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970321SP1.pdf
data
21/03/1997
Contesto
SPP
Relatori
AA VV
Liv. revisione
Trascrizione
SEMINARIO DI SCUOLA PRATICA DI PSICOPATOLOGIA 1996-1997
VITA PSICHICA COME VITA GIURIDICA
CASISTICA
21 MARZO 1997
DIBATTITO SUL CORSO “ISTITUZIONI DEL PENSIERO LAICO:
L’ESPERIENZA GIURIDICA”
TESTO INTEGRALE
GIACOMO B. CONTRI
Il Corso in Cattolica, quest’anno, ha un carattere unico: ogni volta un invitato di rango è sollecitato
ad articolare un suo pensiero a partire da nostri temi e anche articolazione di essi, come fa Maria Delia
Contri, con risposte e dibattiti che io trovo del più grande interesse, ma non risulta subito facile trovare la
connessione con ciò che facciamo il venerdì sera in questa stanza, anche se a me la connessione viene.
So che di questioni ne sono circolate moltissime: a me ne sono arrivate diverse. Facciamole qui
anziché nei corridoi.
MARIA DELIA CONTRI
Dedicandomi alla stesura dell’ultima scheda, mi è servita per tirare alcune conclusioni e per rendermi
conto che tutto quello che abbiamo appreso e a cui ci siamo accostati in questo corso, non solo ha qualcosa a
che fare, si interseca un po’ casualmente, e un po’ di cultura serve sempre, ma in realtà è strettamente
intrinseco ad un nesso. Il riuscire a cogliere che gli esiti, nel prosieguo della storia, di un certo modo di
concepire l’individuo, corrisponde, per cui ci sarebbe un ordine prestabilito da qualcuno, da un super-io, che
può essere Dio, ma può essere un ente qualsiasi, è proprio un rimedio all’angoscia di fondo.
L’autore che verrà trattato domani, Vico, che è tutto interno a questo tipo di logica, è il primo
filosofo che tira fuori il concetto di stadi, di evoluzione e di sviluppo propri della psicologia individuale e per
traslazione della storia, ed è tutto incentrato sul bambino in quanto il bambino sarebbe dotato di una facoltà
immaginativa a-razionale, mitica, che poi deve svilupparsi e quindi deve essere educata. C’è proprio
un’angoscia che sta sotto a tutta la storia del pensiero di fronte all’idea del pensiero individuale, della
capacità di pensare.
Quindi, tutta la storia della filosofia, salvo alcune, pochissime eccezioni — che è
Hobbes, e poi Kelsen e poi Freud — va da un’altra parte: c’è un ordine prestabilito da qualcuno, il quale poi
avrà il suo clero, che creda in Dio o no, che educa e che perfeziona, è il modo di pensare dominante. Quindi,
anche nella modernità ha avuto una breve primavera con Hobbes, che dice il giusto e l’ingiusto, e che la
causa della giustizia sono le leggi che abbiamo posto noi e non esiste un giusto-ingiusto definibile dai
filosofi, salvo questa breve primavera, brevissima primavera, poi è stata reinghiottita dal porre che c’è un
ordine astratto rispetto a cui al massimo ci può essere formazione, progresso che in certi campi diventerà
ascesi.
La storia della filosofia è la storia di un pensiero che dibatte questa questione di fondo e che non riesce a far
fronte all’angoscia, perché in realtà non è una vera alternativa di pensiero.
È strettamente intrinseco a quello che diciamo noi, non è soltanto una spolveratina di cultura.
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GLAUCO GENGA
Così come è vero che i due temi sono collegati, però mi verrebbe anche da dire che se appiamo
pensato e posto nei seminari che il Corso è aperto a chi voglia parteciparvi, una ragione deve pur esserci.
Mi risulta che qualcuno di noi ha fatto osservare a persone che se al Corso qualcosa non si capisce è
perché in realtà non si frequenta il Seminario, detto a qualcuno che frequenta solamente il Corso, quindi una
possibilità che noi abbiamo dato.
L’ho trovata una cosa scorretta, anche nel senso letterale: non giusta e non vera. Capisco che i due temi sono
intrinseci, però forse dobbiamo aiutarci a capire che un tipo di proposta pienamente funzionante è anche
quella del Corso: non è che manca una gamba.
Forse non l’abbiamo esplicitato a sufficienza.
ANGELA CAVELLI
Mi sembrava che il Prof. Lombardi, durante il suo intervento, abbia messo un po’ in crisi quello che
diceva Maria Delia Contri, e che abbia invece parlato di una crisi dando come soluzione un mito di tipo
orientale.
