In tema di rapporti di lavoro fra societ sportive e

Anno I Pubblicazione numero 1 2005 GiustiziaSportiva.it Rivista Giuridica Redazione e Fondatori Enrico Crocetti Bernardi Antonino de Silvestri Enrico Lubrano Paolo Moro Jacopo Tognon Direttore Editoriale Jacopo Tognon Direttore Responsabile Mario Liccardo ______________________________________________________________ Autorizzazione del Tribunale di Padova in data 1 ottobre 2004 al numero 1902 del Registro Stampa ‐ Periodico trimestrale ‐ -1-
INDICE DEL FASCICOLO 1°
PARTE PRIMA
DOTTRINA
PAOLO MORO, Critica del vincolo di Giustizia Sportiva
pag . 3
MASSIMILIANO GIUA , La fiscalità nello sport dilettantistico:
sponsorizzazioni e spese pubblicitarie
pag. 28
DOMENICO ZINNARI , Percorsi dottrinali in tema di vincolo sportivo
pag. 41
PARTE SECONDA
NOTE A SENTENZA
ANTONINO DE SILVESTRI , Il tesseramento tra potestà genitoriale e
diritti del minore (nota a Deferimento della Commissione Tesseramenti FIGC Veneto
e Decisione della Corte Federale in data 12.7.2004)
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pag. 61
CRITICA DEL VINCOLO DI GIUSTIZIA SPORTIVA
1. Il vincolo di giustizia nell’ordinamento sportivo.
Nelle coscienze vigili dei giuristi amanti della libertà alberga il convincimento secondo cui
ciò che conta non è la norma prodotta dal principe, ma è il principio che governa ed orienta il
procedimento di organizzazione della disputa tra gli appartenenti al gruppo, perché solo con un
effettivo ricorso ad una legittima autorità giudicante i diritti fondamentali dei componenti di una
formazione sociale possono trovare concreta realizzazione.
Questa possibilità di accesso alle Corti, che concretizza il diritto di azione giurisdizionale, è
esplicitamente vietata nell’ordinamento sportivo che, nelle sue differenti articolazioni, impone ai
tesserati ed agli affiliati il cosiddetto «vincolo di giustizia».
Invero, è noto che le norme di ogni ordinamento federale impongono uniformemente che le
controversie che coinvolgono singoli tesserati (atleti, dirigenti, tecnici ed altri) o società affiliate
vengano devolute alla giurisdizione domestica, che costituisce la giustizia sportiva in senso stretto,
attraverso la previsione di una apposita clausola arbitrale. Con l’affiliazione e il tesseramento, le
società e le persone fisiche (atleti, allenatori, dirigenti) che aderiscono all’ordinamento sportivo di
una singola federazione devono approvare tale clausola, generalmente contenuta negli statuti o nella
parte generale dei regolamenti, con la quale viene assunto contrattualmente l’obbligo di devolvere
agli organi della giustizia sportiva qualsiasi lite insorga con tutti gli altri affiliati o tesserati.
Peraltro, la distinzione tra la clausola compromissoria e il vincolo di giustizia, già
efficacemente tracciata dalla dottrina specializzata più accorta [DE SILVESTRI 2004], risulta oggi
tipizzata nella maggior parte degli statuti federali.
L’art. 27 dello statuto della F.I.G.C. (dedicato a «efficacia dei provvedimenti federali e
clausola compromissoria») stabilisce quanto segue.
1. I tesserati, le società affiliate, e tutti i soggetti, organismi e loro componenti, che svolgono attività di
carattere agonistico, tecnico, organizzativo, decisionale o comunque rilevanti per l’ordinamento
Federale, hanno l’obbligo di osservare il presente Statuto e ogni altra norma federale.
2. I soggetti di cui al comma precedente, in ragione della loro appartenenza all’ordinamento settoriale
sportivo o dei vincoli assunti con la costituzione del rapporto associativo, accettano la piena e
definitiva efficacia di qualsiasi provvedimento adottato dalla F.I.G.C., dai suoi organi o soggetti
delegati, nelle materie comunque riconducibili allo svolgimento dell’attività federale nonché nelle
relative vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico.
3. Le controversie tra i soggetti di cui al comma 1 o tra gli stessi e la Federazione, per le quali non
siano previsti o siano esauriti i gradi interni di giustizia federale, possono essere devolute, su istanza
della parte interessata, unicamente alla cognizione conciliativa e arbitrale della Camera di
Conciliazione e Arbitrato per lo Sport presso il C.O.N.I., secondo quanto disposto dai relativi
regolamenti e dalle norme federali. Non sono soggette a procedimento di conciliazione o arbitrato le
controversie decise con lodo arbitrale in applicazione delle clausole compromissorie previste dagli
accordi collettivi o di categoria e, fermo restando il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi
dell’art. 12 dello Statuto C.O.N.I., non sono soggette a procedimento di arbitrato le controversie di
natura tecnico disciplinare decise in via definitiva dagli organi di giustizia federali relative ad
omologazioni di risultati sportivi o che abbiano dato luogo a sanzioni soltanto pecuniarie, ovvero a
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sanzioni comportanti: a) la squalifica o inibizione di tesserati, anche se in aggiunta a sanzioni
pecuniarie, inferiore a 120 giorni; b) la squalifica del campo; c) penalizzazioni di classifica.
4. Il Consiglio Federale, per gravi ragioni di opportunità, può autorizzare il ricorso alla giurisdizione
statale in deroga al vincolo di giustizia. Ogni comportamento contrastante con gli obblighi di cui al
presente articolo, ovvero comunque volto ad eludere il vincolo di giustizia comporta l’irrogazione
delle sanzioni disciplinari stabilite dalle norme federali.
5. In deroga alle disposizioni di cui ai commi precedenti, avverso i provvedimenti di revoca o di
diniego dell’affiliazione può essere proposto ricorso alla Giunta Nazionale del C.O.N.I. entro il
termine perentorio di 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento.
L’art. 43 dello statuto della F.I.P. (rubricato come «vincolo di giustizia» e distinto dalla
clausola compromissoria disciplinata specificamente dall’art. 44) contiene le seguenti disposizioni.
[1] I provvedimenti adottati dagli Organi della F.I.P. hanno piena e definitiva efficacia nell’ambito
dell’ordinamento sportivo, nei confronti di tutti i soggetti che ne fanno parte.
[2] Gli affiliati, i tesserati ed i soggetti ad essi equiparati sono tenuti ad adire gli Organi di Giustizia
dell’ordinamento sportivo nelle materie dalla legge riservate alla competenza dei predetti Organi, fatto
salvo il ricorso all’arbitrato irrituale secondo quanto previsto dallo Statuto C.O.N.I. e dal presente
Statuto.
[3] L’inosservanza della presente disposizione e di quella prevista al successivo art. 44 comporta
l’adozione di provvedimenti disciplinari, sino alla radiazione, nei modi e termini indicati nel
Regolamento di Giustizia.
[4] Le Società affiliate, i tesserati e gli associati in genere, esauriti i gradi di Giustizia federale, o in
assenza della stessa, ovvero esaurito il procedimento arbitrale di cui al successivo art. 44, qualora
intendano adire la Magistratura Ordinaria e/o Amministrativa devono previamente essere autorizzati
dal Consiglio Federale. L’istanza per il rilascio della autorizzazione, rivolta al Consiglio Federale,
deve essere inviata alla Segreteria Federale. Il Consiglio Federale si pronuncia sulla istanza entro 60
(sessanta) giorni dalla ricezione della stessa da parte della Segreteria Federale. Decorso il termine di
giorni 60 (sessanta) senza che alcun provvedimento sia stato emesso dal Consiglio Federale,
l’autorizzazione si intende concessa per silenzio.
L’art. 20 dello statuto della F.I.P.A.V. (intitolato «vincolo di giustizia» e distinto dalla
clausola compromissoria disciplinata specificamente dall’art. 44) è così formulato.
1. I provvedimenti adottati dagli organi della FIPAV, nel rispetto della sfera di propria competenza,
hanno piena e definitiva efficacia, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, nei confronti di tutti i
soggetti inquadrati nella Federazione.
2. Gli associati ed i tesserati si impegnano a non adire Autorità o soggetti diversi dagli organi di
giustizia federali per la risoluzione di controversie, di qualsiasi natura, connesse all’attività espletata
nell’ambito della FIPAV.
3. La Giunta Esecutiva può concedere la deroga all’osservanza dell’obbligo di cui al precedente
comma per particolari e giustificati motivi.
4. Il diniego dell’autorizzazione deve essere motivato.
5. La Giunta Esecutiva deve pronunciarsi sulla richiesta di deroga entro 30 giorni dal suo ricevimento.
L’omissione della pronuncia entro detto termine determina, automaticamente, la deroga all’osservanza
del divieto di cui al precedente comma 2. Della pronuncia deve essere data tempestiva comunicazione
al richiedente.
6. L’inosservanza della presente disposizione comporta l’adozione di provvedimenti disciplinari sino
alla radiazione secondo quanto stabilito nel Regolamento Giurisdizionale
2. L’illegittimità del vincolo di giustizia sportiva.
Qualora si volesse identificare il vincolo di giustizia, come effettivamente si potrebbe
evincere dal contenuto rigido delle disposizioni federali, con il divieto assoluto per ciascun
associato di adire la giurisdizione dello Stato oppure con un arbitrato obbligatorio che, inoltre,
devolva a giudici speciali (peraltro non riconosciuti dalla Costituzione) le controversie tra affiliati,
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sarebbe palesemente violato il sistema di diritti fondamentali che realizza il giusto processo al più
alto livello della legislazione costituzionale e internazionale.
Più radicalmente, si deve rimarcare che, nell’ordinamento sportivo, il vincolo della
giurisdizione domestica, pur limitato dalla legge nei termini sopra considerati, impedisce di fatto di
attivare un processo estraneo alla giustizia endoassociativa con la contestuale minaccia di sanzioni
disciplinari molto gravi, come la radiazione che, per gli atleti, comporta l’illegittima menomazione
del diritto fondamentale all’attività agonistica e la conseguente impossibilità di proseguirla a tempo
indeterminato.
Il quarto comma dell’art. 6 dei princìpi di giustizia sportiva deliberati dal C.O.N.I. il 22
ottobre 2003 conferma che «l’inosservanza della clausola compromissoria comporta l’adozione di
provvedimenti disciplinari adeguati alla gravità della violazione», ripetendo una discutibile
disposizione già presente in quasi tutti gli statuti delle singole federazioni sportive ad ingiusta tutela
dell’autodichia interna.
Nel già citato art. 27, quarto comma, dello statuto della F.I.G.C. – similmente a quanto
avviene in molte altre carte federali ispirate al medesimo orientamento antigiuridico, si afferma che
«ogni comportamento contrastante con gli obblighi di cui al presente articolo, ovvero comunque
volto ad eludere il vincolo di giustizia, comporta l’irrogazione delle sanzioni disciplinari stabilite
dalle norme federali».
Nell’art. 11 bis del codice di giustizia sportiva, introdotto dalla F.I.G.C. con delibera del
consiglio federale 11 settembre 2003, si stabilisce che «ai soggetti tenuti all’osservanza delle norme
federali che pongono in essere violazioni o azioni comunque tendenti alla elusione dell’obbligo di
cui all’art. 27, comma 2 dello Statuto, fatta salva l’applicazione di misure maggiormente afflittive,
sono comminate le seguenti sanzioni: a. penalizzazione di almeno tre punti in classifica per le
società e le associazioni; b. inibizione o squalifica non inferiore a mesi sei per i calciatori e per gli
allenatori, e ad anni uno per tutte le altre persone fisiche» e che «fatta salva ogni diversa
disposizione, oltre all’applicazione delle sanzioni previste dal presente articolo, deve essere irrogata
un’ammenda» (primo comma).
Il citato art. 11 bis, la cui illegittimità è evidente, aggiunge anche che «successivamente
all’erogazione delle sanzioni adottate con provvedimento definitivo, ove risulti che la violazione
della clausola compromissoria persista, il Presidente Federale diffida i soggetti di cui al comma 1,
assegnando un termine di 20 giorni, ridotto in caso di urgenza a giorni 10, per rinunciare ad ogni
azione intrapresa e agli eventuali effetti prodotti» e che «decorso inutilmente il suddetto termine, ai
soggetti che non abbiano ottemperato, si applicano per tale ulteriore violazione le sanzioni previste
dal comma 1».
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Con orientamento che può dirsi consolidato, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
negato la legittimità del vincolo di giustizia inteso in senso assoluto e ha sempre escluso l’obbligo
di rivolgersi alla giustizia sportiva, riconoscendo, di conseguenza, il diritto intangibile di adire una
corte giurisdizionale statale.
Anzitutto, si è affermato che, in base all’art. 5 della legge 16 febbraio 1942, n. 426, la
potestà normativa attribuita alle federazioni nazionali dell’ordinamento giuridico sportivo riconosciute come organi del C.O.N.I., ente pubblico strumentale dello Stato italiano - si estrinseca
negli statuti e nei regolamenti interni delle federazioni stesse, cui è riconosciuta efficacia
nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale unicamente in ordine all’emanazione di norme
tecniche ed amministrative per il loro funzionamento e di norme sportive per l’esercizio dello sport
controllato.
Pertanto, si è precisato che esorbita da tale potestà normativa secondaria la disciplina di tutto
quanto concerne l’amministrazione della giustizia e l’ordine giurisdizionale, con riguardo sia
all’istituzione dei giudici sia alle loro funzioni e alle modalità del loro esercizio, riservate alla
legislazione dello Stato, con la conseguenza che, in mancanza di espressa previsione normativa
statale, non può configurarsi un seppur temporaneo difetto della giurisdizione nazionale per la
mancata previa adizione dei rimedi giudiziali interni all’ordinamento sportivo.
Dunque, si è concluso che la previsione dell’apposito collegio arbitrale da parte delle norme
statutarie non può costituire un arbitrato obbligatorio che, anche se imposto da una legge, è in
contrasto con il nostro ordinamento il quale prevede e consente, come sola alternativa alla
giurisdizione ordinaria, le giurisdizioni speciali, limitatamente a quelle da considerare legittime
secondo la Costituzione, e l’arbitrato volontario [cfr. Cassazione civile, sez. un., 12 maggio 1979, n.
2725, in Giur. it. 1980, I, 1271;. Riv. dir. sport. 1979, 136; Foro amm. 1980, I, 1359].
Si è successivamente notato che le disposizioni dello statuto e dei regolamenti delle
federazioni sportive, che demandano ad organi federali la cognizione di controversie di carattere
economico tra soggetti inquadrati nelle federazioni medesime (cosiddetti tesserati), non
costituiscono atti normativi primari e, pertanto, non possono introdurre deroghe alle norme statuali,
né con riguardo alla proponibilità e procedibilità della domanda davanti al giudice medesimo, salvo
restando il loro eventuale valore di deroga convenzionale alla competenza del predetto giudice
quando in esse sia ravvisabile un compromesso per arbitrato rituale, nei limiti consentiti dall’art.
808, comma 2, c.p.c., quando si tratti di causa di lavoro [cfr. Cassazione civile, sez. un., 5 settembre
1986, n. 5430, in Giust. civ. Mass. 1986, fasc.8-9].
Poi, si è anche riconosciuto che il sistema di giustizia interna della Federazione Italiana
Giuoco Calcio (che costituisce il tipico e più diffuso esempio di giurisdizione sportiva) non
costituisce una giurisdizione speciale e non vi è difetto temporaneo di giurisdizione nell’ipotesi in
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cui l’autorità giudiziaria sia adita direttamente senza il previo esperimento dei rimedi previsti dalla
giustizia sportiva [cfr. Cassazione civile, sez. lav., 6 aprile 1990, n. 2889, in Riv. arbitrato 1991,
267].
Nello stesso senso, si è ribadito che le norme contenute nei regolamenti delle federazioni
sportive, nel prevedere un articolato sistema interno per la risoluzione delle controversie tra soggetti
inquadrati nella stessa federazione, non importano alcuna deroga alle norme statuali sulla
giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle dette controversie né sotto il profilo dell’istituzione
di una giurisdizione speciale né sotto quello dell’introduzione di un sistema di ricorsi amministrativi
pregiudiziale all’azione giudiziaria, l’una e l’altro potendo essere disciplinati soltanto per legge, ma
possono eventualmente introdurre solo una questione di competenza, ove con le indicate
disposizioni si voglia ritenere rimessa la controversia ad un giudizio arbitrale [cfr. Cassazione
civile, sez. un., 21 luglio 1998, n. 7132, in Giust. civ. Mass. 1998, 1563].
Per altro verso, sul diritto inviolabile di adire la giurisdizione ordinaria quantomeno per
discutere della legittimità del vincolo di giustizia, è stato giustamente notato che, nel contesto
dell’articolo 27 dello statuto della F.I.G.C., la giustizia sportiva «è rilevante in ragione
dell’accettazione contrattuale degli associati, i quali entrano nella comunità sportiva per atti di
spontanea adesione e di accettazione delle regole poste dagli enti sportivi» e che qualunque sia la
natura della clausola compromissoria, ossia anche se, come nel caso del vincolo di giustizia, si tratti
di arbitrato irrituale, «resta la possibilità delle parti di adire il giudice ordinario per accertare il
funzionamento di una clausola statutaria» [cfr. Tribunale di Roma, sez. terza, ordinanza 10 luglio
2003, in D&G - Dir. e Giust. 2003, 31, inserto speciale, p. XXVII nonché in Giur. romana 2003,
411).
Resta irrisolto il problema della evidente invalidità dei provvedimenti disciplinari irrogati
dalle federazioni nelle cause che non sono arbitrabili perché sottratte per loro natura o per legge alla
disponibilità delle parti (cfr. art. 808 c.p.c. e art. 1966 c.c.), come le azioni penali, le controversie
amministrative e le cause di lavoro.
Si è già ricordato che, nella giurisprudenza amministrativa, la clausola compromissoria che
integra il vincolo di giustizia nello statuto della F.I.G.C. non sottrae alla giurisdizione dei giudici
dello Stato gli interessi legittimi poiché essi, a causa del loro intrinseco collegamento con un
interesse pubblico e in forza dei principi sanciti dall’art. 113 Cost., sono insuscettibili di una
rinunzia «preventiva, generale e temporalmente illimitata alla tutela giurisdizionale» [cfr. Consiglio
Stato, sez. VI, 30 settembre 1995, n. 1050 in Giust. civ. 1996, I, 577].
Si aggiunga che, data la natura associativa delle federazioni sportive, sono da considerare
sottratte ad arbitrato valido anche le dispute che riguardano interessi generali oppure di terzi (la cui
concreta determinazione resta problematica), per analogia con l’orientamento in materia di società
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commerciali. Con riferimento alle controversie non assoggettabili ad arbitrato transattivo, in quanto
vertenti su diritti indisponibili a’ sensi degli art. 806 e 808 c.p.c. e dell’art. 1966 c.c., è stato
affermato che «le controversie in materia societaria possono in linea generale formare oggetto di
compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che
concernono violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi» [cfr.
Cassazione civile, sez. I, 18 febbraio 1988, n. 1739, in Giust. civ. 1988, I, 1502; Dir. fall. 1988, II,
383; Foro it. 1988, I, 3349].
Peraltro, la clausola contrattuale delle carte federali che prevede una sanzione disciplinare
per violazione del vincolo di giustizia (rectius, della clausola compromissoria) deve considerarsi
sicuramente nulla per violazione di norme imperative e di ordine pubblico ex art. 1418 c.c. e
certamente riformabile dal naturale giudice ordinario oppure dal giudice amministrativo
eventualmente adito in sede di giurisdizione esclusiva.
Difatti, il principio dell’autonomia della clausola compromissoria rispetto al negozio di
riferimento vale in relazione all’arbitrato rituale, che si attua, per volontà delle parti compromittenti,
mediante l’esercizio di una potestà decisoria alternativa rispetto a quella del giudice istituzionale e
si risolve in un lodo avente tra le parti la stessa efficacia di sentenza, ma non può essere invocato in
relazione all’arbitrato irrituale, avente natura negoziale e consistente nell’adempimento del
mandato, conferito dalle parti all’arbitro, di integrare la volontà delle parti stesse dando vita ad un
negozio di secondo grado, il quale trae la sua ragione d’essere dal negozio nel quale la clausola è
inserita e non può sopravvivere alle cause di nullità che facciano venir meno la fonte stessa del
potere degli arbitri [cfr. Cassazione civile, sez. I, 16 giugno 2000, n. 8222 in Giust. civ. Mass. 2000,
1318].
In una recente e ragguardevole interpretazione, che ogni serio giurista dello sport deve
condividere, sulla portata e sugli effetti del vincolo di giustizia nell’ordinamento sportivo, la Corte
di Cassazione ha espressamente affermato che «la collocazione degli atleti e della società all’interno
dell’assetto organizzativo delle Federazioni (a seguito del tesseramento e dell’affiliazione) e la
contestuale loro soggezione agli organi della giustizia sportiva non importano per coloro che sono
divenuti soggetti dell’ordinamento sportivo una rinuncia definitiva ed assoluta ad adire il giudice
statale nei casi di lesione dei loro diritti (o interessi legittimi) connessi all’esercizio dell’attività
agonistica».
La Suprema Corte ha espressivamente aggiunto che «corollario di un tale assunto, condiviso
da autorevole dottrina ed incentrato sulla irrinunziabilità in via generalizzata e preventiva al diritto
costituzionale alla giurisdizione statale, è l’invalidità di tutte quelle clausole, pur volontariamente
accettate dall’atleta all’atto del tesseramento, che sanzionano con lo scioglimento del vincolo
associativo il ricorso agli organi della giustizia ordinaria o amministrativa».
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Infine, mostrando piena consapevolezza di una realtà di fatto che solo isolata dottrina aveva
finora saputo rilevare, il Supremo Collegio ha altresì spiegato che «in presenza della tradizionale
resistenza dell’ordinamento sportivo ad accettare l’intromissione del giudice ordinario in materie
rivendicate di propria competenza, la concreta utilizzazione della tutela giurisdizionale statale è
rimasta però relegata di fatto in spazi del tutto marginali in ragione della diffusa e radicale
convinzione degli atleti che il mancato ossequio alle “regole dei gioco” conduce in concreto ad
attuare ai loro danni il meccanismo “immunitario” della sanzione espulsiva, la cui sola minaccia
costituisce - come è stato osservato - decisivo deterrente nei confronti di qualsiasi “tentazione
deviante”» e che «si è finito così per ricorrere alla giustizia statale solo allorquando l’avvenuto
esaurimento del rapporto professionale ha reso inoperante nei riguardi dell’atleta ogni capacità
reattiva dell’ordinamento sportivo» [cfr. Cassazione Civile, sez. lav., 1 agosto 2003, n. 11751 in
D&G - Dir. e Giust. 2003, f. 34, 103].
3. L’illegittimità della pregiudiziale sportiva.
Con una ricognizione forse superflua della fenomenologia delle controversie sportive già
elaborata dalla dottrina e della giurisprudenza, l’art. 2 della legge 17 ottobre 2003 n. 280 ha indicato
espressamente le questioni precipuamente riservate alla giustizia sportiva.
Il primo comma della norma citata dice che «in applicazione dei princìpi di cui all’articolo 1,
è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l’osservanza e
l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo
nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;
b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative
sanzioni disciplinari sportive».
Il secondo comma dell’art. 2 afferma che «nelle materie di cui al comma 1, le società, le
associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e
regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui gli articoli
15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell’ordinamento
sportivo».
Il primo comma dell’articolo 3 aggiunge che «esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma
restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e
atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle
Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi
dell’articolo 2, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» precisando che
«in ogni caso è fatto salvo quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste
dagli statuti e dai regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive
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di cui all’articolo 2, comma 2, nonché quelle inserite nei contratti di cui all’articolo 4 della legge 23
marzo 1981, n. 91».
La pregiudiziale sportiva fissata dall’articolo 2, secondo comma, della legge 17 ottobre 2003
n. 280 ha indicato espressamente le questioni riservate all’ordinamento e alla giustizia sportiva: «a)
l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento
sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività
sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle
relative sanzioni disciplinari sportive».
La disposizione ordetta stabilisce una sostanziale definizione legale del vincolo di giustizia
sportiva e introduce una limitazione del ricorso al giudice ordinario che, come si tenta di dimostrare
infra, può essere considerata valida soltanto quando venga approvata dai tesserati e dagli affiliati
come una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, con conseguente rinuncia alla
proponibilità della domanda in sede ordinaria nelle controversie tecniche (punto a) e in quelle
disciplinari (punto b).
L’evidente incostituzionalità dell’articolo 2, secondo comma, della legge 17 ottobre 2003 n.
280 sembra apparentemente elusa dalla previsione del secondo comma dell’articolo 1, che pare
salvare il sindacato giurisdizionale ordinario affermando che «i rapporti tra l’ordinamento sportivo e
l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di
rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse
con l’ordinamento sportivo».
Invero, in dottrina è stato correttamente osservato che per le controversie riservate alla
giustizia sportiva (già considerate irrilevanti dalla giurisprudenza dominante) non vi è spazio per la
giurisdizione statale e, dunque, «più che di onere si tratta di una strada obbligata» [DE MARZO
2003], con conseguente e fondato dubbio di legittimità costituzionale.
Si è ribadito che, «qualora si volesse privilegiare la natura di arbitrato irrituale delle
decisioni degli organi di giustizia sportiva, bisogna convenire che con il riconoscimento con norma
di legge del dovere di adire tali organi arbitrali si è dato luogo ad una sorta di arbitrato obbligatorio
in violazione degli articoli 24 e 102 della Costituzione» [MANZI 2003].
Diventa così contraddittorio, oltre che lesivo del diritto di rivolgersi alle Corti, imporre la
riserva fissata dall’articolo 2 della legge 17 ottobre 2003 n. 280 e stabilire l’onere di ricorrere alla
giustizia sportiva nell’ipotesi di sanzione disciplinare irrogata dalla stessa giustizia federale per
violazione di un divieto ammissibile soltanto in un sistema giuridico illiberale, antidemocratico e
totalitario. Sicché non è peregrino considerare – come si è già precedentemente rilevato palesemente nulle per violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento generale le clausole
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che prevedono sanzioni disciplinari per il tesserato o l’affiliato che esercita il proprio intangibile
diritto di azione di fronte al giudice ordinario.
Invero, l’art. 7 del D.Lgs. 23 luglio 1999, n. 242, come modificato dal D.Lgs. 8 gennaio
2004, n. 15, comma 2, lettera h-bis, ha stabilito che la Giunta Nazionale del C.O.N.I. individua, con
delibera sottoposta all’approvazione del Ministero per i beni e le attività culturali, i criteri generali
dei procedimenti di giustizia sportiva, secondo i seguenti princìpi:
1) obbligo degli affiliati e tesserati, per la risoluzione delle controversie attinenti lo
svolgimento dell’attività sportiva, di rivolgersi agli organi di giustizia federale;
2) previsione che i procedimenti in materia di giustizia sportiva rispettino i princìpi del
contraddittorio tra le parti, del diritto di difesa, della terzietà e imparzialità degli organi giudicanti,
della ragionevole durata, della motivazione e della impugnabilità delle decisioni;
3) razionalizzazione dei rapporti tra procedimenti di giustizia sportiva di competenza del
CONI con quelli delle singole federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate.
4. Autonomia dell’ordinamento sportivo e diritto processuale di azione.
Il legislatore italiano è parso consapevole che il rispetto effettivo dei diritti inviolabili
dell’uomo debba costituire un evidente limite all’autonomia dell’ordinamento sportivo.
Infatti, il secondo comma dell’art. 1 della legge 17 ottobre n. 280 afferma che:
«I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al
principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di
situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo».
Questa disposizione è riportata nell’art. 1 dei princìpi di giustizia sportiva approvati dal
Consiglio Nazionale del C.O.N.I. il 22 ottobre 2003, in cui si afferma che:
«Gli statuti e i regolamenti federali devono assicurare il rispetto dei principi dell’ordinamento
giuridico sportivo, cui lo Stato riconosce autonomia, quale articolazione dell’ordinamento sportivo
internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale e salvi i casi di effettiva rilevanza per
l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con
l’ordinamento sportivo».
È indubbio che, tra le citate «situazioni giuridiche soggettive» dotate di rilevanza per
l’ordinamento generale, rientrino le libertà fondamentali della persona, dovendosi tener conto che
«l’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma
professionistica o dilettantistica, è libero» (art. 1 della legge 23 marzo 1981 n. 91).
Più specificamente, nell’organizzazione concreta della giustizia sportiva, assumono
un’importanza decisiva nell’ambito delle libertà fondamentali certamente rilevanti «per
l’ordinamento giuridico della Repubblica» i diritti processuali, la cui tutela effettiva costituisce un
bene indisponibile per i singoli tesserati o le società affiliate che accettano contrattualmente le
regole di un ordinamento associativo come quello del C.O.N.I. o di una federazione sportiva.
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I diritti processuali sono per loro stessa natura «fondamentali» sia perché devono essere
senz’altro annoverati tra i diritti personalissimi, sia perché soltanto la loro attuazione e protezione
permette l’effettiva tutela di ogni altra pretesa soggettiva riconducibile alla dignità della persona
umana.
Tra i diritti processuali fondamentali assume peculiare rilevanza il diritto di azione che,
anche nell’articolato contrapporsi delle posizioni soggettive nell’ordinamento sportivo, si sostanzia
nella contestazione giurisdizionale del fatto controverso.
La contestazione della lite (litis contestatio) è l’iniziativa giurisdizionale che si attua con la
comunicazione, effettuata a colui che viene convenuto (reus) avanti al terzo giudicante,
dell’esistenza di una controversia e della volontà di risolverla a mezzo di una istanza di parte che, in
forme variamente prestabilite dall’ordinamento, dà impulso al processo.
Nel nostro ordinamento generale, la contestazione non solo coincide con il diritto di azione
tutelato dall’art. 24 della Carta repubblicana ma è anche un onere indispensabile (nemo iudex sine
actore) che si realizza con la domanda giudiziale nella causa civile (art. 99 c.p.c.); la formulazione
dell’imputazione nel processo penale (art. 405 c.p.p.); l’impugnativa dell’atto della pubblica
amministrazione nel giudizio amministrativo (art. 19 l. TAR e art. 35 t.u. Cons. St.) e in quello
tributario.
Nel giudizio sportivo, l’iniziativa processuale si formalizza specificamente di fronte ad una
commissione federale oppure ad un collegio arbitrale appositamente istituito in un’attività di
contestazione nei confronti di un’avversa pretesa. Questa azione di contestazione si manifesta
altresì di fronte all’autorità giudiziaria statale attraverso un atto introduttivo che, molto spesso, si
manifesta con l’impugnazione di un atto di un organo del C.O.N.I. o di una singola federazione
oppure del lodo arbitrale, trasferendo al giudice amministrativo od ordinario la risoluzione della
controversia sportiva.
