Rivista scientifica bimestrale di Diritto Processuale Civile ISSN 2281-8693 Pubblicazione del 17.12.2014 La Nuova Procedura Civile, 6, 2014 Editrice Comitato scientifico: Elisabetta BERTACCHINI (Professore ordinario di diritto commerciale, Preside Facoltà Giurisprudenza) – Silvio BOLOGNINI (Professore straordinario di Filosofia del diritto) - Giuseppe BUFFONE (Magistrato) – Costanzo Mario CEA (Magistrato, Presidente di sezione) - Paolo CENDON (Professore ordinario di diritto privato) - Gianmarco CESARI (Avvocato cassazionista dell’associazione Familiari e Vittime della strada, titolare dello Studio legale Cesari in Roma) - Caterina CHIARAVALLOTI (Presidente di Tribunale) - Bona CIACCIA (Professore ordinario di diritto processuale civile) - Leonardo CIRCELLI (Magistrato, assistente di studio alla Corte Costituzionale) - Vittorio CORASANITI (Magistrato, ufficio studi del C.S.M.) – Lorenzo DELLI PRISCOLI (Magistrato, Ufficio Massimario presso la Suprema Corte di Cassazione, Ufficio Studi presso la Corte Costituzionale) - Francesco ELEFANTE (Magistrato T.A.R.) Annamaria FASANO (Magistrato, Ufficio massimario presso la Suprema Corte di Cassazione) - Cosimo FERRI (Magistrato, Sottosegretario di Stato alla Giustizia) – Francesco FIMMANO’ (Professore ordinario di diritto commerciale, Preside Facoltà Giurisprudenza) - Eugenio FORGILLO (Presidente di Tribunale) – Mariacarla GIORGETTI (Professore ordinario di diritto processuale civile) - Giusi IANNI (Magistrato) - Francesco LUPIA (Magistrato) Giuseppe MARSEGLIA (Magistrato) – Francesca PROIETTI (Magistrato) – Serafino RUSCICA (Consigliere parlamentare, Senato della Repubblica) - Piero SANDULLI (Professore ordinario di diritto processuale civile) - Stefano SCHIRO’ (Presidente di Corte di Appello) - Bruno SPAGNA MUSSO (Magistrato, assistente di studio alla Corte Costituzionale) - Paolo SPAZIANI (Magistrato, Vice Capo dell’Ufficio legislativo finanze del Ministro dell’economia e delle finanze) – Antonella STILO (Consigliere Corte di Appello) - Antonio VALITUTTI (Consigliere della Suprema Corte di Cassazione) - Alessio ZACCARIA (Professore ordinario di diritto privato, componente laico C.S.M.). eBook LaNuovaProceduraCivile L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA DEGIURISDIZIONALIZZAZIONE PRIME RIFLESSIONI SULL’ARBITRATO DI PROSECUZIONE1 E SULLA NEGOZIAZIONE ASSISTITA2 1 Autore delle riflessioni sull’arbitrato cosiddetto di prosecuzione è l’Avv. Gianluca Ludovici (PhD). 2 L’Avv. Domenico De Rito si è occupato della parte relativa all’analisi della negoziazione assistita. di Gianluca LUDOVICI e Domenico DE RITO SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’arbitrato di prosecuzione o deflattivo in generale. – 3. La parziale esclusione delle cause di lavoro e previdenza. – 4. L’instaurazione della procedura giudiziale. – 5. La storicizzazione dell’arbitrato di prosecuzione. – 6. Le modalità di attuazione dell’arbitrato deflattivo: la scelta degli arbitri. – 7. L’arbitrato di secondo grado. – 8. Il ritorno al giudizio civile. – 9. La genesi dell’istituto della negoziazione assistita. – 10. Trasposizione dell’istituto nell’ordinamento italiano e sovrapposizione con il D.Lgs. 04.03.2010 n. 28. – 11. La negoziazione assistita: ambito di applicazione e fasi. – 12. La negoziazione obbligatoria. – 13. Profili processuali: pluralità di parti nella successiva fase processuale e le nuove domande. – 14. La negoziazione in materia di separazione e divorzio. – 15. Conclusioni. Premessa. Dapprima con il D.L. 132/2014 e poi con la Legge di conversione dello stesso adottata in data 10.11.2014 e recante il n. 162, il Legislatore ha inteso introdurre processuali nuovi nell’ordinamento o di inedita processuale applicazione civile al italiano dichiarato strumenti scopo di degiurisdizionalizzare e definire in tempi più rapidi il contenzioso civile. Si tratta, in realtà, dell’ennesimo intervento normativo diretto a fornire ai “consociati” mezzi ulteriori ed alternativi rispetto alla soluzione giudiziale tradizionale, al fine di rendere il ricorso ai giudici statali sempre più una soluzione estrema riservata soltanto a quei casi che non sia possibile risolvere più o meno bonariamente con forme estranee alla giurisdizione vera e propria. Il Legislatore, infatti, prosegue correttamente a vagliare ed introdurre soluzioni alternative al processo, tuttavia tale direzione, assolutamente condivisibile nella ratio, continua ad apparire più come “correttivo” ad un sistema giustizia collassato sia da un punto di vista organizzativo e di “portata”, che una soluzione alternativa al giudizio. Non a caso se si pensa alla mediazione di cui al D.Lgs. 28/2010, ai ripetuti ed ingiustificabili aumenti degli oneri fiscali per introdurre una causa in giudizio, nonché ora alla creazione ex novo dell’istituto della negoziazione assistita, si comprende immediatamente come l’intenzione del Legislatore, manifestata nel corso degli ultimissimi anni e delle ultimissime riforme, sia sempre la medesima ossia quella di rendere difficoltoso l’accesso alla sede giudiziale, disseminando il percorso per giungere al giudice di passaggi obbligatori non privi di complicazioni di natura non soltanto procedurale, piuttosto che quella di agire all’interno del processo civile3 per dar vita ad uno strumento di giustizia più snello ed immediato che si concluda con un atto, la sentenza, che abbia i crismi della sacralità giuridica (si pensi alla capacità di fare stato ex art. 2909 c.c.). Si badi bene che in chi scrive è forte il convincimento della possibilità e, talvolta, della necessità di ricorrere a metodi alternativi o concorrenziali alla giurisdizione statale, ma continuare a moltiplicare questi strumenti di risoluzione alternativa delle controversie senza procedere alla rivisitazione in modo organico del processo civile al suo interno, non può che far sorgere interrogativi circa le reali intenzioni dei vari riformatori e, dunque, sulla efficacia e fortuna dei mezzi di alternative dispute resolution (il cui acronimo “a.d.r.” sarà qui di seguito più volte impiegato). D’altro canto, la proliferazione di tali misure alternative, innestate su un sistema processuale comunque collaudato, al di là delle possibili sovrapposizioni con istituti già presenti, comporta il rischio di “rigetto” da parte degli utenti, non ultimi i cosiddetti operatori del diritto, abituati a forme contenziose pure, con il rischio di considerare tali istituti solo ostacoli da saltare per arrivare al traguardo rappresentato dal giudizio. Questi nuovi strumenti giuridici, difatti, trapiantati con forza nel nostro ordinamento, sono l’estrinsecazione o comunque l’ultima evoluzione di situazioni già esistenti nei Paesi d’origine, i quali sono concettualmente e culturalmente portati a trovare soluzioni diverse dal giudizio. In altre parole, se si vuole optare per una seria deflazione del contenzioso in favore dei mezzi di a.d.r., requisito essenziale sarà quello di configurare uno strumento che, indipendentemente dal nomen attribuito, sia il principale istituto nella soluzione delle controversie o quantomeno una reale alternativa al giudizio e non un ostacolo da superare a tutti i costi per arrivare a 3 Il D.L. 132/2014, così come modificato dalla Legge di conversione 162/2014 ha apportato modifiche anche alla disciplina del processo ordinario (si pensi alla possibilità di convertire ex officio per il giudice il rito ordinario nel rito sommario di cognizione), ma lo ha fatto come in passato con interventi estemporanei, poco sistematici ed evidentemente già in astratto poco risolutivi. quest’ultimo; e per addivenire a tale traguardo occorrerebbe mutare l’ordine degli addendi, posticipando l’immissione nell’ordinamento di nuovi istituti, alla formazione dei professionisti deputati alla loro utilizzazione. In tal senso le gravi carenze in termini di organizzazione (che di fatto derivano dalla circostanza che le riforme sono fatte “a costo zero” per il pubblico) si traducono, quantomeno in una fase preliminare di “rodaggio dell'istituto” (così come è avvenuto ed avviene per la media-conciliazione) in una lunga fase di assestamento ed in un conseguente disinamoramento della novità. L’ipotesi di odierna analisi è, quindi, alla luce delle sopra esplicate considerazioni, necessariamente una soluzione di compromesso che consente da un lato alla sola avvocatura (al contrario di quanto avviene per la mediazione, certamente più aperta) di rendersi protagonista del progetto, con una componente di responsabilità non di secondo piano, dall’altro di rendere immediatamente operativa la norma, così permettendo di poter sbandierare da subito (così come accaduto all’indomani dell’entrata in vigore della mediazione) il risultato per la riduzione dell’incardinamento di cause in sede giudiziale (anche se forse, quantomeno nel caso della media-conciliazione sarebbe stato meglio parlare di mero ritardo nell’introduzione). L’operazione, pertanto, è di matrice culturale e dovrà passare per una digestione che, con tutta probabilità, richiederà almeno un ventennio, termine temporale che solitamente accompagna ogni percorso di rilievo in Italia. Quelle che seguono sono, pertanto, delle brevi riflessioni a caldo, non supportate ovviamente dall’esperienza dell’applicazione pratica, circa i più recenti istituti deflattivi introdotti nel nostro ordinamento giuridico, le loro caratteristiche fondamentali ed il loro rapporto con l’intero sistema processuale civile. L’arbitrato di prosecuzione4. Recita l’art. 1, comma I del decreto legge in esame, così come modificato dalla relativa legge di conversione, che: “Nelle 4 Sull’argomento si vedano in particolare gli articoli ed i saggi sinora prodotti da: A. BRIGUGLIO, Nuovi ritocchi in vista per il processo civile: mini-riforma ad iniziativa governativa, con promessa di fare (si confida su altri e più utili versanti) sul serio, in www.giustiziacivile.com, 2014; G. NAVARRINI, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo” (Art. 1, D.L. 12 settembre 2014, n. 132), in www.judicium.it, 2014; D. CERRI, Vedi alla voce: “Degiurisdizionalizzazione” (trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti cause civili dinanzi al tribunale o in grado d’appello pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, che non hanno ad oggetto diritti indisponibili e che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale, nelle quali la causa non è stata assunta in decisione, le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile. Tale facoltà è consentita altresì nelle cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale. Per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, nei casi in cui sia parte del giudizio una pubblica amministrazione, il consenso di questa alla richiesta di promuovere il procedimento arbitrale avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la pubblica amministrazione esprima il dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta”. L’arbitrato evocato dal Legislatore del 2014 come mezzo più rapido di risoluzione delle querelles civilistiche e commerciali, nonché come strumento deputato alla più celere “definizione dell’arretrato in materia di processo civile” è, a ben vedere, un istituto tutt’altro che nuovo, tanto più che la stessa disposizione di legge in esame richiama espressamente la disciplina di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c. Si è in presenza, infatti, dello storico mezzo di risoluzione delle controversie civili cui le parti possono ricorrere in alternativa o in deroga5 rispetto alla giurisdizione (rectius: alla funzione giurisdizionale del giudice statale) al fine di ottenere un provvedimento, denominato “lodo”, che in luogo della sentenza produca i medesimi effetti di quest’ultima, eccezion fatta per l’efficacia cosiddetta esecutiva6 (in tal senso con espressione in effetti pendenti), in www.judicium.it, 2014; V. VIGORITI, Il “trasferimento” in arbitrato: l’inizio di un’inversione di tendenza, www.judicium.it, 2014. 