M. GRAZIA MONOPOLI
Non so come sono state contattate le persone che vengono invitate a parlare al Corso, però è
interessante lì dove queste persone arrivano, fanno la loro lezione e sono come disponibili davanti alle
provocazioni che vengono fatte: la ragionano lì per lì. Con qualcuno accade, con qualcuno no: non ci
ragionano lì per lì, non sono disposti a lasciarsi domandare da certe cose. Dove accade è interessante. Dove
non accade rimane l’informazione culturale.
M. ANTONIETTA ALIVERTI
Mi veniva in mente a proposito di cultura, che io non ho avuto impressione di cultura incontrando
questa gente. Mi pare che tra la cultura come nella realtà e questa gente si tratti più che altro di teorie di
vario genere, ma che non si fondi una cultura perché non si fondano su un orientamento che è quello della
competenza individuale.
A me sembra molto spesso un disorientamento: una serie di idee messe lì che non si capisce né da dove
vengono, né a cosa mirano.
GIANPIETRO SÉRY
Non ho dubbi sulla ricchezza del materiale che viene esposto al Corso, come messo a disposizione
per una ricapitolazione.
Mi sembra che però il dibattito che segue abbia sempre come un punto di resistenza, si ferma sempre su un
punto, su una roccia, che credo sia davvero quella della competenza. Forse varrebbe la pena di riprendere
ulteriormente quel materiale, magari anche quest’anno. È vero che il rapporto esiste, ma è meglio venga
ulteriormente esplicitato.
Ho come l’impressione di tutta una ricchezza di ricapitolazione che poi si ferma a un certo punto. Non
sempre sono capace di portare avanti un’elaborazione da solo e spesso avvertirei il desiderio di poterlo
continuare a fare insieme.
RAFFAELLA COLOMBO
So che ci sono persone, che avendo parlato con me e avendo posto domande e osservazioni
interessanti, farebbero bene a parlare adesso.
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GIACOMO B. CONTRI
Come per il segreto professionale, non si può tradire il segreto di corridoio.
È vero però che ci sono persone che se si sentissero dire in pubblico «Hai detto una cosa
intelligente» gli verrebbe una crisi d’angoscia, anziché sentirsi bene. È una delle vie per cui si è tentati di
entrare nell’ottusità, che è la nostra condizione ordinaria: i test di intelligenza sono un errore, non solo
perché trattano l’intelligenza dell’idiota, ma perché il fenomeno dell’intelligenza è strettamente episodico:
capita. Non bisognerebbe dire «Quello lì è intelligente», ma «quel giorno lì, dalle 3 alle 3,03 sono stato
intelligente». Come il cane di Luky Luke, che una volta che fa una cosa intelligente stramazza. Il fumettista
ha colto questo aspetto dell’intelligenza. A modo suo, potremmo chiamarlo miracolo.
GILDA DI MITRI
La cosa che più mi colpiva del Corso di questo anno, che è centrato sul diritto, è che questa gente che
è venuta parlare e che dovrebbero essere degli specialisti, non sanno cos’è il diritto: il grande estinto.
Che cosa sia il diritto, perché c’è, a che cosa dovrebbe servire, cosa ce ne facciamo: questo non l’ho trovato.
Mi chiedo se forse siamo gli unici rimasti ad avere un criterio per sapere di diritto.
GIACOMO B. CONTRI
Non gli ultimi, ma i primi dei Mohicani.
AMBROGIO BALLABIO
Per una prima cosa vorrei prendere spunto da quello che diceva Gilda, perché per me l’osservazione
più evidente è che tra le persone che abbiamo sentito fino adesso, salvo Lombardi Vallauri che per me è di
difficile classificazione per il discorso che ha fatto, ma la mia impressione è che c’era una bella differenza
fra chi era lì a titolo di filosofo e chi era lì a titolo di giurista.
Da questo punto di vista, mi rifaccio a una considerazione: chi ci sente parlare di Kelsen da più
tempo ha in mente senz’altro che Kelsen stesso, nella sua interpretazione della storia del diritto, faceva una
distinzione molto netta fra principio di causalità e principio di imputazione. Tenendo conto anche di quello
che diceva Maria Delia Contri, è inevitabile che uno che si considera filosofo, che lavora su quanto la
filosofia ha fatto finora, si rifaccia sempre, poco o tanto, al principio di causalità. Questo per noi ritengo sia
fonte interessante da quando abbiamo cominciato a pensare che la vita psichica è vita giuridica che risale
molto più indietro di quando abbiamo coniato il titolo di questo seminario.