Si noti anche che il diritto di contestazione giuridica, che è il diritto al processo, si manifesta
altresì nel diritto di difesa e nel diritto alla giurisdizione, che trovano il proprio riscontro
fondamentale nell’art. 24 della Costituzione e che garantiscono il diritto di adire un giudice per
ottenere la tutela della propria pretesa sostanziale, senza che questa facoltà possa essere
irragionevolmente limitata nello spazio e nel tempo.
Tale possibilità non si sostanzia solo nel diritto di accesso alle Corti attraverso la
contestazione iniziale della lite, ma comprende attività processuali, anche successive alla
proposizione della domanda, indispensabili a rendere effettiva e concreta la tutela giurisdizionale:
d’altronde, ogni soggetto che intenda instaurare una controversia ha diritto che sia un giudice a
determinare anche in via preliminare l’esistenza stessa delle condizioni dell’azione.
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Corollari del principio di protezione costituzionale del diritto alla giurisdizione sono i divieti
posti dall’articolo 25, secondo cui «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per
legge», nonché dal già citato articolo 102, per il quale «non possono essere istituiti giudici
straordinari o giudici speciali».
Dunque, l’esigenza di rivolgersi ad un giudice per reclamare concretamente la reintegrazione
del proprio bene o, più in generale, della propria situazione di vantaggio è data dalla natura della
controversia, che conferisce a tutte le posizioni soggettive che contrastano tra loro una dignità di
valore e che richiede un controllo non solo analitico di tutte le ragioni di fatto e di diritto avanzate
nella discussione giudiziale (domande ed eccezioni formulate dalle parti), ma anche un esame
sintetico e, dunque, imparziale, che soltanto l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un
terzo può garantire.
È evidente che l’attuazione del diritto di azione costituisce manifestazione del giusto
processo. Ed è pacifico che da un’interpretazione logico-sistematica dell’ordinamento giuridico si
evince la persistente ed infrangibile sussistenza del giusto processo come principio generale ed
originario dell’attività giurisdizionale di composizione di qualunque controversia sportiva.
Sicché, se si incardina in un ordinamento valido, la giustizia sportiva non può prescindere da
questa intrinseca struttura processuale nella quale la discussione delle principali pretese soggettive
dipende inevitabilmente dalla reale attuazione delle essenziali attività giurisdizionali, tra le quali il
diritto di azione, che costituiscono manifestazione di diritti fondamentali della persona nella
discussione della disputa.
Si noti che l’inviolabilità dei diritti processuali fondamentali nell’amministrazione della
giustizia associativa appare oggi pienamente vigente nel diritto costituzionale dello sport italiano in
contraddizione con l’apposizione del divieto di adire la giurisdizione ordinaria.
Anzitutto, l’art. 2, comma ottavo, del nuovo statuto del C.O.N.I. (deliberato dal consiglio
nazionale del C.O.N.I. il 15 novembre 2000 e approvato con decreto del Ministro per i beni e le
attività culturali di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica il 28 dicembre 2000) stabilisce significativamente che «il C.O.N.I. garantisce giusti
procedimenti per la soluzione delle controversie nell’ordinamento sportivo». La disposizione
conferma che ogni atto della giustizia sportiva può essere considerato valido soltanto quando
costituisce il risultato di un giusto processo, i cui princìpi costitutivi appaiono propri non solo
dell’ordinamento generale, ma soprattutto dello stesso ordinamento sportivo.
Poi, con deliberazione 22 ottobre 2003, il consiglio nazionale del C.O.N.I. ha approvato i
cosiddetti «princìpi di giustizia di sportiva», imponendone il recepimento nei differenti regolamenti
delle singole federazioni e accogliendo in modo evidente il giusto processo nell’amministrazione
delle controversie nell’ordinamento dello sport.
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Dall’indubitabile vigenza del diritto all’azione nell’ordinamento generale, che non
necessariamente è identificabile con quello statale e dal quale l’ordinamento sportivo attinge la
propria validità, si desume così l’illegittimità di ogni norma statutaria o regolamentare sul vincolo
di giustizia non solo e non tanto perché impone un arbitrato obbligatorio o l’istituzione di un
giudice speciale, quanto soprattutto perché lede una fondamentale ed originaria posizione soggettiva
indisponibile.
Pertanto, la rinuncia al diritto al processo o l’alienazione della tutela giurisdizionale
apprestata dall’ordinamento generale che il vincolo di giustizia pretende di riconnettere alla sfera di
autonomia privata del tesserato o dell’affiliato ad una federazione sportiva non solo è invalida, ma è
anche inefficace e non può costituirsi legittimamente. Si ripete che è giuridicamente originaria la
libertà di adire il giudice ordinario, unico competente ad accertare la possibilità di esercitare il
diritto di azione e, dunque, a giudicare sulla validità o meno del vincolo di giustizia sportiva.
5. La clausola compromissoria per arbitrato irrituale.
L’obbligazione nascente dal vincolo di giustizia può essere considerata valida
nell’ordinamento giuridico soltanto quando sia possibile identificarla con una clausola
compromissoria per arbitrato libero. Infatti, la corretta possibilità di devolvere contrattualmente le
controversie sportive alla giurisdizione domestica non può che essere facoltativa e volontaria e deve
restare confinata nei limiti consentiti dall’ordinamento giuridico.
Nell’ordinamento statale, il riconoscimento del vincolo di giustizia come clausola
compromissoria per arbitrato irrituale si desume dall’articolo 2, secondo comma, della legge 17
ottobre n. 280.
«Nelle materie di cui al comma 1, le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno l’onere di
adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e
delle federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli
organi di giustizia dell’ordinamento sportivo».
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione, identica a quella
allegata al decreto-legge, si dice che il vincolo di giustizia «si sostanzia nell’inserimento, negli
statuti e nei regolamenti delle singole Federazioni sportive, di clausole compromissorie che
impongono alle società ed ai singoli tesserati di adire, per le controversie connesse all’attività
sportiva, gli organi della giustizia sportiva».
Nell’ordinamento sportivo, la clausola compromissoria di devoluzione delle controversie tra
affiliati o tesserati alla giurisdizione domestica degli organi giudicanti federali è oggi definita
espressamente «per arbitrato irrituale» dai princìpi di giustizia sportiva, deliberati dal consiglio
nazionale del C.O.N.I. il 22 ottobre 2003.
L’art. 6 dei princìpi, rubricato come «clausola compromissoria», dice che:
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«Gli statuti e i regolamenti devono prevedere che gli associati e i tesserati accettino la giustizia
sportiva così come disciplinata dall’ordinamento sportivo.
In particolare con la loro richiesta di associazione o di tesseramento gli interessati accettano le
clausole per arbitrato libero o irrituale, ossia tale da concludersi con decisione cui non può darsi
esecuzione ai sensi dell’articolo 825 del codice di procedura civile, inserite negli statuti o nei
regolamenti.
La clausola deve garantire che le parti concorrano in maniera paritaria alla nomina degli arbitri o che
gli stessi siano nominati da un terzo imparziale.
L’inosservanza della clausola compromissoria comporta l’adozione di provvedimenti disciplinari
adeguati alla gravità della violazione».
Tuttavia, non è peregrino osservare che gli statuti e i regolamenti federali disciplinano
espressamente come un giudizio il procedimento di fronte alle commissioni federali (tecniche,
disciplinari, economiche), consentono formalmente alle parti la reciproca difesa nel rispetto del
contraddittorio e connettono la decisione degli arbitri all’emanazione di un vero e proprio lodo,
talora impugnabile anche in diversi gradi della giurisdizione sportiva, non potendosi perciò negare,
in tali fattispecie, la presenza di un arbitrato rituale.
Per converso, in giurisprudenza, si è asserito che l’arbitrato, previsto - senza carattere di
obbligatorietà - dall’art. 34 dello statuto della Federazione italiana pallacanestro (Fip) e disciplinato
agli art. 195 ss. del correlato regolamento organico, nonché dagli art. 1 e ss. dello specifico
regolamento per le procedure arbitrali (disposizioni tutte aventi natura di fonti meramente
negoziali), si deve qualificare come arbitrato irrituale, sia in ragione del fatto che i tre componenti
del collegio arbitrale - nominati uno da ciascuna delle parti ed il terzo dalla commissione per la
soluzione delle controversie arbitrali, che è organo della Fip - assumono, per il periodo di
espletamento delle loro funzioni, la qualifica di dirigenti della detta Federazione, con conseguente
soggezione ai poteri disciplinari della stessa (che può disporne l’inibizione temporanea o
permanente a nomine successive) ed assunzione della natura di suoi organi, sia - più in generale per il fatto che il procedimento arbitrale si svolge tutto davanti ad organi della Fip, iniziando con la
proposizione della domanda ed un primo contraddittorio avanti al Consiglio federale, cui segue la
valutazione di ammissibilità della domanda stessa da parte della suddetta commissione e la nomina
del presidente del collegio arbitrale (da scegliersi in un elenco tenuto dal consiglio) e, quindi, una
fase “istruttoria” e “decisoria” avanti al collegio arbitrale, di modo che il lodo finale risulta
imputabile al concorso di una pluralità di organi della detta Federazione, la cui azione si svolge
all’interno del particolare ordinamento sportivo della medesima [cfr. Cassazione civile, sez. I, 17
novembre 1999, n. 12728 in Giust. civ. Mass. 1999, 2271].
Si è soggiunto che la tesi che assegna all’arbitrato in materia sportiva la natura di arbitrato
libero si lascia preferire «perché più funzionale alle esigenze dell’ordinamento sportivo in ragione
della maggiore stabilità del lodo irrituale (stante la più estesa impugnabilità del loro rituale) e del
fatto che un sistema di risoluzione di controversie, improntato a libertà di forme, svincolato dalla
stretta osservanza di norme processuali e suscettibile di definitività in tempi relativamente brevi si
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presenta maggiormente adeguato all’attività agonistica cadenzata su eventi susseguentisi in ristretti
spazi temporali» [cfr. Cassazione Civile, sez. lav., 1 agosto 2003, n. 11751 in D&G - Dir. e Giust.
2003, f. 34, 103].
Si è altresì puntualizzato che «il previo ricorso ai gradi di giustizia sportiva, di cui parla
l’art. 3, c. 1, I per. del DL 220/2003, configura sì un caso di giurisdizione condizionata, ma non di
per sé censurabile per illegittimità costituzionale» poiché «affinché sia conforme a Costituzione, ad
avviso del Collegio il comportamento da tenere, nei casi di giurisdizione condizionata, non
dev’essere eccessivamente oneroso in termini di tempo, di costi, di attività da svolgere e dev’esser
finalizzato a soddisfare esigenze endoprocessuali», sicché «il modello delineato dall’art. 3
s’appalesa rispondente alle predette esigenze, a loro volta espressive dei principi costituzionali di
tutela delle posizioni soggettive regolate dall’ordinamento della Repubblica» anche perché appare
«poco costoso e, soprattutto, non improntato a rigorose formalità e ben noto e sperimentato dai
soggetti del mondo sportivo», con la conseguenza che «pertanto, dal punto di vista
dell’ordinamento generale, il c.d. “vincolo di giustizia” non è che una norma organizzativa, la quale
stabilisce, in una con le regole sulla competenza degli organi federali, quando un provvedimento si
possa reputare definitivo e legittimo, alla stregua dei parametri dell’ordinamento interno alla
Federazione» [cfr. TAR del Lazio, sede di Roma, sez. III-ter, 1 aprile 2004 n. 2987].
Comunque, pare opportuno aggiungere che il secondo comma dell’art. 6 dei principi di
giustizia sportiva ha recepito l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’arbitrato irrituale
ha natura privata e si distingue dall’arbitrato rituale non tanto per la forma giurisdizionale, quanto
perché la decisione non è suscettibile di esecuzione forzata.
Sul punto, infatti, si è affermato che «la natura privata dell’arbitrato (…) esclude la
configurabilità del processo arbitrale come affidamento agli arbitri di una frazione di quello stesso
potere giurisdizionale che la legge attribuisce al giudice dello Stato, e come forma sostitutiva della
giurisdizione degli organi dello Stato» aggiungendosi che tale concezione «porta a qualificare il
procedimento arbitrale come ontologicamente alternativo alla giurisdizione statale, una volta che si
fonda sul consenso delle parti, e che la decisione proviene da soggetti privati radicalmente carenti di
potestà giurisdizionale di imperio» e che ciò «vale a dire che il giudizio arbitrale è antitetico a
quello giurisdizionale e ne costituisce la negazione».
Si è così concluso che «correlativamente, la devoluzione della controversia ad arbitri si
configura quale rinuncia all’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, nonché quale
manifestazione d’una opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico, secondo il
dictum di soggetti privati» [cfr. Cassazione civile, sez. un., 3 agosto 2000, n. 527 in Giust. civ. 2001,
I, 761; Corriere giuridico 2001, 51; Giur. it. 2001, 1107].
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Successivamente, è stato asserito che la distinzione tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale
non può imperniarsi sul rilievo che nel primo le parti abbiano demandato alle parti una funzione
sostitutiva di quella del giudice e che la differenza va, invece, ravvisata nel fatto che, nell’arbitrato
rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di
produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime formale del procedimento
arbitrale; nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare all’arbitro la soluzione di controversie solo
attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di
accertamento riconducibili alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la
decisione degli arbitri come espressione della loro volontà [cfr. Cassazione civile, sez. I, 13 aprile
2001, n. 5527 in Giust. civ. Mass. 2001, 786; in senso conforme, cfr. Cassazione civile, sez. I, 30
agosto 2002, n. 12714 in Giust. civ. Mass. 2002, 1608, nonché cfr. Cassazione civile, sez. I, 10
ottobre 2003, n. 15150 in Giust. civ. Mass. 2003, f. 10].
Riferendosi a questo orientamento, la Corte di Cassazione ha ripetuto come sia inesatta
l’idea che l’eccezione, con la quale si deduce l’esistenza di una clausola compromissoria per
arbitrato rituale, introduca una richiesta di deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria, così
come si era in passato sostenuto da parte della stessa Corte (ex plurimis, sentenza n. 10240 del
1992). Seguendo il nuovo indirizzo, introdotto sulla base della citata sentenza n. 527 del 2000 delle
Sezioni unite civili, la Suprema Corte ha significativamente rimarcato che «l’eccezione dì
compromesso non pone un problema di competenza ma di merito perché sia l’arbitrato rituale che
quello irrituale costituiscono espressioni della medesima autonomia negoziale, essendo gli
interessati liberi di sottoporre la loro controversia su diritti ad uno o più privati, anziché ai giudici
dello Stato, e differenziandosi tra di loro solo in ordine all’eventuale omologazione del lodo
(parametrato sulle regole di controllo di una sentenza civile)».
Per il Supremo Collegio, l’eccezione di arbitrato «non si differenzia nella sua natura a
seconda che le parti abbiano o meno previsto la possibilità di omologazione del lodo che ne
costituisce il risultato finale, e cioè che esso sia di tipo rituale o irrituale» ed «essa resta in ogni caso
una eccezione in senso proprio (…)che, nel nuovo rito, è soggetta alla regola secondo la quale è
riservata esclusivamente alla parte e non può più essere proposta dopo la chiusura dell’udienza di
trattazione di cui all’articolo 183 c.p.c.» [cfr. Cassazione civile, sez. I, 30 dicembre 2003, n. 19865,
in D&G - Diritto e Giustizi@, 16 gennaio 2004].
6. Limiti di validità e di efficacia della clausola compromissoria sportiva.
Dall’interpretazione del vincolo di giustizia come clausola compromissoria per arbitrato
libero o irrituale discendono alcune conseguenze rilevanti per comprendere i limiti dell’autonomia
dell’ordinamento sportivo.
Infatti, così interpretato, il vincolo di giustizia:
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a) ha un carattere esclusivamente negoziale e limita la propria efficacia a coloro che hanno
stipulato l’accordo associativo iscrivendosi alla singola federazione sportiva;
b) si traduce nell’onere e non nell’obbligo di adire la magistratura sportiva, trattandosi
rinuncia negoziale alla proponibilità della domanda;
c) è limitato alle controversie tecniche e alle controversie disciplinari, considerate dalla
giurisprudenza e, ora, anche dalla legislazione come irrilevanti per l’ordinamento generale;
d) è inefficace in materia di situazioni giuridiche indisponibili;
a) Anzitutto, è pacifico che chi è divenuto estraneo all’ordinamento sportivo non resta
soggetto al vincolo di giustizia e, dunque alla clausola compromissoria, così come resta esclusa la
sua eventuale soggezione alla potestà disciplinare della federazione alla quale egli più non
appartiene.
Infatti, si è ritenuto che l’inosservanza delle prescrizioni dettate dal regolamento della
Federazione Italiana Gioco Calcio, quali quelle degli art. 31 e 34 del d.P.R. 2 agosto 1974 n. 530
che stabiliscono, rispettivamente, che le società sportive non hanno scopi di lucro e che l’atleta non
professionista deve praticare lo sport senza trarne profitto materiale, non incidono sulla validità del
contratto di mediazione concluso per il trasferimento di un calciatore dilettante da una società
sportiva ad altra, in quanto intercorso tra soggetti estranei all’ordinamento sportivo, come tali non
vincolati all’osservanza di dette norme, sicché i negozi posti in essere da dette parti, ancorché aventi
attinenza all’attività sportiva, restano disciplinati soltanto dalle norme civilistiche che ne regolano il
contenuto e gli effetti [cfr. Cassazione civile, sez. II, 24 settembre 1994, n. 7856, in Giust. civ. Mass.
1994, 1148].
In un altro caso significativo, si è deciso che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario
con riguardo alla controversia nella quale un soggetto, dimessosi dalla carica di presidente di
società calcistica e revocata la propria iscrizione alla Federazione Italiana Gioco Calcio, chieda, con
provvedimento d’urgenza a norma dell’art. 700 c.p.c., l’accertamento della cessazione della qualità
di associato alla federazione e, nel merito, la condanna di questa al risarcimento del danno che
assuma essergli derivato dall’irrogazione di sanzioni disciplinari lesive della sua reputazione.
Infatti, la funzione disciplinare svolta dalle federazioni sportive - nell’esercizio dei poteri ad esse
riservati quali organi del C.O.N.I. - non è esercitabile nei confronti di soggetti che, divenuti estranei
all’ordinamento sportivo, cessano di essere destinatari delle norme interne, alla cui osservanza è
preordinata l’indicata funzione, e non possono essere colpiti da sanzioni che, per definizione, sono
idonee ad incidere solo sulla posizione del soggetto in seno all’organizzazione [cfr. Cassazione
civile, sez. un., 10 novembre 1994, n. 9351, in Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11].
Infine, si è affermato che la clausola compromissoria per arbitrato irrituale prevista nel
contratto di prestazione sportiva stipulato ai sensi dell’art. 4 l. 23 marzo 1981 n. 91, che determina
- 18 -
l’improponibilità, per rinuncia convenzionale all’azione, della domanda relativa a diritti derivanti
dal contratto stesso, esplica i suoi effetti solo tra le parti stipulanti e non può quindi precludere al
terzo l’accertamento del proprio credito nei confronti dello sportivo professionista nel procedimento
instaurato ai sensi dell’art. 548 c.p.c., in contraddittorio con le suddette parti [cfr. Cassazione civile,
sez. lav., 2 aprile 1998, n. 3420 in Giust. civ. Mass. 1998, 712].
b) In secondo luogo, il vincolo di giustizia si deve considerare (nelle materie riservate
all’ordinamento sportivo) una rinuncia negoziale alla proponibilità della domanda, in relazione alla
natura libera del procedimento arbitrale di devoluzione delle controversie ai giudici sportivi e, in
certi casi, ai collegi arbitrali.
Si è già osservato che l’art. 6, secondo comma, dei princìpi di giustizia sportiva del C.O.N.I.
afferma che l’arbitrato libero non può concludersi con un vero e proprio lodo suscettibile di
omologazione, ma è «tale da concludersi con decisione cui non può darsi esecuzione ai sensi
dell’articolo 825 del codice di procedura civile».
È noto che l’eccezione con la quale si deduca l’esistenza (o si discuta dell’ampiezza) di una
clausola compromissoria per arbitrato irrituale non pone una questione di competenza dell’autorità
giudiziaria (come nel diverso caso di clausola compromissoria per arbitrato rituale), ma contesta la
proponibilità della domanda per avere i contraenti scelto la risoluzione negoziale della controversia
rinunziando alla tutela giurisdizionale. La suddetta eccezione non ha pertanto natura processuale ma
sostanziale e introduce una questione preliminare di merito in relazione all’esistenza o meno della
suddetta rinuncia [cfr. Cassazione civile, sez. III, 14 aprile 2000, n. 4845 in Giust. civ. Mass. 2000,
808].
Si è ribadito che il compromesso per arbitrato libero comporta una rinuncia dei contraenti
alla tutela giurisdizionale, anche cautelare, dei diritti relativi al rapporto controverso e che
l’arbitrato irrituale si concreta in un atto negoziale compiuto in sostituzione della volontà delle parti
dagli arbitri che, come mandatari di queste, non svolgono attività di giudici [cfr. Cassazione civile,
sez. I, 25 novembre 1995, n. 12225, in Giur. it. 1996, I, 1, 897].
In particolare, il compromesso per arbitrato irrituale, comportando un mandato agli arbitri
per la definizione della lite tramite un negozio di accertamento o transazione direttamente
riconducibile alla volontà dei mandanti, si traduce in un ostacolo all’esame nel merito della
domanda per effetto di rinuncia convenzionale all’azione. Il giudice invero, in tal caso, ove ne
ricorrano i presupposti, prende atto della fondatezza della eccezione di compromesso e rifiuta di
esaminare nel merito la causa sottoposta al suo giudizio, non declinando la propria giurisdizione,
ma anzi sul presupposto che essa sussista, definisce il giudizio tra le parti, allo stesso modo in cui
dichiara di non poter decidere la controversia sottopostagli allorché accolga l’eccezione di
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transazione della lite [cfr. Cassazione civile, sez. un., 9 dicembre 1986, n. 7315 in Giust. civ. Mass.
1986, fasc. 12].
In ogni caso, tenuto conto dell’irrilevanza delle controversie tecniche per la giurisdizione
statale, deve ritenersi conforme ai principi fondamentali dell’ordinamento generale la possibilità di
impugnare quantomeno le sanzioni disciplinari di fronte al T.A.R. di Roma e di superare così la
pregiudiziale sportiva, poiché la deroga della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non
può essere operata con una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, quale deve considerarsi
il vincolo di giustizia.
Per analogia, si ricorda che l’art. 6 comma 2 l. 21 luglio 2000 n. 205, stabilisce che le
controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo
possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto; pertanto, permane l’inderogabilità della
giurisdizione amministrativa ove la clausola preveda la risoluzione delle controversie mediante
arbitrato irrituale e, conseguentemente, sia da considerare nulla (cfr. T.A.R. Lombardia Milano, sez.
III, 11 marzo 2003, n. 432 in Foro amm. TAR 2003, 838; in senso conforme, cfr. T.A.R. Sardegna,
18 settembre 2003, n. 1073).
c) Per altro verso, è pacifico che l’onere di rivolgersi alla giustizia sportiva riguarda solo le
controversie tecniche e le controversie disciplinari, per espresso disposto dell’articolo 2, secondo
comma, della legge 17 ottobre n. 280, secondo cui «nelle materie di cui al comma 1, le società, le
associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e
regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle federazioni sportive di cui gli articoli
15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell’ordinamento
sportivo».
Quanto alle controversie disciplinari, richiamando quanto già precedentemente osservato,
dovranno essere riconosciute rilevanti per la giurisdizione statale e, dunque, impugnabili in sede di
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sanzioni implicanti una modifica dello status
soggettivo del destinatario, in ragione della clausola di salvezza dell’articolo 1, secondo comma,
della legge n. 280 del 2003, per la quale «i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della
Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per
l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con
l’ordinamento sportivo».
Si aggiunga che, nelle materie non riservate, non esiste l’onere di adire la giustizia sportiva,
sicché deve ritenersi del tutto privo di efficacia precettiva l’inciso dell’articolo 3 della legge n. 280,
secondo cui ogni controversia diversa da quelle tecniche e da quelle disciplinari che non incidono
sullo status soggettivo del destinatario deve considerarsi devoluta alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo «esauriti i gradi della giustizia sportiva».
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L’unico significato ragionevole di tale disposizione, presente in un testo legislativo
largamente pleonastico ed incoerente, resta quello di ammettere l’impugnazione di un atto
dell’organizzazione sportiva (amministrativo o negoziale) soltanto quando esso sia divenuto
definitivo e, se si tratta di provvedimento giudiziale, quando sia passato in giudicato, sia perché non
è stato assoggettato a gravame nei termini prescritti, sia perché non risulta più censurabile dalla
giurisdizione domestica.
d) Infine, in quanto clausola compromissoria, il vincolo di giustizia è inefficace in materia di
situazioni giuridiche indisponibili.
Anzitutto, esso non può operare in caso di violazione di diritti personalissimi che, integrando
un reato perseguibile d’ufficio, appaiono indisponibili e, dunque, certamente non compromettibili in
arbitri.
Per esempio, è noto che il fallo di gioco che provoca una lesione personale all’avversario
può costituire reato quando sussista una violazione volontaria delle regole di gioco, tali da superare
i limiti della lealtà sportiva, come avviene in un intervento a gamba tesa [cfr. Cassazione penale,
sez. IV, sentenza 7 ottobre 2003 n. 39204].
Poi, la possibilità di eludere validamente il vincolo della giurisdizione domestica riservata ai
giudici sportivi dalla clausola compromissoria e di ricorrere legittimamente al giudice ordinario
riguarda certamente la tutela degli interessi legittimi di cui sono titolari i singoli o le società e la cui
lesione deriva dalla violazione delle norme di azione della pubblica amministrazione, quale deve
ritenersi la federazione in aspetti determinati della propria attività.
In proposito, si è affermato che la clausola compromissoria contenuta negli statuti delle
federazioni sportive nazionali non opera nel caso degli interessi legittimi, insuscettibili di formare
oggetto di una rinunzia preventiva, generale e temporalmente illimitata, alla tutela giurisdizionale
[cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 30 settembre 1995, n. 1050, in Foro It. 1996, 275].
Nel prosieguo della medesima vicenda controversa, si è aggiunto che la giurisdizione del
giudice amministrativo e di qualsiasi altro giudice dello Stato sul provvedimento di non ammissione
al campionato di una società calcistica, fondato su presunte irregolarità nella gestione della società
stessa, non è esclusa dalla clausola compromissoria di cui all’art. 24 dello statuto della F.I.G.C. (c.d.
vincolo di giustizia), che impone la previa accettazione definitiva di tutti i provvedimenti e di tutte
le decisioni degli organi sportivi della F.I.G.C., in quanto tale clausola opera nell’ambito
strettamente tecnico-sportivo dei diritti disponibili, ma non nell’ambito degli interessi legittimi,
intrinsecamente collegati ad interessi pubblici irrinunciabili ex art. 113 Cost. [cfr. T.A.R. Lazio, sez.
III, 24 settembre 1998, n. 2394 in Foro amm. 1999,1599].
In altra fattispecie, si è affermato che la clausola compromissoria contenuta nell’art. 44 dello
statuto della Federazione Italiana Baseball Softball (F.I.B.S.), che affida ad arbitrato la risoluzione
- 21 -
di controversie concernenti l’applicazione di norme rilevanti nella sfera sportiva, non preclude la
proponibilità del ricorso al giudice amministrativo tutte le volte in cui si faccia questione di
provvedimenti disciplinari inflitti dalle stesse federazioni, giacché la valutazione dell’interesse
pubblico, cui si collega la posizione sostanziale incisa da detti provvedimenti, non può eseguirsi da
organo diverso da quello precostituito istituzionalmente [cfr. T.A.R. Lazio, sez. III, 8 febbraio 1988
n. 135 in T.A.R. 1988, I, 762, nonché in Riv. dir. sport 1988, 250].
Infine, è pacifico che il procedimento arbitrale sportivo è ammissibile nelle controversie di
lavoro quando presenti un carattere alternativo alla giurisdizione ordinaria.
In tema di rapporti di lavoro fra società e tesserati della F.I.G.C., si è stabilito che la
devoluzione della controversia al collegio arbitrale costituito a norma dell’art. 4 della l. 23 marzo
1981 n. 91 comporta un arbitrato irrituale (ammesso ex art. 5 legge n. 533 del 1973) all’esito del
procedimento previsto dall’art. 23 del regolamento di disciplina della federazione predetta,
risolvendosi con una pronuncia vincolante per le parti, emessa secondo equità in unica istanza e non
impugnabile, con la conseguenza che si determina una situazione d’improponibilità della domanda
in sede giudiziaria, senza che il carattere equitativo dell’arbitrato predetto possa essere escluso per il
fatto che gli arbitri si siano, nel decidere, ispirati a norme di diritto [cfr. Cassazione civile, sez. lav.,
6 aprile 1990, n. 2889, in Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 4].
Sul punto, si deve notare che l’art. 5 della legge n. 533 del 1973 dispone che «nelle
controversie riguardanti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. l’arbitrato irrituale è ammesso soltanto
nei casi previsti dalla legge o dai contratti collettivi» e che «in quest’ultimo caso ciò deve avvenire
senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria».
Infatti, sia l’arbitrato rituale che quello irrituale - i quali, nelle controversie di cui all’art. 409
c.p.c., sono ammessi solo se previsti da contratti collettivi o da norme di legge - costituiscono
strumento alternativo, e non esclusivo, per la risoluzione delle controversie di lavoro (art. 4 e 5 l. 11
agosto 1973 n. 533); né rileva in contrario il fatto che la facoltatività non sia prevista, atteso che,
avuto riguardo al precetto di cui all’art. 24 Cost., alla citata normativa sul processo del lavoro e
all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(resa esecutiva in Italia con la l. 4 agosto 1955 n. 848), essa facoltatività deve intendersi
automaticamente inserita nelle clausole compromissorie relative alle controversie di lavoro [cfr.
Cassazione civile, sez. un., 14 novembre 2002, n. 16044 in Giust. civ. Mass. 2002, 1980].
7. Conclusioni.
La protezione dei diritti processuali di azione e di giurisdizione costituisce il problema
essenziale della giustizia sportiva nell’ordinamento vigente.
Anzitutto, si osserva che ben prima dell’intervento governativo dell’agosto 2003, il
legislatore si era avveduto dell’opportunità di prevedere «norme sulla tutela giurisdizionale negli
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ordinamenti delle federazioni sportive nazionali», come si legge nella rubrica del disegno di legge
n. 3922 d’iniziativa dei senatori Filograna, Nava, Cortelloni e Di Benedetto, comunicato alla
Presidenza il 29 marzo 1999.