5 Tradizionale la posizione della Suprema Corte, la quale, con la sola eccezione di Cass., S.U., sentenza n. 527/2000, ricostruisce il rapporto de quo in termini di alternatività, ritenendo l’arbitrato rituale un mezzo interno alla giurisdizione. Cfr. ex plurimis: Cass., S.U., ordinanza in data 25.10.2013, n. 24153, in www.dejure.it; ancora prima si vedano: Cass., S.U., sentenza n. 2149/1984; Cass., S.U., sentenza n. 5568/1982; Cass., S.U., sentenza n. 1471/1976; Cass., S.U., sentenza n. 4360/81; Cass., S.U., sentenza n. 242/1980; Cass., S.U., sentenza n. 1303/1987; Cass. S.U. sentenza n. 3767/1988, tutte in www.cortedicassazione.it. 6 Si consideri al riguardo quanto previsto dagli artt. 824 bis ed 825 c.p.c., il cui combinato disposto impone al lodo rituale di essere sottoposto a procedura di exequatur affinché il inutilmente ripetitiva, se non tautologica rispetto all’art. 824 bis c.p.c., si pronuncia l’art. 1, comma III del D.L. 132/20147). Identici, quindi, sono i presupposti di operatività dell’istituto arbitrale. In primis, l’esistenza di una controversia civile e/o commerciale che involga situazioni giuridiche soggettive disponibili ossia suscettibili di divenire oggetto di transazione, trasferimento, rinuncia, alienazione, etc…; si tratta di una idoneità che verrà meno, quindi, tutte quelle volte in cui l’attribuzione della titolarità della situazione giuridica effettuata dall’ordinamento in favore del singolo beneficiario risponda a ragioni sovra individuali, dirette a soddisfare le esigenze dell’intera collettività e non del singolo titolare. Più correttamente la lettera della legge, conformemente a quanto disposto in altri testi normativi 8 e soprattutto nell’art. 806, comma I c.p.c., prevede che si tratti di questioni involgenti diritti non indisponibili: sostanzialmente, però, il riferimento non può che essere alle posizioni giuridiche disponibili, non sussistendo un tertium genus in tema di disponibilità di situazioni giuridiche soggettive. Ne deriva che, sebbene questo sia un tema non condiviso in dottrina e controverso in giurisprudenza, la disponibilità o la non-indisponibilità sarà un attributo da considerare nell’ottica dell’arbitrato (di prosecuzione) anche con riferimento alla categoria degli interessi legittimi (pur sempre laddove questi rispondano ai criteri sopra indicati della transigibilità, rinunciabilità ed alienabilità) se e quando ricompresi nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice ordinario9. In secondo luogo resta ferma l’essenza della soluzione arbitrale ossia la scelta libera e non coercibile dei soggetti parti del rapporto controverso di deferire ad contenuto di quest’ultimo atto possa essere azionato esecutivamente. In tal senso anche A. BRIGUGLIO, Nuovi ritocchi in vista per il processo civile: mini-riforma ad iniziativa governativa, con promessa di fare (si confida su altri e più utili versanti) sul serio, in www.giustiziacivile.com, 2014, nonché G. NAVARRINI, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo” (Art. 1, D.L. 12 settembre 2014, n. 132), in www.judicium.it, 2014. 7 Recita l’art. 1, comma III D.L. 132/2014 che: “il lodo ha gli stessi effetti della sentenza”. 8 Uno per tutti è il Codice del Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport. In dottrina si vedano soprattutto al riguardo: T.E. FROSINI, L’arbitrato sportivo: teoria e prassi, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2010; F.P. LUISO, Il Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport, in www.judicium.it, 2010. 9 Sul punto sia consentita la citazione di G. LUDOVICI, Le posizioni giuridiche di interesse legittimo possono integrare ipotesi di situazioni giuridiche disponibili ai sensi dell’art. 1966 Cod. Civ. e quindi astrattamente compromettibili ai sensi degli artt. 806 e ss. Cod. Proc. Civ., in www.judicium.it, 2012, cui si rinvia anche per l’illustrazione delle varie posizioni dottrinarie e giurisprudenziali. arbitri la soluzione della querelle che li riguarda. A tal proposito la riforma del 2014 stabilisce che “le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile”. Una tale istanza congiunta ha, pertanto, il sapore, se non la sostanza, di un vero e proprio patto compromissorio “postumo” in virtù del quale i contendenti esprimono favore ad una soluzione della lite in forma arbitrale, nonostante la pendenza della medesima in sede contenziosa giudiziale. La scelta arbitrale a mezzo di istanza rivolta al giudice, anziché delle classiche ipotesi del compromesso tout court o della clausola compromissoria non deve scandalizzare, considerato che l’ordinamento conosce e legittima ipotesi “eterodosse” rispetto a quelle di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c. poco sopra ricordate, quali, ad esempio, quelle implicite o indirette conseguenti all’adesione da parte di individui o persone giuridiche a gruppi sociali ristretti ed ai loro statuti e regolamenti interni, laddove questi atti prevedano una giustizia domestica o un’autodichia che si sviluppi nelle forme dell’arbitrato rituale o libero; è questo il caso degli atleti o delle associazioni e società sportive che mediante tesseramento o affiliazione accettano l’ingresso nel micro-ordinamento giuridico dello Sport e tacitamente il proprio assoggettamento alla giustizia interna, esercitata in buona parte attraverso l’istituto arbitrale. In tal senso non deve, quindi, stupire neppure il consenso presuntivo alla soluzione per arbitri che l’ordinamento giuridico stabilisce per le proprie istituzioni con riferimento a particolari controversie sorte in determinate materie e per determinati valori: recita, infatti, l’art. 1, comma I D.L. 132/2014 che “per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, nei casi in cui sia parte del giudizio una pubblica amministrazione, il consenso di questa alla richiesta di promuovere il procedimento arbitrale avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la pubblica amministrazione esprima il dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta”. La presunzione de qua, a ben vedere, non pregiudica la libertà di scelta della P.A. parte della controversia, né impone per questa una forma di arbitrato obbligatorio, come tale illegittimo e suscettibile di espunzione dal sistema processuale civile10, poiché l’articolazione dello Stato interessata alla querelle potrà pur sempre manifestare il proprio dissenso in forma scritta ed entro trenta giorni dalla richiesta di controparte. Particolarmente interessante è, infine, il tema della individuazione del soggetto titolare del potere di instare per la scelta arbitrale: ci si deve interrogare se la legge intenda la parte sostanziale ovvero la parte processuale. Fermo restando che in questo secondo caso la legittimazione a richiedere l’arbitrato di prosecuzione dipenderebbe da quanto contenuto nella procura ad litem, cosicché solo se quest’ultima prevedesse specificamente il conferimento ex ante del potere di proporre l’istanza di cui all’art. 1, comma I D.L. 132/2014 il difensore potrebbe validamente avanzare la proposta o accettare la proposta di controparte di proseguire il contenzioso in chiave arbitrale, appare più opportuno e conforme alla disciplina generale dell’arbitrato che, nel silenzio della legge, l’istanza arbitrale venga manifestata personalmente dalla parte sostanziale del rapporto controverso, magari anche a mezzo di rappresentante. In buona sostanza si verrebbe a verificare una situazione analoga a quello che accade nelle ipotesi di rinuncia all’azione, per cui l’art. 306 c.p.c. postula il consenso personale della parte del rapporto controverso o quello del suo difensore munito però di procura speciale11: ciò appare corretto poiché non solo la scelta di proseguire il contenzioso nelle forme del giudizio arbitrale rituale non è attività tipicamente riconducibile in quelle di cui al mandato alle liti, ma anche perché in questo modo la parte dispone di un proprio diritto, per cui solo questa sarebbe legittimata a disporne in quanto titolare della situazione giuridica soggettiva12. 10 La Corte costituzionale, con sentenza in data 08.06.2005, n. 221 ha stabilito che deve ritenersi incostituzionale una legge che imponga l’arbitrato come strumento di risoluzione di una controversia: una norma che prevedesse una forma arbitrale obbligatoria violerebbe la libera scelta delle parti, intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, ex art. 24, comma I Cost. 11 Possibilista per la tesi contraria appare G. NAVARRINI, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo” (Art. 1, D.L. 12 settembre 2014, n. 132), in www.judicium.it, 2014, secondo cui: “Qualora, infatti, si volesse ritenere che la scelta dello strumento arbitrale non sia un atto vietato al difensore in assenza di specifica procura scritta da parte del cliente, in quanto non implicante una diretta disposizione del diritto in contesa, non si potrebbe negare che tale scelta finirebbe per avere ricadute economiche sul patrimonio del cliente”. 12 In relazione ai crismi per ritenere necessaria la manifestazione personale della volontà della parte sostanziale o del suo procuratore dotato di procura ad hoc si veda da ultima: Cass., sentenza n. 28146/2013, in www.dejure.it. Cfr. pure Cass., sentenza in data 04.02.2002, n. Il quid novi dell’istituto in esame consiste, pertanto, in una serie di attributi che il Legislatore ha introdotto in modo occasionale e che qualificano l’arbitrato delineato dal D.L. 132/2014 in modo certamente estemporaneo. Esaminando il testo normativo gli elementi di novità possono identificarsi, quindi: a) nell’esclusione delle cause di lavoro e previdenza, eccezione fatta per quelle per cui i C.C.N.L. abbiano espressamente previsto la soluzione arbitrale; b) nella necessaria pendenza giudiziale della lite dinanzi agli organi giurisdizionali di primo o di secondo grado; c) nella storicizzazione della soluzione arbitrale, poiché tale rimedio sarà esperibile solo per le cause già pendenti al momento dell’entrata in vigore del D.L. 132/2014; d) nelle modalità esecutive sui generis, soprattutto con riferimento alla procedura della nomina dell’arbitro o degli arbitri; e) nella possibilità di configurare un arbitrato di “secondo grado” che dovrebbe avere ad oggetto la sentenza del giudice di prime cure e non, come sarebbe lecito attendersi, la controversia, in realtà già definita in primo grado; f) nelle modalità di ritorno alla giurisdizione in caso di abbandono della sede arbitrale. Qui di seguito si analizzeranno, dunque, gli aspetti inediti dell’arbitrato previsto dalla riforma del 2014, che in molti casi pongono problemi di particolare rilevanza e di non semplice soluzione non solo sul piano dogmatico, ma anche pratico. Un aspetto, però, accomuna tutte queste innovazioni: trattandosi di caratteristiche particolari che si inseriscono all’interno di una disciplina generale dell’istituto arbitrale, la quale, lo si ricordi, è stata per il resto richiamata expressis verbis dal Legislatore della riforma, la loro valutazione ed la loro interpretazione dovrà avvenire cum grano salis, vale a dire che le caratteristiche innovative poco sopra elencate, da un lato, dovranno considerarsi proprie dell’arbitrato introdotto dal D.L. 132/2014 e come tali insuscettibili di applicazione analogica, dall’altro, dovranno ritenersi prevalenti sulle disposizioni ex art. 806 e ss. in caso di contrasto con le norme del codice di rito dettate in tema di arbitrato, in virtù del canone ermeneutico della “lex specialis derogat generali”. 1439; Cass., sentenza in data 08.01.2002, n. 140; Cass., sentenza in data 07.03.1998, n. 2572, tutte in www.cortedicassazione.it. La parziale esclusione delle cause di lavoro e previdenza. Il primo elemento di differenziazione rispetto all’arbitrato tradizionalmente conosciuto dal nostro ordinamento processualcivilistico è dato dall’esclusione di una serie di controversie che, pur astrattamente riconducibili al novero delle dispute civili, attengono ad una categoria peculiare, sia dal punto di vista sostanziale (si pensi alla disciplina autonoma del Libro V del codice civile ed alla cospicua legislazione speciale in continuo mutamento in subiecta materia), che procedurale (il riferimento è alle norme di cui agli artt. 404 e ss. c.p.c.): si tratta delle cosiddette cause di lavoro e di previdenza, che presuppongono una ontologica posizione di disparità tra le parti titolari del rapporto giuridico controverso, tanto da rendere necessaria l’introduzione per via normativa di correttivi teoricamente volti a ripristinare l’equilibrio tra le posizioni dei contendenti. L’esistenza di questo naturale squilibrio tra le parti in causa si riflette anche sulla libertà di scegliere strumenti alternativi alla risoluzione delle controversie laburistiche e previdenziali-assistenziali mediante ricorso alla giurisdizione statale e tale considerazione non è venuta meno in sede di elaborazione del D.L. 132/2014, laddove nella decretazione di urgenza si è precisato che la scelta arbitrale non sarebbe potuta avvenire che per le controversie “che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale”. Una simile decisione di politica normativa, però, costituiva un evidente passo indietro per il Legislatore, atteso che in questo modo si ritornava alla formulazione dell’art. 806 c.p.c. anteriore alla riforma del 200613, allorquando la norma che stabiliva quali materie fossero arbitrabili in modo rituale prevedeva che le parti potevano “far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte, tranne quelle previste negli articoli 409 e 442”, ossia proprio le controversie in tema di lavoro, previdenza ed assistenza. L’intervento correttivo adottato in sede di conversione del citato decreto legge deve, pertanto, essere inteso in questo senso, vale a dire nel senso di recuperare