'Italia; mentre nel 962 venne dal papa Giovanni XII proclamato imperatore del Sacro Romano Impero. I MARCHESI OBERTENGHI NEI SECOLI X — XI Il secolo X, con la profonda crisi che aveva investito l'alta nobiltà franca, incapace di adattarsi ai tempi nuovi e al nuovo ruolo, registrò l'ascesa sociale della nobiltà longobarda, emarginata in età carolingia dagli alti gradi del potere. La chiesa episcopale, con la quale le famiglie longobarde avevano mantenuto l'antico legame, rappresentava per l'imperatore un alleato potente e alternativo e costituì, nella sua nuova capacità contrattuale, uno strumento validissimo di potere per le famiglie che ad essa erano strettamente legate. Tra il 940 e il 960 pertanto, nacquero e si organizzarono le grandi famiglie marchionali: gli Arduini in Piemonte, gli Alarami in Piemonte e in Liguria e gli Obertenghi (così chiamati i discendenti del marchese Oberto) nella zona tra la Liguria, la Toscana e l'Emilia occidentale, imponendo alle autorità politiche il riconoscimento della loro esistenza. Adalberto, capostipite della linea Adalbertina, da cui derivarono i Pallavicino. Collezione privata. Dai figli di Oberto, ebbero inizio la linea Adalbertina (con Adalberto 1) e la linea Obertina (con Oberto, capostipite degli Estensi, e Oberto-Obizzo dal quale ebbero origine i Malaspina). Adalberto II, marchese di Massa e Governatore della Marca Toscana, è ritenuto da molti il diretto antenato dei Pallavicino, che, a cavallo del Mille, iniziarono l'inserimento nelle vallate di Parma e Piacenza e, attraverso una politica matrimoniale mirata, nell'Aucia a nord della "via francigena". Adalberto II, nipote di Adalberto I, ebbe nel 1016 il comando delle flotte genovese e pisana contro i Saraceni. Vicende politiche legate agli avvenimenti del tempo, lo portarono alla perdita del feudo della Marca Toscana, compensata nel 1026 dall'investitura che Adalberto II ricevette dall'imperatore Corrado il Salico del governo di Piacenza e del Contado dell'Atleta (quale nipote del defunto Lanfranco conte di Piacenza). Da allora Adal berto 11 si stabilì a Busseto, ampliando il borgo, fortificandone le mura ed erigendovi un castello. Sposò Adelaide, figlia del conte Bosone di Parma, con la quale concorse ad erigere nel 1033 il monastero di S. Maria a Castiglione (l'attuale Castione Marchesi), conferendo al nuovo monastero il castello con la corte di Castione e la corte di Marcaregia. Chiesa di Castione dei Marchesi. Monastero di Castione dei Marchesi. Nel corso dell'XI secolo, si formò una complessa rete di vassalli: si trattava di famiglie importanti, proprietari rurali di un certo spessore, ai quali l'autorità principale (re, principi, vescovi, comuni) concedeva un feudo o altri benefici che servivano a suggellare delle alleanze più o meno durevoli, o ad ottenere delle semplici promesse di non aggressione. Il feudo corrispondeva in genere a una porzione di territorio, sul quale il feudatario veniva ad esercitare il suo dominio (giurisdizione penale e civile, oltre a vari censi e imposte), in cambio quindi della fedeltà vassallatica e più tardi semplicemente di denaro.1 A volte era il signore locale che si riconosceva vassallo del potere maggiore, consegnandogli la sua signoria, che gli veniva restituita immediatamente come feudo, per un tempo determinato, aumentato in genere di un altro bene. La durata della concessione era nella maggior parte dei casi di tre generazioni; al termine di questo intervallo, il feudo doveva tornare all'autorità maggiore in piena proprietà: molte di queste concessioni, accordate in modo palese per tre sole generazioni, diventavano di fatto perpetue, per un tacito accordo, per dimenticanza, per usurpazione. Nessuna notizia si ha di Alberto (figlio di Adalberto II), che si assicurò la discendenza con Oberto I, ricordato come signore dell'Aucia e della Marca di Genova. Ma il primo a portare il soprannome di Pelavicino, divenuto poi cognome e modificato più tardi in Pallavicino, fu un pronipote di Adalberto II, il marchese Oberto II (morto nel 1148).2 Oberto II con l'aggiunta di Pelavisinus lo si trova indicato per la prima volta nel placito tenuto dall'imperatore in Reggio, e col titolo di Obertus Marchio Pelavisinus nell'investitura di una pezza di terra oltre il Po fatta dai Delegati della città di Cremona nel 1120. Nel 1122 Oberto II si firmava Comes Palatinus, per cui oltre ad essere stato Capitano imperiale fu conte 1 Il feudo era generalmente un territorio, ma poteva corrispondere semplicemente alla concessione di un diritto, un privilegio, una carica. 2 Secondo alcuni storici, il termine deriva dal fatto che Oberto, bramoso di potere, si arricchì a spese dei vicini, ai quali fece guerra, di qui il nome di "Pelavisinus", mutato poi in Palavicino. Secondo l'opinione di altri, (Pala vicino) deriva da "vicino al palazzo". Oberto infatti ebbe il titolo di "conte del Palazzo", carica onorifica che comportava il giudicare nelle cause della Regia Camera e dei vassalli. di Palazzo. Nel 1141 il Comune di Piacenza concluse un accordo con gli abitanti della Val di Taro, i quali consegnarono ai piacentini tutti i loro beni allodiali (proprietà libere da vincoli e tributi feudali) e quelli tenuti a livello (in godimento perpetuo), s'impegnarono ad accogliere la moneta piacentina e ad aiutare Piacenza in caso di guerra, fornendo, ogni casa, un uomo col suo equipaggiamento. Da parte sua, il Comune s'impegnava a perdonare ai Valtaresi tutti i loro torti, sollevandoli dal dover rendere conto ai marchesi Malaspina, Cavalcabò e Pallavicino dei loro comportamenti (Registrum Magnum del comune di Piacenza-Doc.n.149, vol.I). Nel 1143 il marchese Oberto II divise i suoi beni tra i figli Guglielmo e Delfino. Guglielmo, che aveva sposato una piacentina della famiglia dei Della Porta, ricevette le terre dell'Aucia Occidentale; Delfino le terre orientali nelle vicinanze del Comune di Parma. Quest'ultima donazione venne revocata da Oberto, in quanto il figlio Delfino era passato dalla parte di coloro che avevano ucciso Tancredi, altro figlio di Oberto e per aver mosso guerra contro il padre. Nel 1145 le stesse proprietà furono da Ober-to Pallavicino cedute a titolo di allodio (pien'a proprietà) al Comune di Piacenza: si trattava delle Corti di Soragna, Borgo S. Donnino, Fontanellato, Parola, Medesano ed altre' terre. 11 marchese Oberto giurò fedeltà al Comune di Piacenza e i suoi Consoli lo investirono come feudatario di tutte queste terre, con uguale diritto per i discendenti. Da parte sua il marchese s'impegnava ad aiutare il popolo di Piacenza contro Parma e Cremona, mentre i Piacentini avrebbero aiutato Oberto a recuperare e conservare tali beni. Soprattutto Borgo S. Donnino era importante, per la sua posizione strategica: da qui si controllavano gli approvvigionamenti di sale provenienti da Salsomaggiore e la strada per raggiungere la Lunigiana. Tuttavia i Pallavicino, come vassalli dell'imperatore, continuavano a mantenere il possesso dei castelli di Borgo S. Donnino e Bargone. Curtis Maior in Aucia. Il tratteggio indica il territorio dell'Aucia come risulta dai documenti che vanno dall'VIII al X secolo d. C. LA CORTE REGIA DELL'AUCIA: CORTEMAGGIORE L'Aucia venne nominata per la prima volta nel diploma dell'845, col quale Ludovico di Francia conferiva a sua nipote Ermengarda alcune "curtes" nell'Italia settentrionale: "Concessimus... Curtem Maiorem in Piacentino Comitatu et in Aucia... ". La stessa Ermengarda ne fece dono al monastero di S. Sisto di Piacenza nell'anno 890. Nel 910 un placito del re Berengario si pronunciò a favore del vescovo Lando di Cremona, in una controversia tra questi e il gastaldo della Corte regia di Castenedulum (il nome romano di Cortemaggiore) situata in Auciae, a proposito delle esenzioni sui beni che Io stesso vescovo di Cremona possedeva nell'Aucia. Ancora nel 990 si menzionava il Comitatus aucensis in una rassegna di beni pertinenti all'abbazia di S. Silvestro di Nonantola. Il contado aucense appariva ancora nell'XI secolo, per scomparire successivamente come entità propria, passando probabilmente a far parte integrale del Comitato piacentino. Gli storici non hanno trovato un accordo nel determinare i confini per quanto riguarda l'antico comitato aucense, la maggior parte sembra indirizzata a ritenerlo compreso tra la Bassa Chiavenna e' l'Ongina, il territorio di Fiorenzuola e quello di Monticelli: capoluogo della Corte Aucia era Corte-maggiore. Allargati i suoi confini, questo Contado dell'Aucia con Busseto cambierà titolo e nome assumendo quello di Marca Pallavicino. L' 11 aprile 1136 Bernardo, abate dell'abbazia francese di Clairvaux (Cla-ravallis), fondò l'Abbazia di Chiaravalle della Colomba. Bernardo era stato invitato dal vescovo di Piacenza Arduino, in passato monaco benedettino, a fondare un monastero cistercense nel territorio della diocesi, ed arrivava in Italia in un momento storico di scisma della Chiesa con l'elezione papale di Anacleto II in contrapposizione a Innocenzo II. Per assicurare la sopravvivenza della comunità, il vescovo e il Comune di Piacenza intervennero con importanti concessioni, mentre a formare il primo nucleo di proprietà fondiarie contribuì il marchese Oberto II Pelavicino, che donò, il 27 marzo 1136, quattro mansi di 12 iugeri ciascuno, situati nelle corti di Baselica Duce e di Carretto (località chiamata poi Chiaravalle della Colomba). Tre mesi dopo fu Corrado Cavalcabò a donare al monastero tutto ciò ché, a titolo di proprietà, possedeva nella corte di Carretto. Nel 1148 mori il marchese Oberto II e gli successe il figlio Guglielmo, il quale, alleato con i piacentini, dovette subito affrontare una campagna di guerra contro il fratello Delfino, il Comune di Cremona e Parma: questa città non poteva permettere che terre della sua diocesi fossero in possesso dei piacentini. Fra tradimenti, devastazioni e battaglie, seguite da accordi di pace immediatamente violati, si giunse al 1154, quando giunse fra noi il nuovo imperatore di Germania Federico I (Barbarossa), che a Roncaglia tenne una Dieta (convegno), seguita da un'altra Dieta generale nel 1158. Cominciò col privare dei loro beni i feudatari non comparsi alla stessa, dando poi seguito a una serie infinita di violenze e saccheggi contro la Chiesa e i Comuni. Oberto Pallavicino, morto nel 1198. Dal matrimonio di Guglielmo Pallavicino e Claramunda Della Porta di Piacenza, nacque Oberto, che dal 1160, con la morte del padre, seguì fedelmente l'imperatore, rendendosi complice delle distruzioni di Tortona, Spoleto, Crema e Milano, ma ottenendo in cambio ampia investitura di tutti i beni già posseduti dai Pallavicino. Queste crudeltà indussero alcuni Comuni ad unire le forze per costituire la Lega Lombarda, che il 29 maggio 1176 affrontò a Legnano l'armata di Federico I Barbarossa e la distrusse. Sette anni più tardi, Piacenza, che aveva combattuto nelle file della Lega, ospitò in S. Antonino l'incontro per un accordo preliminare, sancito poi il 25 giugno 1183 nella Pace di Costanza, tra Federico I Barbarossa ed i rappresentanti della Lega Lombarda. L'imperatore riconobbe la Lega e accordò concessioni in ambito amministrativo, politico e giudiziario ai Comuni che la componevano. Inoltre rinunciò alla nomina dei Podestà, riconoscendo i consoli nominati dai cittadini, i quali, tuttavia, dovevano fare giuramento di fedeltà all'imperatore e ricevere da lui l'investitura. I Comuni s'impegnarono a pagare un indennizzo una tantum di 15.000 lire e un tributo annuo di 2.000; a corrispondere all'imperatore il fodro (ossia il foraggio per i cavalli), o un'imposta sostitutiva quando l'imperatore fosse sceso in Italia e la prerogativa imperiale di giudicare in appello questioni di una certa rilevanza. La Lega inoltre s'impegnò a sostenere in Italia i diritti imperiali, nei confronti di coloro che non appartenevano alla Lega. Si trattava di un compromesso che segnava la rinuncia al dominio assoluto di Federico, con il riconoscimento ai Comuni di una certa autonomia. Ai piacentini Federico riconobbe il diritto sul ponte del Po, mentre la città accettò di corrispondere un'annua retribuzione a favore del monastero di S. Giulia in Brescia. 11 24 ottobre 1196 Oberto Pallavicino, figlio di Guglielmo, per evitare discordie intorno all'eredità, divise tra i figli Manfredo e Guglielmo i suoi beni. Guglielmo Pallavicino, morto nel 1217. Al primo andarono: Varano, Banzola, Mezzano, Noceto, Fontanellato, Ca-salbarbato, Parola, Medesano; mentre a Guglielmo: Scipione, Salsomaggiore, Salsominore, Vigoleno, Grotta, Pellegrino. Due anni dopo, Guglielmo fu responsabile di un grave incidente diplomatico, che portò ad una forte reazione del nuovo pontefice Innocenzo III nei suoi confronti. Era successo che il cardinale diacono Pietro Capuano, reduce dalla Legazione di Polonia, nell'attraversare il contado piacentino per recarsi a Roma, era stato assalito dagli uomini del marchese Guglielmo e spogliato di ogni bene che aveva con sé. 11 Cardinale ricorse ai Consoli piacentini i quali, per evitare noie con il Pallavicino, evitarono d'intervenire a favore del danneggiato. Il Cardinale si rivolse allora al Papa, il quale scrisse ai Piacentini perchè convincessero il Pallavicino a restituire quanto sottratto. Di fronte alla minaccia di scomunica, i Consoli bandirono il marchese Guglielmo dal loro territorio, ma il 18 ottobre 1198 questi si presentò davanti al Consiglio Generale della città, riunito nel palazzo del Vescovo, impegnandosi a restituire al Cardinale Capuano quanto sottratto e a versare ai consoli 100 lire imperiali per la festa di S. Andrea, offrendo ipoteca sopra i suoi beni e quelli della moglie, garante dell'operazione. I consoli piacentini ordinarono allora la revoca del bando. A Guglielmo successero tre figli: Uberto (detto il Grande), che porterà la famiglia Pallavicino alla massima potenza; Manfredo (capostipite del ramo di Scipione) e Pallavicino Pallavicino (capostipite del ramo di Pellegrino). 11 26 febbraio 1227 i marchesi Uberto, Manfredo e Pallavicino, figli del fu Guglielmo, divisero i loro beni situati nel Parmigiano e nel Piacentino. Alla morte di Federico I, fu incoronato imperatore il figlio Enrico: la cerimonia si svolse a Roma davanti al nuovo pontefice Celestino III, che dal 30 marzo 1191 sostituiva il defunto Clemente III. Per poter compiere il viaggio a Roma, Enrico chiese un prestito di 2000 lire imperiali al Comune di Piacenza, offrendo in pegno Borgo S. Donnino e Bargone. Morto l'imperatore Enrico, la vedova Costanza propose il figlio Federico, ma alla corona dell'impero concorrevano altri due pretendenti e cioè Filippo duca di Svevia (fratello del defunto Enrico) e Ottone duca d'Aquitania (figlio dello stesso Enrico). Seguirono lunghe e sanguinose guerre, durante le quali i vari sovrani d'Europa presero posizione nella lotta di successione. Nel 1212 Piacenza si schierò con Milano e con i Marchesi Malaspina a favore di Ottone, e combatté contro Pavia, Cremona e Parma, alleate di Federico (eletto poi imperatore). Negli anni successivi a Piacenza si susseguirono lotte cruente fra Popolani e Nobili, con fasi di tregua seguite dalla ripresa delle ostilità. Nel gennaio del 1233 Uberto si portò in aiuto dei popolani, utilizzando duecento cavalieri cremonesi contro i nobili fuoriusciti piacentini e questo testimonia per la prima volta l'esistenza di relazioni tra Uberto e Cremona. In seguito ad un ennesimo accordo, venne nominato Podestà di Piacenza Guglielmo Landi, mentre Uberto Pallavicino fu scelto come "Capitano delle armi". Nel 1236 Uberto, che aveva preso le parti di Federico II, venne coinvolto di nuovo nelle lotte civili e, prevalendo la fazione nobiliare legata alla Chiesa, accusato di fomentare discordie interne per favorire l'intervento del nuovo imperatore, venne cacciato dalla città. 11 Pallavicino, la cui famiglia fino a quel momento aveva gravitato su Piacenza, si trasferì quindi a Cremona che, dalla Pace di Costania nel 1183, aveva condotto ininterrottamente una politica filoimperiale. Iniziava così la sua carriera di funzionario imperiale, che lo condurrà tra l'altro a ricoprire la carica di vicario imperiale in Lunigiana, Versilia e Garfagnana e l'ufficio di podestà di Reggio. Furono anni di aperto contrasto tra Uberto e il comune di Piacenza, testimoniato nella Cartula venditionis del Registrum Magnum: Il 12 marzo 1246 il Consiglio comunale vende a Gerardo Anguissola tutti i beni che Piacenza possiede nel territorio di Salsomaggiore, con divieto di rivendere i beni acquistati a chi non sia cittadino piacentino e soprattutto ai marchesi Pallavicino o a persone che agiscano per conto di essi. Monastero di San Sisto. Ha origini antichissime e risale probabilmente all'865, ai tempi dell'imperatrice Angilberga, moglie di Ludovico il Pio. Basilica di Sant'Antonino, patrono della città. Ultimata nel 375 e distrutta durante le invasioni barbariche, fu ricostruita nel 1014. Nel 1183 ospitò l'incontro tra Federico Barbarossa e i rappresentanti della Lega Lombarda. Palazzo vescovile: sorge a fianco del Duomo. Costruito nella prima metà del Cinquecento, durante le opere di rinnovamento volute da papa Paolo III in vista dell'assegnazione del ducato di Parma e Piacenza al figlio Pier Luigi. Duomo di Piacenza. Iniziato nel 1122 sulle fondamenta della cattedrale di S. Giustina, fu terminato nel 1233. Nel 1266 ospitò l'incontro dei rappresentanti della città con Uberto Pallavicino, per un accordo di pace. Lo Stato Pallavicino all'epoca di Uberto il Grande. L'ASCESA DEL MARCHESE UBERTO PALLAVICINO IL GRANDE Nel 1249 a Cremona i guelfi (sostenitori del Papa) presero il sopravvento sui ghibellini (sostenitori dell'Impero) e Federico II, già in grave difficoltà per alcuni rovesci militari, incaricò Uberto, del quale conosceva le doti politico-militari, di ristabilire le sorti imperiali nella città e nel suo distretto. Nel giro di due mesi, Uberto sconfisse i guelfi e Federico 11, per ricompensare i suoi servigi, gli assegnò la carica di podestà di Cremona e, nel maggio 1249, gli concesse un'ampia investitura che allargò notevolmente i domini paterni. Nell'atto il Pallavicino, oltre alla conferma sulle terre e castelli già in suo possesso, si vide riconosciuti diritti feudali su quasi tutto l'oltre Po cremonese, sul quale la sua famiglia non aveva mai esercitato la signoria: in pratica Uberto venne a sostituire il suo dominio personale a quello del comune di Cremona. Uberto Pallavicino funzionario imperiale, ritratto quattrocentesco. F. Robolotti, Storia di Cremona. Con l'investitura del 1249 il Pallavicino ottenne oltre cinquanta località (22 castelli e trentadue ville) tra le quali Busseto, Zibello, Santa Croce, Ragazzola, Polesine di S.Vito, Samboseto, Besenzone... Negli anni immediatamente successivi, ulteriori concessioni da parte dell'imperatore portarono il territorio di cui Uberto era stato investito a costituire un vero e piccolo Stato di natura feudale, che si estendeva dal Cremonese e dal Po fin dentro l'Appennino nelle valli del Ceno e del Taro, tra i distretti di Parma e Piacenza. Nell'ottobre del 1250 l'investitura di Uberto venne integrata da un privilegio che, dichiarando esenti da qualsiasi tipo d'imposizione le sue terre, i suoi castelli e gli uomini (vassalli, coloni, rustici, massari ecc.) su di essi viventi, sottraeva in pratica i suoi possessi alla giurisdizione delle città (Parma, Piacenza, Cremona ecc.) nei cui distretti si trovavano disseminati. I diritti accordatigli dal sovrano comprendevano la giurisdizione criminale (merum imperium) e quella civile (mixtum imperium), col diritto di condannare a morte e di privare della libertà (ius gladii) ed ogni altro tipo di giurisdizione. L'assunzione e l'esercizio dei diritti signorili portarono alla conferma o alla sostituzione delle "famiglie" locali con i suoi fedeli, mentre la riscossione dei tributi, l'esazione dei dazi e dei pedaggi ecc. permise al Pallavi-cino d'investire gli ingenti introiti nell'acquisto di terre a titolo allodiale, per dare una più salda base economica e militare al proprio potere: terre situate nei territori di Busseto, S. Andrea, Spigarolo, Frescarolo, Vidalen-zo, Polesine, Villa Franca, Pieve Ottoville, Castello Vecchio di Soragna (Castellina), Soragna, Roncole. Questa politica di acquisti, seguita anche dai successori di Uberto, nessuno dei quali tuttavia riuscirà ad eguagliarne la potenza e la ricchezza, condusse alla costituzione di un patrimonio fondiario di grande consistenza nelle mani di un'unica famiglia. In un manoscritto del XVI secolo3, redatto probabilmente in occasione di una controversia relativa ai diritti feudali dei Pallavicino, si legge: "Feudi in un sol corpo posseduti dalla Famiglia Pallavicino l'anno 1249; e che in parte possiede anco al giorno d'hoggi, e questi sono segnati con *(croce): Busseto, Borgo San Donnino, Castello di Gibello con le sue Ville*, Pieve Altavilla*, Ragazzola*, Santa Croce*, Cortemaggiore, Besenzone, Mercore, San Martino, Castello Arda, Villa nuova, Soarza, Cignano, San Bosseto, Sant'Andrea, Roncole, Spigarolo, Polesino, Castello vetro, Monticelli d'Ongino, Corticella, Polesino di San Vitto*, Santa Franca*, Vidalengo ecc... ". Il manoscritto si riferiva all'atto del 7 maggio 1249, di cui abbiamo parlato in precedenza, in cui l'imperatore Federico II concedeva l'investitura a Uberto Pallavicino, figlio di Guglielmo, ed ai suoi eredi discendenti, di molti castelli, loro territori e pertinenze, coi diritti di suprema giurisdizione, di mero e misto Impero. Il 13 dicembre 1250 morì a 56 anni nel castello di Fiorentino, città della Puglia, l'imperatore Federico 11. Con lui il Regno di Sicilia aveva conosciuto il massimo splendore e la corte di Palermo era divenuta un centro europeo delle lettere e delle scienze. Profondamente ambizioso, non aveva mai voluto riconoscere, di fatto, le concessioni fatte nella Pace di Costanza, combattendo aspramente le città della Lega e l'autorità papale. 3 MSS.PALLASTRELLI, Famiglia Pallavicino - Fondo antico, Biblioteca Passerini di Piacenza. Lo sostituì il figlio Corrado IV, designato dal padre, ma non riconosciuto da tutti i feudatari. Scese in Italia come pretendente al trono di Sicilia, conquistò Napoli, ma nel 1254 morì a Lavello, nei pressi di Potenza, a. soli 26 anni, lasciando come erede un figlio di due anni, detto Corradino. Manfredi, figlio di Federico II, tentò di risollevare le forze ghibelline in Italia. All'inizio degli anni '50 si andava rafforzando a Piacenza la fazione dei ghibellini, che ottenne il ritorno in città di coloro che erano stati allontanati perché seguaci dell'imperatore. Tra questi i Landi e anche Uberto Pallavicino, eletto nuovo podestà di Piacenza, il quale nel 1253 fu chiamato a sedare lotte interne tra Nobili e Popolani, frutto di antichi rancori. Il marchese Uberto, già vicario imperiale di Corrado IV e podestà perpetuo, aspirava ad incrementare il suo potere sulla città e riuscì l'anno successivo a farsi eleggere Rettore e Signore di Piacenza. La forte posizione raggiunta gli permise di accentuare l'ostilità nei confronti dei guelfi locali, vietando anche agli ecclesiastici di recarsi a Roma, nel timore che potessero concordare col Pontefice una congiura contro di lui. Insensibile ai moniti che gli venivano lanciati da papa Alessandro IV, il Pallavicino accentuò la lotta contro i guelfi, facendo demolire i castelli di Grintorto (Agazzano), Arcello (Pianello), Groppo (Piozzano), Pigazzano (Travo), Rivalta (Gazzola), Gragnano, Travo, Bobbiano (Travo), Monte-santo (Ponte dell'Olio) ed altre rocche, oltre le mura di Borgotaro. La durissima tassazione imposta al clero e la lotta feroce nei confronti dei rivali cominciarono a provocare una dura reazione: il giovedì santo del 1257 il papa lo scomunicò, mentre il 24 luglio Uberto Pallavicino venne cacciato da Piacenza insieme alle sue truppe. Anche Ubertino Landi, alleato del Pallavicino, fu costretto a lasciare Piacenza, rifugiandosi a Cremona, ospite dell'amico. Frattanto i seguaci di Uberto si rifugiarono nel castello di Caorso, da dove proseguirono la durissima lotta contro i guelfi piacentini. Nel 1259 Uberto sconfisse la città guelfa di Brescia, divenendone Signore e ponendovi, come suo Vicario, Ubertino Pallavicino dei marchesi di Pellegrino, già Podestà di Cremona. Uberto venne inoltre acclamato Signore di Milano per cinque anni: accompagnato da 600 cavalieri ed altre milizie, venne accolto con tutti gli onori nella città, dove lasciò come suo Vicario un altro nipote, Arrigo Pallavicino dei marchesi di Scipione. Pur essendo ormai ricco e potente, Uberto non rinunciava al progetto di ritornare a Piacenza: la battaglia di Noceto fra i guelfi piacentini da una parte e 400 cremonesi a cui si erano aggiunti alcuni ghibellini piacentini dall'altra, fece registrare la netta vittoria di questi, capitanati da Guido e Ubertino Pallavicino. Piacenza, ritornata ghibellina, riaprì le porte a Uber-tino Landi, ai marchesi Arrigo e Guido Pallavicino e a tutti gli altri in precedenza esiliati. Il vescovo Fulgosio e Ubertino Landi convinsero i piacentini ad accogliere di nuovo, quale Capitano e Signore, il marchese Uberto Pallavicino il quale, giunto a Piacenza con un forte seguito di Cremonesi, ottenne nel 1261, per una durata di quattro anni, la Signoria della città. Raggiunto lo scopo, lasciò qui come Vicario il nipote Visconte Pallavicino, mentre .un altro nipote, Arrigo, occupava Tortona: Uberto, riconosciuto di nuovo podestà perpetuo di Piacenza nel 1262, poté tornare a Cremona, dove già ricopriva la stessa carica. Nel 1263 il Consiglio generale di Piacenza, alla presenza del marchese Pallavicino, cedette al ghibellino Ubertino Landi, suo alleato, tutti i diritti di pedaggio sulle strade dei luoghi posti tra il Nure e la Chiavenna e sugli stessi fiumi. Fu questo il momento di massimo splendore per Uberto, le cui fortune erano però legate alle sorti dell'impero4 Nel 1265 il papa Urbano IV si rivolse al re di Francia Luigi 1X "il Santo", pregandolo di scendere in Italia per aiutarlo nella lotta contro la Casa Sveva e favorire così la causa di tutta la cristianità. Giunse pertanto in Italia il figlio Carlo d'Angiò, conte di Provenza, che il 26 febbraio 1266, a Benevento, sconfisse Manfredi. Nella battaglia persero la vita lo stesso Manfredi e Arrigo Pallavicino, nipote di Uberto. 11 tramonto di questi era ormai iniziato e da Milano, Alessandria ed altre città vennero cacciati i suoi Vicari. Nell'autunno del 1266, papa Urbano IV inviò a Piacenza i suoi legati per cercare un accordo tra guelfi e ghibellini: Uberto venne privato delle podesterie di Cremona e di Piacenza, ottenendo in cambio la revoca della scomunica papale nei suoi confronti. 4 Nicolò Festasio, famoso scrittore modenese, descriveva Uberto di aspetto maestoso, sebbene di media statura, con capelli neri e un volto bruno, nel quale risaltavano i denti bianchissimi: "... era ardito d'animo, possente ed umano et di valore di corpo non vi fu che l'eguagliasse a quei tempi, versbgnuno cortesissimo et di profonda benignità, ma ne' l'imprese importanti severo. Costumava vestire sempre di ferro. Gli si attribuisce in parte un nuovo metodo nell'arma di cavalleria e l'introduzione delle compagnie di ventura. Di idee alte, mirò a vasto dominio, tiranno talvolta, ma in corrispondenza agli odi dei tempi; fu condottiero temuto, salì alle più alte cariche e cadde con la fortuna degli Svevi". Inoltre il Pallavicino, in una solenne cerimonia nel Duomo a Piacenza s'impegnò con i propri seguaci a mantenere la pace. Visto il momento, si spiega pertanto l'atto di vendita, fatto qualche giorno prima della sua destituzione e dell'inevitabile confisca dei beni, di una proprietà a Soarza, fatta a Ubertino Landi, suo alleato, il quale era riuscito per il momento a mantenere la sua posizione a Piacenza.5 1266 novembre 2... Piacenza Il marchese Uberto Pellavicino per 50 lire piacentine, residuo di un debito di 432 1.p. da lui dovute ad Ubertino di Lando, gli cede 50 iugeri di terra boschiva a Soarza in vocabolo (località) Bualengo. Confinanti: i De Motaris (figurano già negli estimatori di Soarza nel 1225), Aimone di S.Pietro in Cerro, conti di Montecucco. Testimoni: Opizone Balbo, Giovanni di Luxiardo, Giovanni Orsono not., Gerardo Fumario, Opizone di Redulfo, Monachino di Regio. Roga: Antelmus de Ronchove-teri notarius.6 Il 3 dicembre 1266 il ghibellino Uberto si rifugiò a Borgo San Donnino e poi, per maggior sicurezza, nei suoi castelli di Landasio e Gusaliggio in val di Mozzola. Il castello di Gusaliggio (o Gusaleggio) era costruito su un dirupo che si ergeva sopra il torrente Mozzola, con uno strapiombo di duecento metri: oggi è solo un cumulo di ruderi. Uberto Pallavicino lo aveva fatto "fortissimo e vasto", facendo scavare a forza di scalpello nella roccia viva, ricavandone un grosso castello turrito con un'ampia corte al centro ed una capace cisterna.7 5 Rientrato a Piacenza nel 1261 dopo la vittoria dei Ghibellini, Ubertino Landi pose il dominio sul vasto distretto a est della città di Piacenza, tra il Po e la via Emilia (la Romea di allora), acquisendo proprietà nei territori di Roncarolo, Fossadello, Caorso, S. Nazzaro, Monticelli d'Ongina, Polignano, Torre di Chiavenna, San Pietro in Cerro, Cortemaggiore, Besenzone, S. Martino, Mercore, Fiorenzuola d'Arda, Alseno: il grosso dominio si collocava significativamente a fianco del marchesato Pallavicino di Busseto e Borgo San Donnino. 6 Pergamena Landi n.1406(n.925-1405) - Archivio di Stato-Piacenza. 