Al contrario, con i giuristi si può applicare l’osservazione di Gilda: io sarei favorevole a come lei
l’ha espressa, che siamo non gli ultimi, ma gli unici rimasti che si interrogano su cosa sia il diritto e qualcosa
ne sanno. Ma proprio la testimonianza che ci hanno dato i giuristi, dal diritto romano la prima volta, e
l’ultima volta riconoscendo che nella costituzione dei comitati di bioetica o etica c’è un aspetto superegoico
— Santosuosso non se l’aspettava, ma l’ha riconosciuto — e dall’inizio ad oggi il giurista ha sempre la
possibilità di riconoscere che qualcosa che diciamo è o nuovo o qualcosa che riprende la questione del diritto
e che pone una questione diversa da come si pone al giorno d’oggi.
Non a caso i filosofi non hanno mai fatto della casistica. Noi quest’anno puntiamo a costruire una
casistica per quanto ci riguarda e sappiamo che in campo giuridico o se si tratta del Seicento, il campo della
morale, ma sappiamo che non si è mai separato del tutto dal campo del diritto, ci sono state delle epoche in
cui il diritto si fondava sulla casistica e delle epoche in cui il problema della casistica è ritornato, mentre a
me non risulta che i filosofi si siano mai messi a fare della casistica. Se si tratta di principio di causalità, e di
ente e di essere, la casistica non c’entra.
Proprio adesso, sentendo questa apertura della discussione, mi veniva in mente che proprio a partire
da Freud, tutti gli psicoanalisti che hanno detto a sufficienza per poter essere inclusi in un testo di filosofia o
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essere contattati da filosofi, si sono sempre demarcati dicendo che loro non facevano filosofia. Secondo me
questo per buone ragioni, magari perché non avrebbero saputo spiegare, come possiamo spiegare noi oggi.
Ma Freud sapeva benissimo che se la psicoanalisi diventava un episodio della storia della filosofia, era finita.
Secondo me, questo sentimento che ho io della differenza del rapporto con i giuristi e con i filosofi, è una
cosa che si può spingere anche più in là, e chissà che prima o poi valga la pena di confrontarsi con degli
economisti, o altri tipi di professioni moderne che possono essere interessate a ciò che diciamo.
LUIGI BALLERINI
La mia impressione è che il massimo di soddisfazione che riusciamo a portare a casa è che quando
noi parliamo di Soggetto, diritto, norma, vita psichica come vita giuridica, arriviamo a un massimo, in cui ci
dicono: «Sì, il diritto non è proprio quella cosa lì, però, se volete, possiamo chiamarlo “diritto”», ossia che
quando finita la lezione, vogliamo portarli sul nostro campo a quel punto non ci stanno, a meno di questa
concessione.
PIETRO R. CAVALLERI
In parte perpetuo quello che osservava Ballerini. Io lo metterei sotto la testimonianza dei limiti del
pensiero quando si fa conoscitivo, perché c’è poco dibattito e c’è poco dibattito perché prevale il senso di
disciplina per cui in fondo del diritto possono parlarne i giuristi, coloro che lo praticano in quanto
professionisti, non il soggetto che lo pratica in quanto pone degli atti. Mi sembra che questo sia un limite
conoscitivo che è emerso ripetutamente e chiaramente in tutti i dibattiti ed è il limite che potevamo aspettarci
essere presente. Mediamente ci incontriamo con soggetti che sono soggetti di poco diritto e così tanto poco
per cui se se ne può parlare è soltanto all’interno di una disciplina codificata e in quanto professionisti della
disciplina.
Stante questo rilievo, ho colto una questione che mi è sembrata rilevante per noi, e l’ho colta fino
dalla prima lezione, quando il Prof. Negri, che pure è stato il caposcuola di questa posizione riguardo alla
definizione del diritto ossia «Se volete possiamo chiamarlo tale, ma non è quello di cui ci occupiamo», ma in
questo lui ha mosso quella che per lui poteva essere un’obiezione quando ha detto che il diritto presuppone
la terzietà del giudice, ossia che il giudizio sia terzo.
Questo in qualche modo mi ha colto un po’ di sorpresa, perché lo schema a cui ero abituato a pensare era la
relazione Soggetto-Altro e ogni soggetto sanziona i propri altri, dunque ogni soggetto è parte in causa e
giudice.
Perché la forma della relazione sia concepibile come diritto occorre che il giudice sia un terzo, mi è
sembrato che non si potesse sfuggire da questo rilievo, lo si dovesse accogliere in qualche modo.