allo strumento arbitrale rituale parte delle dispute lato sensu laburistiche precedentemente tralasciate, in conformità a quanto previsto dalla 13 Il riferimento è evidentemente al D.Lgs. 40/2006. attuale disciplina del Libro IV, Titolo VIII del codice di rito: saranno, pertanto, deferibili ad arbitri rituali, anche nell’ipotesi dell’arbitrato di prosecuzione o deflattivo, le querelles ex artt. 404 e ss. c.p.c. qualora si sia in presenza di “cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale”. Il presupposto della deferibilità ad arbitri nei modi e nelle forme stabiliti dell’intervento normativo in commento non è quindi la legge, ma il contratto collettivo di lavoro: analogamente a quanto stabilito dal riformulato14 art. 412 ter c.p.c., il C.C.N.L. vede confermato dal Legsilatore il proprio ruolo di strumento idoneo a consentire ai contraenti la scelta di risolvere una lite in subiecta materia in un modo che non preveda il necessario ricorso alla giurisdizione statale, affidandosi ai cosiddetti mezzi di A.D.R. (strumenti di risoluzione alternativa delle controversie); orbene, se sino ad ora la previsione negoziale della scelta arbitrale contenuta nel contratto collettivo di lavoro operava nel senso di consentire una simile opzione solo anteriormente alla introduzione del procedimento civile in sede giudiziale, ora funzionerà anche ex post rimettendo alla volontà delle parti del rapporto controverso la decisione di trasferire in sede arbitrale rituale quella lite già pendente in primo o in secondo grado dinanzi ad un organo giudiziale. La clausola compromissoria, in questi casi, se ben si comprende il senso della disposizione normativa in esame, non imporrà tout court la soluzione arbitrale, ma fungerà da mero presupposto per l’operatività dell’art. 1, comma I del D.L. 132/2014, vale a dire metterà in condizione le parti in causa di valutare e di scegliere conseguentemente in modo concorde la traslatio iudicii dinanzi ad un arbitro o ad un collegio arbitrale: nell’ottica dell’arbitrato di prosecuzione, quindi, il patto compromissorio trasfuso nella clausola compromissoria dei C.C.N.L. dovrebbe intendersi come una sorta di condizione di procedibilità per la scelta arbitrale “postuma”, da esercitarsi sempre e comunque mediante espressa istanza rivolta all’organo giurisdizionale adito. Resta fermo che l’ambito di operatività dell’istituto arbitrale delineato dall’art. 806, comma II c.p.c. è più ampio di quello tracciato dalla norma in esame. Ciò, 14 Il testo normativo precedente è stato così sostituito dall’art. 31 Legge in data 04.11.2010, n. 183. tuttavia, non vuol dire che l’arbitrato libero15 non possa svolgere un ruolo di rilievo nella soluzione extragiudiziale delle dispute insorgenti nel mondo del lavoro, allorquando le parti intendano ricorrere a strumenti altri rispetto alla “tradizionale” giurisdizione dei giudici statali (così come accade con elevatissima frequenza per le controversie lavorative dell’ordinamento giuridico sportivo in cui l’arbitrato è il mezzo tipico per la rapida e satisfattiva definizione delle controversie); vuol dire, al contrario, che in queste ipotesi (quelle non rientranti nel novero ristretto di cui all’art. 1, comma I del decreto legge in commento) le parti della lite dovranno decidersi in tal senso (arbitrato rituale o arbitrato irrituale) ben prima che la causa venga trattenuta in decisione dal giudice di primo o di secondo grado e, più correttamente, prima di introdurre il giudizio dinanzi agli organi giurisdizionali dello Stato, pena l’impossibilità di trasferire la disputa in sede arbitrale ai sensi del nuovo D.L. 132/2014, così come convertito dalla Legge 162/2014. L’instaurazione della procedura giudiziale. Il tratto distintivo di maggior rilievo della forma arbitrale in commento è certamente dato dalla necessaria pre-pendenza della controversia in sede giudiziale: è necessario, quindi, che le parti del rapporto controverso siano già approdate dinanzi al giudice statale ed abbiano già svolto le rispettive difese, argomentando, eccependo, deducendo ed infine domandando. Si tratta di un arbitrato con confini ben delimitati che, a differenza dell’istituto che con onore aveva sino ad ora tradizionalmente portato il medesimo nome, sono stati spostati ben oltre il limite dell’accesso alla giustizia dei togati e dei loro surrogati onorari. La scelta arbitrale ai sensi dell’art. 1 D.L. 132/2014 sarà perciò possibile se esercitata dopo l’instaurazione del procedimento civile sino a quando la causa non venga trattenuta in decisione in primo o in secondo grado. Fermo restando quanto si dirà infra in tema di arbitrato in sede di giudizio di appello, la possibilità di scegliere il ricorso alla giustizia degli arbitri, anziché a quella dei 15 L’arbitrato irrituale in questione è essenzialmente quello introdotto dalla riforma del cosiddetto “Collegato lavoro” dell’anno 2010, per cui sono stati riformulati gli artt. 412, 412 ter e 412 quater c.p.c. che prevedono ora, almeno in termini astratti, forme di soluzione arbitrale più ampie del passato, con la possibilità di coinvolgere più soggetti deputati alla soluzione delle dispute laburistiche e l’individuazione di più “momenti” per riflettere sulla scelta arbitrale (ad esempio, in sede di sottoscrizione del contratto di lavoro, all’esito della mancata conciliazione dinanzi alla D.P.L. competente o addirittura in corso di tentativo di conciliazione). giudici statali appare essere più che una scelta di fiducia nello strumento di cui all’art. 806 c.p.c., una manifestazione di sfiducia in senso concreto nei confronti non tanto dell’organo giurisdizionale investito della controversia, quanto delle possibilità che quel determinato magistrato giudicante, cui è stato assegnato il relativo fascicolo, sia in grado di comprendere le argomentazioni ed il linguaggio tecnico-giuridico delle parti16 e di assicurare la giustizia auspicata da ciascuna di loro in tempi più celeri possibili. Evidentemente la scelta operata dal Legislatore va ben oltre la dichiarata ratio di far conseguire alle parti di un processo una più rapida definizione delle controversie che le riguardano: la “fisiologica” lentezza del processo civile, infatti, è caratteristica ben nota a tutti i consociati, cosicché la scelta di abbandonare la sede giudiziale appare alquanto criticabile se ben si considera che l’opzione arbitrale in senso tradizionale e con più ampia possibilità di scelta (arbitrato rituale o irrituale, arbitrato secondo diritto o di equità), potrebbe saggiamente e senza alcuna difficoltà essere effettuata prima dell’incardinazione del giudizio civile. Per questo motivo convince poco anche l’argomento per cui l’arbitrato deflattivo servirebbe a far riconsiderare la possibilità di una giustizia alternativa o concorrenziale a chi, adendo il giudice statale, si è venuto “improvvisamente” a trovare nelle sabbie mobili del giudizio civile. Chi scrive non sa, come effettivamente nessuno dei commentatori della riforma del 2014 può sapere, se e quanto abbiano influito altre esperienze giuridiche straniere sulla volontà del Legislatore di introdurre questa peculiare forma di giudizio arbitrale. Certo è che l’istituto statunitense della “Court annexed arbitration”17 può esser servito da punto di riferimento, ma non certo da 16 V. VIGORITI, Il “trasferimento” in arbitrato: l’inizio di un’inversione di tendenza, www.judicium.it, 2014. 17 Al riguardo si legga V. VIGORITI, Il “trasferimento” in arbitrato: l’inizio di un’inversione di tendenza, www.judicium.it, 2014, secondo cui: “Non soccorre (così anche Briguglio) l’esperienza americana del c.d. Court annexed arbitration. É un istituto pensato per accorciare la durata e ridurre i costi del processo ed ha carattere obbligatorio (mandatory), nel senso che le parti non possono sottrarsi all’incombenza, se disposta dalla Corte, ma che non sono vincolate dall’esito (non binding). Un terzo, imparziale nominato dal giudice, esprime un’opinione sui profili giuridici e propone una certa soluzione, allo stato degli atti (su una simile esperienza nello jus commune scrisse Vittorio Denti). Se l’award non è condiviso, il processo prosegue. É sorprendente, per noi, che la grande maggioranza di questi lodi sia modello: quello americano, infatti, è uno strumento molto più integrato nel sistema processuale locale e che conduce le parti in modo obbligatorio, ma molto meno complesso ad un risultato che quelle saranno libere di accettare o meno, proseguendo nel giudizio già instaurato laddove discordi sulla soluzione proposta dall’arbitro18. A ben vedere, quindi, neppure l’istituto della “Court annexed arbitration” è un arbitrato nel senso proprio del termine, poiché il dato volontaristico e consensuale circa la scelta della soluzione extragiudiziale si sposta dalla fase iniziale dell’accordo compromissorio a quello finale della pronuncia del lodo, pervenendosi così ad un risultato che non è quello tradizionalmente previsto dall’istituto arbitrale (in questi casi non vale la proprietà transitiva, per cui cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia). Dal punto di vista strategico la scelta delle parti di fuggire dalla sede giudiziale sarà certamente dettata più che altro da quanto i rispettivi argomenti in fatto ed in diritto sembrino aver fatto breccia nel giudice adito, cosicché è facile immaginare che l’opzione arbitrale sarà difficilmente esercitabile all’esito di provvedimenti giudiziali di tipo ordinatorio (rectius: ordinanze) anticipatori di condanna19 o che abbiano in parte già manifestato il convincimento del giudice20 oppure all’esito dell’istruttoria in senso stretto che abbia obbiettivamente avvalorato la tesi di una delle parti in causa. Presupposto di fatto perché si possa pervenire ad una concorde richiesta di trasferimento della controversia in sede arbitrale appare, quindi, sin d’ora e senza timore di smentita l’esistenza di un’oggettiva incertezza circa l’esito giudiziale della disputa, unita come è ovvio ad una prognosi di definizione della lite non certo entro brevi termini temporali. Quanto sin qui detto, porta chi scrive ad escludere che l’istituto in esame possa avere la benché minima fortuna in grado di appello, atteso che l’astratto equilibrio iniziale in cui le parti in contrasto vengono a trovarsi all’origine del processo sarà stato già “turbato” accettata e che il processo si estingua”. 18 La scelta statunitense non è, però, anch’essa insuscettibile di critiche se si considera la tradizionale natura della figura arbitrale. 19 Si pensi ai provvedimenti di cui agli artt. 186 bis, 186 ter e 186 quater c.p.c. 20 Si pensi alle ordinanze istruttorie che ammettono o, soprattutto, escludono determinati mezzi di prova in senso ampio, ivi compresi le consulenze tecniche d’ufficio o gli ordini di esibizione. dalla decisione contenuta nella sentenza di primo grado, a meno che la stessa non sia viziata da tali e tanti errori da far credere all’appellato nella più che probabile riforma del provvedimento giudiziale impugnato. Dal punto di vista meramente tecnico non si rinvengono, invece, particolari difficoltà ad ammettere l’operatività dell’istituto in esame, atteso che la congiunta istanza proceduralmente di adire incompatibile la “giurisdizione” arbitrale o contraddittoria rispetto non agli appare atti del procedimento che si realizzano o possono realizzarsi dall’introduzione del giudizio sino all’assunzione in decisione della causa. Ciò tanto più che le preclusioni e le decadenze21 sino a quel momento maturate non potranno in alcun modo essere più messe in discussione dall’opzione arbitrale. Punto controverso è, invece, quello relativo alla possibilità di intendere l’espressione del Legislatore relativa alle “cause civili dinanzi al tribunale o in grado d’appello” come riferita all’organo giurisdizionale o al grado di giudizio: in altri termini non risulta chiaro se la legge consenta il ricorso all’arbitrato di prosecuzione solo per le cause pendenti davanti al Tribunale ed alla Corte di Appello oppure a tutte le cause di primo e di secondo grado. Il dubbio non è facilmente risolvibile atteso che la norma in commento ha scelto di fare diretto riferimento all’organo giudiziale per indicare le cause di primo grado ed al grado di giudizio per indicare le controversie già decise dal giudice di prime cure. La soluzione del nodo interpretativo de quo non è fatto di poca importanza, in quanto funzionale a comprendere se l’opzione arbitrale a lite 21 In tema di preclusioni e decadenze maturate si veda quanto correttamente osservato da G. NAVARRINI, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo” (Art. 1, D.L. 12 settembre 2014, n. 132), in www.judicium.it, 2014, in cui si legge che: “Il legislatore sembra, dunque, aver tenuto conto della pronuncia adottata dalla Corte costituzionale il 19 luglio 2013, n. 223 (in Riv. arb., 2014, 81 ss., con commenti di M. BOVE, A. BRIGUGLIO, S. MENCHINI e B. SASSANI). Con la menzionata sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 819 ter, comma 2, c.p.c., “nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’art. 50 del c.p.c.”