7 A frate Gherardino di Parma, mandato al castello per indurre Uberto a pentirsi, il Pallavicino rispose: "Non ho rimorsi di coscienza, perché non ho roba altrui". Soltanto dopo la morte di Uberto, i nemici entrarono nel castello di Gusaliggio e lo distrussero. Più tardi il feudo passò ai Pallavicino del ramo di Pellegrino, che lo ebbero fino al 1438, anno in cui Niccolò Piccinino lo espugnò. Tornato ai Pallavicino nel 1450, resse l'assalto di Alessandro Sforza; nel 1472 passò, con tutte le terre della Val di Mòzzola, ai marchesi Sforza-Fogliani di Piacenza, e rimase in loro possesso fino all'abolizione dei feudi. Uberto Pallavicino, vicario imperiale di Federico II. Il castello di Gusaliggio. IL MARCHESE MANFREDINO IL PIO La sconfitta dell'imperatore Manfredi, figlio naturale e successore di Federico II, da parte di Carlo d'Angiò il 26 febbraio 1266, segnò il definitivo sopravvento della fazione guelfa su quella ghibellina e il conseguente crollo delle fortune di Uberto Pallavicino. Infatti Corradino, nipote di Manfredi ed ultimo rampollo della Casa Sveva, cercò la rivincita e scese in Italia con poche migliaia di fanti e cavalli per riconquistare il regno di Sicilia. Ma il 23 agosto 1268 fu sconfitto da Carlo d'Angiò, che lo fece giustiziare due mesi dopo. L'8 maggio 1269 morì, nella sua rocca di Gusaliggio, il marchese Uberto Pallavicino, che per molti anni era stato Signore di Piacenza, Cremona, Milano, Alessandria, Tortona, Crema e Brescia. Fu un uomo di eccezionale forza e spiccata intelligenza, lasciava un figlio quindicenne e quattro fanciulle: Maria, Giovanna, Margherita e Isabella. Nel suo testamento erano indicati i castelli ancora in sua mano: oltre alle rocche di Gusalecchio e di Landasio in Val Mozzola, possedeva il castello di Ravarano. Nessuno dei castelli dell'oltre Po cremonese gli era rimasto. Manfredino, figlio e successore di Uberto, mantenne la linea politica filo-ghibellina e per questo dovette attendere il 1311 quando, con la discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII e l'occupazione di Cremona, Brescia e Piacenza, gli fu possibile iniziare il recupero dei possedimenti paterni. L'efficacia della sua azione, soggetta alle alterne vicende della guerra tra guelfi e ghibellini, portò solo alla riacquisizione, nell'Oltre Po (rispetto a Cremona, corrisponde alla destra del Po), di buona parte dei possessi allodiali acquistati, a suo tempo, dal padre; possessi che, rendendolo il maggior proprietario fondiario dei luoghi nei cui territori erano situati, lo ponevano in una posizione di preminenza. Infatti il 12 febbraio 1311 il vicario imperiale di Enrico VII riportò il marchese Manfredino Pallavicino nel possesso di Gusaliggio, Ragazzola, Zibello, Parasacco ed altri luoghi. Nei mesi successivi si moltiplicarono le sentenze del funzionario imperiale a favore della restituzione a Manfredino di diritti e beni situati a: Soragna, Monte Pallero, Roncole, Samboseto, Frescarolo. In alcuni casi furono i proprietari stessi a vendere a Manfredino loro terre e diritti, anticipando forse sentenze favorevoli al marchese, come nel 1321, quando il Pallavici-no acquistò dai marchesi Lupi di Soragna tutte le terre e i diritti da questi posseduti nei luoghi di Roncole e Frescarolo al di là della Lavatura, mentre una precedente vertenza fra i due si era risolta a favore del Pallavicino. L'opera di ricucitura svolta da Manfredino, pur con qualche risultato, fu nel complesso modesta e confermava il declino politico della famiglia Pallavi-cino. Essa va inquadrata in un periodo di sempre più decisa affermazione delle forme signorili non più locali e comunali (piacentine, parmensi, cremonesi) ma in una forma più ampia come quella viscontea, indirizzata non solo verso la Lombardia ma anche verso l'Emilia. Le lotte tra le fazioni e le incessanti guerre segnarono i primi decenni del Trecento, nei quali si scontrarono, ancora una volta, le mire egemoniche del Papato e dell'Impero: gravi le conseguenze non soltanto sul piano politico e istituzionale, ma anche e soprattutto su quello economico e sociale. Desolazione ed abbandono delle campagne, patimenti, tribolazioni e gravissimi danni alle persone e ai patrimoni; calo demografico e forte diminuzione della produzione agricola, intralci a non finire per i traffici e per l'esercizio di ogni altro tipo di attività furono i naturali effetti di questa situazione. Dopo la cacciata di Alberto Scotti, Signore di Piacenza dal 1290 al 1304, le famiglie aristocratiche ,ripresero le loro antiche rivalità, dividendosi di nuovo nei due partiti tradizionali: i guelfi e i ghibellini. Questi nel 1306 s'impadronirono del potere, e l'anno successivo fu Visconte Pallavicino, del ramo di Pellegrino, ad assumere la carica di governatore e reggente del Comune di Piacenza. Nel 1311 scendeva in Italia l'imperatore Enrico VII ed il 6 ottobre entrò a Piacenza, dopo essersi impadronito di Cremona e. di Brescia. Alcuni feudatari rinnovarono il giuramento di fedeltà all'imperatore, ricevendo la conferma dell'investitura per i loro feudi. Tra questi Visconte Pallavicino di Pellegrino, creato milites, alta onorificenza imperiale riservata ai nobilifide/es. L'alternanza di epidemie e carestie ad intervalli quasi regolari, scontri tra fazioni, guerre, assedi, saccheggi e distruzioni caratterizzarono anche gli anni successivi. All'inizio del 1327 la fazione dei ghibellini piacentini, trovandosi in difficoltà per le molte sconfitte subite, chiamò in Italia l'imperatore Ludovico il Bavaro. Questi il 17 maggio entrava solennemente in Milano insieme alla moglie Margherita; il 31 dello stesso mese, ignorando l'intervento del papa, ottenne da tre Vescovi, colpiti poi da scomunica, di essere incoronato, nella Chiesa di S. Ambrogio, Re d'Italia con la corona di ferro. Alcuni nobili piacentini si recarono a Milano per ottenere dal nuovo Re l'investitura dei loro feudi: tra questi Manfredino Pallavicino, che il 2 luglio ottenne la conferma per i possedimenti in essere nelle vallate del Ceno e del Taro e per i privilegi concessi a suo padre Uberto dagli imperatori Federico II e Corrado IV. Il 7 gennaio 1328 Re Ludovico giunse a Roma per ottenere dal pontefice Giovanni XXII la ratifica della sua investitura imperiale, ma il papa da Avignone gli rinnovò la scomunica. A Roma venne allora proclamato un nuovo papa, Nicolò V, che lo confermò imperatore. Nei mesi successivi questi era impegnato a recuperare il maggior denaro possibile, specialmente presso coloro che a lui si rivolgevano per ottenere concessioni di feudi, esenzioni fiscali ed altre agevolazioni. Questo atteggiamento finì per creare un ambiente ostile intorno a lui e nel 1329 decise di tornare in Germania. A Cremona la lotta fra le varie fazioni per la supremazia determinò una grave crisi delle istituzioni e portò la città sotto la signoria viscontea, con la perdita nel 1334 dell'autonomia comunale. Il nuovo Statuto, redatto nel 1339, offriva condizioni vantaggiose, per favorire la ripresa, ai forestieri disponibili a vivere stabilmente nella zona per lo svolgimento di attività produttive. Tre anni prima (1336), nello Statuto della città di Piacenza8 erano state inserite norme che concedevano immunità agli abitanti di Monticelli al confine con Cremona, da estendere agli altri abitanti del territorio piacentino al confine tra il Comune di Piacenza e Cremona per meglio indurli alla custodia dei confini o rendere più appetibile l'insediamento nel piacentino: "deversus Cremonam et in burgo guaregnorum... ut confines inter Comune Placente et Comune Cremone ad honorem ipsius Comunis Placentie custodiantur." Nel 1348 una terribile pestilenza si abbatté su gran parte dell'Italia e dell'Europa, riducendo di circa un terzo la popolazione esistente: a Piacenza uccise quasi la metà degli abitanti. 8 Statua Varia Civitatis Placentiae - p.413, Bibl. Passerini di Piacenza. I FRATELLI OBERTO E DONNINO PALLAVICINO: SEPARAZIONE DEI BENI E FORMAZIONE DELLE GIURISDIZIONI DI BUSSETO E ZIBELLO Alla sua morte, avvenuta nel 1328, Manfredino lasciò tre figli: Federico, Oberto e Donnino Con la morte di Federico (1348), gli altri 2 fratelli si divisero il patrimonio familiare, che superava le 5.000 biolche di terra. Ad Oberto andò il polo giurisdizionale di Busseto e Solignano con le sue pertinenze, mentre a Donnino toccava quello di Zibello e Ravarano. L'anno successivo, con la morte di Donnino, l'eredità passò ai figli Federico (Zibello) e Giovanni (Ravarano). I legami tra i successori di Oberto e di Donnino rimasero assai stretti fino alla fine del secolo, anche se il ruolo di guida venne assunto e mantenuto sempre dai marchesi di Busseto, più capaci e dinamici dei loro cugini. Dal canto loro, i figli di Donnino si adattarono per convenienza a svolgere una funzione gregaria. Oberto Pallavicino, morto nel 1368. Oberto, partendo da una posizione filoim-periale secondo tradizione, giudicò più attuabile e quindi più conveniente da seguire il progetto politico dei Visconti, schierandosi con loro e segnando con questo l'inizio di una fortunata carriera, resa possibile dal favore che venne a godere presso i duchi di Milano. Nel 1351 Oberto Pallavicino ottenne l'incarico di capitano delle truppe viscontee e luogotenente di Giovanni Visconti a Bologna, dopo l'annessione della città al dominio visconteo. L'affermarsi di questa Signoria, portò i Pallavicino, che ne erano sostenitori, ad un graduale ma incessante rafforzamento; questo dovette però fare i conti con il tentativo del comune di Cremona di riprendere il controllo sull'Oltre Po, basandosi sull'autorità e potenza dei Visconti che della città erano diventati i signori. INVESTITURA A FAVORE DI OBERTO PALLAVICINO DA PARTE DELL'IMPERATORE CARLO IV All'inizio del 1355 l'imperatore Carlo IV scese in Italia ed Oberto, con una scelta schiera di cavalieri, andò ad incontrarlo a Peschiera, da dove lo seguì a Milano, accolto da Galeazzo e Bernabò Visconti. Oberto accompagnò l'imperatore nel suo viaggio in Italia, e a Pisa ottenne la promessa che, una volta ritornato da Roma, ove si stava recando per essere incoronato con la Corona di ferro, lo avrebbe confermato nei suoi feudi. La cosa non riuscì e Oberto attese pazientemente che si ripresentasse l'occasione; questa avvenne il 4 giugno del 1360, allorché, recatosi a Praga a rendergli omaggio, ricevette da Carlo IV un ampio diploma di conferma di tutti i feudi e privilegi concessi ai suoi antenati. Tra le terre che figurano nel documento ci sono: Ravarano, Bargone, Soarza, Polesine, Busseto e le sue ville. Nel 1355 il vescovo di Cremona Ugolino investì il marchese Oberto Palla-vicino e i suoi figli, maschi e discendenti, del porto e traghetto sul Po allo sbocco dell'Arda, in uno colla villa di Soarza: "De anno 1355 fuit investitus Ubertus Marchio Pallavicinus... ad passel-lum quod est subtus sabionellos et nunc usq: ad buccam arde et similiter portus Soartie... ».9 L'investitura venne conferMata nel 1365 allo stesso Oberto dal vescovo di Cremona Pietro Capelli per la morte del predecessore Ugolino, e dal vescovo Capelli confermata, nel 1369, al marchese Nicolò Pallavicino per la morte del padre Oberto. Il 12 febbraio 1361, tramite il proprio figlio Nicolò, Oberto Pallavicino acquistò dal marchese Francesco Pallavicino di Scipione il castello e il feudo di Tabiano e i pozzi di sale ad esso pertinenti. Nel 1364 il comune di Parma accordava al marchese Oberto e al figlio Nicolò Pallavicino di acquistare castelli, fortezze e vassalli nel distretto parmigiano, in deroga a quanto stabilito negli statuti della città. Pur essendo una grande famiglia feudale d'investitura imperiale, i Pallavicino della montagna e quelli della bassa piacentino-parmense si adattarono a servire i Visconti: nel 1362 Oberto Pallavicino da Scipione era podestà di Pavia per conto di Galeazzo; Nicolò Pallavicino (figlio di Oberto) era capitano d'armi nell'esercito visconteo durante il 1363. 9 SELETTI E., La città di Busseto - vol. III, p.23 : "Da una copia presso di me a mano del canonico Pietro Seletti, che non segna da dove la prendesse". IL MARCHESE NICOLÒ PALLAVICINO Con la crescita della potenza viscontea, si andavano rafforzando anche i Pallavicino, che di questa erano sostenitori. Ma un aumento eccessivo del peso politico, economico e militare dei discendenti di Uberto non poteva riuscire gradito ai signori di Milano, nei quali, ad un certo momento, sorse la preoccupazione di contenerlo e limitarlo; preoccupazione condivisa pienamente anche dal comune di Cremona, che da sempre aveva teso a ridurre a proprio vantaggio i diritti giurisdizionali dei feudatari sul contado dell'Oltre Po. Bernabò Visconti e suo figlio Lodovico, nel 1366, ottennero dall'imperatore Carlo IV, quali suoi vicari, il rilascio di un diploma che annullava tutte le precedenti immunità ed esenzioni concesse. Forse anche per questo, i rapporti tra Nicolò Pallavicino e Bernabò Visconti attraversarono un periodo di crisi, che portò Nicolò ad avvicinarsi a Gian Galeazzo e ad aiutarlo nello spodestare Bernabò. Questi sottrasse al Pallavicino il castello di Bar-gone, le saline di Salso, il palazzo che aveva a Milano a Porta Orientale. Nel 1374 Bernabò tolse Tabiano a Nicolò, che nellb stesso anno lo riprese con un colpo di mano, provocando la rappresaglia del Visconti, che ritornò in possesso del castello, e impose a Nicolò, che stava ristrutturando i suoi castelli di Castellina e Costamezzana, di sospendere i lavori.10 Nel maggio 1385, dopo l'uccisione di Bernabò, diventò Signore di Milano Gian Galeazzo Visconti, il quale assunse, rispetto al rivale, un diverso atteggiamento politico nei confronti di Nicolò Pallavicino, riconoscendogli tutti i diritti, i domini, i privilegi concessi dagli imperatori e consentendo che si continuassero le fortificazioni della Castellina e di Costamezzana. Inoltre il Visconti inviò a Busseto, in funzione di paciere Bertolino Vitali, che riuscì a comporre la vertenza fra Nicolò e suo cugino Giacomo, marchese di Pellegrino. I patti stipulati nel 1391 tra Nicolò e Gian Galeazzo Visconti portarono i Pallavicino ad un notevole rafforzamento della loro posizione politica ed economica: ancora una volta la scelta di campo li aveva premiati. 10 Il 27 settembre 1369, dopo la morte di Oberto, il marchese Nicolò, proseguendo la politica di espansione delle proprietà, acquistò tre pezze di terra a Soarza e il riconoscimento della Giurisdizione di Branceria. In quegli anni Soarza e Brancere facevano parte del distretto di Busseto e vi rimasero fino al 1479, quando i fratelli Pallavicino e Gian Ludovico divisero le loro proprietà. Per la prima volta i Visconti che, pur apprezzando e valorizzando le capacità personali dei discendenti di Uberto il Grande, avevano cercato di controllarne la crescente potenza politicomilitare, riconoscevano ai Pallavi-cino il diritto di godere nelle terre e nei castelli loro soggetti quei privilegi e quelle esenzioni che gli imperatori, a cominciare dal 1249, avevano loro concesso. Tale riconoscimento, ben più importante delle tarde investiture degli imperatori, la cui autorità era ormai soltanto nominale, comportava in pratica per Cremona la perdita del controllo di una parte del suo antico distretto, posto alla destra del Po. Questa città vide per tutto il XIV secolo il permanere di continue lotte fra le varie fazioni politiche, che portarono prima alla perdita dell'autonomia per opera della signoria viscontea e che videro poi Gian Galeazzo Visconti, che nel 1385 aveva spodestato Bemabò, impegnato per cinque anni nel condurre un'opera di normalizzazione e conciliazione degli interessi e delle aspirazioni delle diverse forze sociali. All'inizio del 1389, il capitano visconteo Nicolò Pallavicino partecipò alla spedizione in Lunigiana, che si concluse con la sconfitta dei Malaspina e la consegna del territorio toscano alla Signoria dei Visconti. Il sostegno ricevuto dal Pallavicino in questi anni portò Gian Galeazzo a sottoscrivere quell'accordo del 1391; in esso Nicolò, che dei.Pallavicino era quello con maggiore personalità, otteneva che i patti e le convenzioni fossero estese anche ai cugini Giovanni (Ravarano) e Federico (Zibello). Il 15 maggio 1394 da Pavia, su istanza del marchese Nicolò, Gian Gale-azzo Visconti, signore di Milano, provvide a legittimare Rolando e Giovanna, figli naturali dello stesso marchese e, rispettivamente, delle signore Agnese e Caterina. L'anno successivo l'imperatore Venceslao confermava i diritti di Nicolò su: Busseto, Tabiano, Varano Melegari, Polesine, San Vito di Zibello, Santa Croce e Ragazzola. Nel 1395 venne firmato un patto tra il marchese di Busseto Nicolò e Giovanni, marchese di Ravarano, per il quale accordo nel caso che uno dei due fosse morto senza avere figli maschi, la sua eredità sarebbe passata all'altro. IL MARCHESATO DI SCIPIONE Nel 1318 subentrarono: Enrico, Francesco, Bartolomeo (figli di Guglielmo) e Al-bertino detto Marchesotto (figlio di Uberto detto Marchesotto, morto in precedenza, e nipote di Enrico e Guidotto). Nel 1359 si divisero il feudo: Ugolino del fu Enrico; Francesco (figlio di Guglielmo); Uberto, Cabriono, Manfredo e Marco (figli di Bartolomeo); Giovanni e Pietro (figli di Albertino detto Marchesotto). Il castello di Scipione, che sorge in posizione dominante poco sopra Salsomaggiore, ha origine assai remota: le prime fonti risalgono al 1025 e parlano di un castro già fondato ad opera di Adalberto II Pallavicino, fondatore nel 1033 del Monastero di Castione (comune di Fidenza). Discendente di Adalberto II e il primo a portare il soprannome di Pelavicino (che poi si trasformerà in cognome) fu però il marchese Oberto II, vissuto tra XI e XII secolo. Oberto II ebbe cinque figli: Guglielmo (proavo di Uberto il Grande), Delfino (capostipite del ramo di Tabiano), Alberto Greco (capostipite del ramo di Soragna), Tancredi e Burgundione (premorti al padre). Nel testamento del 22 febbraio 1144, la parte toccata a Guglielmo comprendeva: omnem ius et potestatem de rebus illis omnibus quas habeo in episcopatu ve! co-mitatu .Placentino a Grotta in ioso, sicuti est e Vigoleno, Scipione, Casale Albino, Seolo, Budrio, Basilica Ducis, Castello de Arda vel in aliis locis a termino designato... Tutti i suddetti beni, insieme con altri situati nei comitati di Parma e Piacenza, li ritroviamo annoverati nel complesso patrimoniale appartenente al figlio di Guglielmo, Oberto Pallavicino, nel momento in cui questi lo divise tra i suoi due rampolli, Manfredo e Guglielmo, il 24 ottobre 1196.11 La morte colse Guglielmo nel 1217, senza che egli avesse prima provveduto alla spartizione del proprio asse ereditario tra i suoi figli: Uberto (il Grande), Pallavicino (cap. ramo Pellegrino) e Manfredo (cap. ramo Sci-pione); spartizione che essi decisero di effettuare una decina d'anni più tardi ed in base alla quale: Uberto ebbe le rocche di Gusaliggio e di Landasio, il castello di San Martino, Castiolo e la quinta parte delle mura e del sale, di spettanza dei fratelli, in Salsomaggiore e Salsominore. Pallavicino ottenne i castelli di Pellegrino, Aguliano e Belvedere... oltre alla metà delle mura e del sale di spettanza comune in Salsomaggiore e Salsominore, tolta la quinta parte di Uberto. Manfredo ottenne il castello di Scipione e tutto quanto posseduto in comune a Tosca, Vigoleno, Gropero, Salsomaggiore e Salsominore, Pozolo e Fontana Broccola, oltre alla metà delle mura e del sale di spettanza comune in Salsomaggiore e Salsominore, tolta la quinta parte assegnata ad Uberto. Interessa a noi la linea di Manfredo, capostipite dei marchesi che per molti secoli ebbero nel castello di Scipione il centro della loro signoria. La loro storia ruota intorno ad un elemento di fondamentale importanza: il controllo dei pozzi per la produzione di sale nella zona di Salsomaggiore e dintorni, gestita fino all'inizio del XIII secolo in posizione quasi monopolistica. Da allora, Parma e Piacenza cominciarono ad interessarsi più attivamente della lavorazione del sale, dapprima acquistando dei pozzi da privati e gestendoli in forme più o meno dirette, poi trasferendo la loro concorrenza sul piano più propriamente politico ed impegnando una serie di lotte, ora contenute entro i limiti di vertenze giudiziarie, ora condotte con più o meno acuta violenza; il tutto nel quadro del progressivo rafforzamento degli ordinamenti comunali e della corrispondente erosione del feudalesimo. E' significativo il caso avvenuto nel 1275, quando Obertano Boto e suo nipote Ansaldo vendettero al comune di Piacenza otto pertiche di terra in Salsomaggiore: "Se nel terreno si troverà una vena d'acqua salsa se ne ricaverà un pozzo, dividendo tra le controparti il diritto di sfruttamento", era stato convenuto. Nell'atto i piacentini fecero inserire la clausola che tale diritto non avrebbe potuto dal venditore essere ceduto a persone del distretto di Parma, né ai 11 Di Manfredo qui non ci occuperemo, in quanto egli è il capostipite del ramo dei marchesi di Varano. Pallavicino, sotto pena di confisca da parte del comune di Piacenza. Gli anni della signoria di Manfredo coincisero con una crescita della potenza e della ricchezza del marchese, anni che gli consentirono di vivere in relativa sicurezza e tranquillità, secondo il suo carattere, descritto come homo pacis et quasi religiosus... Et dabat salem omnibus regulis abundanter et sine mensura. Era il periodo in cui il fratello Uberto il Grande percorreva quella brillante carriera di funzionario imperiale che lo avrebbe portato a diventare dominus di un vero e proprio Stato di natura feudale, esteso dal Cremonese e dal Po fin dentro l'Appennino nelle valli del Ceno e del Taro. A dimostrazione di quanto fossero stretti, solidali ed amichevoli i rapporti fra i due fratelli, pur così diversi per tendenze e temperamento, Uberto affidò il governo di alcune città a figli e nipoti di Manfredo.12 Dopo b morte di questi, nel 1263 il cospicuo patrimonio immobiliare venne assegnato ai quattro figli legittimi: Guglielmo, Guidotto, Enrico e Uberto, senza procedere a suddivisione, lasciando che fossero i figli ad accordarsi. Le figlie, ancora nubili, vennero tacitate con una congrua somma di denaro a titolo di dote. Una spartizione fra i quattro figli, conclusa entro lo stesso anno, portò a definire i pozzi di sale: assegnati per metà a Enrico e Uberto e per l'altra metà a Guglielmo e Guidotto. Un'ulteriore suddivisione fra questi ultimi due portò a definire il complesso del loro comune cespite ereditario. A Guglielmo spettavano tutti i beni con i relativi diritti feudali posseduti in Scipione, Fontanabroccola, Salsomaggiore presso Brugnola; a Guidotto il territorio di Tabiano, Montemannulo, Salsomaggiore, Soragna, Casale Albino, Alseno. La vittoria nel 1266 di Carlo d'Angiò sull'imperatore Manfredi a Benevento segnò la fine della potenza di Uberto il Grande, con effetti negativi anche sulla sorte del marchesato di Scipione. Nel 1267, con il sopravvento della fazione guelfa su quella ghibellina, il castello venne semidistrutto dai piacentini, mentre due anni dopo, gli uomini che difendevano Scipione si arresero ai guelfi parmigiani, ma a patto che il castello non venisse distrutto. Era il momento per i comuni di Parma e Piacenza di approfittare della loro supremazia militare per imporre il proprio diritto sulla produzione del sale e costringere i marchesi a cedere quello prodotto nelle loro saline, dietro un compenso stabilito per ogni quantitativo di merce mensilmente consegnata. 12 Allo stesso modo Uberto si comportò con i figli dell'altro suo fratello Pallavicino, marchese di Pellegrino: chiamerà Visconte e Ubertino a ricoprire, rispettivamente, la carica di podestà di Piacenza e Cremona, al primo dei due inoltre affiderà la tutela del proprio figlio Manfredino. Negli anni successivi i marchesi di Scipione cercarono di recuperare gli antichi privilegi, finché con una sentenza del 1318 venne attribuita al comune di Parma la proprietà della maggior parte dei pozzi contesi, mentre molto ridotto era il numero di quelli riconosciuti come appartenenti ai signori di Scipione. In questa circostanza venne fatto un inventario del patrimonio familiare, riconosciuto ai figli di Guglielmo, Guidotto, Enrico e Uberto, ma sempre in modo congiunto. Il 21 luglio 1354 fu Uberto Pallavicino di Scipione a rappresentare il monastero di Chiaravalle della Colomba, i Pallavicino di Pellegrino (Pallavicino del fu Visconte, Corrado, Guglielmo e Guido figli del fu Alessandro, Ugo-lino del fu Antoniolo) e quelli di Scipione (Francesco del fir Guglielmo, Ugolino del fu Enrico, Manfredo e Uberto del fu Bartolomeo, Giovanni e Pietro del fu Albertino detto Marchesotto) nella vertenza con il comune di Piacenza, che contestava la sentenza che gli ingiungeva di non molestare le controparti nel possesso dei pozzi di Salsomaggiore. Liti e contrasti si riaccesero più volte, anche se ormai il terreno della lotta era circoscritto al solo campo legale, senza ulteriori manifestazioni di violenza; la forza e l'importanza politica dei due contendenti, i Pallavicino e i Comuni, si erano molto ridotte e un potere ben più forte, quello della signoria dei Visconti, aveva Ormai imposto il suo dominio sul territorio. Nel 1359 i marchesi di Scipione decisero di spartire il patrimonio di beni da loro posseduti in comune e affidarono l'incarico di arbitro inappellabile a Oberto Pallavicino signore di Busseto, nipote di Uberto il Grande. Il patrimonio venne ripartito in quattro parti: -Francesco, figlio di Guglielmo, ottenne il castello di Tabiano con le ville di Pozzolo, di Cento Pozzi e Castel Vernacio nell'episcopato di Parma. -Giovanni e Pietro, figli di Albertino detto Marchesotto, ebbero il castello di Scipione e Casale Albino nell'episcopato di Piacenza; Castel Ghibellino, Salsominore e Montebello nell'episcopato di Parma. -Uberto, Cabriono, Manfredo e Marco, figli del fu Bartolomeo: Salsomaggiore, Grotta e Poggio Sant'Antolino. -Ugolino, del fu Enrico: metà delle terre di Montemannulo, Rivo Sanguinario e Noceto. Se, fino a questo momento, i discendenti di Manfredo avevano mantenuto unito il loro patrimonio, attribuendo ai componenti il gruppo familiare solo delle quote ideali, la divisione del 1359 pose fine al comune possesso su un complesso di beni immobili che era durato a lungo e, una volta avvenuta l'assegnazione delle quote, ciascuna delle parti contraenti poté disporne a proprio piacimento. E già due anni dopo il marchese Oberto di Busseto, che aveva presieduto in qualità di arbitro alle divisioni, acquistò dal marchese Francesco il castello di Tabiano e i pozzi di sale ad esso pertinenti. Solo nel 1366 però, Nicolò, a nome del padre Oberto, ne prenderà il possesso, probabilmente dopo la morte di Francesco. La conseguenza della spartizione fu certamente un indebolimento verso l'esterno: il complesso di fortezze, terre, uomini, fonti di ricchezza come le saline fornivano l'immagine di un organismo signorile dotato di una sua compattezza, di autonomia e di una potenzialità difensiva e offensiva che la divisione nei quattro diversi nuclei certamente ridimensionava. Furono Giovanni e Pietro Pallavicino ed i loro eredi i destinati alla continuazione della dinastia dei marchesi di Scipione e questo fino alla sua estinzione nella seconda metà del settecento. Nel 1403 il castello fu assediato dai soldati del conte Rossi di S. Secondo, ma l'arrivo delle milizie di Rolando Pallavicino di Busseto costrinse i nemici e ritirarsi. Quattro anni più tardi furono i soldati di Otto Terzi ad espugnare il castello di Scipione, restituito una decina di giorni dopo al marchese Pietro, in seguito all'accordo del Terzi ancora con Rolando. Nel 1447 Lodovico e Giovanni Pallavicino, figli del marchese Pietro, ricostruirono il castello adottando le più moderne tecniche difensive dell'epoca: il torrione con la forma cilindrica e le mura a scarpa abbassate e rinforzate risultavano meno vulnerabili agli attacchi delle nuove armi da fuoco. Nel 1450 Lodovico e Giovanni, ottennero da Francesco Sforza, duca di Milano, la conferma dei loro privilegi nel feudo di Scipione, oltre all'investitura del castello e della rocca di Specchio. I conti Rossi, da diversi anni nemici dichiarati dei Pallavicino (vedi l'attacco al castello di Scipione nel 1403 e le lotte del potente conte Pier Maria Rossi, morto nel 1482, col marchese di Zibello), dopo aver catturato Guido Pallavicino da Scipione, lo imprigionarono nel castello di S. Secondo e lo rimisero in libertà solo dopo aver ottenuto un compenso di 5000 Filippi. Dai tre figli di Pietro Pallavicino, discesero tre rami, estintisi rispettivamente nel 1613 (quello originatosi da Nicolò), nel 1738 (quello derivato da Giovanni) e nel 1776 con il marchese Giangirolamo (quello iniziato da Lodovico). La nascita nel 1545 del ducato farnesiano di Parma e Piacenza segnò l'inizio della fine per la famiglia Pallavicino. La politica antifeudale del primo duca Pier Luigi, con il suo tentativo di impossessarsi dei vari feudi (quelli pallavicino compresi), provocò la reazione della nobiltà piacentina. Due anni più tardi una congiura, a cui presero parte anche Girolamo, Camillo e Alessandro di Scipione, nipoti di Nicolò Pallavicino, portò all'uccisione del duca. I marchesi di Scipione non subirono confische ma, temendo forse la vendetta ducale, nel 1568 i figli di Camillo (Giulio, Orazio e Rodolfo) cedettero a Ottavio Farnese tutti i beni da loro posseduti a titolo feudale e allodiale in Grotta, Pellegrino, Salso, Vigoleno, Borla, Scipione e in altri luoghi del piacentino. Il Famese cedette i luoghi, erigendoli in feudo, a Domenico Dalla Torre da Verona, uno dei suoi Consiglieri. Il castello di Scipione venne acquistato nel 1969 dal barone di von Holstein, sposato alla marchesa Maria Luisa Pallavicino. Castello di Scipione dei Marchesi Pallavicino, com'è attualmente. IL MARCHESATO DI PELLEGRINO Nell'anno 981 Pellegrino, situato nell'alta valle dello Stirone, venne concesso dall'imperatore Ottone II di Sassonia con titolo di marchesato