Nietzsche e il Discorso

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Di Flores Tovo
Il pensiero aurorale inizia con la nascita della
filosofia. Tale nascita dà origine al pensiero
profondo, al pensiero essenziale. Tale
pensiero si rivelò presso i filosofi degli
I:ching, dei Vedanta e dei primi greci
(Anassimandro, Eraclito) attraverso la
dialettica, intesa come un Discorso o Legge
universale, concepita come lotta ed armonia
fra contrari. Il significato della parola
“dialettica” è oggi inteso come arte del saper
discutere, confondendolo con l’arte
dell’oratoria e del dibattito. In realtà il
significato vero e originario di questa parola
è quello di un Discorso, di un Lògos che
concepisce il Tutto ciò che è e non è come il
“teatro” di una lotta armonica fra contrari.
Tale Lògos funge da principio regolatore
della molteplicità sia apparente che nascosta,
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che alla mente dei più sembra caotica ed
insensata, ma che invece si dispiega e si
riassume in una logica armonica, cioè in una
connessione visibile ed invisibile, che unisce
gli opposti in una unità dinamica.
In questo contesto, ultimamente, c’è stata
una notevole riscoperta delle opere giovanili
di Nietzsche, commentate da diversi punti di
vista. E’ sorto così il problema se egli può
essere considerato un dialettico nel senso
originario del Discorso.
Certamente si può constatare che nelle sue
opere giovanili, dalla “Nascita della tragedia
” alla “Filosofia nell’età tragica dei Greci”, il
richiamo alla dialettica dei contrari di
Eraclito è esplicito. E’ assai probabile che
questo eraclitismo di Nietzsche sia nato con
gli studi filologici sul mondo greco antico e
con l’influenza che ebbero su di lui la poesia
di Hoelderlin ( lo scopritore moderno di
Eraclito) e gli studi storici di Jakob
Burckhart, che egli conobbe a Basilea. Ma
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cosa scrisse Nietzsche a proposito della
dottrina dei contrari? Egli nota che Eraclito
giunse allo scoprimento della dottrina dei
contrari “… osservando il caratteristico
andamento di ogni divenire e trapassare,
inteso da lui sotto la forma della polarità,
come lo scindersi di una forza in due attività
qualitativamente diverse, antitetiche e
tendenti al ricongiungimento. Una qualità
che entra continuamente in discordia con se
stessa e si divarica nei suoi opposti, e di
continuo
questi
opposti
cospirano
nuovamente l’uno verso l’altro…” (1).
Nietzsche critica di riflesso tutta la metafisica razionalistica classica che negava, in
base al proprio fondamento logico costituito dal principio di non-contraddizione, la
presenza degli opposti come lògos ordinatore della razionalità e della realtà.
Egli, invece, ritiene, al modo di Eraclito, che tutta la realtà in divenire è pervasa
immanentemente nella propria struttura intima dalla lotta fra i contrari.
Così infatti scriverà più tardi in “Ecce homo”:
“Il sì alla vita anche nei suoi problemi più oscuri ed avversi, la volontà di vita, che
nell’immolare i suoi esemplari più alti sente la gioia della propria inesauribilità –
questo io lo chiamo dionisiaco, questo ho inteso come ponte verso la poesia del
poeta tragico. Non per svincolarsi dal terrore e dalla pietà, non per purificarsi da una
passione pericolosa per mezzo di una violenta scarica – questo è stato l’equivoco di
Aristotele- : bensì perché, al di là del terrore e pietà, quella gioia che comprende in
sé la gioia dell’annientare… In questo senso io ho il diritto di considerarmi il primo
filosofo tragico – e cioè l’estrema antitesi e l’antipodo di un filosofo pessimista. Prima
di me non esisteva questa trasposizione dell’elemento dionisiaco in pathos filosofico:
mancava la saggezza tragica – ne ho cercato invano un qualche segno persino nei
grandi Greci della filosofia, quelli di due secoli prima di Socrate. Mi è rimasto un
dubbio per Eraclito, nella vicinanza del quale sento più calore e mi sento di miglior
umore che ovunque altrove. L’affermazione del flusso e dell’annientare, che è il
carattere decisivo in una filosofia dionisiaca, il sì al contrasto e alla guerra, il
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divenire, con rifiuto radicale persino del concetto di “essere” – in questo io debbo
riconoscere quanto di più affine a me sotto ogni aspetto sia stato pensato finora. La
dottrina dell’ “eterno ritorno”, cioè della circolazione incondizionata e infinitamente
ripetuta di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe già stata insegnata
da Eraclito. Per lo meno se ne trovano le tracce nella Stoa, che ha ereditato quasi
tutte le concezioni fondamentali di Eraclito” (2).