Questo mi sembra sia uno spunto problematico che uno dei nostri relatori ci ha offerto, un punto che
io trovo come capitale.
Rispetto a questo mi ci sono provato a pensare: vi anticipo soltanto la forma in cui l’ho pensato. La terzietà
del giudice è confermata dal fatto che il soggetto è giudice e sanzionatore della relazione che vede in atto fra
il proprio Altro e il suo Soggetto: cioè, è giudice di una relazione già in atto e sanzionando poi di volta in
volta i propri altri della propria relazione si rifà nel giudizio a quella relazione iniziale di cui lui era terzo. Si
dovrebbe completare tutto questo.
GIACOMO B. CONTRI
Pietro R. Cavalleri ed io circa un mese fa abbiamo avuto una conversazione telefonica a questo
riguardo. Mi chiedo quanto ci sia da andare avanti.
C’è almeno un caso di esperienza non giudiziaria da tribunale, e neanche giudiziaria da psicoanalisi,
che è una situazione giudiziaria, è un processo, e ambedue i casi da confessione. Ma al momento andrebbe
bene anche solo quella da confessionale: in cosa, almeno quella da confessionale, è chiaramente distinta con
la situazione giudiziaria da tribunale? Se anche io al magistrato confesso che sono stato io ad ammazzare il
tale, non per questo io sarò trattato da giudice. Eppure il confessare di essere stato io ad ammazzare è un
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vero e proprio atto di giudizio: c’è uno, che sono io, che asserisce, adducendone anche le prove, che
qualcuno ha compiuto un fatto.
Il magistrato non mi tratterà come un giudice, nella confessione sì: il giudice non è il prete e non è neanche
Dio, tanto è vero che nella confessione si chiede di sapere quello che si sta dicendo, di essere competenti di
ciò che si sta dicendo. La confessione riconosce la posizione di giudice del penitente.
In quella pratica che chiamiamo psicoanalisi il giudice è riconosciuto nel Soggetto, confessante.
Invece là, nel diritto, no.
Se si trova o no una terzietà nel giudizio di cui parliamo, in un Soggetto che sa giudicare le malefatte d’altri,
su questo vediamo di andare avanti.
RAFFAELLA COLOMBO
Volevo riprendere due spunti, uno di Maria Delia Contri e uno di Glauco Genga.
Maria Delia Contri diceva che la storia della filosofia è una storia del pensiero con un fondo di
angoscia. La situazione attuale è la chiusura del cerchio: questa è la condizione della storia del pensiero oggi.
Quel fondo di angoscia riconosciuto, oggi è stato dichiarato come punto conclusivo. Da adesso in poi è post,
come ricordava prima Alberto Colombo parlando di un’altra questione.
È la chiusura del cerchio sull’angoscia: l’angoscia c’è, secondo la storia del pensiero, ed è il punto di verità.
Da questo momento in poi siamo appunto nel post.
Noi diciamo: siamo nell’aldilà. La differenza tra post e aldilà è che dopo il riconoscimento dell’angoscia
come presunto momento reale che il soggetto dovrebbe accettare, ingiudicabile, cioè nulla è più giudicabile,
rimane soltanto l’ordine; bisogna solo fare ordine e mantenere l’ordine.
Interpretazioni, statistica, funzionalismo: sono tutti modi per mantenere l’ordine. Come emergeva sabato con
Santosuosso: i comitati d’ordine.
Noi siamo i primi a parlare di ricapitolazione.
Aldilà dell’angoscia, della rassegnazione all’angoscia, che è proprio l’assunzione della psicopatologia.
Assumere l’angoscia come punto finale oltre al quale non si può andare, perché questo è il punto
dell’emergenza del Soggetto, il culmine della posizione umana, il culmine della dignità. Bisogna solo
mantenere l’ordine.
Noi parliamo di aldilà, dove l’angoscia ha un senso ben preciso ed ha un’utilità di orientamento ben precisa.
È amica.
L’osservazione a proposito di ciò che ricordava Glauco Genga: la sequenza di incontri del sabato
mattina, del Corso annuale, è completa e sono proposti appunto come un pacchetto completo. Se si ritenesse
che manca qualcosa alla comprensione per chi partecipa soltanto al Corso, significherebbe avere una
posizione riguardo al pensiero che è un posizione che rinnega la competenza soggettiva. La completezza
riguarda la forma del pensiero, la forma giuridica del pensiero, che nel Corso viene posta continuamente e
contrapposta a posizioni inconcludenti.
Ritenere che per capire qualcosa occorrerebbe qualcosa d’altro è pensare che il Soggetto non pensa,
perché la comprensione gli verrebbe da un’offerta più adeguata, più articolata.