ad Adalberto I di Baden, capostipite dei Pallavicino, il quale diede inizio alla costruzione del Castello. Nel 1025 Corrado il Salico infeudò Adalberto Il (fondatore del monastero di Castione M. nel 1033). Nel 1198 il castello fu riedificato da Guglielmo Pallavicino e da questo momento la storia del Borgo si legò a quella del maniero. A Guglielmo successero tre figli: Uberto (detto il Grande), che porterà la famiglia Pallavicino alla massima potenza; Manfredo (capostipite del ramo di Scipione) e Pallavicino Palla-vicino (capostipite del ramo di Pellegrino). L'Il aprile 1222 da Fiorenzuola, quest'ultimo, ricevette da Mòrino, incaricato di tutelare gli interessi di Piacenza, l'intimazione di non procedere oltre nei lavori di fortificazione in "Monte Anguliani", nonché di demolire quanto era stato edificato dopo una precedente intimazione. Morino proclamò la dipendenza della località dal comune di Piacenza e Pallavici-no accettò di riconoscere tale dipendenza. Il 26 febbraio 1227 i marchesi Uberto, Manfredo e Pallavicino, figli del fu Guglielmo, divisero i loro beni situati nel Parmigiano e nel Piacentino. A Pallavicino, nato a Busseto intorno al 1205, toccò il feudo di Pellegrino, dove si stabilì dando origine al locale ramo marchionale. Fu chiamato Il Trovatore, perché celebre fra i trovatori di canzoni, com'erano ai suoi tempi chiamati i poeti provenzali e italiani, in quella lingua detta Romanza, che dalla Sicilia s'era divulgata nelle altre regioni della penisola. Alla sua morte, dopo il 1250, gli subentrarono i figli Ubertino, Guidone e Visconte. Nel 1259 il primo, dopo essere stato podestà a Cremona, fu vicario dello zio Uberto come Signore di Brescia. A testimonianza degli ottimi rapporti di Uberto il Grande con i parenti, nel 1261, ottenuta la Signoria di Piacenza, vi lasciò come vicario un altro nipote, Visconte Pallavicino di Pellegrino. Questi nel 1304, e ancora nel 1307, respinse i feroci attacchi del piacentino Alberto Scotti, impegnato a sottomettere Borgotaro, Bardi e Castell'Arquato. Nel 1307 fu lo stesso Visconte (1237-1317) ad assumere la carica di governatore e reggente del Comune di Piacenza. In quegli anni alcune casate piacentine fornivano gli abati ai vari monasteri, il monastero di Tolla fu prerogativa dei marchesi di Pellegrino e delle famiglie con loro imparentate. Nel 1321 vennero scelti arbitri per dirimere una controversia tra il marchese Manfredino di Busseto da una parte e i marchesi Pallavicino e Alessandro Pallavicino, agenti a nome di Antoniolo Pallavicino di Pellegrino dall'altra, riguardo ai castelli situati in montagna. Per un'altra controversia tra Nicolò, marchese di Tabiano e Busseto, e il cugino Giacomo di Pellegrino, Gian Galeazzo Visconti inviò nel 1389 a Busseto Bertolino Vitali, da cui trasse origine una famiglia bussetana ricca di uomini illustri. Il vuoto di potere, creatosi nel 1402 con la morte improvvisa di Gian Ga-leazzo Visconti, favori il risorgere delle vecchie aspirazioni alla Signoria da parte di quelle famiglie che erano state sconfitte dal Visconti. Abbiamo visto quindi l'assalto dei soldati di Rossi al castello di Scipione nel 1403 e quello successivo di Otto Terzi, entrambi sventati dall'intervento di Rolando Pallavicino di Busseto. Per tutelarsi da queste aggressioni, le famiglie feudatarie strinsero alleanze difensive: un esempio è l'accordo stipulato nel 1404 dai marchesi Pallavicino di Pellegrino con i nobili Scarpa di Via-nino. Tra il 1418 e il 1422 Filippo Maria Visconti confermò la concessione feudale di Specchio a favore dei Pallavicino, marchesi di Pellegrino dove, nel 1424 venne fondato un convento di frati minori francescani ad opera di San Bernardino da Siena. Nel 1428 il castello fu conquistato dal comandante di ventura Niccolò Piccinino, inviato d'al Visconti dopo che Rolando Pallavicino era passato all'alleanza con i veneziani, abbandonando il duca di Milano. Manfredo PallaVicino, marchese di Pellegrino, fu condotto in catene a Milano ove, costretto a confessare di aver partecipato a una congiura contro lo stesso Duca, fu ucciso il 20 agosto. La confisca dei suoi beni, colpì quindi anche il cugino Antonio Pallavicino (ultimo marchese di Pellegrino) che, ridotto in povertà, si rifugiò a Busseto presso i cugini. Antonio ebbe due figli: Giberto, il notaio che nel 1497 stipulò il testamento di Carlo Pallavicino vescovo di Lodi, ed Ettore dal quale discese quel ramo Pallavicino, estinto nel 1795. Nel 1438 Filippo Maria Visconti concesse al Piccinino il feudo di Pellegrino, che da marchesato venne ridotto a contea, mentre il dominio effettivo del Piccinino risaliva al 1429. Importante zona strategica per il controllo delle vie di comunicazione e di commercio con la Liguria e la Toscana, ed anche come zona di passaggio dei pellegrinaggi diretti a Roma, il feudo di Pellegrino venne conquistato nel 1472 da Alessandro Sforza, che lo cedette a Lodovico Fogliani, la cui famiglia, con il nome di Fogliani Sforza, lo mantenne fino al 1750 (estinzione della dinastia maschile). Nel 1759 venne trasmesso a Federico Meli Lupi di Soragna e in seguito entrò a far parte del ducato di Parma e Piacenza. La rocca di Pellegrino. Pallavicino Pallavicino detto Il Trovatore.Ritratto di G. Levi nel Museo Civico di Busseto. IL FEUDO DI TABIANO La zona di Tabiano, proprietà della Mensa Vescovile di Parma, passò ai Pal-lavicino intorno al 1145 e qui, tre anni dopo, si combatté con accanimento, nel luogo detto "Monte della Battaglia", tra Delfino Pallavicino da una parte, ed il fratello Guglielmo alleato ai Piacentini dall'altra. I Piacentini, sconfitti, tornarono l'anno seguente e riuscirono questa volta a distruggere il castello di Tabiano, che fu ricostruito nel 1153. Quando, nel 1180, Delfino morì senza lasciare eredi diretti, testò a favore dei Canonici di Parma che, nel 1186, cedettero tre quarti della rocca a Gherardo da Cornazzano. Entrato in possesso dei Pallavicino di Scipione, Tabiano subì le vicende legate alle guerre tra guelfi e ghibellini. Dopo la morte di Manfredo, marchese di Scipione, nel 1263 il suo cospicuo patrimonio immóbiliare venne assegnato ai quattro figli legittimi: Guglielmo, Guidotto, Enrico e Uberto, senza procedere a suddivisione, lasciando che fossero i figli ad accordarsi. A Guidotto spettavano i cespiti dei beni (indivisi) relativi al territorio di Tabiano. Nel 1359 i marchesi di Scipione decisero di spartire realmente il patrimonio di beni da loro posseduti in comune fino a quel momento, e affidarono l'incarico di arbitro inappellabile a Oberto Pallavicino signore di Busseto. Il patrimonio venne ripartito in quattro parti: Francesco ottenne il castello di Tabiano con le ville di Pozzolo e di Cento Pozzi e Castel Vernacio nell'episcopato di'Parma. Due anni dopo, il marchese Oberto di Busseto, che aveva presieduto in qualità di arbitro alle divisioni, acquistò, tramite il figlio Nicolò, dal marchese Francesco il castello di Tabiano e i pozzi di sale ad esso pertinenti. Solo nel 1366 però, lo stesso Nicolò, a nome del padre, ne prenderà il possesso, probabilmente dopo la morte di Francesco. Tre anni dopo Nicolò, subentrato nel marchesato di Tabiano al padre Oberto defunto, entrò in conflitto con i parenti di Scipione, Bargone e Pellegrino, e con Bernabò Visconti, duca di Milano. Nel 1374 questi tolse Tabiano a Nicolò, che nello stesso anno riprese Tabiano con un colpo di mano, provocando la rappresaglia del Visconti, che riprese il castello, e impose a Nicolò, che stava ristrutturando i suoi castelli di Castellina e di Costamezzana, di sospendere i lavori. Soltanto nel 1385, dopo la morte di Bernabò, si ricomposero rapporti ottimali tra Nicolò Pallavicino e i duchi di Milano, con il nuovo sovrano Gian Galeazzo Visconti, così che il primo ritornò in possesso del castello di Tabiano. Nel 1401, dopo aver sconfitto più volte l'acerrimo nemico Ottobono Terzi, Nicolò Pallavicino morì avvelenato insieme alla moglie. Nel 1444 il forte di Tabiano apparteneva a Damiano Orsini, ma dovette tornare presto ai Pallavicino, dato che Rolando il Magnifico lo lasciò in eredità al figlio Oberto. Da allora il castello rimase ai Pallavicino fino al 1756 quando, morto Odoardo, si estinse il ramo dei feudatari di Tabiano: il feudo non poté essere trasmesso a parenti più o meno prossimi, perché, oltre un secolo prima i Farnesi avevano decretato che, in mancanza di discendenza diretta, i feudi sarebbero passati alla Camera Ducale. Il castello di Tabiano. IL FEUDO DI VARANO MARCHESI Le prime notizie relative a Varano Marchesi (frazione del comune di Me-desano), risalgono al 1182, quando Oberto Pallavicino, figlio di Guglielmo e nipote di Oberto II, venne investito del feudo. 1124 ottobre 1196 Oberto, per evitare discordie intorno alla sua eredità, divise i suoi beni tra i figli Guglielmo e Manfredo, da quest'ultimo ebbe seguito il ramo Pallavicino di Varano. A Manfredo seguì il figlio Delfino I e a questi Delfino Il. Dei suoi tre figli: Francesco, Ubertino e Onofrio, il primo nel 1290 appariva nelle cronache come marchese di Varano; a Francesco successe Delfino III. Nel 1249 l'imperatore Federico II aveva investito Uberto Pallavicino il Grande del feudo di Varano Marchesi (Varano Marchionum). Nel 1322 i Pallavicino di Varano, insieme a quelli di Scipione corsero in aiuto al cugino Manfredino, marchese di Busseto, impegnato nell'assedio di Borgo San Donnino, che tolse alle milizie di Panna. Nel 1354 la chiesa di Varano Marchesi, pur non essendo parrocchiale perché priva di battistero e del diritto battesimale, per i quali dipendeva dalla chiesa pievana di Cella, pagava le decime per un beneficio concesso dai marchesi Pallavi-cino. Si parla di un luogo fortificato per la prima volta nel 1413, quando l'imperatore Sigismondo confermò l'investitura a Rolando Pallavicino il Magnifico. Insieme con tanti altri castelli, Varano dei Marchesi venne dato al condottiero milanese Niccolò Piccinino nel 1442, ma tornerà a Rolando nel 1450 per volere del Duca di Milano. Nel 1458 il Pallavicino lasciò in eredità al figlio Nicolò il feudo, con "567 uomini sopra miglia 22" e con Nicolò la chiesa divenne parrocchiale e le venne assegnato un vasto territorio giurisdizionale, divenendo sede di vicariato foraneo con alle dipendenze la stessa chiesa matrice di Cella e le altre di Banzola, San Giovanni in Contignaco e S. Vittore. La maggiore importanza di Varano dal lato ecclesiastico procedette quindi di pari passo con quella politica. Nel 1470 il marchese era presente a Milano, dove giurò fedeltà al duca, ricevendo in tale occasione la conferma dell'investitura di Varano, Castelguelfo, Gali-nella, Corticelle e Castellina. Qualche anno più tardi, due figli di Nicolò, Giulio e Giovan Antonio, vennero banditi dai domini del duca di Milano, in quanto accusati di emettere monete false. Il 22 maggio 1472, questo concedeva loro la grazia. Nicolò morì nel 1494 e, dei suoi dieci figli, solo Alessandro e Giannantonio continuarono la discendenza. Nel 1499 Giulio e Cesare, figli di Nicolò, prestarono giuramento di fedeltà a Milano a Lo-dovico XII re di Francia, che aveva spogliato la casa Sforza dei suoi domini. Nel 1517 feudatari di Varano Marchesi erano Giannantonio, Brunorio e Nicola Pallavicino, i quali fondarono nell'antico castello l'Oratorio della Natività di M V. Nel 1574 il marchese Galeazzo Pallavicino istituì un pio legato all'altare dell'Oratorio; nel successivo anno Brunorio Pallavicino dotò l'oratorio di beni stabili, dopo che nel 1567 era stato nominato primo rettore Ruggero Ruggeri. L'oratorio seguì le sorti del castello, del quale non esistono oggi che pochi ruderi e, già pericolante la costruzione, il beneficio che vi era annesso fu trasferito (nel 1828) nella chiesa parrocchiale. Dal marchese Galeazzo era nato nel 1523 Giuseppe Pallavicino, medico e letterato, al quale nel 1547 la comunità di Borgo S. Donnino aveva affidato la missione di recarsi ad Augusta per ottenere dall'imperatore Carlo V uno sgravio delle spese per le sue milizie accampate in Borgo San Donnino. Insofferente del regime instaurato in questa città dal delegato di Carlo V, ordì una congiura contro il barone di Sesnec, ma, scoperto, fu gettato a languire per otto mesi in carcere, liberato per l'intervento di Ippolito Pallavicino di Scipione e Girolamo Pallavicino signore di Busseto. Il ramo dei marchesi di Varano si estinse nel 1782 con don Ercole, arciprete di Pieve Cusignano, e la loro eredità passò al casato dei Bergonzi. Il castello, di cui rimangono solo i ruderi del mastio, sorgeva a sud del paese, in località La Valle. Attualmente, a ricordo del passato, rimane anche un palazzo nobiliare nel centro del paese, che fu residenza dei Pallavicino. Il mastio del castello di Varano Marchesi. IL FEUDO DI VARANO MELEGARI L'importanza di Varano Melegari era legata alla sua posizione strategica per il controllo dell'accesso alla valle del Ceno e delle vie che conducevano in Liguria e a Roma. Il nome del paese fa riferimento alla famiglia dei Melegari, per lungo tempo notabili e ufficiali al servizio dei Pallavicino. Il suo castello è menzionato per la prima volta nel 1087, ed era nelle mani di Oberto I Pallavicino. Nel maggio 1249 a Pisa, l'imperatore Federico Il investì il marchese Uberto Pallavicino il Grande di numerose terre e castelli, situati negli episcopati di Parma, Piacenza e Cremona "Federicus divina favente clementia Romanorum imperator semper augustus faci-mus universis Imperii fidelibus tam praesentis aetatis quam in posterum successurae, quod nos castrum Buxeti de episcopatu Cremonae„ terram seu castrum Tablani, Bargonis, castrum vetus de Soranea, villas seu terras de Samboseto, de Medesano, de Varano Marchionum, de Varano Melegariorum de episcopatu Parmae... ". Nel 1395 l'imperatore Venceslao confermò a Nicolò Pallavicino, marchese di Busseto e Tabiano, anche il feudo di Varano Melegari. Dopo un periodo in cui Varano appartenne ai Terzi, nel 1413 l'imperatore Sigismon-do concesse a Rolando il Magnifico le investiture di Borgo San Donnino, Busseto e Varano Melegari, confermando questi privilegi già precedentemente in essere, e aggiungendo Monticelli d'Ongina con le ville di Castelvetro, Olza, San Giuliano e Isola dei Corradi. Sequestrato per qualche anno dai Visconti, in seguito alle divergenze con Rolando, Varano ritornò nel possesso del Pallavicino, che nel 1452 ristrutturò profondamente il castello, rendendo le sue mura più idonee a sopportare l'attacco delle armi da fuoco. Nel testamento di Rolando del 1453, modificato nel 1458 da Francesco Sforza su richiesta degli eredi, vennero assegnati al figlio primogenito Nicolò: Varano Marchesi, Castel Guelfo, Galinella e la villa di Miano. Non appare tra questi Varano Melegari, assegnato a Nicolò nell'originario testamento del 1453, ma più tardi questo feudo risultò in possesso della Camera ducale milanese. Successivamente, grazie ai buoni rapporti dei Pallavicino con Ludovico Sforza, Gian Francesco Pallavicino, ultimo figlio di Rolando il Magnifico e Marchese di Zibello, fu investito dal duca di Milano di Tizzano, Ballone, Serravalle, Varano dei Melegari (1481), Ruviano e Montesasso. Dei cinque figli di Gian Francesco, quello che si occupò di Varano fu Bernardo, dottore in diritto canonico e sacerdote, ma uomo violento e vizioso. In questa sua residenza portò Caterina di Zibello, dalla quale ebbe tre figli: Uberto, Pallavicino e Sigismondo. Da allora il castello di Varano Melegari rimase di proprietà dei discendenti di Gian Francesco (nel 1715 Alessandro Pallavicino provvide a lavori di ristrutturazione con la costruzione dello scalone), fino al 1782: estinzione del ramo della famiglia. Ma l'autonomia politica della famiglia era cessata già nel 1588 con l'annessione farnesiana al ducato di Parma e Piacenza. I Levacher, una nobile famiglia francese, acquistarono nel 1805 il castello, che, con la morte di Valentina, fu ceduto all'asta nel 1965 all'industriale parmense Tanzi e poi nel 2001 al Comune di Varano Melegari, che ne iniziò la ristrutturazione. Il Castello di Varano de' Melegari. LA SITUAZIONE POLITICA ALLA FINE DEL XIV E ALL'INIZIO DEL XV SECOLO Il milletrecento aveva portato la Signoria dei Visconti sulle città di Piacenza e Cremona, che avevano perduto la loro autonomia. Alla fine del XIV secolo massiccia era ancora la presenza della feudalità viscontea nel contado piacentino, soprattutto nelle zone strategiche di confine, mentre la nobiltà piacentina conservava vaste zone centrali e della montagna, ottenute per antiche investiture imperiali, anche se la sua autonomia si andava fortemente indebolendo. A sud del Po e procedendo da est verso ovest c'erano i Pallavicino, fortemente attestati nell'Oltrepo (alla destra del fiume), nella zona confinaria con Parma, nelle vallate dello Stirone, dell'Ongina e dell'Arda; Fioren-zuola e Castell'Arquato erano ancora in mano agli Scotti; nelle vallate del Vezzeno e del Riglio, a Gropparello, Sarmato, Gusano, Tonano, Seggiola erano presenti i Fulgosi; a Rezzano e Badagnano c'era la signoria degli Arcelli. Gli Anguissola controllavano già buona parte della val Nure e val Trebbia; l'alta val Taro e la val Ceno con Borgotaro e Bardi erano in mano ai Landi che controllavano anche Rivalta, nonché Alseno, Chiavenna Landi e San Pietro in Cerro.13 Alla morte improvvisa del duca Gian Galeazzo (3 settembre 1402), il dominio visconteo attraversò un periodo di crisi: in tutto il Ducato le città assoggettate insorsero e riesplosero le lotte tra guelfi e ghibellini. Nel piacentino, in mancanza di un soggetto politico in grado di prevalere, i vari Signori cercarono di concludere tregue, accordi commerciali e anche alleanze per cautelarsi contro possibili minacce. Un esempio fu la pace stipulata nel 1404 dai marchesi Pallavicino di Pellegrino con i nobili Scarpa di Vianino, mentre, sempre nello stesso anno, una lega univa i Pallavicino, i Malnepoti di Cortemaggiore, i Rossi per difendersi da Ottobono Terzi che in quegli anni commetteva razzie nei confronti di ville e castelli del piacentino e del parmigiano. Il 21 novembre 1404 il Comune e gli uomini di Pescarolo, avendo necessità di un buon difensore, protettore e governatore contro i ribelli al duca di Milano, impegnato in difficili guerre, donarono al marchese Rolando Pallavicino la terra, il castello e le pertinenze di Pescarolo. A Cremona il vuoto di potere favorì il risorgere delle vecchie aspirazioni alla signoria da parte di quelle famiglie che erano state sconfitte da Gian Galeazzo. 13 AUTORI VARI, Storia di Piacenza - VoI.III, p.82. Tra il 1403 ed il 1420 si alternarono, nel dominio di Cremona, Ugolino Cavalcabò (1403-04), Carlo Cavalcabò (1404-06) e Cabrino Fon-dulo (1406-20), tutti e tre cremonesi. Nel 1406 "Orlando (Rolando) Pallavicino ebbe in quest'anno assai travaglio non solo dalla guerra di Borgo San Donnino ma da Gabrino Fondulo altresì, il quale coi continui ladronecci quasi condusse distruzione la terra di Cortemaggiore, e le ville di Soarza, di Besenzone e di S. Martino (Hist. Pallav.Ms a.c.24 t)". Per mantenersi al potere, Cabrino Fondulo si destreggiò nelle lotte dell'epoca, ora alleandosi con i Visconti ed ora combattendoli secondo l'opportunità del momento e cercando il riconoscimento della propria signoria dall'imperatore Sigismondo che egli invitò a Cremona, insieme a papa Giovanni XXIII.14 Catturato da Filippo Maria Visconti fu decapitato il 12 febbraio 1425.15 14 Fu uno dei tre papi eletti contemporaneamente negli ultimi anni del grande scisma di occidente(1378-1417). 15 Prima che il boia alzi la scure, il confessore gli chiede: "Orribile peccatore, sterco del demonio, infame traditore; di quali dei tuoi mille nefandi delitti più amaramente ti penti, ora che sei sulla soglia della morte?" "Ah, risponde il condannato torcendo la testa a guardar fisso il frate, mi pento di quella volta che sono venuti a Cremona l'imperatore e il papa, e io li ho accompagnati in cima al Torrazzo per fargli vedere il panorama, e avrei potuto buttarli di sotto tutti e due e conquistare così gloria immortale a me e alla mia città. Ma mi è venuto in mente solo quando eravamo già ridiscesi in piazza". L.MANINI, Memorie storiche della città di Cremona - 1819. IL MARCHESE ROLANDO PALLAVICINO IL MAGNIFICO Nel 1401 morì Nicolò Pallavicino, lasciando come unico erede Rolando; questi era nato a Polesine P.se il 13.6.1394 da Nicolò e da una popolana del luogo: alla morte del padre, che lo aveva legittimato, non aveva che sette anni. Preso a ben volere da Giovanni Maria Visconti, signore di Milano, crebbe alla Corte ducale, ottenendo dallo stesso signore conferma, con due distinti Diplomi del 3.5.1405 e 29.1.1410, dei beni e privilegi concessi dagli imperatori Carlo IV e Venceslao. Rolando operò senza sosta, anche con la spregiudicatezza propria dei secoli della "Signoria", avendo come obiettivo primario il mantenimento della propria indipendenza e quella del proprio Stato, la cui organizzaZione ed il cui ampliamento furono la sua preoccupazione costante. I suoi cambiamenti repentini di alleanze e anche certe azioni come la cattura e la detenzione nel 1410 del vescovo Branda, legato del Papa, e del suo seguito, rilasciato solo dopo il pagamento di 1.200 ducati d'oro di riscatto, somma che gli serviva per le spese di guerra e l'organizzazione di una zecca per coniare monete false, miravano ad un unico scopo: ingrandire, rafforzare, rendere compatti i suoi possedimenti. Nel 1410 riuscì ad ottenere, dietro esborso di una forte somma, la cessione di Borgo San Donnino da Cabrino Fondulo, signore di Cremona, il quale l'aveva da poco tolta ai Terzi: quindici anni dopo, il duca Filippo Maria Visconti, confermandogli i diritti, privilegi, donazioni e concessioni fatte a Rolando dal suo predecessore e fratello Giovanni Maria, gli chiese la restituzione di Borgo San Donnino, con la giustificazione che questo era stato usurpato ai Duchi di Milano dal condottiero Otto Terzi, e riteneva la signoria dei Pallavicino, nel frattempo, come una fedele custodia mantenuta per il Duca. Nel 1413 Rolando prestò giuramento di fedeltà all'imperatore Sigismon-do, il quale gli rinnovò l'investitura, concessa dai precedenti sovrani, dei castelli di Borgo S. Donnino, Busseto e Varano, aggiungendovi quella di Monticelli d'Ongina, che si dice avesse Rolando acquistato da poco con mezzi illeciti, colle ville di Castel Vetro, S. Giuliano, Olza e Isola dei Cor-radi. L'investitura venne confermata nel 1426 da Filippo Maria Visconti. Nell'ottobre 1415, tra il marchese Rolando Pallavicino ed il marchese Francesco Lupi di Soragna, venne firmato un impegno a vivere in pace, dopo il tentativo di alcuni uomini dello stesso marchese Francesco d'impadronirsi del Castello Vecchio (Castellina) di Soragna, appartenente al Pallavicino. 11 10 maggio 1419, il duca Filippo Maria Visconti, spodestati gli Arcelli dalla Signoria di Piacenza, conferì a Rolando il titolo di Cittadino di Piacenza: era un modo per legare sempre più a sé il Pallavicino. Ma per la sicurezza del proprio Stato, Rolando non esitò nel 1427 a mutare improvvisamente parte durante la guerra tra il ducato di Milano e la repubblica di San Marco, quando, alleato dei Visconti, temendo il crollo della loro potenza, li abbandonò per passare a Venezia.16 Alleandosi con i Veneziani, Rolando ottenne la promessa di essere protetto e difeso, di essere insignito della nobiltà veneta e di entrare a far parte del consiglio di Venezia; di essere aiutato a conquistare Borgo S. Donnino e Castel Guelfo, di poter estrarre sale dai propri pozzi e di disporne liberamente, di poter continuare ad esigere i dazi sul Po.17 Per scongiurare l'alleanza,. Filippo Maria Visconti promise a Rolando la restituzione di Castel Guelfo, ma i giochi ormai erano fatti e al duca di Milano non restò che dichiarare ribelle il Pallavicino. Il 19 aprile 1431 Filippo Maria Visconti pregò l'imperatore Sigismondo di far pressione sul marchese Rolando affinché abbandonasse l'alleanza con i Veneziani e si unisse a lui. Il 5 gennaio 1432 venne concluso il patto tra il duca di Milano e il Pallavicino, il quale si impegnava ad abbandonare l'alleanza con Venezia e a ritornare come fedele suddito all'ubbidienza del duca stesso. In cambio il Visconti riconosceva a Rolando tutti i diritti riconosciuti in precedenza dai veneziani, compreso il possesso di Castel Guelfo e Galinella.18 l6 Nel 1427 l'armata navale della Serenissima, risalendo il Po, giunse a Polesine, dove Rolando aveva un castello, con 50 galeoni, due galere, dodici ganzere e trenta barche. Sbarcato l'esercito di terra, i Veneziani posero il quartiere generale a Busseto, insediandosi con 400 uomini. Inoltre il 18 settembre Rolando Pallavicino diede libertà di passaggio sul Po, presso Polesine, a 2000 soldati della Lega contro il Duca di Milano. Il Visconti, pieno di rabbia per il tradimento del Pallavicino, fece pubblicare il 16 ottobre una grida, per rendere noto come Rolando "ingrato ai ricevuti benefici da lui e da tutta la sua famiglia" si era ribellato ed associato ai nemici e lo proclamava "violatore della fede, sprezzatore del proprio onore, infame traditore". E. SELETTI, La città di Busseto - vol. I , p.125. 17 Ottenne inoltre la promessa dell'esenzione da qualsiasi tipo di oneri e tributi per i propri castelli e le proprie ville e la separazione dei medesimi dalle città nei cui distretti essi si trovavano. I castelli e le ville ricordati erano: Busseto con Besenzone e Castelvetro, Polesine, Ardola dei Rastelli e Isola dei Bozardi, Castel Vecchio di Soragna detto Castellina, Tabiano, Solignano, Torre Marchesi detta Castel Guelfo, Varano Melegari con Banzola, Vessiano e Monte Mamelo, Costa Mezzana, Samboseto, Castione Marchesi, Monticelli d'Ongina. 18 Filippo Maria s'impegnava poi ad operare per la conclusione dei matrimoni di uno dei figli, Nicolò, e di tre figlie del marchese, rispettivamente con Dorotea Gambara, Gaspare Visconti detto Filippo Maria, Giovanni Anguissola e Nicolò da Mirandola. Inoltre dal momento in cui Rolando avesse reso noto il proprio distacco da Venezia, suo figlio Nicolò avrebbe avuto 25 lance al soldo del duca e lo stesso Rolando 200 fanti, lance e fanti destinati a proteggere, in tempo di guerra, le terre del marchese. Quanto a Pescarolo, se Rolando fosse riuscito a prenderlo, ne avrebbe ottenuta, come da lui desiderato, la signoria. D'altra parte, Rolando non perdeva occasione, quando gli si presentava, per dare l'assalto a castelli od occupare terre di signori limitrofi; quando poi terre, luoghi e castelli, che gli premeva possedere, non poteva averli in altro modo, ricorreva al denaro: comprò Santa Croce (frazione attuale di Polesine) nel 1423 e da suo cugino Antonio la metà di Zibello; nel 1439 acquistò in Piemonte il feudo di Stupinigi. Nel 1441 Filippo Maria Visconti ordinò al comune di Fiorenzuola di riconoscere come suo signore il marchese Rolando; il 10 ottobre lo stesso duca gli vendette le ville di Corte Maggiore e S. Protaso. Solo 9 giorni dopo, Niccolò Piccinino, consigliere di Filippo Maria Visconti, incolpò Rolando d'infedeltà e il duca di Milano autorizzò il Piccinino ad occupare e a confiscare le terre di Busseto e Fiorenzuola. Nel 1445 "restò persuaso il duca della fedeltà, schiettezza e generosità d'animo del Marchese Rolando, lo accettò nuovamente nella sua grazia e gli restituì una parte delle Terre e Castella, che dianzi, come a traditore, gli erano state confiscate".19 Dunque Rolando Pallavicino, esponente d'una famiglia di antica feudalità imperiale, se da un lato vedeva confermare varie investiture concesse ai Pallavicino dall'impero, dall'altro lato, per ineluttabile necessità storica, dovette accontentarsi di riceverle per investitura ducale, venendo assoggettato anche a un vassallaggio verso Filippo Maria Visconti, che in quell'atto dichiarava che quei luoghi appartenevano per diritto legittimo alla Camera Ducale. Nel 1450 Francesco Sforza divenne duca di Milano, grazie anche all'aiuto prestatogli dai Pallavicino, due dei quali, Gian Lodovico e Pallavicino, figli di Rolando, furono creati nell'occasione Cavalieri. 11 duca di Milano intervenne poi, nominando un arbitro, nella lite tra Raimondino Lupi e Rolando Pallavicino a motivo dei confini di Samboseto. L'amicizia con Francesco Sforza gli garantì la sua protezione e l'aiuto nel riprendersi le terre che gli spettavano, garantendogli alcuni anni di pace fino alla morte avvenuta il 5 febbraio 1457. 