Dispense del corso di Filosofia Contemporanea a.a. 2014-2015 enrico r. a. giannetto [email protected] https://ermeneuticainfinita.wordpress.com/ 1 1. Introduzione storica Delineare un quadro della “filosofia contemporanea”, sia che si faccia riferimento in senso stretto all’attualità, sia che si indichi, più tradizionalmente, il periodo che va da fine Ottocento a oggi, è praticamente impossibile. Il ricorso a manuali, più o meno completi,1 non è sufficiente: si tratta di ricostruzioni artificiali che selezionano, da prospettive parziali, di correnti maggioritarie o di moda, se non del tutto ideologiche o addirittura determinate da teologie o filosofie della storia, autori, temi o tendenze più o meno presunte. La molteplicità e la complessità delle varie prospettive filosofiche è del tutto irriducibile. Ma c’è di più: la storiografia filosofica, al contrario della storiografia scientifica, è rimasta essenzialmente, a tutt’oggi, una “storiografia interna”, chiusa sugli sviluppi puramente interni alle discipline filosofiche, astratta dalla più vasta storia umana, dalla storia delle culture, dalla storia delle altre discipline, delle scienze naturali e umane, pure ad essa connesse. Questo atteggiamento storiografico è la conseguenza di un atteggiamento filosofico teoretico che considera la storia del tutto inessenziale alla presunta eternità dei problemi filosofici che si potrebbero trattare ogni volta secondo una prospettiva puramente teoretica, in un circolo auto-fondativo. Nel tentativo di ritagliare alla filosofia teoretica un ambito chiuso, un universo del discorso puramente filosofico, astorico, trascendentale nel senso di al di là dell’esperienza e in particolare dell’esperienza storica. Si tratta di quella prospettiva, ben nota al dibattito epistemologico sulla scienza moderna, per cui si possa prescindere del tutto dal cosiddetto contesto della scoperta sperimentale o della genesi dei concetti scientifici per limitarsi al contesto assiomatico della legittimazione puramente teoretica. La storiografia scientifica ha dovuto riconoscere che la scienza è la sua stessa storia, il suo farsi storico, la storia delle sue pratiche; che comprendere la scienza si può solo, con Giambattista Vico (16681744), comprendendone la genesi e il farsi. La storiografia filosofica hegeliana, prima ad avere 1 Si vedano, per esempio: G. FORNERO & S. TASSINARI (a cura di), Le filosofie del Novecento, I-II, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 1-1588; G. CAMBIANO & M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 1-530. 2 inteso la filosofia come la sua storia, l’ha concepita deterministicamente, determinata ferreamente da una super-logica dialettica e riducendo altresì la stessa storia a mera storia della filosofia, con una trasformazione di una più antica teologia della storia in una filosofia deterministica della storia. D’altra parte, il capovolgimento marxista della dialettica hegeliana ha ridotto la storia della filosofia a storia economico-materiale dell’umanità inquadrandola in una altrettanto deterministica filosofia o scienza economica della storia. Così, si può comprendere effettivamente la connotazione “contemporanea” della filosofia solo attraverso una comprensione radicalmente storica della filosofia. Gli sviluppi contemporanei potranno essere compresi solo attraverso una prospettiva storica che li leghi in qualche modo a quelli moderni e a partire dalla filosofia medioevale e antica. Comprendere l’esistenza e la consistenza di tutte le prospettive contemporanee è possibile solo attraverso l’indagine delle loro genesi storiche nel complesso dell’intera storia umana, cosa praticamente quasi impossibile. Tuttavia, una chiave di lettura molto generale permette di delineare alcune tendenze: si tratta di comprendere la storia della filosofia occidentale soprattutto in termini dell’incontro-scontro fra intellettualismo greco e volontarismo cristiano, fra filosofia teoretica greca e pratica etica e di fede cristiana. Si tratta di due prospettive, in realtà, opposte: la filosofia teoretica greca è legata all’ideale di una vita contemplativa, intellettualmente distaccata e volta alla realizzazione di una felicità individuale; la pratica etica e di fede cristiana è invece correlata all’ideale di una vita activa, volta all’amore e alla felicità altrui. Nella filosofia greca, i problemi etici sono trattati all’interno della filosofia pratica, che è sempre (a parte qualche eccezione) gerarchicamente subordinata e secondaria rispetto alla filosofia teoretica. Ancora oggi è prevalente questo atteggiamento per cui nei manuali di storia della filosofia spazio maggiore è dedicato alla filosofia teoretica. Le importanti esperienze storiche del Cristianesimo, nei manuali non sono quasi mai trattate direttamente, ma solo indirettamente nei loro riflessi all’interno degli autori cristiani della tarda antichità e del medioevo. Per trovare discusse, in maniera rilevante, le relazioni storiche fra filosofia e fede cristiana, è necessario rivolgere la propria attenzione a testi 3 che sembrano occuparsi di particolari branche della filosofia, ovvero di filosofia della storia, o a testi storici che riguardano il problema della modernità e della secolarizzazione2. Non solo: a questo riguardo, è fondamentale, indipendentemente dalle soluzioni proposte, un testo che unico affronta il problema in tutta la vastità della sua portata, un testo dello storico delle idee Hans Blumenberg (1920-1996), La legittimità dell’età moderna.3 Blumenberg vuole contestare la prospettiva di Karl Lӧwith (1897-1973) e molti altri, secondo la quale il pensiero moderno e la modernità possano comprendersi solo in termini di un processo di “secolarizzazione” del pensiero e delle forme di vita cristiani, un processo di trasformazione cioè che mantiene la modernità dipendente comunque dal Cristianesimo, pur se esplicitamente se ne vorrebbe staccare. La tesi sostenuta da Blumenberg ribalta quella proposta da Eric Voegelin (1901-1985) sull’età moderna come “nuova gnosi”: si tratterebbe invece di considerare l’età moderna come secondo superamento della gnosi, laddove il primo superamento della gnosi all’inizio del medioevo non sarebbe riuscito4. Blumenberg generalizza la tesi di Adolf Harnack (1851-1930)5 per cui il cattolicesimo si è costituito dogmaticamente contro la gnosi di Marcione (85-160), alla tesi che anche la teologia medioevale è una risposta a Marcione, a partire dalla polemica di Agostino (354-430) contro i manichei fino alla Scolastica, per superare la concezione negativa del mondo dominato dal male, che deve essere 2 Si vedano, per esempio: K. LӦWITH, Meaning in History, The University of Chicago Press, Chicago 1949; Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Kohlhammer, Stuttgart 1953; tr. it. dal ted. di F. Tedeschi Negri, pref. di Pietro Rossi, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963 e poi il Saggiatore, Milano 1989, 1991; K. LӦWITH, Skepsis und Glaube (1951), Wissen und Glaube (1954), Schӧpfung und Existenz (1955), Kierkegaards in den Glauben (1956), Sinn der Geschichte (1956), Das Vorhӓngnis des Fortschritts (1963), tr. it. in, Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985; C. TAYLOR, A Secular Age, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2007; tr. it. a cura di P. Costa, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. 3 H. BLUMENBERG, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966, 1974 2, tr. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992. 4 H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, op. cit., p. 132; E. VOEGELIN, in Philosophische Rundschau I (1953/54), p. 43. 5 A. VON HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, J. C. B. Mohr, Tübingen 1886-1890, 1909, 1914, 1991; tr. it., Manuale di storia del dogma, Casa editrice Cultura Moderna, Mendrisio 1912 e poi rist. anast. presso Paideia, Brescia 2012, vol. I; A. VON HARNACK, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott. Eine Monographie zur Geschichte der Grundlegung der katholischen Kirche, Hinrichs, Leipzig 1921, 1924, Wiss. Buchges. Darmstadt 1985; tr. it a cura di F. Dal Bo rivista da G. Dal Dosso, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero. Una monografia sulla storia dei fondamenti della Chiesa cattolica, Marietti 1820, Genova 2007. 