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BABILONIA TEATRI
Babilonia Teatri è per un teatro pop. Per un teatro rock. Per un teatro punk. I nostri spettacoli sono
dei blob teatrali. Delle playlist cristallizzate. Uno specchio riflesso.
Babilonia Teatri è diretta da Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Babilonia Teatri è Luca Scotton,
Alice Castellani. Babilonia Teatri collabora con Vincenzo Todesco, Gianni Volpe, Francesco Speri,
Marco Olivieri.
Babilonia Teatri è gli spettacoli ad oggi creati: “Panopticon Frankenstein”, 2006 (finalista Premio
Scenario Infanzia 2006, vincitore di Piattaforma Veneto di Operaestate Festival Veneto 2007)
“Underwork – spettacolo precario per tre attori tre vasche da bagno tre galline –” , 2007 “Made in
Italy”, 2008 (Premio Scenario 2007, nomination Premi Ubu 2008 novità italiana / ricerca
drammaturgia, Premio Vertigine 2010) “Pop Star”, 2009 “Pornobboy”, 2009 Babilonia Teatri vince il
Premio speciale Ubu 2009 per la capacità di rinnovare la scena, mettendo alla prova la tenuta del
linguaggio e facendo emergere gli aspetti più inquieti e imbarazzati del nostro stare nel mondo
attraverso l’uso intelligente di nuovi codici visuali e linguistici. “The best of”, 2010 (Premio Off del
Teatro Stabile del Veneto) “The end”, 2011 (Premio Ubu 2011 novità italiana/ricerca drammaturgicanomination Premio Ubu 2011 spettacolo dell’anno) Babilonia Teatri vince il Premio Hystrio alla
Drammaturgia 2012 “The Rerum Natura” – progetto speciale da “The end”, 2012 Babilonia Teatri
vince il Premio Enriquez Sirolo 2012 nella categoria Nuovi linguaggi di impegno sociale e civile,
sezione Teatro di ricerca “Pinocchio”, 2012 (Babilonia Teatri vince il premio Associazione Nazionale
dei Critici di Teatro 2013)
Babilonia Teatri è stata sostenuta da Viva Opera Circus, Operaestate Festival Veneto, Festival delle
Colline Torinesi, Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria, Santarcangelo 40, C.R.T. Centro
di Ricerca per il Teatro, Napoli Teatro Festival Italia.
Babilonia Teatri ha casa ad Oppeano, località “Le merle”.
SPECCHIO RIFLESSO
Per noi il teatro ha ancora senso di esistere se può ancora essere specchio della società in cui vive. Della
realtà in cui è immerso. Del mondo che lo contamina e che lo genera. Che ne è il fondamento. La base . La
ragione. Per noi non esiste teatro senza realtà. Senza la realtà in cui siamo immersi e che condiziona ogni
giorno la nostra vita. La nostra vita tutti i giorni scorre. Ci indica su cosa fermarci a riflettere. La nostra
riflessione tende a non essere interiore, ma guarda verso l’esterno. E’ uno sguardo trasversale che parte
dalle nostre vite per metterle in contatto col mondo esterno. Mettiamo in relazione le nostre contraddizioni e
quelle del mondo in cui viviamo. Evidenziamo la nostra debolezza. La nostra finitezza. La nostra incapacità
di essere coerenti. Di essere completi. Di avere delle risposte. Il teatro è il luogo in cui formulare le domande.
In cui senza ipocrisie esprimere i nostri dubbi. La nostra rabbia. La nostra indignazione. In cui provare a
condividere in modo sincero, ma senza aspettative il nostro pensiero e le nostre prese di coscienza. Il luogo
in cui provare ad avere coscienza di quello che siamo.
Di quello che vorremmo essere. Di quello che non saremo mai. Per noi parlare di quello che ci circonda, in
cui viviamo immersi, raccontare la realtà che ci appartiene è la priorità. E’ la nostra necessità di non dare
nulla per scontato. Ovvio. Valido a priori. E’ la nostra necessità di non delegare. Di non far scegliere altri al
posto nostro. E’ la nostra necessità di scottarci. Di toccare con mano dove brucia. Di rigirare il dito nella
piaga. Di provare ad essere urticanti a nostra volta. Il tentativo è: fotografare e fotografarci. Senza sconti.