Nella relazione si premette l’intento di «modificare nel suo contenuto essenziale il principio
cardine del sistema della giustizia sportiva, il cosiddetto vincolo di giustizia» e si denuncia che «una
rinuncia alla tutela giurisdizionale dello Stato si atteggia in aperto contrasto con fondamentali
principi di ordine pubblico, andando a comprimere, irreversibilmente, diritti fondamentali ed
indisponibili per ogni cittadino, al quale non é consentito rinunciare validamente alla suddetta tutela
prima che sia sorto il diritto di azione».
Nel medesimo testo parlamentare si aggiunge che «pur ammettendo la validità di clausole di
deferimento di controversie ad organi federali e collegi arbitrali, la rinuncia alla tutela
giurisdizionale deve costituire un libera scelta delle controparti presa ponderatamente di comune
accordo solo in un momento successivo e non precedente al sorgere della lite».
Comunque, la dubbia legittimità costituzionale per violazione del diritto al processo del
decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 è stata rilevata più volte durante i lavori parlamentari conclusi
con la controversa approvazione della legge di conversione 17 ottobre 2003, n. 280.
La prima Commissione permanente degli affari costituzionali della Camera dei deputati,
nell’esaminare il disegno di legge n. 4268/C nel testo già emendato, ha espresso parere favorevole
osservando però espressamente che «all’articolo 2, comma 1, valutino le Commissioni l’opportunità
di verificare ulteriormente se le materie elencate alle lettere a) e b), per le quali a norma del
successivo articolo 3, comma 1, si esclude la giurisdizione del giudice amministrativo, non siano
riconducibili anche situazioni di diritto soggettivo o interesse legittimo al fine di evitare la possibile
lesione del diritto alla difesa di cui all’articolo 24 della Costituzione; all’articolo 3 valutino le
Commissioni l’opportunità di chiarire che la dizione “in ogni caso è fatto salvo quanto stabilito
dalle clausole compromissorie” non comporta l’esclusione dalla giurisdizione ordinaria o
amministrativa di ulteriori materie alle quali siano riconducibili anche situazioni di diritto
soggettivo o interesse legittimo al fine di evitare la possibile lesione del diritto alla difesa di cui
all’articolo 24 della Costituzione».
Nella seduta del 24 settembre 2003, approvando l’ordine del giorno 9/4268/2 (presentato dal
deputato Flavio Tanzilli) la Camera ha impegnato il Governo «a provvedere in tempi rapidi affinché
si approvi una riforma della giustizia sportiva che stabilisca una composizione degli organi che
preveda la presenza di magistrati o avvocati iscritti all’Albo degli avvocati, nominati dal C.O.N.I.
su designazione degli organi di autogoverno della magistratura, e la presenza di magistrati contabili
su designazione della Corte dei Conti per quanto attiene alla composizione degli organi federali di
vigilanza sui bilanci delle società sportive professionistiche», dopo aver premesso che «dal dibattito
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nella Commissione di merito ed in Aula è emersa l’esigenza di porre mano ad una riforma
strutturale della giustizia sportiva» e che «tale riforma non può prescindere dal garantire le regole
del giusto processo: il contraddittorio tra le parti, il diritto di difesa e soprattutto la terzietà ed
imparzialità dei giudici».
Infine, nella medesima giornata di lavori, approvando l’ordine del giorno 9/4268/3
presentato dal deputato Giuliano Pisapia, la Camera ha impegnato il Governo «a presentare al
Parlamento in tempi ragionevolmente brevi dall’approvazione della legge di conversione del
decreto-legge in esame, un disegno di legge per un’organica disciplina dell’ordinamento sportivo
nazionale che garantisca l’autonomia dello stesso e, in particolare, la celerità della giustizia
sportiva, nonché l’autonomia, l’indipendenza e la terzietà degli organi competenti, prevedendo
altresì che non ne facciano parte magistrati civili, penali e amministrativi in servizio».
Va da sé che i «tempi ragionevolmente brevi» siano trascorsi senza che una seria riforma
legislativa della giustizia sportiva sia stata attuata.
In un salace commento alla legge 17 ottobre 2003 n. 280, la migliore dottrina [CROCETTI
BERNARDI 2004] ha già avuto modo di osservare che «la discussa presunta posizione irregolare del
giocatore del Siena, Luigi Martinelli, è ben poca cosa rispetto alle recenti vicende dei passaporti
falsi, del doping, dei ripescaggi d’ufficio, delle fideiussioni false (…)» e che sta ormai «scadendo il
termine per l’emanazione di una legge organica che regolamenti in modo rigoroso e serio lo sport».
PAOLO MORO Avvocato del Foro di Pordenone, Docente nell’Università di Padova
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e sg.
- 27 -
LA FISCALITÀ NELLO SPORT DILETTANTISTICO:
SPONSORIZZAZIONI E SPESE PUBBLICITARIE
Premessa
Quotidianamente, ormai, soprattutto nel mondo dello sport, si parla di sponsorizzazioni,
sponsor tecnici, main sponsor, sponsee, senza capire di cosa si tratti. E, talvolta, senza conoscerne
appieno la corretta disciplina fiscale.
In questa sede si cercherà di fornire un quadro completo su questa tipologia di intervento del
mondo imprenditoriale nel tessuto sportivo del nostro Paese, evidenziandone le caratteristiche
principali e l’inquadramento fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte sui
redditi, anche alla luce dell’art.90 della Legge n.289/2002 e del parere n.1 del 24 febbraio 2004 del
“Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive”, in tema di sponsorizzazione di
manifestazioni sportive.
La decisione del Comitato consultivo
Nel caso di specie, il Comitato consultivo si è espresso in merito ad un’istanza di interpello
avanzata da un contribuente, cui la Direzione Regionale adita non aveva tempestivamente risposto.
Con la propria istanza, il contribuente voleva sapere se la sponsorizzazione di una
manifestazione sportiva e/o culturale rientrasse tra le spese di rappresentanza ovvero tra quelle di
pubblicità e propaganda, distinzione fondamentale anche alla luce del diverso trattamento fiscale1.
La conclusione cui perviene il Comitato consultivo è che “”in base al criterio per cui sono
spese di rappresentanza quelle che comportano una particolare utilità o un particolare beneficio a
favore di determinati soggetti, sono da qualificare come spese di rappresentanza le
sponsorizzazioni di manifestazioni… sportive””.
Tale conclusione non può essere condivisa da chi scrive, per le motivazioni di seguito
riportate.
Nozione di sponsorizzazione
- 28 -
Il contratto di sponsorship può essere definito come un contratto atipico2, a forma libera3, di
natura patrimoniale4, sinallagmatico5, in forza del quale lo sponsorizzato (sponsee) si obbliga a
consentire ad altri (sponsor) l’uso della propria immagine pubblica e del proprio nome, per
promuovere un marchio o un prodotto specificamente marcato, dietro corrispettivo (che può
sostanziarsi in una somma di denaro, in beni o servizi ovvero in entrambi, da erogarsi da parte dello
sponsor, direttamente o indirettamente); tale uso dell’immagine pubblica può prevedere anche che
lo sponsee tenga determinati comportamenti di testimonianza a favore del marchio o del prodotto
oggetto della veicolazione commerciale6. Nell’ambito della menzionata testimonianza non si
ritengono indispensabili prestazioni di particolare importanza da parte dello sponsee, in quanto nella
sponsorizzazione conta di più il valore dell’”immagine” di cui è concesso l’uso che non la
prestazione in sé.
Come già ricordato, secondo la Suprema Corte, nel contratto di sponsorizzazione lo
sponsorizzato (sponsee) si obbliga a consentire ad altri l’uso della propria immagine pubblica e del
proprio nome per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marcato, dietro
corrispettivo corrisposto dallo sponsor.
E’ appena il caso di ricordare che, qualora in capo allo sponsee non esista un tale preciso
obbligo ma si sia in presenza della sola acquisizione, da parte dello sponsor, del diritto a rendere
pubblica la propria contribuzione, in termini economici, per la realizzazione dell’opera, si sarà in
presenza di un atto di mecenatismo e quindi di erogazioni liberali deducibili da reddito d’impresa
secondo la disciplina del TUIR.
La natura sinallagmatica della sponsorizzazione è confermata anche da consolidato
orientamento ministeriale, espresso con la risoluzione n. 2/1016 del 5.11.1974, in cui si legge che le
somme corrisposte a società sportive possono essere considerate di natura pubblicitaria – e come
tali inerenti alla produzione del reddito – solo se abbiano come scopo unico quello di reclamizzare il
prodotto commerciale per incrementare i ricavi e sempre che ai contributi faccia riscontro in tal
senso una somma di obblighi contrattuali anche in fatto osservati. Secondo tale orientamento, in
1
per un approfondimento si veda M.Giua e C.Giua, Il trattamento fiscale di sponsorizzazioni tecniche ed iniziative
pubblicitarie, in Consulenza Fisco e Società, n.2/2004. Per facilitare la lettura del presente studio, in questa sede
vengono comunque riproposti concetti già ampiamente espressi nell’articolo cui si rinvia.
2
art.1322 cod.civ.
3
art.1350 cod.civ.
4
art.1174 cod.civ.
5
come confermato dalla Suprema Corte di Cassazione Sezione III Civile, Sentenza n.5086 del 21.05.1998
6
in tal senso si veda Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Sentenza n.9880 del 11.10.1997
- 29 -
assenza delle menzionate condizioni, le somme erogate, anche se nominalmente a titolo
pubblicitario, dovranno essere considerate esclusivamente come erogazioni liberali.
Sponsorizzazione e pubblicità ai fini delle imposte sui redditi
Per avere una visione d’insieme chiara in tema di deducibilità dal reddito d’impresa delle
spese di sponsorizzazione, occorre porsi la seguente domanda: vanno ricomprese tra le spese di
pubblicità e propaganda ovvero tra quelle di rappresentanza? La risposta del Comitato consultivo la
conosciamo. Cerchiamo – però – di trovare altre risposte, per meglio capire l’impatto del parere in
esame.
Risulta necessario, quindi, cercare di fornire una definizione di cosa si intenda per spese di
pubblicità, propaganda, rappresentanza (espressamente richiamate dal legislatore fiscale nell’art.
108, comma 2 del DPR 917/86).
Il legislatore fiscale stabilisce i criteri di deducibilità delle tre sopra citate tipologie di spesa
pluriennale, assimilando quelle di propaganda a quelle di pubblicità, senza peraltro fornire alcuna
indicazione circa la loro definizione. Come si legge peraltro nella relazione ministeriale, alle spese
di pubblicità sono state aggiunte quelle di propaganda allo scopo di evitare la possibilità di
incertezze interpretative derivanti dal confronto con le norme relative al presupposto d’imposta
sulla pubblicità.
L’avere conoscenza della nozione tributaria di tali tipologie di spesa assume un’importanza
fondamentale per l’imprenditore in quanto la riconducibilità di una spesa sostenuta tra le spese di
pubblicità ovvero di rappresentanza determina effetti fiscali non indifferenti ai fini impositivi, stanti
i diversi criteri di deducibilità delle citate spese. E’ appena il caso di ricordare, in questa sede, che,
secondo la disciplina del novellato art. 108, comma 2 del TUIR, le spese di pubblicità e propaganda
sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e
nei quattro successivi. Le spese di rappresentanza sono ammesse in deduzione nella misura di un
terzo del loro ammontare e sono deducibili per quote costanti nell’esercizio in cui sono state
sostenute e nei quattro successivi.
Peraltro, il diverso inquadramento di un costo nell’una o nell’altra tipologia manifesta i
propri effetti anche ai fini dell’Iva, atteso che la norma prevista dall’art.19-bis comma 1, alla lettera
- 30 -
b), D.P.R. n.633/72 sancisce il divieto di esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta addebitata a
titolo di rivalsa relativa alle spese di rappresentanza come definite ai fini delle imposte sui redditi.
Prassi ministeriale, dottrina e giurisprudenza
Per fornire una definizione quanto più attendibile e precisa occorre richiamarsi alle diverse
pronunce ministeriali, peraltro non numerose.
Prima fra tutte, la risoluzione ministeriale n.9/204 del 17.06.1992 secondo la quale per spese
di rappresentanza si intendono quelle sostenute dall’impresa per offrire al pubblico una immagine
positiva di se stessa e della propria attività in termini di floridezza, efficienza. E’ questa certamente
la caratteristica principale di tali spese, alla quale si aggiunge di norma quella della loro “gratuità”,
vale a dire della mancanza di un corrispettivo o di una specifica controprestazione da parte dei
destinatari, cioè di un obbligo di “dare” o “facere” a carico dei destinatari.
Ulteriori elementi possono essere desunti dalla risoluzione ministeriale n.148/E del
17.09.1998 per la quale, con le spese di rappresentanza viene offerta al pubblico un’immagine
positiva dell’impresa e della sua attività in termini di organizzazione e di efficienza, mentre con la
pubblicità si porta a conoscenza della generalità dei consumatori l’offerta del prodotto, stimolando
la formazione o l’intensificazione della domanda (e, quindi, reclamizzandolo).
Secondo tale risoluzione, si è quindi in presenza di spese di rappresentanza qualora manchi
il corrispettivo o una specifica controprestazione da parte dei destinatari. Di contro, si parla di spese
di pubblicità in presenza di un contratto sinallagmatico tra due parti e di un conseguente
corrispettivo per le prestazioni.
Gli sforzi di autorevole dottrina hanno consentito di individuare l’elemento distintivo tra la
pubblicità e la propaganda nella diversa modalità di comunicare l’esistenza di determinati beni e/o
servizi. In particolare, la pubblicità tende a rendere pubblica tale esistenza attraverso i vari mezzi di
comunicazione, mentre la seconda è diretta a divulgarne particolari caratteristiche o particolari pregi
di tipo estetico/economico/sanitario/ecc. anche per il tramite di soggetti forniti di specifiche
competenze e qualità idonee a meglio evidenziare le caratteristiche ed i pregi medesimi.
- 31 -
In materia di pubblicità si è espressa anche la Corte di Giustizia europea la quale, con
sentenza del 17.11.19937, ha ribadito che per prestazione pubblicitaria debba intendersi ogni
operazione che costituisca parte indissolubile di una più vasta campagna pubblicitaria e che,
pertanto, concorra alla diffusione del messaggio pubblicitario (anche mediante l’utilizzo di mezzi
diversi da quelli usuali).
Il Se.C.I.T., poi, con delibera datata 22 gennaio 1993 ha sostenuto i seguenti criteri di
classificazione:
spese di pubblicità e propaganda
oggetto del messaggio è il prodotto (bene o servizio);
spese di rappresentanza8
oggetto del messaggio è la ditta (l’immagine o i segni distintivi
dell’imprenditore: nome, ragione sociale, sigla o altro).
In questa breve panoramica sulla irrisolta questione della classificazione delle spese
finalizzate alla sollecitazione del mercato, fra quelle di pubblicità e quelle di rappresentanza, non si
può fare a meno di citare la pronuncia della Corte di Cassazione – Sezione V Civile Tributaria,
Sentenza n.7803 del 23 febbraio/8 giugno 2000, secondo cui:
rientrano tra le spese di costi sostenuti al fine di creare, mantenere o accrescere il prestigio della
rappresentanza
società e di migliorarne l’immagine, ma che non danno luogo ad
aspettative di incremento del processo di vendita
non rientrano tra le spese di tutti i costi che, pur non essendo imputabili in modo diretto ai ricavi,
rappresentanza
vengono comunque sostenuti allo scopo di incrementare le vendite
Peraltro, anche la risoluzione n.2 ottobre 2002 n.316/E dell’Agenzia delle Entrate ha
confermato che sono riconducibili alle spese pubblicitarie quelle sostenute al fine di incrementare,
direttamente o indirettamente, le vendite.
Spese di sponsorizzazione: pubblicità o rappresentanza?
7
8
in relazione alla Direttiva CE n.77/388 del 17.05.1977
a parte quelle cosiddette “per assimilazione”, cioè tali per presunzione di legge
- 32 -
Per quanto una minoritaria parte della dottrina, ora supportata dal parere del Comitato
consultivo, ritenga le spese di sponsorizzazione riconducibili tra quelle di rappresentanza,
consolidate interpretazioni giurisprudenziali e ministeriali hanno riconosciuto nel tempo la natura
pubblicitaria delle sponsorizzazioni, con gli evidenti positivi risvolti in materia di deducibilità delle
spese.
In particolare, la R.M. n.9/204 del 17.06.1992 ribadisce che le spese di sponsorizzazione,
assimilabili a quelle di pubblicità, sono connesse ad un contratto la cui caratterizzazione è
normalmente basata su un rapporto sinallagmatico tra lo sponsor e il soggetto sponsorizzato (o
sponsee). Vincolo reciproco in forza del quale le parti interessate fissano le clausole contrattuali in
relazione agli scopi che esse intendono raggiungere.
Secondo la medesima risoluzione, di norma con tale contratto il soggetto sponsor
si
impegna ad una prestazione in denaro o in natura nei confronti del soggetto sponsorizzato che, di
contro, si impegna a pubblicizzare e/o a propagandare il prodotto, il marchio, il servizio, o,
comunque, l’attività produttiva dello sponsor.
In merito alla natura delle sponsorizzazioni si è espressa in numerose occasioni anche la
Suprema Corte di Cassazione. Per tutte, la Sezione I Civile, Sentenza n.428 del 19.01.1996,
secondo cui la sponsorizzazione, pur riconducibile al più ampio novero di pubblicità, nondimeno, se
ne distingue in quanto specifica forma contrattuale creata dall’autonomia privata.
In relazione ad un evento (che sia sportivo, culturale, mondano, ecc.) si ha, quindi, mera
pubblicità se l’attività promozionale si colloca rispetto all’evento stesso in rapporto di semplice
occasionalità, mentre si ha sponsorizzazione se fra la promozione di un nome o di un marchio e
l’avvenimento viene istituito uno specifico abbinamento9.
In senso conforme si è infatti espresso anche il Tribunale di Venezia, con sentenza n.1144
del 24 maggio 199810, secondo cui "in relazione ad un evento sportivo si ha mera pubblicita'
se l'attivita' promozionale e', rispetto all'evento, in rapporto di semplice occasionalita', mentre vi
e' sponsorizzazione se tra la promozione di un nome o di un marchio e l'evento agonistico viene
9
secondo M. SACCARO, Somme sempre deducibili fino a 200mila€, in Il Sole24ore Sport del 12 marzo – 8 aprile
2004, “”il contratto di sponsorizzazione si colloca nelle tecniche pubblicitarie ma si differenzia dal contratto di
pubblicità tradizionale in quanto il primo si configura come <<atto negoziale da cui consegue un fatto
comunicazionale>> mentre il secondo come <<attività comunicazionale che consegue ad un atto negoziale>>”” Sul
punto si veda anche, in senso conforme, la R.M 137/E del 9 agosto 1999.
10
Si tratta va di un caso in cui era coinvolta una società di calcio professionistico.
- 33 -
istituito uno specifico abbinamento”. Come ribadito dai giudici, “non esiste alcun tipo di reclame
che, di per se' ontologicamente, rimandi alla pubblicita' e non piuttosto al fenomeno della
sponsorizzazione: l'applicazione di un cartello in prossimita' del
campo di calcio diventa
sponsorizzazione se lo striscione serve per riprendere in grande e ribadire all'attenzione degli
spettatori un marchio sociale gia' applicato sugli indumenti di gara”.
Peraltro, anche il Tribunale di Bologna11 ha avuto modo di esprimersi nello specifico settore,
ricordando che l'apposizione di cartelloni pubblicitari all'interno delle strutture sportive ove si
svolgono gli incontri agonistici delle squadre costituisce solo uno dei comportamenti previsti
per
lo sfruttamento dell'attivita' sportiva del soggetto sponsorizzato al fine di propagandare al meglio il
nome e l'attivita' dello sponsor. Come correttamente evidenziato dai giudici bolognesi, “tramite la
sponsorizzazione
un soggetto utilizza il beneficiario quale
veicolo
della propria immagine,
traendone importanza e prestigio... e' dunque lo stabile abbinamento tra il nome dello sponsor e
l'attivita', la
qualita'
e
l'immagine del beneficiante che presuppone l'esistenza della suddetta
connessione
- marchio e atleta (o squadra),rendendo superfluo procedere ad un accertamento
analitico diretto a verificare quali attivita'
La pubblicita' presenta,
invece, un
del
beneficiario
presentino o meno tale carattere.
carattere di occasionalita' rispetto all'evento, nel senso che
la stessa si inserisce nell'evento in modo avulso ed estraneo ai contenuti dello stesso”.
Parere del Comitato e Legge Pescante
Come sin qui emerso, le spese di sponsorizzazione rientrano – secondo consolidata prassi
ministeriale, giurisprudenza e dottrina – nel novero delle spese di pubblicità.
Di contro, il Comitato consultivo riconduce le spese di sponsorizzazione di un evento
sportivo nell’ambito delle spese di rappresentanza, nella considerazione che le:
spese di pubblicità possono determinare un incremento delle vendite, acquisendo nuova
clientela o incrementando le vendite alla clientela già esistente;
spese di rappresentanza comportino una particolare utilità o un particolare beneficio a favore
di determinati soggetti.
Nell’ambito della dicitura “”determinati soggetti”” potrebbero rientrare, a prima vista, gli
spettatori della manifestazione sportiva. Tale visione non è condivisibile in quanto, con la costante e
rilevante presenza dei media (soprattutto radiotelevisivi), l’evento sportivo viene veicolato verso
11
Sentenza n.2181/1998.
- 34 -
una platea molto più ampia che – quindi beneficia dell’evento. Di conseguenza, la sponsorizzazione
della manifestazione dovrebbe – a buon diritto – rientrare nella categoria della pubblicità.
In questa sede non possiamo non ricordare la novella dell’art.90, comma 8 della Legge
n.289/2002 (Legge Pescante). Tale norma introduce, a parere di chi scrive, una presunzione legale
assoluta, che però è stata trascurata dal Comitato consultivo: “”il corrispettivo in denaro o in natura
in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche … costituisce, per il soggetto erogante,
fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spesa di pubblicità,
volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica
attività del beneficiario””.
I requisiti previsti dalla norma devono quindi essere:
destinazione dei corrispettivi alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante;
riscontro, a fronte dell’erogazione, di una specifica attività del beneficiario della medesima12.
Di conseguenza, il contratto di sponsorship si contraddistingue per il fatto di imporre, tra gli
obblighi dello sponsee, quello di abbinare al nome della squadra il nome dello sponsor e ad
impegnarsi ad apparire in tutte le occasioni ufficiali, riportando il nome dello sponsor (o del
prodotto) sulle proprie divise o associato ai nomi della squadra e dei suoi giocatori. Nel contratto
vanno poi riportati tutti gli adempimenti cui è tenuta la società sportiva per effetto dell’abbinamento
con lo sponsor. Per quanto riguarda lo sponsor, il contratto deve prevedere il corrispettivo che
quest’ultimo è tenuto a versare e le scadenze per il pagamento13.
Ai fini della problematica in esame, di assoluto interesse è lo specifico riferimento allo
scopo che l’impresa erogante si prefigge con la concessione di tali contributi: la promozione del
proprio nome, marchio, immagine, attività o prodotto dell’attività. Tutti aspetti riconducibili, come
emerso in questa sede, anche alle spese di pubblicità (e non di rappresentanza).
Tali obbligazioni sono presenti nell’ipotesi, come abbiamo sin qui visto, di spese a titolo di
pubblicità ma non nel caso di spese di rappresentanza (nella quale manca l’obbligo in capo al
beneficiario di promuovere l’immagine del soggetto erogatore).
12
circolare n.21/E/2003 dell’Agenzia delle Entrate.
Sul punto, si veda M. SACCARO, Somme sempre deducibili fino a 200mila€, in Il Sole24ore Sport del 12 marzo – 8
aprile 2004
13
- 35 -
Di parere contrario, però, è il Comitato consultivo per l’applicazione delle norme
antielusive, che nel parere in esame così recita: “sono da qualificare come spese di rappresentanza
le sponsorizzazioni di manifestazioni…sportive”.
Sarebbe, quindi, necessario, anche alla luce dei principi sanciti dallo Statuto dei diritti del
contribuente in tema di certezza della norma tributaria, un intervento chiarificatore da parte degli
organi competenti su una materia che si riteneva definita e che il parere de quo ha, per alcuni aspetti
qui esaminati, rimesso in discussione.
Tipologie di sponsorizzazione
Quanti tipi di sponsorizzazioni esistono nella prassi?
Diverse sono le figure di sponsorizzazione individuate dalla dottrina. Le principali sono
senza alcun dubbio le seguenti cinque:
sponsorship di un evento
grandi manifestazioni nelle quali lo sponsor acquista il diritto di
comparire come sponsor ufficiale fino ad intitolare la manifestazione a
proprio nome
sponsorship dei clubs
nella quale un certo gruppo di persone si impegna a diventare veicolo
personale di diffusione del nome e del marchio dello sponsor
sponsorship di singole persone in cui determinati personaggi pubblici appartenenti al mondo dello
sport, dello spettacolo, della moda assumono l’obbligo contrattuale di
utilizzare prodotti dello sponsor
sponsorship radiotelevisiva
in cui l’emittente si obbliga, verso corrispettivo, a menzionare il nome
dello sponsor o quello dei suoi prodotti nel corso del programma o dei
programmi
sponsorship tecnica
nella quale lo sponsor diventa fornitore ufficiale dello sponsee,
obbligandosi a fornirgli, invece di denaro, prodotti e/o servizi secondo
le sue esigenze
In tale contesto, tipologia particolare è senza dubbio quella rappresentata dalle
sponsorizzazioni culturali che vengono realizzate, in via di principio, mediante erogazione di denaro
ovvero fornitura di beni e/o servizi, da parte dei grandi complessi industriali e creditizi, in occasione
di particolari eventi socio-culturali, artistici, musicali, sportivi e di massa della realtà italiana. Tali
- 36 -
iniziative vengono promosse dalle grandi imprese (ma non solo) per testimoniare la propria
presenza non solo imprenditoriale, ma anche culturale e sociale nella realtà italiana, al fine di
concorrere fattivamente al progresso civile del Paese ed alla relativa valorizzazione e divulgazione
del patrimonio socio-culturale nazionale latu sensu.
Sponsorizzazione tecnica: nozione di operazione permutativa.
Nella realtà quotidiana, nella maggior parte dei casi, le sponsorizzazioni assumono la
tipologia di sponsorizzazioni tecniche, nel senso che l’impresa sponsor corrisponde allo sponsee
(soggetto organizzatore di manifestazioni sportive e/o spettacolistiche in genere) non già una
somma di denaro, bensì fornisce beni e/o servizi relativi alla propria attività.
A fronte di tale prestazione, il soggetto sponsorizzato, a titolo di controprestazione ed in
forza dei reciproci obblighi contrattuali, pubblicizza nel corso dell’evento l’impegno e la
collaborazione dell’impresa sponsor.
Può talvolta capitare che, non intervenendo nel caso di sponsorizzazione tecnica esborso di
denaro, l’impresa sponsor ed il soggetto sponsorizzato ritengano esaurito il rapporto con la
compensazione delle reciproche prestazioni, omettendone la regolarizzazione sul piano fiscale
(fatturazione, registrazione, dichiarazione), talvolta anche a causa di una non profonda conoscenza
della normativa IVA ovvero della nozione di operazione permutativa. Si ricorda in, questa sede, che
l’art.1552 cod.civ. definisce la permuta quale contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento
della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro.
Il vicendevole scambio di prestazione e controprestazione tra lo sponsor e lo sponsee - noto
nella prassi aziendalistica come barter agreement - va quindi inquadrato, secondo una corretta
rappresentazione fiscale, tra le operazioni permutative espressamente disciplinate, in materia di
valore aggiunto, dall’art. 11 del D.P.R. n.633/72, non rientrando nella previsione generale di cui agli
artt. 2 e 3 del medesimo decreto.
Secondo l’art.11, dicevamo, le prestazioni di servizio effettuate in corrispettivo di altre
cessioni di beni o prestazioni di servizio sono soggette all’imposta separatamente da quelle in
corrispondenza delle quali sono effettuate. Esse sono pertanto soggette ad autonoma e reciproca
fatturazione, e conseguenti obblighi di registrazione e dichiarazione.
- 37 -
In merito si ricorda che uno dei principi fondamentali dell’intero sistema dell’imposta sul
valore aggiunto è di certo quello riguardante l’assoggettamento all’imposta di ciascuna operazione
imponibile e l’esclusione della possibilità di compensare i corrispettivi in presenza di operazioni
permutative che prevedono la cessione di beni o la prestazione di servizi da parte di un soggetto Iva
ad altro soggetto Iva, il quale a sua volta (cede beni o) presta servizi come corrispettivo di quanto
ricevuto.
Già nella relazione ministeriale allo schema del D.P.R. n.633/72 sono stati indicati i principi
ispiratori in materia di operazioni permutative. In particolare è stato ribadito che (le cessioni di beni
e) le prestazioni di servizio in corrispettivo di altre (cessioni o) prestazioni devono essere
considerate, agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, quali operazioni a se stanti. E’ stato
precisato che la norma è giustificata da esigenze di carattere tecnico-fiscale oltre che, soprattutto,
dall’esigenza di incidere su entrambi i beni e servizi scambiati.
L’obbligazione tributaria si considera sorta all’atto in cui è stata effettuata, in ordine
temporale, la seconda prestazione, costituendo questa il corrispettivo della prima. In senso
conforme si è espresso il Ministero delle Finanze14, ribadendo come i due corrispettivi si intendano
pienamente soddisfatti con la loro compensazione finanziaria, da individuarsi temporalmente nella
data in cui avviene la seconda prestazione di servizio. Secondo il Dicastero, in tale data va
individuato il momento impositivo per entrambe le prestazioni e, conseguentemente, il momento in
cui sorge a carico dei predetti soggetti l’obbligo di assolvere i relativi adempimenti contabili
prescritti dal Titolo II del citato DPR 633.
Nozione di valore normale
Poiché nel caso di operazioni permutative manca il corrispettivo, la base imponibile è
costituita dal valore normale dei beni e servizi che formano oggetto di ciascuna di esse, secondo
quanto previsto dall’art. 13, 2° comma , lett. d), D.P.R. n.633/72.
Cosa si intende per valore normale?
Ai fini della vigente normativa IVA, per valore normale dei beni e dei servizi si intende il
prezzo o corrispettivo mediamente praticato per beni o servizi della stessa specie o similari in
condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel
luogo in cui è stata effettuata l’operazione o nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la
14
si veda, sul punto, la risoluzione ministeriale 26.5.2000, n.75/E
- 38 -
determinazione del valore normale si deve poi fare riferimento, ove possibile, ai listini o alle tariffe
dell’impresa che ha fornito i beni o i servizi (art. 14, 3° e 4° comma, D.P.R. n.633/72).