Il brano di quest’opera, scritta alcuni mesi prima della follia in cui Nietzsche cadde,
rivela una volta di più quelli che sono stati i motivi conduttori di tutte le opere
precedenti, a partire dalla “Nascita della tragedia”: il riaffiorare di bisogni dionisiaci
(sesso, danza, musica, culto per la natura vivente, ecc…) repressi dall’etica platonicocristiana, l’ esaltazione del divenire (amor fati), il sì al conflitto e alla guerra e
l’eterno ritorno dell’uguale (tema, quest’ultimo, di cui ci si occuperà solo
parzialmente in questo scritto).
Nietzsche pensa all’essere come tutto ciò che è presente nel suo divenire temporale,
e quindi come tutto ciò che è soggetto alla finitudine in tutti i suoi aspetti.
Per cui non c’è quella commessura fra realtà e razionalità, ma l’essere si presenta
nelle sue manifestazioni come sentimento, forza, istinto e passionalità. Nell’essere vi
è un’essenza impenetrabile da parte della ragione (il dionisiaco), che non può
essere colta dalla razionalità comune, sia essa scientifica o filosofica. Un lato oscuro
che egli considera come il fondamento dello stesso apparire degli enti, come peraltro
aveva anticipato Schelling nelle sue “Ricerche sull’essenza della libertà umana”, che
a sua volta seguiva le orme di Meister Eckart e Jacob Boehme. Enti che non sono nel
loro apparire come fenomeni di una parvenza illusoria come era teorizzata da
Parmenide o come un prodotto di un soggettivo percepire come affermava Berkeley
con la convinzione del suo “esse est percipi”, ma esistenza reale come credevano i
Greci, in particolare i preplatonici. Quindi i fenomeni sono.
L’essere è allora il fluire di tutte le esperienze degli enti nel loro vivere concreto,
tragico e gaio insieme, e non astrattezza di principi logici : “…il pensiero è finzione ”
dirà Nietzsche.
Insomma, il pensare dialettico è presente nel pensiero nicciano, ma esso è binarioe
non monistico o triadico. Quindi esso non sarà mai eletto a sistema unitario come in
Hegel, in quanto non obbedisce ad alcuna regola determinata verso l’attuazione di un
fine che non sia espressione di una volontà di potenza. Gli eventi accadono retti da
un “pòlemos” (conflitto) che sempre si ripresenta con protagonisti sempre nuovi e
sempre uguali.