Con cinismo e affetto assieme. Ritrarre i nostri tic. Le nostre ansie. La nostra schizofrenia. La follia che
siamo e che ci circonda. Per fare tutto questo raccogliamo pezzi di vita. Di mondo. Di realtà. Li accostiamo e
li montiamo. Senza soluzione di continuità. Seguendo un filo rosso che non è quello di una narrazione, ma di
un sovrapporsi di significati che emergono scomponendo la realtà. Il nostro intento non è quello di formulare
ipotesi, ma di provare a fermare delle schegge. Intercettare dei frammenti. Non siamo noi ad essere incapaci
di formare nella mente una immagine integra di noi stessi è lo specchio in cui guardiamo ad essere
frantumato. Siamo convinti che non sia possibile comporre un caleidoscopio completo. Convinti che questa
non sia una rinuncia. Una scorciatoia. Un atteggiamento aprioristico. Convinti che le sfaccettature e la
mutevolezza dell’oggi non siano riconducibili e racchiudibili in un pensiero chiuso. La frammentarietà della
forma teatrale allora non è solo né principalmente una scelta estetica. E’ la forma che per noi più aderisce e
meglio rappresenta la realtà oggi. E’ una forma in cui le parole, i gesti, le immagini si susseguono non
perché conseguenti, ma perché giustapposti. Non vi è mai nei nostri spettacoli una tesi da sostenere, né
un’antitesi da contrapporvi e meno che mai si può parlare di una qualsiasi sintesi. Il mondo viene compresso
fino al parossismo per rendere esplosive le parole che tutti i giorni ci scivolano addosso per assuefazione.
Per noia. Perché semplicemente abbiamo altro da fare. Le cronache dei giornali, come della televisione, le
immagini che appaiono sotto i nostri occhi ogni volta che accendiamo il computer sono diventate un
panorama costante. Nel nominarle a teatro la loro forza non risiede nel farle ricordare a chi ascolta, ma nel
loro potere simbolico ed evocativo. Lo spettatore si accorge di come ogni immagine nominata richiami alla
sua mente infinite altre immagini dello stesso tipo. Si accorge di come notizie a cui non aveva dato
importanza alcuna, di cui si era com-pletamente disinteressato si siano egualmente fissate nella sua
memoria. Viviamo sotto l’assedio di un bombardamento mediatico. Un bombardamento che non è più il
racconto della realtà, ma è la realtà stessa. I video sempre accesi davanti ai nostri occhi non sono più un
mezzo che ci riporta quel accade. Sono un mezzo che determina quel che accade. Lo condiziona Lo
scandisce. Ne siamo chiaramente e costantemente contagiati. I video sono un luogo.
Un luogo in cui spendiamo il nostro tempo. Le nostre energie. Le nostre intelligenze. Sono la realtà. Per
raccontare, fotografare, restituire tutto questo, per noi è necessario ricorrere alle parole che questi mezzi
utilizzano. È necessario fare propri i loro codici linguistici e il loro vocabolario. E’ necessario sporcarsi le
mani. Riconoscere di avere le mani sporche. Di essere parte di quel mondo. Non scordarselo mai se non
vogliamo correre il rischio di fare la parte dei borghesi illuminati. È nell’utilizzare a teatro la lingua del mondo
che il pubblico ha la possibilità di vedersi rispecchiato. Di riconoscersi. Di realizzare che è di lui che stiamo
parlando. Di noi. Di realizzare che siamo fuori di metafora. Che non esiste la possibilità di chiamarsi fuori.