. La sentenza della Consulta impone, più o meno esplicitamente, la questione dell’esistenza di una giurisdizione privata, diversa ed alternativa rispetto a quella statale, e dei rapporti tra i due ordini giurisdizionali, entrando in un dibattito che, già in dottrina, era giunto da tempo a maturazione. Molti sono, infatti, coloro che – riferendosi alla giustizia arbitrale – si esprimono in termini di giustizia o giurisdizione privata, anche sul presupposto che lo Stato non ha (più) il monopolio della giurisdizione”. Si considerino pure al riguardo: C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato 2, I,; C. CAVALLINI, L’arbitrato rituale, Milano, 2009; G. BONATO, La natura e gli effetti del lodo arbitrale, Napoli, 2012; M. BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009; G. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato 2, Torino, 2006. pendente possa essere esercitata anche dinanzi all’Ufficio del Giudice di Pace per il primo grado e dinanzi al Tribunale in funzione di giudice dell’appello per il secondo; la disposizione per come concepita farebbe intendere che l’istanza congiunta ai fini arbitrali potrebbe essere diretta nel primo grado di giudizio soltanto al Tribunale, mentre nel secondo grado, indipendentemente dalla natura dell’organo giurisdizionale adito per l’impugnazione, al giudice codicisticamente competente a decidere il giudizio di appello. Una simile soluzione sarebbe, però, irragionevolmente restrittiva e discriminatoria non tanto perché porrebbe una differenziazione tra uffici giudiziari che non poggia nel caso di specie su validi motivi, ma soprattutto perché introdurrebbe un ingiustificato ed ingiustificabile elemento di distinzione all’interno di una medesima controversia o causa, per cui questa diverrebbe suscettibile di applicazione della norma di cui all’art. 1, comma I D.L. 132/2014 solo allorquando venisse impugnata e diventasse di competenza del Tribunale in grado di appello. In attesa della parola della giurisprudenza, pertanto, non sembra ragionevole escludere dal novero delle controversie arbitrabili post litispendenza anche quelle deferite agli Uffici del Giudice di Pace in primo grado ed ai Tribunali in secondo grado. La storicizzazione dell’arbitrato di prosecuzione. Con il termine di storicizzazione dell’arbitrato introdotto dalla riforma del 2014 si vuole alludere in queste pagine al fatto che il Legislatore, a differenza di quanto accade solitamente22, ha di fatto introdotto un istituto a tempo, destinato a perdere vigore nel momento in cui troveranno definitiva soluzione tutte quelle controversie già pendenti “alla data di entrata in vigore del presente decreto” dinanzi ai Tribunali ed alle Corti di Appello. In questi termini si può valutare la fondatezza della ratio della riforma, ossia la necessità di degiurisdizionalizzare quelle cause che per il Legislatore costituiscono l’intollerabile “arretrato” del processo civile italiano: ciò non vuol dire che l’esperimento, perché oggettivamente di questo sembra trattarsi, non possa essere ripetuto in futuro laddove abbia prodotto l’effetto sperato. 22 Cosa analoga è di recente accaduta per la cosiddetta media-conciliazione, la quale sarà in vigore, salvo proroghe per quattro anni dalla sua “nuova” entrata in vigore, avvenuta il giorno 19.09.2013, in attesa che produca i risultati sperati. In ogni caso, quello che sembra opportuno sottolineare è che, a differenza dell’arbitrato ex art. 806 e ss. c.p.c., quella dettata dal D.L. 132/2014 all’art. 1 è una vera e propria disciplina “transeunte” che, una volta cessata la propria validità ed efficacia cronologica, costituirà più che un’innovazione stabile, pur sempre suscettibile di modificazioni ed integrazioni, una mera esperienza giuridica storicamente collocabile all’interno dell’ordinamento processualcivilistico italiano e più degna della considerazione degli storici, che degli operatori del diritto. Le modalità di attuazione dell’arbitrato deflattivo: la scelta degli arbitri. Per quanto riguarda lo svolgimento dell’arbitrato restano ferme le norme dettate dalla disciplina codicistica dell’arbitrato rituale, che consentono alle parti ed in subordine all’arbitro o agli arbitri di stabilire le regole che presiederanno allo sviluppo del giudizio arbitrale, ferme restando le disposizioni inderogabili e cogenti ex artt. 806 e ss. c.p.c. Una sensibile differenza, però, si rinviene riguardo ai precetti che stabiliscono la scelta dei “giudici privati” cui è demandata la soluzione del caso concreto. Il Libro IV Titolo VIII del codice di rito contiene la norma di cui all’art. 810 c.p.c.23, la quale ha il fine precipuo di risolvere le situazioni di empasse che si dovessero venire a creare nella scelta e nella nomina degli arbitri ad opera delle parti della controversia attraverso il ricorso al Presidente del Tribunale del luogo in cui è stabilita la sede dell’arbitrato. La regola generale in materia vuole, quindi, che si garantisca l’autonomia e la libertà di scelta delle parti nella nomina dell’arbitro unico o degli arbitri del collegio, con possibilità di ricorrere ad un soggetto qualificato dell’ordinamento giuridico solo in via subordinata e solo laddove si rinvengano difficoltà di accordo o condotte ostruzionistiche nella scelta comune. Tale libertà viene evidentemente ridimensionata ora per l’arbitrato di prosecuzione: l’art. 1, comma II D.L. 132/2014, così come modificato dalla Legge 162/2014, prevede, con una formulazione poco armoniosa dal punto di vista lessicale, il deferimento del fascicolo di ufficio afferente alla causa che si 23 Per l’esegesi della norma de qua cfr. A. BRIGUGLIO, Art. 810, in A. BRIGUGLIO – E. FAZZALARI – R. MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato. Commentario, Milano, 1994. vuole definire per arbitri al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del circondario in cui ha sede il Tribunale investito della controversia pendente in primo grado oppure al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del circondario in cui si trova la Corte di Appello davanti alla quale è incardinato il giudizio di secondo grado; l’individuazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati “competente” non è circostanza di poco conto, atteso che questa risulta funzionale alla individuazione del novero dei soggetti entro il quale dovranno essere scelti gli arbitri che dovranno risolvere quella determinata disputa. L’opzione tra arbitro unico e collegio arbitrale, che per scelta normativa non potrà superare il numero di tre individui, sarà determinata da due elementi: in primis, il valore della causa e, in secondo luogo, la volontà delle parti. In altri termini se la lite avrà valore superiore ad € 100.000,00 questa sarà composta da un collegio arbitrale, mentre se la medesima avrà valore inferiore ad € 100.000,00 la scelta tra arbitro unico o collegio arbitrale sarà rimessa alla concorde determinazione dei contendenti (qualora non si giungesse ad un accordo sul punto, l’arbitrato deflattivo avverrà in composizione collegiale). L’individuazione personale dei soggetti cui sarà deferita la controversia sarà, quindi, operata prima facie dalle parti del rapporto controverso24 che, laddove trovassero un accordo, procederebbero alla scelta tra “gli avvocati iscritti da almeno cinque anni nell'albo dell'ordine circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall'albo e che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso”. In caso di contrasto circa la nomina del terzo arbitro ci si deve chiedere se sia possibile il ricorso al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati per la nomina del solo terzo o di tutti i membri del collegio: la norma al riguardo non è chiara, ma ragioni di mera logica giuridica e di rispetto del sistema normativo non sembrano poter escludere la prima soluzione, la quale sarebbe, quindi, da preferire. L’individuazione del solo terzo componente del collegio, infatti, non soltanto è 24 Favorevole a questa interpretazione prima delle modifiche della legge di conversione anche G. NAVARRINI, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo” (Art. 1, D.L. 12 settembre 2014, n. 132), in www.judicium.it, 2014. analogica rispetto a quella che il Presidente del Tribunale compie ex art. 810 c.p.c., ma è pure in linea con il presupposto volontaristico e libertario della procedura arbitrale, ragion per cui non si vedrebbe alcun fondato motivo per consentire la revoca delle nomine già eseguite dalle parti (verosimilmente un arbitro per ciascuna, laddove i contendenti siano solo due) e la loro sostituzione con altri due indicati dal Presidente del C.O.A. Altra problematica di non scarsa rilevanza è quella che si pone allorquando le parti della causa fossero tre o più. La possibilità che vengano scelti di comune accordo tra tutte le parti tutti e tre i membri del collegio arbitrale è certamente risolutiva di ogni potenziale problema: la scelta di un collegio unico appare la più semplice. Qualora poi si sia in presenza di tre contendenti, ciascuno portatore di un proprio interesse ai sensi dell’art. 100 c.p.c., anche qui il problema non dovrebbe porsi se ad ognuno di essi fosse consentita la nomina del proprio “arbitro di fiducia”; analogamente nulla quaestio se tutti i soggetti coinvolti nella querelle giudiziale potessero essere ricondotti a due o tre centri di interesse, se non proprio coincidenti, quanto meno simili o affini. Al contrario, laddove ciò non fosse possibile, è evidente come in astratto si porrebbe una questione di non poco conto, considerato che è facile intuire come ad ogni parte non piacerebbe subire la decisione altrui, ma vorrebbe concorrere nella scelta degli arbitri in modo diretto ed attivo: in questi casi, salvo imprevedibili intese, opererà come extrema ratio l’intervento del Presidente del C.O.A., il quale a fronte di contrasti tra i tre o più contendenti circa l’individuazione dei membri del collegio arbitrale, provvederà esso stesso alla nomina. L’ambito degli avvocati candidati ad essere scelti come arbitro è stato circoscritto dal Legislatore in forza di due elementi. Il primo è quello della preventiva disponibilità dell’avvocato iscritto a quel determinato C.O.A.: la disponibilità deve essere espressamente dichiarata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza anteriormente alla nomina, cosicché, eccezion fatta per le ipotesi di incompatibilità previste in generale dalla disciplina di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c. ed in particolare dal D.L. 132/2014 così come modificato dalla Legge 162/201425, non si perderà ulteriormente tempo per l’accettazione della nomina da parte del soggetto prescelto. Il secondo elemento discriminante è l’anzianità di iscrizione all’albo professionale, che dovrà essere di almeno cinque anni, collegato all’assenza negli ultimi cinque anni di condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo. La scelta di soggetti che sono operatori del diritto dovrebbe garantire una maggiore professionalità nella risoluzione delle controversie rispetto a quanto astrattamente previsto dalla generale disciplina dell’arbitrato, atteso che ai sensi dell’art. 812 c.p.c. chiunque sia in possesso della capacità di agire potrebbe svolgere la funzione di arbitro. Tale osservazione appare confortata dall’inciso introdotto nell’art. 1 (comma V bis) dalla legge di conversione del decreto legge in commento: prevede, infatti, la norma de qua che con un provvedimento successivo all’entrata in vigore della disciplina sin qui esaminata dovranno essere stabiliti “i criteri per l’assegnazione degli arbitrati tra i quali, in particolare, le competenze professionali dell’arbitro, anche in relazione alle ragioni del contendere e alla materia oggetto della controversia”. La scelta del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati dovrà avvenire, allora, non casualmente, bensì con riferimento alle specifiche competenze e cognizioni di cui l’iscritto all’albo è in possesso al fine di garantire alle parti del rapporto controverso una professionalità concreta e non soltanto presuntivamente derivabile dal titolo; per tale motivo, chi scrive ritiene che i criteri di scelta de quibus dovrebbero trovare applicazione sin d’ora, senza attendere l’emanazione del decreto di cui al comma 5 bis. L’arbitrato di secondo grado. L’elemento di innovazione più eclatante è certamente dato dalla possibilità di configurare una procedura arbitrale rituale di secondo grado. Come noto a tutti gli operatori del diritto l’arbitrato, tanto rituale, quanto libero, sia in ambito interno, che internazionale è una procedura di risoluzione delle controversie che, ponendosi in termini di