4 distrutto escatologicamente per la salvezza, nel recuperare positività al mondo come creazione che poteva assicurare l’esistenza umana, sovrapponendogli l’idea di cosmo greco. Con la dissoluzione del mondo aristotelico da parte della rivoluzione francescana-nominalista (e si potrebbe aggiungere con la successiva nuova negativizzazione luterana del mondo, in qualche modo radicale quanto quella “gnostica”), sorgerebbe, secondo Blumenberg, la nuova “soluzione” moderna che non è più teologica (si arriva alla negazione di Dio), ma porta all’autoaffermazione dell’essere umano che si impegna nelle opere mondane. La questione, invero, è ancora più complessa di quanto delineata da Blumenberg: la gnosi cristiana del II secolo aveva già assorbito degli elementi greci nel trasformare la dualità cristiana fra mondo presente dominato dal male e mondo futuro come Regno di Dio nella dualità platonico-aristotelica fra mondo terrestre e mondo celeste, e questa gnosi marcionita si era pure innestata, attraverso il Vangelo di Giovanni,6 nella cattolicità. D’altra parte, si deve tener conto che la diffusione del Cristianesimo in occidente si risolse più in un’ellenizzazione del Cristianesimo che non in una effettiva cristianizzazione dell’occidente, e il venir meno della fede attiva nella prossima Parousia del Cristo e nel prossimo instaurarsi del nuovo mondo del Regno di Dio7 spostò l’enfasi dalla trasformazione etica attiva del mondo alla conoscenza contemplativa e intellettuale. Già in un testo del Nuovo Testamento accettato dalla Chiesa, la Parola (in lingua aramaica, Meltha o Memra) del Prologo del Vangelo di Giovanni, nella sua traduzione in greco era stata letteralmente ellenizzata in un Logos che ne trasformava il senso. Il senso di parola vivente del dialogo, che costituisce Dio stesso in una perfezione che non può essere mai egoistica e solitaria autocontemplazione divina ma che è eterna e originaria apertura all’alterità, e di parola vivente della continua relazione di dialogo fra Dio e il mondo e l’umanità che si compiva in Gesù, viene 6 R. EISLER, Das Rätsel des vierten Evangeliums, in Eranos Jahrbuch 1935, a cura di O. Fröbe-Kapteyn, Rhein, Zürich 1936, pp. 323-511; R. EISLER, The Enigma of the Fourth Gospel, its author and its writer, Methuen, London 1938. 7 A. SCHWEITZER, Von Reimarus zu Wrede: Eine Geschichte der Leben-Jesu-Forschung , J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1906, 1913, 1950; tr. it. a cura di F. COPPELLOTTI, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986; A. SCHWEITZER, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1930; tr. it. di A. Rizzi, La mistica dell’apostolo Paolo, Ariele, Milano 2011; M. WERNER, Die Entstehung des christlichen Dogmas Problemgeschichtlich Dargestellt, Paul Haupt, Bern & Katzmann, Tübingen 1941, 1954; edizione ridotta di quest’opera è stata pubblicata con lo stesso titolo presso Kohlhammer, Stuttgart 1959; tr. it., dall’edizione ridotta, di F. E. SCIUTO e A. PUSKÀS VON DITRÒ, Le origini del dogma cristiano, voll. I-II, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997. 5 trasformato in un significato intellettualizzato quale Logos-Intelletto come parte di Dio che presiedeva ad una creazione razionale del mondo e che quindi richiamava subito il logos della filosofia greca e in particolare della cosmologia stoica, e permetteva l’accettazione cristiana di un cosmo greco razionalmente costituito e conoscibile. Da un punto di vista di psicoanalisi della storia, si potrebbe guardare all’irrompere del Cristianesimo in occidente, e non solo della gnosi, come un evento che provocava il riemergere alla coscienza collettiva il problema del male radicale del mondo e il correlato problema del posto dell’essere umano nel mondo8 e che faceva saltare le precedenti rimozioni veicolate dalle razionalizzazioni della filosofia teoretica greca che aveva già costituito un “superamento” del pensiero mitologico e tragico greco. Il Cristianesimo originario opponeva al problema del male una pratica etica attiva trasformatrice del mondo, e la gnosi, in positivo e in negativo, contribuì ad una nuova razionalizzazione filosofico-teoretica basata su una metafisica teologica a cui si tentò di ridurre la fede cristiana. Si trattò di una duplice esigenza, una interna al Cristianesimo che si allontanava dalla sua fede originaria e una interna al pensiero filosofico occidentale. Dall’altra parte, infatti, la conclusione della filosofia teoretica greca, da Carneade a Sesto Empirico, aveva portato ad esiti scettici ed esigeva un nuovo fondamento, che poté trovare nella metafisica teologica in cui si trasformò la fede cristiana nel pensiero tardo antico e nel medioevo. La dissoluzione di questa nuova razionalizzazione filosofico-teoretica in cui il Cristianesimo cattolico si era unito alla filosofia greca fu determinata dalla rivoluzione operata da Francesco d’Assisi (1182-1226), che riproponeva un ritorno alle origini del Cristianesimo come pratica etica di vita, con l’abolizione di tutte le gerarchie nella creazione, di cui il “cantico delle creature” è traccia sublime. 8 N. O. BROWN, Life against Death. The Psychoanalytic Meaning of History, Wesleyan University, Middleton CT 1959; tr. it. di S. BESANA GIACOMONI, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 1964, 1978. 6 La prospettiva francescana in filosofia e in teologia ebbe il suo culmine nel pensiero di John Duns Scotus (1265-1308) e William of Ockham (1287-1347): la valorizzazione della materia, come parte della creazione, si opponeva alla considerazione platonica di essa come principio autonomo da cui derivava ogni imperfezione e male, e implicava anche la distruzione della gerarchia non solo fra materia e forma, ma anche fra mondo terrestre e mondo celeste. Richiamandosi all’originaria caratterizzazione cristiana di Dio in termini di Amore come libera volontà, la prospettiva francescana si oppose alla concezione della divinità greca, come quella aristotelica, chiusa nella sua perfezione intellettuale di una autocontemplazione del pensiero e distrusse la connessione medioevale del Cristianesimo con la teologia, la filosofia, la cosmologia e la fisica greche. La libera volontà di Dio come Amore risultava inconoscibile, impredicibile, e non poteva più garantire non solo la Grazia della salvezza ma neanche la razionale comprensibilità della Creazione o dell’Incarnazione in termini di finalità umane: le argomentazioni de potentia Dei absoluta, che cioè non si limitavano alla considerazione di ciò che Dio di fatto aveva compiuto (potentia Dei ordinata), portavano alla conclusione che Dio, nella Sua libera volontà, avrebbe potuto non creare, avrebbe potuto creare diversamente, avrebbe potuto non creare l’essere umano o non incarnarsi in un essere umano. Questa conclusione riapriva l’abisso aperto dalla gnosi sul mondo, destituendo di significato umano la creazione, svincolabile, come l’incarnazione, dalla questione della salvezza umana dal male: distruggeva le basi teologiche di qualsiasi antropocentrismo, e invero la possibilità di una qualsiasi fondazione teologica dell’antropocentrismo aprendo la via a soluzioni non teologiche nella modernità all’auto-affermazione dell’umanità. Il mondo naturale non poteva essere più considerato oggettivisticamente, secondo la prospettiva intellettualistica greca, ma, derivando dall’azione e dalla volontà della soggettività divina, presentava connotazioni soggettive impredicibili. E ciò distruggeva anche la possibilità di una filosofia teoretica della Natura che non poteva che basarsi su una metafisica teologica. 7 Questa divergenza non ricomponibile fra ragione e fede, e quindi fra filosofia teoretica e fede, trovò il suo culmine nella prospettiva di Martin Luther (1483-1546), su cui pure poco si ferma l’analisi di Blumenberg, più strettamente legata a una storia delle idee. Luther rompe con la tradizione filosofica greca, contestandone anche l’obiettivo, la conoscenza intellettuale del mondo, e contrapponendole la cura attiva etica, sensibile a ogni sofferenza degli esseri viventi, per trasformare il mondo presente dominato dal male: la concezione del mondo completamente corrotto dal peccato e sottomesso a satana aveva la stessa radicalità gnostica e riapriva effettivamente quell’abisso contro cui i francescani solo non potevano fornire più certezze ma che certamente non avevano aperto. La corruzione insuperabile della Natura e in particolare della natura umana e della sua ragione, sottomessa a una volontà schiava del peccato, non permettevano alcuna via d’uscita naturale o razionale all’essere umano, incapace di operare il bene se non attraverso la Grazia. Il tema della volontà altruistica cristiana si legò così solo alla Grazia, mentre alla Natura si legò solo una volontà egoistica che diventò poi la cifra di una nuova metafisica atea. La fede non può coincidere più con l’adesione a certe proposizioni dogmatiche, comprensibili razionalmente in termini di una teologia e di una metafisica basate sull’aristotelismo, come in San Tommaso, la cui “summa teologica” brucerà in un rogo pubblico nel 1520. Le opere (rituali) non salvano, non salva la Chiesa, solo la Grazia salva; ma solo nelle opere, nell’operare individuale nel mondo in un’attività d’amore si manifesta la fede: è esclusa qualsiasi chiusura monacale in una vita meramente contemplativa, che, come la concezione della futura vita paradisiaca come una mera contemplazione di Dio, si era innestata nel Cristianesimo attraverso influenze greche. La consapevolezza cristiana, il pensiero della fede cristiana si acquisisce e si verifica, non contemplativamente o teoreticamente, ma solo nella prassi etica. La transitoria congiunzione medioevale di filosofia greca e fede cristiana si era dissolta al riemergere dei tratti rivoluzionari, anti-teoretici, della prospettiva cristiana. La modernità e il pensiero moderno sorgono così in un’ambivalenza costitutiva: da una parte, l’età moderna è l’epoca 8 in cui si manifesta la cristianità non più ingabbiata nelle reti dell’intellettualismo filosofico e teologico greco; dall’altra parte, la frammentazione delle chiese e delle confessioni cristiane, la critica dell’autorità e della funzione mediatrice della Chiesa cattolica, la non traducibilità della fede cristiana in una filosofia teoretica metafisico-teologica ma in un’attività trasformatrice umana in cui unicamente la Grazia divina si rende immanente alla coscienza individuale, portarono alla possibilità di una pluralità di costruzioni filosofico-teoretiche individuali indipendenti dalla Chiesa e anche atee e