Simone Weil: uno stile di pensiero, in La responsabilità di essere liberi. La libertà di essere responsabili, L’Era di Antigone, Quaderno n° 5 del Dipartimento di Scienze giuridiche della Seconda Università degli Studi di Napoli, F. Angeli, Milano 2012, ISBN 9788856846799, pp. 183-186. Simone Weil: uno stile di pensiero di Giuseppe Limone Simone Weil nasce a Parigi nel 1909 e muore a Ashford nel 1943, ad appena 34 anni. La sua breve vita, collocata fra i due conflitti mondiali del Novecento, presenta simbolicamente in se stessa i tratti degli eventi di cui fu testimone non passiva: la crisi del ‘29, l’avvento dei totalitarismi, la critica rivoluzionaria dei sistemi sociali, i movimenti operai, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale. Di tutto ciò il suo pensiero porta le stimmate, ma in un modo del tutto originale. Crediamo che, per inquadrare correttamente il pensiero di Simone Weil, sia necessario individuare la sua postura speculativa. Un pensiero infatti può essere compreso non solo indagandone il contenuto, ma a partire dalla prospettiva radicale da cui muove, ossia da quella che noi chiamiamo la sua postura teoretica. Crediamo, in questo senso, che il pensiero di Simone Weil possa capirsi solo a partire dallo stile tragico della catastrofe. Ci sono due modi diversi di pensare l'etica e due modelli di pensatori: c'è un modo che pensa l'etica riferendosi agli eventi difficili della vita come a possibili contingenze incontrate nel proprio cammino e c'è un altro modo, che pensa invece l'etica proprio a partire dagli eventi più difficili, gli eventi-limite, quelli a partire dai quali è possibile vedere in un orizzonte di verità. Esiste cioè uno stile etico del pensare eticamente e uno stile tragico del pensare eticamente. Crediamo, in questo senso, che la Weil sia una pensatrice tragica che pensa a partire dalla catastrofe: la catastrofe intesa come la situazione vera da cui è possibile guardare la realtà. Già nella prima fase della sua ricerca intellettuale c'è un forte indizio di questa sensibilità teoretica, consistente nel fatto che il suo pensiero muove per vocazione sua propria non da un mero intreccio di ragionamenti, ma direttamente dal vissuto. Simone Weil non semplicemente pensa al proprio vissuto, ma a partire dal proprio vissuto. Un tale indirizzo speculativo non indica solo una preferenza metodologica, ma lo statuto di una postura teoretica. Soltanto a partire dal vissuto si possono dire cose vere. La scelta spaesante della Weil di vivere, lei borghese, direttamente la condizione operaia nel 1934 ne è un'indicazione forte. La Weil decide non di pensare la condizione operaia, ma di pensare a partire dalla condizione operaia. Questo avvio di vita teoretica conosce una più esplicita svolta con lo scoppio della seconda guerra mondiale, quando la pensatrice francese sceglie più drasticamente di vivere la condizione dei vinti. Essa cioè pensa a partire dalla catastrofe. Ciò per una scelta che, ancora una volta, non è semplicemente di contenuto, ma di impostazione. Solo a partire dalla catastrofe infatti si guarda la realtà dalla condizione degli ultimi, degli sventurati. La condizione della sventura è il luogo necessario dal quale può vedersi la verità. Qualsiasi altro luogo non sarebbe né rivelativo né radicale. La condizione della catastrofe ha una sua tragica “oggettività”, che non dipende dalla scelta di questa o di quella confessione religiosa. In ogni catastrofe il vinto, lo sventurato guarda con gli stessi occhi con cui ogni altro vinto guarda, indipendentemente dalla fede abbracciata. Crediamo che sia in questo preciso senso che la Weil esprima la sua cristologia spaesante, per la quale si parte da Cristo e dalla sua croce in un orizzonte che paradossalmente prescinde dalla stessa adesione al cattolicesimo o al cristianesimo. Pensare a partire dalla catastrofe infatti significa collocarsi nella condizione più radicale per pensare a partire dalla verità. E, d'altra parte, pensare a partire dalla verità significa pensare a partire dalla comunità: quella comunità con cui si pensa, a cui si pensa, per cui si pensa, a partire da cui si pensa. Se si guarda alla stessa tragedia greca e al ruolo che in essa ha il coro, può capirsi bene come la posizione del coro sia quella dello spettatore partecipante, dello spettatore comunitario partecipante, che guardando da una condizione di catastrofe, vede la verità della condizione umana dall’interno di un coinvolgimento emozionale. Si consideri ciò che Walter Benjamin dice dell'eroe greco nei confronti del Fato. Egli sottolinea che l'eroe, caduto sotto i colpi di una Forza anonima che non ha volto, si sente moralmente superiore a essa: è solo nella condizione della catastrofe che a lui appare questa straordinaria verità. La sventura quindi, per Simone Weil, è la condizione a partire dalla quale possiamo