Basta il pensiero per capire, e non informazioni dettagliate che semmai qualcuno può aver voglia di iniziare
a ottenere. La completezza produce desiderio di saperne di più, il desiderio di lavorare: può incrementare il
lavoro soggettivo.
GIACOMO B. CONTRI
Un giorno, a inizio Ottocento, c’è stato qualcuno che si è accorto che la cosa gli stava a cuore, che
non era considerata. È stata la più grande furbata della storia della filosofia. È stato Kierkegaard che ha detto
“dato che l’angoscia è stata lasciata fuori, mettiamola dentro!” e si è messo a parlare dell’angoscia. Furbata
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disonesta. La sola interrogazione onesta sarebbe stata: andiamo a vedere dove l’angoscia ha agito in modo
tale da informare, da dare forma a un certo altro pensiero filosofico, che è quello che facciamo noi.
E da qui è venuto fuori tutto il resto: l’esistenzialismo, etc. Dopo si è andato avanti: moltissimi filosofi oggi,
hanno aumentato il numero di oggetti di cui la filosofia si occupa, persino i bambini. La filosofia è stata, e lo
è tuttora, incapace di pensare il bambino e di pensarlo in quanto pensante. Porre il bambino a oggetto della
modestia, della grande virtù di modestia del mio lavoro di filosofo, è mangiare il bambino.
O lo psichiatra schizofrenico — notoriamente tale, visibilmente tale, dalle condotte più palesi — che
cavalcando una filosofia fra Kierkegaard e l’esistenzialismo, scrive libri e libri sulla schizofrenia anziché
compiere il primo gesto: cercare di guarire. Allora, potrebbe fra l’altro, anche scrivere un libro sulla
schizofrenia.
Noi valorizziamo il nesso fra moralità e qualsiasi azione, in questo caso fra la moralità e la forma
assunta dal proprio pensiero, tanto a maggior ragione se il mio pensiero è passato alla fama delle stampe
imperiture.
Non ha nessun interesse notare che l’uomo, imputato o giudice che sia, è il fulcro della giustizia e del
diritto, come mi sottolineava Raffaella Colombo. La parola fulcro vuol dire punto di applicazione: dunque
l’uomo è anche il fulcro dei pugni che prende in faccia, della psicopatogenesi infantile, è il fulcro di
qualsiasi schifezza. In sé, essere fulcro di qualcosa, non è l’ideale. Il fulcro è inoltre privo di attività: più sta
fermo e più serve da fulcro. In esso la bontà è sinonimo di staticità, di paralisi.
Dire che l’uomo è il fulcro del cristianesimo è quanto di più lontano dal cristianesimo: è il soggetto
agente del cristianesimo.
Ciò che diciamo, e cioè che il Soggetto è fonte del diritto, come la Costituzione italiana è chiamata la
fonte del diritto dello Stato italiano.
Non facciamo altro che parlare di sovranità, fino a individuare un barlume di sovranità anche nella patologia
più stracciona, rivoltante.
Ecco perché dire che certi soggetti fanno l’inferno nel loro fare schifo, è una forma di rispetto intrinseca.
Che crepi la psicoanalisi, che crepi la filosofia, che crepino tutte e due. Non ne voglio più sentire
parlare, né dell’una, né dell’altra. Io non gioco neanche più a chiamarmi “psicoanalista”. Perché io sono un
filosofo. E non voglio sentirmi chiamare filosofo, perché sono uno psicoanalista. Sono sinonimi: in me sono
sinonimi.
È quella ricapitolazione, ossia rifare i capitoli, e farne uno solo. Dire che la risposta all’angoscia ha
dato la forma ai più diversi pensieri filosofici è una delle più grandi verità che possiamo dire. Rifiuto la
patente di filosofo a chiunque non abbia fatto questo atto. Non gioco più. O di psicoanalista che non abbia
compiuto questo atto.
Pensiamo all’inizio di questo secolo, allorché sono cominciate le cose peggiori: la cosa peggiore si è
chiamata psicologia.
La storia della filosofia è la storia della psicologia o della psicopatologia non-clinica. È vero che è su questo
punto che il dibattito a un certo punto si arresta.
Vediamo che tutti i nostri incontri si arrestano su un punto, tutti con il cordiale pretesto che sono le
12,30. Anch’io non vedo come potrebbe non arrestarsi lì. A noi tocca di individuare qual è il punto: sono
d’accordo che è il punto dell’angoscia, il punto in cui il pensiero del nostro interlocutore si deve fermare.