di un’auto-rappresentazione filosofica dell’umanità narcisistica e antropocentrica non più legittimata teologicamente, ma sull’auto-affermazione umana nella dimensione pratico-tecnicopolitica di un operare-lavorare intra-mondano che si stacca dalla fede. La filosofia della Natura, avendo perso il suo fondamento teoretico nella metafisica teologica, trovò un nuovo fondamento in una prassi sperimentale in cui la tecnica perdeva la sua connotazione puramente strumentale per assumerne una conoscitiva: nella prassi sperimentale, il pensiero si concretizzava, si faceva azione potendosi così misurare effettivamente con il mondo. La rivoluzione copernicana, che pure era stata possibile assumendo una prospettiva soggettiva naturale ma non umana, e non terrestre ma solare, si poté compiere effettivamente solo quando, con le osservazioni telescopiche di Thomas Harriot (1560-1621), Galileo Galilei (1564-1642) e altri, anche l’astronomia, in cui il cielo sembrava essere oggetto assoluto solo di una contemplazione, paradigma dell’attività puramente contemplativa della filosofia teoretica greca antica come pure di una perfezione etica e di una felicità egoistica, si trasformò in un sapere operativo-pratico, che porta quasi a poter toccare anche il cielo, indipendente da una metafisica teologica, e non più meramente contemplativo-teoretico. Si rese necessaria una nuova fisica, alternativa a quella aristotelica, su cui si potesse costituire la nuova cosmologia copernicana, come anche una nuova conciliazione fra ragione e fede dopo Luther; e Giordano Bruno (1548-1600) propose una nuova versione dell’atomismo epicureo: questa nuova fisica e questa nuova cosmologia non solo erano compatibili con le argomentazioni della infinita potenza assoluta di Dio, ma realizzavano in positivo gli esiti negativi della decostruzione 9 francescana, relativizzando la posizione dell’essere umano nel mondo, ma relativizzando lo stesso mondo in quanto solo uno fra infiniti mondi. La cosmologia neo-epicurea era l’unica cosmologia positiva che disimpegnasse Dio dalla necessità di aver creato un mondo ordinato secondo un senso e una finalità umani, che era solo un sottoprodotto di un’opera molto più vasta, infinita. Questa caratteristica fornì le basi di una nuova risposta razionale alla gnosi, a Luther, nella sua relativizzazione del male; e si poté poi facilmente adattare a una più tarda visione atea del mondo, come esito casuale di un ordine contrastante con infiniti altri mondi disordinati. Più in generale, la modernità e il pensiero moderno si svilupparono in forme molteplici e diverse a seconda dei particolari contesti e dell’effettiva ricezione della Riforma. Tutti i dubbi storici posti dagli sconvolgimenti, che, dal francescanesimo all’umanesimo, al Rinascimento e alla Riforma, dalla rivoluzione astronomica copernicana alla nuova fisica, si manifestarono storicamente non solo sul piano della vita ma anche sul piano della fede e della filosofia, furono sussunti dal cattolico René Descartes (1596-1650) in una dimensione puramente teoretica attingibile da una coscienza individuale astorica di fronte a un dubbio che è presentato come costitutivo metodico del pensiero stesso, nel tentativo di un’auto-fondazione astorica e autonoma della filosofia teoretica. Nel medioevo, la filosofia era dipendente dalla fede ed ancella della teologia: da almeno Giordano Bruno in poi, la filosofia reclamava una sua autonomia. Con Cartesio, dopo la luterana soggettivizzazione individuale della fede, si ha una soggettivizzazione individuale della metafisica filosofica che non può più fondarsi sull’oggettivizzazione comunitariaecclesiastica della fede: la certezza stessa di Dio si fonda sulla certezza interna dell’io. Se non si può assumere una fede condivisa come fondamento della filosofia, anche perché non è possibile accedere a una teoria che rispecchi la visione che Dio ha del mondo, non è possibile neanche una fondazione oggettiva della conoscenza filosofica teoretica a partire dalla certezza del mondo (Cartesio ribalta la prova cosmologica: è dall’esistenza di Dio che solo si può provare l’esistenza del mondo): si deve ammettere la radicale soggettività umana della conoscenza. Cartesio recepì solo in parte l’esito della storia che si è tratteggiata: la fede non può tramutarsi in un fondamento 10 teologico della filosofia; ovvero, la filosofia, come la fede, è dipendente dalla soggettività individuale che conosce, ma la metafisica è comunque possibile, in quanto l’esistenza di Dio è a sua volta un’evidenza interna al pensiero. Pure il potenziale dirompente del riconoscimento dell’assolutezza della volontà divina viene neutralizzato da Cartesio, in termini dell’argomentazione di un Dio non-ingannevole e di una legittimazione di un sapere umano che proceda per ipotesi nella spiegazione dell’ordine del mondo e in funzione di obiettivi pratici.9 Ma diverse soluzioni erano possibili: Blaise Pascal (1623-1662), giansenista più vicino all’opposizione luterana fra ragione e fede, propose uno scetticismo filosofico, superabile e superato solo da un pensiero basato sulla fede non tradotta in metafisica e che riusciva a percepire ancora per l’essere umano l’abisso irrazionale dell’universo infinito. L’illuminismo francese si muoverà poi fra deismo e ateismo. Gottfried Willhem Leibnitz (1646-1716) fu il primo a proporre una concezione veramente moderna della Natura. La concezione della Natura come un essere vivente e animato del pensiero arcaico e antico era stata pure subordinata dalla filosofia teoretica alla considerazione della Natura come espressione di una necessità logica oggettiva intellettualmente conoscibile; la filosofia francescana aveva fatto saltare questa certezza e aveva caratterizzato la Natura come impredicibile espressione della libera volontà di Dio. Cartesio aveva ripristinato la conoscibilità razionale della Natura e l’antropocentrismo anche all’interno di un universo infinito, equiparando gli esseri viventi a delle macchine e riducendo così tutta la Natura a macchina, a res extensa mero oggetto della rappresentazione umana, espressione della solo umana (oltre che divina) res cogitans. Leibnitz concepì Dio in termini di una volontà amorevole e non arbitraria come per Cartesio: secondo Luther, la libertà non è arbitrio, tantomeno per Dio; l’arbitrio è servo del peccato e può essere considerato solo per l’essere umano. La non arbitrarietà era conciliabile per Leibnitz con una razionalità divina, anche se mai completamente attingibile dall’essere umano. Seppure la potenza di Dio è infinita e si è espressa nella creazione di un mondo infinito, tale infinito non si identifica con 9 H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, op. cit., pp. 188-224. 11 l’infinità dei mondi possibili dell’universo dell’atomismo epicureo: la razionalità divina della creazione si identifica nella scelta libera del migliore dei mondi possibili, e cioè in una scelta d’amore; la ragione divina non è altro rispetto all’amore divino nella sua libertà, mai necessitata. La relativizzazione del male implicata in un mondo infinito e alla base della sua teodicea non coincide mai quindi con una spiegazione casualistica dell’ordine del mondo come nell’epicureismo degli infiniti possibili mondi e in Cartesio (che lo fa derivare naturalmente e casualmente da un caos originario), ma è la conseguenza della ridefinizione della razionalità divina come libera volontà d’amore e non come necessarietà logica in sé conclusa e perfetta: la razionalità divina infinita, seppure rappresentabile simbolicamente con un calcolo integrale ma infinito, non sarà mai direttamente attingibile dalla finita ragione umana. Dalla relatività generale del moto, che ritematizza a partire da Bruno, Galileo e Cartesio per comprendere la rivoluzione copernicana, Leibnitz, non ne deduce una nuova certezza cosmologica del sistema copernicano-kepleriano del mondo, che seppure rispondente al vero è conoscibile solo da Dio e mai attingibile da una ragione finita, umana o angelica: se il mondo è infinito, non c’è mai un punto di vista esterno da cui poter dirimere la questione (Leibnitz non considera un universo infinito fatto da un’infinità di mondi finiti, per cui si potrebbe uscire fuori dal nostro mondo finito, ma considera il nostro mondo infinito). La sua monadologia, a partire dall’influenza di Bruno, va considerata come strettamente radicata nella tematizzazione della relatività generale del moto, come hanno ben compreso Edward Arthur Milne (almeno implicitamente nella sua cosmologia) e Herbert Wildon Carr10. La relatività del moto e la problematica copernicana fanno comprendere come la struttura del mondo non possa mai essere colta dall’insieme delle prospettive umane che sono tutte legate ad una prospettiva terrestre: ne consegue che non si possa mai ridurre il mondo a una mia rappresentazione soggettiva individuale, o a una rappresentazione soggettiva umana, in quanto neppure può essere oggetto di 10 H. WILDON CARR, The general principle of relativity in its philosophical and historical aspect, MacMillan and Co. Limited, London 1920; H. WILDON CARR, A Theory of monads: outlines of the philosophy of the principle of relativity, MacMillan and Co. Limited, London 1922; H. WILDON CARR, Leibniz, Dover Publications, New York 1929, 1960; G. W. LEIBNIZ, The Monadology of Leibniz, with. an intr., comm. by H. WILDON CARR, Favil, London 1930; J. MERLEAUPONTY, Cosmologie du XX siècle, Gallimard, Paris 1965; tr. it. di S. CHIAPPORI, Cosmologia del secolo XX, il Saggiatore, Milano 1974, pp. 126-198. 