Nietzsche accetta il destino, lo ama in tutte le sue convulsioni e ramificazioni, ma
definirlo come uno “scriba del caos” (3) ci sembra, se non erroneo, certamente
problematico, poiché la contraddittorietà del reale, per quanto aperta e mai
risolutiva, è governata pur sempre da un “ordine” invisibile ai più, che nelle opere
giovanili è dato dalla opposizione apollineo-dionisiaco, mentre nelle opere tarde
viene concepita come volontà di potenza (l’apollineo principium indivituadionis) ed
eterno ritorno dell’uguale (il dionisiaco flusso vitale). Vi è quindi in Nietzsche la
convinzione che ci sia sempre, all’interno della finitudine degli enti, una opposizione
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perenne fra contrari che nascostamente, come diceva Eraclito, governa lo scenario
apparentemente caotico della vita e della morte. Semmai c’è da pensare su come
egli possa essere considerato un dialettico del divenire inteso nella sua immanenza
totalizzante, poiché, come si sa, egli esclude qualsiasi “realtà” trascendente. Evola
comprenderà per primo che Nietzsche palesava una evidente carenza intuitiva,
espressa soprattutto nella “Nascita della tragedia”, per il fatto che non aveva visto la
complementarietà combaciante dei due contrari rappresentati da Apollo e Dionisio.
Egli scriverà a tal proposito : “Una delle prove della sua incomprensione per le
tradizioni antiche è la sua interpretazione dei simboli di Apollo e Dioniso partendo da
una filosofia moderna, come quella di Schopenhauer. “Dionisio” è stato riferito ad
una specie di immanenza divinificata, ad un affermazione ebbra e frenetica delle vita
nei suoi stessi aspetti più irrazionali e tragici. Per contro, di Apollo Nietzsche ha fatto
il simbolo di una contemplazione del mondo delle forme pure intesa a liberare dalla
sensazione e dalle tensione di quel sottofondo irrazionale e drammatico
dell’esistenza, quasi fosse una fuga. Tutto ciò è privo di fondamento”. Inoltre,
aggiunge Evola, “… la via dionisiaca fu una via misterica… un vivere portato ad una
particolare intensità il quale sbocca, si capovolge e si libera in un più-che-vita, grazie
ad una rottura ontologica di livello. Volendo, questo sbocco, che equivale alla
realizzazione, al ravvivamento o al risveglio della trascendenza in sé, possiamo
proprio riferirlo al vero contenuto del simbolo apollineo. Da qui, l’assurdità della
antitesi, stabilita da Nietzsche, fra “Apollo” e “Dionisio “ (4).
In effetti una semplice opposizione di contrari che rimangono nettamente separati
fra loro si esaurisce in un dualismo superficiale ed inferiore, in quanto i contrari,
anche se posti sullo stesso piano ontologico, diventano irriducibili l’uno all’altro,
come ad esempio i contrari etico-teologici fra Bene e Male propri dei Manichei e dei
loro seguaci Pauliciani, Bogomili o Catari o dai Calvinisti di cui gli Americani sono
l’esempio vivente. Infatti una tale contrapposizione, in costoro, non implica una unità
superiore, cioè una “coincidentia oppositorum” che è la risoluzione armonica e
perciò davvero sintetica fra i contrari. Se viene a mancare, scriverà Guènon (5), una
vera integrazione unitaria fra contrari, ci sarebbe ad aeternum una situazione
conflittuale che implicherebbe uno squilibrio totale che ucciderebbe qualsiasi forma
di vita. Il complementarismo fra contrari comporterebbe pur sempre dualità ma che
sarebbe contenuta in una unità superiore che garantirebbe l’equilibrio fra i due
termini.
Già Anassimandro con l’intuizione intellettuale dell’Infinito come Uno contenente i
contrari, ed Eraclito stesso con il frammento n. 10, quello della syllàpsis (…da tutte
le cose l’uno e dall’uno tutte le cose) con in aggiunta il 41 (Esiste una sola cosa
saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso tutto) ed il 50
(Prestando ascolto non a me, ma alla ragione, è saggio convenire che tutte le cose
sono uno), ed altri grandi dialettici quali Cusano, Bruno, e lo Schelling della filosofia
della libertà avevano compreso il senso profondo della coincidentia oppositorum. E di
questa si rendono assertori, sia pure in modo diverso dagli altri e fra loro Fichte ed
Hegel.