E’ il caso di ricordare, infine, che la disciplina dell’imposizione diretta, come principio
generale, contempla la realizzazione di corrispettivi in natura, da valutarsi al valore normale dei
servizi da cui sono costituiti (art. 9, 2° comma, D.P.R. n.917/86). Come si noterà, la definizione di
valore normale riportata dall’art.9 è la medesima di quella di cui al citato art. 14 del D.P.R. 633/72.
Per completezza di trattazione, ricordiamo anche, sul punto, l’art. 11, aprte A, n.1, punto a),
della Direttiva 17.5.77, n.77/388/CE (la cosiddetta VI Direttiva), secondo cui la base imponibile è
costituita, “”per le forniture di beni e le prestazioni di servizi …, da tutto ciò che costituisce il
corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte
dell’acquirente, del destinatario o di un terzo””.
Per concludere l’esame di questo aspetto relativo alla quantificazione dei corrispettivi,
l’aliquota IVA applicabile è quella propria dei singoli beni e/o servizi permutati.
Obblighi di documentazione e registrazione.
Parte della dottrina non condivide la necessità, a carico dei soggetti IVA coinvolti in
operazioni permutative, della reciproca fatturazione, in quanto, venendo nel caso di specie a
mancare un debito d’imposta per il meccanismo della detrazione, non si configurerebbe alcun danno
per l’Erario.
Di parere contrario è il
Ministero delle Finanze, che si è espresso sul punto con la
risoluzione 14.7.2000, n.113/E.
Secondo il Dicastero, infatti, l’omessa fatturazione e registrazione di un’operazione
imponibile ai fini IVA configura sempre una violazione sostanziale, ai sensi dell’art. 6, primo
comma, del D.lgs. n.471/1997, e le operazioni permutative sono imponibili per espressa previsione
normativa. Nessun fondamento giuridico ha, ribadisce il Ministero dell’Economia, l’assunto
secondo cui nella fattispecie oggetto del presente studio mancherebbe un vero e proprio debito
d’imposta sul valore aggiunto per effetto del meccanismo della detrazione.
- 39 -
Tale considerazione viene rafforzata dalla circostanza che l’omessa fatturazione costituisce
una violazione potenzialmente idonea ad incidere sui diversi parametri collegati alla determinazione
del tributo (tra cui, per citarne alcuni, volume d’affari, calcolo del pro-rata, ecc.), e come tale non
può considerarsi di natura formale.
In particolare, con la citata risoluzione il Ministero conferma la posizione secondo cui, in
ipotesi di operazioni permutative non regolarizzate fiscalmente, vengono commesse le seguenti
violazioni sostanziali:
omessa fatturazione e registrazione da parte di entrambe i soggetti IVA in qualità di prestatori di servizi;
acquisti di servizi senza emissione di fattura da parte di entrambi i soggetti IVA in qualità di committenti
Conclusioni
Per concludere questo studio, non si può non ricordare, parlando della disciplina delle
operazioni permutative, del recente intervento dell’Agenzia delle Entrate che, con la risoluzione
n.73/E/2003, rispondendo ad un’istanza di interpello avanzata da una società operante nel settore
della manutenzione di macchine industriali, ha sancito la necessità di verificare, ai fini della verifica
delle condizioni di applicazione dell’art.11 del D.P.R. n.633/1972, la volontà delle parti interessate,
manifestata anche per facta concludentia
MASSIMILIANO GIUA Maggiore della Guardia di Finanza
e cultore di Diritto dello sport – Università di Camerino
- 40 -
PERCORSI DOTTRINALI IN TEMA DI VINCOLO SPORTIVO
1.
2.
3.
4.
Note introduttive
La qualificazione del vincolo sportivo anteriormente alla l.91/81
Il vincolo sportivo in chiave storica
Il vincolo sportivo quale rapporto associativo: tesseramento e vincolo. Profili di illegittimità
dell’istituto
1. Note introduttive
La tematica della qualificazione dell’istituto del vincolo sportivo ha storicamente
rappresentato profilo centrale del dibattito dottrinario nell’ambito della più generale problematica
dell’inquadramento giuridico del rapporto tra atleti e società/associazioni sportive.
Solo però nell’ultimo ventennio il dibattito pare utilmente orientato a definire con nettezza i
contorni dell’istituto sì da innescare in concreto un processo ancora in fieri che, preso atto dei
profili di illegittimità dello stesso, ha avuto come conseguenza una complessiva rivisitazione delle
discipline positivamente previste in ambito federale.15
Il termine temporale su menzionato coincide sostanzialmente con l’entrata in vigore della
L.23 Marzo 1981 n.91 che, intervenendo sulla vexata questio della qualificazione in termini
lavoristici del rapporto tra atleti professionisti e società sportive, ha statuito esplicitamente come il
rapporto de quo si costituisca a mezzo di un contratto di lavoro di natura subordinata (salve le
tassative ipotesi previste ex. art.3 in cui è ammessa la stipula di un contratto d’opera) attraendone in
tal modo la disciplina nell’alveo del diritto del lavoro.
L’intervento in materia, ispirato nelle sue linee guida alla tutela della libertà contrattuale
dell’atleta professionista, ha comportato l’abolizione in forma graduale del vincolo sportivo ai sensi
dell’art.16 della L.91/81, nella sostanza, offrendo una pragmatica, seppur parziale, soluzione nel
precipuo campo applicativo (così come individuato dall’art.2 della L.91/81), operandosi una
riduzione su scala temporale dello stesso alla durata del contratto di lavoro.16
15
Sul punto da notarsi la Delibera del Consiglio Nazionale del Coni adottata il 24 marzo 2004 in tema di «Principi fondamentali degli
Statuti delle Federazioni Sportive Nazionali ,delle Discipline Sportive Associate e delle Associazioni Benemerite»
16
Sul punto da ultimo A.DE SILVESTRI,Giustizia sportiva,in AAVV.,Diritto dello sport,Le Monnier,2004 pag.127 ove :«Il
vincolo,che comporta sostanzialmente il diritto della società di appartenenza pretendere l’esclusiva delle prestazioni dell’atleta,in
origine a tempo indeterminato sia per i dilettanti che per i professionisti per questi coincidente attualmente con la durata del contratto
da essi stipulato che ,ai sensi dell’art.5 della Legge n.91/81 non può eccedere i cinque anni».
In realtà è da notarsi come la l’art.5 co. 1 della l.91/81 disponga che « Il contratto di cui all'articolo precedente può contenere
l'apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque anni dalla data di inizio del rapporto. È ammessa la successione di
contratto a termine fra gli stessi soggetti.».
In altri termini il legislatore non esclude la possibile pattuizione di contratti di lavoro a tempo indeterminato, in vero non ricorrenti
nella prassi, tra atleti professionisti e società sportive costituite nella forma della società a responsabilità limitata e della società per
azioni, giusto disposto dell’art.10 co.1. Per quanto attiene l’ipotesi di stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato il
legislatore (art. 4co.8) relativamente alla risoluzione del rapporto per recesso datoriale ha esplicitamente previsto l’esclusione
dell’applicazione delle norme fondamentali in materia di limiti sostanziali al potere di licenziare (art. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 L. 15 luglio
- 41 -
La parzialità deriva dall’assunzione del vincolo nella sua espressione effettuale di
limitazione della libertà negoziale degli atleti piuttosto che nella sua reale natura giuridica di
limitazione della libera esplicazione dell’attività sportiva, solo di riflesso contrattuale.17
A conferma della viziata ottica visuale assunta dal legislatore all’abolizione del vincolo
sportivo ex art. 16 L. n. 91 individuato sul piano delle conseguenze che il regime vincolisticoassociativo determinava nei rapporti contrattuali tra società e sportivi, si pone, simmetricamente e
con analoga ratio, la norma che vieta la stipula di patti di non concorrenza per il periodo successivo
alla risoluzione del contratto.
Specificatamente in tal senso l’art. 4 co. 6 previene la possibilità di reintroduzione in sede di
accordi collettivi o contratti individuali, in via surrettizia, di regimi legittimanti limitazioni della
libertà contrattuale degli sportivi, ponendosi dunque quale corollario logico applicativo alla
abolizione del vincolo associativo con la società di appartenenza.18
Sul punto, sia detto in via incidentale, le problematiche della tutela dell’atleta-lavoratore
quanto alle limitazioni alla libertà negoziale non paiono essersi esaurite con l’entrata in vigore della
l.91/81.
Così l’intervento in via pretorile della Corte di Giustizia Europea19 in tema di indennità di
preparazione e promozione, nonché, in una mutata ottica concertativi, quello della Commissione
Europea finalizzata a garantire nell’ambito professionistico la liberalizzazione dei rapporti tra atleti
e società anche in pendenza di contratto20 a mezzo del riconoscimento del diritto di recedere ad
nutum dal contratto di lavoro a tempo determinato.21
1966 n. 604, art. 18 L. 20 maggio 1070 n. 300), sostanzialmente facendo riemergere il principio della libera recedibilità con
conseguente applicazione degli art. art. 2118
17
Nella fase anteriore alla l.91/81 la dinamica dei rapporti tra atleti professionisti e le società sportive era caratterizzata, sul piano
cronologico, dalla presupposizione del tesseramento e la conseguente assunzione del vincolo a tempo indeterminato , alla stipula
dell’accordo disciplinate gli aspetti economici del rapporto di norma di durata annuale.
All’ estinzione dell’accordo per decorrenza del termine pattuito non corrispondeva la libertà contrattuale dell’atleta di stipulare
accordi con altre società rimando egli vincolato ingenerandosi pertanto un perverso fenomeni di reificazione dell’atleta.
18
Quanto alle altre clausole limitative della libertà professionale (citate dall’art. 4 co.6 esemplificativamente l’Art. 2 comma 2 Acc.
Coll. Aic-Figc Contratto collettivo dei calciatori sul punto ricomprende in tale novero “e clausole di opzione e/o prelazione a favore
delle società.
19
L’art. 6 l. 91/1981 prevedeva quale contropartita dell’abolizione del vincolo, che, cessato il rapporto contrattuale, l’atleta
professionista fosse libero di stipulare un nuovo contratto, in tal caso le federazioni potevano « stabilire il versamento da parte della
società firmataria del nuovo contratto alla società sportiva titolare del precedente contratto di una indennità di preparazione e di
preparazione dell’atleta professionista». Sulla legittimità dell’indennità di trasferimento si è pronunciata la Corte di Giustizia nel
dicembre 1995 nella celeberrima sentenza Bosman ove ha statuito che «l’art. 48 del trattato Ce osta all’applicazione di norme
emanate da associazioni sportive secondo le quali un calciatore professionista cittadino di uno stato membro alla scadenza del
contratto che lo vincola ad una società, può essere ingaggiato da una società di un altro stato membro solo se questa ha versato alla
società di provenienza un’indennità di trasferimento di formazione o promozione».
Teoricamente dunque il sistema delle indennità legato al trasferimento di atleti tra società affiliate alla medesima federazione
nazionale sarebbe stato legittimo. Opportunamente il legislatore nazionale, onde prevenire fenomeni di reverse discrimination, con la
l. 18 novembre 1996 n. 586 ha eliminato l’obbligo di indennità di formazione e promozione per tutti i trasferimenti interni, di atleti
professionisti a prescindere dalla cittadinanza degli atleti.
20
Per una efficace disamina in chiave storico-evolutiva del rapporto tra atleti professionisti e società sportive in chiave di progressiva
liberalizzazione della posizione contrattuale vedi E. LUBRANO, L’ordinamento giuridico del giuoco calcio,Roma,2004,pag.94 seg.
21
La Commissione Europea ebbe modo già nel 1997 di censurare la disciplina Fifa sui trasferimenti internazionali dei calciatori
nella parte in cui prevedeva che il transfert internazionale potesse esser rilasciato,per i calciatori in pendenza di contratto, solo se il
club di provenienza avesse dato il suo assenso alla risoluzione del contratto.
- 42 -
La natura «emergenziale»22dell’intervento legislativo inoltre ha lasciato
irrisolti i nodi
interpretativi legati al vincolo a tempo indeterminato nell’area non professionistica; malgrado
infatti l’affermazione di principio consacrata dall’art. 1 circa la libertà dell’esercizio dell’attività
sportiva, incoerentemente con tale assunto il legislatore non ha inteso operare alcun intervento
nell’ambito estraneo al campo applicativo della legge.23
Tali discrasie possono trovare un razionale giustificazione, ad un primo livello, in
valutazioni di opportunità operate dal legislatore tendenti a salvaguardare i profili di autodisciplina
federale, ed ad secondo livello, nella scarsa consapevolezza del legislatore circa la natura giuridica
del vincolo.
L’aspetto che qui rileva è rappresentato dalla circostanza che la soluzione tecnico-giuridica
offerta in tema di vincolo sportivo sia in realtà motivata dalle posizioni dottrinarie dominanti
emerse nella fase storica anteriore all’emanazione del testo.
A seguito della sentenza Bosman viene conservato un regime di indennità di trasferimento tanto nell’ipotesi di trasferimenti di
calciatori da o verso club appartenenti a paesi non ricompresi dell’area SEE liberi da vincoli contrattuali, dall’altro trovano conferma
le norme che subordinano al rilascio di un transfert il tesseramento presso una federazione sportiva straniera, quelle che impediscono
ad un atleta comunitario nel caso di recesso non sorretto da giusta causa di spostarsi liberamente nel territorio di un altro Stato
membro per rispondere ad un’effettiva offerta di lavoro (art. 48 divenuto 39 del Trattato), nonché quello più generale che subordina
la concreta possibilità di un calciatore in pendenza di contratto di cambiare squadra all’assenso della società datrice per mezzo
dell’istituto della cessione del contratto con i correlativi pagamenti.
In tale ultimo caso infatti nel caso di recesso ad nutum del calciatore o comunque in assenza dell’assenso della società datrice la
Federazione sportiva di appartenenza può negare il transfert, ritenendo ai sensi dell’art. 7 del Regolamento FIFA non completamente
adempiuta le obbligazioni assunte con la precedente squadra, impedendo all’atleta di esser tesserato presso la Federazione di un altro
Stato membro dunque ostacolando la mobilità professionale dello stesso
Dal punto di vista formale, se il richiamo all’art. 48 del Trattato è in parte superfluo in sé non potendo comportate in concreto la sua
violazione da parte di un organismo associativo, l’apertura di un procedimento di infrazione a carico degli organismi sportivi
internazionali, essendo la procedura prevista dall’art. 169 (divenuto art. 226)del Trattato esperibile esclusivamente nei confronti di
uno Stato Membro, quello all’ art. 85 apre il terreno ad una nuova linea di azione delle politiche comunitarie atta a stimolare
un’evoluzione marcata delle normative sportive dietro la minaccia di un intervento diretto della Commissione che, nell’ambito della
sue penetranti funzioni di vigilanza sull’applicazione delle regole della concorrenza, è Autorizzata ad irrogare anche severe sanzioni
economiche a carico di chi ostacoli o restringa il gioco della concorrenza (anche dunque e soprattutto operatori privati).
22
A seguito infatti di un clamoroso intervento della magistratura ordinaria che aveva inibito i rappresentanti della Lega Nazionale
Professionisti di svolgere trattative e stipulare contratti aventi ad oggetto il trasferimento dei calciatori, e vietato agli organi della
FIGC di ratificare i contratti eventualmente gia stipulati, ipotizzando la violazione delle norme in materia di collocamento della mano
d’opera, il Governo, su precisa richiesta del CONI e della Federcalcio, dato il concreto pericolo che l’inizio della regolare attività
agonistica fosse compromesso, aveva emanato un decreto legge. in tema di interpretazione autentica in materia di disciplina giuridica
dei rapporti tra enti sportivi ed atleti iscritti alle federazioni di categoria (d.l.14 luglio 1978, n. 367). In sede di conversione (l. 4
agosto 1978 n. 430),il Governo assunse l’obbligo di predisporre studi adeguati ed a presentare entro il 31 marzo 1979 un disegno di
legge organica del settore.
Per la ricostruzione storica delle vicende legate all’approvazione della l.91/81
A.LENER , Una legge per lo sport?, in Foro it., 1981, pag. 297
23
Rimettendo agli ordinamenti federali la distinzione tra l’attività professionistica e dilettantistica, il legislatore ha inteso avallare la
tendenza a perpetrare una linea di demarcazione tra attività dilettantistica,teoricamente rispondente allo spirito olimpico, e
professionistica fondata più che su riscontri fattuali su circostanze formali e valutazioni di opportunità delle singole federazioni.
Il far dipendere l’acquisizione di uno status da un elemento astratto quale è la qualificazione, ha però ingenerato profonde disparità di
trattamento nei riguardi di atleti formalmente dilettante ma di fatto professionisti con riferimento in generale alla tutela dell’atleta
dilettante e del rilievo economico delle prestazioni rese e soprattutto alla disciplina del vincolo sportivo.
Ex plurimis sulle tematiche della qualificazione federale ed in particolare sul ruolo delle direttive del Coni E.CROCETTI BERNARDI,
Giustizia ordinaria e lavoro sportivo,in AAVV,La giustizia sportiva analisi critica della legge 17 ottobre 2003 n.280,Forlì ,2004
pag.134 seg.
Non che il legislatore statuale non si sia reso interprete delle esigenze di addivenire ad una complessiva rivalutazione della disciplina
del vincolo in ambito non professionistico.
Sul punto esemplificativamente il Progetto di Legge n.4633 del 10 marzo 1998 «Norme in materia di limiti al tesseramento degli
atleti in società sportive non professionistiche» orientato ad introdurre un regime normativo atto a garantire la facoltà degli atleti di
recedere dal rapporto con l’associazione sportiva decorso un periodo variabile , in rapporto all’età ed al livello di attività,dall’inizio
del rapporto.
- 43 -
Pertanto appare legittima e non meramente orientata a finalità dogmatiche la ricostruzione
dei principali orientamenti in tema che conduca, in ultimo, alla collocazione del vincolo quale
peculiare diritto della società di appartenenza all’esclusività delle prestazioni agonistiche limitante,
sul piano concreto il diritto dell’atleta di recedere dal rapporto associativo.
2.La qualificazione del vincolo nella dottrina anteriore alla L.91/81
Il tema della qualificazione giuridica del vincolo sportivo ha storicamente rappresentato
aspetto collaterale del problema dell’inquadramento giuridico del rapporto tra sportivi e società.
Già infatti in tempi remoti la Suprema Corte aveva avuto modo di osservare come l’
esercizio di attività sportiva doveva esser ricondotto ad una libera manifestazione di volontà
negoziale rilevando che il rapporto tra atleta e società sportiva fosse da configurasi quale comune
rapporto di prestazione d’opera fonte di un diritto di credito.24
L’asciuttezza della pronuncia della Cassazione, dovuta anche al carattere incidentale della
questione, troverà puntuale sviluppo sul piano concettuale,con ampia motivazione, nella sentenza
della Cassazione 5 giugno 1961 n. 2324.25
In tale pronuncia si affermò infatti che il rapporto intercorrente tra giocatori di calcio
professionisti e le maggiori società sportive dalle quali siano ingaggiati doveva esser definito vero e
proprio rapporto di lavoro subordinato; l’inserimento delle prestazioni rese dallo sportivo nel
quadro di una complessa organizzazione economica, tecnica e di lavoro mirante a soddisfare
bisogni ed esigenze che si coordinano intimamente ai fini propri di tale organizzazione farebbe
ricorrere l’estremo della collaborazione, resa con prestazioni che rivestono i caratteri della
continuità e della professionalità in quanto vincolando gli atleti, mediante retribuzione, le proprie
energie psico-fisiche e le proprie attitudini tecnico-sportive a favore dell’associazione.
Né difetterebbe, secondo la Cassazione, l’estremo della subordinazione intesa quale
soggezione al potere direttivo e gerarchico dell’ente da cui dipendono esplicitantesi sia nell’attività
strettamente tecnico- agonistica sia in quella preparatoria.
In sostanza l’iter motivazionale della Suprema Corte si articolava nella verifica in ordine alla
sussistenza degli indici qualificatori ex art. 2094 c.c. ed atti a ricompendere la fattispecie concreta
nel tipo legale codicistico.
Per ciò che rileva gli aspetti più strettamente connessi al vincolo sportivo, essi, venivano
rubricati nell’ambito dei profili di specialità del rapporto.
24
Cass. 4 luglio 1953, n. 2085, in Foro It., 1953, pag. 1086.
Già in primo grado il Tribunale di Torino 15 settembre 1950, in Dir. lav., 1951, pag. 257 aveva affermato che: «Il contratto che
legava la società calcistica ai calciatori era un contratto di prestazione d’opera che può esser assimilato al contratto tra impresario
teatrale ed artisti scritturati rientrando nella più vasta categoria di rapporti contrattuali che implicano da parte del prestatore d’opera
l’esercizio continuativo e volontario di una determinata prestazione personale».
- 44 -
In tal senso il vincolo sportivo era assunto quale divieto di recesso ad nutum dal contratto di
lavoro; non negandosi il carattere anomalo del divieto imposto dalla normativa federale, la
configurazione di esso autorizzerebbe una discussione circa la compatibilità con le norme legali
inderogabili che disciplinano il lavoro subordinato ed i principi fondamentali etici e morali che sono
alla base dell’ordinamento giuridico e che tutelano insopprimibili attributi della personalità umana
nonché la libertà e la dignità del lavoro.
Tale pronuncia, salvo l’occasionale «ripensamento» con mutamento di indirizzo
rappresentato dalla sentenza del 2 aprile 1963 n. 811 ove si propendeva per la qualificazione della
fattispecie quale rapporto di lavoro atipico, troverà consensi nella giurisprudenza successiva (in
particolare Cass. 26 gennaio 1971, n. 17426) confermando l’opinio dottrinale27 dominante.
Tale tesi faceva leva sulla tendenziale perpetuità del tesseramento che si riverberava sul
rapporto atleta/società quale modalità accessoria del contratto di lavoro determinante la rinuncia del
diritto di recedere ex.art.2118 c.c. ed aveva trovato ampio riscontro nella dottrina precedente. 28
Logica conclusione derivante da tale impostazione era da ritenersi la assoluta illegittimità
considerando la centralità del diritto di recesso nell’ambito del rapporto di lavoro in forza del
principio di incoercibilità della prestazione di lavoro, nonché in considerazione dei principi di rango
costituzionali scaturenti dal combinato disposto degli art. 2, 3 e 4 della Carta Costituzionale.
Parte della dottrina, di contro, pur condividendo la qualificazione del rapporto in termini di
lavoro subordinato, riconduceva il vincolo sportivo a favore del sodalizio alla nozione giuridica di
patto di non concorrenza, attraverso il quale «si intenderebbe salvaguardare l’associazione nel suo
patrimonio immateriale costituito essenzialmente, per quanto attiene gli elementi interni, dal valore
della prestazione dei dipendenti, dall’organizzazione e dal processo del lavoro e, per quanto
riguarda i suoi elementi esterni dall’avviamento e dalla clientela».29
25
Cass. 5 giugno 1961 n. 2324, in Foro it., 1961, pag. 1608
Cass. 26 gennaio 1971, n. 174, in Foro it., 1971
27
Propugnano l’inquadramento del rapporto tra calciatori e società nell’ambito dell’art. 2094 c.c. tra gli altri:P.G.CANEPELE,
Lineamenti giuridici del rapporto tra associazioni sportive e calciatori, in Riv. Dir. sport., 1950, pag. 399; M. RAMAT, Aspetti
sostanziali e processuali del contratto tra giocatori e associazioni sportive, in Foro pad, 1959, pag. 903, R. BORRUSO, Lineamenti del
contratto di lavoro sportivo, in Riv. dir. sport., 1963, pag. 52; A. MARTONE, Osservazioni in tema di lavoro sportivo, in Riv. dir.
sport., 1964, pag. 119; R. DEL GIUDICE, Natura e obblighi previdenziali del contratto di prestazione sportiva, in Riv. dir. sport., 1966,
pag. 3; G. GIACOBBE, Il giuocatore di calcio è lavoratore subordinato ?, in Giust. civ., 1963, pag, 1893;G. MAZZONI, Il rapporto di
lavoro nello sport,Milano, 1968, pag. 263 seg. ; L. GERACI, Natura del rapporto tra società calcistica e calciatore, in Riv. dir. sport.,
1971, pag. 262; C. GIROTTI,Il rapporto giuridico del calciatore professionista.,in riv.dir.sport.,1977, pag. 171
28
Sul punto TOESCA DI CASTELLAZZO , Rapporto fra giocatori di calcio e associazioni sportive nel sistema del diritto, in Riv. dir.
sport., 1953, pag. 7, il quale nota come l’esclusione del diritto di recesso nei contratti di lavoro dei calciatori professionisti sia
elemento atto ad escludere la configurabilità di un contratto di lavoro sportivo Altra dottrina ha qualificato la esclusione della facoltà
di recesso quale anomalia del rapporto di lavoro conclude per una sostanziale illiceità del vincolo. Tra gli altri POCHINI –FREDIANi,
Aspetti sostanziali e processuali del vincolo dei calciatori professionisti, in Riv. dir. sport., 1967, pag. 181
29
R.TOSETTO F. MANISCALCHI,Profili giuridici del fenomeno sportivo con speciale riguardo alla natura giuridicadel rapporto tra
associazionicalcistiche e calciatori., in Foro pad,III,1961pag. 70. Concordemente G. NICOLINI, Nota a sentenza Cass., n. 174 del
1971, in Dir. lav., II, 1972, pag. 92 seg ove: «Ne deriva che se il rapporto tra giocatore e società ha una nota differenziale che sta
nell’inattività biennale dell’atleta, è da intendersi come esatta quella soluzione del problema, che lasciando la struttura organica del
rapporto di lavoro, ponga ad essa accanto un patto aggiuntivo di non concorrenza avente validità per la durata di due anni».
26
- 45 -
Tra sodalizio ed atleta, secondo questa dottrina si istaurerebbe un unico rapporto di lavoro
subordinato, con la presenza di un patto aggiuntivo di non concorrenza ex art. 2125 c.c. finalizzato
ad estendere l’obbligo di non concorrenza previsto dall’arti 2105 c.c. ad un periodo successivo alla
cessazione del rapporto.
Tale prospettazione teorica muove dalla previsione da parte di taluni regolamenti organici
federali dell’ipotesi di svincolo dell’atleta in caso di accertata inattività agonistica protratta per due
stagioni sportive dopo la estinzione per scadenza del termine del contratto annuale di ingaggio
riconducendosi al termine biennale di inattività la durata del patto di non concorrenza.
In un’ottica diversa si ponevano coloro i quali in radicale dissenso rispetto all’orientamento
maggioritario, tendevano alla qualificazione del rapporto de quo in termini di lavoro autonomo.30
La critica alla dottrina dominante si muoveva essenzialmente su due piani; l’uno teso a
contestare la sussistenza in concreto degli elementi atti a qualificare il rapporto in termini
subordinati, l’altra tendente a dimostrare la incompatibilità delle norme e degli istituti tipici
disciplinanti il rapporto di lavoro subordinato con l’attività degli sportivi professionisti.31
Il tal ottica32, essendo applicabile ove compatibile con la speciale natura del rapporto
considerato, la disciplina di cui agli art. 2222 e seg c.c., si osservava come in tema di contratto
d’opera fosse ravvisabile l ‘inammissibilità del recesso unilaterale da parte del prestatore d’opera
non intellettuale.
30
In particolare tale impostazione è seguita da F. BIANCHI D’URSO, Lavoro sportivo e ordinamento giuridico., in Dir. lav.,II 1972.,
pag. 396, ; S. GRASSELLI, L’attività dei calciatori professionisti nel quadro dell’ordinamento sportivo, Giur. it, 1974, pag. 74.
31
Quanto al primo aspetto secondo tale dottrina non possono rientrare nella subordinazione propriamente intesa tutte quelle
limitazioni attinenti essenzialmente alla sfera della libertà dell’atleta”, e ciò non tanto in relazione alla tenuta costituzionale di tali
profili che porrebbero se mai un problema di validità del regolamento di interessi per contrarietà a norme imperative, quanto piuttosto
nella misura in cui sono richieste dalla “attività sportiva ed indispensabili per il suo svolgimento.
Escludendo il rilievo a fini qualificatori di tali aspetti, non resterebbe che valutare se la struttura del rapporto ed i suoi fini possano far
parlare di una subordinazione in senso tecnico- funzionale concretatesi nella osservanza di direttive tecnico-sportive ; anche in tal
caso tale dottrina però ha sottolineano come l’ampia discrezionalità dello sportivo nell’adempimento della prestazione, in particolare
nella partecipazione alle gare, semmai ravvisando gli estremi del coordinamento per ciò che attiene le sedute di allenamento
settimanali preparatorie.
Quanto al secondo piano critico, esso si concentra circa le conseguenze derivanti dalla qualificazione dell’attività sportiva svolta
dagli atleti come lavoro subordinato in ordine “all’incidenza sull’intero assetto dell’attività sportiva” ed in riferimento alla
compatibilità con gli istituti tipicamente lavoristici.
In particolare a fronte di una serie di norme la cui applicabilità non risulta di alcuna difficoltà, vi sarebbero una serie di normative
assai difficilmente adattabili al lavoro sportivo tra le quali le norme sul collocamento, quelle inerenti i limiti ai licenziamenti
individuali, sull’attività sindacale all’interno dell’azienda, quelle ispirate al principio di parità di trattamento, cui aggiungersi taluni
articoli della l. 20 maggio 1970 n. 300 (lo Statuto dei Lavoratori) con particolar riferimento alla normativa in tema di accertamenti
sanitari (art. 5), quella sulle mansioni (art. 13).
32
S. GRASSELLI, Il vincolo sportivo dei calciatori professionisti, in Dir. Lav., I, 1974, pag. 408. L’Autore ritiene che «nel nostro caso
siamo di fronte a una prestazione per così dire para-intellettuale, in quanto pur non potendosi definire intellettuale in senso tecnico,
occorre che sia fornita con notevole applicazione anche intellettiva in relazione alla particolare natura dell’attività svolta tipicamente
infungibile m certo ragguagliabile al compimento di un servizio che pure si svolge con un certo margine di discrezionalità».Concorde
sul punto BIANCHI D’URSO, op.cit., pag. 412-413: il quale richiama i rapporti che sono intercorsi nel passato e che possono ancora
intercorrere nel presente tra un mecenate ed un artista, si può supporre come l’artista, pur dipendendo economicamente dal suo
protettore nell’invenzione poetica o comunque d’arte è completamente autonomo, non potendo la manifestazione fantastica tollerale
alcuna ingerenza o alcuna soggezione che non siano in perfetta coerenza con l’ispirazione e con la necessità interna all’opera da
creare. Il mecenate può soltanto suggerire o anche pretendere che l’opera sia su un determinato tema. Poiché chi propone e compensa
l’esecuzione di una tale opera non pensa mai di ingerirsi nella composizione e nei modi propri dell’arte, non si potrà mai denominare
il rapporto come un rapporto di lavoro subordinato.”