12 una rappresentazione da una prospettiva umana. Implicito nella relatività è che ogni parte del mondo è soggetto di una prospettiva e di una corrispondente rappresentazione del mondo, e quindi il mondo infinito è costituito da una pluralità infinita di soggetti naturali di una prospettiva e di una rappresentazione, ciascuna diversa dalle altre in virtù della sua attività interna (forza) che ne caratterizza il moto e il mutamento. Si tratta di soggettività come quella umana, caratterizzata da una attività interna che soggiace alle volizioni, alle percezioni e alle intellezioni, da cui i movimenti, le prospettive e le rappresentazioni differiscono solo in grado. Nessuna di queste soggettività monadiche finite può vantare una prospettiva privilegiata e una rappresentazione completa del mondo né è possibile un’auto-rappresentazione a partire dalla propria prospettiva: la Natura quindi non si può auto-rappresentare, auto-spiegare o auto-comprendere perché la sua comprensione implica la chiusura in una totalità finita di un’infinità di prospettive e di rappresentazioni. La comprensione della Natura è attuabile solo dalla prospettiva infinita di Dio che può comporre insieme l’infinità delle prospettive e delle rappresentazioni. Così, la soggettività della conoscenza, emersa dal crollo dell’oggettivismo naturalistico-razionalistico greco, non porta per Leibnitz a un soggettivismo umanistico antropocentrico né a un relativismo soggettivistico umanistico, ma al riconoscimento della soggettività irriducibile della Natura in tutte le sue parti, che aprono una pluralità infinita, intrinsecamente correlata, di prospettive sul mondo che assumono così una valenza strutturale-ontologica e non meramente gnoseologica. La conoscenza deriva solo dalla considerazione e dalla composizione di questa infinità di prospettive, per cui per l’essere umano non potrà mai essere assoluta e completa, ma relativa, comparativa e incompleta e può crescere attraverso il confronto-dialogo fra sempre più soggettività. La critica della ragione teoretica operata da Immanuel Kant (1724-1804), che si muoveva nel clima protestante tedesco, è funzionale a lasciare uno spazio libero alla fede, non ricopribile dalla ragione filosofica, ma risolta all’interno della ragione pratica. La critica della ragione teoretica è la critica della ragione teoretica che vuole andare oltre l’esperienza, e in particolare oltre l’esperienza della fede (secondo Luther, l’essere umano, corrotto dal peccato originale che rende schiava la volontà e 13 l’azione, non può da solo, con la sola ragione arrivare a Dio, senza l’esperienza della fede e quindi senza la Grazia, né attraverso questa si potrà edificare una conoscenza teoretica) tramutandola in metafisica teologica razionale. La priorità della fede sulla ragione si tramuterà così in Kant nella priorità della ragione pratica sulla ragione teoretica nella sua possibilità di accesso alla realtà, e quindi nella priorità della filosofia pratica sulla filosofia teoretica, determinando una rivoluzione interna alla gerarchia delle discipline filosofiche. La soggettivizzazione della conoscenza in Kant abbandona le pretese del pensiero puro cartesiano e post-cartesiano, e lega sempre il pensiero all’esperienza tranne che per le forme apriori e per le categorie per cui ricade in una metafisica del soggetto oggettivizzandolo come trascendentale che elimina le differenze fra i soggetti effettivi per superare un relativismo soggettivo. Solo nell’impostazione del problema della legge morale, Kant si confronta, almeno formalmente, con una pluralità effettiva dei soggetti umani e con una loro inoggettivabilità in termini di una ragione teoretica. La moralità implicante la libertà non potrà mai essere condizionata dalla naturalità perché questa non è mai libera (come in Luther, ma in un senso parzialmente diverso). Con Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), invece, la contraddizione fra fede e ragione, fra religione e filosofia fu risolta nella dialettica storica in una presunta sintesi superiore del pensiero che riassorbiva in sé ogni prassi e il mondo stesso nella filosofia teoretica, dipanata in una storia dello spirito quale secolarizzazione della rivelazione storica cristiana di Dio. Quello di Hegel è un idealismo platonico, perché le idee sono reali e la soggettività dello spirito assoluto è solo l’esito di un processo evolutivo anche naturalistico. Secondo Hegel, la questione del conoscere non può essere posta nei termini di ciò che conosce un soggetto individuale pur nei suoi aspetti universali che permettono la definizione di un “soggetto trascendentale” astratto, atemporale e isolato11. Per il fatto stesso che il soggetto umano è parte di un processo storico più ampio, universale, il conoscere è un processo storico in cui intervengono storicamente più soggetti, un processo in cui i limiti 11 G. W. F. HEGEL, System der Wissenschaft. Erster Teil: die Phänomenologie des Geistes, J. A Goebbardt, Bamberg und Würzburg 1807; tr. it. con testo tedesco a fronte e cura di V. Cicero, Fenomenologia dello spir ito, Rusconi, Milano 1997. 14 individuali del conoscere sono transitori e sono stati assolutizzati da Kant astrattamente: il sapere è possibile solo perché è un processo potenzialmente infinito, in una immanentizzazione storica del divino. La logica della storia e della conoscenza non può essere quella della coerenza di un soggetto individuale, ma è una logica della contraddizione, del contraddittorio proprio di un dialogo in cui è coinvolta una molteplicità di soggetti, è una “dialettica” della storia e di un divenire para-eracliteo del mondo. Si tratta di una “dialettica trascendentale” della storia, con i suoi trascendentali oggettivi, che si contrappone all’analitica trascendentale kantiana dell’individuo. La verità si costituisce quindi su un piano ontologico, sul piano dell’essere-divenire nel quale i soggetti umani sono immersi e del quale partecipano. La filosofia è la storia della filosofia, a cui si riduce la stessa storia del mondo, e ha anch’essa una dimensione ontologica, non nel senso disciplinare. Come in Eraclito, c’è un logos della physis,12 uno spirito del mondo del quale gli esseri umani eventualmente e sempre parzialmente partecipano. Nella sua immanentizzazione del divino, Hegel ricade però in tutti i problemi di una teologia positiva umanizzata, di una fondazione della filosofia come sapere assoluto e della storia come il suo dispiegamento positivo e come tale auto-legittimantesi sia da un punto di vista di un certo progresso sintetico dialettico sia da un punto di vista etico. L'idealismo di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) è invece un idealismo soggettivistico in cui tutto è ricondotto a un soggetto pensante come io-trascendentale post-kantiano che pone completamente il suo oggetto e che solo attraverso la fede della volontà-noumeno incontra gli altri soggettinoumeni ma come un'alterità ridotta all'io-trascendentale, correggendo la ragione pratica kantiana in un idealismo etico: l'oggetto del pensiero è fenomeno per un soggetto che è noumeno, e la fede è secolarizzata nell'etica. 12 E. GIANNETTO, Herakleitos, un fisico delle origini, in Eraclito: la luce dell’oscuro, a cura di G. Fornari, Olschki, Firenze 2012, pp. 127-142. 15 2. Karl Marx e la filosofia della prassi rivoluzionaria Ludwig Feuerbach (1804-1872) aveva già cercato di delineare una nuova antropologia materialistica, criticando la filosofia hegeliana come teologia secolarizzata e ricomprendendo tutta una serie di considerazioni teologiche in caratterizzazioni dell’essere umano. Dalla sua prospettiva, almeno da un certo stadio dell’evoluzione storica delle religioni, Dio non è altro che la proiezione di una serie di desideri e di aspirazioni dell’essere umano che non sono soddisfatti in un essere ideale fuori dal tempo e dalla storia: l’essere umano si deve quindi riappropriare di quanto è suo e di quanto ha estrovertito su Dio; per esempio, il desiderio di un amore eterno, infinito e assoluto è secondo Feuerbach all’origine della concezione cristiana di Dio come Amore. Si devono invertire soggetto e predicato e all’affermazione “Dio è Amore”, bisogna sostituire “l’Amore è Dio”. Così, bisogna capovolgere la dialettica hegeliana, che deduce il finito dall’infinito, e ricomprendere l’infinito dal finito, come sua aspirazione: come nella teologia, secondo Feuerbach, l’identità umana si aliena in Dio, così nella filosofia hegeliana, si aliena nello Spirito Assoluto. Così, bisogna ripartire dal soggetto finito umano, materiale, di cui il pensiero-spirito è solo un predicato: non è la Natura, come in Hegel, una forma alienata dello spirito, ma lo spirito è una forma alienata della Natura. Noi sentiamo col nostro corpo che esiste qualcosa al di là di esso, con i nostri sentimenti di passione, fame, amore, da cui dipende la nostra stessa esistenza da sola insufficiente e manchevole: così, non è l’io il principio della nostra vita e del pensiero; partendo dal nostro corpo, comprendiamo che la nostra identità umana non è individuale ma si dà nell’io e nel tu, nella relazione d’amore con un’alterità che è il tu. L’amore ci fa comprendere l’esistenza del tu e il fatto che la nostra esistenza non si possa definire se non in questa relazione; e così, per il pensiero il principio non è l’io: la