Che possiamo ridere o piangere, provare amarezza o ghignare, ma ci accorgiamo che quel coacervo
indistricabile di contraddizioni siamo noi. Ci mostriamo nudi. Senza trarre conclusioni. Senza proporre
soluzioni. Palesiamo la complessità del reale accostando senza filtri e mediazioni parole, immagini e punti di
vista altri tra loro. Senza pretesa alcuna di essere oggettivi. Le parole per acquistare forza hanno bisogno di
essere semplicemente dette. Per noi è il modo più efficace per restituire loro peso e valore. Per far in modo
che ognuno gli attribuisca il peso che ritiene adeguato. Per non dare una lettura univoca alle parole, ma
lasciare al singolo il compito di riem-pirle del suo senso. Facciamo nostri una cifra e un codice linguistico per
sviscerarne tutta la forza e le potenzialità. Per mettere in discussione i messaggi che veicola. La lingua viene
prima scarnificata. Masticata. Analizzata. Poi la restituiamo. La vomitiamo. Spesse volte abbiamo la netta
impressione che la parola abbia un potere deflagrante. Che i nostri corpi sulla scena non abbiano la
possibilità di raggiungere un grado di verità e di violenza in grado di eguagliare la forza della parola. Il peso
specifico delle parole risiede nella modalità con cui vengono accostate e nell’atteggiamento con cui vengono
dette. Nel dirle noi ci trasformiamo in una sorta di maschera contemporanea. A parlare non è quasi mai
l’attore e non è quasi mai la persona. E’ una maschera che si fa portavoce di un sentire e di un pensare per
consegnare ad altri la sua esperienza della realtà e del mondo. La rappresentazione della realtà passa
quindi attraverso una rielaborazione del parlato. Attraverso un lavoro sulla lingua che ci permette di costruire
dei testi che possono essere assimilati a dei rap, delle filastrocche, degli elenchi e dei tormentoni. Una forma
di scrittura intimamente connessa alla recitazione adottata sulla scena. Recitazione atonale che prende forza
grazie alla scrittura ritmica e sincopata. Recitazione che risponde all’esigenza etica di non stare mai sulla
scena fingendo di essere qualcun altro. Il lavoro sulle immagini procede invece in altro modo. Gli oggetti
sulla scena non sono mai altro da loro. Le vasche da bagno sono vasche da bagno. I tubi luminosi sono tubi
luminosi. Gli oggetti sono reificati. Semplicemente scegliamo degli oggetti che da soli siano in grado di
rappresentare la realtà. Verifichiamo che spostati dal loro habitat e posizionati sulla scena non vengano
svuotati del loro senso, ma che coordinati coi nostri corpi il loro valore simbolico venga amplificato. Tutto è
pervaso da una buona dose di autoironia. Non chiediamo di essere presi sul serio. Noi per primi ci
prendiamo in giro. Dissacriamo e non piangiamo. Preferiamo ridere. Prima di tutto di noi stessi. E del teatro.
RASSEGNA STAMPA “PINOCCHIO”
VALERIA OTTOLENGHI, ANCORA UNA VOLTA STRAORDINARI I BABILONIA TEATRI. TRA LA VITA E LA
MORTE, TRA IL RISO E IL PIANTO, LA GAZZETTA DI PARMA, 25/11/2012
Sempre assolutamente geniali gli autori/registi di Babilonia Teatri, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani,
capaci ogni volta e meravigliosamente di toccare tematiche, situazioni estreme con una sensibilità,
un’intelligenza teatrale del tutto sorprendenti. Si ride spesso – risate aperte e piene, dirette e calorose – per
questo Pinocchio presentato in anteprima al Teatro al Parco nell’ambito di Zona Franca / In Contemporanea,
protagonisti Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton, ma in questo
divertimento libero, sciolto, immediato, si avverte nello stesso tempo uno strano miscuglio di stati d’animo, di
vasta commozione, in un equilibrio di suprema cura e rigore teatrale in cui i Babilonia sono assoluti maestri.