alternatività o derogabilità rispetto alla giurisdizione statale, viene concepita dalle parti di una disputa come un quid aliud rispetto al ricorso alla giustizia amministrata dai 25 Recita l’inciso introdotto all’art. 1, comma 2 bis dalla legge di conversione del D.L. 132/2014 che: “La funzione di consigliere dell’ordine e l’incarico arbitrale di cui al presente articolo sono incompatibili. Tale incompatibilità si estende anche per i consiglieri uscenti per una intera consiliatura successiva alla conclusione del loro mandato”. Tribunali e dalle Corti di Giustizia; orbene, tale diversità, quindi, gioca il proprio ruolo fondamentale, pur entro i limiti stabiliti dall’ordinamento giuridico, in un momento anteriore rispetto all’introduzione della causa, sì che i contendenti debbono scegliere prima di adire il giudice statale (e, talvolta, ancor prima che la lite insorga26) quale delle due vie percorrere. L’arbitrato deflattivo de quo, invece, viene concepito nel senso inverso ossia nel senso di posticipare la scelta dei contendenti ad un momento in cui la disputa è già insorta e la causa che ne è scaturita già pende dinanzi all’autorità giudiziaria, per cui l’opzione non è più tra percorrere una strada, anziché l’altra, ma tra abbandonare la prima via, per proseguire la lite su di una nuova. Questa premessa fa comprendere come la scelta del Legislatore di creare presupposti inauditi, ma soprattutto “impropri” per l’operatività dell’istituto arbitrale, conduce, poi, quasi fisiologicamente a conseguenze niente affatto in linea con la natura dell’arbitrato e con la conoscenza che di questo si è sempre avuta nell’ordinamento processuale civile. Ecco allora che se l’opzione “giurisdizione statale – giurisdizione privata arbitrale” può essere esercitata anche a lite pendente dinanzi al giudice di merito, nessuna valida ragione, nella mente degli autori della riforma del 2014, può impedire il ricorso allo strumento di cui all’art. 806 c.p.c. persino in secondo grado, poiché la Corte di Appello è pur sempre giudice del merito della controversia. Quanto sin qui detto, però, pone notevoli problemi di compatibilità con la natura stessa dell’arbitrato che è istituto ontologicamente destinato a consentire una definizione delle controversie (al di fuori della giurisdizione dei giudici statali) e che, pertanto, può avere ad oggetto solo ed esclusivamente quelle date controversie. Considerata la funzione propria dell’arbitrato, l’alternatività o la concorrenzialità di questo particolare mezzo di risoluzione delle dispute civili e commerciali non può che porsi, allora, con riferimento al giudizio di primo grado, poiché laddove questo venisse concepito anche per i giudizi di appello finirebbe inevitabilmente per snaturarsi, avendo come oggetto non più la disputa, ma la sentenza di primo grado: ciò non può giuridicamente, né logicamente essere, pena la configurazione di un istituto 26 Si pensi al patto compromissorio contenuto in una clausola contrattuale (cosiddetta clausola compromissoria). che dell’arbitrato avrebbe soltanto il nome e non anche il contenuto. Questo, infatti, sembra accadere per lo strumento di A.D.R. disciplinato dall’art. 1 D.L. 132/2014 che, nonostante i richiami alle norme di cui al Libro IV, Titolo VIII del codice di procedura civile, si manifesta, soprattutto con riguardo all’arbitrato in sede di appello, come qualcosa d’altro ossia come un ibrido che si compone degli elementi ora dell’uno, ora dell’altro mezzo di alternative dispute resolution. In senso favorevole alla tesi che esclude diritto di cittadinanza all’interno dell’ordinamento processualcivilistico all’arbitrato di secondo grado o di appello depone anche la disciplina degli artt. 828 e ss. c.p.c., la quale prevede un giudizio di impugnazione del lodo rituale da tenersi dinanzi alla Corte di Appello competente per territorio, presupponendo così che il lodo gravato dall’impugnazione possa tener luogo solo ed esclusivamente di una sentenza di primo grado e non anche di qualsiasi altro grado di giudizio. Ciò detto, ci si deve chiedere, allora, come dovrebbe essere accolto in astratto ed in concreto un “lodo rituale di secondo grado”: una volta che se ammettesse la giuridica esistenza, infatti, ci si dovrebbe domandare se questo possa essere impugnato e se sì in che modo. In assenza di specifica normativa, questo particolare lodo rituale deve necessariamente essere ricondotto alla disciplina di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c. ed allora dovrà ritenersi non solo teoricamente impugnabile, ma anche suscettibile del solo rimedio impugnatorio ordinario che è quello di cui all’art. 829 c.p.c. 27. Questo fa sì che la medesima controversia che è stata definita in secondo grado secondo le forme dell’arbitrato deflattivo potrebbe essere riesaminata ancora una volta, seppur per i soli motivi “formali” di nullità del lodo di cui all’art. 829 c.p.c., dalla medesima Corte di Appello. Ciò senza contare, che come previsto dall’art. 1, comma IV D.L. 132/2014, che infra sarà più puntualmente esaminato, laddove il lodo di secondo grado dovesse essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 830 c.p.c., le parti ben potrebbero riassumere il processo interrotto con la scelta della prosecuzione in chiave arbitrale della disputa, riproponendo per la terza volta la medesima controversia dinanzi allo stesso giudice statale. Si tratta, dunque, di una soluzione ben strana tanto dal punto di vista sistematico, 27 Ciò fermi restando gli altri rimedi impugnatori straordinari: revocazione ed opposizione di terzo. poiché non appare compatibile con la natura stessa del sistema processuale civile italiano ipotizzare la riproposizione della medesima questione seppur in forme diverse dinanzi allo stesso organo giurisdizionale, quanto dal punto di vista pratico, atteso che, se rapportata alla ratio della riforma, il ricorso alle Corti di Appello, ora giudici di legittimità del lodo ex art. 829 c.p.c., ora giudici del merito in sede di riassunzione ex art. 1, comma IV D.L. 132/2014, determinerebbe per gli organi giudicanti di secondo grado un carico di lavoro tutt’altro che ridotto, con buona pace delle istanze deflattive e di degiurisdizionalizzazione delle controversie civili e commerciali. In definitiva, se si considera quanto sin qui detto e la confusione che la disciplina del D.L. 132/2014 ha manifestato sul punto, si perviene alla conclusione che ci si trovi in presenza di un “pasticciaccio brutto” che porrà, ove l’istituto dell’arbitrato di secondo grado troverà mai applicazione, non pochi problemi di ordine dogmatico e di natura pratica. Il ritorno al giudizio civile. L’art. 1, comma IV D.L. 132/2014, come integrato dalla Legge 162/2014, stabilisce che: “Quando la trasmissione a norma del comma 2 è disposta in grado d'appello e il procedimento arbitrale non si conclude con la pronuncia del lodo entro centoventi giorni dall'accettazione della nomina del collegio arbitrale, il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio dei successivi sessanta giorni. É in facoltà degli arbitri, previo accordo tra le parti, richiedere che il termine per il deposito del lodo sia prorogato di ulteriori trenta giorni. Quando il processo é riassunto il lodo non può essere più pronunciato. Se nessuna delle parti procede alla riassunzione nel termine, il procedimento si estingue e si applica l’articolo 338 del codice di procedura civile. Quando, a norma dell’articolo 830 del codice di procedura civile, é stata dichiarata la nullità del lodo pronunciato entro il termine di centoventi giorni di cui al primo periodo o, in ogni caso, entro la scadenza di quello per la riassunzione, il processo deve essere riassunto entro sessanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di nullità”. Mentre le modalità di allontanamento della causa dalla giurisdizione statale sono stabilite dal Legislatore per entrambe le ipotesi di scelta arbitrale in primo ed in secondo grado, peraltro in modo uniforme, il decreto legge in esame disciplina in modo espresso soltanto il ritorno alla sede giudiziale per l’arbitrato deflattivo in fase di appello. La questione solleva non poche perplessità in quanto, stante il carattere eccezionale delle disposizioni di legge de quibus, appare non corretto dal punto di vista dogmatico ritenere applicabile per via analogica il citato comma IV anche ai casi di arbitrato per cause pendenti dinanzi al Tribunale (rectius: in primo grado). A ben vedere l’assenza di una previsione analoga per quest’ultimo caso, più che postulare una fiducia senza limiti del Legislatore nell’esito favorevole della procedura arbitrale rituale di primo grado, sembra essere una mera dimenticanza degli autori della riforma del 2014: a fronte di questo vuoto normativo e della impossibilità di pervenire ad un’interpretazione analogica, la conclusione più logica e più coerente con l’intero sistema processuale civile potrebbe essere quella di ritenere la strada verso l’arbitrato di prosecuzione richiesto davanti al giudice di prime cure come una strada a senso unico da percorrere in direzione della definitiva degiurisdizionalizzazione della controversia, con conseguente estinzione del procedimento civile, indipendentemente dall’esito dell’arbitrato28. Tornando al testo dell’art. 1, comma IV D.L. 132/2014, si deve affermare come la casistica di ritorno al giudizio in Corte di Appello si componga di due ipotesi: a) quella della mancata pronuncia del lodo entro un termine cronologico; b) quella della successiva declaratoria di nullità del lodo. Con riferimento al primo caso, è sufficiente che gli arbitri non abbiano pronunciato il lodo nel rispetto del limite temporale legale di centoventi giorni (vale a dire la metà del termine previsto dal codice di procedura civile 29), da 28 Laddove la procedura arbitrale per qualsiasi ragione non sia giunta a definizione mediante pronuncia del lodo, è da credere che resti salva la possibilità di riproporre la medesima domanda giudiziale dinanzi al giudice precedentemente adito. 29 G. NAVARRINI, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo” (Art. 1, D.L. 12 settembre 2014, n. 132), in www.judicium.it, 2014, per il quale: “L’abbreviazione è pienamente comprensibile alla luce del fatto che, in questo particolare caso, gli arbitri si devono limitare a rinnovare il giudizio sulla base degli atti del processo di primo grado. Tendenzialmente, dunque, non dovranno compiere atti istruttori. In ogni caso, non vedo impedimenti alla proroga del termine ex art. 820, comma 4, qualora debbano essere ammessi mezzi di prova o disposte consulenze. Rimane da chiedersi se la proroga sarà di centottanta giorni (come previsto dal codice di rito), o se anche il termine di proroga dovrà ritenersi dimezzato. Prudenzialmente, se fossi uno degli arbitri, mi comporterei come se tutti i termini computarsi dal giorno dell’accettazione dell’incarico arbitrale: ferma restando la possibilità di richiedere da parte degli arbitri (e di concedere concordemente ad opera delle parti della controversia) per una sola volta una proroga di trenta giorni, il solo infruttuoso trascorrere del termine cronologico de quo determina nel modo più oggettivo possibile la conclusione della fase arbitrale. Qualora i contendenti intendano proseguire la disputa sul campo del giudizio civile dovranno allora riassumere (è da credere allo stesso modo in cui il codice di rito prevede la riassunzione del giudizio negli altri casi di interruzione del procedimento) la causa davanti alla medesima Corte di Appello in cui questa era stata precedentemente incardinata, pena l’inesorabile estinzione della procedura ed il conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado fatta oggetto di gravame. Il secondo caso, invece, postula che il lodo pronunciato all’esito dell’arbitrato di prosecuzione di secondo grado sia stato, poi, impugnato ai sensi dell’art. 829 c.p.c. e che il giudizio sul provvedimento decisorio arbitrale si sia concluso con una declaratoria di nullità del lodo stesso: una simile situazione impone alla parte interessata, evidentemente quella che aveva esperito il rimedio dell’impugnazione di nullità ex art. 829 c.p.c., di riassumere il giudizio civile dinanzi alla Corte di Appello originariamente adita. Qui il termine perentorio da osservare sarà quello dei sessanta giorni decorrenti dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza di nullità pronunciata dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 830 c.p.c., con la conseguenza che il mancato rispetto del limite cronologico de quo comporterà l’estinzione del procedimento giudiziale civile già definito con il lodo rituale. A differenza dell’arbitrato deflattivo di primo grado, quindi, il Legislatore sembra invece prevedere una duplice possibilità di rientro nella sfera di cognizione dei giudici statali di secondo grado, creando ex novo ipotesi di interruzione della