11 25 luglio 1453, nella rocca di Monticelli, aveva dettato, in rispetto della 19 C.POGGIALI, Memorie storiche della città di Piacenza - vol.I-5, Piacenza 1757-58. cit. VII p.136 s. legge Longobarda, sotto cui vivevano i Pallavicino, il suo testamento, assegnando alla sua morte ingenti somme per le otto figlie e ad ognuno dei sette maschi, avuti dalla seconda moglie Caterina Scotti di Agazzano, una porzione dei suoi possedimenti. Il Magnifico Rolando Pallavicino, nobile veneziano, in una tela del XVI secolo. Coll. Privata. Stemma della famiglia Pallavicino. Litta: Albero genealogico dei Pallavicino — Biblioteca Fondazione Cariparma Busseto. La corona indica il Titolo di Città, concesso dall'imperatore Carlo V a Busseto nel 1533. GLI STATUTI PALLAVICINI Più ancora che per l'abilità politica, per la capacità di giostrare tra i potentati dell'Italia padana e per le sue doti di valente uomo di guerra, che gli permisero di concentrare nelle proprie mani gran parte degli antichi domini aviti, Rolando, passato alla storia col titolo di "Magnifico", merita di essere ricordato soprattutto per l'opera di riassetto e riorganizzazione interni del suo "Stato", opera che culminò con l'emanazione di un corpo di norme note con il nome di "Statuti Pallavicini" e destinate ad essere applicate per tre secoli. Nel corso del XV secolo gli statuti svolsero una funzione importante nella vita giuridica degli Stati, principalmente perché disciplinarono le istituzioni e le magistrature, ma anche perché contribuirono a consplidare gli aspetti della tradizione giuridica locale e costituirono un freno contro l'arbitrio di funzionari e ufficiali locali. Tali caratteristiche furono proprie anche degli "Statuti Pallavicini", la cui compilazione risale al 1429, periodo dell'alleanza di Rolando con Venezia contro Filippo Maria Visconti. In quegli anni il marchese Rolando sperava di potersi sganciare dai legami di subordinazione che lo tenevano unito al Visconti, cercando di rafforzare la propria àutonomia e d'ingrandire i propri domini. Il testo degli Statuti mostra come Rolando, all'epoca in cui videro la luce, si trovasse in una condizione di totale indipendenza da qualsiasi potenza egemone. Non vi è infatti in esso alcun riferimento ad un'autorità al di sopra di quella del marchese. Rolando, dunque, seppe cogliere il momento più opportuno per dare un corpo di leggi al proprio feudo e alle comunità che lo popolavano, giacché mai più come allora si trovò così libero di agire e di scegliere, libero dalla necessità di sottoporre all'approvazione di un'autorità superiore un'opera così importante per la vita interna del proprio Stato. Il giurista pisano Agapito Lanfranchi, vicario del marchese, s'ispirò nella compilazione agli statuti di Parma e Cremona, nei cui distretti si trovava la maggior parte dei domini del marchese e con le quali ebbe frequenti scambi economici e, conseguentemente, anche rapporti legislativi e giuridici. Tipico esempio di legislazione signorile, emanata cioè per volontà diretta del signore senza che le comunità rurali vi avessero parte alcuna20, questo loro carattere va posto in relazione con l'esistenza di un potere dei marchesi fondato su una diretta investitura imperiale, comprendente 20 E.NASALLI ROCCA, Gli statuti dello Stato Pallavicino e le "additiones" di Cortemaggiore B.S.Pc, XXI, 1926, p.152. anche l'autorità di emanare norme giuridiche. Una legislazione che era specchio fedele di un'organizzazione sociale e politica a base rurale, che tale resterà perché nessuno dei castelli pallavicini riuscì mai ad acquistare i caratteri e l'importanza di un centro commerciale e industriale. C'è da dire che, ai tempi di Rolando, i giochi erano ormai fatti: gli stati regionali si erano ormai definitivamente affermati e non c'era spazio per la crescita di una nuova signoria.21 Gli Statuta Pallavicinia sono divisi in due libri: Il primo, "Super civilibus negotijs disponentum", è formato di 58 rubriche e contiene la materia civile; il secondo, "Super causis criminalibus e damnorum datorum e aliorum extraordinarium", 78 rubriche, contiene la materia penale. Materia civile: le norme stabilivano che nessuno potesse essere citato senza licenza del podestà o di altro ufficiale a ciò deputato (Rub:1 e 24), il quale "sedeva al banco" un'ora di mattino, tra le otto e le nove, e due ore verso sera. I contadini non potevano essere citati nei periodi nei quali si svolgevano la raccolta delle messi (4 giugno-1 agosto) e la vendemmia (8 settembre-1 ottobre) (Rub.20). Le cause che non superavano il valore di 5 lire imperiali venivano definite informalmente, a discrezione del podestà; per le cause maggiori era prevista una rigida procedura, in ogni caso dovevano essere terminate entro 60 gg. dal loro inizio (Rub.4-5). Nei giorni di domenica ed in altri quarantatre giorni considerati festivi non si tenevano udienze che sommariamente per le vedove, gli orfani, i poveri (Rub.20), categorie che, insieme con quelle dei minori e dei mentecatti, risultavano esplicitamente protette. Minore era considerato l'individuo che non aveva compiuto i 20 anni; fino a tale età non gli era consentito di stare in giudizio da solo senza il padre o il tutore (Rub.17). Alla sentenza doveva esser data al più presto esecuzione. Tuttavia, colui contro il quale era stata ordinata aveva tempo tre giorni per opporvisi (Rub.28) e il giudice, che aveva emesso pronuncia ingiusta, era obbligato all'indennizzo della parte lesa (Rub.19). A chi moriva senza aver fatto testamento succedevano nell'ordine i figli, i parenti non oltre il quarto grado, donne comprese, il Fisco, cioè la Camera marchionale (Rub.53). 21 G.CHITTOLINI, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Sec. XIV e XV - 1979, p.31. Nessuno poteva essere escluso dall'eredità del padre o di alcun altro parente per non averne vendicata l'uccisione (Rub.55). Con questa disposizione veniva superata la barbara consuetudine, codificata in altri Statuti, che considerava ereditaria la vendetta e infame chi non l'avesse attuata. Era d'altra parte usato ogni mezzo, anche coercitivo, che potesse contribuire ad appianare e comporre le liti fra parenti (Rub.26), che evidentemente erano numerose. Nell'intento dichiarato di favorire un aumento della popolazione, erano concesse esenzioni da oneri vari a coloro che fossero venuti ad abitare da altri luoghi (Rub.43-49-51). Materia penale: Erano puniti con la morte per impiccagione il reo di furto per la terza volta recidivo (Rub.25), il rapinatore che su strade pubbliche avesse rubato una somma superiore a 20 soldi imperiali (Rub.25), il reo di lesa maestà o di trame contro lo Stato (Rub.26), l'assassino (Rub.28). Venivano decapitati l'omicida (l'assassinio rispetto all'omicidio era un reato commesso con maggior efferatezza) (Rub.27), l'incendiario di case, chiese e conventi (Rub.30), il reo di sequestro di persona che durasse più di tre giorni (Rub.42) e il colpevole di ratto con stupro, nei confronti di una donna, vedova o sposata che fosse (Rub.41).22 Il sodomita (Rub.41), il falsificatore e il tosatore di monete (Rub.37) erano mandati al rogo. Era prevista l'amputazione della mano destra per il ladro recidivo (Rub.25), per chi falsificava il sigillo del Signore (Rub.38); l'amputazione del piede destro per chi avesse tenuto sotto sequestro una persona per meno di tre giorni (Rub.42); della lingua per chi offendeva Dio e la Madonna (Rub.10); del pollice destro per chi faceva le fiche contro Dio, la Madonna e i Santi (Rub.12). I condannati per tutti questi reati potevano evitare la menomazione corporale pagando forti multe. Era punito con il taglio della lingua chi testimoniava il falso o produceva falsi testimoni (Rub.36). La pena più comunemente applicata, quella pecuniaria, variava da un massimo di 200 lire imperiali (Rub.42) ad un minimo di pochi soldi imperiali (Rub.53). 22 La pena non veniva applicata se lo stupro era seguito dal matrimonio, oppure era ridotta al pagamento di 50 lire imperiali se lo stupro era avvenuto senza ratto (cioè consensuale) nei confronti di una donna che non fosse notoriamente una meretrice, tale era considerata colei che si era data a due o più uomini. La pena per la donna era la fustigazione. E.NASALLI ROCCA - 1927, p.22. Veniva multato il giocatore d'azzardo e il biscattiere, l'oste che vendeva il vino al minuto in recipienti non bollati, il fornaio che non faceva il pane bianco e a prezzo di calmiere, il macellaio e il mugnaio disonesti, l'inquilino o il colono che rifiutasse di restituire l'immobile locato al legittimo proprietario dopo scaduto il contratto, il camparo che tagliasse o permettesse di tagliare legna dei boschi del signore senza sua licenza. Per i delitti commessi i minori di 14 anni non potevano essere condannati né a morte né all'amputazione di alcun membro del corpo. Spettava ai consoli, eletti, uno per ciascun luogo o villa, dagli abitanti, ogni anno all'inizio di gennaio (Rub.7), denunciare ai giudici i delitti entro cinque giorni dal momento in cui erano stati compiuti; i campari invece, scelti allo stesso modo dei consoli, ma in numero maggiore, avevano il compito di vigilare sulle campagne e di denunciare, entro tre giorni, i danni apportati da uomini e animali alle colture, danni che venivano valutati dagli extimatores (Rub.7-75). La Rocca di Busseto, veduta anteriore. L'accusato o il denunciato riceveva la comunicazione giudiziaria a mezzo di corriere e gli erano concessi due o tre giorni per comparire davanti al giudice. Se invece era forestiero, l'accusa o la denuncia nei suoi confronti veniva proclamata ad alta voce in tribunale e nella piazza ed egli aveva cinque giorni per presentarsi (Rub.2). In caso di mancata comparizione, l'accusato era considerato contumace e dichiarato bandito in tutto il territorio dello Stato (Rub.2). Nelle cause penali, che dovevano concludersi nel termine di quaranta giorni, non era ammessa possibilità di appello, le sentenze erano immediatamente eseguite (Rub.55). La Rocca di Busseto, veduta posteriore. Acquarello conservato nella Villa Verdi di Sant'Agata. Con lo scopo di dare ordine e stabilità alle terre soggette alla sua signoria, Rolando pose il castello come centro di funzioni sia difensive che amministrative-giurisdizionali. A questo facevano capo alcune ville o comunelli. Nel castello il marchese teneva un certo numero di ufficiali con compiti specifici: il podestà rappresentava il sovrano e a lui competeva in particolare l'esercizio dell'autorità giudiziaria; al castellano veniva affidata la custodia del castrum, incarico che richiedeva una speciale competenza militare. Vi era poi il connestabile, preposto alla custodia delle porte del castello ed aveva normalmente alle sue dipendenze alcune guardie, mentre il gastaldo sovrintendeva all'amministrazione dei beni del signore. Busseto, oltre che capitale politico-militare del piccolo Stato, ne diventò, con Rolando, anche la capitale economica e religiosa. Nel 1426, ad esempio, in un periodo di relativa tranquillità, Rolando, per dare impulso al commercio, istituì una fiera da tenersi ogni anno nei primi tre giorni di novembre nella piazza, sotto i portici e nelle vie adiacenti, stabilendo che vi potesse essere esposta ogni tipo di mercanzia, tranne gli animali, per la vendita dei quali veniva messo a disposizione uno dei prati che circondavano il castello. Erano esentate dal dazio le bestie che entravano, tranne quelle da ghianda. Nei giorni della fiera anche i debitori e i delinquenti potevano recarsi a Busseto, godendo dell'immunità. LA COLLEGIATA DI SAN BARTOLOMEO Nel 1336 Oberto Pallavicino aveva dato inizio alla costruzione di una chiesa a Busseto, che fosse di maggior prestigio rispetto a quella in essere di S. Nicolò, per un paese che nel frattempo si stava sviluppando sempre di più. Questa chiesa, dedicata a San Bartolomeo, fu retta per 100 anni da un parroco, con il titolo di rettore. Nel 1432 Rolando Pallavicino presentò richiesta al Capitolo di Cremona (Busseto faceva parte della Diocesi di Cremona) perché fosse assegnata alla Chiesa di Busseto la dignità Prepositurale con un Preposto, quattro canonici e due Prebendari, offrendosi di fornire, a proprie spese, le rendite necessarie per il mantenimento del clero e per il decoro del culto, con riserva però del diritto di patronato; chiese inoltre che alcune chiese,venissero sottoposte a quella di Busseto, promettendo di restaurarle e dotare le più povere. Ottenuto il consenso dal vescovo di Cremona, il Pallavicino ricorse a Papa Eugenio IV per ottenere la conferma della concessione, ed il Pontefice da Bologna il 9 luglio 1436 con sua Bolla sancì l'erezione di San Bartolomeo in Collegiata. Le Chiese che vennero poste sotto la giurisdizione della Collegiata di Busseto, con la dignità di Prepositura; furono le seguenti: la chiesa della Pieve di Sant'Andrea, la chiesa di San Cristoforo nella villa di Vidalenzo, la chiesa di Santa Maria del Bosco campestre e la chiesa di San Geminiano presso Busseto. Le 22 chiese minori che, tolte dalla Chiesa cremonese, passarono nella giurisdizione della Collegiata furono: S.Giovanni Battista di Pieve Otto Ville, S.Giuliano della Pieve di San Giuliano, S.Pietro in Corte detta Prepositura, S.Niccolò di Castelletto dei Furgoni, S.Spirito di Borgo Santo Spirito, S.Giovanni di Motaro, S.Maria delle Spine, S.Leonardo dei Malumbri, S.Maria madre del Signore, S.Giovanni di Castel Vetro, S.Giorgio di Monticelli, S.Gregorio di Spigarolo, S.Giovanni di Soar-za, SS.Gervasio e Protasio di Zibello, S.Pietro di Ragazzola, S.Domenico dell'Isola dei Bozzardi, S.Vito di Polesine, S.Agata di S.Croce, S.Agata di Busseto, S.Niccolò di Busseto, SS.Trinità di Busseto, S.Valeria di Olza. Rolando inoltre s'impegnò a demolire la Chiesa di San Bartolomeo, per ricostruire su questa una Chiesa più ampia e di fabbricare comode abitazioni al Preposto, ai Canonici e ai Beneficiati. Il marchese s'impegnò molto per costruire questa importante realtà ecclesiastica a Busseto, motivo di prestigio e riconoscimento di un importante potere politico. La Collegiata di S. Bartolomeo. Questo provvedimento sancì la decadenza delle chiese pievane di San Giuliano, di Sant'Andrea e di Pieve Ottoville, le quali vennero declassate e assoggettate alla nuova collegiata. Un secolo dopo la stessa sorte sarebbe toccata alla pieve di San Martino in Olza dopo l'erezione della Collegiata di Cortemaggiore. La sorte delle pievi era la conseguenza dello sviluppo di altri centri politici nel contado: Castelvetro per San Giuliano, Busseto per Sant'Andrea, Zibello per Pieve Ottoville e Cortemaggiore per San Martino in Olza. Rolando il Magnifico. IL TESTAMENTO DEL MARCHESE ROLANDO Alla sua morte, avvenuta il 5 febbraio 1457, Rolando possedeva tredici castelli che, fin dal 1453, con disposizione testamentaria, aveva destinato ai suoi figli maschi, procedendo ad una divisione che rispondeva al principio esplicitamente dichiarato di mantenere unito il nucleo più consistente e compatto dei suoi domini. Di tali castelli infatti tre soltanto, Solignano, Varano Marchesi e Costamezzana, vennero assegnati singolarmente ad altrettanti figli, gli altri, vale a dire Busseto, Monticelli, Polesine, Zibello, Castellina, Torre Marchesi (Castel Guelfo), Tabiano, Bargone e Gallinella, furono lasciati congiuntamente agli altri quattro, col divieto assoluto per tutti di alienare la propria quota se non agli altri comproprietari e di non addivenire a divisioni per un periodo di cento anni. Le ultime volontà di Rolando non vennero però rispettate. Alcuni dei figli, che già avevano manifestato il proprio scontento e il proprio risentimento, quando egli era ancora in vita, ed erano ricorsi al duca di Milano, affinché facesse pressione sul padre per farle modificare, sentendosi lesi nei loro diritti, ne impugnarono la legittimità. Ne nacque una contesa, ad arbitro inappellabile della quale venne eletto il duca di Milano Francesco Sforza: una contesa che si rivelò rovinosa per le sorti della casa Pallavicino, i cui domini, alla fine, persero il carattere di signoria autonoma e vennero sottoposti al controllo della camera ducale. I risultati degli sforzi di Rolando, fautore di una concezione dell'organizzazione del potere anacronistica, ma assai viva ancora nella seconda metà del '400, che riteneva possibile la prospettiva di un assetto politico nel quale fosse garantita al piccolo Stato signorile pieno diritto di cittadinanza nell'ambito dello Stato regionale, in cambio del semplice riconoscimento della superiorità di un principe, si erano rivelati alla fine effimeri. Lo Sforza, che ambiva a indebolire la potenza pallavicina, se mostrava formalmente la sua grande amicizia, segretamente alimentava i dissensi tra i fratelli. Sulla base della sentenza, redatta dal suo segretario Cicco Simonetta, i Pallavicino erano tenuti a chiedere l'investitura, delle terre loro assegnate, allo Sforza, che non li confermò in tutti i privilegi ottenuti nei Diplomi imperiali, riservando alla Camera Ducale alcuni dazi e tributi: si ebbe quindi la trasformazione dei beni pallavicini da feudo imperiale a feudo camerale. I fratelli, che avevano consegnato nelle mani dello Sforza il loro diritto, si sottomisero senza alcuna riserva alla suprema potestà del duca di Milano, ottenendo successivamente da questi l'investitura dei loro feudi. Lo Stato veniva ripartito in questo modo: -A Nicolò spettò il feudo di Varano Marchesi, la Villa di Miano, Castelguel-fo e la Gallinella (22 miglia con 567 uomini d'arme). Con Nicolò ebbe origine il ramo detto dei Marchesi di Varano, estinto nel 1782. -Oberto ottenne Tabiano, la Castellina, metà di Solignano (miglia 17 con 491 uomini d'arme). Da lui discese il ramo dei Marchesi di Tabiano, estinto nel 1756. -A Gian Ludovico e a Pallavicino furono assegnate congiuntamente la Rocca di Bargone e Busseto con le ville e pertinenze, tra cui Cortemaggiore. -A Giovan Manfredo vennero date Polesine e Costamezzana; fu il capostipite dei Marchesi di Polesine, estinti nel 1731. -A Carlo, vescovo di Lodi, venne assegnato Monticelli d'Ongina. Con la sua morte, avvenuta nel 1497, Monticelli venne assorbito dalla Camera ducale. -Giovan Francesco, ultimogenito di Rolando, ebbe Zibello e l'altra metà di Solignano; fu il capostipite dei Marchesi di Zibello. IL FEUDO DI POLESINE Il primo documento in cui Polesine si trova nominato è un inventario dei beni dei monaci di Nonantola dell'ultimo decennio del secolo X; beni tra i quali figurano: "Ad Polisinum massaricias duas que detinet Obertus marchio cum suo nepote... ".23 All'inizio del XII secolo Polesine era sotto il controllo del vescovo di Cremona, mentre nel 1162 l'imperatore Federico I Barbarossa riconosceva tutta la zona dipendente dal comune di Cremona. Nel diploma d'investitura, concesso nel maggio del 1249 al marchese Uberto Pallavicino il Grande, troviamo elencata la villa Polexini Sancti Viti. Dopo il crollo della potenza di Uberto, Polesine tornò nelle mani del comune di Cremona e fu solo nel 1360 che l'imperatore Carlo 1V ne riconobbe l'appartenenza a Oberto Pallavicino. Con Rolando il Magnifico Polesine si arricchì di un castello e una rocca (1408); la sua costruzione corrispondeva all'esigenza di meglio difendere il luogo ed i suoi abitanti e di proteggere il porto sul Po, la cui importanza era andata aumentando nel corso del tempo: la fortezza è ormai scomparsa da secoli, inghiottita dalle acque del Po. Dopo la morte di Rolando (5 febbraio 1457), iniziò una contesa fra i figli, che contestavano la legittimità del testamento e ricorsero al giudizio inappellabile del duca di Milano; la contesa si rivelò rovinosa per le sorti della casa pallavicina, i cui domìni finirono per perdere la propria autonomia e vennero sottoposti al controllo della Camera ducale. Con la divisione dei beni, a Giovan Manfredo vennero assegnati Polesine e Costamezzana, ma la soluzione non sembrò gradita al marchese, che negli anni successivi entrò spesso in conflitto con i fratelli, con il frequente ricorso al duca di Milano perché intervenisse per un accordo definitivo. Il comportamento di Giovan Manfredo, ispirato ad estrema diffidenza, influì negativamente sia sulle relazioni con i sudditi che sui rapporti con la camera ducale, al punto da portare alla confisca dei suoi beni da parte del duca "per le trasgressioni e i demeriti del fu signor Giovan Manfredo". La scomparsa del marchese (1486) venne accolta con sollievo dalla gente di Polesine, che per molti anni aveva dovuto subire le sue pretese e le sue 23 Tiraboschi, doc.XCV, p.126. 1.:Oberto di cui il documento fa menzione è Oberto II della linea Obertina, quella stessa linea dalla quale discendono gli Estensi ed i Malaspina; quanto al nipote, si tratta di Oberto della linea Adalbertina, dalla quale discendono i Pallavici-no. La nota rivela come all'epoca la potente famiglia degli Obertenghi si fosse già inserita nella zona, probabilmente come livellari. imposizioni ingiuste e quando, nel 1488, suo figlio Gianottaviano riuscì a riavere il feudo, la comunità del luogo si premunì contro ogni evenienza, stipulando col nuovo signore patti ben chiari, relativi al rapporto feudatario-sudditi. L'accordo con la Camera ducale comportò l'esborso da parte di Gianottaviano di una rilevante somma in denaro. Nel 1498 il marchese, congiuntamente ai suoi 4 fratelli, decise di vendere il feudo di Polesine al marchese Rolando Pallavicino di Cortemaggiore, probabilmente allettato dalla forte somma di denaro offerta. L'operazione provocò una forte reazione da parte dei marchesi di Busseto, i quali temevano che, saldandosi i due feudi di Cortemaggiore e Polesine, potesse essere compromesso l'utilizzo di quello strettissimo lembo di terra, posto tra le due giurisdizioni, che era il solo mezzo per Busseto di raggiungere il Po. Evidentemente convinto delle motivazioni, il 20 febbraio 1499 il duca di Milano annullò l'atto, restituendo il feudo a Gianottaviano. Cinque anni più tardi fu Galeazzo, figlio di Pallavicino Pallavicino, signore di Busseto, ad acquistare in permuta dal cugino Gianottaviano il feudo di Polesine, che rimase in possesso ai marchesi di Busseto fino al 1569, quando si concluse una transazione tra il marchese Gerolamo, signo,re di Busseto, e alcuni discendenti di Gianottaviano, i quali mai avevano rinunciato ai loro diritti su Polesine e, con l'annullamento dell'atto di permuta del 1504, riacquistarono il feudo. Il ritorno di Polesine ai discendenti di Giovan Manfredo seniore, segnò l'inizio di un periodo di contrasti tra i marchesi e i loro sudditi, legati ai diritti sui mulini e sulle piarde del Po. Altra controversia fu quella con il marchese Gerolamo di Busseto, il quale aveva posto alla bocca dell'Ongi-na un porto, che veniva a danneggiare gli interessi dei signori di Polesine. 11 possesso in comune di Polesine tra i cugini, marchesi Ottaviano, Pallavi-cino e Camillo, non durò a lungo e, il 24 maggio 1572, essi procedettero al frazionamento del feudo in tre parti, in modo che ognuno, separatamente, potesse esercitare il proprio potere signorile e avere i propri sudditi. Dopo la morte del marchese Pallavicino Pallavicino, avvenuta nell'aprile del 1577, i suoi beni feudali passarono nove anni dopo agli altri condomini di Polesine (Ottaviano e Camillo), una volta appianata la vertenza col conte Antonio Maria Terzi, cognato del defunto e da questo designato come erede universale in mancanza di figli maschi. Verso la fine del Cinquecento, i Pallavicino vennero a trovarsi in contrasto con la Camera ducale milanese e anche con il vescovo di Cremona (fino al 1601 Polesine fece parte della diocesi di Cremona, per passare da tale data sotto la nuova diocesi di Fidenza): la posizione sul fiume con i tanti interessi collegati sollecitava gli interessi di tanti, ed ogni volta i marchesi di Polesine erano chiamati a documentare il loro buon diritto, derivante da concessioni e riconoscimenti imperiali. Con l'inizio del Seicento, dei diversi feudi che componevano la fascia padana dello Stato Pallavicino, ben poco era ancora sotto il controllo dei marchesi discendenti da Rolando il Magnifico. Busseto, Cortemaggiore e Monticelli erano stati incamerati, nel 1587, dal duca Alessandro Farnese e su Zibello signoreggiano i Rangoni, i quali restituiranno il feudo ai discendenti del marchese Giovan Francesco seniore nel 1630. Sol9 Polesine continuava ad essere posseduto dai discendenti di Giovan Manfredo, che lo avevano recuperato nel 1569. Ma sul territorio, sul quale viveva una popolazione numericamente modesta, dominavano quattro nuclei familiari, che diventarono sei nel corso del secolo: troppi per consentire una vita agiata a tutti. A peggiorare la situazione concorse la politica del duca Ranuccio I Farnese, rivolta a limitare il potere dei feudatari, e con l'emanazione di sentenze varie per crimini che comportavano la confisca dei beni. Non per caso molti dei Pallavicino di Polesine, nel corso del XVII secolo, cercarono la via per riuscire a condurre un'esistenza in linea con il loro titolo di marchese, attraverso il matrimonio con rampolli di famiglie agiate, una collocazione a corte, oppure percorrendo una brillante carriera ecclesiastica, come nel caso del marchese Ranuccio, nominato cardinale nel 1706. Era iniziato intanto quel processo che avrebbe portato, nell'arco di un secolo, all'estinzione del ramo dei marchesi di Polesine, discendenti da Gio-van Manfredo seniore. Nella divisione di Polesine del 1572, un terzo ciascuno era andato a Palla-vicino, Ottaviano e Camillo. Con la scomparsa nel 1577 del marchese Pal-lavicino Pallavicino, si estinse la sua linea non avendo avuto figli maschi; nel 1699 morì il marchese Carlo, ultimo rappresentante della linea che faceva capo a Ottaviano. Il marchese Camillo, a cui era toccato il quartiere di San Rocco, la parte mediana del feudo, aveva sposato anni prima Margherita, figlia del marchese Girolamo Pallavicino di Crema, che gli aveva portato in dote 8.000 scudi. Nel 1680, in mancanza di eredi maschi, fu il marchese Ranuccio, uno dei più illustri prelati della Chiesa romana, ad ereditare sia i beni feudali che allodiali. L'esistenza del cardinale Ranuccio, Polesine in una carta realizzata su rilievi di Smeraldo Smeraldi. Tra gli edifici sono raffigurati tre palazzi appartenenti rispettivamente ai marchesi Giulio, Ercole e Camillo Pallavicino (Archivio di Stato di Parma, Mappe e disegni, vol. 31/5). Porto e Rocca di Polesine: da una mappa della seconda metà del XVI secolo (Archivio di Stato di Parma, mappe e disegni, vol. 31, n.° 20/49). Da Nelle terre dei Pallavicino, Polesine di Carlo Soliani. Palazzo delle Due Torri di Polesine, compreso nei beni lasciati in eredità dal marchese Vito Modesto alla figlia Dorotea. Venne dalla Camera ducale ceduto al marchese Alessandro Pallavicino di Zibello, che reclamava i beni allodiali lasciati in eredità da Vito Modesto, marchese di Polesine. Enrichetta d'Este, 1728, moglie del duca Antonio Farnese e, in seconde nozze, del principe Leopoldo d'Assia Darmstadt, signora di Polesine tra il 1748 ed il 1764 (pastello eseguito da Rosalba Carriera e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze). nato a Polesine nel 1632, si concluse nel 1712; nel suo testamento lasciò i beni sia feudali che allodiali a Vito Modesto, in quanto "discendente da un ramo de' marchesi di Polesine sul Parmigiano, stato Pallavicino". 11 marchese, che aveva solo 14 anni, riunì nelle sue mani l'intero feudo, di cui ottenne l'investitura dal duca Francesco Farnese. Con lui, che terminò la sua breve esistenza nel 1731, si estinse la linea discendente dal marchese Giovan Manfredo seniore, capostipite dei marchesi di Polesine. Dettò le sue ultime volontà il 14 luglio di quell'anno, istituendo erede universale dei suoi beni, diritti feudali compresi, il ventre pregnante della moglie, marchesa Ottavia Pallavicino. I126 novembre 1731 nacque la figlia di Vito Modesto, alla quale venne dato il nome di Dorotea; la Camera ducale, proprio in quanto Dorotea era una femmina, ritenne, in mancanza di un erede maschio, di dover incamerare i feudi del marchese.24 Inutilmente la giovane marchesa tentò di recuperare il feudo di Polesine, mentre la Camera ducale lo vendette, nel 1748, alla principessa Enrichetta d'Este, vedova di Antonio Farnese. Dorotea, andata sposa al marchese cremonese Girolamo da Soresina Vidoni, ottenne solo alcuni beni allodiali compresi nel testamento del padre. Morì nel 1818, mantenendo sempre contatti con Polesine, nel cui territorio possedeva àlcuni poderi. 