- 46 -
Alla previsione normativa si ragguaglierebbe pertanto la disciplina sul vincolo sportivo,
riducibile a un divieto di recesso unilaterale dell’atleta.33
Il vincolo, qualificato come divieto di recesso unilaterale nel quadro di una prestazione di
lavoro autonomo, sarebbe dunque pienamente legittimo, stante tra l’altro la sua ineliminabilità dato
il collegamento alle esigenze più profonde dell’organizzazione sportiva, nel quadro di un rapporto
di lavoro di natura subordinata.
Altra parte della dottrina valorizzando la collocazione del rapporto atleta/società nel quadro
dell’organizzazione sportiva , sottolineava di contro come il vincolo fosse riferibile ad un rapporto,
quello di appartenenza, distinto ed autonomo rispetto al vincolo scaturente dal contratto di lavoro».
34
Tale rapporto di appartenenza non troverebbe luogo nell’ordinamento giuridico statale
quanto piuttosto nell’ambito del diritto dei privati.35
Esso avrebbe una natura acontrattuale36, equiparabile ad un vincolo di sudditanza che unisce
cittadino e Stato, e configurabile quale diritto reale perché immediatamente operante erga omnes,
essendo un bene immateriale di indubbio contenuto patrimoniale che si risolve nella possibilità di
sfruttare le prestazioni di un uomo. 37
Al di là della evidente forzatura derivante dalla configurazione dell’atleta -soggetto di
diritto, quale oggetto di diritti alla stregua di una res,e per quanto illuminante nell’evidenziare la
sostanziale autonomia strutturale del tesseramento e conseguente vincolo dall’eventuale contratto di
lavoro, la lettura pare intrinsecamente viziata sotto un profilo teorico.
Presupposto essenziale di tale configurazione era
difatti la negazione della ipotetica
conflittualità interordinamentale; sorgendo il rapporto al di fuori dell’ordinamento statuale, quale
rapporto tipico di diritto collettivo che intercorre tra ogni corpo sociale organizzato ed i suoi
33
GRASSELLI ,op.cit.., pag. 408
Cfr. W. BIGIAVI, L’Associazione Calcio Torino e il disastro di Superga, in Giur. it., 1951, IV, pag. 81 seg;conforme W.CESARINI
SFORZA ,Il diritto del lavoro e il diritto sportivoin Riv.dir.Lav.,1951. pag. 257 e seg.
35
Secondo CESARINI SFORZA ,op.cit.,pag.266 :«Per l’ordinamento giuridico dello Stato non vi sono che due specie di rapporti nei
quali può trovarsi il singolo cittadino:rapporti di diritto pubblico nei quali il sorgere ed il contenuto del rapporto sono determinati
dalla legge dello Stato, e i rapporti di diritto privato, dei quali la volontà del singolo dispone il sorgere e regola il contenuto».
In tale ottica il rapporto tra società ed atleti definito di appartenenza, non può non sorgere al di fuori dell’ordinamento statuale, quale
rapporto tipico di diritto collettivo che intercorre tra ogni corpo sociale organizzato ed i suoi componenti, membri, associati.
36
Sul punto anche CESARINI SFORZA, op. cit., pag 270 il quale afferma che il rapporto tra calciatori e società non ha natura
contrattuale quindi non rientra nell’ambito del diritto privato ma è da definirsi come un istituto specifico del diritto collettivo
. Secondo l’Autore se è vero che lo status di giocatore alle dipendenze di un’associazione calcistica si acquista con un atto di volontà
«ciò non basta per attribuire un’origine contrattuale al rapporto di appartenenza che si formi in tal modo dovendosi ricondurre
piuttosto alle originarie discipline dell’ordinamento interno del corpo associativo».
37
Un analoga ricostruzione è accolta da V.NICOLÒ, Struttura e contenuto del rapporto tra associazione calcistica e i propri giocatori,
in Riv. Giur. lav, 1952, II, pag. 208 ove si affermava che le associazioni fossero titolari di un potere di disposizione dell’attività del
calciatore, dotato delle caratteristiche di un diritto assoluto sulla persona del giocatore, attività a stavolta intesa come bene della
società di appartenenza.
34
- 47 -
componenti,
membri,
associati38si
negava
la
possibilità
di
qualificazione
nell’ambito
dell’ordinamento statuale.
Più penetranti le motivazione che inducono ad una qualificazione atipica del rapporto in
funzione dell’ inserimento di esso nell’ambito dell’organizzazione sportiva ufficiale.
La pretesa natura atipica del rapporto, previo giudizio di meritevolezza dell’interesse, infatti
offrirebbe al vincolo sportivo un efficace schermo ed una protezione a livello concettuale atta a
prevenirne la potenziale confliggenza con i principi cardine dell’ordinamento statuale.
Tale inserimento infatti avrebbe come conseguenza, sotto il profilo più strettamente
giuridico, che la causa del contratto sportivo sarebbe da ritenersi divergente da quella propria del
contratto di lavoro (subordinato od autonomo) non configurandosi quale causa di scambio quanto
piuttosto come «causa sportiva»39 emergente dalla relazione diretta e non meramente strumentale
del rapporto con le finalità dell’ordinamento sportivo.
La sussistenza di una causa sportiva aliena alla causa di scambio offrirebbe una puntuale
chiave di lettura della specifica funzione sociale del negozio giuridico caratterizzante il rapporto
sportivo/società e delle non secondarie oggettive implicazioni economiche (in termini di
attribuzioni patrimoniale in favore dello sportivo) che esso comporta.
Sarebbe infatti estranea al rapporto de quo la tipica prospettiva sinallagmatica di scambio
prestazione di lavoro/retribuzione; piuttosto sarebbe presente una atipica (per l’ordinamento statale)
causa40 che, anche laddove informa rapporti comportanti attribuzioni patrimoniali41, non scalfisce
ma vieppiù valorizza la prima natura dello sport intesa quale sforzo fisico e mentale che si produce
38
Sembra infatti operasi un’applicazione delle teorie pluralistico ordinamentali aldilà del loro specifico,negando in radice la
possibilità della pluriqualificazione giuridica tra ordinamenti diversi affermando di contro che il rapporto di specie sia oggetto di
regolazione da parte di un solo ordinamento.Sull’erroneità di tale prospettiva.F.P.LUISO,La giustizia sportiva,milano1975,pag.222
39
Secondo, I.MARANI TORO, Gli ordinamenti sportivi, Milano,1977 pag. 247 «lo scopo comune di cui si è giustamente negata
l’esistenza nell’organizzazione del lavoro, è presente nell’agonismo programmatico in una forma tanto peculiare e giuridicamente
rilevante da farne un fenomeno culturale ignoto al diritto comune e da rendere addirittura inconcepibile l’utilizzazione dello schema
dello scambio».
Sul punto P.BARILE, La Corte di Giustizia delle Comunità Europee e i calciatori professionisti, in Riv. dir. sport., 1977, pag. 308,
ove: «la causa del contratto sportivo è la pratica professionale del calcio. Il contratto del calciatore impegna il giocatore a partecipare,
nel seno della società, esclusivamente ad una determinata attività sportiva, nell’osservanza da un lato delle direttive della società e
dei suoi allenatori, e dall’altro della normazione delle federazioni. La causa giuridica del contratto di prestazione sportiva
professionale esclude la natura subordinata del rapporto di lavoro sottostante: il gioco, , la gara, lo spettacolo, formano insieme una
particolare causa del rapporto di attività sportiva ben diversa da quella tipica di un qualsiasi rapporto di lavoro». Secondo l’Autore si
tratterebbe di un contratto innominato o forse composto all’interno del quale sono ravvisabili insieme elementi di un contratto
associativo e di un contratto di lavoro quest’ultimo strettamente condizionato dal primo nella sua esistenza e svolgimento.
40
In tal senso anche L. MERCURI, Specialità del rapporto di lavoro dei calciatori professionisti, in Giur. it., 1981 pag. 619 il quale
afferma che: «la prestazione degli atleti e di coloro che impiegano in senso sportivo le proprie energie, non sembrano rivestire né i
caratteri propri del lavoro subordinato né di quello autonomo. la particolare natura della prestazione e della sua estrinsecazione
concreta, l’appartenenza all’ordinamento sportivo, convincono che il rapporto de quo è un contratto innominato ex art. 1322 c.c. e
quindi svincolato dalla realtà propria e disciplinata dagli schemi contrattuali tipici».
41
Del tutto peculiare la posizione sostenuta da R.SCOGNAMILLO, In tema di responsabilità delle società sportive ex art. 2049 per
illecito del calciatore, in Dir e giur., 1963, pag. 81 il quale afferma che :«l’esistenza di un ordinamento sportivo autonomo rispetto a
quello statuale induce ad una duplice valutazione concorrente: alla stregua infatti dell’ordinamento sportivo si tratterebbe di un
rapporto di lavoro sportivo, disciplinato dalle norme proprie di quell’ordinamento, che si sottrae ad ogni diverso tentativo di
qualificazione secondo la comune esperienza giuridica ma che ove lo si consideri dal punto di vista dell’ordinamento dello Stato
assume la configurazione di un contratto d’opera mediante il quale si determina uno scambio tra un compenso e la prestazione
professionale dell’atleta».
- 48 -
e si pratica in sé per sé per la bellezza ideale dell’affermazione di superiorità di un atleta o di un
gruppo di atleti quale manifestazione soggettiva di personalità
Sul piano generale dunque i c.d. “contratti di ingaggio” sarebbero da qualificare quale
espressione dell’autonomia privata riconosciuta e tutelata dall’art. 1322 c.c. comma 2 ed esplicatesi
nella libertà di creare strutture negoziali diverse dai tipi codificati. Nella valutazione della
meritevolezza dell’interesse perseguito poi un rilievo peculiare dovrebbe attribuirsi alle disposizioni
legislative quali il D. P. R. 2 agosto 1974, n. 530 contenente norme di attuazione della L. 16
febbraio 1942 n. 426 sull’istituzione e l’ordinamento del Coni circa il riconoscimento statuale
l’interesse perseguito dai soggetti operanti nell’ambito dell’ordinamento sportivo e per i fini di
quest’ultimo.
3. Il vincolo in chiave storica
Prescindendo da singoli rilievi operabili nei riguardi delle diverse tesi su esposte la critica di
fondo che può esser mossa è fondamentalmente quella di non considerare l’esistenza di una
autonomia funzionale tra vincolo sportivo, comune ad ogni categoria di atleta, ed eventuale
contratto di lavoro.
Sotto un profilo squisitamente storico condivisibile pare l’opinione che ravvede l’origine
storica dell’istituto in una sorta di accordo di non concorrenza tra datori di lavoro (le associazioni
sportive) che si ripercuote indirettamente sul lavoratore (l’atleta) limitante la facoltà di
trasferimento di quest’ultimi e riguardante essenzialmente la dinamica dei rapporti tra le
associazioni sportive obbligandosi esse a non stipulare contratti con atleti tesserati per altra
associazione sportiva.
Si verterebbe dunque nell’ambito di un patto che limita la possibilità di concorrenza in
materia di assunzione di lavoratori.42
Sul piano più strettamente storico tale tesi troverebbe conferma nella circostanza che
l’introduzione di regimi vincolistici sia da ricondursi all’emersione di forme di professionismo
«occulto» determinanti una radicale modifica del modello organizzativo delle strutture federali.43
42
F.BIANCHI D’URSO, Riflessioni sulla natura giuridica del vincolo, in Dir. giur., 1979, pag. 1 seg.
L’istituto del vincolo sportivo, già introdotto antecedentemente in Inghilterra, dove la Football League, che già nel 1885 aveva
ammesso il professionismo, stabilì che il calciatore, firmato un accordo con una società, non avrebbe potuto vincolarsi
contrattualmente con un’altra società senza il preventivo assenso di quella di appartenenza. A.EVANS, La legge sportiva nel Regno
Unito, in Il calcio ed il suo pubblico, Napoli, 1992, pag. 369 seg il quale sottolinea come simili restrinzioni della libertà contrattuale
dell’atleta di disporre delle proprie prestazioni siano state successivamente superate dalla previsione di contratti annuali o biennali
che prevedessero in favore della società un opzione di rinnovo.
43
- 49 -
Più consona appare però pare la lettura interpretativa secondo cui il vincolo sportivo a tempo
indeterminato sia da considerasi quale effetto del tesseramento dell’atleta comportante il divieto per
lo sportivo di recedere dal contratto associativo in forza di un atto unilaterale di volontà.
Il vincolo, in quanto elemento che attiene il rapporto sportivo associativo atterrebbe a tutti i
giocatori, sia professionisti che dilettanti.
Al rapporto associativo sportivo, si aggiungerebbe nell’ipotesi degli atleti professionisti un
particolare rapporto di lavoro che sorge per effetto di un successivo contratto di durata annuale,
concluso non più in quanto membro dell’associazione, ma come terzo, con l’associazione
medesima.
Il rapporto intercorrente, o rectius la gamma dei rapporti intercorrenti, tra sodalizi sportivi e
atleti non possono non esser letti se non in chiave evolutiva al fine di evidenziare come si avverta
una sorta di stratificazione del fascio di relazioni tra atleti e sodalizi sportivi con progressivo
sfumarsi delle componenti associative.
Alla luce dei profili storici di diffusione della pratica degli sport
44
è agevole sottolineare
come intuitivamente il legame tra singolo giocatore e associazione sportiva, nate come associazioni
di «sportsmen» sia, ab origine, da ricondurre ad un comune rapporto associativo.
In conseguenza della costituzione delle Federazioni Sportive, «la rete dei rapporti divenne
più complessa, pur rispondendo sempre alla medesima logica associativa»45considerando come le
Federazioni ebbero a sorgere come associazioni di secondo grado (associazioni di associazioni)
escludendo cioè la possibilità che il singolo sportivo si iscrivesse alla Federazione senza la
contemporanea iscrizione ad un’associazione facente parte della stessa Federazione.
La struttura originaria delle Federazioni, struttura che tutt’ora dovrebbe nominalmente
permanere almeno a livello dilettantistico, poteva raffigurarsi come una piramide che vedeva alla
sua base la massa dei praticanti(i c.d. gentlemans-amateurs), in posizione mediana i gruppi e le
associazioni sportive, al vertice le stesse Federazioni.
Entro tale struttura il vincolo altro non era da qualificarsi quale espressione del rapporto
associativo tra atleta e associazione di base caratterizzato sotto il profilo causale dall’assenza di
ogni forma di contrapposizione tra soggetti portatori di interessi diversi.
44
Vedi in particolare gli studi di I.Marani Toro in relazione non solo alla diffusione della pratica sportiva ma anche ai passaggi che
caratterizzano il superamento delle forme di “agonismo occasionale” e le conseguenti necessità di carattere organizzativo.
45
C. PASQUALIN, Il vicolo sportivo, in Riv. dir. sport., 1980, pag. 290 ove:«Nonostante questa struttura a più piani, rimase sempre
identico il quadro degli interessi e dei rapporti fra il singolo e la Federazione, poiché quest’ultima era ancora l’associazione degli
sportivi attivi: più giocatori si riunivano per formare l’associazione sportiva; questa poi insieme ad altre associazioni di sportivi
esercitanti il medesimo sport, facevano parte della Federazione. Il singolo giocatore, pur avendo due distinti rapporti uno con la
propria associazione ed uno con la federazione, costituiva la base della Federazione la quale era espressione dei singoli iscritti.»La
bontà di questa ricostruzione è testimoniata dai puntuali riscontri storici circa la fondazione della F. I. F. (Federazione Italiana
Football) datata 15 Marzo 1898 sul punto vedi A. PAPA G. PANICO, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, 2002, pag. 57 e seg.
- 50 -
L’atleta era dunque, nel pieno rispetto dello spirito dilettantistico, fondamentalmente libero
di associarsi al volgere di ogni stagione sportiva con il sodalizio desiderato.
Questo quadro viene a mutare ad un primo livello nello sfumare delle componenti
associative del rapporto atleta /federazione in conseguenza della svolta oligarchica ed autoritativa
delle ultime, fenomeno questo comune a tutti i gruppi associativi di grande entità, ed ad un secondo
livello del rapporto atleta/associazione a mezzo di una sostanziale ricomposizione della base
associativa.
Di guisa che vengono a distinguersi, quale inevitabile conseguenza dell’elevato tecnicismo
dell’attività sociale, coloro i quali sono interessati alla vita dell’associazione nei suoi aspetti
organizzativi e gestionali e ne finanziano l’attività e gli atleti che vengono esonerati da ogni forma
di contribuzione alla vita associativa diversa dalla pratica dell’attività sportiva.
Tale evenienza trova enfasi con l’introduzione di forme embroniali di professionismo che,
almeno in Italia, trovarono formale riconoscimento solo nel 1926 nell’ambito delle c.d. Carte di
Viareggio.
Ciò comporta l’affiancarsi di un ulteriore rapporto tra associazione ed atleta di natura
essenzialmente economica, da ritenersi «ben distinto dal vincolo, che ne è per certi aspetti il
presupposto».46
L’emersione di un elemento di natura patrimoniale nel rapporto sociale, esulante la
tradizionale causa ideal-sportiva, determina una fondamentale alterazione della dinamica dei
rapporti giustificandosi l’introduzione di meccanismi atti a legare gli atleti all’associazione a tempo
tendenzialmente indeterminato subordinando l’eventuale recesso unilaterale alla manifestazione di
volontà in senso positivo dell’assemblea finalizzati sul piano economico, a «consentire il
trasferimento di risorse finanziarie dalle società sportive maggiori a quelle minori a costo zero per il
movimento in un ottica macroeconomia»47, e su quello tecnico a garanzia dell’equilibrio delle
competizioni.48
Questa regolamentazione delle modalità di trasferimento degli atleti rimarrà immutata nei
suoi aspetti di fondo, mentre progressivamente verrà radicalizzandosi l’approntamento di un
46
PASQUALIN, op. cit., pag. 291. L’Autore sintetizza affermando che in una Federazione professionistica, il giocatore è conivolto in
una triplice serie di rapporti:
1) da un lato attraverso il tesseramento è iscritto alla Federazione;
2) dall’altro, mediante il vincolo assume un legame tendenzialmente a tempo indeterminato con una società sportiva;
3) infine, con il contratto di ingaggio, si stabilisce il corrispettivo che annualmente la società è tenuta a versare al giocatore in
cambio dell’attività da questi prestata in favore di quella.
47
G.MARTINELLI , Stipendi alle stelle dopo la soppressione del cartellino, in Il Sole 24 Ore Sport, anno 3 n. 2, 2002 pag. 27.
48
Si tratta in sostanza di un meccanismo teso ad irreggimentare la destinazione delle prestazioni degli atleti non solo per finalità
personali ma anche e soprattutto agli interessi associativi strutturalmente connessi..Il vincolo avrebbe infatti la chiara funzione di
contingentare, attraverso un rapporto continuativo appositamente congegnato che si impianta a favore delle società sportive, le
prestazioni future rispetto alla costituzione del rapporto e di determinare l’esclusiva sulle potenziali prestazioni anche sotto il profilo
patrimoniale. Sul punto R.PRELATI,La prestazione sportiva nell’autonomia dei privati,Milano,2003,pag.186 seg.
- 51 -
accentuato e rigoroso formalismo burocratico, proprio delle strutture federali, nelle varie
articolazioni e fasi di costituzione, estinzione, modificazione del rapporto associativo. 49
La portata ricostruttiva della tesi in esame appare suffragata a posteriori dalle previsioni
legislative in materia di professionismo sportivo della l. 91/1981 che «porta a definitivo
compimento quel processo di affrancamento dell’attività lavorativa dal vincolo associativo contratto
con la società-associazione sportiva, attività che viene a dipendere da una fonte contrattuale
caratterizzata da una funzione di scambio»50; l’atto di tesseramento dell’atleta professionista (ex art.
2 l. 91/1981) non si configura, diversamente che in passato, quale presupposto per la stipula di un
valido contratto di lavoro, ma invertendo la sequenza cronologica, «il rapporto di prestazione
sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta e con la stipula di un contratto in
forma scritta» (art. 4 comma 1) costituendo esso il presupposto per il tesseramento.
4.Il vincolo quale rapporto associativo
La valorizzazione dell’elemento volontaristico ed associativo quale caratterizzante il vincolo
sportivo già timidamente prospettata anteriormente alla entrata in vigore della L. 91/81, trova
ulteriori conferme a seguito della riduzione del campo di indagine all’ambito propriamente non
professionistico.
49
In concreto l’atleta sia professionista che dilettante, anteriormente alla l. n. 91/1981, per effetto del tesseramento contraeva con una
determinata associazione o società il vincolo, comportante il divieto per il giocatore di recesso unilaterale, l’obbligo di prestare in
positivo la propria attività a favore della associazione, e quello negativo di non prestare la propria attività a favore di altra attività.
Obbligo positivo di prestare la propria attività, sostanzialmente incoercibile sul piano associativo, ma che può essere oggetto di un
atto negoziale distinto individuabile in un contratto di lavoro, laddove l’attività sportiva venga in evidenza nel suo potenziale valore
economico, cioè in quanto atta a produrre utilità patrimoniali.
Pur riconoscendo la piena autonomia dell’eventuale del rapporto di lavoro, occorre sottolineare come in definitiva l’atleta potesse
concludere il contratto relativo solo ed esclusivamente con il sodalizio sportivo di appartenenza; circostanza questa che attiene alla
peculiare disciplina del rapporto associativo, che tra l’altro comporta un divieto di contrattare con altri soggetti, ed è logica
conseguenza del generico obbligo assunto con il tesseramento di prestare la propria attività sportiva esclusivamente a favore
dell’associazione per la quale l’atleta si “vincola”.
Interferenze tra rapporto di lavoro e rapporto associativo dovute d’altra parte alla “circostanza che nell’uno e nell’altro l’oggetto è
l’attività sportiva del giocatore”, non implica però ciò “che essi non debbano essere considerati distinti ed autonomi, sia perché
derivano da due distinti e diversi atti negoziali, sia perché sostanzialmente diversa è nelle due ipotesi la posizione del giocatore nei
confronti dell’associazione per quanto attiene alla sua prestazione”.
50
O.MAZZOTTA, Il lavoro sportivo, in Foro It., 1981, V, pag. 298. Interessanti le notazioni di PASQUALIN, op. cit., pag. 292, ove: «il
vincolo sportivo non ha nulla più a che vedere con l’originario rapporto associativo; è solo un residuo storico di una struttura
dell’organizzazione sportiva che oggi non esiste più laddove lo sport è esercitato in forme professionistiche».
- 52 -
Evidente come tale teorizzazione sul piano concettuale necessiti di una attenta qualificazione
dell’atto di tesseramento tematica, quest’ultima, che involge i più generali profili legati alla natura
giuridica delle federazioni sportive.
Non è questa la sede per evidenziare le direttrici del dibattito dottrinario e giurisprudenziale
unltracinquantennale51 circa la natura degli enti federali e la consequenziale qualificazione degli atti
risultando evidente il rapporto di presupposizione.
Il dato normativo vigente
52
qualificante le Federazioni sportive quali associazioni con
personalità giuridica di diritto privato non aventi finalità lucrative., in sé non supera definitivamente
la tesi della natura provvedimentale dell’atto di tesseramento.
Nel quadro,infatti, della impropriamente definita «privatizzazione» degli enti federali, il
legislatore riconosce valenza pubblicistica a specifiche tipologie dell’attività federale operando al
fine della loro individuazione all’autonomia statutaria del CONI.
Di guisa l’art. 23 comma 1 dello Statuto Coni ricomprende tra le attività a valenza
pubblicistica anche quelle relative al tesseramento quantunque la legge non le qualifichi come
attività delegate dal Coni (a differenza di quanto accade per altre tipologie di attività).
In vero se è dubitabile che un atto quale lo Statuto del Coni, espressione ad un tempo di
autonomia privata e di potestà regolamentare, possa valere di per sé ad attribuire natura
pubblicistica a dati atti delle Federazioni, atteso che la materia provvedimentale è retta dai principi
di legalità e tipicità 53, vi è da sottolinearsi come la valenza pubblicistica di specifiche attività non
sia di per sé atta ad attribuire natura pubblica ad esse54 ma piuttosto giustifichi le rigorose
limitazioni che le federazioni subiscono nell’esplicazione della loro autonomia privata dovendo
51
La qualificazione del tesseramento in via alternativa quale atto di ammissione di natura amministrativa posto in essere in forza di
regolamenti emanati da soggetti, le federazioni, dotati di potestà regolamentare, o quale negozio associativo disciplinato a livello
statutario e regolamentare in base all’ampia autonomia riconosciuta dall’ordinamento statuale agli enti associativi,ha trovato vasta
eco nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale .
Schematizzando da un lato la giurisprudenza tendeva a qualificare il tesseramento come provvedimento amministrativo costitutivo
dello status di atleta nell’ordinamento sportivo equiparabile ai provvedimenti di iscrizione –ammissione se non ad una vera e propria
autorizzazione preventiva all’esercizio dello sport agonistico in ambito federale,muovendo dalla natura di organi del Coni delle
Federazioni cioè quali enti inserito nella Pubblica Amministrazione, donde i regolamenti federali determinativi dei requisiti di
rilascio del tesseramento ovvero per l’ammissione in determinati ruoli federali si consideravano emanazione di una potestà pubblica
della Federazione di natura discrezionale considerando la sussistenza di una coincidenza di interessi tra Federazioni e Coni. Ex
plurimis Cass., Sez. Un., 9 maggio 1986, n. 3091, citata da V.FRATTAROLO, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, Milano,
1995pag. 125. Cfr. Cass., Sez. Un., 9 Maggio 1986, n. 3092, citata da FRATTAROLO, op. cit., pag134.
Dall’atro la dottrina,e parte della giurisprudenza di merito orientata a qualificare il tesseramento come atto negoziale ed in
particolare come il negozio, dal quale discenderebbe l’efficacia vincolante nei confronti del tesserato dei regolamenti federali la cui
vigenza riposa sull’incontro di volontà di coloro che costituiscono l’associazione e sull’accettazione di tale normativa da parte dei
nuovi associati al momento dell’adesione. F. P. LUISO, La giustizia sportiva, Milano, 1975, pag. 221
Così la giurisprudenza di merito nel qualificare, coerentemente con una lettura privatistica circa la natura genetica delle Federazioni
Sportive, le norme inerenti il tesseramento quali espressione di potere di autorganizzazione di associazioni non riconosciute e in
quanto tali sindacabili dal giudice ordinario per lo meno sotto il profilo della conformità all’ordine pubblico ai sensi dell’art. 31 delle
Disposizioni della legge in generale Sul punto Pret. Roma, ord. 18 settembre 1979, citata da V.FRATTAROLO, op. cit., pag. 130.
52
Cfr. D.Lgs.23 luglio 1999 n. 242, in particolare gli art. art. 15 e art. 16 come modificato dal D.lgs.8 gennaio 2004 n.15
53
Cfr. C.ALVISI, Autonomia privata e autodisciplina sportiva, Milano, 2000, pag. 158 nota n. 153
54
Esplicitamente sul punto l’art.23 co 1 bis del Nuovo Statuto Coni deliberato dal Consiglio Nazionale del CONI il 23 marzo 2004,
approvato con Decreto Ministeriale del 23 giugno 2004 che si premura di evidenziare come la valenza pubblicistica di specifiche
tipologie di attività individuate dallo Statuto del CONI non sia atta a sottrarre all’ordinario regime privatistico dei singoli atti e delle
situazioni giuridiche soggettive connesse.
- 53 -
armonizzare il loro agire, giusto disposto dell’art.15 d.lgs.242/99, alele deliberazione del CIO e del
CONI.55
In linea con la miglior dottrina civilistica non pare dubitabile la qualificazione56 del
tesseramento quale contratto associativo ed in particolare quale contratto aperto a formazione
progressiva.
Il tesseramento si configura quale adesione successiva all’associazione del socio avente la
medesima natura giuridica dell’originaria partecipazione al contratto ponendosi l’aderente al pari
delle parti originarie nella posizione di contraente del contratto di associazione (art. 1332 c.c.).57
Configurazione questa che implica una struttura aperta (c.d. principio della porta aperta) atta
a soddisfare in astratto lo stesso bisogno di un numero indeterminato di persone.58
Il tesseramento, sotto un profilo squisitamente tecnico, è atto formale che garantisce
l’imputazione ad ogni atleta dei suoi risultati e quindi la sua classificazione nelle graduatorie e la
documentazione delle vicende della sua carriera sportiva, che permette che i risultati di ogni atleta
siano valutati a beneficio delle collettività alle quali egli appartiene, ai fini della compilazione delle
graduatorie del merito sportivo di queste collettività.
Con quest’atto il singolo acquista lo status di atleta, ovvero diventa titolare di un fascio di
rapporti giuridici che creano reciproci diritti e doveri nei confronti degli altri atleti, della società
sportiva, della Federazione Nazionale, dunque è requisito necessario di ammissione alle
competizioni ed alle classifiche ufficiali, cioè alle vicende che caratterizzavano l’agonismo
programmatico.
Il tesseramento consiste nella semplice apposizione di una firma da parte dell’atleta,
accompagnata nel caso di minori dalla firma dell’esercente la patria potestà59, nonché da quella del
legale rappresentante della società, su moduli predisposti dalle Federazioni.
La manifestazione di volontà estrinsecata con l’apposizione della firma costituisce un
negozio giuridico complesso; in essa infatti possono individuarsi due distinte dichiarazioni sebbene
concorrenti e connesse per la congruenza delle rispettive funzioni.
55
Per quanto attiene la la giurisprudenza successiva al Decreto Meandri si rinvia a DE SILVESTRI,la giustizia sportiva,op.cit.,pag.102
Quanto al problema della qualificazione non pare ultroneo rammentare che ci si riferisca alla qualificazione assumendo quale
ordinamento valutante quello statuale.Non sfugge infatti come,muovendosi in un’ottica pluralistico-ordinamentale ,il medesimo atto
possa esser oggetto di valutazioni difformi da parte di altro ordinamento valutante.Sul fenomeno della pluriqualificazione vedi
F.P.LUISO,op.cit.,222,M.FERRARO,op.cit.,pag.11
57
Cfr. F.GALGANO, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Commentario al Codice civile a cura di Scialoja Branca,
Bologna, 1976, pag. 53. L’Autore sottolinea come riguardo alla struttura aperta dei contratti associativi, contrapposti ai contratti di
scambio a struttura chiusa, occorra distinguere tra contratto di associazione e contratto di società. Entrambi infatti sono da qualificare
quali contratti aperti riconducibili allo schema ex art. 1332 c.c., ma il significato assunto da tale aggettivo è molto diverso nelle due
categorie. il criterio distintivo da adottarsi sarebbe quello relativo alla variabilità senza alcun limite del numero dei membri. A tal
criterio è connesso quello che della distinzione tra interesse di gruppo ed interesse di serie. All’interesse di gruppo corrisponde una
struttura chiusa (es. società di capitali in cui il numero di soci non può superare il numero di azioni):a quello di serie una struttura
aperta caratterizzanti il contratto di associazione.