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Il filosofo E. Fink, in suo famoso libro su Nietzsche, affermò che l’unità degli opposti
in questi è “…sì nominata, ma non concepita in una comprensione intellettualmente
compiuta dell’essere (6).
In effetti Nietzsche intese la polarità fra Apollo e Dionisio come gioco (il bimbo che
gioca coi dadi, fr. 52 di Eraclito), un gioco che caratterizza l’innocenza del
divenire. L’essere è allora per lui il gioco stesso che non si risolve mai in una
totalità, ma che sempre si ripresenta irredimibile e tragico nella perennità finita del
divenire.
Per lui l’essere è il divenire stesso, è la vita finita ed empirica, è gioco che rende
alcuni dei, altri schiavi oppure uomini o superuomini.
Dionisio e Apollo sono i due contrari che si fronteggiano: il primo è, nella “Nascita
della tragedia”, l’amorfo flusso della vita, la volontà di vivere schopenhaueriana, il
secondo è ilprincipium individuationis. Fink su questo punto è lapidario:
“Così egli si distingue da Schopenhauer anche nel fatto che non concepisce il
fenomeno come una pura creazione dell’intelletto umano, ma come una forma
apollinea posta e prodotta dallo stesso principio cosmico dionisiaco, forma che è sì
apparenza, ma che tuttavia non è un nulla: così anche il tempo ha per Nietzsche un
più serio significato: esso non sussiste soltanto per l’intelletto, ma è il modo in cui il
principio governa: il gioco di Dionisio è il puro divenire. Poiché il tempo esiste nel
principio stesso del mondo, può avere un grande significato nel regno degli Enti
apparenti” (7).
Dionisio, dinamicamente, si antepone ad Apollo: esso è l’essere stesso, il divenire
temporale entro cui Apollo si oggettiva cercando di ordinare il caos originario dal
quale proviene. Ai tempi dei grandi Fisici (i preplatonici) il rapporto fra queste due
Divinità, che rappresentavano l’essenza spirituale e vitale dei Greci, era, per così
dire, felice . In mondo apparentemente ordinato dalla compostezza e dall’ordine
sociale politico, etico ed estetico (il cosiddetto classicismo) si celebravano in taluni
periodi dell’anno le terribili e potenti esplosioni orgiastiche che culminavano nello
sfogo delle pulsioni più profonde della psiche umana. La tracotanza vitalistica (la
hybris) equilibrava quindi i ritmi dettati dall’ordine razionale apollineo.
Sennonché Socrate prima (il greco fallito per eccellenza secondo Nietzsche) e poi
Platone e poi ancora Il Cristianesimo innalzando la ragione umana al massimo grado,
e quindi innalzando Apollo, di fatto reprimevano e rimuovevano il dionisiaco
rendendo così gli uomini malati nel corpo e nella mente.
E tutta l’opera nicciana condannerà questo attentato alla salute psico-fisica umana
arrivando persino ad odiare mortalmente il Cristianesimo, contro il quale scriverà
tutte le sue opere ad indirizzo etico (invero quasi tutte).
In realtà, anche se ammettiamo la realtà degli aspetti antivitalistici del
Cristianesimo, quali la sessuofobia, la compassione, l’esaltazione degli umili ecc.,
tant’è che esso arrivò a concepire Dionisio come il Diavolo (la figura caprina è la
stessa), tuttavia è da ritenersi che nel Nietzsche giovane, come si diceva, ci sia un
grande deficienza intuitiva che consiste nel non aver compreso il collegamento
omogeneo fra la sfera dionisiaco-apollinea, misterico-mantica e la sfera dialettica. G.
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Colli è estremamente chiaro e decisivo nell’individuare tale inadeguatezza sinottica
del primo Nietzsche.