Il massimo della concessione, venuta da Lombardi Vallauri, è stata «Il diritto è quello che dite voi, a pieno
titolo. Posso concederlo, ma tanto non c’è rapporto».
Che i più abbiamo sostenuto che c’è un ordine già bello dato lì, o che lui facesse il licenzioso dicendo che
non c’è nessun ordine, era poi la stessa cosa: è lo stesso modo di dire l’impotenza del Soggetto come fonte o
l’inesistenza di qualsiasi sovranità. È ciò su cui il nostro mondo, compreso il mondo in noi, non si rompe.
Il verbo “rompersi” è un verbo interessante. «Rompersi a …», ad esempio una disciplina o entrare
nell’ordine di idee. Può anche darsi che in saecula saeculorum il nostro mondo e le nostre teste si rompano a
ciò che andiamo dicendo. Potrebbe anche essere il punto di vista di Dio. La celebre frase «Quando il Figlio
dell’Uomo tornerà sulla terra, troverà ancora fede?». Ho citato questa frase come formalmente identica a
quello che sto dicendo e quello che sto dicendo è formalmente identico a questa frase.
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Per me è no. Potrebbe anche essere che il senso della storia dell’umanità sia quello di arrivare ad esaurire la
lista di tutte le sue peggiori possibilità: esaurita la lista potrebbe essere il momento dell’ultimo giudizio. Io
me l’aspetto festosamente.
È festosa la concezione dell’ultimo giudizio: per questo Michelangelo, nella Cappella Sistina, ha torto.
Il giudizio è la festa delle feste, non è il tempo della condanna. Il tempo dell’ultima guarigione.
Non credo che Freud lo pensasse, ma quando ha parlato della pensabilità, della possibilità della fine
dell’analisi, alludeva all’ultimo giudizio. Fine di… significa Ultimo Giudizio.
Noi abbiamo il mezzo di praticare, conoscere perfettamente le premesse.
A proposito del fatto che tutta la filosofia va da un’altra parte rispetto al pensiero individuale, alla
sua esistenza, al suo essere fonte, e che a ciò si contrappone sempre l’idea di un ordine già dato, ascoltando
ho connesso ciò con quella opposizione d’epoca ebraica è stata caratterizzata, tipicizzata, in questo modo:
ma perché non fai il messia, il capopopolo, perché ti seguiremmo tutti. Perché non fai in modo che l’ordine
sia già tutto dato? E Gesù se l’è filata. È a Dio che non interessa far sì che l’ordine sia tutto dato.
Interessante il pensiero di un Dio come Dio di sovrani. È l’idea che coltiviamo noi.
La psicologia nel nostro secolo è venuta fuori e non c’era prima, tranne l’essere un po’ legata, un po’
tutt’uno con l’ontologia e la metafisica, cosa praticata malissimo, peggio di come l’hanno detta i filosofi non
potevano dirla, ma un barlume d’idea c’era: non per niente il nostro seminario centrale si intitola Aldilà:
meta-fisica. Noi curiamo, se curiamo, per mezzo della metafisica. Freud l’aveva chiamata metapsicologia un
po’ perché metafisica gli ricordava un po’ troppo quella filosofia che lui senza esitare chiamava paranoica,
ma poi perché la parola “metafisica” in ogni caso era già occupata.
Un secolo fa, sulla fine dell’Ottocento, è stato fatto in modo, con accettazione mondiale, che fosse definitiva
la separazione fra filosofia e psicologia, e la psicologia fu.
Se non fosse che detesto l’espressione “il male”, io dire “il male fu”.
Ciò che specialmente è successo, è stato che questa distinzione è stata accettatissima da tutte le università
cattoliche: tutti contenti a fare le due cattedre.
Il Papa chiede ora chiede scusa per gli errori storici del cattolicesimo: ma eccolo qui.
Nel nostro secolo, la semplice parola “filosofia”, per i sapienti e i non sapienti, è diventata
l’ossidante del pensiero di tutti, come si dice che un motore si è ossidato. Basta dire filosofia e abbiamo il
pensiero imbalordito, assordato.
RAFFAELLA COLOMBO
È stato più volte osservato questa sera che si constatava un arresto del pensiero. L’espressione
“arresto del pensiero”, questo fenomeno è noto quando c’è angoscia. Non si procede, l’elaborazione si
ferma.
Però questo arresto del pensiero, notato al Corso, non era di fronte a un inganno. L’inizio della malattia è
dato da un inganno che mette in crisi e arresta il pensiero del Soggetto. Più che altro si tratta di “crisi” del
pensiero.