58
Per le problematiche inerenti la configurabilità del diritto di accesso alle federazioni sportive vedi tra gli altri R. CAPRIOLi,.
L’autonomia normativa delle federazioni sportive nazionali nel diritto privato, Napoli, 1997 ,pag.111 seg.
56
- 54 -
Con la prima il giocatore chiede di essere tesserato presso la Federazione Sportiva, chiede
cioè di entrare a far parte della comunità sportiva facente capo alla Federazione; con la seconda il
giocatore dichiara di volersi vincolare alla associazione salve le rare ipotesi in cui sia ammessa il
tesseramento individuale dell’atleta presso la federazione.
E’ quindi da sottolinearsi, pur nella complessità del negozio, come l’atleta per mezzo del
tesseramento divenga parte di due distinti, seppur intersecatesi, rapporti:uno relativo alla società od
associazione che assume carattere di norma associativo, l’altro viene ad istaurarsi con la federazione
la quale per mezzo di un formale atto conferisce all’atleta lo status di tesserato ovvero di centro di
imputazione di situazioni soggettive attive e passive in ambito endoassociativo.
Sussiste pertanto una pluralità di rapporti (associativi, od eventualmente associativilavoristici60), la cui differenziazione appare talvolta problematica data la prassi di identificarli in
un'unica fattispecie.
Tale pluralità di rapporti è generata dalla cennata natura delle federazioni quali associazioni
di secondo grado; in tal senso il rapporto che lega l’atleta a ciascuna associazione o società di base
coesiste con quello che vincola lo stesso nell’organizzazione di grado maggiore (la Federazione).6162
Pertanto con il tesseramento l’atleta entra a far parte dell’organizzazione federale accettando
di esser soggetto di tutti i diritti e gli obblighi discendenti dallo statuto e dai regolamenti federali, e,
sul piano giuridico, instaura un rapporto contrattuale con la Federazione Sportiva con la
conseguente accettazione delle clausole statutarie e regolamentari richiamate espressamente nei
moduli sui quali viene apposta la firma, tra le quali sono da ricomprendersi quelle norme inerenti il
vincolo a tempo indeterminato ossia che disciplinano il rapporto tra sportivo ed associazione
«intermedia».
Gli effetti derivanti dal vincolo sono infatti da ricondursi essenzialmente:
al diritto dell’associazione sportiva di utilizzare le prestazioni dell’atleta ed il potere di
inibire allo stesso di prestare la propria attività a favore di altra associazione;
al dovere dell’atleta di fornire le proprie prestazioni alla società per cui è vincolato (dovere
di natura positiva) di fatto incoercibile non potendosi in alcun modo precludere allo stesso
59
Per il tesseramento minorile vedi P.MORO,Questioni di diritto sportivo.Casi controversi dell’attività dei
dilettanti,Pordenone,1999;A.De Silvestri,Potestà genitoriale e tesseramento minorile,in Riv.dir.sport.,1991,pag.297
60
Per il potenziale rilevo lavoristico delle prestazioni rese dagli atleti non professionisti ai sensi dell’art.2 l.91/81G.MARTINELLI,Il
rapporto di lavoro nello sport dilettantistico,in GiustiziaSportiva.it - Rivista Internet di diritto dello sport,anno1 ,n.1.
61
Sul punto ampiamente CAPRIOLI,op.cit.pag. 91 seg. il quale nota come stante il tenore letterale dell’art. 14 comma 1 l. n. 91/81 «le
federazioni dovrebbero esser classificate tra le associazioni complesse che sono formate non da persone fisiche ma da altre
associazioni;tuttavia la circostanza che risultino tesserate presso le singole persone fisiche e il fatto che a queste ultime siano
direttamente rivolte numerose disposizioni degli statuti e dei regolamenti induce a classificarle tra le associazioni parallele, in cui i
componenti le associazioni minori sono, al tempo stesso, membri dell’associazione maggiore
62
In realtà, nelle concrete dinamiche, occorre distinguere almeno a seguito dell’entrata in vigore della l.91/81 ,la situazione
dell’atleta professionista da quello non professionista, nel primo caso l’atleta stipula un contratto di lavoro, con il quale si vincola alla
società datrice, cui consegue, dopo il riscontro circa la conformità alle proprie prescrizioni il conseguente tesseramento presso la
federazione;gli atleti non professionisti di contro con il tesseramento presso la Federazione per tramite della società interessata
- 55 -
l’eventuale astensione dalle prestazioni, e al dovere di non prestare la propria attività senza il
consenso della società per la quale è vincolato(dovere di natura negativo), sanzionabili, in caso di
violazione sotto il profilo disciplinare.
Il vincolo dunque si sostanzia in un obbligo di esclusiva del giocatore a favore
dell’associazione sportiva per il quale è tesserato.
L’analisi degli Statuti e delle Norme Federali consente di esplicitare le modalità attraverso le
quali tale diritto di esclusiva si sostanzi,prescindendo dalla durata temporale di esso.
Tali disposizioni inerenti in vincolo sportivo si configurano infatti quali particolari clausole
del contratto associativo introdotte al fine di tutelare gli interessi sportivi delle associazioni,
limitando o, rectius, tassativamente “procedimentalizzano” il diritto di recesso dell’atleta associato.
De facto, l’atleta non professionista con il tesseramento assume un vincolo associativo che
può esser sciolto esclusivamente nelle ipotesi previste tassativamente dalle norme organizzative
federali da egli accettate in sede di tesseramento.
Dall’analisi delle singole ipotesi previste dai vari regolamenti federali63, pur nella non
omogeneità delle discipline endoassociative, in linea generale può comunque affermarsi che la
risoluzione del rapporto associativo è di norma subordinata alla volontà della associazione nelle
forme della rinuncia unilaterale esplicita o tacita a mezzo di mancata richiesta di rinnovo o del
mutuo consenso, od si sostanzi nel riscontro di obiettive condizioni che rendano impossibile o
estremamente gravoso la prosecuzione del rapporto associativo, in ipotesi di giusta causa non
tipizzate e rimesse all’apprezzamento di organi associativi permanenti, in ipotesi di c.d.«riscatto»del
vincolo.
Tale regime del recesso non può non essere oggetto di attenta valutazione, alla luce della
natura negoziale di contratto associativo che, liberamente determinabile dalle parti nel suo
contenuto, incontra nel suo esplicarsi i limiti imposti dalla legge.
Il divieto di recesso dal vincolo a tempo indeterminato sembra infatti contrastante con
fondamentali principi dell’ordinamento statuale.64
In via preliminare non può tralasciarsi sul punto come lo svolgimento dell’attività sportiva,
anche agonistica, debba considerasi quale attività realizzatrice della personalità umana ex art.2
Cost.65 e che le strutture federali siano da ricomprendersi nell’ambito delle formazioni sociali ove si
manifestano la volontà di acquisire lo status di membro della federazione, di accettarne lo statuto e le norme tra le quali quelle che
prevedono l’assunzione del vincolo a favore della associazione per tramite della quale è stata inoltrata la domanda di tesseramento.
63
Per cui si rinvia a P.MORO,Natura e limiti del vincolo sportivo,in Riv.dir.econ.sport.,anno1 n.2,pag.8 seg
64
Per i profili più strettamente riguardanti la non conformità delle discipline federali a convenzioni internazionali ed alla specifiche
normative nazionali ed internazionali in tema di tutela dell’infanzia nell’ambito del tesseramento di atleti minorenni vedi
P.MORO,Vincolo sportivo e diritti fondamentali del minore,in AA.VV.,Vincolo sportivo e diritti fondamentali,Pordenone,2002,pag.9
e seg.
65
Sotto altro profilo non è marginale rammentare lo sviluppo di una giurisprudenza,in tema di risarcimento del danno esistenziale
non patrimoniale che ravvede nella pratica agonistica dell’attività sportiva un’attività realizzatrice della personalità umana ex art.2
Cost.la cui compromissione o limitazione può essere risarcibile.Sul punto Trib.Ravenna,4 febbraio 2004,ove :« va dunque
riconosciuto che l’impedimento alla prosecuzione dell’attivita' sportiva che il ricorrente praticava a livelli semiprofessionistici, deve
- 56 -
svolge la personalità rilevando, a tal fine ,tali restrittive normative quali indebite compressioni e
limitazioni di libertà di rango costituzionale .
Con particolar riferimento alla libertà di associazione riconosciuta e garantita dall’art. 18
Cost essa si sostanzia nella libertà di costituire un associazione, in quella di aderire o di non aderire
ad un’associazione già costituita (c.d. libertà negativa di associazione66), ed infine nella libertà di
recedere da un’associazione.
L’adesione ad un’associazione riconosciuta comporta l’accettazione del suo ordinamento
interno, ordinamento che, ai sensi dell’art. 24 c.c., può eventualmente prevedere, senza che sia
violata la libertà negativa di associazione, che«per un periodo determinato negozialmente o
statutariamente stabilito il differimento dell’efficacia dell’atto di recesso dell’associato e, quindi, la
permanenza dell’associato nell’associazione per tale periodo con conseguente persistenza di tutti gli
obblighi associativi (e non solo quelli eventualmente di natura finanziaria) anche in presenza del
dissenso sopravvenuto dell’associato dagli scopi e dalle modalità operative dell’associazione»67.
Il tema del recesso dell’associato è di particolare rilevanza in considerazione del fatto che la
deroga del principio generale ex art. 1372 c.c., nell’ambito contratto associativo, trova la sua
giustificazione in un’esigenza di tutela della libertà individuale.
In questo senso la giurisprudenza di legittimità si è espressa statuendo in ordine alla nullità
di clausole del contratto associativo che escludano o rendano oneroso in modo abnorme il recesso.68
essere configurato come lesione di un diritto fondamentale rientrante nel catalogo dei diritti inviolabili sancito dall’art.2 della Cost.; e
cio' sia perche' attiene ad uno degli aspetti piu' qualificanti della persona, sia perche' e' destinato a svolgersi nel contesto di rapporti
interpersonali nei quali si svolge la personalita'; basti osservare che l’interruzione di una pratica sportiva ha ricadute negative
immediate da una parte sul piano del benessere individuale, della felicita' della persona e della realizzazione della propria dimensione
di vita; e dall’altra parte sul versante della vita di relazione, del rapporto proficuo con gli altri, del consolidamento e
dell’arricchimento della trama delle relazioni umane.
Il pregiudizio esistenziale che si intende qui risarcire non si e' risolto poi nella mera lesione di un diritto della persona in se'
considerato, o danno evento, pur ritenuto sufficiente ai fini del risarcimento), ma ha pure prodotto concrete conseguenze
pregiudizievoli, ossia modificazioni peggiorative dell’agire del ricorrente obiettivamente riscontrabili rispetto al suo modello di vita
precedente all’ infortunio; sicche' sono soddisfatti tanto l’ingiustizia del danno inteso come lesione di una posizione soggettiva
qualificata) tanto l’esistenza del pregiudizio stesso come peggioramento concreto della qualita' della vita». Conformemente Giudice
di Pace di Schio, sentenza 09.06.2004 n.53 .Sembra spingersi oltre il Tribunale di Ivrea 04aprile 2004 n.151,in Danno
Resp.,n.2,2005,pag.170ove:Nel caso di danno alla persona incidente in astratto sulla capacità di praticare attività sportive non è
necessario che sia data prova , al fine del risarcimento del danno esistenziale che il minore aveva un talento per determinati sport(…)
essendo lesa la sua possibilità di scelta .
66
Vedi tra l’altro art. 20 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di
associazione pacifica. Nessuno può esser costretto a far parte di un’associazione».
In questo senso la Corte Costituzionale Sent. n. 239 1984 ove: «Il precetto costituzionale contenuto nell’art. 18 deve esser
interpretato nel quadro del contesto storico che l’ha visto nascere e che porta a considerare della proclamata libertà di associazione,
non soltanto l’aspetto che è stato definito positivo, ma anche quello negativo che si risolve nella libertà di non associarsi che dovette
apparire al Costituente non meno essenziale dell’altra dopo un periodo storico nel quale la politica legislativa di un regime totalitario
aveva mirato ad inquadrare i fenomeni associativi nell’ambito di strutture pubblicistiche sotto il controllo dello Stato».
67
Cass. 14 maggio 1997 n. 4244, in Foro it., 1997, I, pag. 2484 ove si afferma che sia la disciplina normativa, sia l'autonomia
negoziale (che di tale situazione è espressione la norma statutaria) possono comportare un vincolo temporale alla permanenza
dell'associato nel rapporto associativo, anche in caso di sopravvenuto dissenso del singolo partecipe, senza che per questo soltanto la
sua libertà associativa, espressa anche nella forma negativa della dissociazione, venga violata dalla regolamentazione, normativa o
pattizia, che di essa regoli le modalità di esercizio, in armonia con le posizioni e gli interessi degli altri associati e dell'associazione
stessa. D'altronde rientra nella funzione del legislatore ordinario la regolamentazione dell'esercizio anche dei diritti
costituzionalmente garantiti, quando la relativa disciplina dettata dalla legge ordinaria, o quella pattizia da essa consentita, non
sopprimano il diritto o ne rendano oltremodo ostico l'esercizio con modalità oggettivamente coercitive, impeditive o preclusive.
68
Cfr. Cass., sez. I, 9 maggio 1991, n. 5191, in Nuov. giur. civ. comm. 1992, I, pag. 615
- 57 -
Pur in tal sede tralasciandosi anche ulteriori profili di rilievo inerenti quei fenomeni
ufficialmente non riconosciuti né tutelati dagli ordinamenti federali di reificazione dell’atleta
dilettante a mezzo della conclusione di negozi atipici di cessione del diritto di utilizzo esclusivo
delle prestazioni sportive ed al possibile rilievo anche lavoristico69 delle questioni, la forza di tali
argomentazioni ha indotto talune federazioni, motu proprio, ad un processo di rivisitazione
dell’istituto finalizzato a contenerlo entro limiti di tempo preordinati.70.
Così ispirandosi al contemperamento del diritto degli atleti ad esercitare liberamente la
pratica sportiva e le opposte esigenze delle società a non vedersi private troppo presto delle loro
prestazioni, la Federazione Italiana Giuoco Calcio nel maggio 2002 ha provveduto ad una modifica
regolamentare tesa a riconoscere lo svincolo per decadenza, su richiesta dell’atleta, al termine della
stagione sportiva di compimento anagrafico del venticinquesimo anno di età71.
L’intervento del Coni72, in ottemperanza a quanto disposto dall’art. 4 co.6 lett.i) del proprio
Statuto, con il quale si è provveduto ad emanare direttive in tema richiamando genericamente la
necessità della temporaneità del vincolo, in realtà si pone in un solco già tracciato, rilevando
esclusivamente nei confronti degli enti federali maggiormente «riottosi» ad addivenire
all’abrogazione del vincolo a tempo indeterminato73.
Se sul piano storico non può non tralasciarsi la portata innovativa delle modificazioni
statutarie e regolamentari.
Occorre però analizzare se in punto di fatto e di diritto tale regime normativo sia atto a
garantire l’effettività del godimento del diritto di praticare liberamente l’attività sportiva.
secondo cui la facoltà di recesso è riconosciuta all’associato in deroga al generale principio, codificato nell’art. 1372, secondo il
quale il contratto non può esser sciolto che per mutuo consenso:a ciascuna delle parti del contratto è qui dato di provocare con
propria unilaterale dichiarazione di volontà, lo scioglimento del vincolo che la unisce alle altre part. La deroga al principio generale
trova, in questa come nelle altre figure contrattuali per le quali è prevista la propria giustificazione in un’esigenza della tutela della
libertà individuale:ed in rapporto al contratto di associazione un aspetto della tutela della stessa libertà di associazione.”
69
Non è da trascurasi sul punto il potenziale intersecarsi delle problematiche del vincolo a tempo indeterminato con quello della
qualificazione in termini di lavoro subordinato del rapporto tra atleti non professionisti e società sportive.Sul tema A.DE
SILVESTRILLa riforma del calcio dilettantistico in tema di vincolo e accordi economici,in AA.VV,Vincolo sportivo e diritti
fondamentali,Pordenone,2002,pag.41
70
A testimonianza di nuovo approccio alla tematica del vincolo nell’ambito dell’attività dilettantistica , una pronuncia resa dalla
Camera di Conciliazione ed Arbitrato per lo Sport (Lodo Arb.5 Novembre 2002 Hockey Club Gherdëina c. Federazione Italiana
Sport Ghiaccio ) che ha avuto modo di sottolineare come” va valutato con favore l’atteggiamento di una federazione che in punto di
fatto consenta l’ottenimento dello svincolo da parte di atleti che ne hanno diritto ai sensi delle stesse regole federali senza trincerarsi
dietro formalismi procedurali”.
Sul punto anche il TAR Lazio,sez.III ter,4 maggio 2003,n.4103 ove si segnalano le evidenti distorsioni derivanti dalla mancata
applicazione della L.91/81 nel settore femminile della FIP e si sottolinea come«l’art. 56-bis, specie negli attuali equilibri societari e
finanziari del basket femminile, tiene propriamente conto anche di questi elementi e cerca di porre un limite ai casi più evidenti di
iniquità al perdurare di un vincolo sportivo contro la volontà degli interessati, quando si risolve in un manifestamente iniquo limite
alla libertà contrattuale delle atlete» , nonché il carattere recessivo sul piano dei valori costituzionali dell’istituto.
71
Così il combinato disposto dell’ art.32 bis delle NOIF ed art.36 del Regolamento Lega Nazionale Dilettanti.Così anche la
Federazione Italiana Pallacanestro che con delibera n.320 del 17 luglio 2003 ha introdotto lo svincolo automatico al compimento del
trentaduesimo anno di età.
72
Delibera del Consiglio Nazionale del Coni adottata il 24 marzo 2004 in tema di «Principi fondamentali degli Statuti delle
Federazioni Sportive Nazionali ,delle Discipline Sportive Associate e delle Associazioni Benemerite»
73
Così la FIPAV in sede di adeguamento statutario alle direttive del CONI in sede di assemblea nazionale straordinaria del 7
novembre 2004 ha previsto lo svincolo automatico al compimento del ventiquattresimo anno di età, la durata quinquennale del
vincolo tra i ventiquattro ed i trentaquattro anni di età.
- 58 -
Il profilo temporale del vincolo,per quanto rilevante, rappresenta sempre e comunque un
corollario al diritto di recedere dal contratto associativo giusto disposto dell’art.24 c.c..
Occorre in altri termini domandarsi se
possa
ritenersi compatibile con il disposto
codicistico e risponda alla funzione del contratto associativo in ambito sportivo una normativa
tendente al differimento dell’efficacia dell’atto di recesso per un arco temporale eccessivamente
ampio per quanto predeterminato.
In punto di fatto esemplificativamente dal combinato disposto degli artt.32 e 32bis delle
Norme Organizzative Interne della FIGC il «giovane dilettante» che al compimento del
quattordicesimo anno di età si sarà vincolato con una società affiliata alla Lega Nazionale Dilettanti,
avrà come prospettiva quella di «svincolarsi»decorsi circa undici anni.
La valutazione della validità di una siffatta clausola contrattuale che escluda l’esercizio del
diritto di recesso da un’associazione per un termine determinato è secondo l’autorevole indirizzo
della Corte di Cassazione74 «subordinata alla verifica della sussistenza di un termine compatibile
con la natura e la funzione del contratto associativo e dall’altra alla insussistenza di lesione di diritti
costituzionalmente garantiti».
Tali sommarie annotazioni lasciano presagire la parzialità ed insufficienza degli interventi
posti in essere e la necessità di una più ampia riflessione che tenda a superare la prospettiva
amministrativistica che attraverso il meccanismo imperniato sul collegamento tesseramento-vincolo
e dietro il rilievo civilistico attribuito non già alla persona dell’atleta quanto alla res commerciabile
rappresentata dal c.d. cartellino quale espressione documentale del vincolo, celante sul piano
sociologico una visione essenzialmente “paternalistica” del rapporto tra società ed atleti, attraverso
il pieno riconoscimento in ambito non professionistico del principio di libertà nell’ svolgimento
dell’attività sportiva di cui all’art.1 L.91/81,sin dalle fasi di accesso75 , che salvo la necessaria tutela
74
Cass., 4 giugno 1998, n.5476, in Giur.it.,1999, pag.488. Occorre sottolineare come l'esorbitanza del termine, rispetto agli scopi
associativi, non sia da valutarsi in re ipsa, quanto piuttosto in relazione al carattere delle posizioni coinvolte dall'accordo associativo
considerando l'eventualità di un'incidenza su diritti indisponibili della clausola di rinuncia al recesso in relazione agli effetti prodotti
dal
perdurare
del
rapporto
associativo.
Il differimento della facoltà di recesso potrebbe tradursi in una menomazione o compressione delle libertà Costituzionali.
Quando invece l'associazione abbia compiti e fini esclusivamente economici, la menzionata evenienza deve essere in radice negata,
rientrando nell'autonomia contrattuale dei partecipanti la fissazione della durata di diritti ed obblighi disponibili, in armonia con la
causa negoziale.
75
Non può tralasciarsi sul punto come una sommaria analisi delle normative federali, in ambito propriamente dilettantistico,
testimoniano infatti, in alcuni settori, una situazione non commendabile in virtù della quale le possibilità di accesso ad attività di
carattere amatoriale-dilettantistico (anche a livello giovanile) appaiono fortemente limitate ed ostative al processo di integrazione
sociale dei cittadini comunitari ed extracomunitari ponendosi non solo limiti numerici al tesseramento, ma anche imponendosi
condizioni discriminatorie fondate sulla residenza minima.
Se infatti si riconosce al tesseramento ai fini dello svolgimento di un’attività amatoriale- dilettantistica, carattere di negozio adesivo
ad un’associazione occorrerà esaminare se le federazioni sportive possano porre dei limiti ingiustificati all’ingresso
nell’organizzazione federale di individui che intendano svolgere attività sportiva a fini ricreativi o moderatamente agonistico senza
che essa assuma carattere lavorativo alla luce del principio di non discriminazione, informatore degli statuti federali ai sensi dell’art.
16 del d. lgs. 242/99, e più in generale delle norme imperative, di ordine pubblico e buon costume.
Quanto ai cittadini comunitari,aldilà del potenziale rilievo economico delle prestazioni rese da sportivi formalmente dilettanti (Corte
di giustizia, 11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97, Deliege, in Il Lav. nella Giur., 2001, pag. 236) in linea generale non è
da escludersi la operatività del principio di non discriminazione nell’accesso all’esercizio di attività sportive dilettantistiche, se si
considera infatti l’idoneità della pratica sportiva a fungere non solo da mezzo per lo sviluppo fisico e psichico dell’individuo ma
anche e soprattutto come mezzo per una piena integrazione del cittadino comunitario migrante; si potrebbe a riguardo argomentare
- 59 -
degli interessi societari e le peculiarità delle singole discipline, miri alla totale liberazione
dell’universo dilettantistico.76
In tale processo un ruolo fondamentale è rivestito dalla corretta valutazione delle
implicazioni d’ordine costituzionale dell’esercizio dell’attività sportiva .
L’incidenza su libertà incomprimibile dovrebbe suggerire infatti soluzioni tese alla massima
garanzia dell’associato
e comunque al coordinamento razionale tra il diritto negativo di
associazione del singolo ed quelli della compagine associativa. D’ala cittadinanza spagnola dell’atleta, pur esti
ultimi esercitino attività economiche ai senti dell’art. 2 del Trattato” dalla quale sarebbe scaturito, prescindendo dalla qualificazione in e
della volontà della società e dell’atleta, se lo sportivo svolga un’attività realmente dilettantistica in quanto connotata da scopi
meramente ludico-agonistici o un’attività che si differenzi da quella Inoltre alla luce della cittadinanza comunitaria del ricorrente, pur
ammettendo
DOMENICO ZINNARI, dottore in Giurisprudenza
che la persona avente titolo per soggiornare nel territorio di uno Stato membro infatti possa far valere anche il diritto ancillare di
svolgere attività sportiva, anche a soli scopi ludici, salutistici, ricreativi, in condizioni di parità con i cittadini dello Stato ospitante
nell’ottica dell’effetto utile della libertà di movimento.Sul punto Corte di Giustizia, 7 marzo 1996, causa C-334/94, Commissione c.
Francia, in Racc., 1996, pag. 1307.
In questo senso d’altra parte si espressa la Commissione nell’ambito della Relazione di Helsinki, a fronte della unitaria posizione
delle federazioni sportive dell’area comunitaria che ritengono applicabili le norme comunitarie ai soli settori professionistici, vi è la
affermazione che la pratica dello sport costituisce uno dei benefici sociali che devono esser riconosciuti ai cittadini comunitari che
decidono di stabilirsi in u altro stato membro ma altresì che le limitazioni che si basino sulla nazionalità non sono compatibili con lo
status di cittadino europeo.
La riconosciuta funzione sociale dello sport, ed in particolare dello sport puramente dilettantistico, come anche sottolineato dalla
Dichiarazione sullo sport allegata al Trattato di Amsterdam,il richiamo allo sport nell’ambito della Costituzione Europea dovrebbe
conseguenzialmente indurre, considerando anche il regime sostanzialmente monopolistico anche in ambito dilettantistico di gestione
dell’attività sportiva da parte delle Federazioni sportive, alla rimozione delle clausole di nazionalità e dunque riconoscere il diritto
all’accesso alla pratica sportiva a cittadini comunitari in condizione di parità.
Non sorprende pertanto il recente intervento della Commissione Europea che ha provveduto a dar corso ad una procedura
d’infrazione nei confronti del Governo spagnolo causa la presenza nell’ambito dei regolamenti della Real Federazione Spagnola di
calcio di preclusioni all’accesso all’attività sportiva dilettantistica di atleti di nazionalità comunitaria.
Per ampi riferimenti E.CROCETTI BERNARDI,La libera circolazione in Europa degli sportivi comunitari ed extracomunitari in Lo
sport e il diritto.Profili istituzionali e regolamentazione giuridica ,Napoli,2004, pag.93 seg.
76
Dovrebbe a riguardo addivenirsi ad una riduzione del vincolo sportivo al termine annuale o biennale coincidente con il decorrere
della stagione sportiva, sviluppando a riguardo dei meccanismi di compensazione che garantisca un virtuoso flusso di danaro nelle
casse sociali delle società sportive dilettantistiche che abbiano curato la formazione dell’atleta nell’ipotesi di trasferimento dello
stesso ed entro un congruo arco temporale .
Meccanismi operanti in senso verticale con redistribuzione della ricchezza in forma di mutualità,ed orizzontali nelle forme di
indennità parametrate da versarsi in sede di nuovo tesseramento.
- 60 -
IL TESSERAMENTO TRA POTESTA’ GENITORIALE E DIRITTI DEL MINORE
Ambiguità dell’art. 39 NOIF della Federcalcio - – Non costituisce atto di straordinaria
amministrazione - Tesseramento del minore in potestate - Inesistenza di risvolti patrimoniali –
Natura di atto a carattere strettamente personale quale scelta esistenziale con valenza
educativa – Sufficienza della sottoscrizione di un solo genitore ai sensi dell’art. 147 c.c.
L’art. 39 NOIF della Federcalcio alla luce dell’art. 320 c.c. –- Natura di atto di
straordinaria amministrazione e comunque limitativo dei diritti del minore - Tesseramento
del minore in potestate - Necessità della firma congiunta di entrambi i genitori.
DEFERIMENTO DA PARTE COMMISSIONE TESSERAMENTI
Nei confronti di:
•
della calciatrice Zugno Elisa
•
della società A.C. Valmarana – Attività Calcio Femminile – Campionato Serie C.
•
del Sig. De Zuanne Sergio – Presidente pro-tempore Società A.C. Valmarana
La Commissione Tesseramenti della F.I.G.C., con atto del 29.1.2004, deferiva dinanzi alla
Commissione Disciplinare, in seguito a delibera apparsa sul proprio Comunicato n. 10/D del
17/10/2003:
•
la calciatrice Zugno Elisa
per aver segnalato tardivamente l’irregolarità della mancanza della firma, sull’atto del
tesseramento, della madre (essendo la Zugno all’epoca minorenne) per un fine strumentale, dal
momento che la stessa, comunque, a seguito di detto tesseramento, ha disputato per ben tre stagioni
sportive il Campionato di Serie “C” Regionale di attività femminile per l’A.C. Valmarana;
•
il Sig. De Zuanne Sergio – Presidente pro-tempore dell’A.C. Valmarana
Presidente pro-tempore, alla data di sottoscrizione del tesseramento della calciatrice Zugno
Elisa, per infrazione all’art. 8 del C.G.S. in quanto le modalità attinenti al tesseramento dell’atleta
predetta non si sono svolte conformemente alle disposizioni federali, così violando il combinato
disposto dell’art. 39 delle NOIF;
•
la Società Associazione Calcio Valmarana
- 61 -
per violazione dell’art. n. 8 e n. 9 del C.G.S in quanto responsabile, a titolo di responsabilità
oggettiva, per l’inadempienza e acquiescenza della Società, in quanto le modalità attinenti al
tesseramento dell’atleta predetta non si sono svolte conformemente alle disposizioni federali, così
violando il combinato disposto dell’art. 39 delle NOIF.
Vista la decisione della Commissione Tesseramenti di cui in premessa;
sentito il Sig. De Zuanne Sergio, Presidente pro-tempore della Società A.C. Valmarana
(anche all’epoca del fatto oggetto del giudizio);
sentita la calciatrice Zugno Elisa (attualmente tesserata con la società C.F. Vicenza Calcio
Femminile);
la Commissione Disciplinare rileva quanto segue:
Questa Commissione è stata investita, dalla Commissione dei Tesseramenti
in sede
requirente, dell’applicazione di sanzioni disciplinari nei confronti di una società, del suo presidente
e del tesserato, in quanto alla richiesta di tesseramento si era proceduto senza la firma di entrambi i
genitori, esercenti la potestà parentale.
La Commissione Tesseramenti, in sede deliberante, infatti, aveva pronunciato, con decisione
passata in giudicato, l’annullamento del tesseramento di una minore, su ricorso della stessa, in
quanto nella domanda era assente la sottoscrizione, nella specie, della madre.
La decisione era motivata nel senso che, per effetto dell’art. 39 delle NOIF, letto alla luce del
disposto dell’art. 320 comma 1 c.c., la validità della domanda di tesseramento è subordinata alla
sottoscrizione di entrambi i genitori (salvo i casi in cui, per impossibilità, provvedimento
dell’autorità giudiziaria o altro impedimento, non si debba ritenere che l’esercizio della potestà
parentale spetti ad uno solo dei genitori od a terzi). Ciò perché, in conseguenza del vincolo che
scaturisce dal tesseramento, esso deve ritenersi atto di straordinaria amministrazione. Nello stesso
senso ebbe modo d’esprimersi anche CAF nel Comunicato Ufficiale n. 9/C p. 3 del 14.10.99.