vera dialettica non è un monologo del pensiero di un individuo con sé stesso o del pensiero con sé stesso, ma è un dialogo fra l’io e il tu, l’amore io-tu che ci fa uscire da una dimensione puramente di pensiero e ci fa accedere alla realtà. Fu Karl Marx (1818-1883), riprendendo e modificando alcuni temi di Feuerbach, e capovolgendo sotto un altro aspetto la dialettica hegeliana, a ristabilire il primato della prassi sulla teoria e di 16 conseguenza della filosofia pratica sulla filosofia teoretica. Nelle Tesi su Feuerbach del 1845 di Marx, pubblicate da Friedrich Engels (1820-1895) solo nel 1888 come appendice nel suo testo Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie. Mit Anhang: Karl Marx über Feuerbach v. J. 1845, alla undicesima è scritto: “I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo”. Qui, riecheggia l’originario spirito rivoluzionario cristiano, volto all’azione contro il male del mondo presente, anche se Marx considera la religione come “oppio dei popoli”, cioè come “ideologia” che legittima il male nel mondo, cioè l’ingiustizia legata alla diseguaglianza economica: infatti, il cristianesimo storicamente, dopo le origini, si è trasformato in una forza conservatrice, collusa col potere politico che mantiene l’ingiustizia considerandola come un ordine voluto da Dio, e consolatoria trasformando il Regno di Dio da realizzare sulla terra in un al di là ultraterreno in cui sarà Dio a fare giustizia. Nella prima tesi aveva scritto: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte), il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell’intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall’idealismo, che naturalmente ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva”. E nella seconda aveva chiarito: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La 17 disputa sulla realtà o non - realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente scolastica”. Si ha qui una critica radicale della filosofia teoretica pura e della sua teoria corrispondentistica della verità come corrispondenza del pensiero alla realtà: il pensiero non può mai cogliere la realtà restandole esterno e considerandola astrattamente come una cosa in sé; ma non può neanche coglierla, come nella prospettiva idealistica, facendo la realtà interna al pensiero considerandola come un prodotto dell’attività ideale del pensiero. Ci può essere comprensione della realtà se e solo se il pensiero si immerge nella realtà, divenendole interno nel suo farsi azione materiale, trasformatrice del mondo. Marx non resta idealista, come pure recentemente si dice con grande fraintendimento della sua posizione. Oltre la prospettiva della scienza nuova della storia di Vico basata sull’identità del verum e del factum (si conosce solo quello che si fa), per Marx ci sono ideologie che costituiscono una legittimazione di pratiche economiche non etiche, di dominio e sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano, e come tali sono false; la verità sta solo nella prassi etica rivoluzionaria volta alla liberazione degli esseri soggetti al dominio. Qui, la filosofia della storia umana fa il passo che la filosofia della Natura aveva effettuato nella cosiddetta “rivoluzione scientifica” trasformandosi in “scienza moderna”, cioè in una filosofia pratica (sperimentale) della Natura. Non si tratta di contemplare o conoscere intellettualmente o comprendere teoreticamente la storia, si tratta invece di farla. Dopo che l’intellettualismo greco era stato espulso dalla filosofia della Natura, ora lo era anche dalla filosofia della storia, sostituito dal volontarismo attivistico cristiano (di volontà individuali organizzate in azioni politiche sistematiche), privato della sua medioevale teologizzazione greca. Il problema della prospettiva marxiana fu che il fine della liberazione giustificò il mezzo della violenza, facendo perdere la connotazione etica che era stata caratteristica della rivoluzione non violenta di Gesù (non a caso, invece, Engels diede del cristianesimo originario un’interpretazione quale movimento rivoluzionario che usava la lotta armata). 18 Secondo Marx, “la storia è la vera storia naturale dell’uomo”, cioè il mondo naturale dell’uomo non è il mondo della natura ma il mondo della storia, in quanto prodotto del lavoro dell’uomo, l’autoproduzione del mondo storico attraverso il lavoro umano che trasforma il mondo: da qui l’autoctisi nella deriva idealistica della prassi nell’interpretazione di Marx data da Giovanni Gentile. L’elemento materiale non è la natura, ma l’appropriazione della natura da parte dell’uomo, dei mezzi di produzione, che hanno fatto sì che l’uomo producesse il suo nutrimento, la sua vita materiale stessa, distinguendosi dagli altri animali; “ciò che sono - gli uomini – coincide con quello che producono e con come lo producono”. Marx comprende che ciò che distingue gli esseri umani da altri animali non può essere rintracciato su un piano metafisico di un’essenza idealmente definita, come quella del pensiero puro, ma va compreso su un piano storico effettivo, che rivela il tratto distintivo dell’essere umano, nella sua storicità, nell’attività materiale dell’essere umano (non come individuo ma come essere sociale) che si è esplicata nel lavoro della terra con la rivoluzione neolitica, cioè in un’attività tecnica sistematica di dominio della Natura, in cui la Natura, a sua volta, si ridefinisce in termini di materia come ciò che resiste al lavoro dell’umanità. Come filosofia della storia attiva, Marx definisce un nuovo tipo di “materialismo”, il “materialismo storico”, che si vuole distinguere dal materialismo come metafisica ontologica materialistica e meccanicista della Natura, basandosi su una nuova antropologia dell’essere umano come essere storico e sociale materialmente attivo. La ricaduta, però, in una metafisica materialista è implicita nell’Anti-Duhring (1878) di Engels a cui anche Marx partecipò con un capitolo (seppure dedicato a problemi di storia dell’economia) e nella Dialettica della Natura di Engels, pubblicato postumo nel 1925: bisogna quindi distinguere nettamente la posizione di Marx da quella di Engels. Qui, la volontà di definire il materialismo come ateismo porta Engels ad accettare al suo interno l’idea di un universo infinito ed eternamente ciclico e anche la teoria evoluzionistica di Darwin che riconduce la lotta di classe alla lotta per la vita, e cioè un materialismo naturalistico. 19 D’altra parte, seppure Marx rivela l’essere storico-sociale dell’essere umano nella sua effettività che lo distingue da altri animali, è portato a legittimarlo, a legittimare la sua attività di dominio tecnico nei confronti della Natura e degli altri viventi. Tale legittimazione si traduce in una concezione economica della realtà: ogni cosa è considerata come valore economico, per il suo valore d’uso per l’essere umano. Nella sua opera del 1859, Per la critica dell’economia politica, Marx inizia a delineare quanto poi confluirà ne Il Capitale del 1867, primo libro a cui ne seguiranno altri due, pubblicati postumi da Engels nel 1885 e nel 1894: la critica dell’economia politica da parte di Marx si concentra, in effetti, sul valore di scambio attribuito alle cose considerate come merci, in quanto è proprio sulla valutazione del valore di scambio che si producono le ingiustizie economiche fra gli esseri umani. Marx sposa così il punto di vista antropocentrico della filosofia e dell’economia classica, non comprendendo ciò che poteva risultare chiaro dal darsi storico del dominio dell’essere umano su un altro essere umano: questo dominio nasce, nella rivoluzione neolitica, con il dominio della Natura e degli altri viventi da parte dell’umanità, perché la terra e gli animali costituiscono la prima forma di proprietà privata e di equivalente monetario negli scambi economici basati sul baratto. Marx non critica così il fondamento antropologico e antropocentrico dell’economia: accetta la sua riduzione dell’essere umano ad homo oeconomicus, che agisce solo per interesse economico e non conosce altre modalità di rapportarsi alle cose se non in termini del loro valore d’uso e del loro valore di scambio; una cosa è solo in funzione della sua utilità diretta o indiretta in uno scambio con un’altra cosa. Secondo Marx, la struttura della società, che determina l’essere umano come essere sociale e storico, è economica ed è storicamente determinata dal modo di produzione dominante. La struttura economica della società determina a sua volta le istituzioni politiche e lo stato, ma anche le produzioni culturali materiali e intellettuali: da questo punto di vista, la cultura in tutte le sue forme (religione, filosofia, letteratura, arti) è sovrastruttura. Nella posizione di Marx, al contrario che in Engels, sono escluse retroazioni delle sovrastrutture culturali sulla struttura economica della società: 20 queste sono molto sottovalutate (come ha mostrato l’analisi dei rapporti fra cultura protestante e capitalismo, effettuata da Max Weber (1864-1920)): anche le critiche della struttura gerarchica delle classi sociali, come quella presentata nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, scritto con Engels, sono ricondotte a meri specchi passivi delle opposizioni reali emerse nella lotta di classe da parte del proletariato contro la gerarchia della struttura economica, che si specchiava in una ideologia della classe dominante: generata come legittimante il dominio