Nel Corso questo accadeva di fronte all’indicazione di una via di uscita, ossia di fronte a una soluzione: il
momento in cui ti sei assunto il compito, l’onere, di indicare una soluzione, proprio in quel momento c’è un
non volerne più sapere, un arresto.
Questo è un arresto attivo. Dire “arresto del pensiero” non è corretto: «Io mi arresto», oppure «Non ne
voglio sapere».
Un atto equivoco, non ingenuo, ed è lo stesso atto che ha fondato le discipline di questo secolo: di fronte un
arresto di pensiero, a una inconcludenza, a una impossibilità di trovare una soluzione,…
GIACOMO B. CONTRI
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Dici bene “discipline”: tanto è vero che dopo filosofia e psicologia, sono venute psicologiapedagogia, scienze dell’educazione, e poi si va avanti, perché poi l’errore è sempre sistematico. Non c’è
nulla di più sistematico del disordine.
RAFFAELLA COLOMBO
Nel disordine, posto addirittura come dato di fatto, come conclusione, punto di arrivo, si sono creati i
rimedi. Le discipline nate in questo secolo sono dei rimedi, insoddisfacenti: rimedi all’insoddisfazione.
Compromessi equivoci. Se quello che sentiamo al Corso è una carrellata di casi di psicopatologia non
clinica, sono casi di arresto del pensiero come posizione già assunta, di fronte a qualsiasi soluzione proposta,
foss’anche la più facile, la più soddisfacente.
Di che cosa si tratta quando di fronte a una soluzione, c’è arresto del pensiero, mentre si sa che
l’arresto del pensiero non è di fronte alla soluzione, è di fronte all’assenza di soluzione.
GIACOMO B. CONTRI
Su questo io risponderei che la storia riguarda anche il futuro. Nelle nostre vite personali, se siamo
sani, siamo anche storici del futuro. Almeno, da qui l’idea del caso ci esce dalla testa. Soggetto-Altro
nell’universo costituiscono l’universo: non c’è più niente di casuale. Nel casuale può rientrare il fulmine.
Di fronte a una soluzione e non di fronte a un inganno, bisogna che questa soluzione diventi davvero
offerta presente di soluzione, prima di sapere che l’arresto di pensiero che abbiamo sperimentato in tutti gli
appuntamenti del Corso è la regola. Lì e in persone che hanno già definito tutte le coordinate della loro
esistenza, l’arresto del pensiero è estremamente istruttivo per noi, perché si tratta sempre dello stesso punto.
Ma quel tanto di proposta e di offerta che è quello che andiamo dicendo e simultaneamente elaborando, non
possiamo dire che sia da lungo nota a tutti. Considero eccezione alla regola, e non regolare, che riscontriamo
l’arrestarsi a un certo punto del pensiero dei nostri interlocutori, perché i nostri interlocutori sono un po’
troppo ingessati nei loro ruoli perché succeda qualcosa di diverso. In ogni caso, largamente definiti dal punto
in cui sono arrivati. Non si può dire che a metà del loro liceo o della loro università si siano mai sentiti dire
niente di diverso da quello che vanno dicendo. In certi casi abbiamo persone come Lombardi Vallauri che
invece di dire ciò che gli è stato detto, vanno dicendo il contrario di ciò che gli è stato detto, ma è
esattamente la stessa cosa.
AMBROGIO BALLABIO
Mi sembra che su questo punto potrebbe nascere una contraddizione, perché che la soluzione che
proponiamo noi non sia nota a tutti da molto tempo è vero se parliamo come stiamo facendo della modernità
e del pensiero della modernità. Ma se consideriamo quello che diciamo della sovranità del bambino,
dovremmo concludere che invece è una soluzione nota a tutti da sempre.
GIACOMO B. CONTRI
La sola risposta è che si tratta di fare apologia dell’innocenza, mentre il bambino è ingenuo,
sconfiggibile e corruttibile.
AMBROGIO BALLABIO
Ma questo non dipende da come sono andate le cose nell’ultimo secolo.
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GIACOMO B. CONTRI
D’accordo. All’arresto del pensiero corrispondono due grandi vie di risposta: una è i rimedi. Nella
clinica si chiama “nevrosi”. Come ricordava Maria Delia Contri, nel mondo in cui siamo è ancora ancora
quel tanto di normalità che è dato di conoscere nella maggior parte delle persone.
Poi c’è qualcosa d’altro, che non sono i rimedi, ma sono un’opera di sistematizzazione di quello che
chiamiamo perversione: è una cosa molto diversa. Che uno si metta a fare l’orientale come Alberto Sordi
diceva “fare l’americano”, questo è un rimedio. Ma non è solo di questo che si tratta.