24 Nel 1721 era morta Anna Maria Pallavicino, altra figlia di Vito Modesto Pallavicino, signore di Polesine. Venne sepolta nell'oratorio di Santa Franca di Polesine. IL FEUDO DI MONTICELLI D'ONGINA Nel 966, in una transazione tra il vescovo di Cremona Liutprando e il conte Wilfredo, c'è il primo accenno alla presenza a Monticelli di un castello, inteso come complesso di edifici, centro dell'economia locale, delimitato da mura o un fossato. In seguito, probabilmente intorno al XIII secolo, sorse la prima Rocca, una costruzione massiccia edificata più a scopo militare che abitativo e punto centrale del castrum di Monticelli. Situato al confine tra Piacenza e Cremona, il territorio era conteso tra queste due realtà. Nel 1335 il comune di Cremona perse la sua autonomia e passò sotto il dominio di Gian Galeazzo Visconti: Monticelli diventò feudo del ducato di Milano. Nel 1413 Rolando Pallavicino prestò giuramento di fedeltà all'imperatore Sigismondo, il quale gli rinnovò l'investitura, concessa dai precedenti sovrani, dei castelli di Borgo S. Donnino, Busseto e Varano, aggiungendovi quella di Monticelli d'Ongina, che si dice avesse Rolando acquistato da poco con mezzi illeciti, colle ville di Castelvetro, S. Giuliano, Olza e Isola dei Corradi. L'investitura venne confermata nel 1426 da Filippo Maria Visconti. E' all'iniziativa di Rolando il Magnifico, che Monticelli deve la costruzione della sua Rocca, l'imponente costruzione dalla struttura quadrata, con i torrioni rotondi angolari e il mastio all'ingresso. Nel 1453, nel castello di Monticelli, il marchese dettò il suo testamento, con il quale assegnava ai sette figli tutti i suoi possedimenti; cinque anni dopo, a seguito delle ripetute contestazioni degli eredi, il duca di Milano Francesco Sforza provvide con suo lodo inappellabile alla spartizione: Monticelli con la rocca venne assegnato a Carlo Pallavicino, sesto figlio del Magnifico, vescovo di Lodi dal 1456. Carlo era nato a Monticelli nel 1427, studiò all'Università di Bologna, proseguendo gli studi a Parigi, dove si laureò alla Sorbona. Iniziata la carriera diplomatica al servizio del re di Francia, si vide subito affidare importanti incarichi. Il desiderio di seguire la via del sacerdozio lo indusse però a lasciare la vita diplomatica e già a 27 anni il papa Nicolò V lo nominò suo Elemosiniere e poi Protonotario Apostolico. Il nuovo papa Callisto III gli confermò la fiducia di cui godeva con il suo predecessore e il 21 giugno 1456 lo nominò vescovo di Lodi. Pur assorbito dalla cura della grande diocesi lombarda, mons. Carlo Palla-vicino non dimenticò il suo paese e, nel 1469, rivolse domanda al pontefice Paolo II, perché autorizzasse l'erezione di una Chiesa collegiata sotto il titolo di San Lorenzo in Monticelli. In accoglimento della supplica, con due bolle, rispettivamente del 1470 e del 1471, il pontefice autorizzò la costruzione della nuova chiesa, che doveva essere officiata da un prevosto e da un capitolo di quattro canonici, quattro prebendari e due chierici. A don Matteo Bottazzi, primo canonico prevosto della Collegiata, subentrò nel 1513 don Giovambattista Pallavicino (diventato in seguito cardinale), appartenente al ramo genovese del nobile casato. La nuova chiesa collegiata prepositurale, costruita a spese di mons. Carlo, venne completata e benedetta nel 1480 e ad essa furono assegnate le chiese di: S. Pietro in Corte (S.Pedretto), S. Giorgio (allora dipendente dai benedettini di Nonantola) e S. Giovanni (dipendente dalla plebana di Polignano) entrambe di Monticelli; S.Maria delle Spine, S.Maria Mater Domini (la Chiesa di Mezzano Chitantolo), dello Spirito Santo (la Basti-da), S.Giuliano (l'antica pieve), Castelvetro, Olza, Castelletto, S.Nicolò degli Arciboldi e l'Isola dei Corradi. A Busseto, che oltre a Monticelli perdeva altre nove chiese, venne assegnata, come indennizzo, un'annuale simbolica offerta di un cero votivo, in occasione della festa del Santo, a carico della collegiata di Monticelli. Il marchese Carlo Pallavicino morì a Monticelli il 1° ottobre 1497, in fama di santità, e i canonici di Lodi si azzuffarono con quelli di Monticelli per il possesso della salma, che alla fine resterà nel paese di origine, custodita nella sua collegiata.25 Nel testamento il vescovo lasciava la giurisdizione del feudo al nipote Antonio Maria, con l'obbligo di scegliere il successore tra i figli maschi e di conservare integro il feudo stesso. Nel 1557 Sforza Pallavicino riunificò lo Stato Pallavicino (diviso un'ottantina di anni prima tra i figli di Rolando); in quel periodo nel castello di Monticelli era insediato il marchese Polidoro Pallavicino, che morì dieci anni dopo senza eredi maschi. La Camera Ducale farnesiana rivendicò allora il diritto sui due terzi del Feudo, lasciando il rimanente alla figlia di Polidoro, Lidia Pallavicino, che andò sposa al cavalier Gregorio Casali, il quale diventò così feudatario di una parte del territorio monticellese. Nel 1567 Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, investì del feudo Michele Casali, figlio di Lidia Pallavicino, con il titolo di Conte (innalzato alla dignità di marchese da Ranuccio II Farnese, dieci anni dopo); il 24 maggio 1650, Francesco Casali, pronipote di Gregorio, comperò dalla camera ducale Farnese 25 I resti di Carlo Pallavicino furono riesumati tre volte. La prima, il 12 giugno 1546, portò a constatare lo stato incorrotto della salma. La seconda ricognizione avvenne nel 1686 con lo stesso risultato, mentre l'ultima, il 20 settembre 1916, fu compiuta alla presenza del vescovo di Lodi, dei parenti del marchese Pallavicino e diverse autorità civili. Questa volta il corpo risultò decomposto, mentre dal cranio aperto si intuiva la presenza di un ragno. (Mons. Carlo Pallavicino vescovo di Lodi, ed. Il Pomerio-Lodi, 1997). la metà dei due terzi del feudo che gli stessi Farnese avevano avocato a sé, accentrando nelle sue mani quasi tutto il primitivo territorio del feudo pallavicino di Monticelli. Francesco Casali rimase anche Conte di Castelvetro Piacentino fino al 1691, quando vendette quelle terre al nobile piacentino Federico II Cop-palati. La Rocca di Monticelli O. L'edificio è di forma rettangolare, con quattro torri rotonde agli angoli ed il mastio sul portone d'ingresso. Nel 1967 la parrocchia di Monticelli acquistò dal marchese Casali la Rocca, per utilizzarla per le Opere parrocchiali. Un sopralluogo, effettuato dal parroco con alcuni incaricati della sovraintendenza ai Beni Culturali per le province di Parma e Piacenza, accertò l'esistenza di un piccolo vano, dalla struttura singolare, dove qualche screpolatura dell'imbiancatura lasciava intravedere zone colorate sottostanti. Compiuti gli opportuni assaggi tecnici, ci si convinse di trovarsi di fronte alla Cappella di Corte. Consacrato vescovo di Lodi e diventato Signore del feudo di Monticelli, Carlo Palla-vicino aveva voluto che la cappellina della Rocca, nella quale era solito celebrare la Santa Messa durante la sua permanenza in paese, venisse abbellita secondo precise idee catechistico-liturgiche. L'opera di affrescatu-ra fu affidata a Bonifacio Bembo, affermato pittore bresciano del tempo, che aveva già dato prove delle sue capacità in diverse chiese di Cremona e in case signorili dei vari potenti dell'epoca. L'opera pittorica fu condotta a termine dal Bembo, che si avvalse forse verso la fine dell'aiuto del fratello Benedetto, dopo la metà del Quattrocento: nella cappella della Rocca di Monticelli abbiamo così uno dei cicli migliori della pittura italiana quattrocentesca, con episodi della vita di San Bassiano, predecessore di Carlo Pallavicino sulla cattedra vescovile di Lodi, affreschi della vita di Gesù, della Madonna e dei Santi. In una spalla della finestra è raffigurato in abito prelatizio con mantellina Carlo Pallavicino, committente della cappellina. Il vescovo Carlo Pallavicino. Affresco di R. De Longe. La facciata originale della Basilica, in stile gotico-lombardo, e prima della nuova facciata del 1877. I MARCHESI PALLAVICINO SIGNORI DI ZIBELLO Con l'investitura del 1249 da parte di Federico II, Uberto Pallavicino il Grande ottenne oltre cinquanta località (22 castelli e trentantadue ville), tra le quali Busseto, Zibello, Santa Croce, Ragazzola, Polesine Manfre-di, Polesine S.Vito, Samboseto, Solignano, Ravarano... Con la sconfitta dell'Impero, Uberto perse il piccolo Stato e, dopo la sua morte, fu Manfredino, suo figlio e successore, a tentare una difficile opera di recupero, che iniziò a concretizzarsi solo a partire dal 1311, con la discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII, che reintegrò il Pallavicino nel possesso di Zibello, Ragazzola ed altri luoghi. Dopo la morte di Manfredino, la divisione del patrimonio familiare assegnò ad Oberto il polo giurisdizionale di Busseto e Solignano con le loro pertinenze, mentre a Donnino Toccava quello di Zibello e Ravarano. Nel 1349, alla morte di Donnino, la sua eredità passò ai figli Federico (Zibello) e Giovanni (Ravarano). Con il marchese Rolando il Magnifico, che provvide a organizzare il proprio piccolo Stato, dotandolo di un corpo di leggi dette Statuti Pallavicini, il feudo di Zibello giunse a comprendere anche i comunelli di Santa Croce, Ragazzola e Pieve Ottoville. Dopo la sua morte, avvenuta il 5 febbraio 1457, nacque tra i sette figli di Rolando una contesa per la divisione dell'eredità, che portò al giudizio inappellabile di Francesco Sforza signore di Milano, che provvide alla ripartizione. All'ultimogenito Giovan Francesco, nato nel 1439, toccò in eredità Zibello, che diventò così la capitale della sua minuscola signoria, e metà di Solignano. Durante i 40 anni del suo governo, Giovan Francesco mostrò fermezza ed equilibrio, conquistando stima e rispetto da parte dei propri sudditi. Le sue doti vennero apprezzate anche alla corte di Milano, dove divenne prima cameriere (1476) e poi consigliere ducale (1480). Con Giovan Francesco si estese il feudo di Zibello, che arrivò a comprendere anche Stagno, Tolarolo, Polesine Manfredi (1480), Tizzano, Varano Melegari (1481), Roccabianca e Fontanelle del Pizzo (1483). Giovan Francesco intraprese una serie di opere nel castello di Zibello, ristrutturando la rocca e trasformandola, da baluardo esclusivamente militare, nel centro della vita anche culturale della piccola corte. L'opera di sistemazione urbanistica continuò poi con la costruzione, entro le mura del castello, della monumentale chiesa dei SS. Gervaso e Protaso e in seguito con la fondazione del monastero di S. Maria delle Grazie. Se i rapporti tra Giovan Francesco e i sudditi di Zibello si mantennero sempre buoni, qualche problema gli procurò l'esistenza, nel suo feudo, di proprietà appartenenti a cittadini cremonesi (in particolare i Sommi, i quali non avevano ancora rinunciato all'idea di poter recuperare il loro feudo di Pieve), che avanzavano ingiustificate pretese di esenzione dagli oneri. Ma le maggiori difficoltà derivarono dall'essere il feudo di Zibello confinante con terre appartenenti a Pier Maria Rossi, signore di San Secondo. I loro rapporti, già tesi per vecchi rancori dinastici, andarono via via peggiorando, soprattutto quando Pier Maria procedette alla costruzione del castello di Roccabianca, quasi sul confine fra le due giurisdizioni. I due, fino allora fedeli alleati degli Sforza, si trovarono schierati in campi opposti nella guerra per Ferrara: Giovan Francesco con Lodovico il Moro, Pier Maria con Venezia; una guerra che costò la vita allo stesso Pier Maria e che segnò la fine dell'autonomia della signoria ros-siana, forte di ben venti castelli. La vittoria degli Sforza ed il crollo della potenza dei Rossi regalarono alla signoria di Zibello anni di tranquillità e prosperità, rendendo possibile realizzare quelle opere edilizie di cui si è in precedenza parlato. Alla morte del marchese (1497), i suoi feudi vennero divisi fra i cinque figli. Federico ottenne Zibello, il castello più ambito, con l'impegno però della tutela di Gaspare, al quale furono destinati i feudi di Tizzano e Ballone. A Bernardo lasciò i castelli di Solignano, Varano Melegari e S. Andrea; a Rolando il castello di Roccabianca con le ville di Rezenoldo, Fontanelle, Stagno, Tolarolo e Polesine Manfredi; a Polidoro la terza parte del castello di Monticelli O., che Giovan Francesco aveva ereditato pochi mesi prima dal fratello Carlo. Spettò dunque a Federico il feudo di Zibello, e dopo di lui al figlio Giovan Francesco iuniore, morto senza figli maschi nel 1514: questa circostanza portò a conseguenze fortemente negative negli anni successivi. Nel 1515 e ancora nel 1529, Zibello subì assedi e saccheggi, cambiando più volte signore nello spazio di pochi anni. Dal 1530 fu oggetto di un'interminabile contesa tra i Pallavicino e i Rangoni; questi riuscirono a tenere il feudo per circa un secolo senza dedicarvi alcuna cura, imitati nel comportamento dai Pallavicino quando ne ritornarono in possesso. Solo l'ultimo feudatario, il marchese Antonio Francesco (1775-1805), s'impegnò nel realizzare opere di contenuto civile e sociale e a mantenere più strette relazioni coi propri sudditi. Fu lui, nel 1804, ad aprire al pubblico il teatro situato nel Palazzo Vecchio, che porta ancora oggi il nome di Teatro Pallavicino. In epoca napoleonica, con la soppressione dei feudi, Zibello diventò capoluogo di Cantone, ma il suo territorio comunale era ridotto a quello del comunello del capoluogo, con Il marchese Giovan Francesco Pallavicino, capostipite del ramo di Zibello: ritratto d'epoca tardo cinquecento. l'aggiunta della sola frazione di Pieveottoville, mentre i comunelli di Ra-gazzola e Santa Croce erano stati aggregati rispettivamente a Roccabianca e Polesine. Pur avendo perduto il loro ruolo di dòmini e trasferita a Parma o a Busseto la loro residenza, i discendenti del marchese Giovan Francesco mantennero ancora a lungo solide relazioni con Zibello. All'inizio dell'Ottocento i Pallavicino vi possedevano ancora 125 biolche di terre, la tenuta delle Ghiare (quasi 500 biolche), erano proprietari del Palazzo Vecchio che si affacciava sulla piazza principale del paese e alcuni edifici. Ad essi appartenevano sei dei sette mulini natanti lungo la riva del Po; erano inoltre titolari dell'attività di distillazione del vino, "con una macchina costruita dall'egregio sig. Fioruzzi di Piacenza". Nel 1810 il marchese Alessandro Pallavicino fu nominato da Napoleone a presiedere l'Assemblea del Cantone di Zibello fino al 1813 e nel 1821 il medesimo Alessandro venne Stampa ottocentesca raffigurante i ruderi della rocca di Zibello e del suo torrione principale o mastio. designato dal Consiglio degli Anziani di Zibello come proprio deputato a difendere gli interessi del Comune. Ancora per diversi anni, dopo la fine dell'ancien régime, continuarono ad essere usati, a livello quotidiano, pesi e misure propri del sistema metrico in vigore quando i marchesi vi esercitavano a pieno titolo la signoria. Ulteriore testimonianza del solido legame con Zibello è il fatto che solo nel 1947 i Pallavicino rinunciarono al giuspatronato sulla chiesa parrocchiale del capoluogo. Palazzo Pallavicino o Palazzo Vecchio, situato sulla piazza di Zibello. 1735, il corso del Po. Appare indicato lo Stato Pallavicino con Zibello feudo dei Rangoni e Soarza dei Rangoni (Soarzo Rangons). Archivio di Stato di Cremona. La chiesa parrocchiale di Zibello, intitolata ai SS. MM. Gervaso e Protaso. IL FEUDO DI BUSSETO: GIAN LODOVICO E PALLAVICINO Nella divisione dei beni di Rolando il Magnifico, ai due figli Gian Lodovi-co e Pallavicino vennero assegnati, congiuntamente, Bargone con il feudo di Busseto e le sue pertinenze. I due fratelli, al pari degli altri, dovettero chiedere l'investitura delle terre; nell'atto di concessione delle stesse, Francesco Sforza concesse tutti i diritti e privilegi relativi, l'indipendenza da ogni altra città (specificando Panna, Piacenza e Cremona); il mero e misto impero per essi e i loro legittimi discendenti maschi, con riserva per il Duca della tassa del sale e cavalli, e nello stesso tempo ricevette dai due fratelli Pallavicino il giuramento di fedeltà e di omaggio, con l'offerta inoltre delle loro anni al Magnanimo Protettore. Un mese dopo, il 4 luglio 1458, aggiunse che, morendo uno dei fratelli senza maschi legittimi, a quello sarebbe subentrato di pieno diritto l'altro fratello o suoi discéndenti; solo nel caso in cui entrambi fossero morti senza figli legittimi avrebbero potuto accedere gli altri fratelli. Con tale investitura, con la quale i Pallavicino scendevano dal grado di feudatari imperiali a quello di feudatari camerali, e dal tenore delle successive rinnovazioni d'investitura, appare chiara l'evoluzione politica iniziata dalla Casa Pallavicino. Il 17 novembre 1458 i marchesi Pallavicino, figli di Rolando il Magnifico, inviarono al vescovo di Cremona la "Carta protestationis", con la quale asserivano che i loro predecessori erano stati, almeno dal 1355, vassalli dei vescovi di Cremona, dai quali avevano ottenuto l'investitura dei porti sul fiume Po, nel tratto del fiume compreso tra la foce dell'Adda e la foce dell'Arda, insieme con i diritti di pesca ed altre onoranze e regalie a detti porti e a detto tratto di fiume pertinenti. Produssero gli atti che giustificavano tale loro asserzione e chiedevano la conferma dell'investitura. Nel gennaio 1474, una lettera del duca di Milano ammoniva i fratelli Gian Lodovico e Pallavicino a voler provvedere di un "officiale idoneo, fedele e sufficiente per l'esercizio al porto de mezo" (Soarza), avvertendo che, in caso fosse stato trascurato l'avviso, il duca avrebbe mandato egli "uno ad vostre spese". E in simili termini scrisse al vescovo di Lodi Carlo Pallavicino per i porti di Olza e di Cremona, così a Giovan Manfredo per il porto di Polesine e a Giovan Francesco per quello di Sommo (feudo di Zibello). L'eccitazione venne rinnovata il 7 marzo 1475, per il gran passaggio di persone che si prevedeva in occasione del Sacro Giubileo: dal tenore della lettera si è portati a pensare che i traghetti sul Po fossero piuttosto trascurati. Questo l'elenco dei porti nel Po, appartenenti al Ducato di Milano, e dei rispettivi ufficiali o portinari addettivi, sempre nel 1474: "Portus Olzate (Olza): è del reverendo signore vescovo di Lodi marchese Palavicino (Carlo) Portus Cremone (Porto della Bastida di Castelvetro): è del reverendo signore vescovo di Lodi Portus de Mezo (Soarza): è dominio di Gian Lodovico e Palavicino, fratelli Pallavicino Portus Polesini: è dominio di Giovan Manfredo marchese Pallavicino Portus Sumi (Sommo): è dominio di Giovan Francesco marchese Pallavicino.,, SANTA MARIA DI VILLANOVA E SANTA MARIA DEGLI ANGELI DI BUSSETO La costruzione di una chiesa, con conseguente acquisizione del giuspatro-nato su di essa, rappresentava motivo di grande prestigio per i signori di quel tempo, ed è per questo che, dopo la morte di Rolando il Magnifico (1457), i due fratelli Gian Lodovico (n.1425) e Pallavicino (n.1426) iniziarono una serie di opere che portarono, in poco più di 20 anni, alla fondazione delle parrocchie di Spigarolo (1450), Villanova (1475), Bersano (1476), Frescarolo (1484); alla edificazione nella chiesa di S. Domenico in Cremona di una cappella intitolata a S. Martino e alla costruzione della chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli in Busseto (1475). Il 31 agosto 1475, con atto di Pietro de' Brunelli, notaio pubblico di Bus-seto, venne redatto l'atto di fondazione della chiesa di Villanova, con l'assegnazione della dote relativa.26 Come rettore della stessa chiésa venne indicato don Guglielmo de' Ruffoni di Miano, la cui nomina spettava ai due fratelli Pallavicino, in quanto patroni di detta chiesa. L'elezione venne poi confermata nel Palazzo vescovile di Cremona, alla cui diocesi apparteneva Villanova (lo sarà fino al 1601, fondazione della diocesi di Fidenza). Rolando Pallavicino, sentendosi vicino alla morte, dispose per testamento che anche a Busseto dovesse risiedere una Comunità di Frati Minori della Regolare Osservanza, disponendo un legato per l'erezione di una chiesa e un convento da donare loro. I figli vollero rispettare la volontà del padre, portando a termine la costruzione nel 1475 e dedicandola a Santa Maria degli Angeli. Alla cerimonia d'insediamento dei religiosi erano presenti 26 CHINI L.,Villanova dall'VIII giorno al XX secolo, 2006: "Nel nome del Signore nostro Gesù amen. Nell'anno della natività Mille quattrocentosettantacinque, indizione ottava, nell'ultimo giorno di agosto, i Magnifici Marchesi Gian Lodovico e Pallavicino, fratelli Pal-lavicini, figli del Magnifico Rolando Marchese Pallavicino, Signori del castello di Busseto e sue pertinenze, per ordine dei quali venne fondata e costruita di recente ("noviter") la chiesa parrocchiale in Villanova, territorio di Busseto e diocesi di Cremona, come patroni della stessa chiesa, fondata sotto il nome ("vocabolo") " Santa Maria sempre Vergine", in dote, come dote e a titolo di dote della chiesa predetta, assegnarono alla predetta chiesa, e a me notaio come pubblico ufficiale stipulante e ricevente a nome e in luogo della medesima chiesa e del Rettore della medesima pro tempore, le seguenti pezze di terra e ciascuna di esse (prese singolarmente), e in primo luogo una pezza di terra già boschiva e ora coltivabile, disboscata ("Roncata") in nome della chiesa e sulla quale è costruita la detta chiesa posta in Villanova suddetta al di là dell'Arda... la quale pezza è di quattro biolche. Inoltre (donano) una pezza di terra Boschiva di 6 biolche posta in territorio di Busseto presso il dosso di Bonifacio ... si aggiunge che il rettore pro tempore possa godere liberamente e disporre di quanto donato... ". Gian Lodovico e Pallavicino Pallavi-cino, con i fratelli Giovan Francesco e Carlo, che pure avevano concorso alla spesa di costruzione del complesso edilizio. Pallavicino Pallavicino, anche dopo essere diventato il solo feudatario di Busseto, protesse il convento, che con testamento del 1484 dotò di mezzi sufficienti per il sostentamento di quindici religiosi. All'interno della Chiesa, in una cappella, è presente un capolavoro della scultura emiliana del '400, il Compianto sul Cristo morto (1477) di Guido Maz-zoni, gruppo in terracotta policroma, a grandezza naturale, con sette figure dolenti che fanno corona al Cristo, rese con straordinaria introspezione psicologica ed intensità emotiva. Nelle figure laterali, raffiguranti Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, si possano riconoscere proprio i ritratti dei due marchesi, Gian Lodovico e Pallavicino. La vecchia chiesa parrocchiale di Santa Maria di Villanova. Chiesa francescana di S. Maria degli Angeli di Busseto. La chiesa dei Padri Francescani di Busseto. Chiesa di S. Maria degli Angeli di Busseto, Compianto, gruppo in terracotta policroma, di Guido Mazzoni (1450-1518), modellato nel 1477. Sono, da sinistra: Giuseppe d'Arimatea, S. Giovanni, Maria Salomè, la Madonna, Maria di Cleofa, Maria Maddalena, Nicodemo. Nelle figure laterali, raffiguranti Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, si possano riconoscere proprio i ritratti dei due marchesi, Gian Lodovico e Pallavicino. Nel 1472 i due fratelli avevano iniziato la costruzione dell'antico Ospedale, che verrà però completato qualche anno dopo, insieme con la chiesa di S. Maria, che per due secoli farà parte dello stesso ospedale. In quegli anni non ci furono episodi particolari da segnalare, i fratelli Pal-lavicino governarono il proprio feudo in stretto contatto con il duca di Milano, il quale comunicò loro nel 1472 di aver graziato i nipoti Giulio e Gio-van Antonio (figli del marchese Nicolò, marchese di Varano), espulsi dai suoi domini per l'emissione di monete false. Si richiedeva però l'impegno di Gian Lodovico e Pallavicino a garantire con una cauzione di duemila ducati d'oro che, in caso di recidiva del reato, avrebbero consegnato i due nipoti nelle mani del duca stesso. Nel 1477 Gian Galeazzo Maria Sforza nominò il marchese Pallavicino suo consigliere e governatore, mentre Ga-leazzo, il primogenito dello stesso marchese, fu fatto cavaliere. Per un attentato alla vita di Gian Lodovico e di suo figlio Rolando Pallavicino, venne processato nel luglio 1478 a Milano tale Giovanni Maria. Il duca Gian Galeazzo Sforza lo consegnò al Pallavicino perché provvedesse alla sanzione più opportuna. Tutta questa disponibilità del duca aveva però un prezzo, e in quei giorni lo Sforza chiese ai suoi feudatari un contingente di soldati per domare la ribellione di Genova ed ai marchesi di Busseto venne ordinato di equipaggiare 200 fanti che si dovevano trovare il 28 luglio a Tortona. Da qualche anno erano sorti contrasti tra i due fratelli sul modo di governare, e siccome le ostilità andavano accentuandosi (dal 24 luglio 1475 entrambi abitavano nella Rocca di Busseto, ma in settori ben separati), il Duca si propose come mediatore fra le parti, proponendo di spartire lo Stato. Sulla base dell'investitura ducale del 1458, dopo di aver stabilito che, all'estinguersi di una delle discendenze dei due fratelli, la linea superstite sarebbe succeduta nei beni dell'altra, fissarono il cavo Ongina per confine dei due nuovi Stati, assegnando Busseto col suo territorio al marchese Pallavicino, e a Gian Lodovico il castello di Bargone, il territorio di Cortemaggiore e 10.000 scudi d'oro. Il piccolo Stato di Cortemaggiore venne formato dalle terre seguenti: Bersano, Vidalenzo, Sant'Agata, Soarza, Villanova, San Martino in Olza, Besenzone, Castel d'Arda, Zapparola, Levato e Cignano. PICCOLO STATO FEUDALE E GRANDE STATO REGIONALE: LA COLLOCAZIONE DELLO STATO PALLAVICINO DI CORTEMAGGIORE ALL'INTERNO DELLA REALTÀ STORICO-POLITICA DEL TEMPO Verso la metà del Quattrocento si poteva ancora pensare al piccolo Stato signorile come a un obiettivo realizzabile, ed era avvertita ancora come possibile la prospettiva di un assetto politico che gli garantisse pieno diritto di cittadinanza, in cambio del semplice riconoscimento della superiorità di un principe. Era certamente una concezione anacronistica dell'organizzazione del potere, antitetica a quella che si stava affermando proprio in questi decenni, in cui il grande Stato regionale, pur fra incertezze e contraddizioni, si sforzava di esercitare un governo il più possibile diretto su tutti gli abitanti dei suoi territori, eliminando la mediazione. di terre separate e feudatari. Come collocare allora, tra i grandi stati regionali, il piccolo Stato di Cortemaggiore, la cui nascita risale proprio a questi anni? L'Emilia, nell'Italia del tardo '400, era come un "vuoto di potenza", riempito in parte dall'allargarsi degli stati confinanti più forti. In particolare, si trovavano sotto l'influenza milanese quei territori situati tra Parma, Piacenza e Cremona in cui nacque lo Stato Pallavicino di' Cortemaggiore; tuttavia l'autorità del ducato non si espandeva in modo uniforme e incontrastato su tutti i territori del suo dominio. 'Vi erano zone in cui esistevano insiemi di autonomie e giurisdizioni particolari che mantenevano con il potere centrale rapporti non ben chiari e definiti. Questi signori e feudatari esercitavano sui sudditi, abitanti di ville e castelli, poteri molto ampi e di diversa natura, rivendicando una propria autonomia nei confronti dell'autorità superiore. Tra questi signori e feudatari ricordiamo i Lupi, Rossi, Correggio, Fieschi, Cavalcabò, Landi, Anguissola ed in modo particolare i Pallavicino. Nella lotta contro tali forme di particolarismo i Visconti non cercarono di eliminare ogni forma di potere locale. Tentarono di disciplinarlo e ciò avvenne mediante lo strumento giuridico più idoneo: il Feudo, che da un lato rendeva legittimi i diritti giurisdizionali e signorili dei potenti locali, dall'altro rendeva salva la superiorità dei Visconti, definendo tra le due entità un rapporto di dipendenza.27 Rolando Pallavicino, esponente di una famiglia di antica feudalità imperiale, se da un lato vedeva confermate varie investiture concesse ai Pallavicino dall'Impero, dall'altro lato, per inevitabile necessità storica e pur destreggiandosi per conservare e ampliare i suoi domini, veniva assoggettato anche a un vassallaggio verso 27 G.CHITTOLINI, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado-Secoli XIV e XV. Filippo Maria Visconti, vassallo a sua volta dell'impero. Chiamato a dirimere le controversie sorte alla morte di Rolando, nel 1458 ciascuno dei figli ricevette da Francesco Sforza una nuova, specifica investitura, per cui nessuno di loro poteva invocare diritti e immunità fondati su precedenti investiture imperiali o sull'investitura viscontea del 1445, e così si trovava ad essere vassallo esclusivo dello Sforza: il che ebbe un riflesso concreto quando, morto nel 1497 Carlo Pallavicino vescovo di Lodi, i suoi beni di Monticelli furono avocati dalla Camera ducale. LA FONDAZIONE DEL FEUDO Dl CORTEMAGGIORE I due fratelli Gian Lodovico I e Pallavicino governarono assieme per una ventina d'anni, dopo di che i dissensi sul modo di governare, gli interessi delle rispettive famiglie e chissà quanti altri motivi, aggravarono talmente il disaccordo fra i due che, per porre fine alle liti, nel 1479 fu necessario arrivare alla formazione di due feudi separati, quello di Busseto che fu assegnato a Pallavicino e quello di Cortemaggiore che andò invece a Gian Lodovico I. "1479 - 114 settembre, a tarda sera, mentre la campagna è ancora avvolta nei tiepidi vapori di un nostalgico tramonto, il marchese Gian Lodovico, con la sua piccola corte, parte dalla rocca di Busseto e si trasferisce a Cortemaggiore, dando ufficialmente inizio alla sua signoria. Lo accompagnano la moglie Anastasia Torelli, il figlio Orlando II con la giovane sposa Laura Caterina Landi e cinque famiglie: quella di Gian Bartolomeo Carmi-nati da Cremona, di Gian Lodovico Mani, di Gregorio Passara da Milano, di Girolamo Ferrarini e di Davide Porci da Pavia, nonchè la servitù...". Nasce così, distinto da Busseto, lo Stato di Cortemaggiore, che durerà per un secolo fino al 1579 quando, estintasi la linea bussetana dei Pallavicino, Sforza, marchese di Cortemaggiore, riunirà sotto il suo potere, in virtù della clausola che sappiamo, i territori assegnati rispettivamente a Pallavicino e Gian Lodovico Pallavicino. E mentre il residuo Stato di Busseto si trovava ad avere una capitale degna e una consistenza istituzionale e sociale ben definite, il nuovo Stato di Cortemaggiore doveva ancora esserne dotato. In un documento del 1495 viene descritto lo stato di abbandono in cui si trovava, prima che vi si stabilissero i Pallavicino, il territorio di Cortemaggiore che, del suo illustre passato, conservava solamente poche cose: un grande nome, Curtis Regia o Major, due edifici sacri, uno dedicato a S. Lorenzo, l'altro a S. Giuseppe, tutti e due in precarie condizioni per la loro vetustà, un castello medioevale detto "Il Giardino", piuttosto mal ridotto, alcuni poveri casolari, boschi, acquitrini e poco altro28. L'edificazione della nuova Cortemaggiore, d'altra parte, fu sollecita: il grandioso e complesso progetto pallaviciniano venne affidato all'ing. ducale Maffeo Carretto da Como, in collaborazione con l'architetto-costruttore piacentino Gilberto Manzi e già 1'11 ottobre 1479 iniziarono i lavori." L'ing. Carretto volle il corso principale ampio e fiancheggiato da portici. La piazza centrale, di fronte alla chiesa maggiore, quadrata, e le mura che cingevano l'area del paese provviste di quattro porte meniate, indicate' dai nomi dei santi: porta S. Giovanni, porta S. Giuseppe, porta S. Francesco e porta S. Lorenzo. Non volle costruzioni di case fuori della cinta, perché in caso di guerra avrebbero impedito la vista del nemico. Il convento dei frati francescani, posto nella zona della porta di S. Francesco, per la stessa ragione lo volle distanziato e messo fuori mano. Il marchese volle imporre alla sua piccola 28 G.FERRARI, La singolare Storia di Cortemaggiore - p.168-170: "Gian Lodovico venne ad abitare e porre sede nel proprio Palazzo di Cortemaggiore situato in un luogo denominato, anche oggidì, il Giardino". Tale denominazione, rimasta inalterata fino ad oggi, indica il podere dové tuttora parte dell'antico edificio e sul cui terreno, dal 1979 al 1980, si sviluppò un quartiere residenziale. Eautore ritiene che una descrizione così squallida dell'ambiente sia stata un po' enfatizzata nell'antico manoscritto del Vescovo Marliani, per esaltare la grandezza e lo splendore delle nuove opere. 