veramente capire. Ciò vale sia per chi ne è colpito sia per chi decide di condividerla con lui. Si tratta di una condizione che può subirsi direttamente o può condividersi per compassione: per una compassione da intendere come scelta di compartecipazione. La compassione infatti è il luogo specifico all'interno del quale la sventura, condivisa per generosità, può far balenare la sua ultimativa verità. La sventura, in quanto espressione della catastrofe, non è solo oppressiva, ma rivelativa. C'è da osservare però che Simone Weil, che tanta meditazione filosofica ha sviluppato a partire dalla riflessione sulla condizione di sventura, ha forse disatteso o mal compreso, nel suo opporre l'impersonale al personale in nome dell'impersonale, il problema della persona. Che cosa è infatti l'impersonale per la Weil? È l'affermarsi di un universale che non è disincarnato, non è astratto non è attivistico e non è partigiano. Un tale “impersonale”, affermato in nome della carnalità ineludibile, rappresenta quella condizione universale che rifiuta la mera particolarità e rifiuta di essere ridotta all'astrazione, mentre contemporaneamente rifiuta di essere ricondotta a un giacimento attivistico che si esaurisce in una volontà e in un fare. La condizione dell'impersonale a cui guarda la Weil è una condizione “passiva” non nel senso della sua inerzia, ma nel senso del suo costituire il grado zero del sé. Ora, un tale “impersonale” non è affatto contrapposto alla persona, se si guarda alla persona nella sua configurazione radicale. La persona infatti non può essere pensata come disincarnata, né può essere guardata astrattamente, né può essere vista nella sua mera soggettività attivistica, particolare e partigiana. È dentro la “persona” appunto che vive l'“impersonale” di cui parla la Weil. La persona non è la pura soggettività attivista e cosciente, ma è il grado zero del sé, assunto nella sua unicità e nella sua valenza universale. Questa “persona” non è il puro soggetto, né la mera coscienza, né la semplice singolarità che ha perso il legame con l'universale. Essa è, se ci si sa elevare a un tipo logico superiore, l'universalità della propria unicità. Nella persona, concreta singolarità di ognuno, vive appunto quel quid che Simone Weil chiama impersonale e che è invece il vero nocciolo universale del personale. Dentro la persona abita non solo la soggettività, ma quella “passività intelligente” in cui si realizza quel nucleo universale che in un lampo improvviso di luce la catastrofe rivela. L'“impersonale” della Weil e l'idea della persona ben configurata hanno gli stessi bersagli dialettici: possono ben essere quindi, da questo punto di vista, semanticamente convergenti. La vera radice della filosofia è il vissuto. La filosofia deve avere la capacità e la forza di uscire dai salotti delle pure argomentazioni per entrare nella dura terra della realtà carnale, anzi deve avere l'umiltà e il coraggio di ripensare daccapo a partire da essa. In una tale condizione, stando nel luogo del vissuto, essa può esprimere quel pensiero che è attenzione e attesa, là dove l'attenzione rifiuta l'inerzia e l'attesa rifiuta la superbia, la ybris, di chi crede di potersi salvare da sé e da solo. Non a caso sia l'attesa («l'attente») sia l'attenzione («l'attention») hanno in comune la tensione (la «tension»), ossia quell'atteggiamento non inerte che mira contemporaneamente all'altro e all'alto della possibile grazia. Simone Weil mette al centro della sua meditazione il malheur, la sventura, nella quale è decapitato ogni futuro. La sventura è quella condizione di atterrata inermità a partire dalla quale la realtà si rivela nella sua ultima, intima e celata verità. In essa appare in filigrana la realtà della condizione umana. Una tale condizione può essere subìta direttamente nella propria carne o condivisa per compassione: ma sia nell'uno che nell'altro caso tale condizione accade in nome del significato universale dell'umano in cui la catastrofe rivela il nascosto. La catastrofe identifica in un lampo i punti-crisi che disegnano i contorni di un’identità, dell’identità della situazione umana: sia in quanto singolarmente vissuta, sia in quanto radicata in una comunità, sia in quanto generata dalle sociali responsabilità. Nella sventura pesano insieme la sorte e le volontà oppressive, che stringono gli assoggettati in un viluppo di necessità nel quale l'unica risorsa, incancellabile risorsa, è l’istanza del bene che nell'attenzione e nell'attesa può trovare aperto un varco condiviso verso la possibile grazia. In questo senso, la sventura è condizione politica e ontologica, in cui si mostra ciò che l'umano può fare e ciò che l'umano non può fare. Nella situazione di catastrofe che la sottende lampeggiano insieme l'universalità segreta di ogni condizione, la necessaria responsabilità e la possibile grazia.