Poiché questa Commissione non ritiene condivisibile detto orientamento, conseguente ad una
fuorviante impostazione del problema, propone alla Corte Federale, nella veste d’Organo consultivo
ed interprete di legittimità, i seguenti quesiti:
1) se deliberazioni della Commissione Tesseramenti, che pronunciano l’annullamento del
tesseramento per violazione delle norme che lo regolano, debbano ritenersi vincolanti anche ai fini
della pronuncia dei provvedimenti disciplinari.
Si premette che questa Commissione va di diverso avviso, sia perché la norma sanzionatoria
ha una sua sfera d’applicazione, assolutamente autonoma, rispetto a quella che disciplina il giudizio
- 62 -
di validità degli atti; sia perché un diverso orientamento mai si concilierebbe con la diversa
competenza e funzioni attribuite alle due Commissioni. Quella Tesseramenti ha, infatti, competenza
esclusiva sulla validità dei tesseramenti, nel cui ambito agisce in sede deliberante, mentre per
quanto riguarda l’applicazione delle sanzioni, essa ha funzioni requirenti, nel senso che rileva la
presumibile illiceità dei comportamenti, ma ne propone la valutazione a quella Disciplinare.
In diversa ipotesi, infatti, l’ordinamento sportivo avrebbe rimesso alla medesima
Commissione Tesseramenti l’applicazione delle conseguenti automatiche sanzioni.
2) Ove dovesse ritenersi fondata la posizione di questa Commissione, nel senso di essere
assolutamente
autonoma
nella
valutazione
dell’illecito,
ferma
restando
l’efficacia
dell’annullamento, pronunciato dalla Commissione Tesseramenti, si sottopone alla Corte Federale
quello che si ritiene l’orientamento più conforme all’ordinamento vigente, circa l’esigenza della
sottoscrizione d’entrambi i genitori sulla domanda di tesseramento, a fronte della lettera della norma
(art. 39), la quale richiede la sottoscrizione del genitore (al singolare) esercente la potestà.
Per quanto riguarda l’orientamento seguito dalla Commissione Tesseramenti, esso sembrava
trovare fondamento nel comunicato 29.12.88 n. 26 del Comitato Regionale Veneto, che riporta una
comunicazione F.IG.C., secondo la quale la richiamata norma andrebbe interpretata alla luce del
combinato disposto degli artt. 318 comma 2 c.c., per cui “la potestà genitoriale è esercitata da
entrambi i coniugi”, e dell’art. 320 comma 1 c.c., per il quale i genitori rappresentano
congiuntamente i figli in tutti gli atti civili e nell’amministrazione dei beni.
Il contenuto della prima norma è, tuttavia, riportato con formulazione imprecisa, nel senso
che non afferma che la potestà è esercitata da entrambi i coniugi, ma piuttosto che essa è esercitata
di comune accordo da entrambi i coniugi. Essa norma, quindi, riguarda la formazione della volontà
parentale da manifestare nei confronti del figlio, che deve essere il risultato di un’elaborazione
decisionale, assunta dopo un confronto fra i coniugi circa l’interesse del minore. Tant’è che, se i
genitori non raggiungono l’accordo, ferma la prevalenza del padre nei casi d’urgenza, il contrasto
viene proposto al giudice della famiglia, il quale deve – dato non irrilevante ai fini del nostro
discorso – sentire il figlio, che abbia compiuto i 14 anni, ed indicare i provvedimenti che ritiene più
idonei nell’interesse del figlio e dell’unità della famiglia e, ove permanga il contrasto, attribuisce il
potere decisionale a quello dei genitori, che reputa più idoneo a perseguire l’interesse del figlio
(commi 2 e 4).
Diverso è, invece, il problema attinente alla rappresentanza all’esterno della volontà
parentale, che è disciplinato dall’art. 320 comma 1 c.c. il quale, tuttavia, detta due regole
fondamentali: una per gli atti di straordinaria amministrazione e per quelli che concedono o
acquistano diritti personali di godimento, per i quali la rappresentanza è congiuntiva; quelli
d’ordinaria amministrazione, per i quali la rappresentanza è disgiuntiva.
- 63 -
Esclusi gli atti di concessione od acquisto di diritti personali di godimento, di per sé
d’ordinaria amministrazione ma sottoposti al regime proprio della straordinaria, il discrimine tra
quelli d’ordinaria e di straordinaria amministrazione è dato esclusivamente dall’effetto che essi
producono nel patrimonio del minore. Ciò solo basta ad evidenziare come questo criterio, agli
effetti della validità del tesseramento, sia assolutamente inadeguato, poiché il tesseramento stesso,
rispetto al patrimonio del minore, è atto assolutamente neutro.
Né vale il riferimento, che spesso si opera, alla conseguenza che il tesseramento produrrebbe
nei confronti del minore, sottoponendolo ad un vincolo di durata tale da incidere profondamente
sulla sua libertà di determinazione e d’iniziativa, con conseguenze anche patrimoniali, poiché si
tratta d’impostazione fuorviante. Il tesseramento, più che un peso, è una garanzia del minore, al
quale consente lo svolgimento dell’attività sportiva in un ambito fortemente regolamentato e
protetto, nel quale le sue doti naturali vengono valorizzate e gli viene impartita un’istruzioneeducazione idonea a farlo progredire, nell’ambito delle sue capacità, fino a fare dello sport una
professione remunerativa.
È possibile, quindi, sostenere che il “tesseramento” costituisca un rapporto plurilaterale a
formazione progressiva. Inizia, infatti, tra il minore che intende esercitare un’attività sportivoricreativa, e la società che si è organizzata per consentire lo svolgimento di tale attività, non
semplicemente come passivo osservatore, ma piuttosto come attivo formatore del minore sotto il
profilo fisico, psichico e tecnico. Deve infatti dolersi, oltre che della disponibilità delle strutture,
nelle quali svolgere l’attività, anche di mezzi (per es. di trasporto) e di allenatori o preparatori fisici
e tecnici. Un altro degli aspetti organizzativi, e non secondario, è l’adesione alla Federazione, la
quale ha la funzione di vigilare, su piani territoriali diversi, a che l’attività sportiva venga svolta
sotto il presidio di norme ben precise, poste a tutela di tutti coloro che partecipano alle
manifestazioni organizzate sotto la sua egida.
Il minore, quindi, chiede, a sua volta, di svolgere l’attività sportiva nell’ambito della tutela
sopra richiamata, che determina il sorgere di precisi doveri della società calcistica nei suoi
confronti, la quale li esplica – non è aspetto secondario – a titolo gratuito. Infine il tesseramento
impone al tesserato un vincolo, per il quale non può passare da una società affiliata ad altra
liberamente, cioè senza il consenso di quella con la quale risulta essere tesserato. Questo vincolo, in
realtà, può essere accostato ad un divieto di concorrenza sleale, nel senso che le risorse che la
società d’appartenenza ha investito sul minore, non vadano a vantaggio d’altra società, sempre
affiliata alla Federazione, senza alcun riconoscimento.
Il vincolo, peraltro, non costituisce una forma di coercizione assoluta, come taluno vorrebbe
far credere, sia perché sono espressamente previsti motivi di scioglimento (artt. da 106 a 113
NOIF); sia perché il tesserato è libero in ogni momento di sottrarvisi, continuando a praticare lo
- 64 -
stesso sport fuori dell’area protetta dalla Federazione, o di cambiare sport affiliandosi ad altra
struttura protettiva.
Da un tanto, la conclusione è che il tesseramento non costituisce per nulla un atto di
straordinaria amministrazione, sia perché il contenuto patrimoniale gli è assolutamente estraneo; sia
perché non determina un vincolo irreversibile e di lunga durata, pregiudizievole per la libertà
d’iniziativa.
Quindi la volontà fondamentale, che deve concorrere al tesseramento, è quella del minore,
trattandosi di questione di carattere strettamente personale e priva di conseguenze dirette sul suo
patrimonio.
La sottoscrizione del genitore esercente la potestà, dunque, non può essere vista alla stregua
del disposto dell’art. 320 c.c., che renderebbe inutile quella del minore, ma come presa d’atto da
parte dei genitori dell’aspirazione del figlio, adesione a detta aspirazione ed affidamento – aspetto
assai rilevante nella determinazione della responsabilità della società nei confronti di un minore e
della sua famiglia – del minore stesso alla società durante il tempo necessario per l’esercizio
dell’attività sportiva.
L’assenso dei genitori, che siano in ciò concordi, può essere manifestato all’esterno da uno
qualsiasi di loro; in caso di disaccordo tra loro, il conflitto potrà essere risolto con le modalità
previste dall’art. 316 c.c., ma non certo dopo tre anni d’esercizio dell’attività, dovendosi tale
accordo presumere. In caso di conflitto del minore con i genitori, la soluzione è rimessa al giudice
con le forme previste dall’art. 333 c.c..
L’ordinamento positivo, peraltro, stabilisce degli spazi d’autonomia nelle scelte del minore
di contenuto ben più pregnante:
- art. 2 L. 194/78 consente ai minori la somministrazione su prescrizione medica nelle
strutture sanitarie e nei consultori dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in
ordine alla procreazione responsabile;
- art. 1 L. 18.6.1986 n. 281 attribuisce agli studenti della scuola secondaria superiore, quindi
d’età superiore ai 14 anni, l’esercizio del diritto di scegliere se avvalersi dell’insegnamento della
religione cattolica;
- art. 108 L. 22.4.1941 stabilisce che l’autore, che ha compiuto i 16 anni, ha la capacità di
compiere tutti gli atti giuridici relativi alle opere da lui create e di esercitare le azioni che ne
derivano;
- art. 2 comma 2 c.c. nel far salve le leggi speciali, che consentono al minore lo svolgimento
d’attività lavorativa, stabilisce che in tal caso è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che
dipendono dal contratto di lavoro;
- 65 -
- art. 609 quinquies c.p. prevede la corruzione di minore soltanto per gli infra-quattordicenni
posto in reiezione anche con l’art. 609 quater c.p., che stabilisce l’irrilevanza penalistica degli atti
sessuali non violenti, che vedano come partecipe una persona che abbia compiuto i 14 anni,
consente di ritenere che coloro che abbiano compiuto i 14 anni, abbiano una libertà assoluta
nell’attività sessuale.
Appare allora evidente che il tesseramento, consentito ai minori che abbiano compiuto i 14
anni d’età (art. 32 NOIF), collocandosi nell’ambito delle ipotesi sopra formulate, potrebbero da soli
chiedere efficacemente il tesseramento.
Questo essendo l’orientamento di questa Commissione, si rimette la questione ex art. 22
comma 1 lett. A) C.G.S. alla Corte Federale, perché renda l’interpretazione autentica dell’art. 39
NOIF, al fine d’evitare il contrasto di giudicati.
P.Q.M.
La C.D., in attesa del pronunciamento della Corte Federale adita, delibera di lasciare in
sospeso ogni decisione in merito al deferimento esposto in oggetto.
- 66 -
FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO
00198 ROMA – VIA GREGORIO ALLEGRI, 14
CASELLA POSTALE 2450
_________
COMUNICATO UFFCIALE N. 2/Cf
(2004/2005)
La Corte Federale, composta dai sigg. ri:
Dott. Pasquale de LISE
- Presidente
Avv. Salvatore CATALANO
- Componente
Prof. Carlo MALINCONICO
- Componente
Prof. Piero SANDULLI
- Componente
Prof. Mario SANINO
- Componente
Prof. Mario SERIO
- Componente
Prof. Silvio TRAVERSA
- Componente
Avv. Mario VALITUTTI
- Componente
assistita per la Segreteria dal Dott. Massimo Nocente;
nella riunione tenuta in Roma il 12 luglio 2004, ha adottato le seguenti decisioni le cui
motivazioni qui di seguito si trascrivono:
1.
RICHIESTA
DELLA
COMMISSIONE
DISCIPLINARE
PRESSO
IL
COMITATO REGIONALE VENETO L.N.D. DI INTERPRETAZIONE DELL’ART. 39
DELLE NOIF.
IN FATTO ED IN DIRITTO
1. Con decisione del 17 ottobre 2003, pubblicata nel Com. Uff. n. 10/D, la Commissione
Tesseramenti dichiarava nullo il tesseramento della calciatrice Elisa Zugno per l’A.C. Valmarana, in
quanto privo della firma di uno dei genitori dell’atleta, minorenne all’atto della sottoscrizione, e
deferiva, ai sensi degli artt. 8 e 9 del Codice di giustizia sportiva, quest’ultima, la società e il suo
Presidente in quanto “la attività attinenti al tesseramento del calciatore non si sono svolte
conformemente alle disposizioni federali.”
- 67 -
Investita del conseguente giudizio, la Commissione Disciplinare presso il Comitato
Regionale Veneto chiedeva a questa Corte, ai sensi dell’art. 22 comma 1, lett. a) del Codice di
giustizia sportiva, “al fine di evitare contrasto di giudicati”, di esprimere il proprio parere circa la
vincolatività per il Giudice disciplinare delle pronunce di nullità di tesseramento per violazione
delle regole rilevanti effettuate dalla Commissione Tesseramenti, la stessa Commissione chiedeva,
inoltre, alla Corte di pronunciarsi in via interpretativa sull’art. 39 delle NOIF circa la necessità della
sottoscrizione della richiesta di tesseramento del calciatore minore di età da parte di entrambi i
genitori, piuttosto che di uno solo di essi, come – ad avviso della Commissione remittente –
potrebbe arguirsi dal tenore letterale della disposizione citata.
2.Ciò premesso, la Corte rileva: quanto al primo quesito, che la competenza della
Commissione Tesseramenti copre l’area dell’accertamento della conformità del singolo
tesseramento alle norme federali, con la conseguente adozione dei necessari provvedimenti in
relazione alla fattispecie di irregolarità. Alla stessa Commissione è poi attribuito il deferimento ai
competenti organi disciplinari dei tesserati e delle società che abbiano partecipato alla vicenda da
cui il tesseramento irregolare ha tratto origine (art. 44 c.g.s.).
Ora, è indiscutibile che, nel sistema del giudizio disciplinare federale, soltanto all’organo
decidente sia riservato il potere di accertamento della responsabilità e di determinazione della
sanzione appropriata, nel rispetto delle forme, delle procedure e delle garanzie dettate per il relativo
procedimento.
Quel che del giudizio pronunciato dalla Commissione Tesseramenti rileva, ai fini del
giudizio disciplinare conseguente al deferimento, e che vincola lo stesso giudice disciplinare è
soltanto l’accertamento di fatto (con la relativa valutazione giuridica) compiuto, ai fini della verifica
della regolarità del tesseramento, dalla Commissione stessa, sempre che la relativa pronuncia sia
divenuta irrevocabile. È, invece, del tutto integro il potere del Giudice disciplinare di trarre dal fatto
storico, ormai definitivamente accertato, la valutazione sul piano disciplinare delle condotte degli
incolpati, senza che la pronuncia di nullità del tesseramento comporti automaticamente ed
incondizionatamente l’affermazione di responsabilità o anche un giudizio di insussistenza di cause
esimenti, escludenti o attenuanti la stessa.
Pertanto, da un lato deve escludersi che alla Commissione Tesseramenti sia conferita, in
contrasto con le disposizioni che ne regolano il funzionamento, anche la cognizione disciplinare sui
comportamenti da cui hanno tratto origine i tesseramenti, in aggiunta a quella tipica relativa alla
validità e regolarità dei tesseramenti stessi; dall’altro lato, la Commissione disciplinare non può
valutare autonomamente i fatti sui quali si è pronunciata la Commissione Tesseramenti,
considerando regolare un tesseramento ritenuto irregolare dalla Commissione stessa, o viceversa.
- 68 -
Da quanto sin qui detto, è agevole concludere che il piano dell’accertamento della regolarità
del tesseramento va tenuto distinto da quello della valutazione della condotta, rientrando il primo
nella competenza propria della Commissione Tesseramenti ed essendo la seconda esclusivamente
riservata alla fase del giudizio disciplinare.
3. Passando alla questione interpretativa dell’art. 39 delle NOIF è da osservare, in primo
luogo, che la norma dispone, nella parte che qui rileva, che la richiesta di tesseramento debba essere
sottoscritta dal calciatore “e, nel caso di minore, anche dall’esercente la potestà genitoriale”.
La prassi applicativa della disposizione è stata nel senso che i moduli di tesseramento e dei
contratti professionistici di calciatori minori di età debbano essere sottoscritti da entrambi i genitori;
la relativa fonte è costituita dalla circolare del Segretario Federale del 7 novembre 1988 che pone in
rilievo che “il vincolo (da tesseramento o da contratto) che grava sul calciatore rappresenta pur
sempre una limitazione di libertà, come tale certamente ascrivibile alla straordinaria
amministrazione, e la contestazione che quel vincolo impinge anche nei più ampi concetti di
affidamento, educazione e disciplina del figlio, certamente estranei alla natura patrimoniale
dell’ordinaria amministrazione.”
Analogamente la giurisprudenza della C.A.F. è nel senso che costituisca causa di nullità del
tesseramento del calciatore minore di età la circostanza che la relativa richiesta non sia stata
sottoscritta da entrambi i genitori, sotto il profilo del carattere vincolante della circolare prima
illustrata (cfr. C.A.F. 14.10.1999 in Com. Uff. n. 9/C).
Lo stesso avviso è stato espresso nel giudizio da cui ha preso le mosse l’odierna vicenda
dalla Commissione Tesseramenti, secondo cui “ai fini della validità della richiesta di tesseramento
alla F.I.G.C. di un calciatore minore di età è necessario, in relazione al combinato disposto dell’art.
39 delle NOIF e dell’art. 320 c.c., che la predetta richiesta sia sottoscritta da entrambi i genitori
esercenti congiuntamente la potestà genitoriale”.
Ad avviso della Corte, è esatta l’interpretazione dell’art. 39 delle NOIF nel senso prima
indicato e costantemente seguita, che esige la sottoscrizione da parte di entrambi i genitori della
richiesta di tesseramento del calciatore minore di età.
A tale soluzione conducono sia il tenore della norma federale in esame che le disposizioni
rilevanti del diritto comune.
L’art. 39 citato si esprime, infatti, nel senso che la sottoscrizione debba provenire anche
“dall’esercente la potestà genitoriale”.
Ora, l’individuazione di questa categoria di soggetti giuridici non può che essere affidata al
diritto comune ed, in particolare, all’art. 316 c.c. (intitolato “Esercizio della potestà dei genitori”), il
cui secondo comma prevede che “la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori”.
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A questa stregua, è subito evidente che l’uso da parte del legislatore federale al singolare
dell’espressione “esercente la potestà genitoriale” non può affatto leggersi, al contrario di quanto
ritenuto dalla Commissione remittente, come manifestazione della volontà di contraddire
l’ordinamento civilistico (peraltro inderogabile in considerazione della natura indisponibile dei
diritti oggetto della relativa disposizione), ma come semplice sintesi verbale della nozione fissata
dall’art. 316, secondo comma, citato.
Sempre seguendo la inderogabile ed imperativa norma codicistica, è agevole rilevare che
assume carattere straordinario l’ipotesi di esercizio disgiunto della potestà genitoriale, che consegue
unicamente alla designazione, da parte del Giudice ed in relazione a questioni di particolare
importanza, del genitore titolare del potere di decisione nel singolo caso. Ciò comporta che ad un
tesseramento sottoscritto da uno solo dei genitori potrebbe validamente pervenirsi solo ove
ricorresse il caso di contrasto descritto e disciplinato dagli artt. 316 c.c. e seguenti, e non nella
fisiologia dei rapporti tra i genitori e tra di essi ed i figli.
Vi è poi da considerare che, in materia di compimento di atti negoziale concernenti i minori,
l’art. 320 c.c. prevede che solo gli atti di ordinaria amministrazione, ad eccezione di quelli con i
quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possano essere compiuti
disgiuntamente da ciascun genitore. Tutti gli altri atti vanno, in simmetrica coerenza con la regola
dell’esercizio congiunto della potestà genitoriale posta dall’art. 316 c.c. citato, posti in essere
congiuntamente da entrambi i genitori.
Ora il tesseramento di un calciatore implica una serie di effetti giuridici di sicura rilevanza
per l’atleta, sia in termini di esecuzione di prestazioni sportiva, sia in termini di individuazione del
soggetto a cui favore renderle, sia in termini di modalità e garanzie dei successivi trasferimenti o
tesseramenti.
Ed inoltre, il tesseramento comporta una sorta di scelta esistenziale per il minore, nel senso
che la destinazione di una quota significativa delle sue energie e del suo tempo ad una attività
sportiva determina il rischio di un suo possibile disimpegno scolastico e legittima, anzi rende
doveroso, il concorso della volontà di entrambi i genitori, nell’irrinunciabile esercizio della propria
potestà.
Questo basta per dire che, certamente, il tesseramento esula dalla categoria di atti per i quali
è possibile una rappresentanza disgiunta dei genitori e rientra in quella più ampia e comprensiva di
atti incidenti tanto sul patrimonio (nel senso civilistico di aggregazione di posizioni giuridiche attive
e passive), quanto sulla persona del minore, per il valido compimento dei quali è necessario il
concorso della volontà di entrambi i genitori, da palesarsi attraverso la sottoscrizione congiunta
della relativa richiesta.
- 70 -
P.Q.M.
la Corte Federale, sulla richiesta come in epigrafe formulata dalla Commissione Disciplinare
presso il Comitato Regionale Veneto, esprime l’avviso che:
1.
le decisioni della Commissione Tesseramenti, che dichiarano la nullità dei
tesseramenti per difformità dalle disposizioni che regolano la materia, vincolano il Giudice
disciplinare cui siano stati deferiti le società ed i tesserati, ai sensi dell’art. 44, comma 4, del Codice
di Giustizia Sportiva, esclusivamente quanto agli accertamenti di fatto in esse contenuti, a
condizione che si tratti di decisioni irrevocabili;
2.
la richiesta di tesseramento di calciatori minori d’età deve essere sottoscritta da
entrambi i genitori.
SOMMARIO:
Le questioni di giustizia endoassociativa evocate dalle decisioni in commento.
L’emersione delle tematiche relative al tesseramento minorile e la posizione della F.I.G.C.
Le disfunzioni della firma congiunta e le nullità strumentali: la prospettiva endoassociativa.
I diritti del minore tra sistema codicistico e nuove frontiere.
L’attuale panorama regolamentare, le ragioni dell’uniformità e l’inopportunità della firma
congiunta.
1) Le questioni di giustizia endoassociativa evocate dalle decisioni in commento.
Le vicende evocate dalle decisioni in commento attengono esclusivamente al sistema
giudiziale della FIGC il quale, per essere di gran lunga il più articolato e complesso tra quelli delle
altre F.S.N., si presta perciò a considerazioni suscettibili senz’altro di più generalizzata
applicazione.
Gli organi di giustizia tra pariordinati (DE SILVESTRI 2000, pp. 507 ss.), che non vedono
cioè come parti in causa le stesse federazioni, ma tesserati e affiliate di queste tra loro (è il caso
delle controversie di tesseramento quale quella da cui prende spunto l’intera vicenda), hanno dei
doveri funzionalmente assimilabili a quelli di denuncia di reato dei giudici statuali, e questo spiega
perchè la Commissione Tesseramenti, facendo applicazione dell’art. 44 comma 4 del C.G.S., abbia
deferito calciatrice, presidente e società innanzi alla competente Commissione Disciplinare del
Comitato Regionale Veneto per rispondere dei relativi illeciti disciplinari astrattamente ipotizzati.
Occorre ancora segnalare come i sistemi disciplinari delle varie federazioni non si fondino
necessariamente su illeciti tipizzati e puntualmente descritti, e come non viga affatto, per essi, il
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principio penalistico del nullum crimen sine lege. Ne costituisce riprova, al proposito, l’esistenza di
una norma, sussidiaria e di chiusura, cristallizzata nell’art. 1 comma 1 CGS della federazione
calcistica, ma prevista immancabilmente da tutte le altre, sintetizzabile nel dovere di ispirare
comunque la propria condotta a canoni di lealtà e correttezza, che non descrivendo in modo
analitico e specifico il comportamento da osservare, finisce col rimettere agli organi federali la
formulazione di concreti capi di incolpazione e, in ultima analisi, la stessa eventuale irrogazione di
sanzioni (DE SILVESTRI 2004, p.114).
Nella specie il deferimento è avvenuto, come si desume dalla parte espositiva della
decisione della Commissione Disciplinare, per la violazione dell’art. 8 del CGS (l’art. 9, pure
ulterirmente citato, si riferisce solo all’estensione di responsabilità per le società) il quale, al comma
2, genericamente prevede che le attività di tesseramento debbano “essere svolte conformemente alle
disposizioni federali e ai regolamenti delle Leghe”.
La norma regolamentare violata, si legge ancora, sarebbe costituita dall’art. 39 della NOIF, il
quale prescrive al secondo comma che, nel caso di tesseramento di minori, la relativa richiesta
debba essere sottoscritta, oltre che dal calciatore/calciatrice, “ anche dall’esercente la potestà
genitoriale”.
Si legge infine nella stessa decisione che la calciatrice Zugno Elisa, e con essa il presidente e
la società interessata, avrebbero disatteso la predetta disposizione, perché essa dovrebbe “essere
letta alla luce dell’art. 320 comma 1 c.c.” che prescriverebbe, attesa la natura di “atto di
straordinaria amministrazione” del tesseramento, la sottoscrizione di entrambi i genitori, laddove
nella specie la richiesta risultava vergata solo dal padre. Anche se, sia detto per inciso, non è dato
comprendere perché sia stato coinvolto proprio il presidente (ciò presumerebbe, infatti, un suo ruolo
personale nella vicenda di tesseramento), posto che la società risulta denunciata per responsabilità
oggettiva, e non per responsabilità diretta come sarebbe stato in tal caso coerente attendersi
(amplius, su tali temi, in DE SILVESTRI 2004, pp. 114 ss.).
La Commissione Disciplinare, pur rilevando che anche la Commissione d’Appello Federale
(CAF), ultimo grado di giustizia sportiva all’interno della F.I.G.C. con funzioni anche, per così dire,
nomofilattiche, si era pronunciata per la fondatezza di quell’assunto, ha ciononostante ritenuto di
non poterlo condividere “perché conseguente ad una fuorviante impostazione del problema”, ed ha
perciò sospeso il proprio procedimento rimettendo gli atti alla Corte Federale “perché renda
interpretazione autentica dell’art. 39 NOIF al fine di evitare contrasto di giudicati”.
Ogni F.S.N. è infatti dotata di un organo giustiziale di garanzia che, seppur diversamente
strutturato, ha comunque il potere di interpretare le norme statuatarie e regolamentari, notoriamente
ordinate tra loro secondo principi di gerarchia. Ed è il caso di osservare, al proposito, come si sia
soliti assimilare le funzioni di tale organo a quelle della Corte Costituzionale, anche se occorre
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tenere ben presente che le F.S.N. sono, per dettato legislativo, persone giuridiche di diritto privato, e
che quindi tutto il tessuto prescrittivo esistente nel loro interno è espressione di autonomia privata,
non certo pubblica. Il concetto di autonomia, infatti, non si riferisce solo a quella contrattuale, ma
si estende anche alle manifestazioni di autodisciplina, tipiche delle persone giuridiche associative,
finalizzate alla tutela di interessi collettivi pur sempre privati, ma sovraordinati per regola
organizzativa pattizia agli interessi individuali dei singoli membri (DE SILVESTRI 2004, p. 104 e,
amplius, ALVISI 2000. pp. 291 ss.).
La Commissione Disciplinare ha posto alla Corte Federale due distinti quesiti.
Il primo, relativo ai rapporti tra Commissione Tesseramenti (competente a giudicare la
validità dei tesseramenti) e organi disciplinari (competenti a irrogare sanzioni anche per le
violazioni sulle norme di tesseramento), non presentava invero difficoltà di risposta.
Appare infatti di tutta evidenza che l’accertamento operato dalla Commissione Tesseramenti
(inesistenza della sottoscrizione della madre) e le conseguenze che ne sono state tratte (nullità del
relativo tesseramento) non potevano non vincolare anche l’organo di giustizia disciplinare, pena
altrimenti un possibile contrasto di giudicati. Non si vede, infatti, come la Commissione
Tesseramenti avrebbe potuto ritenere, da un lato, la nullità del tesseramento minorile per la
violazione della norma prescrittiva asseritamente integrativa di illecito disciplinare e l’organo
giustiziale deputato ad irrogarla, dall’altro, qualificare il fatto accertato come disciplinarmente
irrilevante.
La Commissione Disciplinare poteva però, ed è questo il senso del secondo quesito posto in
via subordinata, sicuramente dubitare della legittimità dell’interpretazione data dall’altro organo di
giustizia dell’art. 39 delle NOIF, sia in considerazione del tenore letterale, che richiede al singolare
la sottoscrizione del genitore esercente la potestà, e sia perché non appariva affatto certo, al suo
vaglio, che la lettura della norma in chiave codicistica autorizzasse senz’altro, alla luce del vigente
diritto di famiglia, le conclusioni che ne erano state tratte.
La Corte Federale ha deciso di privilegiare l’opzione interpretativa secondo la quale il
tesseramento minorile esigerebbe, per la sua validità, la sottoscrizione di entrambi i genitori, ma è
tempo che la materia sia riesaminata funditus sia perché, come vedremo, non c’è affatto uniformità
di vedute tra le varie federazioni e sia perché la tradizionale e isolata posizione della Federcalcio in
favore della firma congiunta ha già conquistato, specie negli ultimi tre anni, ulteriori proseliti.
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2) L’emersione delle tematiche relative al tesseramento minorile e la posizione della
FIGC.
Le tematiche concernenti l’intervento dei genitori in tema di tesseramento minorile sono
emerse lentamente, ed in modo assai confuso.
Sino alle soglie degli anni Ottanta, quando il disinteresse dello Stato per lo sport aveva
alimentato il mito dell’autosufficienza del sistema sportivo e legittimato, di fatto, il monopolio della
giustizia endoassociativa (DE SILVESTRI 2004, p.6) le FSN, più che occuparsi delle questioni
giuridiche connesse alla posizione formale dei genitori, che apparivano peraltro riflettersi
esclusivamente sul piano civilistico, avevano in realtà preferito dedicare la loro attenzione ai più
sentiti problemi di sostanza concernenti il reclutamento del maggior numero possibile di giovani
tesserati.