procedura arbitrale da far cessare attraverso la riassunzione oppure attraverso la definitiva estinzione producibile a seguito dell’infruttuoso decorso del termine. Appare opportuno segnalare, infine, come sia fatto singolare quello della pendenza del giudizio civile in grado di appello fossero dimidiati. In realtà, in assenza di esplicita previsione, mi sembra decisamente preferibile che la proroga non subisca compressioni”. allorquando la medesima controversia abbia trovato definizione in sede arbitrale ed il lodo da questa sede scaturito sia ancora astrattamente (perché il termine per l’impugnazione ex art. 829 c.p.c. non è ancora decorso) o concretamente (perché il lodo è stato impugnato per nullità nelle forme previste dal Libro IV, Titolo VIII del codice di rito) sub iudice. Si tratta evidentemente di una di quelle distrazioni in cui il Legislatore, nel furore creativo di nuovi istituti dal quale negli ultimi anni si è lasciato pervadere, è involontariamente incorso realizzando figurae iuris difficilmente armonizzabili con l’intero sistema processualcivilistico e che pongono problemi di non poco conto agli operatori del diritto ed agli interpreti delle norme. La genesi dell'istituto della negoziazione assistita. Da un punto di vista redazionale non può non notarsi come il Legislatore, dopo essersi occupato con l'art. 1 del D.L. 132/2014 dei processi pendenti, prosegue nell’incentivazione alle a.d.r. con la negoziazione assistita, occupandosi quindi anche di “prevenire” l’incardinamento di un giudizio; segnatamente, lo strumento individuato dal Legislatore per il raggiungimento di tale obiettivo è un istituto che trova riferimento ed ispirazione nella Loi sur l'acte de l'avocat30 ovvero la negoziazione assistita, definita dallo stesso Legislatore all'art. 2, comma 1 come "...accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all'albo..." A propria volta l’esperienza francese si rifà palesemente ad alcuni sistemi di common law (in primis Stati Uniti) laddove il c.d. “diritto collaborativo” è realtà consolidata. A tal proposito la Commissione Francese, all’indomani della presentazione del progetto, così si espresse: “La Commissione ha voluto ispirarsi alla prassi del Nord America conosciuta come “diritto collaborativo” per suggerire la nascita in Francia di una nuova modalità di risoluzione dei conflitti, la “procedura partecipativa” di negoziazione assistita tramite avvocato. Il diritto collaborativo ha registrato una forte crescita negli ultimi quindici anni negli Stati Uniti, dove è nato, e dove è ampiamente praticato in oltre 40 stati. 30 In sede di relazione al decreto legge si è parlato di esperienza di istituto noto dell’ordinamento francese data da una procedura cogestita tra avvocati, che consente il rapido raggiungimento di un titolo esecutivo Si è anche sviluppato rapidamente in Canada, Australia e Nuova Zelanda e ha fatto un notevole passo avanti in Europa. Data la portata del fenomeno, gli avvocati francesi hanno preso l’iniziativa in questi ultimi anni, di utilizzare i processi collaborativi come parte delle controversie familiari. Ampiamente usato nel campo, questo modo singolare di risoluzione delle controversie consensuale può comunque riguardare contestazioni di qualsiasi genere. Nei paesi dove è largamente praticato, il diritto collaborativo è usato nel diritto civile, nel diritto del lavoro, nel diritto delle assicurazioni, o per le successioni, ed in particolare il contenzioso commerciale”. Trasposizione dell’istituto nell’ordinamento italiano e sovrapposizione con il D.Lgs. 04.03.2010 n. 28. Nella traslazione dell’istituto nel nostro ordinamento tuttavia il legislatore italiano ha dovuto tener conto del fatto che gran parte dell’ambito del contenzioso civile è già stato “occupato” dalla mediazione civile obbligatoria e pertanto la negoziazione assistita, che pure trova spazio in termini facoltativi nelle materie più disparate ad eccezione dei diritti indisponibili e delle controversie aventi ad oggetto la materia del lavoro, risulta relegata, da un punto di vista di propedeuticità dell'azione, ad un ambito decisamente ridotto meglio individuato dall'art. 3, rubricato “improcedibilità” ove si specifica che: “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti deve, tramite il suo avvocato, invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. Allo stesso modo deve procedere fuori dei casi previsti dal periodo precedente e dall’art. 5 comma 1bis del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro. L’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale...”. Nella stessa “documentazione per l’esame di progetti di legge" a cura della Camera dei Deputati recante “misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile D.L. 132/14” del 27 ottobre 2014 si specifica come si tratti “... nella sostanza, di un ulteriore strumento di risoluzione stragiudiziale delle controversie civili che si affianca a istituti analoghi già esistenti e che intende dare rapida tutela dei diritti dei cittadini, confinando all'aerea giudiziale le sole liti che appaiono irrisolvibili anche all'esito della negoziazione assistita...". In altre parole, il Legislatore per primo presenta il nuovo istituto evidenziandone l’analogia con altri già presenti nell’ordinamento: il paragone sia in termini di ratio, che di finalità deflattiva è immediato con l’istituto della mediazione obbligatoria. La differenziazione è anzitutto per materia cosicché non sfugge come il Legislatore abbia tentato in tal modo di “coprire” i ridotti spazi non considerati dal D.Lgs 28/201031. Un’ulteriore differenza va ravvisata negli interlocutori che al contrario del caso della media-conciliazione sono individuati nei soli appartenenti alla classe forense, nonché nel fatto che nella disciplina ex D.Lgs 28/2010 sussiste un vero e proprio “filtro” rappresentato dal fatto che l’istante si rivolge non alla controparte ma ad un organismo terzo, il quale per mezzo della propria struttura designa un professionista (mediatore) e contestualmente invita la controparte a prendere parte alla procedura. Quanto sopra descritto appare niente affatto marginale in considerazione del fatto che lo snellimento della nuova procedura rispetto a quella di mediaconciliazione, pur centrando l’indubbio obiettivo di ridurre formalità e tempo, qualità senz’altro apprezzate anche da un punto di vista internazionale, comportano la soppressione dell'organismo terzo che ha in capo a sé la responsabilità della garanzia del procedimento, oggi demandata integralmente agli avvocati delle parti. Il raffronto con il D.Lgs. 28/2010 appare doveroso anche in considerazione del “prodotto finale” rappresentato nel caso di specie dall’accordo debitamente sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che ne attestano la conformità alle norme imperative ed all’ordine pubblico; in tal modo è equiparabile all’accordo raggiunto in sede di mediazione, specificando al riguardo che all’avvocato è 31 Varrà all’uopo rammentare come le controversie oggetto di mediazione obbligatoria ex D.Lgs 28/2010 si riferiscono a: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica, sanitaria e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari. imputabile ex art. 76 Legge 89/1913 la responsabilità in caso di nullità dell’atto32. Le criticità inerenti il trapianto del nuovo istituto nell’ordinamento, non ultimo in considerazione dell'incombente presenza della media-conciliazione, sono state sollevate in primo luogo dal Consiglio Superiore della Magistratura33 in sede di parere sul decreto legge in commento; in particolare il C.S.M. (che, è bene ribadirlo si esprime sul D.L. ante legge di conversione) saluta con parere favorevole la volontà di convogliare il potenziale contenzioso civile e commerciale su ambiti di definizione estranei rispetto al processo dato l’alto ed esponenziale carico di lavoro lamentato dagli Uffici giudiziari civili realizzatosi negli ultimi decenni. Il C.S.M., tuttavia, che già agli albori della mediazione civile aveva manifestato perplessità in ordine al c.d. “doppio binario” ovvero la scelta di destinare solo talune materie alla mediazione obbligatoria, relegando altre alla discrezionalità delle parti, oggi manifesta nuovamente perplessità in ordine alla gestione delle materie investite dal nuovo istituto. Si ravvisa cioè che, pur dinanzi alla palese volontà del Legislatore di evitare di sovrapporre i due istituti (mediazione e negoziazione), il rischio appare comunque elevato, specificando come di fatto la mediazione di tipo facoltativo che trovava spazio nelle materie oggi interessate dalla negoziazione, sia destinata ad essere completamente soppiantata dal nuovo istituto o quantomeno a subirne la forte concorrenza; e ciò con buona pace degli auspici riposti nella mediazione facoltativa (di fatto nella pratica inesistente) anche se il suddetto istituto conserva indubbi vantaggi in termini di sgravio economico quali, a titolo esemplificativo, il credito di imposta per le spese sostenute (non presente nel caso di negoziazione assistita). Alla luce di tali considerazioni e tornando quindi all’obiettivo (non dichiarato stavolta) questo sembra rintracciarsi, per velata ammissione dello stesso Legislatore, nell’idea di distinguere tra liti risolvibili con metodologie a.d.r. e tra 32 L’art. 76 in commento recita testualmente: “Quando l’atto sia nullo per causa imputabile al notaro, o la spedizione della copia dell'estratto o del certificato non faccia fede per essere irregolare, non sarà dovuto alcun onorario, diritto o rimborso di spese. Negli accennati casi, oltre il risarcimento dei danni a norma di legge, il notaro deve rimborsare le parti delle somme che gli fossero state pagate”. 33 Delibera consiliare del 09.10.14 su Nota 18.09.2014 prot. CSM 46733/2014 dal Ministero della Giustizia. quelle irrisolvibili in altra sede che non sia quella giudiziale; in altre parole si distingue tra cause che “meritano” la sede giudiziale e quelle che dovrebbero “accontentarsi” di una sede stragiudiziale. Tuttavia il grado di “meritevolezza” rischia, in particolare, nei casi in cui la negoziazione è scelta obbligata (vedi infra) di trasformarsi in un grande compromesso a scapito di chi, pur nella posizione sostanziale più vantaggiosa, si trovi costretto a scegliere tra il contenzioso puro (e le relative fasi, costi e tempi) ed una chiusura “negoziale”, la quale garantirà senz’altro tempi più brevi sacrificando tuttavia qualcosa in termini economici. In sostanza il rischio che la pars debole economicamente ma forte nelle proprie ragioni in diritto rischi seriamente di cedere alla tentazione di un paventato compromesso economico a fronte del contenzioso che potrebbe durare anni (con relativi costi, sempre in ascesa) appare essere più che un’ipotesi, con la conseguenza che, se così fosse, sarebbe il senso di giustizia sostanziale ad uscirne fortemente leso. La negoziazione assistita: ambito di applicazione e fasi. Il nuovo istituto è disciplinato nel dettaglio dal D.L. n. 132/2014, convertito con modificazioni nella L. n. 162/2014 volto alla cosiddetta degiurisdizionalizzazione del contenzioso civile. La negoziazione assistita può definirsi come un impegno a cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere amichevolmente una controversia tramite l’assistenza di avvocati. La volontà politica di “…valorizzare quanto più possibile la professionalità e le competenze del mondo dell'avvocatura, quale attore primario nel contesto dell'Amministrazione della giustizia...”34 è il perfetto prologo per giustificare la negoziazione come attuabile su qualunque controversia avente diritti disponibili. In particolare la lettera b) del comma 2 dell’art. 2 precisa che “la convenzione di negoziazione deve precisare: (...omissis...) l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro35”. Esiste tuttavia, come detto, un 34 35 Dalla relazione al D.L. Quest'ultimo ambito è stato aggiunto in sede di conversione. ambito di obbligatorietà, meglio definito all’art. 3, che va assunto quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale. In entrambi i casi il buon fine dell’accordo acquista rilevanza sotto il profilo esecutivo posto che, se in generale la definizione stragiudiziale delle controversie da parte dei legali acquista valore di transazione (in senso contrattuale), il buon esito di una negoziazione assistita produce un titolo esecutivo, attesa l’asseverazione (ovvero attestazione di conformità a norme imperative ed ordine pubblico) da parte dell’avvocato. Riassumendo, quindi, i parametri del nuovo istituto possono sintetizzarsi nell’assistenza di uno o più avvocati, nella fissazione di un termine entro il quale la trattativa va conclusa, nella forma scritta a pena di nullità e nella circoscrizione a materie che non devono involgere diritti indisponibili o materia lavoro. É possibile distinguere il procedimento nelle