economico, solo come suo specchio passivo e mai considerata come produttrice attiva di dominio economico in nuove forme. Le idee non si cambiano con la critica da parte di altre idee, ma solo con la rivoluzione della struttura economica della società. L’indipendenza delle idee dalle strutture economiche delle società è solo il frutto di un’illusione provocata dalla divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, dalla divisione fra lavoro effettivamente produttivo e lavoro improduttivo. Le determinazioni effettuate dai modi di produzione implicano differenti tipi di proprietà e una differente divisione del lavoro. La proprietà privata rompe il legame sociale e il lavoro diviso non è più fondante una società: essi producono divisioni sociali ed economiche, diseguaglianze, ma anche, quindi, alienazione dell’essere umano dalla sua identità che è sociale. Marx si interessa soprattutto all’analisi economica dei rapporti di lavoro che si erano instaurati con i nuovi mezzi di produzione resi possibili dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo e che avevano generato una nuova classe economica, quella operaia, ovvero del proletariato: cioè dello sfruttamento degli operai da parte di padroni della classe borghese che tende ad accumulare denaro in un capitale, che caratterizza la fase storica dell’economia in termini di capitalismo moderno nella quale anche il lavoro diviene mero mezzo di sussistenza individuale e quindi una merce acquisibile sul mercato. La prospettiva economica, che però anche Marx abbraccia, non può considerarsi puramente scientifica, ma si rivela quindi come una metafisica antropocentrica della realtà come valore economico. Marx, però, presenta la sua nuova economia come una scienza e per fare questo prende a modello la fisica. Fondamentale si può considerare il principio di conservazione generalizzata 21 dell’energia, da poco teorizzato come primo primo principio della termodinamica soprattutto nell’opera di James Joule e William Thomson poi Lord Kelvin. Che Marx ed Engels fossero a conoscenza di questo principio è evidente da almeno due lettere di Engels a Marx, una del 14 Luglio del 1858 e un’altra del 21 Marzo 1869 in cui si fa riferimento anche al secondo principio della termodinamica come formulata da Rudolph Clausius13. L’energia (chiamata forza nell’ottocento), come intesa nel meccanicismo, è il concetto che consente una correlazione fra i diversi tipi di fenomeni per mezzo di un’astratta equivalenza matematica, e di un’omogeneizzazione dei rapporti metrici fra differenti variabili fisiche incommensurabili: se quest’astratta equivalenza numerica, incarnata prima nel concetto di materia/massa e poi nella declinazione meccanicistica dell’idea d’energia, ha il suo presupposto pratico in una forma di vita, come quella della società capitalistica moderna, in cui il denaro svolge questo ruolo d’equivalenza di ogni cosa14, il concetto di lavoro in economia politica è stato derivato dal concetto di lavoro meccanico e dagli sviluppi energetici della termodinamica ottocentesca interpretata meccanicisticamente. Infatti, la quantità di forza-lavoro (misurata in termini di tempo di lavoro necessario per produrre una determinata cosa-merce) serve a Marx come misura equivalente e univoca per misurare il valore di scambio delle cose-merci considerate come del tutto interscambiabili: data questa equivalenza, Marx può spiegare come il profitto, come aumento del denaro finalizzato alla sua pura accumulazione in un capitale piuttosto che usato per l’acquisto di altre merci, si realizzi come plus-valore ottenuto da un industriale-padrone che paga-compra la merce della forza lavoro di altri esseri umani meno del valore di scambio del prodotto della forzalavoro imponendo un plus-lavoro. Se un dato prodotto valutato, per esempio, 8 sterline in base alla quantità di lavoro media necessaria a produrlo (pari per esempio a 8 ore), si basa sulla valutazione di 1 ora di forza-lavoro come pari a 1 sterlina; se però la paga di quel tempo di forza lavoro è pari, in questo esempio, a 4 sterline in relazione al tempo di lavoro necessario per produrre il suo 13 H. S. KRAGH, Entropic Creation – Religious Contexts of Thermodynamics and Cosmology,Ashgate, Aldershot (UK) 2008, pp. 132-139. 14 A. SOHN-RETHEL, Das Geld, die bare Münze des Apriori, Wagenbach, Berlin 1990; tr. it. di F. COPPELLOTTI, Il denaro, l’a priori in contanti, Editori Riuniti, Roma 1991. 22 fabbisogno nutritivo giornaliero, il padrone realizza un profitto netto alla metà del valore del prodotto: un plus-lavoro di 4 ore non pagato porta a un plus-valore di 4 sterline guadagnato dal padrone. Dove è l’errore? La forza-lavoro non può /non deve essere valutata come merce prodotta o in termini del valore della merce necessaria per la sua sussistenza (cioè del costo della vita), ma deve essere valore a sé stessa: questa considerazione, però, non può essere presentata come una mera verità scientifica, ma costituisce una esigenza etica di Marx15. Un’esigenza etica che Marx nega perché vuole presentare il comunismo stesso non come l’esito di un’etica, ma come una verità scientifica, determinata dalle leggi della storia. L’operaio era sempre più alienato dalla propria attività lavorativa, depauperato del frutto del proprio lavoro, privato del suo tempo ridotto a denaro. Non era succube soltanto nei suoi giorni, ma privato anche dei suoi sonni e dei suoi sogni. Così, Carlo Cafiero (1846-1892), nel suo Compendio del Capitale16, descrive, con toni massimamente inquietanti, la situazione del lavoratore: “Allora i tuoi sonni non saranno più così tranquilli. Tu vedrai nelle tue notti il capitale, come un incubo, che ti preme e minaccia di schiacciarti. Con occhio spaventato lo vedrai ingrossarsi, come un mostro dalle cento proboscidi, che avidamente ricercano i pori del tuo corpo per succhiarne il sangue. E finalmente lo vedrai assumere proporzioni smisuratamente gigantesche, nero e terribile nell'aspetto, con occhi e bocca di fuoco, trasmutare le sue proboscidi in larghissime trombe aspiranti, entro le quali vedrai scomparire migliaia di esseri umani: uomini, donne, fanciulli. Dalla tua fronte colerà allora il sudore della morte, perché la volta tua, della tua moglie e dei tuoi figli starà per arrivare. Ed il tuo ultimo gemito sarà coperto dallo sghignazzare allegro del mostro, felice del suo stato, tanto più prospero, tanto più inumano”. La produzione capitalistica ha come obiettivo la produzione di plus-valore, in diversi modi che cambiano storicamente. Più entrano in gioco macchine, più il lavoratore non è in grado di effettuare 15 G. CALOGERO, Intorno al materialismo storico, Vallerini, Pisa 1941, poi come Il metodo dell’economia e il marxismo. Invito alla lettura di Marx, Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 39-71. 16 Il Capitale di Carlo Marx, brevemente compendiato da Carlo Cafiero, Biblioteca Socialista, n. 5, Bignami e c. editori, Milano 1879. Si tratta di un incubo reale, che avevo quasi tutte le notti da bambino; solo verso i sedici anni, trovai nella cantina di mio nonno questo libro di Cafiero e restai stupefatto alla lettura. 23 un lavoro compiuto da solo e più è costretto a vendere la sua forza-lavoro, fino all’organizzazione del lavoro tramite catena di montaggio in cui l’essere umano è subordinato alla tecnica delle macchine. Non solo, quindi, la mercificazione delle cose implica la mercificazione dell’essere umano, ma anche il dominio tecnico esercitato sulla Natura e sugli altri viventi implica il dominio tecnico sull’essere umano. L’essere umano perde la sua identità di soggetto di lavoro, produttore di merci e utilizzatore di macchine, si aliena dalla sua forza produttrice che viene espropriata da altri e dal prodotto del suo lavoro, e così si aliena e diventa oggetto-merce e strumento di macchine. Tuttavia, l’essere umano sfruttato può uscire dalla propria alienazione, riappropriarsi di sé stesso, e, nel “movimento messianico secolarizzato” della classe operaia – in quanto classe “universale” che ha perduto totalmente la sua identità umana . ristabilire la giustizia, riappianare le diseguaglianze economiche e realizzare “escatologicamente”, attraverso la dittatura del proletariato, una società comunista senza il male e alla fine senza più bisogno di stato. Marx, però, pensa che questo possa avvenire non attraverso la costituzione di una nuova identità non tecnica e non economica dell’essere umano, ma semplicemente attraverso la presa di possesso e la proprietà, da parte del proletariato, dei mezzi di produzione tecnica: si tratta di un errore fondamentale che sarà solo parzialmente corretto nella successiva storia del marxismo occidentale, in particolare dalla Scuola di Francoforte. Marx prevedeva la polarizzazione della società in due classi antagoniste e quindi opposte, formatesi con lo sviluppo del capitalismo in un contrasto sempre crescente che avrebbe contrapposto una classe sempre più esigua di ricchissimi capitalisti e una classe sempre più povera di proletari. Era questa contrapposizione la contraddizione reale socio-economica che avrebbe dovuto risolversi storicamente in una nuova sintesi sociale, attraverso una dialettica materiale che doveva sostituire la dialettica hegeliana delle idee. Marx, che aveva fondato una nuova scienza economica deterministica come la fisica della sua epoca, pensava che si potesse determinare in maniera certa e univoca la soluzione dell’evoluzione