Il generalizzato contesto di incertezza circa i rapporti tra prescrizioni sportive e leggi dello
Stato non autorizzava del resto prese di posizione sicure, e quand’anche le federazioni si erano
comunque determinate ad affrontare il problema, apparve naturale per esse rifugiarsi, sull’esempio
di quella pilota, nell’allora onnipotente figura paterna. Quanto sopra osservato spiega anche come
abbia potuto passare del tutto inosservato il mutamento epocale cagionato dalla riforma del diritto di
famiglia dell’ormai lontano 1975 la quale, cancellando il vetusto principio, incentrato
esclusivamente sul ruolo del padre nonostante il chiaro dettato costituzionale, che prevede invece
l’uguaglianza morale e giuridica di entrambi i coniugi (art. 29), aveva invece sancito il c.d.
esercizio diarchico della potestà genitoriale. Il mutato contesto legislativo non aveva infatti
provocato alcuna reazione, nemmeno sotto il profilo linguistico, essendosi per lungo tempo
continuato a perpetuare l’uso di termini, evidentemente incongrui e superati, quali “patria potestà”
e “assenso paterno” .
Agli inizi degli anni Novanta il panorama regolamentare delle varie Federazioni appariva
comunque assai variegato, privo di un filo conduttore comune e ispirato a “disparità di soluzioni a
dir poco disarmante” (DE SILVESTRI 1991, pp. 297 ss.).
Premesso che la diversità di soluzioni adottata non era affatto fondata sulla maggiore o
minore pericolosità della relativa pratica sportiva, accanto alla maggior parte delle FSN che
richiedevano espressamente, come condizione di validità del tesseramento dell’infradiciottenne, la
sottoscrizione per consenso di un solo maggiorenne qualificato, e cioè uno dei genitori ovvero, in
loro mancanza, del tutore, anche se erano diversamente regolate nel loro interno sia le modalità di
apposizione della stessa che le finalità per cui era prescritta, altre consideravano fungibili la firma
dell’atleta con quella del maggiorenne mentre altre ancora, pur non essendosi dotate di una
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disciplina specifica, avevano preferito rimettere l’intera materia alle Circolari e ai Comunicati, se
non addirittura agli stessi moduli di richiesta di volta in volta annualmente adottati. Quasi mai,
inoltre, si trovavano regolamentati gli atti di trasferimento concernenti i minori, quasi che
l’assunzione di vincoli societari successivi al primo non partecipasse, quanto agli esercenti la
potestà genitoriale, delle stesse problematiche di quello iniziale.
Sino alle soglie degli anni Novanta nessuna federazione aveva comunque ritenuto di dovere
prescrivere la firma congiunta di entrambi i genitori.
Il fronte fu rotto dalla FIGC, circa tre lustri dopo la riforma del diritto di famiglia.
Nonostante nel suo interno le tre Leghe continuassero pacificamente a richiedere, per il
tesseramento dei minori, la sottoscrizione di un solo genitore, il Settore Giovanile e Scolastico
inopinatamente decise invece di prescrivere la doppia firma per consenso di entrambi gli esercenti
la potestà genitoriale (C.U. n. 5 del 1° Luglio 1987), e lo stesso principio finì col trovare
accoglimento nella Circolare della Segreteria Federale del 7 novembre 1988 di cui è menzione nelle
due decisioni in commento.
All’epoca, “ vox in deserto clamans”, avevo fatto presente come quella Circolare, al di là
della indicazioni di merito, non potesse trovare ulteriore applicazione, non foss’altro a seguito
dell’emanazione delle successive edizioni delle Carte Federali, le quali superandone evidentemente
il contenuto, in tutte le norme di riferimento avevano continuato a prescrivere una sola
sottoscrizione e come, in ogni caso, erroneamente si fosse ritenuto di essersi allineati con la stessa
alle relative prescrizioni del codice civile (DE SILVESTRI 1991, p. 298 nota 6).
Avevo infatti in quella sede ulteriormente osservato come, in tema di potestà genitoriale, la
ricordata Circolare avesse sovrapposto le problematiche di coesercizio (aspetto interno) con quelle
di rappresentanza (aspetto esterno), regolate rispettivamente dagli artt. 316 e 320 C.C., come gli atti
di straordinaria amministrazione richiedessero, oltre che la firma congiunta di entrambi i genitori,
anche la previa autorizzazione del giudice tutelare e come, infine, il tesseramento minorile, piuttosto
che in chiave patrimoniale, dovesse essere invece riguardato alla luce di quelle emergenti opinioni
dottrinali e di quel già presente filone giurisprudenziale volto a conferire alla posizione del minore
un ruolo altamente partecipativo nelle vicende riguardanti la sua persona e ricondotto, quindi,
nell’ambito delle scelte esistenziali e dei diritti costituzionalmente garantiti indipendentemenete
dall’età (amplius, su quanto sinora osservato, in DE SILVESTRI, 1991, passim.).
La decisione della Commissione Disciplinare del Comitato Regionale Veneto, che si è
apertamente schierata in favore di un siffatto modo di argomentare e quella della Corte Federale,
che ha patrocinato invece la tradizionale interpretazione sistematica secondo cui, per la validità del
tesseramento minorile, occorrerebbe la firma congiunta di entrambi i genitori, inducono perciò ad
un nuovo, generale, approfondimento dell’intera materia alla luce della ormai trentennale
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elaborazione dottrinale delle norme civilistiche richiamate, delle più recenti prese di posizioni
giurisprudenziali, delle Convenzioni internazionali in tema di sport e di diritti del minore, nonché,
da ultimo, di una successiva e copiosa legislazione di riferimento da cui non sono state affatto tratte
le necessarie indicazioni.
3) Le disfunzioni della firma congiunta e le nullità strumentali: la prospettiva
endoassociativa.
Non si ignora come, superata la fase dello scontro frontale delle “ due giustizie”, sia da
tempo in atto il “trend del contemperamento”: le istituzioni sportive hanno infatti definitivamente
maturato il convincimento di non poter aspirare ad alcuna esenzione dalla giurisdizione statuale e lo
Stato, da parte sua, ha decisamente imboccato la strada del riconoscimento e della valorizzazione di
queste e dei relativi sistemi giustiziali interni, anche in funzione del loro inserimento nel più ampio
contesto dello sport sovranazionale ( DE SILVESTRI, 2004, pp.10-11) .
Fermo restando, dunque, l’interesse delle FSN e delle altre istituzioni sportive a non dotarsi
di prescrizioni contrastanti con le leggi dello Stato, è però altrettanto indubitabile che le stesse
debbano pur sempre compiere delicate operazioni di pesi e di misure per evitare, innanzi tutto,
distorte interpretazioni del sistema legislativo vigente e per adottare, in ogni caso, le soluzioni
regolamentari ed interpretative più confacenti al privato, collettivo interesse che esse perseguono.
Al di là della intrinseca fallacia dell’ordine motivazionale su cui si fonda, è certo, allora, che
la soluzione patrocinata dalla Corte Federale, oltre a provocare disfunzioni ed incertezze operative,
ha offerto e continua ad offrire il destro a interessate strumentalizzazioni.
Rimanendo in quella logica, sostanzialmente riassunta nella Circolare 7 novembre 1988 si
devono infatti ammettere, alla stregua della stessa normativa codicistica, numerose e rilevanti
eccezioni al principio della doppia firma, puntualmente riportate, del resto, nel testo della
medesima ed esplicitamente richiamate nelle disposizioni regolamentari delle altre federazioni che
parimenti l’hanno prescritta, nei casi di :
accertata e comprovata lontananza, incapacità o altro impedimento
assoluto dei genitori
(art. 317 comma 1 c.c.);
separazione, scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti del matrimonio,
allorquando risulti comprovato l’affidamento del figlio ad uno dei genitori (artt. 317 comma 2 e 155
c.c.);
di riconoscimento del figlio da parte di uno solo dei genitori;
di nomina di un curatore speciale (art. 321 c.c.) o di un tutore (artt. 343 ss. c.c.).
E’ però il caso di rilevare, al proposito, come si desume dalla consultazione di un qualsiasi
repertorio di giurisprudenza ( vedi, per tutti, CIAN TRABUCCHI, 2004, pp. 389 ss.) :
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che la stessa magistratura si dibatte tra mille e irrisolte difficoltà nel tentativo di offrire
contorni certi alle categorie legislative di “lontananza” e di “incapacità” e di individuare, più in
generale, quando ricorra “ogni altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori
l’esercizio della potestà”;
che il sopravvenire dell’impedimento determina la sospensione della potestà genitoriale
automaticamente, senza necessità di pronuncia alcuna dell’autorità giudiziaria, e che altrettanto
automaticamente il venir meno dell’impedimento determina il ripristino della medesima nella sua
pienezza;
che, ancora, l’art. 317 bis ha introdotto, successivamente all’emanazione della Circolare, una
disciplina più articolata per il genitore che ha riconosciuto il figlio naturale fondata, in caso di
riconoscimento da parte di entrambi i genitori, sulla incerta situazione di fatto della “convivenza”;
che, infine, non è affatto chiara l’estensione dei poteri che residuano in capo al genitore con
potestà “affievolita”, come nel caso del separato o del divorziato non affidatario.
Occorre a questo punto richiamare l’attenzione sul ruolo assolutamente centrale che,
nell’ambito di tutte le federazioni, assumono le problematiche di tesseramento, sia ai fini della
nascita del vincolo societario che della stessa regolarità delle gare.
Al tesseramento, anche minorile, consegue infatti, in ambito dilettantistico, il rilevantissimo
effetto del permanere del vincolo societario anche dopo il raggiungimento della maggiore età,
generalmente per il resto della vita (quanto alla FIGC, il cui limite è stato di recente fissato sino al
venticinquesimo anno vedi DE SILVESTRI 2002, pp. 31 ss.), ed i suoi vizi, come quelli dei
successivi atti di trasferimento, vanno ad incidere direttamente sulla regolarità delle gare, motivo
quest’ultimo che ha indotto tutte le FSN a ispirare i propri regolamenti al principio di rendere certi e
inattaccabili, nel più breve tempo possibile, i risultati conseguiti sul campo (DE SILVESTRI 1988,
p. 3 ss.).
Non può allora non osservarsi come la prescrizione della firma congiunta, lungi dal dare
stabilità al tesseramento minorile, lo renda invece estremamente più incerto ed attaccabile.
Gli uffici preposti, di regola a livello locale, alla ricezione delle richieste di tesseramento e
di trasferimento dei minori, sempre più frequentemente, peraltro, extracomunitari, non sono infatti
assolutamente in grado di giudicare la sussistenza o meno di eventuali motivi di deroga alla regola
della firma congiunta, né miglior sorte è riservata alle successive questioni di validità che si
pongono innanzi agli organi giustiziali endoassociativi all’uopo deputati, quale la Commissione
Tesseramenti della FIGC, sprovvisti oltre tutto di poteri autoritativi di accertamento e, più in
generale, di ogni potere su persone non tesserate.
L’esperienza insegna poi come la criticata prescrizione offra largo spazio alla strumentale
formazione di atti volutamente apocrifi.
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Premesso che, com’è noto, viene largamente disattesa la regola che imporrebbe al dirigente
societario di raccogliere personalmente la firma dei genitori sottoscrittori, risulta infatti assai diffusa
la prassi, spesso ispirata da “maneggioni” che in numero sempre crescente allignano nel sottobosco
del mondo dilettantistico, di far pervenire alla società richieste contenenti una delle due firme
volutamente apocrifa, che il genitore ed il tesserato potranno a loro piacimento impugnare, al fine di
ottenere la declaratoria di nullità del relativo tesseramento, a tutto danno della società interessata e,
quindi, dell’intero sistema.
Anche se, sia detto per inciso, come osservato incidentalmente dalla stessa Commissione
Disciplinare relativamente al caso di specie, in cui la calciatrice Zugno Elisa risulta aver militato per
ben tre anni nelle fila dell’AC Valmarana, fondatamente la Commissione Tesseramenti avrebbe
potuto, pur nella logica della firma congiunta, dare ingresso al principio, largamente utilizzato dalla
stessa per convalidare tesseramenti formalmente invalidi di calciatori lungamente militanti nelle fila
della società, secondo cui il consenso del genitore convivente la cui firma manca o è apocrifa, non
può non considerarsi intervenuto per assoggettamento alla volontà dell’altro o per successiva
identità di vedute in presenza di comportamenti inequivoci, quali deve senz’altro ritenersi la
tolleranza continuata a che il figlio minorenne presti la propria attività sportiva in favore di una ben
individuata società.
4) I diritti del minore tra sistema codicistico e nuove frontiere.
Non è possibile, in questa sede, render conto in modo esaustivo delle tappe che hanno
portato, a decorrere già dal periodo antecedente alla riforma del diritto di famiglia, alla progressiva
scoperta dei diritti del minore e alla individuazione del suo interesse quale costante legislativa non
solo delle leggi nazionali, ma anche di varie ipotesi di diritto internazionale oltre che delle più
illuminanti decisioni della Corte Costituzionale (amplius in CIVIDALI, 2000, pp. 6 ss.) .
E’ certo, in ogni caso, che l’art. 1 c.c., che riconosce la capacità giuridica a tutte le persone
fisiche sin dalla nascita, deve essere posto in relazione con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, che
garantiscono pari dignità, uguaglianza e tutela a tutti i soggetti, compresi i minori.
Costoro godono degli stessi diritti dell’adulto, specie di quelli inviolabili della persona, e
non a caso per il minore in grado di autodeterminarsi per il livello di maturità raggiunta si è
enucleato un vero e proprio diritto all’autoeducazione, inteso come potere di operare scelte anche in
contrasto con quelle dei genitori, purchè conformi ai precetti costituzionali e tali da non
pregiudicare la sua salute psicofisica e da non comportare, comunque, lesioni dei diritti degli altri
membri della famiglia (CAMPANATO, ROSSI e ROSSI, 2000, p.322).
In tale contesto, da tempo giurisprudenza e dottrina mostrano di avere superato la
tradizionale visione del minore dilaniato tra diritti degli adulti per privilegiare invece opzioni
interpretative in favore del rispetto della sua volontà (RUSCELLO, 1996, pp. 38 ss.), anche se assai
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vivo è il dibattito in ordine all’individuazione degli specifici ambiti riservati esclusivamente alle sue
scelte.
Spazi non irrilevanti di autodeterminazione derivano, infatti, direttamente da disposizioni
legislative, espressamente citate nella decisione del C.R. Veneto, che limitano o addirittura riducono
dall’esterno la potestà genitoriale ma da esse, dettate volta per volta per risolvere singoli, specifici
problemi, non è affatto agevole ricavare un principio comune da utilizzare in via analogica.
Al di là della risposta che si ritiene di dover dare al quesito se da tali disposizioni
eterogenee, in cui muta spesso l’età di riferimento ( 14,15,16 anni) e il peso assegnato alla volontà
del minore, a quella del genitore e alla decisione del giudice, possa essere ricavato il più generale
principio secondo cui, almeno a partire dal sedicesimo anno di età, i figli sarebbero legittimati ad
esercitare liberamente i propri diritti non patrimoniali e a gestire comunque la loro sfera personale, è
in ogni caso certo che ulteriori spazi di autonomia al di là di quelli previsti espressamente sono
senz’altro desumibili per via interpretativa ( amplius in VERCELLONE 2002, pp. 975 ss.).
Particolare rilievo, ai fini che interessano, assume allora la legge 18 giugno 1986 n. 281,
relativa alla capacità di scelte scolastiche e di iscrizione nelle scuole secondarie superiori, in cui si
prescrive che le prime in ordine alla religione cattolica, ad insegnamenti opzionali e ad “ogni altra
attività culturale e formativa sono effettuate personalmente dallo studente”, e che la domanda di
iscrizione di studenti minori debba essere sottoscritta “da uno dei genitori o da chi esercita la
potestà nell’adempimento della responsabilità educativa di cui all’art. 147 del codice civile”.
Tale legge ha dunque cristallizzato il principio che, tra le scelte esistenziali, quelle cioè che
per loro natura incidono in modo rilevante sulla vita del minore e svolgono un ruolo decisivo per lo
sviluppo della sua personalità, vanno senz’altro ricomprese quelle relative all’attività culturale e
formativa. Con la conseguenza che, la pacifica riconduzione dell’attività sportiva dilettantistica ai
diritti fondamentali dell’individuo nelle collettività in cui si svolge la sua personalità (FORLENZA,
2004, p.22), e la sua indiscutibile valenza educativa (non è un caso che l’educazione fisica sia
inserita tra le materie di insegnamento scolastico) inducono a ritenere i principi in essa contenuti
sicuramente applicabili anche al tesseramento minorile.
Anche la normativa internazionale e comunitaria sui diritti del minore e, nello specifico, in
tema di diritto alla pratica sportiva riguardata nei suoi risvolti sociali, formativi e istruttivi, si è
peraltro sviluppata e continua significativamente ad evolversi nelle direzioni indicate.
Il combinato disposto della Convenzione di New York del 20 ottobre 1989, ratificata con
legge 27 maggio 1991 n. 176 sui diritti del minore e della Convenzione Europea del gennaio 1996
ha comportato infatti un notevole affinamento del concetto di interesse del minore, sino a consentire
la fondazione della dicotomia dovere interesse dei genitori – diritto interesse dei figli,
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e la
definizione di quest’ultimo come “diritto – interesse ad avere quel certo rapporto educativo che lo
aiuti a crescere e a maturarsi” (CIVIDALI, 2000, pp. 13 – 14).
A decorrere dal 1 marzo di quest’anno sono inoltre entrate in vigore in ambito comunitario
le nuove disposizioni del Consiglio n. 2201/03 le quali, nell’abrogare il precedente regolamento in
materia matrimoniale, hanno individuato nella responsabilità genitoriale il fulcro dei rapporti
genitori – figli, privilegiando l’aspetto degli obblighi dei primi ed escludendo una posizione di
soggezione limitativa della libertà dei secondi (FINOCCHIARO, 2005, p.9).
Il diritto alla pratica sportiva, esplicitamente dichiarato dalla Carta Internazionale per
l’educazione fisica e lo sport, approvata dall’UNESCO il 21 novembre 1978, come “un diritto
fondamentale per tutti” , assume infine risvolti tutt’affatto particolari per l’atleta child, e cioè
infradiciottenne in quanto, a livello internazionale (vedi, in particolare, l’art. 31 della legge n.
176/1991 di ratifica della Convenzione di New York), è stata colta appieno l’essenziale
compresenza, nello sport minorile, dei cennati aspetti formativi ed educativi ( MORO 2002, pp. 15
ss.).
Ne costituisce autorevole, indiscutibile e significativo riscontro il recentissimo testo della
Costituzione dell’Unione Europea, non ancora ratificato dall’Italia,in cui risultano unitariamente
disciplinati, alla Sezione 4, “Istruzione, formazione professionale, gioventù e sport”, e nel quale è
contenuta la solenne affermazione (all’art. II – 182 n. 1 comma 2), che “l’Unione contribuisce alla
promozione delle sfide europee dello sport, data la sua funzione sociale e istruttiva”.
5) L’attuale panorama regolamentare, le ragioni dell’uniformità e l’inopportunità della
firma congiunta.
Se agli inizi degli anni Novanta il panorama regolamentare delle varie F.S.N. appariva, come
si è già osservato, disarmante, oggi la situazione appare per certi versi ancor più diversificata.
La circostanza, peraltro innocua, che numerose federazioni continuino a far riferimento al
vetusto e abrogato istituto della patria potestà (F.I.C.K., F.I.N., F.I.B., F.I.C., F.I.H., F.I.T. e T. ) è già
per sé stessa indicativa, intanto, del perdurante disinteresse, o comunque della superficialità con cui
si continua ad affrontare la materia, tant’è che solo poche di esse usano correttamente i termini
potestà genitoriale e potestà parentale (è il caso, rispettivamente, della F.I.B.S. e della F.I.S.), o
comunque di potestà ( F.I.R.; F.I.M.; F.I.S.E.), mentre altre preferiscono ricorrere alla tecnica di
menzionare direttamente il genitore ( F.P.I., F.I.T.ri; Fitarco) o chi ne fa le veci.
Quanto alle soluzioni di merito, al di là dei casi isolati della F.I.H.P. e della F.I.S.S., che
ritengono fungibili la firma dell’atleta e del genitore, attualmente le federazioni che richiedono la
firma congiunta sono ancora in netta minoranza, ma è forte il timore che possano crescere di
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numero, perché tra esse, in tutto cinque (F.I.P., F.I.P.A.V., F.M.I., F.I.G.H. e, a livello interpretativo,
F.I.G.C.), ne sono ricomprese alcune tra le più popolari ed autorevoli in assoluto.
Appare in ogni caso evidente, a fronte della identità di natura di tutti gli atti di tesseramento
minorile a prescindere dalla federazione di appartenenza, come appaia senz’altro irrazionale la
disparità di previsioni regolamentari ora esistente, e come sarebbe perciò auspicabile un intervento
del CONI che coordinasse ed armonizzasse l’azione delle varie FSN richiedendo, eventualmente,
uno specifico parere alla Camera di Conciliazione ed Arbitrato presso di esso radicata.
Le problematiche, come si è visto, sono tutt’altro che di facile risoluzione, perché oltre a
coinvolgere norme codicistiche di per sé stesse largamente dibattute, evocano aspetti evolutivi della
capacità di autodeterminazione del minore dei quali non è ancora chiaro l’impatto in termini di
diritto positivo.
Quanto al sistema della potestà genitoriale quale disciplinato dal codice civile, occorre in
ogni caso tenere nettamente distinte le questioni di coesercizio, che attengono al profilo decisionale
e che restano confinate all’interno della famiglia, da quelle di rappresentanza, che attengono invece
al regime giuridico degli atti da compiersi in nome e per conto del minore.
Non c’è dubbio alcuno che la potestà, da intendersi in una accezione non tanto e non solo
patrimoniale, quanto piuttosto in una situazione esistenziale, orientata cioè ad assicurare il rispetto e
lo sviluppo della personalità del minore ( RUSCELLO F. 1996, pp. 78 ss.) debba essere esercitata di
comune accordo da entrambi i genitori secondo il chiaro disposto dell’art. 316 comma 2. Ogni
scelta, pertanto, deve essere concordata, caso per caso, in base a direttive comuni ovvero mediante
acquiescenza all’operato dell’altro coniuge, non solo quelle relative a questioni di particolare
importanza per le quali è previsto lo speciale rimedio del ricorso al giudice perchè, in caso di
contrasto, indichi i rimedi che ritiene più idonei (art. 316 comma 3).
Può anche accadere che il contrasto sia già in atto, come si può ipotizzare nel caso del
coniuge che, ad insaputa o contro la volontà dell’altro, abbia sottoscritto il tesseramento del figlio
minore.
Anche in tal caso, secondo il disposto dell’art. 316 comma 5, il genitore dissenziente (e, si
badi bene, non altri, né il P.M. né , tanto meno, la società sportiva o la federazione interessata) potrà
ricorrere al giudice il quale, senza poter in alcun modo influire sulla validità e sull’efficacia degli
atti compiuti (in tesi il tesseramento minorile), potrà solo eventualmente affidare ad esso, non
sottoscrittore del relativo tesseramento, la gestione dell’affare, legittimandolo così ad imporre per
l’avvenire al figlio l’astensione dalla pratica sportiva.
La fonte di maggiori equivoci, nella materia, è comunque costituita dal disposto dell’art. 320
c.c. il quale, nel regolare l’aspetto rappresentativo del minore incapace distingue, ai fini del relativo
trattamento, gli atti di straordinaria amministrazione, che necessitano della firma congiunta di
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entrambi i genitori, oltre che dell’autorizzazione del giudice tutelare, da quelli di ordinaria per i
quali, fatta eccezione per i contratti relativi a diritti personali di godimento, è invece ritenuta
sufficiente la firma disgiunta.
Appare evidente che, se davvero si dovessero ricomprendere i tesseramenti minorili, come
ha ritenuto la Corte Federale nella sua decisione, tra gli atti di straordinaria amministrazione, non
potrebbe in alcun modo prescindersi dall’autorizzazione del giudice tutelare, come in tale
prospettiva è stato peraltro coerentemente sostenuto anche in dottrina ( MORO 2002, pp. 19 ss.).
Deve però al contrario ritenersi, come correttamente rilevato dal Comitato Regionale Veneto
nella decisione in commento, che la ricomprensione dei tesseramenti e dei trasferimenti minorili
dilettantistici in ambito patrimoniale sia del tutto incongrua e fuorviante.
L’amministrazione, sia essa ordinaria, è infatti categoria che fa esclusivo riferimento alle
attività al cui svolgimento consegue, direttamente o indirettamente, una modificazione qualiquantitativa del patrimonio del minore ( per il principio, pacifico in dottrina e giurisprudenza, vedi
per tutti CIAN – TRABUCCHI 2004, pp. 324 ss.), e davvero non si riesce a comprendere come
ricollegare un tale effetto ai tesseramenti ed ai trasferimenti (sullo specifico tema vedi, in dottrina,
VULLO 2004, p.60, nonché, ibidem, Tribunale di Venezia, ordinanza 10 luglio 2003, Polverino
Gloria c/F.I.P. e Associazione Sportiva Giants Basket Marghera, pp.51 ss.).
Escluso dunque che il tesseramento minorile possa essere riguardato in un’ottica
patrimoniale (è evidente la forzatura, in tal senso, contenuta nella decisione della Corte Federale,
che fa coincidere il concetto di patrimonio, troppo estensivamente considerato come “aggregazione
di posizioni giuridiche attive e passive” con quello, ben più ampio, di sfera giuridica) e che,
pertanto, vi sia un qualche spazio per l’intervento del giudice tutelare, possibile solo in tema di
amministrazione di beni (CAMPANATO, ROSSI, ROSSI, 2000, p. 377), occorre solo aggiungere
come non sia affatto possibile reintrodurre surrettiziamente la materia facendo riferimento ad
asserite limitazioni derivanti dall’assoggettamento del minore al vincolo per effetto del
tesseramento. A prescindere infatti da ogni valutazione sull’istituto del vincolo a tempo
indeterminato, attualmente oggetto, finalmente, di valutazione da parte delle F.S.N. ai fini di una
sua attenuazione e, in prospettiva, di una sua eliminazione (amplius, sul tema, in DE SILVESTRI e
MORO 2002, pp. 31 ss. e 9 ss.) appare infatti di tutta evidenza, in ogni caso, che esso non produca
nemmeno per tale verso effetti comunque riferibili al patrimonio.
La ricordata, delicatissima operazione di pesi e di misure che le F.S.N. sono chiamate a
compiere per regolamentare l’intervento dei genitori deve essere effettuata, perciò, dopo aver
ricondotto il tesseramento minorile nel suo reale contesto, quello delle scelte esistenziali con
valenza educativa come si rileva, del resto, dalle stesse norme dello statuto CONI, ove le attività
sportive sono “intese come elemento essenziale della formazione fisica e morale dell’individuo e
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parte integrante dell’educazione”( art. 1) e disciplinate nella loro “inalienabile dimensione
popolare, sociale, educativa, e culturale” (art. 2 comma 5).
Nemmeno tale contesto di riferimento, però, si presenta con contorni delimitati in modo
netto e sicuro.
Si è visto che, secondo una forte corrente dottrinale, che sembra però aver trovato consensi
anche nella giurisprudenza specifica (Tribunale di Venezia, 2004, ord. POLVERINO, cit.), in
materia non sarebbe necessario alcun intervento dell’esercente la potestà, risolvendosi il
tesseramento minorile nell’esercizio di una libertà fondamentale.
La legge n. 281/1986 concernente le scelte scolastiche sulla religione cattolica e sugli altri
insegnamenti opzionali, il cui contenuto sembra estensibile alla decisione di dedicarsi alla pratica
sportiva, se da un lato riserva personalmente al minore i relativi atti d’esercizio, dall’altro richiede
la sottoscrizione di un genitore nell’adempimento della responsabilità educativa di cui all’art. 147
c.c.
Tale norma, nell’attuale testo novellato, pur imponendo il rispetto del diritto dei figli di
consolidare e di sviluppare le loro doti naturali, ribadisce però il diritto-dovere dei genitori di
educarli, come peraltro prescritto dall’art. 30 della Costituzione, sino a consentire loro di imporre
soluzioni contrastanti con le scelte effettuate (CIAN – TRABUCCHI, 2004, p. 234), come potrebbe
verificarsi nel caso di incompatibilità della pratica sportiva con pressanti esigenze di studio ovvero
con particolari condizioni di salute.
Non può infine essere sottaciuta la circostanza, come non ha mancato di rilevare la Corte
Federale nella sua decisione che, a prescindere dall’indicato orientamento circa gli spazi di
autodeterminazione del minore, secondo il disposto dell’art. 320 c.c. solo per gli atti di ordinaria
amministrazione (esclusi quelli relativi ai diritti personali di godimento) sarebbe sufficiente la firma
di un solo genitore.
I figli sono invero rappresentati congiuntamente da entrambi i genitori, non soltanto negli
atti di amministrazione del patrimonio, ma in “tutti gli atti civili” con la conseguenza che, non
aderendo alla tesi della loro autonomia quanto alla sfera personale, dovrebbe per tale verso,
richiedersi comunque la doppia firma.
Il tesseramento dilettantistico minorile, seppur privo di risvolti patrimoniali, si risolve pur
sempre, infatti, nell’assunzione di un duplice rapporto associativo, uno con la società alla quale si
intendono riservare le proprie prestazioni sportive, appunto il vincolo (così, espressamente,
Tribunale di Padova , 1 marzo 2004, Zagarese Elisabetta c/A.S. Olympia Volley, inedita), e l’altro
con la federazione di appartenenza ( amplius, sul tesseramento dilettantistico, in DE SILVESTRI
2004, pp. 127 – 128).
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Escluso dunque che il tesseramento minorile possa essere regolamentato prescindendosi
dalla fondamentale sottoscrizione dell’interessato, a far propendere la bilancia in favore
dell’opzione per la firma disgiunta, in luogo di quella congiunta di entrambi i genitori, concorre il
manifesto favor operato dal legislatore per l’indiscriminata efficacia dell’atto comunque compiuto
nell’interesse del figlio oltre che per la tutela dell’autonomia della famiglia globalmente considerata
dall’intromissione di terzi estranei.
Sia che il contrasto riguardi la fase decisionale (far praticare o meno l’attività sportiva) o che
concerna invece l’aspetto rappresentativo (la validità del relativo tesseramento), gli effetti prodotti
nell’ordinamento federale non potranno mai essere messi in discussione, e la loro cessazione per
l’avvenire è condizionata solo dall’iniziativa, innanzi al giudice statuale, solo ed esclusivamente del
genitore dissenziente, non essendo legittimati ad agire né il P.M. né, tanto meno, soggetti estranei
quali i legali rappresentanti della società sportiva o della federazione di appartenenza.
La soluzione della firma congiunta, invece, oltre a gravare di compiti ultra vires gli uffici di
tesseramento per individuare i casi di deroga al principio e ad offrire spazi indesiderati a strumentali
richieste di annullamento, finisce con il trasportare all’interno delle federazioni conflitti che devono
trovare la loro risoluzione nella sede fisiologica della famiglia, ben lontani dagli organi di giustizia
sortiva, e solo eccezionalmente con il ricorso al giudice statuale.
ANTONINO DE SILVESTRI Avvocato del Foro di Vicenza, Docente nell’Università
di Teramo
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