Una poetica che, nell’apparente semplicità, affronta le sfide più ardue con una misura prodigiosa, tra estrema delicatezza e massima audacia. Pinocchio vive molteplici metamorfosi, soffrendo per questo. Divenendo
anche povera creatura ragliante dalle orecchie d’asino. Morti e rinascite in altre forme. Potendo al termine
vedere se stesso quand’era burattino, in un finale che non si sa quanto possa dirsi lieto, felice, rinunciando
Pinocchio a molta parte di sé per diventare “ragazzino perbene”. Anche chi si risveglia dal coma si trova
cambiato profondamente. Lunghi i tempi della riabilitazione. Difficile riavvicinarsi alla vita di un tempo. Nel
cuore dello spettacolo i tre interpreti saliti in scena a torso nudo, svelando alcuni segni di quel passaggio
sospeso tra la vita e la morte (così dirà uno di loro), faranno scorrere dei cartelli, mentre si ascolta la
canzone, con la traduzione di Yesterday, “improvvisamente non sono l’uomo che ero”. Esperienze reali.
Questo spettacolo è nato con Gli amici di Luca. Pure grandissimo teatro divenendo ogni passaggio, anche
d’assoluta verità, carico di molteplici sensi, dubbi, metafore, in una densità di pensieri che lasciano
comunque intatta l’emozione, profondo il turbamento. Enrico Castellani è voce esterna che legge brevi
frammenti di Pinocchio, interroga i tre uomini, chiede la loro età, cosa ricordino del loro tempo precedente.
Continuo il gioco tra verità e finzione. “Si attenga al copione Ferrarini!”. Pinocchio e i suoi personaggi. Il
sogno di una fata. Ricordi, racconti surreali. La guida esterna chiede, ordina, corregge. Perché c’è anche,
grande, divertita, ilare, la voglia d’autonomia. Lunghissimi, colmi di commozione e incanto, gli applausi al
termine. Ancora un’opera straordinaria con Babilonia Teatri.
RENATO PALAZZI, RISVEGLIO CON FATA TURCHINA, IL SOLE 24 ORE, 9/09/2012
Non è un caso che due delle proposte più importanti del festival “B.motion” di Bassano fossero realizzate
con persone disabili o affette da disturbi psichici. C’è, in questi incroci del teatro con la diversità e la malattia
– se sono sostenuti da una forte vena creativa – il senso di una necessità che trascende e soverchia ogni
altra forma di spettacolo presentato nello stesso contesto, dal raffinato studio su Mishima di Alessandro
Martinello al monologo con pupazzi della bravissima Marta Cuscunà sulle suore ribelli di un convento
cinquecentesco. Pur essendo ancora in fase di preparazione – la prima “ufficiale” avverrà il 7 ottobre a
Bologna – il Pinocchio allestito da babilonia Teatri con pazienti usciti dal coma è parso già un risultato
assoluto, forse il punto d’arrivo (col già recensito Lingua Imperii degli Anagoor, che ha aperto la rassegna) di
una generazione: punto d’arrivo non solo per l’alto livello poetico, ma per la padronanza, per la sensibilità
con cui Enrico Castellani e Valeria Raimondi hanno governato una materia difficilissima, che sarebbe
sfuggita di mano a chiunque altro. Il loro Pinocchio è straordinario fin dalla scelta del titolo, che implica
allusivamente il tema del risveglio, del passaggio dalla condizione di burattino a quella di bambino, e dunque
della presa di coscienza di un prima e di un dopo. È straordinario nell’apparizione dei tre protagonisti, che
entrano dalla sala, seminudi, due in bermuda e uno in mutande, incerti nei passi, ma non smarriti. È
straordinario nell’idea di non farli recitare ma parlare di sé, sollecitati dalla voce fuori campo dello stesso
Castellani, che li interroga, li coinvolge in una paradossale intervista, all’apparenza un grado zero della
rappresentazione, di fatto invece teatralissima. Lui, invisibile, pone domande con affettuosa ma sfrontata
ironia, senza retorica o pietismo: chiede della loro vita, dell’incidente che l’ha segnata, delle fate turchine che
vorrebbero incontrare. Loro rispondono con humor irresistibile, quasi con spavalderia: il tutto sembra lieve,
sorridente, ma il dramma si nasconde di continuo dietro la dizione faticosa, dietro i gesti esitanti, coesiste
con la scheggia di immediata realtà che essi incarnano, la illumina e in qualche modo nobilita.