29 La planimetria del nuovo centro consisteva in un tessuto strutturato su di un asse principale con orientamento nord/sud, al quale si assestavano dei percorsi secondari ortogonali che portavano ad uno schema a scacchiera; i rapporti con il territorio venivano garantiti dalle quattro porte che si aprivano nella cinta difensiva in corrispondenza dell'asse principale e di quello ad esso ortogonale: esse immettevano nei percorsi che conducevano a Piacenza, Cremona, Fiorenzuola e Busseto. La novità maggiore sta nell'aver separato la rocca dal palazzo del marchese colla sua corte, secondo una tendenza che stava emergendo di completa separazione fra l'architettura militare e quella civile residenziale, che portò a trasformare il castello medioevale in fortezza esclusivamente militare. capitale il nome nuovo di Castel Lauro (Castrum Laurum), sia per onorare la nuora Laura Caterina Landi, sposa di Rolando II, sia per una pianta di alloro situata nel bel mezzo di Cortemaggiore. Questo nome però non ebbe fortuna e venne sempre subordinato a quello antico di Cortemaggiore. Il 7 luglio 1481, a soli 56 anni e dopo nemmeno due anni di governo, morì Gian Lodovico; la realizzazione dell'imponente complesso di opere venne proseguita dal figlio Rolando II, coadiuvato validamente dalla madre Anastasia Torelli, e portata a termine intorno al 1500. Gian Lodovico Pallavicino, primo marchese di Cortemaggiore, fu, quasi certamente, il figlio prediletto di Rolando il Magnifico, ed era lui a figurare in quasi tutti gli atti di governo relativi agli anni tra il 1457 (morte di Rolando) e il 1479 (separazione Busseto-Cortemaggiore). Inoltre nella descrizione della serie dei ritratti delle gallerie pallavicine, a differenza del fratello Pallavicino, signore di Busseto, rappresentato come un arcigno guerriero, armato di tutto punto e raffigurato di profilo, come quasi tutti i condottieri medioevali, Gian Lodovico è raffigurato di fronte, con una veste pacifica e signorile, quella di Consigliere ed Ambasciatore Ducale, di un uomo di larghe vedute, avvezzo a viaggiare e conoscere, sicuramente colto e sensibile. Abbiamo visto come nel 1475 Gian Lodovico e Pallavicino, marchesi di Busseto, portarono a termine la costruzione della Chiesa, donata ai Frati Minori della Regolare Osservanza, rispettando la volontà del padre Rolando il Magnifico. Nel 1499 Rolando II, marchese di Cortemaggiore, inaugurò la nuova chiesa dei Frati Minori Osservanti. Ma qual è il motivo di questa particolare devozione nei confronti dell'ordine francescano? A partire dalla fine del XIII secolo, il modello di vita monastica propugnato dai benedettini non allettava più la popolazione come nei secoli precedenti e questo lo si vide tanto nel rallentamento delle professioni monastiche quanto nel calo di donazioni testamentarie verso gli enti benedettini. Chi invece si avvantaggiò di questo lento declino furono gli ordini mendicanti, con i "Predicatori" e i "Minori" in testa, nati proprio nel Duecento, installatisi all'interno dei centri urbani, dove sempre più si accentrava l'intera vita sociale, politica ed economica del tempo, visti con particolare favore dalla gente, proprio in virtù della loro viva e attiva presenza nella città, attraverso l'insegnamento, la predicazione ed anche il loro stile di vita incarnato nell'umiltà, nella povertà e nella "perfetta letizia", qualità queste che fecero ottenere loro cospicui donativi per mezzo dei lasciti testamentari ed un gran numero di nuovi frati e di seguaci che seguirono così le orme di San Domenico e San Francesco. E così i Pallavicino, che nel 1136 avevano contribuito a dare una consistenza patrimoniale al nuovo Monastero cistercense di Chiaravalle, decisero di dedicare le loro attenzioni all'Ordine francescano. Gian Lodovico e Rolando Pallavicino dei marchesi di Cortemaggiore, da un dipinto sul muro nella sacrestia dei Minori Osservanti di Cortemaggiore (Litta, Albero genealogico dei Pallavicino-Biblioteca Fond. Cariparma Busseto). Stemma di Cortemaggiore. La didascalia latina alla base dello scudo dice Comunità di Castel Lauro di Cortemaggiore, mentre il motto sullo svolazzo afferma: Non vi è niente di più santo della retta fede accompagnata dalle virtù sorelle. Il putto illuminato dal sole rappresenta la nuova Comunità, mentre la pianta di alloro allude alla gloria dei Pallavicino e a Laura Caterina Landi, sposa di Rolando II. G. FERRARI, La singolare Storia di Cortemaggiore — Biblioteca Cortemaggiore. ROLANDO 11: LA CASA DELLA MISERICORDIA E LE REFORMATIONES ET ADDITIONES Dopo la morte del padre, Rolando portò a compimento la "creazione della città" con la costruzione della Rocca,30 la chiesa dei Frati Minori Osservanti (1487-99) e la chiesa di S. Maria delle Grazie (iniziata nel 1481, eretta in parrocchiale nel 1495 e collegiata nel 1513). Le varie chiese, pur costruite o ricostruite per motivi pastorali, servivano anche come monumenti che qualificavano la presenza del signore. Ideato da Gian Lodovico al suo arrivo a Cortemaggiore come residenza della Corte, anche il Palazzo Pallavicino fu completato dal figlio Rolando II. La struttura, severa e di tipo più difensivo che gentilizio, era anticamente circondata da un fossato con un'unica angusta apertura a ponte levatoio; all'interno lo stile è bramantesco.31 Per di più Cortemaggiore diventò ben presto un fervido centro di vita anche culturale sotto il saggio governo di Rolando II, che raccolse una preziosa biblioteca aperta al pubblico, istituì una tipografia affidata a Benedetto Dolcibello di Carpi (dalla quale usciranno preziosi incunaboli) e fu celebrato come dotto mecenate dai suoi contemporanei. Tenendo fede alle volontà testamentarie non solo del padre Gian Lodovico o, ma anche dell'avo Rolando il Magnifico, il 27 ottobre 1495 venne fondata la Casa della Misericordia. Il suo scopo non era solo quello di portare aiuto ai poveri e dare assistenza ai malati ma soprattutto di essere ricovero per i pellegrini. L'Istituzione venne riccamente dotata di beni di esclusiva proprietà personale di Rolando II; ai molti beni e ricche rendite logicamente corrispondevano altrettante condizioni onerose: provvedere ai religiosi del convento francescano e al clero della chiesa parrocchiale; dotare convenientemente le giovani povere che si maritavano. Provvedere agli orfani, al soddisfacimento di vari legati di sante messe, ai poveri in particolari, ad erigere un ospedale per i pellegrini, a donare alla madre del bambino nato nel giorno più vicino al Santo Natale se maschio, o alla Natività della Beata Vergine Maria se femmina, frumento, vino, danaro e tutto il corredo per la culla. 30 Si trattava di una rocca quadrilatera a torrioni rotondi angolari, distrutta nel 1809. 31' Dai Pallavicino il Palazzo passò al Ducato di Parma e nel 1752 lo acquistarono i principi Leopoldo Darmstad ed Enrichetta d'Este; da allora il Palazzo fu conosciuto anche come il Palazzo della Principessa. Nei primi decenni dell'800 fu abbattuta una metà del Palazzo, riempiti i fossati e dismesso il ponte levatoio. E' oggi di proprietà privata e mantiene circa la metà dell'originario corpo di fabbrica. A questi adempimenti erano chiamati i sette Rettori, scelti fra gli uomini più stimati e probi di Cortemaggiore. Le "Reformationes e Additiones": per quanto riguarda l'ordinamento giuridico, nello Stato di Cortemaggiore trovarono applicazione gli "Statuta Pallavicinia", emanati nel 1429 da Rolando il Magnifico. Ben presto peraltro, nel 1494, Rolando II formò il Corpo Comunitativo, composto di 24 membri scelti tra i cittadini più stimati e competenti; tra questi ne venivano sorteggiati otto quali Deputati alla pubblica amministrazione, mentre tra gli altri sedici, detti Deputati Rurali, figuravano i rappresentanti delle Ville soggette a Cortemaggiore. Il Corpo Comunitativo era presieduto dal Podestà, scelto fra i migliori giurisperiti, affinché esercitasse il potere in nome del marchese e secondo le norme statutarie. Nel frattempo Rolando II programmava e preparava nuove leggi, ad integrazione dei vecchi Statuti, la cui elaborazione terminò sul finire del 1499 cosicché il 9 gennaio 1500 fu possibile pubblicare in Cortemaggiore il nuovo Corpo Statutario col titolo: Reformationes et Additiones Statutorum Castri Lauri Antiquorum. Chiesa francescana di Cortemaggiore, terminata e consacrata nel 1499. Chiesa Collegiata di Cortemaggiore. Il Corpo Statutario, con l'emissione dei Capitoli da parte di Sforza Palla-vicino nel 1584, rimase in essere fino all'inizio dell'Ottocento, in periodo napoleonico. Gli Statuti Pallaviciniani sono considerati fra i più civili e moderni dell'epoca, in essi il Corpo di Comunità, pur dipendendo dal marchese, godeva di un'autorità e di un'autonomia molto ampie, relative al potere giudiziario, al potere di polizia, a quello della Soprintendenza all'annona, all'edilizia, alla sanità e alle scuole. S'intende d'altra parte che tutto il potere politico e legislativo era accentrato nelle mani del Signore. Infine Rolando II, affinché il Corpo di Comunità fosse politicamente autonomo, lo volle tale anche economicamente, pertanto lo dotò di rendite sufficienti assegnandogli in proprietà l'antico palazzo del Giardino con i terreni annessi, i quattro mulini del Bosco, di Besenzone, del Castellazzo e di Cortemaggiore, concedendogli inoltre il diritto ai proventi derivanti dalle locazioni del Macello, dei Forni e dei Torchi da pasta. Rolando II, oltre a provvedere Cortemaggiore di leggi opportune e di un organo di governo, gli assegnò pure lo stemma corrispondente alla denominazione di Castel Lauro, composto da una pianta di alloro con un puttino tra le fronde. Lo stemma è tuttora il simbolo della Comunità, ma il nome di Castel Lauro, come è già stato osservato, non prevarrà mai su quello antico di Cortemaggiore. Le registrazioni delle convocazioni del consiglio iniziarono dal 1502, mentre nel 1507 fu convocato il Consiglio generale con la partecipazione dei rappresentanti delle seguenti Ville: Sant'Agata, Bersano, Soarza, Villanova, San Martino in Olza, Besenzone, Castel d'Arda, Vidalenzo e Mercore.32 32 CHINI L., Villanova dall'VIII giorno al XX secolo - Ed. Fantigrafica, 2006. Palazzo Pallavicino di Cortemaggiore, parte ovest (entrata). Palazzo Pallavicino di Cortemaggiore, parte est (retro). Frontespizio dell'edizione 1582, a stampa, degli Statuti Pallavicini (Biblioteca Fond. Cariparma Busseto). IL TESTAMENTO DI ROLANDO II IL GOBBO Rolando, che dalla consorte Laura Landi aveva avuto Gian Lodovico II, Marc'Antonio, Manfredo, Francesca, Francesco e Gaspare, dettò il I maggio 1508 il suo testamento, ratificato dal duca di Milano Massimiliano Sforza e in seguito dal Pontefice Leone X. In esso lasciava a Marc'Antonio il feudo di Fiorenzuola, che aveva acquistato nel 1502 dal maresciallo francese P. di Rohan per 10.000 scudi d'oro; a Manfredo un compenso in denaro e in beni allodiali; a Gian Lodovico II e Gaspare il feudo di Cortemaggiore; a Francesco proprietà e beni allodiali a Villanova (1357 biolche), i fondi Palazzo e Giardino a Cortemaggiore con le case esistenti sulle dette proprietà, escluso il mulino del Castellazzo che abbiamo visto assegnato al Corpo di Comunità. Lasciava,inoltre una proprietà di 339 biolche e un'altra di 98, entrambe a Villanova... "tutte queste pezze di terra siano e debbano essere di totale diritto della predetta sig.ra sua Consorte, cosicché di queste essa liberamente possa decidere e fare testamento come della sua dote". Ai parroci di Villanova, Soarza e S. Agata lasciava alcune pertiche di terra e anche al parroco della chiesa di S. Bernardino in Cignano assegnava 2 pertiche di terra, nonostante su quella chiesa non avesse il giuspatronato, facente capo a quattro famiglie del luogo. L'ingresso est di Cortemaggiore (sulla strada per Busscto) con il ponte sul torrente Arda e a destra la chiesa francescana. Sullo sfondo l'abitato di Vila Nova (Villanova sull'Arda). Mappa dell'epoca, Istituto Comprensorio di Busseto. Abbiamo visto dal testamento di Rolando 11 come molte fossero le sue proprietà, infatti dalla fondazione del nuovo Stato di Cortemaggiore, i Pal-lavicino avevano cercato con acquisti e permute d'incrementare i possedimenti, anche se l'acquisto del feudo di Polesine, effettuato nel 1498 dal marchese Rolando II, era stato annullato dal duca su sollecitazione dei marchesi di Busseto, interessati a loro volta all'operazione. Consigliere di Stato a Milano per diversi anni, Rolando ottenne nel 1495 la conferma dell'investitura di Bargone e Cortemaggiore, ai quale si aggiunse tre anni dopo l'investitura dei feudi di Rezinoldo e Fontanelle nella diocesi di Parma; e anche di Stagno, Tollarolo, Mezzano e Polesine dei Manfredi in quella di Cremona. GIAN LODOVICO II: TERZO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE Con la morte di Rolando II, avvenuta nel 1509, terminò il periodo più felice e fecondo d'iniziative pubbliche della signoria di Cortemaggiore. Gian Lodovico 11, rimasto solo a governare per la morte nel 1511 del fratello Gaspare, unì a Cortemaggiore il feudo di Fiorenzuola, ereditato dall'altro fratello Marc' Antonio defunto. Nel 1513 sollecitò ed ottenne da Papa Leone X l'elevazione della nuova grande chiesa parrocchiale alla dignità di Insigne Collegiata, trasferendo da San Martino l'intero corpo capitolare. Il Marchese mantenne le leggi e gli indirizzi generali di governo del padre; mentre, più portato al mestiere delle armi rispetto a Rolando I1, militò quale comandante al servizio del re francese Francesco I, il quale per confortarlo dell'uccisione'del fratello Manfredo" e del nipote Cristoforo (signore di Busseto) gli donò una preziosa reliquia: la Santa Spina che Gian Lodovico, a sua volta, donò alla Collegiata. Nel 1515 Francesco I, recandosi a Bologna per incontrare il Pontefice, accolse l'invito dei fratelli Pallavicino e si fermò a pranzo nella Rocca di Cortemaggiore. All'inizio del 1525 il re di Francia scese in Italia per riprendere i suoi possedimenti, ma a Pavia si scontrò il 24 febbraio con Carlo V e subì una sconfitta totale. A difendere il castello di Casalmaggiore, per ordine di Francesco I, fu il marchese di Cortemaggiore Gian Lodovico II con un presidio di 2 mila fanti e 400 cavalli: sconfitto venne fatto prigioniero. Liberato dal carcere un anno dopo, fece ritorno a Cortemaggiore, dove morì il 23 settembre 1527 e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco in Cortemag-giore. Sulla tomba, un'epigrafe in latino lo ricorda così: "A Gian Ludovico Pallavicino —figlio di Orlando II — perfetto in ogni ramo dell'arte militare — scelto comandante — da Francesco I re di Francia — poscia dai Veneti — morì l'anno 1527 — il dì 23 settembre — Virginia — unica figlia — lasciò a noi ed ai posteri — questa dolente memoria33. 33 Nel luglio 1521, Manfredo era al servizio del duca di Milano Francesco Sforza e combattè contro i francesi. Catturato da questi venne condotto a Milano, gli furono confiscati i beni e fu squartato vivo sulla piazza del castello Sforzesco. Aveva sposato Ginevra Bentivoglio, vedova di Galeazzo Sforza. Manfredo era il padre di Sforza Pallavicino, sesto marchese di Cortemaggiore. GEROLAMO PALLAVICINO: QUARTO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE Con la morte di Gian Lodovico II, che lasciava la sola figlia Virginia, la Signoria di Cortemaggiore passò al nipote Gerolamo, figlio di Gaspare Pallavicino morto nel 1511. Gerolamo è noto per aver concesso ospitalità agli ebrei, entrati in gran numero in Italia, dopo essere stati messi al bando in Spagna dal re cattolico Ferdinando. Continuò la politica governativa dei suoi predecessori, attendendo tranquillamente al governo del piccolo Stato. Ma a toglierlo dalla tranquillità desiderata apparve sulla scena della vita feudale Pier Luigi Farnese, figlio naturale del papa Paolo III. Pier Luigi Farnese (1503-47). Olio su tela di I.G.Levi - Biblioteca Fond. Cariparma Busseto. PIER LUIGI FARNESE, DUCA DI PARMA E PIACENZA La famiglia Famese è originaria della località di Farnese o Farneto, posta nella zona tra Orvieto e Siena. Nella città di Orvieto, dove i Farnese avevano ricoperto importanti cariche, erano conosciuti come i signori "de Farneto". Le prove di fedeltà, nei confronti della Corte papale, valsero loro una serie di privilegi e la possibilità di imparentarsi con le maggiori famiglie dell'epoca (gli Orsini, i Colonna, gli Sforza di Santa Fiora). Grazie al matrimonio di Pier Luigi Famese con Giovannella Caetani, si trovarono imparentati con una discendente di papa Bonifacio VIII e quindi con gran parte della nobiltà romana. Da questo matrimonio nacque il 28 febbraio 1468 Alessandro (il futuro papa Paolo III), il quale scelse d'intraprendere la carriera ecclesiastica e in breve tempo ottenne, pur non essendo ancora sacerdote, un gran numero di prebende e di cariche. Nel 1499 fu nominato vescovo di Montefiascone e Corneto; nel 1509 vescovo di Parma (carica ricoperta in modo non continuativo per la necessità di mantenersi a contatto con la curia romana) e, pur vantando da tempo numerose cariche ecclesiastiche, solo nel 1509 pronunciò i voti sacerdotali, curando da allora di mantenere una condotta morale esteriore più consona al suo nuovo stato. In precedenza, infatti, si era comportato come un grande signore laico, celibe e senza inibizioni e da una sua lunga relazione erano nati vari figli: Pier Luigi (1503), Paolo (1504), Ranuccio e Costanza. I primi due furono legittimati da papa Giulio II nel 1505, mentre Costanza venne sistemata assai onorevolmente in matrimonio con Bosio Sforza conte di Santa Fiora e signore di Castell'Arquato. Le speranze paterne furono da subito rivolte a Pier Luigi che, per carattere e attitudini, venne avviato alla carriera militare, in cui ebbe modo di distinguersi. A 16 anni si unì in matrimonio con Girolama Orsini, appartenente ad una famiglia della nobiltà romana, e da cui ebbe cinque figli: Alessandro, Ottavio, Ranuccio, Orazio e Vittoria. Intanto il cardinale Alessandro percorreva i gradini della carriera ecclesiastica, grazie al suo ingegno, alla sua cultura e alla protezione di papa Alessandro VI e poi del suo successore Clemente VII. Alla morte di questo, venne eletto al soglio pontificio, dopo appena ventiquattro ore di conclave, col nome di Paolo III. Il nuovo papa mostrò subito le sue intenzioni relative alla politica familiare, concedendo la porpora cardinalizia ai suoi due giovani nipoti: Alessandro Farnese, figlio di Pier Luigi, e Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, figlio della figlia Costanza. Nello stesso tempo però Paolo III si curava della sistemazione di Pier Luigi e del suo secondogenito Ottavio, per i quali cercava una soluzione di assoluto prestigio. Fallito il tentativo, troppo ambizioso, di ottenere dall'imperatore Carlo V il Ducato di Milano per Ottavio Famese, l'attenzione si fermò sui due ducati, tra loro confinanti, di Piacenza e Parma, posseduti dalla Santa Sede, ma separati dalla Romagna pontificia, per la presenza in mezzo del ducato estense di Modena e Reggio. C'era da superare un primo problema, in quanto Carlo V era interessato a sua volta al possesso delle due città, appartenute in precedenza al ducato di Milano, del quale al momento era signore. Al progetto del papa però l'imperatore non si oppose, pur non riconoscendone formalmente la validità. Il secondo ostacolo da superare era quello della curia romana, in quanto veniva ritenuto di fatto uno spossessamento di una parte cospicua del patrimonio pontificio. Per rendere in qualche modo accettabile tale operazione, il papa cedette in cambio alla Santa Sede i ducati di Camerino e Nepi, prevedendo inoltre il pagamento di 9 mila ducati d'oro da versare ogni anno alla Santa Sede: con tale proposta, vennero superati i dissensi di alcuni cardinali ostili al Farnese. Con bolla del 26 agosto 1545, Paolo III creò il ducato di Piacenza e di Parma, investendo il figlio Pier Luigi come Signore delle due città. Il 10 novembre 1549 morì Paolo III, uno dei papi più grandi e controversi della storia della Chiesa. Il suo pontificato fu segnato soprattutto dalla reazione contro il protestantesimo; approvò l'ordine dei gesuiti, costituì la Congregazione del Sant'Uffizio (Inquisizione romana, 1542) e infine, nel dicembre 1545, convocò il concilio di Trento. Fu grande mecenate, ma è passato alla storia anche come uno dei campioni del più sfrenato nepotismo. Ritratto di Paolo III senza camauro, berretto rosso riservato al Sommo Pontefice. Fu eseguito da Tiziano nel 1543 a Busseto, in occasione dell'incontro di Paolo III con l'imperatore Carlo V ed è conservato a Napoli nel Museo di Capodimonte. Per il Governo del ducato di Piacenza e Parma, Pier Luigi Farnese chiamò persone d'indiscusso prestigio, mentre si circondò di segretari e fedeli, scelti fra persone fidate e tra queste Sforza Pallavicino, signore di Fiorenzuola, a lui legato da vincoli di parentela. Il suo obiettivo principale era quello di porre un limite al potere dei signori feudali, piacentini soprattutto, titolari di vasti patrimoni fondiari ed arbitri assoluti nei territori di loro competenza. Come primo atto impose l'obbligo a tutti i feudatari, allo scopo di controllarli meglio, di stabilirsi in città, proibendo la residenza nelle terre e castelli di loro proprietà, sotto pena di confisca dei beni ed altri provvedimenti punitivi. Disprezzando ogni regola, il duca tentò d'impadronirsi dei feudi vicini: nel 1546 ai danni di Luisa Pallavicino, moglie di Sforza Sforza di Santa Fiora, nipote di Pier Luigi, che si diceva fosse morto mentre stava combattendo in Germania. Il Farnese mandò subito a richiedere il suo castello di Castelsangiovanni, che però non riuscì a farsi consegnare perché si scoprì nel frattempo che lo Sforza era ancora vivo. Sostenendo che il feudo di Romagnese era in territorio piacentino, ne tentò l'occupazione a spese della nobile famiglia dei Dal Verme, provocando la reazione del ducato di Milano e dell'imperatore Carlo V, al quale il ducato e Romagnese erano sottoposti. Lo stesso anno 1546, approfittando dell'assenza da Cortemaggiore del marchese Gerolamo Pallavicino, tentò d'impadronirsi del feudo, imprigionando nel vescovado di Piacenza la moglie Camilla e la madre, e lasciando nella rocca di Cortemaggiore una sua guarnigione. Lo scopo del duca farnese era d'impedire che Gerolamo avesse figli e quindi incamerare i feudi, si scoprì invece che la marchesa Camilla era già incinta e dunque inutile risultava la sua prigionia. 11 15 luglio 1547 il marchese Sforza Pallavicino, pur consigliere personale del duca Pier Luigi, fu chiamato a dimostrare la legittimità dei diritti dei Pallavicino sui territori di Cortemaggiore e Castelvetro, contro i tentativi del Farnese. "Il Sig. Giovanni Antonio, procuratore dell'In. Sig. Sforza Marchese Pal-lavicino, accusò di contumacia i sig.ri Fiscali di non fare opposizione contro le lettere ducali presentate al detto sig. Giovanni e di non fare le cose di loro incombenza e ripeté una seconda volta e fece come risulta nella scrittura consegnata: Davanti ai magnifici Signori Presidente e maestri delle entrate ducali, il Sig.Giovanni Antonio Raino, procuratore dell'Ill.sig. Sforza, replica alle domande al fine di dimostrare più chiaramente i suoi diritti, ma soprattutto per dimostrare che il luogo, la terra e tutto il territorio di Cortemaggiore con tutti i suoi paesi, cioè Bersano, Vidalenzo, S.Agata, Soarza, Villa Nova, S.Martino di Besenzone, Castel d'Arda, Ceparola, Cignano ed altri paesi, erano appartenuti al distretto, alle pertinenze e al territorio della terra di Busseto sia nel tempo della vita che dopo la morte del fu Magnifico Sig.Rolando Pallavicino senior, come anche dopo la vita e la morte, tuttavia prima della divisione e separazione di quei luoghi dal luogo e dalla terra di Busseto, e che al tempo della detta divisione e separazione anche il luogo di Castelvetro era stato ed era ancora del distretto e delle pertinenze di Monticelli, e che tutte queste cose erano tenute e possedute dal fu Ill.mo Sig. Rolando senior, Marchese Pallavicino al tempo della sua vita e della sua morte, e dopo di lui dai defunti Sig.ri Giov.Lodovico e Pal-lavicino e dal Rev.mo sig.Carlo Pallavicino, vescovo di Lodi". Nell'agosto 1547, un mese prima che la congiura dei nobili piacentini portasse all'eliminazione del duca, questi ordinò a Tommaso Avogadro, suo Consigliere, di compiere una ricognizione nella zona di Busseto e Cor-temaggiore compilando una relazione della sua visita (questo sempre in vista del progetto di occupazione della zona). L'ostilità che si era creata tra la nobiltà piacentina e l'odio del governatore di Milano Ferrante Gonzaga per il tentativo del Farnese di occupare i suoi territori convinsero Carlo V dell'opportunità di eliminare il duca Pier Luigi. L'imperatore non partecipò al piano ma fece capire che non sarebbe intervenuto a seguito di qualsiasi iniziativa fosse stata presa. La congiura, con a capo il conte Giovanni Anguissola di Grazzano, ebbe l'adesione di una trentina di gentiluomini, fra i più attivi dei quali figuravano tre fratelli Pallavicino di Scipione: Camillo, Gerolamo e Alessandro. 11 10 settembre 1547 venne ucciso il duca Pier Luigi Famese e l'annuncio fu immediatamente inviato al duca di Milano don Ferrante Gonzaga, il quale due giorni dopo entrò a Piacenza. Tra i personaggi al suo seguito figurava Gerolamo Pallavicino, che si vide così restituire il suo Stato di Cortemag-giore, nella cui rocca era ancora presente un presidio dei Farnese. Il primo tentativo dei Farnese d'impossessarsi dei feudi dei Pallavicino era dunque fallito, ma un altro capitolo si sarebbe aperto a breve. Ritornato in possesso del feudo di Cortemaggiore, Gerolamo governò in sufficiente tranquillità, proteggendo poeti e scrittori e coltivando la sua passione per gli studi. Morì in Cortemaggiore il 12 gennaio 1557 lasciando Camilla, già vedova di Ottaviano Pallavicino di Busseto, sposata in seconde nozze, e due figlie Vittoria e Isabella. In prime nozze aveva sposato Camilla Rossi, figlia naturale del marchese di S. Secondo, morta nel 1543. Avanzi del Castello di Pier Luigi Farnese. La costruzione, iniziato nel 1545, fu interrotta per l'uccisione del duca farnese e poi distrutta nel 1840. Coll. Arcelli. La Cittadella, fatta costruire nel XIV secolo da Galeazzo Visconti per la difesa di Piacenza. Nel 1547 fu teatro della congiura dei nobili piacentini contro P. L. Farnese, conclusa con la sua uccisione. BUSSETO E I MARCHESI PALLAVICINO La seconda metà del Quattrocento vide affermarsi sempre più decisamente l'autorità dello Stato regionale nei confronti delle autonomie signorili e feudali, che gli Sforza cercavano di fiaccare e di combattere. I domini Pallavicino, dopo la morte di Rolando (1457), furono ridotti al rango di feudi camerali. Ma quando ormai le piccole signorie sembravano destinate ad essere assorbite in un più grande e moderno organismo statale, il lungo periodo di guerre e di anarchia, iniziatosi con la calata in Italia di Carlo VIII (1494) e protrattosi per alcuni decenni, venne a creare una situazione nuovamente favorevole ai potentati minori. Di questa situazione approfittarono, come altri signori feudali, anche i Pallavicino, i quali, dalla debolezza per non dire talvolta dall'assenza di un potere centrale in grado di governare con sicurezza ed energia, furono spinti a cercare di sviluppare una loro autonoma azione politica. Furono i marchesi di Busseto a dimostrarsi i più abili, i più capaci di cogliere le opportunità che si presentavano loro e di trarne vantaggio. Dopo la separazione dal fratello Gian Lodovico, trasferitosi a Cortemaggiore nel 1479, il marchese Pallavicino Pallavicino rimase l'unico signore di Busseto, ricevendone l'investitura nel 1481 da Gian Galeazzo Maria Sforza, insieme con Castione Marchesi. Il Pallavicino cercò di sfruttare la sua influenza presso la Corte di Milano, prestando giuramento di fedeltà ed ottenendo dopo Castione Marchesi anche il castello di Vianino (posto sulla riva sinistra del torrente Ceno) e liberandosi di Pier Maria Rossi di Parma, suo nemico dichiarato.34 A conferma dell'influenza di Pallavicino presso lo Sforza, è l'iniziativa degli abitanti di Borgo San Donnino, i quali presentarono ricorso al marchese di Busseto perché ottenesse loro dal duca di Milano una dilazione al pagamento dei censi già scaduti, e che non erano in grado di pagare sia per la forte somma che per la carestia sopraggiunta. Il Pallavicino godeva di forte considerazione anche fuori della Corte di Milano, al punto che molti Signori e Comuni gli affidavano il giudizio su cause relative ai loro interessi e come arbitro nelle varie liti. Alla sua morte, avvenuta a Busseto nel 1486, Pallavicino lasciò quindici figli, nove femmine e sei maschi: Galeazzo, Cristoforo, Ottaviano, Girolamo, Antonio Maria (nel 1486 Antonio Maria Pallavicino era al servizio del duca di Milano e combatté prima contro lo Stato pontificio, poi contro la Francia e contro Venezia) e Nicola. I sei figli maschi governarono in comune lo Stato di Busseto. Nel 1498, alla morte di Carlo VIII, la corona di Francia passò al duca d'Or-leans, che assunse il nome di Luigi XII. Questi l'anno successivo scese in Italia per conquistare il ducato di Milano: a novembre i francesi erano padroni di tutto il ducato. Ludovico Sforza, arrestato presso Novara il 17 aprile 1500, venne inviato in Francia, dove morì nel 1508 nel castello di Loches. Antonio Maria Pallavicino, alleato nell'agosto '99 con il duca di Milano, a settembre era passato al servizio dei francesi e in ottobre entrò in Milano a fianco del re Luigi XII, che gli concesse il collare dell'ordine di San Michele ed assegnò a lui ed ai fratelli il feudo di Borgo San Donnino (Fidenza). Nel 1507 il re di Francia concesse al marchese Antonio Maria Pallavicino, per la sua fedeltà e alleanza, il feudo di Castelsangiovanni. Nel 1510 papa Giulio II avanzò pretese di riavere il dominio su Piacenza e Parma, in quanto città anticamente comprese nell'Esarcato di Ravenna e nella donazione della contessa Matilde. L'intervento dei Veneziani e degli Svizzeri, a sostegno delle richieste papali, consigliò il re Luigi XII di far rientrare il suo esercito in Francia. Tutte le fortezze e le città del ducato furono libere, ad eccezione di Castelsangiovanni che rimase in potere di Antonio Maria Pallavicino. 