dinamica dei sistemi socio-economici, quale data da una società comunista futura non più aspettata come un’utopia, ma come realizzazione di una previsione 24 scientifica e di un’azione politica rivoluzionaria. Vi erano quindi leggi deterministiche della storia e questa erano esprimibili nei termini di una ferrea logica dialettica materiale e non ideale come quella di Hegel: il materialismo storico si faceva dialettico (in russo, invalse l’abbreviazione diamat). Rispetto alle astratte e universali ferree leggi della storia, gli individui e la loro sorte non avevano più importanza: la violenza rivoluzionaria non solo era permessa, ma rappresentava in qualche modo, come opposizione dialettica reale e materiale, la stessa legge della storia come della vita per Darwin. Tuttavia, Marx non si rese conto che il progredire del capitalismo in un paese industrialmente avanzato non aveva come unico possibile esito l’impoverimento della classe operaia, nel momento in cui il mercato andava assumendo sempre più proporzioni mondiali sostenute da politiche colonialiste e imperialiste e il progresso tecnico permetteva un sempre più alto sfruttamento di risorse naturali: si dava invece, in un paese avanzato, la costituzione di una classe media sempre più ampia che livellava le possibilità economiche su uno standard di vita sempre più alto. Si sarebbe invece prodotta una differenza economica sempre più enorme fra paesi industrialmente avanzati e paesi non-europei subalterni. Da qui, la deriva fascista e nazionalsocialista, deriva fatale e nefasta con la sostituzione dell’internazionalismo socialista con un socialismo nazionalista, propugnata dall’idea mussoliniana di estendere la lotta di classe a guerra mondiale fra le nazioni “proletarie” come l’Italia contro le nazioni plutocratiche imperialiste come l’Inghilterra e gli Sati Uniti d’America, per il dominio economico del mondo intero. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo la caduta dell’illusoria possibilità di un socialismo realizzato solo nella cosiddetta Unione Sovietica, che in realtà aveva portato ad un impoverimento di tutta la popolazione per fronteggiare il progresso tecnico-militare dei paesi capitalisti, dopo il crollo degli obiettivi dei partiti comunisti occidentali pronti ad affermare l’imprescindibilità del capitalismo per la democrazia, è la nuova e fortissima divaricazione economica fra paesi ricchi e paesi poveri del terzo mondo che fa della situazione mondiale una situazione esplosiva che non porterà realisticamente a una nuova sintesi sociale di libertà e di giustizia ma purtroppo a una violenza sempre più diffusa e dominante e 25 al sacrificio di sempre più vite umane e alla distruzione sempre maggiore delle forme di vita non umana e, in generale, del sistema ecologico terrestre e di tutte le specie della biosfera. 26 3. Schopenhauer e l’inizio della crisi del paradigma dominante della modernità La costruzione razionale di Kant, in qualche modo culmine dello spirito illuministico, e, insieme a quella di Hegel, culmine della moderna metafisica soggettivistica, viene a crollare sotto la critica di Arthur Schopenhauer (1788-1860). Le sue idee sono esposte in massima parte nella sua opera intitolata Il mondo come volontà e rappresentazione, l’edizione del primo volume della quale fu già nel 1818; il secondo fu aggiunto nel 1844, mentre la terza edizione fu del 185917. Si tratta di una nuova metafisica senza dubbio, ma distruttrice delle precedenti certezze. Una metafisica che si basa sul tema cristiano della volontà, ma ormai declinata nei termini della luterana volontà naturale, schiava del peccato senza la grazia. Questa metafisica interpreta la volontà noumenica di Kant in termini della volontà naturale di Luther, e della volontà di vita, come istinto di conservazione e sforzo evolutivo, della nuova biologia evoluzionistica di Lamarck, della Philosophie zoologique del 1809, e infine della volontà come brama di vivere del buddhismo: si tratta ormai di una volontà egoistica, in gran parte inconsapevole, istintuale, cieca, e quindi irrazionale e non più legata alla ragione pratica kantiana. La noumenicità della volontà non è più deducibile da un principio morale come in Kant, in relazione alla libertà del volere, ma è invece dedotta dall’esperienza corporea che precede ogni pensiero: il corpo è esperito primariamente come espressione di questa volontà di vivere istintuale. Se questa conclusione è presentata in termini puramente teoretici e filosofici generali, in effetti non può che derivare dalla nuova lamarckiana filosofia naturale evolutiva della vita e dalla “filosofia pratica” soteriologica di Siddharta Gautama Shakyamuni Buddha del VI sec. a.C. Questa caratterizzazione della volontà di vivere fa sì che non abbia una connotazione immediatamente soggettivistica come la volontà nel cristianesimo e in Kant, ma piuttosto sia considerata in termini biologici impersonali di una forza universale di vita, comune a tutti gli esseri viventi, che può dare un fondamento nuovo alla conclusione delle Upanishad induiste, secondo la 17 A. SCHOPENHAUER, Die Welt as Wille und Vorstellung, Brockhaus, Leipzig 1859; tr. it. parziale (senza i Supplementi) di P. Savj-Lopez & G. Di Lorenzo, intr. di C. Vasoli, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1914/1916, 1928/1930, 1968, 1972; tr. it. di N. Palanga, A. Vigliani e G. Riconda, intr. di G. Vattimo, a cura di A. Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989. 27 quale, alla base delle distinte individualità esistenti, vi è un’unica realtà per cui tutto è uno: il Brahman, come universale anima del tutto, è interpretata come universale e infinita volontà di vita. Se i fenomeni kantiani non sono le cose in sé, allora non possono essere che mere parvenze di una realtà che è altra: i fenomeni non sono che manifestazioni di quel velo di Maya di cui parla l’induismo. Il fenomeno non è allora espressione di una conoscenza che ha caratteristiche di universalità e di necessità, che le derivano dalla struttura trascendentale, comune a tutti i soggetti umani e che costituisce così un soggetto universale e atemporale, ma piuttosto è esito di una mera costruzione razionale, anche se necessaria, ovvero di una mera rappresentazione cui appartengono soggetti e oggetti: soggetti e oggetti, il mondo stesso, sono fenomeni illusori, rappresentazioni razionali illusorie dell’unica infinita volontà di vita. Spazio, tempo e causalità non sono più kantianamente considerate come forme a priori della sensibilità o dell’intelletto di un soggetto che costituisce gli oggetti della conoscenza come fenomeni, ma sono forme a priori della rappresentazione in cui si costituiscono i soggetti individuali di contro agli oggetti individuali: spazio e tempo sono le forme a priori del principium individuationis, mentre la causalità è espressione della volontà universale, che si esplica in volontà individuali che a loro volta si esplicano in un’attività che si manifesta come un’azione causale reciproca. Si ha così una decostruzione del soggetto come soggetto costitutivo della rappresentazione: il soggetto è ora “oggetto” della rappresentazione, soggetto solo al suo interno. Crolla qui la possibilità di una metafisica soggettivistica, tipica del pensiero moderno. Le rappresentazioni razionali, pur nella loro necessità costruttiva, non sono altro che razionalizzazioni di una volontà irrazionale, legittimazioni delle volontà egoistiche che ne sono alla base. Presa consapevolezza dell’illusorietà delle rappresentazioni razionali e delle azioni delle nostre vite, la nuova filosofia evoluzionista di Lamarck lo porta a considerare la vita come un assassinio continuo, reciproco e universale, e quindi a constatare la quadruplice verità già enunciata dal 28 Buddha nel Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina (Dharmaçakrapravartana Sūtra, sans., Dhammacakkappavattana Sutta, pāli)18: 1) “E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore: l’unione con quel che dispiace è dolore, la separazione da ciò che piace è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore, dolore in una parola sono i cinque elementi dell’esistenza individuale”: tutto è dolore. 2) “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella brama che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e con il desiderio, che trova godimento ora qua ora là; brama di piacere, brama di continuare a vivere, brama di non invecchiare”: l’origine del dolore è la volontà di vivere. 3) “Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa brama, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi”: la cessazione del dolore sta nell’estinzione della volontà di vivere. 4) “Questa, o monaci, è la santa verità circa la via che conduce alla soppressione del dolore: è il nobile ottuplice sentiero, e cioè: retta visione, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retta meditazione, retta concentrazione”: è l’ottuplice sentiero che permette la realizzazione del Nirvana, che letteralmente indica l’estinzione di una fiamma mediante un soffio, l’estinzione dell’io nella vita (Buddha sviluppa la teoria dell’anatman, cioè di un’anima non sostanziale, ma dinamica come una fiamma, per cui la metempsicosi non implica la rinascita di una stessa anima individuale in un altro corpo, ma piuttosto l’accensione di un’altra fiamma). La filosofia, per Schopenhauer, non nasce dalla meraviglia aristotelica (dall’esperienza del thaumazein), ma piuttosto dal senso della sofferenza e del male del mondo. Con il riconoscimento delle quattro nobili verità del Buddha, a cui viene affiancata una quinta, se possibile, in cui si afferma che l’origine del dolore è in quella volontà di vivere attiva, in quell’egoismo attivo che si fa violenza e assassinio della vita altrui, Schopenhauer riapre la visione 18 Nel Canone pāli all'interno del Saṃyutta Nikāya (nel Dhammacakkappavattana Sutta): La rivelazione del Buddha III, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2001, vol. I, pp.5-12. 