“Apollo,” scrive Colli “nella sua significazione avvolgente, come simbolo di
esaltazione conoscitiva, come parvenza che allude a qualcosa di nascosto, non solo si
allarga in Dionisio, o almeno è affine a lui, è in comunicazione con Dionisio stesso
inteso come effusione interiore del sentimento, straripante e collettiva, come
immediatezza e animalità estranee alla parola, ma è il dio della sapienza, allo stesso
modo che lo è dell’arte, è il protettore della comunità pitagorica: non c’è antitesi qui
tra arte e conoscenza, come vorrebbe Nietzsche, e Dionisio non è un dio concorrente
della sapienza, poiché quest’ultima è legata alla parola, strumento di Apollo. Costui è
il dio del responso, della parola ambigua, della divinazione, della conoscenza del
futuro, e indirizza tutto ciò con imperiosa ostilità, con fomentazione agonistica.
L’istigazione a interpretare, l’ostilità della parola come stimolo alla lotta, la
formulazione antitetica dell’enigma: ecco gli elementi che vivranno nella dialettica. Il
carattere di Apollo riapparirà nella spietata volontà di vittoria di chi discute, e la sua
violenza si tradurrà nel legame di necessità che stringe l’argomentare della ragione”
(8).
Apollo quindi cela, al di là della compostezza razionale, violenza, volontà di
affermazione, e una natura dialettica che ne rivela la concordanza e la
complementarietà con Dionisio. Eraclito scriveva nel frammento 48 : “ Nome
dell’arco significa vita; ma la sua opera è morte”. Nella lingua greca la parola arco si
scrive bìose così la parola vita. L’arco è lo strumento di Apollo, che quindi è anche
un uccisore.
E lo stesso Dionisio, dio del vino, dell’eros e della danza sfrenati, è anche il dio della
sapienza, poiché l’ebbrezza che il vino dà, vince sull’opacità del quotidiano,
preparando così il momento esaltante per il conoscere umano che è dato
dall’intuizione. Del resto, da sempre, la creatività del genio ha abbisognato dell’aiuto,
diciamo così, alcoolico. Si ritiene altresì che l’albero della conoscenza del bene e del
male, che la Bibbia non specifica, sia in realtà una vigna, o comunque un albero, i cui
frutti, una volta fermentati, donino l’ebbrezza della conoscenza.
Le opere giovanili di Nietzsche presentano allora la opposizione Dionisio-Apollo come
opposizione dualistica, tutta all’interno di una finitudine che non trova mai
risoluzione in una unità fra contrari che la trascendono.
Nelle opere della maturità tale opposizione si ripresenta sotto altre spoglie. Apollo, il
principio di individuazione, diventa la volontà di potenza del superuomo, mentre
Dionisio viene concepito come l’eterno ritorno dell’uguale. Con questi due pensieri
fondamentali, che Nietzsche elaborò soprattutto in opere quali “La gaia scienza”,
“Così parlò Zarathustra” e nei frammenti postumi raccolti dalla sorella e da Peter
Gast con il titolo di “La volontà di potenza”, egli approfondì radicalmente in senso
cosmologico ed ontologico il dualismo pensato in gioventù, che era un dualismo
espresso in termini estetici e più genericamente culturali, sulla scorta del pensiero
del suo grande maestro Burckhart. Cosicché, soprattutto ne “La volontà di potenza”,
egli cercherà di superare la netta antinomia fra apollineo e dionisiaco,
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comprendendo i due contrari in una unità superiore. Lo stesso E. Fink osservò questo
sforzo intellettuale di Nietzsche, quando sottolineò con un finalmente la più
profonda penetrazione dell’antico dualismo:
“Volontà di potenza ed eterno ritorno in rapporto fra loro come l’Apollineo e il
Dionisiaco, o, piuttosto, sono il dualismo, finalmente penetrato da Nietzsche, della
sua antica metafisica dell’artista” (9).