34 Forte della sua influenza presso la Corte di Milano, Pallavicino ordì una trama per gettare sospetti e discredito su Pier Maria Rossi, fino a quel momento fedele alleato degli Sforza. Lodovico il Moro lo convocò a Milano per fornire giustificazioni ma, per la mancata presentazione, il Rossi fu dichiarato ribelle (1482) e costretto a difendersi per non essere catturato dai milanesi. Riuscì a sfuggire all'assedio di S. Secondo e si rifugiò a Torrechia-ra, dove morì il 1° settembre 1482, profondamente amareggiato per l'ingiustizia subita, mentre esultava il Pallavicino che si era liberato di un rivale presso la Corte di Milano. Nel 1486, alla morte del marchese di Busseto, si dubitò che la causa fosse il veleno e che i colpevoli andassero cercati nell'ambito della famiglia Rossi. Nel febbraio 1514 scoppiarono aspri scontri a Piacenza fra i guelfi e i ghibellini, con morti e feriti. Con l'intervento del Governatore Pontificio (la città era diventata possesso della Santa Sede) e del marchese di Busseto Ottaviano Pallavicino venne raggiunto un accordo: da una porta della città se ne andarono i ghibellini, dall'altra i Guelfi. Il 30 dicembre 1514 il papa Leone X confermò il feudo di Fiorenzuola al marchese Marc'Antonio Pal-lavicino di Cortemaggiore, con l'annuo canone di 5 libre di cera. Nella primavera del 1515, Francesco I re di Francia, successore di Luigi XII (morto nel gennaio 1515), scese in Italia per riprendersi il ducato di Milano. Il 14 settembre 1515 si svolse a Melegnano una grande battaglia tra i francesi e gli svizzeri (al servizio del ducato di Milano). Massimiliano Sforza, sconfitto, cedette il ducato e si ritirò a Parigi, dove morì il 10 giugno del 1530. Il papa Leone X, visti i rapporti di forza, giudicò òpportuno firmare un trattato di pace e di alleanza, col quale cedette Piacenza e Parma al sovrano francese (confesserà in seguito d'averlo fatto per evitare guai peggiori). Il 5 dicembre 1515 Francesco I si recò a Cortemaggiore in visita al marchese Gian Lodovico II. Carta topografica raffigurante il nostro territorio. La stesura in spagnolo di alcuni termini colloca la carta intorno al 1521, quando Parma fu conquistata dall'esercito ispano-papale. GUIDOTTI, Strenna Piacentina - 1991. Furono anni veramente difficili per il territorio: alle dure condizioni di vita create dalla perdita del raccolto si aggiungevano i danni causati dalle scorribande, nelle campagne, dei soldati del condottiero francese Lautrec e le varie contribuzioni ordinarie e straordinarie imposte dai funzionari di Francesco I (... erreno tanto superbi i Franzesi che da tuto, o la maggior parte, errano odiati e molto poco respecto havevano cussì a grandi corpo a piculi). L'elezione nel 1519 di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, riaccese il progetto di un'alleanza anti-francese. All'inizio del 1521 si preparò a Reggio un convegno tra piacentini, parmigiani e milanesi per la formazione di una Lega che, scacciando i francesi dall'Italia, consegnasse a Francesco Maria Sforza, fratello di Massimiliano, il ducato di Milano. Contemporaneamente il papa Leone X strinse un patto con Carlo V sperando, con la sconfitta dei francesi, di riottenere Piacenza e Parma. Di fronte a questa mobilitazione Francesco I inviò in Italia le truppe e invase lo Stato Pallavicino di Busseto, facendo arrestare e decapitare il marchese Cristoforo Pallavicino, fedele agli Sforza (11 novembre 1521). L'arrivo dell'esercito imperiale e pontificio, costrinse i francesi a lasciare Piacenza, dove il papa riaffermò la sua signoria. Galeazzo Pallavicino, marchese di Busseto e signore di Polesine negli anni 1504-20 (Coll. privata). In una situazione così altalenante era difficile prendere posizione in relazione alle prospettive di vittoria ed anche tra i fratelli Pallavicino, marchesi di Busseto, i comportamenti non furono univoci: morto Nicola (1495), Antonio Maria passò nel 1499 dall'alleanza con il duca di Milano a quella con la Francia, alla quale rimarrà fedele; Cristoforo corse in aiuto agli Sforza; Galeazzo, nominato nel 1483 Consigliere presso la Corte ducale e sposo di Elisabetta Sforza in prime nozze, non esitò nell'agosto del 1499 ad abbandonare il duca al suo destino e a passare dalla parte di Luigi XII, che lo ricompensò donandogli i feudi di Fontanella, Soresina e Romanengo; non volle però seguire i francesi nei loro rovesci, fingendosi malato ogni volta che lo si voleva coinvolgere e chiudendosi nel suo castello di Busseto. Ottaviano combatté nel 1514 a fianco degli Sforza, mentre Girolamo, creato vescovo di Novara da papa Sisto IV, fu consigliere, molto ascoltato, dello Stato di Milano e delegato nel 1489 a far parte della scorta d'onore che accompagnò la duchessa Bianca, sorella di Gian Galeazzo Sforza, in Ungheria in occasione delle sue nozze. Nel 1499, quando i francesi, invitati da Lodovico il Moro, conquistarono il ducato milanese, mons. Pallavicino intervenne al solenne giuramento di fedeltà a Lodovico II, entrando a far parte del senato del nuovo Stato, fino alla sua morte, avvenuta nel 1506. Cristoforo Pallavicino, marchese di Busseto, decapitato nel 1521 dai francesi. Quadro nel palazzo dei marchesi Pallavicino a Busseto. Tra il 1518 e il 1521 morirono gli ultimi 4 fratelli Pallavicino e subito si creò il problema della successione nel marchesato di Busseto. Morto prematuramente Nicola, Ottaviano e Girolamo non generarono che femmine. Da Antonio Maria nacquero Ugolino e Pallavicino e nessuno dei due ebbe figli maschi. Alla morte di Pallavicino, la figlia Luisa fu privata del feudo di Castelsangiovanni (che Pallavicino aveva ereditato dal padre Antonio Maria), preso in possesso dalla Camera Apostolica, ancora per mancanza di discendenti maschili. Galeazzo, oltre a due figlie, Laura e Beatrice, ebbe anche un figlio, naturale però, cui pose il nome di Adalberto e che egli si preoccupò di legittimare per assicurare una discendenza. Ad effettuare la legittimazione fu il conte palatino Berengario da Carpi, e questa conferma fu più volte richiesta e concessa da sovrani e da pontefici su istanza dei parenti più prossimi. Singolari le vicende matrimoniali di Galeazzo che, dopo le nozze con Elisabetta Sforza e la nascita delle due figlie, sposò in seconde nozze Eleonora Pico della Mirandola, dalla quale peraltro si separò perché, secondo la versione offerta da Nicolò Festasio, podestà di Busseto nel 1536, "l'onorata virtù dell'animo di Galeazzo Pallavicino fu oscurata da disonesta vita, perciocché, chiamata Leonora, donna di eccellenti virtù et ottimi costumi, la quale, conosciuta la vita lasciva di lui subito si partì e se ne andò a casa sua, et mai più vi tornò; alcuni dicono che la prima notte ch'ella giacque con lui, sonando matutino, come nodrita del timor di Dio et devotissima del suo nome, levatasi da letto a celebrarlo, fu la matina mandata a casa sua; sia come si voglia, egli subito fece intendere alla Bianca sua amica, sposata allora allora a un altro, che non andasse né giacesse col marito in conto alcuno". La Bianca, richiamata con affannosa sollecitudine da Galeazzo Pallavicino dopo il precipitoso ritorno a casa di Eleonora Pico, sua seconda moglie, diede al Pallavicino un figlio, Adalberto, che mori nel 1570 e fu legittimato, come visto in precedenza, per particolari ragioni politiche. Quanto a Cristoforo (fu in Busseto generoso benefattore della Chiesa e del Convento di S.Chiara; in Samboseto eresse un palazzo per villeggiare, adornandolo con gusto e ricchezza; quel palazzo era il ritrovo degli amici del Pallavicino, ove si passavano in feste intere giornate), ebbe tre figli maschi: Gerolamo, Francesco ed Ermete, e furono loro, a partire dal 1522, a reggere la signoria di Busseto e, in seguito, essendo morto precocemente Francesco, i soli fratelli Gerolamo ed Ermete congiuntamente. Insieme a Busseto anche il feudo di Polesine passò ai figli di Cristoforo. I marchesi di Busseto, che nel 1499 si erano opposti all'acquisto di Polesine da parte di Rolando Il di Cortemaggiore, avevano acquistato loro stessi il feudo nel 1504 e lo terranno fino al 1569. Per Busseto era molto importante questa zona, perché permetteva l'accesso al fiume Po, importante via di comunicazione per il traffico commerciale e militare (spesso i trasferimenti via terra risultavano difficile per lo stato delle strade). Agli inizi degli anni trenta la situazione italiana si era assestata; sconfitti duramente i francesi, il 6 gennaio 1530 venne stipulato a Bologna un accordo tra Carlo V (imperatore di Spagna e Germania), papa Clemente VII, Venezia, Francesco Sforza, i marchesi di Mantova, i duchi di Savoia e la Repubblica di Siena, i quali sancirono il nuovo assetto politico dell'Italia. BUSSETO ERETTA CITTÀ Il 4 marzo 1533 alle ore 22, l'imperatore Carlo V, diretto a Piacenza, si fermò a Busseto a far visita ai fratelli Gerolamo ed Ermete Pallavicino, suoi fedeli sudditi. Giunto alla porta di mezzodì, avendo scorto infissa su quella torre un'aquila in marmo nero, segno dell'antica devozione dei Pallavicino al Sacro Romano Impero, Carlo V esclamò: "esta non salta", aggiungendo "acqua non la scarsa", volendo indicare come la fede Pallavicino non sarebbe mai venuta meno. A ricevere l'imperatore gli erano andati incontro i marchesi Gerolamo ed Ermete, insieme al popolo festante, e l'imperatore rispose all'entusiastica accoglienza salutando Busseto col titolo di Città: per i Pallavicino era il riconoscimento dell'antica fedeltà alla parte ghibellina. Con questa investitura Carlo V concesse che alla testa dell'aquila, presente nello stemma del borgo, venisse aggiunta la corona d'oro e in mezzo al petto in un piccolo scudo d'argento una croce azzurra (i Farnese vi aggiunsero poi la corona ducale). Soggiornò nella Rocca la notte e tutto il giorno successivo e, alla sua partenza, lo seguì Baldassare Marri, che aveva l'incarico di ritornare a Busseto solo con il promesso Diploma di Città. Finalmente il 24 marzo ad Alessandria, Carlo V firmò il decreto, mentre il Marri, per rispetto, continuò a seguirlo ancora per qualche giorno, fino all'imbarco da Genova per la Spagna da parte del Sovrano. Il 18 maggio Mani giunse a Busseto, dove era atteso con ansia, e nella chiesa di San Bartolomeo si tenne una solenne cerimonia per festeggiare l'evento. L'imperatore Carlo V tornò in Italia nel 1543 e, ricordando l'accoglienza ricevuta e per la fedeltà del marchese Gerolamo,35 scelse la città di Busseto per un incontro col Papa Paolo III Farnese, e questo incontro avvenne il 21 giugno: "Il 20 Paolo III pranzava in Soragna ed il 21 alle ore 12 entrava in Busseto, seguito da 24 Cardinali, da Vescovi, da un gran numero di signori e Gentiluomini, da 600 fanti italiani, dalla guardia dei Lanzi, e da 300 cavalli... il Pontefice appena arrivato, spedì i cardinali e i Prelati incontro all'Imperatore, che si sapeva, fosse partito da Cremona nello stesso mattino. Seguivano Carlo V il Duca di Mantova, il Marchese del Guasto, il Principe di Piemonte, il Governatore dello stato di Milano Don Ferrante Gonzaga, il Duca Ottavio Farnese colla moglie Margherita d'Austria, moltissimi altri Signori e Duchi di Spagna, con un migliaio di armati".36 35 Girolamo nato a Busseto nel 1508, in diverse occasioni militò con onore nelle Fiandre al servizio di Carlo V. 36 E.SELETTI, La Città di Busseto - vol. II p.30. Paolo III accolse l'imperatore con molta cordialità, abbracciandolo, e gli concesse l'appartamento migliore nella Rocca. 11 papa, che da tempo voleva questo incontro, cercò in ogni modo, inutilmente, di convincere Carlo V a concedere il ducato di Milano al nipote Ottavio Farnese. Per sottrarsi a nuove richieste, Carlo V fece ritorno in Germania. In quei giorni era presente a Busseto il pittore Tiziano Vecellio, giunto al seguito di papa Paolo III. Sulla facciata di una casa Tiziano aveva dipinto l'incontro tra i due Potenti, con papa Paolo III seduto alla destra di chi guardava, e l'imperatore in piedi vestito di verde con pizzo d'oro secondo il costume spagnolo. Questo dipinto, esposto alle intemperie, andò via via rovinandosi ed oggi non è rimasto nulla. La Rocca Pallavicino di Busseto, esterno, che ospitò nel 1543 l'incontro tra l'imperatore Carlo V e il papa Paolo III Farnese. IL 20 dicembre 1554 venne stipulato un accordo tra i fratelli Gerolamo ed Ermete Pallavicino, signori di Busseto, e Sforza Pallavicino, signore di Fiorenzuola, che pose fine a una lite in essere per il possesso di Borgo San Interno della Rocca Pallavicino di Busseto. Donnino: "... Al fine di sedare la lite, si conviene che il Sig.Sforza cede ai detti fratelli tutti i paesi, le terre, le giurisdizioni, i dazi, i diritti feudali ecc. che possedeva la detta Donna Luisa37 e dall'altra parte i detti Sig.fratelli cedono e trasferiscono al sig.Sforza la metà della città di Borgo S.Donnino e della giurisdizione col reddito annuo di 500 scudi d'oro sui dazi del sale e sugli altri redditi del detto Borgo. Inoltre per benevolenza ecc... cedono al medesimo (Sforza) l'altra metà del detto Borgo, della rocca, della giurisdizione ecc... col residuo dei redditi a patto che alla morte del detto Sig. Sforza senza figli maschi legittimi e naturali e non legittimati, tutta la detta terra con la giurisdizione, la rocca e tutti i crediti ritorni ai detti fratelli o ai loro figli maschi come sopra. In cambio della detta metà del borgo, come sopra, il Sig.Sforza dà e cede ai detti fratelli Villa nova e Soarza con le loro giurisdizioni ecc.ecc. con i loro redditi, dazi, sale e porto ed altro... e con il patto che morti i detti Sig.ri fratelli senza figli legittimi e naturali e non legittimati, il Sig. Sforza o i suoi figli legittimi come sopra, siano eredi 37 Si trattava di Luisa Pallavicino, figlia di Pallavicino Pallavicino, figlio a sua volta di Antonio Maria, marchese di Busseto. La signora Luisa, in disaccordo con Gerolamo ed Ermete, aveva lasciato al momento della sua morte (1552) i suoi diritti a Sforza Pallavicino. In precedenza Luisa aveva chiesto e ottenuto anche una parte del feudo di Polesine; dopo la sua morte, nel 1552, tutto il feudo era tornato ai fratelli Gerolamo ed Ermete, marchesi di Busseto. L'incontro di Paolo III con Carlo V, 1543. Dipinto di Biagio Martini (1761-1840), Biblioteca Fondaz. Cariparma Busseto. Nel 1584 il bussetano Girolamo Boccelli fece scolpire una lapide perché rimanesse il ricordo dell'incontro tra l'imperatore Carlo V e papa Paolo III, ottenendo di farla porre sulla facciata della Collegiata. di Busseto e delle sue giurisdizioni, e della Rocca e dei redditi, esclusi soltanto i poderi, i prati, i boschi, i palazzi ed altri edifici". L'accordo stabilito era subordinato al beneplacito del "Serenissimo Duca Ottavio Farnese (figlio e successore di Pier Luigi) in vista del quale consenso essi stessi fanno supplica e si costituiscono reciprocamente procuratori". Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, in seguito alla petizione di Sforza Pallavicino confermò la transazione. Una volta definita la vertenza con Luisa e Sforza Pallavicino, Gerolamo ed Ermete, in disaccordo tra di loro, decisero di separare i beni in comune: "11 giorno 9 gennaio 1555 dalla nascita del detto Signore Gesù, Gerolamo ed Ermete Pallavicini, fratelli, divisero i loro beni e nella parte di Ermete venne la metà di Busseto con la metà della Rocca, della giurisdizione di Polesine e Vianino, Villanova e Soarza di qua e di là dal Po; a Gerolamo toccò l'altra metà di Busseto, con la metà della Rocca, Castione e la III parte di Monticelli, restando invece comuni e indivisi (proprietà di tutti e due) i porti e i dazi."38 Da questo momento, e fino alla sua morte (1562), Villanova e Soarza appartennero a Ermete, che ordinò un censimento del territorio e provvide ad emanare tutti gli atti relativi al suo feudo. Dopo la morte di Ermete fu Gerolamo a subentrare nelle proprietà e diritti feudali del fratello. 38 Fondo Archivio Famiglia Pallavicino - p.29 Archivio di Stato-Parma. Anno 1558 - Grida "Da parte dell'ill. Sig.Hermes (Ermete) Pallavicino Marchese di Busseto Sig.re di Villanova et Soarza e Brancere: Si fa pubblica Grida, Bando e Commandamento, che non sia persona alcuna di qual grado, stato e condizione esser si sia che si osi portar armi d'Asta, Archibugi, Balestre né altri Arme offendibili salvo che la spada alle chiese, né alle feste così pubbliche come private di essi luoghi intendendo però che li forestieri non possono portare armi da asta né Archibugi in dette Ville salvo che per viaggio ma se in caso che venissero in esse Ville et si affermassero in quelle non possano portare né tenere arme di sorta alcuna, salvo che la spada et il pugnale stando sotto la pena di scudi dieci senz'altra solennità di processo e credevasi a ciascun accusatore con duoi testimoni degni di fede quale guadagnerà la quarta parte di tale pena sarà tenuto secreto. Non sia persona alcuna che osi farsi maschera né imbavarsi in modo da maschera in dette Ville né di giorno né di notte sotto pena di detti scudi I O d'oro".39 Grida fatta pubblicare dal Sig. Marchese Pallavicino "acciò gli abitanti di Villanova, Soarza e Branciere non diano ricovero alli Banditi e Rei di qualche delitto". Grida che "si leva agli Insolenti ogni occasione di scandalo e di insolentie in quali incorre per la Licenziosa abbusione del Carnevale". "Dal Podestà di Villanova, Soarza e Branzere et de espressa Commissione dell'Ill.Hieronimo Pallavicini che non sia persona alcuna che ardisca portare sulle feste, ai Balli nel Contado Archibugi, né cime da Asta sotto pena di Scudi 6 d'oro". Anno 1565: "Havendo convenuto insieme gli Ill.mi Sig.Geronimo Patron nostro e lo Sig.Sforza Patron delle ragioni del Macinare alli uomini di Villanova, Soarza et Braciere si ritrova il Sig.Sforza essergli in molto comodità et utilità che gli abitanti in Villanova, Soarza e Brancere vadano a maccinare alla Piarda del Po e non ad aggiunti molini terranei ancorché siano di esso Ill.mo sig.Sforza, avendo però intenzione che gli uomini siano ben serviti dalli Molinari del Po." L'industria molitoria, fin dal medioevo, era correlata all'esercizio di un 39 Fondo Confini - Busta 171 Archivio di Stato-Panna. diritto feudale che i Pallavicino esercitavano da tempo immemorabile. Nel territorio di Villanova e Soarza, se escludiamo il molino del Castellazzo che già nel 1499 Rolando II Pallavicino aveva assegnato, come proventi, al Consiglio di comunità di Cortemaggiore, gli altri erano tutti natanti, solidamente attraccati alla piarda di Soarza da robuste gomene. L'affitto dei molini costituiva un'entrata cospicua per il signore, ma i margini economici della molitura consentivano agli affittuari di sublocare, a loro volta, i molini ai molinari che avevano il compito di governarli assieme ai loro garzoni. Ai mugnai era addossato, in genere, l'onere del trasporto dei grani dalle case dei contadini nelle campagne fino ai molini e di provvedere quindi alla restituzione delle farine macinate, salvo il diritto, riconosciuto ai committenti, di assistere alla molitura delle loro biade ed, eventualmente, di scopare attorno alle tramogge ed alle mole per recuperare il prodotto residuo. Mulino sul Po, tramonto. Dipinto del 1856 di Guido Carmignani (Parma, Museo Glauco Lombardi). Compreso in: Nelle terre dei Pallavicino di Carlo Soliani-Graf. Step Parma, 2012. I diritti sui mulini del Po furono oggetto di contrasti tra i marchesi di Polesine e i loro sudditi. Un altro monopolio dei Pallavicino era la concessione in locazione delle peschiere e delle ghiacciate. Per la concessione della pesca nel Po veniva concluso un contratto che prevedeva, oltre al prezzo stabilito, la consegna al marchese di un certo quantitativo di pesce. La "ghiacciata" era un tipo di pesca molto antico e praticato d'inverno nelle lanche, sulla cui superficie a causa del freddo si formava uno strato di ghiaccio. Per poter "fare una ghiacciata" lo strato doveva essere spesso e capace di portare il peso degli uomini che vi dovevano camminare sopra. Per pescare si tagliava il ghiaccio e si catturavano grandi quantità di pesce, che vi rimaneva imprigionato. La difficoltà nello stabilire i limiti territoriali delle proprietà, gli interessi in gioco e l'esistenza di pescatori di frodo, facevano sì che anche le "ghiacciate" fossero oggetto di controversie varie. Interno d'un mulino sul Po di Guido Carmignani (Parma, Museo Glauco Lombardi), anno 1857. CESARE PALLAVICINO: QUINTO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE Nel 1557 morì Gerolamo Pallavicino e, non avendo figli maschi, gli successe per breve tempo Cesare, figlio di Marc'Antonio (secondogenito di Rolando II, morto nel 1517 a trentatre anni). Nel 1528 Cesare aveva sposato Camilla Pallavicino, figlia di Ottaviano dei marchesi di Busseto, la quale morì senza prole, per non aver mai il marito consumato il matrimonio per impotenza congenita dello stesso Cesare. Dolorosa è la testimonianza di Ludovica, vedova di Gaspare Pallavicino e zia di Cesare, secondo cui "al tempo che il Sig. Cesare tolse per moglie la Signora Camilla non curava d'accompagnarsi seco, anzi facea ogni cosa per menarla più alla longa che potea". Quanto a Cesare Pallavicino, la marchesa Ludovica confortandolo, si sentì rispondere "che era meglio per lui che morisse, atteso che non era da far mente a questo mondo, per essere impotente a far figlioli". Lo stesso Cesare, qualche giorno prima della morte, fece chiamare la marchesa e le disse: "Satio di questo mondo e contentissimo di morire, non atto ad haver figlioli, e addoloratissimo di lasciare la Signora sua consorte sola che non ha padre né madre". Nel 1536 combatté con l'Impero contro la Francia, agli ordini di Ferrante da San Severino, al comando di una compagnia di cavalli. LA COMUNITÀ EBRAICA NEGLI STATI PALLAVICINO Degli Ebrei nel piacentino s'iniziò a parlare durante il Quattrocento; in tale secolo e in quello seguente svolsero una notevole attività commerciale sia a Piacenza che in alcuni centri della Bassa Padana, dove si erano stanziati con l'appoggio dei Pallavicino. Nel 1456 il duca Francesco Sforza confermò agli Ebrei il permesso di abitare nei paesi a lui soggetti perché "erano utili prestando denaro in tempo nel quale vi era scarsezza". Nel 1545 un rilevante numero di Ebrei venne espulso dalle città di Piacenza e Cremona, e nel piacentino, dal 1562 sino al 1803, ebbero la loro residenza coatta nei tre centri di Fiorenzuola d'Arda, Monticelli d'Ongina e Cortemaggiore, favorevolmente accolti dai Pallavicino e dai Farnese, che li autorizzarono a concludere prestiti feneratizi (con interessi) a condizioni date. Il motivo che indusse i governanti ad accogliere gli Ebrei in quelle località del contado può forse essere considerato, così come per il duca Francesco Sforza, l'intenzione di favorire, mediante prestiti, le popolazioni agricole di quelle plaghe che, nella seconda metà del sedicesimo secolo, si trovavano in condizioni di estrema miseria. La fondazione del Monte di Pietà di Busseto (1537), di I. G. Levi, olio su tela. Il padre francescano G. A. Maiavacca legge il documento alla presenza di Gerolamo, Francesco ed Ermete Pallavicino. L'esercizio del presto a usura, nei riguardi dei ceti meno abbienti, portò costoro a nutrire nei riguardi degli esosi creditori sentimenti di profondo rancore, che talvolta sfociavano, con il pretesto della diversità etnica e religiosa, in atti di ostilità non solo a livello popolare, ma anche da parte delle autorità statali ed ecclesiastiche che non cessavano di vessare gli ebrei con ogni genere di divieti e di discriminazioni, che talvolta venivano aggirati mediante l'esborso di elargizioni di denaro a favore delle autorità stesse (II commercio di denaro era svolto sia da Banchi di prestito che da singoli individui. I saggi d'interesse erano in media sul 30 per cento annuo ma potevano toccare anche punte del 130 per cento). Per combattere la piaga dell'usura, si giunse nel 1537 alla fondazione del Monte di Pietà di Busseto, per volontà dei marchesi fratelli Gerolamo, Ermete e Francesco Pallavicino su ispirazione del francescano P. Giovanni Antonio Maiavacca. Nel 1582 papa Gregorio XIII ne confermò canonicamente l'erezione. Nel 1585 a Cortemaggiore, grazie alle offerte del marchese Sforza Palla-vicino, della Comunità e del Capitolo della Collegiata, venne fondato il Monte di Pietà, che nel 1588 fu dotato di una sede propria, grazie alla donazione di una casa da parte del nobile Domizio Torricella. Due anni dopo la fondazione, lo Stato dei Pallavicino passava ai Farnese. Nel 1597, espulsi dal Ducato di Milano, una forte comunità di Ebrei si trasferì da Cremona a Monticelli dove, ricchi, industriosi e intraprendenti, non ebbero alcuna difficoltà ad inserirsi nelle strutture sociali del territorio, accattivandosi la simpatia dei Feudatari ai quali prestavano ingenti somme di denaro a tassi significativamente alti. Per l'attività che svolgevano, gli Ebrei furono sempre osteggiati dalla popolazione: il 4 aprile 1706 una lettera rilevava le angherie compiute con pignoramento dei loro beni ed altre misure coercitive e sempre in tale data veniva fornito l'elenco dei residenti in Monticelli. Questi i cognomi più comuni: Sforni, Soavi, Ottolenghi, Foà, Muggia, Fenzi. Nel 1750 venne pubblicata una grida contenente le solite restrizioni contro gli Ebrei. Tre anni più tardi, un nuovo Documento vietava di maltrattarli, deriderli in vari modi, molestarli e costringerli con la forza ad entrare nelle Chiese cristiane per ascoltarvi i sermoni e le prediche. A Cortemaggiore la presenza degli Ebrei e la loro attività è testimoniata nel verbale di riunione del Consiglio generale del 19 dicembre 1596, "convocato e congregato" per discutere sopra un ricorso fatto dagli Ebrei di Cortemaggiore che avevano prestato denaro al Sig. Pietro Antonio e "non essendo mai stato sotisfatto alli detti hebrei essi hebrei hanno proveduto di ragione contra detto Pietro Antonio". In tale riunione si invitarono i rappresentanti delle Ville, appartenenti allo Stato di Cortemaggiore, a dimostrare i pagamenti fatti agli Ebrei. 