MARIA GRAZIA GREGORI, IL RISVEGLIO DAL COMA. MA NON E’ UNA FAVOLA, l’UNITA’, 24/05/2013
Non è certo una favola il “Pinocchio” di Babilonia Teatri né vuol esserlo. Semmai è l’elaborazione di un
percorso di vita interrotto e precipitato improvvisamente nel buio del coma. E poi la risalita, il risveglio, con
una gran voglia di riafferrarla, per quello che è, la vita che resta: non un immaginario paese dei balocchi ma
una rinascita faticosa, da vivere tutta intera con quella ironia, con quella estraneità stralunata ma
umanissima che a volte hanno quelli che hanno vissuto questa esperienza estrema. Per scelta dediti a un
teatro a sua volta estremo nei contenuti che ha spesso per protagonisti gli ultimi e il degrado di una società,
Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno costruito questo Pinocchio, in scena al Teatro Elfo Puccini,
dopo l’incontro con Gli Amici di Luca, compagnia formata da persone che sono uscite dal coma e il burattino
di legno diventato ragazzo in carne ed ossa dopo una vita scapestrata è la falsa riga Immaginaria della loro
storia vera. I tre protagonisti infatti – Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli – sono tre uomini
precipitati nel buio dopo un incidente e poi ritornati faticosamente alla vita. Sono dei sopravvissuti e lo sanno
e hanno una gran voglia di prendersi una piccola vittoria sulla vita che gli ha giocato un brutto scherzo.
Scelta non facile quella di Raimondi-Castellani, ma il rischio di farne una cronaca magari anche partecipata
ma sostanzialmente banale è superato per la tensione e la maturità espressiva che riescono a comunicarci.
Non un teatro verità, ma un teatro che sa usare fino in fondo quello che è davvero suo: la rappresentazione
non della vita vera ma di una vita parallela che non è mai una fuga, ma una presa di coscienza. I tre arrivano
in scena dove li attende seduto in mutande un Pinocchio in carne ed ossa con un finto naso di cartone (Luca
Scotton) che non dirà mai una parola, ma a un certo punto li guiderà in alcuni esercizi fisici. Due sono a
torso nudo e in pantaloncini, uno in mutande e con un’imbragatura da paracadutista, pronti a essere
sottoposti al fuoco di fila delle domande che la voce fuori campo di Enrico Castellani fa a ciascuno di loro –
che cosa si ricordino del coma, età, altezza, libri letti, quale sia il loro tipo di donna – attento a che non
sforino dalle “regole” per arrivare a dirci che il mondo dei balocchi di cui si favoleggia è dentro di noi, che il
burattino Pinocchio “imbragato” dal legno è simile allo stato di coma vissuto dai tre, che però hanno avuto la
fortuna di andare oltre, di spiccare il volo come fa Paolo Facchini sollevato verso l’alto da dei tiranti. Uno
spettacolo da vedere, commovente e forte.