La volontà di potenza viene identificata con la vita stessa, intesa come forza
espansiva propria di tutti gli enti, sempre spinta all’autosuperamento. In altre parole
la volontà di potenza si manifesta come legge di natura, come morale, come politica e
come arte e trova la sua più alta espressione dinamica nel superuomo, che non è
ueber (super o oltre) solo e perché è oltre l’uomo del passato, ma soprattutto perché
la sua essenza consiste nel continuo oltrepassamento di sé. La vita è quindi
autopotenziamento, autocreazione, una libera produzione di sé che va oltre qualsiasi
piano prestabilito.
Essa, poi, trova il suo culmine o massimo compimento nell’accettazione completa
dell’eterno ritorno dell’uguale, quando cioè il superuomo si libera del peso del
passato e “redime” il tempo.
Proprio in quanto principio di individuazione la volontà di potenza ripropone il mito
di Apollo, del dio che vuole la Forma, la distinzione, la disciplina forte che forgia,
crea e differenzia. Perciò Nietzsche, nella quarta parte de “La volontà di potenza”,
comprende che l’apollineo è strettamente connesso con il dionisiaco, poiché esso può
celebrare se stesso solo nell’eterno ritorno. Il dualismo viene superato attraverso
l’unità fra i contrari. La volontà di potenza (l’apollineo), che è l’essenza stessa
dell’ente, viene concepita qui come una dionisiaca volontà della volontà che attua se
stessa nella assolutezza dell’istante dell’eterno ritorno (il dionisiaco).
La supremazia di Dionisio è qui evidente. Esso è l’Essere vivente che comprende
insieme volontà di potenza ed eterno ritorno, ma senza però estinguere il loro
contrasto. La volontà di potenza, infatti, vuole la Forma, mentre l’eterno ritorno la
inghiotte. Il distinto si dissolve nell’indistinto. Il superuomo è un Giano bifronte.
“Dionisio è l’unità della volontà di potenza come tendenza apollinea e l’eterno ritorno
come profondità dionisiaca del tempo in tutte le cose finite”. (10)
La “profondità dionisiaca” del tempo non è però più concepita come accettazione del
flusso perenne delle cose. Il Nietzsche della maturità vuole redimere lo stesso
divenire dal generico “…e così via”. Il divenire viene mantenuto come divenire, ma in
esso viene immessa la stabilità, che è appunto l’eterno ritorno dell’uguale. L’ente,
raffigurato dal pastorello nel capitolo del “Convalescente” dello “Zarathustra”, può
determinare, staccando con un morso la testa del serpente (simbolo dell’eterno
ritorno), il carattere del divenire, ed essere perciò libero.
Detto questo, si possono, indipendentemente dalla straordinaria potenza del suo
pensiero, notare da un punto di vista strettamente logico-filosofico delle difficoltà
insuperabili all’interno del sua visione.
Sorge infatti la domanda di come è possibile che un eterno temporale che sempre
ritorna e che essendo governatore degli enti è di per sé finito, anche se si ripete
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all’indefinito, possa sussistere in sé, se tutto è contingente.
Eppoi come può l’attimo, essendo temporale, essere anche assoluto, visto che ogni
assolutezza trascendente viene esclusa?
Queste domande non possono trovare soluzione all’interno del pensiero nicciano, né
è l’obiettivo di questo lavoro approfondire tali tematiche. Si può solo fare qualche
aggiunta a quanto detto.
L’eterno ritorno dell’uguale, infatti, non è una verità che aderisce alla realtà del
mondo, perché essendo il mondo soggetto al divenire non sarebbe possibile cogliere
un attimo eterno, perché il tempo è sì indefinito, nel senso che non finisce mai, ma
che non è il vero infinito, perché il vero infinito non può essere determinato da
alcunché, poiché altrimenti sarebbe una parte, e perciò finito. Il superuomo che
decide di vivere l’eterno ritorno dell’uguale deve viverlo “come se” fosse vero, non è
importante dimostrarne la veridicità : in fondo questo non è il suo pensiero più
abissale ?