40 In una grida del 1661 si ordinava perentoriamente che essi non dovessero essere molestati in tempo di carnevale, né di giorno, né di notte, né quando seppellivano i morti. Le gride dell'epoca erano unanimi nel raccomandare indirettamente di cercare di "guadagnare gli Ebrei alla legge cristiana con buoni esempi" piuttosto che con la violenza. La conversione al cattolicesimo degli ebrei, con il coinvolgimento delle istituzioni e la solennità dei riti sacri e profani, è la testimonianza dell'importanza che tale avvenimento rappresentava a quel tempo. La conferma è in una lettera del 28 aprile 1724, scritta da Parma al duca Francesco Farnese: "Ser.ma Altezza, Giacobbe vita Landi Padre del Giovine ebreo, che vuole abbracciare la nostra Santa Fede, desidera, che detto suo figliuolo, anche senza l'intervento di suo padre, e di altro ebreo sia interrogato da qualche Padre della Comp.a di Gesù della quale totalmente si fida, accioché si veda, se veramente abbia esso suo figliolo tale vocazione; e di più che avendola, la funzione del Battesimo non si faccia a Cortemaggiore per divertire i sconcerti, che in tal caso dal Popolo, che nodrisce somma antipatia contro gli ebrei, potriano cagionarsi. All'incontro il Padre Guardiano de Minori Osservanti di Cor-temaggiore, et il figliolo medesimo vorrebbe che detta funzione si facesse in Cortemaggiore, e che colà si solennizzasse... ". Nel 1787 la conversione dell'ebrea Benvenuta Carmi venne citata nel corso di tre Consigli di Comunità con l'invito ad una generale partecipazione alla cerimonia del battesimo. Il I ° aprile 1803 gli Ebrei a Cortemaggiore erano 78 e i nomi più ricorrenti erano: Carmi, Vigevani, Levi, Foà, Muggia, Forti, Laudi, Sacerdoti. Nel 1865 gli Ebrei erano 66 e 32 nel 1881. Successivamente la comunità di Cortemaggiore, ormai numericamente ridotta, fu aggregata a quella di Modena, mentre nel 1925 la comunità di Monticelli, per la quasi estinzione della presenza ebraica, fu aggregata a quella di Parma. Gli Ebrei del piacentino furono sempre considerati stranieri ed in base a tale classificazione venne inibito loro l'accesso ad ogni carica pubblica, civile o militare. Costituivano insomma un nucleo che, estraneo alla religione 40" B I - Archivio Storico di Cortemaggiore. ufficiale dello Stato, doveva conservarsi tale anche nei confronti dello Stato stesso e degli altri sudditi, senza possibilità alcuna di difendere validamente i propri diritti ed i propri interessi. Ma il 12 luglio 1803, il commissario francese Moreau de Saint Mery emanò una grida che stabiliva e decretava che tutti gli Ebrei, domiciliati negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, erano e si intendevano parificati agli altri cittadini dei suddetti Stati a tutti gli effetti civili, politici e sociali e affermava che tutti i cittadini erano ugualmente "sotto la protezione della legge nello stesso modo che erano sotto la sua spada". Fu però un'equiparazione di poca durata. Cessato il dominio francese, sotto il governo di Maria Luigia, vennero ripristinate le antiche norme circa il domicilio forzato degli Ebrei e il divieto di mandare i loro figli alle scuole pubbliche. La situazione migliorò nella breve parentesi quarantottesca, per 'ritornare come nei peggiori tempi di Maria Luigia sotto i restaurati Borboni. Così che, in definitiva, gli Ebrei non ebbero interi i diritti di cittadinanza che all'atto della costituzione del Regno d'Italia. SFORZA PALLAVICINO: SESTO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE Per la morte del cugino Cesare, avvenuta nel 1561, Sforza Pallavicino, già Signore di Fiorenzuola, diventò il 6° marchese di Cortemaggiore; nell'occasione, le rimostranze avanzate da Camilla, vedova di Gerolamo, e dalle sue figlie e dalla moglie di Cesare Pallavicino furono ben presto appianate per la speciale protezione di cui godeva lo Sforza, che aveva sposato Giulia, la nipote del papa Paolo III Famese. Sforza Pallavicino era nato nel 1519 da Manfredo (marchese di Cortemaggiore e fratello di Gian Lodovico II) e Ginevra (già vedova di Galeazzo Sforza). Nel 1521, dopo l'uccisione di Manfredo da parte dei francesi, Ginevra si rifugiò presso Francesco Sforza portando il piccolo con sé. Nel 1536 Sforza Pallavicino era agli ordini dell'impero e combatté contro i francesi. Sposò Giulia, figlia di Bosio Sforza, conte di Santa Fiora e signore di Castellarquato, e quindi parente di Paolo III. Nel 1542 eccolo quindi alla guida dei soldati pontifici nella difesa di.Vien-na contro i Turchi e l'anno successivo investito del feudo di Fiorenzuola dal papa Farnese. La benevolenza di cui godeva presso Paolo III fu confermata nel marzo del 1542, quando il papa concesse a Sforza Pallavicino "la facoltà di poter esigere tutto il prezzo del sale fatto per S.S.ma in tutto lo Stato della chiesa, in tutte le terre sottoposte al Signor Sforza cioè Fiorenzuola, Bargone, Contignaco, Costamezzana; Soarza e Villanova,41 mettendolo in luogo della chiesa in dette sue terre per riscuotere detto aug. to. Comandando che in detta esazione non fosse molestato dalli ministri della sede apostolica et in fu espeditto per breve app. col piombo." Nel 1545 si trovava a Piacenza ad accogliere il nuovo duca Pier Luigi Far-nese e ne diventò confidente e consigliere: lo stesso anno venne mandato dal duca in missione diplomatica presso l'imperatore Carlo V. S'ipotizza che, per ragioni d'eredità, sia stato complice con Pier Luigi Farnese nel tentativo di assorbire il feudo di Cortemaggiore, facendo imprigionare a Piacenza la moglie di Gerolamo Pallavicino. Nel 1547 fu maestro di campo generale dell'esercito pontificio e Paolo III gli concesse il feudo di Sant'Arcangelo di Romagna. Qualche anno dopo era capitano generale di fanteria agli ordini della repubblica veneta. Nel 1562, con la morte del cugino Cesare Pallavicino, diventò marchese di Cortemaggiore; ma ben 41' Nel 1542 Sforza Pallavicino esercitava giurisdizione su Soarza e Villanova; il fatto è da collegare al testamento di Gaspare e Marc'Antonio Pallavicino, fratelli del padre Manfredo. presto riprese le sue missioni al servizio di Venezia, in lotta contro i turchi. Cinque anni dopo vendette Borgo San Donnino al duca Ottavio Famese per 48.500 scudi: il potere e la pressione del Famese non sembrano estranei a tale decisione. Nel 1569 Gerolamo, marchese di Busseto, e Sforza Pallavicino, marchese di Cortemaggiore, stipularono un patto successorio: essendo entrambi senza prole maschile, quello di essi che fosse sopravvissuto all'altro sarebbe divenuto signore del marchesato appartenuto al defunto. Dichiararono inoltre che proprio Adalberto (figlio naturale di Galeazzo, zio di Gerolamo), unico superstite della loro diramazione, doveva essere il loro successore nei rispettivi feudi e, per ribadire e convalidare la legittimazione di questi, ottennero 1'8 maggio 1570 l'emanazione di una bolla da parte di papa Pio V. Tutto questo tuttavia non permise ad Adalberto e ai suoi discendenti di entrare in possesso dei feudi appartenenti a Gerolamo e Sforza, infatti Adalberto morì prima dei due (1570) e non assistette allo sviluppo delle vicende successorie. Il 23 maggio 1579 morì il marchese Gerolamo Pallavicino di Busseto e, con lui, ebbe fine il ramo legittimo dei marchesi di Busseto e l'ultima fase della sua vita politica autonoma. In mancanza di eredi maschi, Gerolamo lasciò erede universale di tutti i beni feudali e allodiali il marchese Sforza di Cortemaggiore.42 Per entrare in possesso dei beni, lo Sforza doveva però rispettare una clausola inserita da Gerolamo nel testamento, in base alla quale, se non fosse stata data esecuzione ai legati disposti in favore della moglie Eleonora Viritella e dell'Ospedale di Milano, sarebbe subentrato al suo posto Ottavio Famese. Questa clausola provocò una tensione tra Sforza Pallavicino e il duca di Parma, seguita da una controversia giudiziale.43 42 Nel 1554, in occasione della cessione di Fidenza a Sforza, era stato firmato un accordo tra i fratelli Ermete e Gerolamo di Busseto e Sforza Pallavicino per cui, in mancanza di eredi diretti di un ramo l'altro avrebbe ereditato tutto. 43 Non si sa il motivo dell'inserimento della clausola dell'eventuale sostituzione dello Sforza da parte di Ottavio, ma sembra evidente in questo una iniziativa del Farnese. Sforza Pallavicino chiese l'annullamento del testamento contenente tale clausola, sostenendo che in ogni caso il suo diritto successorio derivava già dal 1479, al momento della divisione del feudo di Busseto, da cui aveva avuto origine il marchesato di Cortemaggiore. La sentenza diede ragione allo Sforza e il duca Ottavio non impugnò le sentenza, perché nel frattempo era subentrato un accordo fra i due. I rapporti tra i due, fino ad allora ottimi (Sforza si era sempre mostrato devoto ai Farnese), tornarono a ricomporsi dopo breve tempo con la firma di un accordo (per favorire tale accordo il duca Ottavio Farnese fece incarcerare lo Sforza nel castello di Piacenza). Il patto prevedeva che lo Sforza avrebbe adottato il marchese Alessandro Pallavicino del ramo di Zibello, destinato a sposare Lavinia Farnese, figlia naturale di Ottavio. L'annessione al ducato di Parma e Piacenza dello Stato Pallavicino, tentata invano una prima volta con la violenza da Pier Luigi Famese, maturava così lentamente attraverso l'evolversi delle condizioni politiche, l'accorta diplomazia dei matrimoni, l'astuzia e l'immancabile violenza fisica e morale. A questo punto per i Famese impossessarsi del marchesato diventava un'impresa molto più facile. Ottavio Farnese, ritratto olio su tela di I.G. Levi — Biblioteca Fond. Cariparma Busseto. Sistemata quindi la sua successione, Sforza Pal-lavicino ritornò al servizio di Venezia, occupandosi delle forze armate ed ottenendo anche la nomina a governatore di Verona. Morì il 4 febbraio 1585 nella sua villa di Salò; trasferita la salma a Cortemaggio-re, un cronista presente così descrisse la magnificenza dei funerali: "... Vi parteciparono la compagnia dei Battuti (o flagellanti), i preti di Monticelli, Busseto, Fiorenzuola con quelli del contado. Frati, circa cinquanta. Vi erano sei trombettieri a cavallo con tamburi, sei cavalli da sella coperti da gualdrappe, sei alfieri con gli stendardi tirati per terra... dodici alabardieri che si tiravano dietro le alabarde. Dopo questi vi erano alcuni putti con torcioni di sei libbra l'uno, e poi il cataletto recato dal mastro di casa e da altri cortigiani di detto signore, accompagnati da gentiluomini e moltitudine grandissima... ". Agri Cremonensis Typus, descritto dal pittore cremonese Antonio Campi nel 1579. Archivio di Stato di Cremona. L'ORDINAMENTO DELLO STATO DI CORTEMAGGIORE, I CAPITOLI DEL MARCHESE SFORZA PALLAVICINO Sforza Pallavicino, dopo essere stato famoso condottiero militare, fu anche un valido governante. Con lui si riunificò in buona parte il vecchio Stato Pallavicino di Rolando il Magnifico e Cortemaggiore raggiunse la sua massima importanza politica: nel 1580 possedeva Cortemaggiore, Fioren-zuola, Monticelli, Castelvetro, San Rocco, Busseto, Vidalenzo, Sant'Andrea, Samboseto, Frescarolo, Salsomaggiore, Bargone, Costa Mezzana, Soarza e Villanova. Per quanto riguarda l'ordinamento giuridico-amministrativo, nello Stato di Cortemaggiore trovarono applicazione gli "Statuta Pallavicinia" emanati nel 1429 da Rolando il Magnifico, integrati dalle "Reformationes et additiones" di Rolando II. Ovviamente gli organi indicati in questi testi legislativi non avevano che funzioni giudiziarie o amministrative, dato che tutto il potere politico e legislativo era accentrato nelle mani del Signore, così come richiedeva da un lato la qualità dei tempi, e dall'altro lato era implicito nella tradizione feudale dei domini Pallavicino. Abbiamo visto come negli "Statuti Pallavicini" •l'amministrazione della giustizia fosse affidata al Podestà direttamente, o attraverso suoi incaricati, come i giudici, presso i quali si doveva istruire il processo. Spesso il ricorso alla giustizia si fermava alla fase di denuncia o querela, poche infatti erano le cause che si concludevano con un processo e una sentenza; il motivo andava probabilmente ricercato nelle carenze dell'apparato giudiziario, con la mancanza di risorse tecniche e di tempo per poter svolgere un'efficace attività investigativa. I reati più comuni riguardavano liti e percosse, mentre le sanzioni pecuniarie erano in genere applicate anche in sostituzione delle pene corporali. A fronte delle contestazioni del giudice, in possesso di un bagaglio culturale più elevato, gli uomini del popolo si difendevano ricorrendo ad una loro cultura, formatasi nell'ambiente familiare, nelle Chiese, nelle strade e sulle piazze, ricorrendo spesso alla reticenza.44 Ad integrazione dell'ordinamento amministrativo in essere, il 2 luglio del 1584 Sforza Pallavicino emanò i "Capitoli del Consiglio di Comunità di Cortemaggiore". Nel preambolo, sotto l'intestazione "Sforza Pallavicino Marchese di Cortemaggiore et Governatore Generale dell'Ar-mi del Serenissimo Dominio veneto", il Marchese dichiarava di aver voluto 44 M.G. GIOVELLI, Un feudo e nove ville. La giustizia in un feudo: Cortemaggiore dal 1580 al 1587. Ed.I Fiori di campo, Mandriano(Pv), 2006 p.57. emanare i nuovi capitoli "avendo noi più volte per relazione di molti inteso, et poi per esperienza chiaramente visto et conosciuto, li tanti disordini occorsi per li tempi passati nelle cose della Comunità nostra di Cor-temaggiore... quali si possono attribuire al poco ordine, con il quale essa communità fin a hora è stata governata".45 I Capitoli, che presero il nome da Sforza Pallavicino, ressero il consiglio di Comunità di Cortemaggiore fino a che il Consiglio ebbe vita, cioè per più di due secoli, fino al 1806. Senonché sembra molto probabile che quei Capitoli non abbiano mai trovato applicazione sotto il governo del Marchese che ebbe a promulgarli, infatti si ritiene che la prima seduta del Consiglio di Comunità, vigenti i nuovi Capitoli, sia stata quella del 1° gennaio 1586, con la quale iniziano i resoconti. 45 Le disposizioni sono raccolte in trentasei capitoli, integrati dal preambolo già ricordato. E' previsto che il Consiglio si componga di trentasei uomini della "Terra" di Cortemag-giore, tutti scelti dal Marchese. Altri requisiti per l'appartenenza al Consiglio, oltre alla cittadinanza della "Terra" di Cortemaggiore, sono indicati nell'età minima (vent'anni), nella "integrità e sufficentia". La carica di consigliere è incompatibile con la titolarità di un qualsiasi "officio dipendente dalla Comunità"; la durata in carica dei consiglieri è prevista per il tempo di tre anni, ma con riserva, da parte del Marchese, "di poter in fine di detti tre anni confirmare la detta elettione in tutto o in parte, et come meglio a noi piacerà". ALESSANDRO PALLAVIC1NO: SETTIMO ED ULTIMO MARCHESE DI CORTEMAGGIORE Il 4 febbraio 1585 morì il marchese Sforza, lasciando come suo successore ed erede universale Alessandro Pallavicino dei marchesi di Zibello. Alessandro, adottato nel 1581, aveva tre anni dopo sposato Lavinia Famese, figlia naturale del duca Ottavio. Essendo ancora minorenne, era nato a Zibello nel 1570, lasciò in procura le sue terre e i suoi beni al padre Alfonso e raggiunse le Fiandre, per mettersi al servizio di Alessandro Farnese, impegnato al comando delle truppe spagnole di Re Filippo Il. A Ottavio Farnese, morto il 18 settembre 1586, successe il figlio Alessandro, Signore del ducato di Parma e Piacenza. Nell'impossibilità di abbandonare le operazioni militari in Francia e in Belgio, incaricò il figlio Ranuccio di rappresentarlo in permanenza come "Reggente lo Stato". Alessandro Farnese, olio su tela di I.G. Levi. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto. Ranuccio I Farnese, olio su tela di I. G. Levi. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto. Ranuccio II Farnese, olio su tela di Jacob Denis, 1671. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto. LA CONQUISTA FARNESIANA DELLO STATO PALLAVICINO E LA SUA SOPPRESSIONE Il 2 settembre 1587 Alessandro Farnese scrisse da Bruxelles al figlio di prendere possesso di tutti i beni che erano appartenuti al marchese Sforza Pallavicino: "Hò risoluto che senza mandare il negotio più a lungo, ne faciate pigliare il possesso senza dar retta a chi osasse avanzare pretese o diritti, libero poi ognuno di ricorrere al consiglio di giustizia". Il marchese Alessandro Pallavicino protestò inutilmente, in tutti i modi, contro la violenza del Farnese: rinchiuso nella Rocchetta di Parma, il Pallavicino ottenne la libertà solo dopo aver ordinato ai castellani delle sue rocche di consegnarle ai Farnese (presa di possesso eseguita il 27 e 28 settembre). La Casa Farnese, con l'intervento di un compiacente Tribunale, ottenne una sentenza con cui si dichiarava che "i domini di Cortemaggiore, Busseto e Fiorenzuola sono devoluti al Fisco" (camera ducale). Con il 1587 finiva quindi lo "Stato Pallavicino", che per alcuni secoli aveva avuto un ruolo nella storia d'Italia: ai Pallavicino subentrò il regime ducale, con il governo della Comunità di Cortemaggiore e delle altre affidato ai cittadini che il sovrano Farnese scelse per amministrare la cosa pubblica. Il solo riferimento esplicito alla vicenda si trova in calce al verbale del Consiglio di Comunità di Cortemaggiore, dove una mano ignota, diversa da quella del cancelliere verbalizzante, scrisse: "Qui cessa il dominio dei Pallavicini e sottentrano i Duchi Farnesi". Alessandro Farnese volle che il Governatore del suo ducato si chiamasse: "Governatore di Parma, suo Territorio e Vescovado, Governatore speciale dello Stato Pallavicino". Formalmente e per un motivo politico il Farnese tenne separato lo Stato Pallavicino dal Ducato, questo perché, se in seguito lo Stato pontificio avesse preteso la restituzione di Parma e Piacenza, questa pretesa non avrebbe coinvolto lo Stato Pallavicino. Se questo cessò quindi di esistere quale entità politica, continuò a sopravvivere come entità amministrativa, con un'autonomia che si esprimeva attraverso la particolare disciplina di tutto un complesso di rapporti: gli Statuta Pallavicinia di Rolando, le Additiones di Rolando II e i Capitoli di Sforza Pallavicino continuarono ad essere in vigore, come rimase tutta una serie di esenzioni e privilegi. Sta di fatto comunque che con l'andar del tempo "il signore duca Ranuccio II, considerando che finalmente lo Stato Pallavicino non era che una pertinenza dell'una o dell'altra città lo suppresse l'anno 1678, 31 dicembre". LE RIVENDICAZIONI DELLO STATO DI BUSSETO E CORTEMAGGIORE DA PARTE DEI PALLAVICINO La soppressione violenta del secolare dominio feudale, indusse i membri della famiglia Pallavicino, esponenti di due diversi rami, ad addentrarsi in controversie giudiziarie per il recupero del territorio. Dopo la liberazione dalla prigione farnesiana, Alessandro Pallavicino si ritirò nella sua villa di Salò, dove iniziò una causa contro i duchi di Parma e Piacenza durata 47 anni, ed al suo esame e studio presero parte i migliori ingegni del tempo. La causa terminò nel 1633 grazie a una transazione propiziata dal cardinale Francesco Barberini, per la quale Alessandro Pallavicino e i suoi figli, monsignor Sforza (poi cardinale) ed Alfonso, rinunciavano a ogni loro pretesa su ciò di cui erano stati spogliati, mentre il duca Odoardo Farnese si obbligava a cedere in cambio tanti beni nell'Italia centrale (Castiglione della Teverina, la tenuta di Cervara e Sant'Angelo in diocesi di Tivoli) per un valore di centomila scudi romani: il tutto con la necessaria ratifica di papa Urbano VIII con bolla del 1635. Alessandro Pallavicino morì a Roma nel 1645, all'età di 75 anni. Un'altra controversia, per rivendicare la sovranità sullo Stato Pallavici-no, venne portata avanti contro Alessandro di Zibello (e di conseguenza contro i Farnese) da Gerolamo Galeazzo III Pallavicino, figlio del defunto Galeazzo 11 (morto nel 1582) e nipote di quell'Adalberto al cui ramo una convenzione intervenuta nel 1569 tra Sforza di Cortemaggiore e Gerolamo di Busseto destinava i domini degli stipulanti qualora fossero morti senza figli maschi. Nel 1613 Gerolamo Galeazzo III ottenne dalla Sacra Rota di Roma, come risultato platonico, una pronuncia a lui favorevole "secondo cui i diritti di un figlio adottivo", cioè Alessandro Pallavicino, "non potevano turbare le leggi di successione". Inoltre Gerolamo Galeazzo, allo scopo di poter sostenere le gravissime spese richieste nella causa contro il parente Alessandro, vendette il feudo della Castellina a Gian Pietro marchese di Soragna. Le pretese di Galeazzo III sullo Stato Pallavicino incontrarono nel 1633 l'interesse della corte imperiale, alla quale il Pallavicino si era rivolto chiedendo protezione. 117 marzo 1636, mentre era in corso una campagna militare, con Odoardo Farnese schierato contro l'imperatore Ferdinando II, questo rilasciò un diploma al Pallavicino col quale riconosceva le sue ragioni e lo investiva dello Stato di Busseto. Per Galeazzo Pallavicino e i figli Alessandro e Carlo c'erano dunque formalmente le "carte in regola" e le spalle coperte, quali pretendenti a quello Stato. Quando nell'agosto 1636 le truppe spagnole occuparono Busseto e Cortemaggiore, cacciando le forze farnesiane, sembrava veramente giunto il momento sperato. 11 13 settembre a Busseto: "Essendo stato esposto et significato dall'Ill.mo nostro Podestà sì come l'Ill.mo Sig. Marchese Galeazzo e Sig.ri suoi consorti de Pallavicini per investitura ottenuta da sua sacra maestà Cesaria... è per pigliar l'attuai e corporal possesso qui di Busseto, così bisogna dargli e prestargli il giuramento di vassallaggio et di fedeltà". Dunque pieno riconoscimento da parte del Podestà e del Consiglio comunitativo, l'uno e l'altro nominati dallo spodestato duca Farnese, di una nuova, ripristinata sovranità dei Pallavicino. Odoardo Farnese, ritratto di I. G. Levi. Biblioteca Fond. Cariparma Busseto. Ma il 4 febbraio 1637, si presentò al Consiglio di comunità di Busseto il Villaroel, vice comandante delle truppe spagnole occupanti, comunicando "'a detti Signori Congregati che è seguita la pace et agiustamento tra il Ser. mo Sig. Ducca di Parma et la Maestà Cattolica, et che torneremo sotto al tanto da noi bramato et desiato fedelissimo dominio del Ser.mo Sig. Duca Odoardo Famese". I deputati si dissero pronti a eseguire gli ordini "subito e molto volentieri venendo il tutto dal Ser.mo duca Odoardo Farnese nostro Signore e Padrone clementissimo, per il quale e per tutta sua casa Ser.ma questa Comunità, et il popolo tutto, sarà sempre prontissima spender robba, vitta e figli et quanto hanno, e per quali ordini... ". Niente di simile nel Consiglio dei convocati di Cortemaggiore, muti intorno alla partenza degli Spagnoli e al ripristino della sovranità farnesiana. Passarono due mesi di silenzio, finché il Consiglio si riunì l'8 aprile limitandosi a fissare il calmiere per alcune derrate alimentari, in assenza definitiva del sig. Gio. Antonio Nigrotti, che era stato inserito d'autorità nel Consiglio dai Pallavicino. 11 23 febbraio 1637, dopo la firma del patto col quale il Famese si dichiarava suddito e sottomesso all'imperatore, le truppe spagnole partirono dallo Stato pallavicino, aprendo il ritorno al duca. Questi decise d'infliggere un colpo mortale alle residue speranze dei Pallavicino: con un editto obbligava ad abitare nei suoi domini chiunque vi possedesse beni, sotto pena di confisca degli stessi. Il 21 luglio 1638, il Farnese confiscò i beni allodiali posseduti nei domini farnesiani da Galeazzo III, il quale, ridotto in ristrettezze economiche, morì lo stesso anno. Inutilmente i suoi successori, trasferitisi nel milanese, continuarono a lottare, con speranze ormai ridotte al lumicino; finché il trattato della "quadruplice alleanza" (Londra, 1718), destinò i Ducati di Parma e di Piacenza a don Carlo, primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, qualora si fossero estinti i Famese, come avverrà nel gennaio del 1731. Giovanni Pio Luigi Galeazzo VII (1744-1815) fu l'ultimo a tentare il recupero dello Stato pallavicino di Busseto, ma l'imperatore Giuseppe II lo persuase che senza cannoni era follia il voler pretendere la sovranità, e Galeazzo VII pensò allora di ritirarsi in campagna, alla Torre Pallavicino, ove Morì nel 1815, occupandosi dei suoi campi. Con il figlio Giuseppe Galeazzo VIII, si estinse il ramo principale dei Pallavicino, Signori dello Stato di Busseto. LA VILLA PALLAVICINO DI BUSSETO Una prima testimonianza sulla Villa, in relazione alla famiglia Pallavicino, viene da un atto notarile del 1579, il testamento del marchese Gerolamo, ove fra i beni lasciati in eredità figura "Totum et integrum usufructum Pa-latij appellati di Boffalora", frutto di un acquisto del Pallavicino da Giorgio Marmetti (noto anche come Mani o Della Marra) e fratelli. Significativo anche il nome "Boffalora", cioè "Boffa l'aura", con esplicita allusione alla funzione di diletto e svago della costruzione. Un documento notarile del 1518 attesta il privilegio con cui i marchesi Pallavicino accordavano a Matteo Mani il permesso di servirsi delle acque del canale di Busseto, a seguito della licenza rilasciata al medesimo di costruire uno o più edifici di fronte al convento dei francescani (proprio dov'è situata la Villa Pallavicino). Si può quindi ipotizzare intorno a quella data la costruzione della Villa. Nel 1633 il marchese Alessandro Pallavicino di Zibello, genero di Ottavio Farnese, e i suoi figli Sforza e Alfonso, rinunciarono ai beni e diritti "feudali, regali, giurisdizionali" sui territori dello Stato pallavicino, ottenendo dal duca il mantenimento del feudo di Zibello (come vassalli dei duchi di Parma, fino all'abolizione del feudalesimo) e alcune proprietà allodiali sia a Zibello che a Busseto, con la conseguente ricomposizione dei rapporti con i Farnese. Inoltre il duca Odoardo s'impegnava a sostenere tutte le spese per la causa promossa contro lo stesso Marchese dai suoi parenti, discendenti da Adalberto Pallavicino. Il mutato clima politico, permise così ad Alessandro Pallavicino di riprendere il possesso della Villa, dando vita a una serie di trasformazioni, per le quali furono chiamati i migliori artisti della Corte ducale. La ristrutturazione e ampliamento proseguì con Alfonso Pallavicino e soprattutto con suo figlio Alessandro II (morto nel 1749), impegnato nel 1741 a dotare di statue il giardino della Boffalora. Nel 1869 Giuseppe Verdi acquistò sei di queste statue per arredare il parco di Sant'Agata. Sembra che il marchese Palla-vicino fosse stato costretto a vendere le statue per saldare debiti di gioco. Con l'estinzione del ramo di Busseto, il ramo di Zibello tornò a pretendere la titolarità dello Stato Pallavicino, riconosciuta dalla Corte imperiale di Vienna nel 1729. Al marchese Alessandro II fece seguito il figlio Uberto Ranuzio (1705-75), poi Filippo e, sempre appartenente al ramo di Zibello o di Parma (così detto perché molti Pallavicino si erano trasferiti a Parma), il figlio marchese Giuseppe Pallavicino (1802-84), che trascorse buona parte della vita al servizio della Corte e dei pubblici uffici a Parma. A trentaquattro anni fu nominato da Maria Luigia, di cui era ciambellano, presidente del Magistrato degli studi; nel 1848 rese pubbliche nella piazza di Parma in tumulto le concessioni della Costituzione strappata dal popolo al duca Carlo II. Riconfermato nei vari incarichi da Carlo III, la reggente consorte Luisa Maria lo nominò ministro dell'Interno, della Difesa e degli Esteri. Nel 1859, allo scoppio della Seconda guerra d'Indipendenza, seguì la duchessa e il principe Roberto nell'esilio in Svizzera. Ritornato a Parma nel 1860, lasciato ogni incarico pubblico, visse per lo più nella Villa Pallavicino di Busseto con la moglie Leopoldina e gli otto figli maschi (le tre figlie si erano già sposate), interessandosi, da esperto di agricoltura, dei suoi fondi a Zibello e Busseto. Le lettere di Giuseppe Ferrari e Pietro Rivaldi, agenti del marchese rispettivamente a Zibello e a Busseto, scritte al Pallavicino fra aprile 1848 e aprile 1849, danno diretta testimonianza degli umori della popolazione. La prima lettera risale al 14 aprile e informa il marchese di un atteggiamento ostile di una parte della popolazione nei confronti della famiglia Pallavicino: "A Polesine e Fontanelle (osteria) non sono veduti volentieri gli Stemmi della famiglia. A Polesine specialmente si medita di farne bersaglio di fucilate... Io avrei fatto levare volentieri questi stemmi se non avessi creduto di dare con ciò una sciocchissima consolazione a certi sciocchi e cattivi". Probabilmente la causa di tale ostilità era legata alla posizione del marchese Pallavicino, funzionario della Corte ducale di Parma. Nel 1859 lo storico Emilio Seletti lamentava che "Il popolo di Busseto a far mostra di patriottismo e di odio al casato Pallavicino, avendo il marchese Giuseppe seguito la Duchessa nella terra d'esilio, pretese che fossero atterrate le Torri—Porte della città ricordanti un'epoca del passato Pallavicino". Palazzo Pallavicino di Busseto, acquistato dai marchesi nella prima metà del Cinquecento. Statua del parco di S. Agata, una delle sei acquistate da Verdi e provenienti dalla Villa Pallavicino di Busseto. Nel 1871 Verdi riferì al piacentino G. Maloberti, incaricato di procurargli delle statue per il giardino: "Per quanto riguarda le statue non ne ho più bisogno. Ho tenuto sei statue colossali di 2 metri ciascuna senza il piedistallo". Parma aprile 1875 — Cortile di Palazzo Santafiora. Gruppo di famiglia dei marchesi Giuseppe e Leopoldina Pallavicino in occasione delle loro nozze d'oro. In piedi da sinistra: i figli marchesi Luigi e Adalberto con accanto la moglie Eleonora dei principi Rasini di San Maurizio, il cavalier Francesco Biondi, la figlia marchesina Anna con accanto il marito conte Giovanni Simonetta di Torricella, la figlia marchesina Vittoria moglie del cav. Francesco Biondi, i figli marchesi Pietro, Antonio, Sforza, Filippo e Carlo. Sedute da sinistra: la duchessa Clelia Fogliani d'Aragona moglie di Luigi, i festeggiati marchesi Giuseppe e Leopoldina Pallavicino, la marchesa Maria Cavriani moglie di Sforza, la contessa Luigia Benassi moglie del marchese Filippo e da ultimo il marchese Lodovico. Giuseppe Pallavicino, coli. Privata. Compreso in: Nelle terre dei Palla-vicino di Carlo Soliani. Graf. Step Parma, 2012. PIER LUIGI PALLAVICINO, ULTIMO MARCHESE DEL RAMO DI ZIBELLO Nel 1962 si tennero a Parma le celebrazioni dei mille anni del casato Pal-lavicino; anima della riunione di famiglia era stata Carolina, sposata nel 1919 con il marchese Annibale Pallavicino (1883-1942), marchese del ramo di Zibello: dal loro matrimonio era nato l'anno successivo Pier Luigi Pallavicino. Complesse vicende patrimoniali e la volontà di assicurare alla Villa un futuro che la preservasse nel tempo, costrinsero il marchese, all'inizio degli anni Cinquanta, ad alienare al Comune di Busseto la Villa Pallavicino. La consapevolezza che la salvezza dell'archivio sarebbe stata la base per conservare la storia della famiglia portò nel 1975, poi nel 1986 e infine nel 2004 (da parte della vedova Maria Gabriella) a una donazione dei documenti a favore della Biblioteca del Monte di Pietà di Busseto, diretta dal prof. Corrado Mingardi. Pier Luigi Pallavicino morì a Parma il 14 settembre 2003, e con lui si estinse l'ultimo marchese parmense del ramo di Zibello. I marchesi Maria Gabriella e Pier Luigi Pallavicino al teatro Regio di Parma. Nelle terre dei Pallavicino di Carlo Soliani. Graf. Step Parma, 2012. Il nostro lungo viaggio, in compagnia dei marchesi Pallavicino, è terminato. Insieme a loro abbiamo percorso mille anni di storia, dallo Stato feudale allo Stato regionale, con i tentativi dei signori feudali di sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole, mentre l'Impero faceva sentire una presenza sempre più lontana, sfumata. All'inizio dell'Ottocento, con l'arrivo dei francesi, si giunse all'abolizione dei feudi, la cui presenza era ormai ridotta ad un ambito strettamente locale, priva di qualsiasi peso politico. Il 14 settembre 2003 si spense Pier Luigi Pallavicino, ultimo marchese Pal-lavicino in provincia di Parma, appartenente al ramo di Zibello. La notizia non ebbe certamente grande risonanza, limitata probabilmente all'ambito familiare e ai pochi cultori di Storia. Il tempo, la successione degli avvenimenti, i cambiamenti politici avevano coperto di oblio anche il ricordo di quella che era stata una delle famiglie più famose e potenti della nostra Italia.