ENRICO FIORE, IL RISVEGLIO DAL COMA CON I BEATLES E VASCO ROSSI, IL MATTINO, 15/03/2014
La locandina di Pinocchio - lo spettacolo di Valeria Raimondi ed Enrico castellani che Babilonia Teatri
presenta nella sala Assoli insieme con gli amici di Luca, l’associazione teatrale formata da persone uscite
dal coma- mostra un letto d’ospedale sul cui lenzuolo bianco è scritto tra l’altro: “Perdere il passato. Non
trovare il futuro”. Ciò che significa, in pratica, la riduzione della vita al solo presente. Ovvero, per l’appunto, al
teatro, che infatti, conosce unicamente l’opzione del presente. In breve, qui si realizza al massimo grado di
concettualità e poesia quello che da sempre è il credo teorico di Babilonia Teatri: “Un teatro dove la vita
irrompe sulla scena con tutta la sua forza senza essere mediata dalla finzione”. Perché, lo ripeto ancora una
volta, la maledizione del teatro sta nel fatto che, per sua natura, è costretto a fingere la vita nel momento
stesso in cui vive. E gli attori/non attori in campo nella circostanza compiono il miracolo di tramutare quella
maledizione in grazia: fingono la recitazione nel momento stesso in cui recitano. Essi, in altri termini, sono in
una perenne condizione di attesa: l’attesa di una vita vera; e in questo somigliano a Pinocchio: il quale, lo
sappiamo, attende di tramutarsi da burattino in bambino. Senonché - essendo usciti dal coma ed essendo
privi, come recita la locandina dello spettacolo, sia del passato che del futuro - si trovano fuori della storia e
non possono, di conseguenza, elaborare un progetto di vita. Possono soltanto esibire - pungolati dalla voce
dello stesso Castellani nella veste di una sorta di domatore/psicanalista - la verità assoluta dei loro corpi
segnati da cicatrici e menomazioni. Avete capito, allora. I nostri attori/non attori somigliano, più che al
Pinocchio di Collodi, a quello di Carmelo Bene: il lieto folle che - calato in un mero processo, avviato su una
strada lastricata di semplici momenti - si rifiuta strenuamente di crescere perché strenuamente abbracciato
alla propria innocenza. Ed è per questo, poi, che dalle menomazioni fisiche si libera una comicità anarchica
e irresistibile. Come quando, appena sveglio, uno di quei burattini di carne chiede subito all’infermiera: “Me
la dai?”.
SIMONA SPAVENTA, COLPISCONO AL CUORE GLI EX PAZIENTI USCITI DAL COMA, LA RAPUBBLICA –
MILANO, 24/05/2013
È ironico e struggente, pieno di vita vera e insieme di una teatralità diretta e potente il Pinocchio che
Babilonia Teatri ha allestito con i pazienti usciti dal coma. La ricerca dura, gridata, punk, di Valeria Raimondi
e Enrico Castellani, tra i talenti più forti della nuova scena, qui si mette alla prova con non-attori e una
materia scivolosa, difficilissima. I tre ex pazienti, seminudi sul palco, esibiscono i loro corpi segnati e si
raccontano non senza divertita esuberanza a Castellani, voce fuori scena che li interroga, mentre la favola di
Collodi fa da controcanto poetico che evoca desideri, dolori, momenti della vita di “prima”. Una drammaturgia
all’apparenza improvvisata, che respinge ogni pietismo e colpisce nel segno con immagini e azioni teatrali di
forza dirompente.
FRANCESCA LOZITO, LA VITA DOPO IL COMA. UN PINOCCHIO IRONICO, AVVENIRE, 23/05/2013
Fino a domenica al teatro Elfo Puccini è di scena Pinocchio. Uno spettacolo realizzato dalla pluripremiata e
innovativa Babilonia Teatri (Ubu 2011) e dalla Casa dei risvegli Luca De Nigris, struttura bolognese per la
riabilitazione dal coma. Sono proprio tre persone che hanno fatto la drammatica esperienza di un incidente
stradale e il conseguente ritorno alla vita dopo i giorni di coma i protagonisti: Paolo, Gigi e Riccardo. I tre
parlano con una voce fuori campo che introduce il loro personalissimo Pinocchio con intermezzi pieni di
autoironia. Perché di una testa che non sta più dritta e abbassa l’altezza di Gigi si può sorridere dicendo che
lo rende una persona ad altezza mobile. Basta farlo comprendendo che questa rappresentazione teatrale
non ha nulla di pietistico, ma è uno strepitoso inno alla vita, in cui la celeberrima Yesterday dei Beatles
sembra cucita addosso al prima e dopo che segna le loro vite. In cui la persona apparentemente più fragile
sul palco si dimostra la più forte. Capace di imbragarsi e volare.