seguenti tre fasi: a) invito: all’atto del conferimento di incarico è previsto che il legale dia conoscenza al cliente della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita; la mancata informazione espone l’avvocato a sanzioni di tipo deontologico. Qualora la parte scelga di provare detta procedura, il legale si attiva per la formulazione alla controparte di un invito a stipulare una convenzione di negoziazione contenente certificazione dell’autografia della firma apposta all’invito. Detto invito deve contenere l’oggetto della controversia (si ribadisce che l’oggetto della controversia non può estendersi a diritti indisponibili, né vertere in materia lavoro) e contenere l’avviso per la controparte sulle conseguenze negative in caso di mancato riscontro entro 30 giorni o in caso di rifiuti consistenti nella valutazione da parte del giudice ex art. 96 e 642 c.p.c. nel successivo eventuale instaurando giudizio. É bene precisare che ai sensi dell’art. 8 dal momento della comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione ovvero della sottoscrizione della convenzione si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data è impedita per una sola volta la decadenza specificando che se l’invito è rifiutato o non accettato nel termine di cui all’art. 4, comma I la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto della mancata accettazione nel termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificato dagli avvocati. In ogni caso gli avvocati saranno tenuti all’osservanza della normativa inerente la riservatezza e sugli obblighi antiriciclaggio. In particolare detto ultimo aspetto appare particolarmente “sentito” dal Legislatore, il quale se ne occupa appositamente con la disposizione di cui all’art. 5. b) convenzione: la procedura necessita dell’assistenza obbligatoria di uno o più (secondo la lettura della norma alla luce della conversione) avvocati iscritti all’albo ai quali, si rammenta, viene delegato l’onere della certificazione dell’autografia delle sottoscrizioni. Tuttavia nulla vieta che tutte le parti congiuntamente diano mandato ad un unico legale. La convenzione pertanto può leggersi (vedi art. 2) come l’accordo a cooperare, in buona fede e lealtà, per risolvere in via amichevole la controversia. Corollario è il fatto che i difensori non possono essere nominati arbitri nelle controversie aventi il medesimo oggetto o connesse e la violazione di quanto sopra costituisce illecito disciplinare. Un rilievo essenziale è dato dal termine della procedura, posto che in tale lasso di tempo, non inferiore ad un mese e non superiore a tre 36, ma prorogabile di ulteriori trenta giorni su richiesta delle parti, è precluso alle parti l’accesso alla via giudiziale. Sotto tale profilo appare opportuna la scelta del Legislatore, in sede di conversione, di statuire un termine per l’esercizio della fase “stragiudiziale”37. 36 Il termine di tre mesi prorogabile per 30 giorni è stato inserito in sede di conversione. Ciò risponde ad una precisa volontà di razionalizzazione dei tempi processuali che oggi si estende anche a quelli extra processuali (o per meglio dire ante processuali), volontà già estrinsecatasi in sede di riforma del codice di procedura civile avutosi in sede di Legge 18.06.2009, n. 69 ove vi è stata la riduzione da quattro a tre mesi per la sospensione 37 La convenzione prevede la forma scritta a pena di nullità. c) negoziazione e definizione della procedura: la procedura prosegue senza peculiari formalità alla luce dei due parametri fondamentali della lealtà e della riservatezza. In tal senso al pari di quanto già visto in sede di mediaconciliazione, le dichiarazione rese e le informazioni assunte nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nell’eventuale instaurando giudizio avente il medesimo oggetto (anche parziale). Né i difensori o tutti coloro i quali a diverso titolo abbiano a partecipare alla procedura potranno essere sentiti e tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite. Si applicano nei confronti di tutti i soggetti summenzionati le disposizioni ex artt. 200 e 103 c.p.p. Com’è ovvio il procedimento può portare o meno al raggiungimento dell’accordo: nel secondo caso sarà sufficiente la certificazione da parte degli avvocati della dichiarazione di mancato accordo. Più articolato è il procedimento previsto in caso di avvenuto accordo: in tal caso, difatti, occorrerà anzitutto che l’accordo sia sottoscritto dalle parti e dai legali, i quali certificheranno la conformità dell’accordo alle norme imperative ed all’ordine pubblico. Copia dell’accordo andrà spedita all'Ordine degli Avvocati di circoscrizione competente. L’accordo così formato è titolo esecutivo, nonché titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, specificando, tuttavia, che come nel caso in cui l’accordo preveda trasferimento di diritti per cui è prevista la trascrizione su pubblici registri, sarà comunque necessario rivolgersi ad un notaio. Un discorso a parte merita il caso in cui sia necessario porre in esecuzione (nella sua qualità di titolo esecutivo) l’accordo frutto di negoziazione. In tal senso, il secondo comma dell’art. 480 c.p.c. prescrive che il precetto debba volontaria ad istanza congiunta. In altre parole, la volontà del Legislatore è quella di evitare di presentare la negoziazione come un passaggio obbligato in vista del giudizio; in tal senso l'esperienza del processo del lavoro con l'art. 410 appare preziosissima, rammentando che sino alla novella del 2010 il carattere obbligatorio aveva svuotato di qualsiasi significato il parametro transattivo ed il passaggio alla DTL era visto come mero ostacolo da superare per l'incardinamento del giudizio, nonché da ultimo manifestata in sede di modifica alla D.Lvo 04.03.2010, n. 28 operato dall’art. 84 comma I lett. f) del D.L. 21.06.2013, n. 69 che intervenendo nell’art. 6, comma I del decreto summenzionato ha portato da quattro a tre mesi la durata massima del procedimento di mediazione. contenere la trascrizione integrale del titolo esecutivo “quando è richiesta dalla legge”. Nel caso che ci occupa, ai fini della regolare redazione del precetto, questo dovrà contenere la trascrizione integrale del titolo all’interno del precetto stesso e ciò anche alla luce del fatto che, pacificamente la trascrizione integrale è necessaria per le scritture private autenticate, visto l’espresso richiamo dell’art. 474, comma III c.p.c. A tale conclusione si arriva anche a rigor di logica posto che, nel possesso della parte che intende far valere il titolo esiste un solo originale con la conseguenza che essa non può essere spedita in forma esecutiva. Ultima annotazione va fatta con riferimento all’impugnativa dell’accordo. Di fatto se ne desume la possibilità in considerazione di quanto letteralmente riportato all’art. 5 della norma in commento, allorché in termini deontologici si sanziona l’avvocato che impugna un accordo alla cui redazione ha partecipato; tuttavia, non emergono dall’analisi del testo ulteriori elementi per definire o meglio circoscrivere (in primis in termini temporali) l’ambito della questione, caratteristica questa non di poco conto, posto che appare di tutta evidenza che lo sforzo fatto per delimitare temporalmente la procedura sarebbe certo vanificato dalla carenza di certezze circa i tempi e le modalità della fase di impugnativa. La negoziazione obbligatoria. Come detto, sulla scorta di quanto già previsto in tema di cosiddetta mediazione obbligatoria e replicando sostanzialmente parte delle disposizioni ivi contenute, il Legislatore ha stabilito che per alcune materie la negoziazione assistita sia condizione di procedibilità della domanda: si parla in tali casi di negoziazione obbligatoria. Segnatamente chi intenda esercitare in giudizio un’azione in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti o proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 euro, ad eccezione delle controversie assoggettate alla disciplina della cosiddetta mediazione obbligatoria, è assoggettato all’obbligo di attivare la procedura di negoziazione mediante invito, per il tramite del proprio legale di fiducia, diretto all’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. In dette materie la condizione di procedibilità si considera superata all’avveramento di una delle tre seguenti ipotesi: a) allorché l’invito non è seguito da adesione; b) allorché sia seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione; c) allorché sia decorso il periodo di tempo previsto dalle parti nella convenzione per la durata della procedura di negoziazione. Al riguardo rimandando a quanto già detto circa la sovrapposizione con la mediazione civile, si rimarca come il Legislatore abbia espressamente escluso il verificarsi della condizione di procedibilità nei casi di seguito indicati: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione; b) nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, di cui all’articolo 696 bis del codice di procedura civile; c) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata; d) nei procedimenti in camera di consiglio; e) nell’azione civile esercitata nel processo penale; si specifica, pure, che l’obbligatorietà dell’esperimento del procedimento di negoziazione assistita “non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale”. L’obbligo di negoziazione trova inoltre limite nei contratti tra professionisti e consumatori, nei procedimenti monitori (compresa la fase di opposizione), nelle procedimenti ove la parte può stare in giudizio personalmente ed infine nelle materie già investite dalla mediazione (ex art. 5 comma 1 bis D.Lgs. 28/2010). Sul piano processuale, il mancato esperimento di detta condizione deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. La lettera della norma anche in tale caso appare ispirata ai principi di celerità del procedimento e buona fede: da un lato cioè si vuole evitare che la parte convenuta “conservi” l’eccezione per una fase avanzata del giudizio, per meri fini dilatori, in considerazione del fatto che, per esperienza consolidata, l’ipotesi transattiva ha certamente maggiori chance nella fase di incontro che precede l’ambito giudiziale, posto che l'incardinamento dell’azione ed il conseguente “animus” comportano un’aura di acredine che difficilmente può rivelarsi positiva in termini conciliativi o transattivi. Dall’altro, il Legislatore correttamente ritiene che nel momento in cui la controparte in sede giudiziale non ravvisi l’opportunità di eccepire l’omessa negoziazione (dando per scontata l’attenzione di parte convenuta all’assoggettamento della materia de qua all’ambito di applicazione della novella) ciò è segno tangibile dell’assenza di interesse ad una procedura alternativa al giudizio e pertanto si sanziona implicitamente con il termine decadenziale l’eccezione formulata oltre la prima udienza in quanto ritenuta meramente strumentale e defatigatoria. Resta di dubbia interpretazione la posizione del giudicante che, pur nel silenzio di parte convenuta, è chiamato a svolgere una funzione di “garanzia” del regolare espletamento del tentativo di negoziazione. Il giudice, difatti, allorché rilevi che la negoziazione assistita non è stata esperita, assegna alle parti il termine di 15 giorni per la comunicazione dell’invito a stipulare la convenzione e, contestualmente, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto dalle parti nella convenzione stessa. Se al contrario la negoziazione è già iniziata, ma non si è conclusa, il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto dalle parti nella convenzione stessa per la durata della procedura di negoziazione. Pur chiarendo al riguardo che il termine non può essere inferiore ad un mese (cfr. lettera a, comma II, art. 2), appare opportuno segnalare che tale limite cronologico risulta, tuttavia, derogabile in senso estensivo dalle parti in sede di convenzione di negoziazione (ex art. 2 comma III); come detto, infatti, a norma dell’art. 2, comma III, la convenzione di negoziazione va conclusa per un periodo di tempo determinato dalle parti nella convenzione stessa, fermo restando il termine di cui al comma II, lett. a). Sarebbe stato forse preferibile al riguardo un semplice richiamo all’onere della procedura senza obbligo di rilievo da parte del giudicante: appare, infatti, scontrarsi con la ratio di celerità dianzi ravvisata nel medesimo articolo la volontà di imporre obbligatoriamente la negoziazione alle parti, le quali hanno già decretato implicitamente, mediante da un lato la carenza di invito e, dall’altro, il mancato sollevamento dell’eccezione, la volontà di non perseguire la via della negoziazione. Stupisce come il Legislatore rilevata la volontà delle parti prosegua nell’intenzione di (tentare di) obbligare le parti medesime a mediare, senza minimamente tenere conto della volontà già intrinsecamente manifesatata, con la conseguenza che