Si può inoltre rilevare che se tutto è finito e contingente, anche se suscettibile di
estensione indefinita, ciò significa che esso è rigorosamente nullo rispetto all’Infinito:
nessuna somma di finiti dà l’Infinito e una “eternità” temporale è sempre relativa agli
enti, e perciò non può essere la vera eternità, in quanto questa è astrattamente
connessa all’Infinito che essendo indeterminato è senza tempo (11).
Nietzsche non ha saputo o voluto rispondere a queste domande poiché era tutto
impegnato nell’opera di distruggere ogni certezza metafisica e teologica.
La connotazione della sua meditazione sta tutta qui: ciò che è stato vero per millenni
era falso e nessun’altra verità assoluta può essere costruita, se non come prospettiva
e come imposizione di una volontà di potenza. Ma il vero in quanto tale non può più
sussistere. Il suo nichilismo è e vuole essere perfetto.
In questo lavoro sul filosofo di Roecken, si è voluto soprattutto esaminare gli aspetti
dialettici del suo pensare, e come conclusione possiamo rilevare che egli, pur
aderendo alla visione eraclitea della vita, non riesce ad afferrare il significato più
profondo della dialettica, sebbene nelle opere della maturità egli comprenda la
strettissima correlazione fra i contrari, superando così il superficiale dualismo
proposto nelle sue opere giovanili. Egli non riesce a pervenire compiutamente al
concetto essenziale della dialettica che è la “coincidentia oppositorum”. Solo questa
concezione è la vera, originaria intuizione intellettuale della dialettica rivelativa: ma
essa implica il concetto fondamentale di Trascendenza, che è ciò che contiene gli
opposti, e che è al di sopra degli opposti stessi, i quali, fra l’altro, nelle loro
determinazioni più generali di essere e non-essere rimangono fissati al finito, cioè
alla manifestazione degli enti e alla loro non-manifestazione. L’intuizione intellettuale
dell’Infinito è l’origine di ogni nostro pensiero e di ogni Tradizione.
Infine, questa incomprensione del carattere monistico e triadico della vera dialettica
impedisce di cogliere gli aspetti sistemateci presenti nelle epoche storiche. L’essere,
si epocizza e si consolida nel divenire storico rivelandosi con linguaggi e centri di
riferimento specifici. Per C. Schmitt tali concetti indicano il centro coordinatore della
vita spirituale di un’epoca. Per esempio il sec. XVI era l’epoca della massima
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espressione teologica, mentre la nostra epoca è caratterizzata dall’economia e dalla
tecnica. Il capitalismo che rappresenta tale connubio nella sua forma assoluta (il
nemico ancora non si palesa) può essere combattuto solo attraverso una profonda
riflessione che ne colga l’intero. La logica dialettica è perciò lo strumento più
efficace per analizzare le contraddizioni che comunque lo minano.
NOTE
1. F.NIETZSCHE, La filosofia nell’età tragica dei greci, ed. Newton, Roma p.237.
2. F.NIETZSCHE, Ecce homo, versione di R. Calasso, ed. Mondatori, Milano 1977,
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
pp.50-51.
F.MASINI, Lo scriba del caos, ed. Il Mulino, Bologna 1983.
J.EVOLA, Cavalcare le tigre, ed. Vanni Scheiwiller, Milano 1971 pp.66-67
R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, pp.53-63.
E.FINK, Lafilosofia di Nietzsche, ed. Mondadori, Milano 1977, p.34.
IDEM, p.39.
G.COLLI, Dopo Nietzsche, ed. Adelphi, Milano 1974, pp.46-47.
E.FINK, op.cit., p.186-187.
IDEM, p.190.
R.GUENON, op. cit., Luni editrice, Milano, pp.109-111.
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G.COLLI, Scritti su Nietzsche, ed. Adelphi, Milano 1986.
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Tovo Flores
e-mail: [email protected]
Flores Tovo
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