Introdurre l’angoscia come oggetto del discorso filosofico non è un rimedio: è una brutta strada. Una
cosa bene osservata da Lombardi Vallauri verso la fine era che noi mettiamo tanto al centro di tutto ciò che
diciamo il concetto di salute o di patologia. Corretta osservazione. Simultaneamente, alternativamente, di
settimana in settimana, parliamo di massimi sistemi e di casi clinici e trattando questa alternanza come fosse
una botta alla gamba destra e una alla sinistra. È una corretta osservazione, ma è persino sorprendente per
noi ogni volta che lo diciamo. Fino a denunciare come teoreticamente invalido ogni discorso che non includa
in sé, come strutturante, la salute, il pensiero intorno alla salute.
Per questo, contrariamente a tutta la psicologia, la nostra psicologia ha un solo tema e tutti gli altri sono solo
variazioni sul tema: il tema della salute.
Il pensiero teoretico corretto è qualificabile come corretto in quanto pensiero sano.
In questi incontri, in fondo, siamo lì a piè fermo a segnare una posizione, a segnare qual è la
posizione di un soggetto, che abbia una norma fondamentale di pensiero e di azione. A nessuno nella nostra
cultura, giuridica o non giuridica, verrebbe in mente di connettere la parola norma con la parola pensiero: è
sempre norma di azione. E ci risiamo con l’ordine. È sufficiente dire norma di pensiero per accorgersi che è
il pensiero ad avere una norma e non a subire una norma, ma ad avere una norma fino a farla.
I Salmi sono norma: è il pregante a porre quella norma che è il salmo. È vantaggioso mostrare la
identità di questa, e non altre, specie di preghiera con una norma, con la norma come va intesa, non come la
intendiamo, perché noi abbiamo la fissa di intenderla così: questo è l’unico concetto di norma possibile. Lo
stesso diritto dello Stato, per quel che ne rimane, vive come norma dell’essere la norma quello che diciamo
noi. E cioè è vero che il fondamento di tutte le norme è l’individuo.
La nostra concezione della psicopatologia non clinica è di costituire un’espressione che sta per la
parola ordine così come usata dai nostri interlocutori: quell’ordine è un disordine che è una psicopatologia
non clinica, ossia un discorso valido per tutti. Poi leggendo anche i testi di autori più o meno consacrati,
sono lì a parlare di ordine, ma poi gli ordinamenti sono tanti, alla fin fine l’ordine risulta dalle interazioni di
diversi ordinamenti.
Sì: abbasso la psicoanalisi e abbasso la filosofia, perché se valesse ancora la spesa di valerci di questi
lemmi totalmente corrotti, irrecuperabili, impraticabili, e non si gioca più, è soltanto la condizione per dire
che è avvenuta quella ricostituzione di tutto, quella ricapitolazione tale che faccia sì che sono sinonimi. O
sinonimi o niente. A questa condizione si può benissimo dire che La città di Dio di Sant’Agostino è un testo
di psicologia. Senza questa condizione, che cosa hanno detto tutti da secoli e secoli? Che siccome
Sant’Agostino ha scritto due cose, Le confessioni e La città di Dio, il primo sarebbe psicologia, mentre il
secondo siccome parla di come va il mondo è politica. Ecco un esempio di cosa vuol dire ricapitolare.
Avessimo una collana di libri intitolata “psicologia”, in questa ricapitolazione vi pubblichiamo La città di
Dio.
Il De Trinitate è un libro di diritto, non di teologia: un libro su come vanno i rapporti fra quei tre.
Non si tratta di attendere il Messia: in primo luogo, perché a buon conto, se di Messia si trattava, è
già venuto. Secondo, non si tratta di attendere il Messia perché questo Messia non ha nessuna intenzione di
mettersi a fare dell’ordine, mi mettersi a capo della piramide sociale e muovere eserciti contro il nemico
facendoli fuori tutti. Non si mette a fare nessun ordine per cui poi si possa dire “ecco l’ordine”, ma per la
semplice ragione che si tratta delle competenze sovrane di coloro ai quali si è rivolto quel Messia, se Messia
è stato.
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Il cristianesimo nei primi secoli è stato quello che è stato perché è stato culturalmente giuridico: a
tutti i livelli, fino alla concezione stessa della coscienza nel suo rapporto con la morale, la concezione stessa
della confessione.
I motori ossidati non si guariscono: si cambia l’auto.
© Studium Cartello – 2007
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