il procedimento in sede processuale verrà comunque ad arrestarsi in favore della procedura di negoziazione i cui esiti sono prevedibili. In altre parole, se appare legittima la volontà del Legislatore di porre una condizione di procedibilità dell’azione in termini di “invito” non si vede la motivazione per la quale a seguito della manacata (e certo motivata e significativa) eccezione di parte convenuta, il Legislatore insista nel patrocinare un istituto che viene visto dalle parti interessate in detta ipotesi come mero ostacolo al processo, con la sola conseguenza che il giudizio venga alla luce solo a seguito delle spese inerenti la procedura di negoziazione e del conseguente dispendio anche in termini di tempo. Sotto il profilo dell’obbligatorietà, considerata l’esperienza del D.Lgs 28/2010 già in dottrina si sono ravvisati rilevanti profili di incostituzionalità della norma de qua38, tra cui, in primis la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. data dalla sovrapposizione dell’istituto già precedente oggetto di analisi con altri già presenti. In particolare, con riferimento ai sinistri stradali la sovrapposizione è con la procedura ex artt. 145 ss. C.d.A., in considerazione della differente tempistica stabilita dai due parametri normativi39 previsti dalla negoziazione e dalla procedura di proposizione della domanda solo ad avvenuto decorso di 90 o 60 giorni (a seconda della presenza o meno di danni alla persona) dalla richiesta di risarcimento. Quanto invece alla richiesta di somme, la potenziale sovrapposizione avviene in tutti i casi in cui vi è commistione tra il recupero della somma e la provenienza della pretesa (si pensi al caso di richiesta di condanna di pagamento di somme inferiori ad 50.000 euro legate ad un contratto bancario o assicurativo ove si è pertanto sotto la contesuale vigenza della mediazione obbligatoria e della negoziazione obbligatoria). Sempre con riferimento al recupero delle somme un ulteriore annotazione e rilievo di possibile profilo di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost. va fatta in ordine alla materia monitoria che, a seconda dell'oggetto della controversia (coperto da mediazione o negoziazione) sarà assoggettata o meno alla procedura conciliativa per la successiva fase di merito. 38 M. VACCARI, Profili di incostituzionalità della negoziazione assistita obbligatoria, www.judicium.it, 2014. 39 La materia era come noto stata oggetto di profonda analisi all’indomani dell’entrata in vigore della mediazione obbligatoria ed il fatto che la soluzione sia stata quella di posticipare, per poi eliminare la materia appare emblematico della difficoltà di inserimento della norma. Profili processuali: pluralità di parti nella successiva fase processuale e le nuove domande. Un’ulteriore riflessione va fatta, nella negoziazione obbligatoria, con riferimento alla circoscrizione dell’oggetto specifico (in senso processuale) in considerazione dell’eventuale estensione oggettiva e soggettiva nella fase di traslazione processuale. Già nel caso della mediazione obbligatoria si è assisito e si continua ad assistere a casi in cui la domanda riconvenzionale non ricompresa nell’oggetto della mediazione (parametro oggettivo) o ancora la presenza di soggetti non ricompresi nella richiesta di mediazione (parametro soggettivo) comportino il rilievo giudiziale del mancato (corretto) esperimento del tentativo di conciliazione per il tramite della media-conciliazione, la qual cosa conduce, come noto, all’immediato rinvio con concessione del termine alla parte diligente per il corretto espletamento del tentativo di conciliazione. Anche alla negoziazione obbligatoria, memori della recente esperienza di media-conciliazione, risultano ascrivibili le stesse perplessità e rimedi elaborati per il predetto istituto, che tuttavia non soggiacciono nella prassi a regole ferree data l’immensa casistica e l’esercizio discrezionale del magistrato che si trova volta per volta a contemperare le esigenze di rispetto della norma e del non consentire dell’eccezione che di una mancato lettura troppo corretto rigida possa espletamento favorire della l’utilizzo procedura di conciliazione come arma per arrestare reiteratamente la prosecuzione del giudizio. In particolare, partendo dal dato soggettivo, allorchè sul piano processuale vengano ad essere chiamati in causa terze parti rispetto a quelle originariamente individuate dall’attore in sede di mediazione, il tentativo andrà comunque considerato come correttamente effettuato in considerazione del fatto che plausibilmente il mancato accordo tra le originarie parti difficilmente avrebbe esito diverso alla presenza di un nuovo interlocutore e pertanto il nuovo procedimento comporterebbe unicamente lo slittamento di nuova udienza senza utilità alcuna per il processo. La considerazione di cui sopra, che poggia sull’esperienza della mediazione, appare utile in considerazione del fatto che da un punto di vista pratico, in particolare nella materia della circolazione di veicoli, spesso si ricorre a chiamate di terzo e/o in garanzia, anche consecutive, con la conseguenza che una qualsivoglia diversa lettura rispetto a quella sopra proposta comporterebbe unicamente un percorso di rinvii sterili e dilatori, anche in considerazione del fatto che se volontà transattiva sussiste (in particolare da parte delle Compagnie di assicurazione) questa viene estrinsecata stragiudizialmente in ogni fase del giudizio. Va comunque chiarito che le parti “originariamente” in causa devono replicare integralmente quelle già chiamate nella negoziazione, non essendo ammissibile che questa possa essere esperita in senso “parziale” rispetto ai soggetti poi convenuti in giudizio: va da sé che in tal caso, difatti, sarebbe doveroso il ricorso a nuova procedura. Con riferimento al carattere “oggettivo” e pertanto al petitum, la questione è senz’altro più complessa e controversa: fermo il dato soggettivo, e dato per pacifico che l’oggetto della negoziazione sia stato correttamente individuato nel merito ed a seguito dell’esito negativo sia convogliato nell’azione civile, resta da capire se per le eventuali domande riconvenzionali in primis e comunque per le istanze formulate da terzi o delle “precisazioni o modificazioni delle domande” formulate in sede di memorie ex art. 183, comma VI n. 1 (che possono potenzialmente discostarsi da quelle originariamente redatte sia pur nei limiti processualmente consentiti), sia necessaria una nuova procedura di invito. Da un lato occorrerebbe tener conto del fatto che la negoziazione non contempla in alcun modo la questione e pertanto, nel silenzio della norma e tenendo conto del fatto che si parla unicamente di "convenuto" chiamato a formulare eccezioni sull’esperimento dell'invito di negoziazione, ciò porterebbe a concludere per il perfezionamento del procedimento solo per la fase iniziale senza che eventuali nuove domande possano comportare il rinnovo del rito. Tuttavia, per contro, il fatto che come sopra detto il giudice sia chiamato ad un forte ruolo di garanzia, richiamando pertanto fortemente l’attenzione sull’obbligatorietà del percorso, porterebbe ad escludere tale soluzione. Inoltre la stessa parola “convenuto” sarebbe in tale ottica da leggersi non in termini processuali ma con riferimento al soggetto che ha “subito” la domanda avente ad oggetto quanto previsto per la negoziazione obbligatoria, con la conseguenza che apparrebbe del tutto fuori luogo una lettura che conservi l’obbligatorietà per l'istante (obbligatorietà come detto corroborata dal giudicante in sede di prima udienza) e si dimentichi totalmente della domanda riconvenzionale del convenuto indebitamente non soggiacente ad alcun titolo alla procedura di mediazione. Tale lettura, se vogliamo più “garantista” delle diverse posizioni, racchiude in sé come è ovvio il “percorso ad ostacoli” determinato dal fatto che occorrerebbe effettuare tante “interruzioni” (in senso improprio) del procedimento per quante sono le domande avanzate successivamente all’incardinamento del giudizio, con conseguente aumento esponenziale di costi e durata del processo. Da un punto di vista “storico” la dottrina nei diversi casi già proposti dalla conciliazione si è diversamente orientata: ad esempio, nel caso delle controversie agrarie (art. 46 Legge 203/1982) la dottrina e la conseguente giurisprudenza si sono orientate per l’obbligatorietà in presenza di domanda riconvenzionale: cosa al contrario espressamente esclusa dalla costante giurisprudenza in materia lavoro. Alla luce di quanto sopra ed escludendo espressamente le domande il cui contenuto sia adesivo dipendente e pertanto scevro da contenuti non già contemplati nel panorama degli interessi posti in gioco in sede giudiziale, pur sommessamente propendendo per una visione garantista dell'istituto che tenga pari conto delle posizioni processuali dell’attore e del convenuto e che li ponga pertanto sotto lo stesso profilo anche nell’ambito degli oneri pre-processuali, appare di tutta evidenza che lo stato dei fatti e delle posizioni singolarmente prese, rappresentando un casistica sterminata, possono essere oggetto di volta in volta di approfondimento da parte del giudicante, il quale sarà pertanto tenuto a valutare ogni singola fattispecie, tendendo in considerazione la portata della domanda riconvenzionale o comunque inerente un oggetto estraneo a quello in origine oggetto di negoziazione. Il silenzio della norma, quindi, apre lo spiraglio ad un margine di discrezionalità tutt’altro che inopportuno e che consente al magistrato di intervenire valutando caso per caso di adoperarsi per una soluzione che apra alla velocità processuale o al contrario alla parità tra attore e convenuto anche sotto il profilo degli oneri di negoziazione, prevedendo che difficilmente il Legislatore che non si è adoperato in tal senso sulla mediazione possa intervenire, fornendo indicazioni, nell’ambito della negoziazione. La negoziazione in materia di separazione e divorzio. L'art. 6 del decreto legge in commento si occupa pure della regolamentazione delle convenzioni di negoziazione per le soluzioni consensuali in materia di separazioni personali, di cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio e modifica delle condizioni di separazione e di divorzio. Rispetto all’originaria formulazione, in sede di conversione si sono apportate significative modifiche al testo: la norma si rivolge, infatti, anche ai casi in cui vi sia presenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti economicaente o incapaci o portatiori di handicap grave. Segnatamente, nei casi dianzi menzionati l’accordo è trasmesso entro 10 giorni al P.M. presso il tribunale competente, che avrà l’onere del vaglio sulla presenza dell’interesse nei confronti dei figli. Qualora pertanto il P.M. ravvisi che l’accordo risponda all'interesse degli stessi procederà all’autorizzazione, mentre in caso contrario il medesimo accordo sarà trasmesso dal magistrato entro 5 giorni al Presidente del Tribunale, il quale fisserà la comparizione delle parti entro 30 giorni, provvedendo poi “senza ritardo” (sic!). Nel caso in cui non vi sia la presenza di figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti è sempre prevista la trasmissione al P.M., ma stavolta ai fini del vaglio sulla regolarità dell’accordo che, ove riconosciuta, consentirà l’apposizione del nullaosta per la trasmissione dell’accordo agli Ufficiali di Stato Civile competenti. Il Legislatore tiene a specificare (e ciò a seguito della modifica della legge di conversione) che nell’accordo sia dato atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e informate sulla possibilità di esperire la mediazione familiare nonché dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascun genitore. Da un punto di vista redazionale, l’accordo perfezionato dagli avvocati, debitamente sottoscritto dalle parti e dai legali nonché certificato da questi ultimi quanto all'autografia delle firme e conformità ad ordine pubblico e norme imperative, utilizzando le parole del Legislatore ex art. 6 comma 3 “... produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1 i procedimenti di separazione personale,di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione di divorzio”. Conclusioni. Le riflessioni sin qui esposte conducono ad una conferma di quanto già detto in sede di premesse, ragion per cui non può negarsi, per le argomentazioni svolte in queste pagine, come il Legislatore abbia dimostrato di essere poco attento alle implicazioni dogmatiche e tecniche delle proprie scelte di politica giudiziaria, tutto preso come era a trovare valide alternative per il disbrigo del cosiddetto “arretrato” giudiziale civile: il giusto interesse verso i cosiddetti mezzi di degiurisdizionalizzazione è sembrato, pertanto, una necessità contingente che ha dato luogo ad un approccio innegabilmente leggero. Editrice