29 dell’abisso del male nel mondo all’origine della sofferenza di tutti gli esseri viventi, che era propria del cristianesimo originario e della gnosi, ma senza neppure la fede in un Dio di salvezza: Schopenhauer abbraccia la soteriologia atea del Buddha e del buddhismo originario detto Hinayana (Piccolo veicolo). L’estinzione della volontà di vivere, però, per Schopenhauer si ottiene in parte in maniera diversa dal Buddha: nella via al Nirvana e nell’interpretazione stessa del Nirvana introduce degli elementi cristiani e occidentali. L’arte, o più specificamente la musica al contrario delle arti figurative, costituisce una forma di conoscenza immediata della realtà noumenica, al di là delle rappresentazioni razionali illusorie: la musica permette di accedere all’esperienza della volontà e del dolore al di là del rapporto soggetto-oggetto e al di là delle individuazioni spazio-temporali e causali, e così mette nelle condizioni di superare la prospettiva della propria individuale volontà di vivere. Questa conoscenza diventa, infatti, non più motivo determinante le azioni indotte dalla volontà di vivere, ma quietivo delle azioni della relativa volontà di vita, e quindi di un’etica che liberi da essa. L’etica di Schopenhauer non è però puramente negativa, cioè non implica soltanto l’evitare le azioni egoistiche della volontà egoistica, come in gran parte l’etica del Buddha che porta a una vita contemplativa in cui raggiungere l’illuminazione nella meditazione e il Nirvana: nella prospettiva buddhista la karuna, la compassione, è solo compassione distaccata dello sguardo, non è partecipazione al dolore altrui; l’amore effettivo è escluso perché comporta dolore. L’etica di Schopenhauer è positiva e si basa invece sull’amore attivo cristiano: non si tratta solo di un’ascesi di rinunzia dei piaceri. L’amore del prossimo, secondo Schopenhauer, si deve estendere a tutti gli esseri viventi e comporta, per prima cosa, la non accettazione della nutrizione umana di altri animali; non ci si può fermare a un’etica dell’intenzione che porta la maggioranza dei buddhisti ad accettare di mangiare carne se, per esempio, offerta da altri. Gli esempi etici di Schopenhauer sono presi soprattutto dai santi cristiani e in particolare dai catari, che arrivavano, nei casi più ‘alti’, a praticare l’enduro, cioè a lasciarsi morire di fame per non danneggiare alcun essere vivente. 30 Il Nirvana non è inteso come uno stato positivo dell’essere, diverso da quello ordinario, e legato alla contemplazione meditativa, ma semplicemente, come annichilimento della realtà della volontà, come nulla: nell’annichilimento della volontà si dissolve il mondo come volontà e rappresentazione; invero, per Schopenhauer è il mondo che è nulla di fronte a chi ha vinto il mondo. La più radicale negazione del mondo dovuta al buddhismo si è così innestata, con accenti ancora più forti, nel pensiero occidentale, in una prospettiva di pessimismo cosmico che accoppia paradossalmente un’etica cristianizzante dell’infinito amore attivo della vita a un nichilismo teoretico. L’abisso della sofferenza e del male si spalanca ancora di più di fronte a una ragione che non può comprenderlo. 31 4. Friedrich Nietzsche: la volontà di potenza come risposta all’abisso di Schopenhauer Friedrich Nietzsche (1844-1900) ha espresso la sua filosofia perlopiù in forma di aforismi, spesso anche in forma poetica: qui sta gran parte del suo fascino che continuamente attrae. Ha scritto cose sublimi e altre obbrobriose, spesso all’interno dello stesso testo. Messo da parte in quanto riferimento privilegiato del pensiero politico nazista e di destra, è stato rivalutato ma quasi sempre senza un’adeguata messa in chiaro dei capisaldi problematici del suo pensiero. La sua filosofia si articola soprattutto in una pars destruens delle precedenti prospettive, ma in effetti si riproponeva una costruzione di una nuova maniera di filosofare. Nietzsche si trova davanti all’abisso aperto dal pensiero di Schopenhauer e tutta la sua filosofia (La nascita della tragedia, 1872; Considerazioni inattuali 1873-1876; Umano, troppo umano 18781879; Aurora, 1881; Gaia scienza, 1882; Così parlò Zarathustra, 1883-1884; Al di là del bene e del male, 1886; Genealogia della morale, 1887; Il crepuscolo degli idoli, 1888; Ecce Homo, 1888; L’Anticristo, 1888; opere postume: La filosofia nell’epoca tragica dei greci, I filosofi pre-platonici, Introduzione ai dialoghi platonici) può intendersi come una risposta a Schopenhauer. Nietzsche si confronta ormai anche con la filosofia naturale, evoluzionistica, della vita di Darwin, che ingloba nella sua prospettiva e pure critica. Il punto di partenza è anche per lui la volontà di cui si ha primaria esperienza nella nostra corporeità, ma questa volontà non è tanto una volontà di vita nel senso della conservazione della vita stessa a livello individuale o di specie, quanto piuttosto “volontà di potenza”, una volontà che altro non è che esplicazione della potenza infinita della Natura, che incessantemente e inarrestabilmente nel suo esplicarsi e dispiegarsi illimitato crea e distrugge senza cura e senza preoccupazione morale, senza finalità di alcun tipo. Questa volontà di potenza nel suo espandersi vitale può incontrare anche la morte, non ha come suo fine la sopravvivenza, e ciò comporta che nell’evoluzione non prevalga quasi mai il più forte, il più dotato, il più ‘adatto’, ma piuttosto, al contrario di quanto pensava Darwin, sopravviva il più debole, il 32 meno dotato, il potenzialmente meno adatto. Questo tratto della sua concezione della Natura lo portò a una critica radicale della scienza moderna in cui dominava il paradigma meccanicista19. Secondo Nietzsche, bisogna accettare questa realtà della Natura e della vita in tutte le sue conseguenze: per accoglierne le gioie, bisogna accettarne il dolore, gli aspetti distruttivi oltre quelli creativi. Bisogna accettarne il dolore non con rassegnazione, ma piuttosto con l’entusiasmo travolgente di chi si senta parte di questo fiume inarrestabile di potenza che è la la Natura, che è la vita. Schopenhauer, seguendo la morale buddhista non ha accettato il dolore della vita e ha negato la vita e il mondo; all’opposto, Nietzsche ritiene che si debba dire sì alla vita in tutti i suoi aspetti e senza porsi problemi morali. La morale nasce per diversi fattori secondo Nietzsche: innanzitutto, c’è l’illusione della libertà del volere che renderebbe gli esseri umani responsabili delle loro azioni, basandosi su una conoscenza, ma le azioni non sono mai del tutto libere e consapevoli e sono piuttosto determinate da fattori istintivi vitali. Le azioni sono compiute dall’agente solo per il proprio piacere e non per fare male agli altri: possono essere giudicate ‘cattive’ solo se si prescinde dalla prospettiva di chi le compie e le si considera dall’esterno per le conseguenze che hanno sugli altri. Questo punto di vista è diventato prevalente quando gli interessi della società hanno messo in secondo piano il piacere e l’utile individuali; la morale si è quindi sviluppata non valorizzando maggiormente moventi delle azioni superiori all’utilità, ma piuttosto sostituendo come valore l’utilità sociale al di sopra dell’utilità individuale. L’utilità sociale ha stabilito però sempre una gerarchia di valori a partire dalla valutazione data dai potenti nella gerarchia sociale. La morale sociale ha determinato così una separazione netta fra Natura e cultura, portando a una repressione della natura individuale a favore della vita sociale e politica: la civiltà ha così allevato gli esseri umani in una situazione di costrizione sociale che ha “addomesticato” la natura selvaggia e istintiva dell’essere umano, “la belva bionda, avida di preda e di vittoria”. 19 G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; tr. it. di S. TASSINARI, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978; e poi nuova traduzione a cura di F. POLIDORI, intr. di M. FERRARIS, Feltrinelli, Milano 1992 e ulteriore nuova ed. italiana con appendice a cura di F. POLIDORI, tr. it. di F. POLIDORI & D. TARIZZO, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002. 33 Seguendo l’interpretazione data da Schopenhauer del cristianesimo come sostanzialmente affine al buddhismo nella negazione della vita e del mondo e seguendo anche la prospettiva aperta dal suo amico “gemello” e collega teologo dell’università di Basilea, Franz Overbeck (1837-1905), secondo il quale l’essenza del cristianesimo originario sia stata caratterizzata dall’ascetismo e dalla negazione del mondo20, Nietzsche considerò il cristianesimo come una forma di “platonismo per il popolo” responsabile di una svolta negativa nella morale occidentale. Il cristianesimo aveva ereditato, secondo Nietzsche, dagli ebrei una morale tipica della rivolta degli schiavi: gli ebrei, che erano stati sempre storicamente sottomessi, impotenti ad autoregolamentare la loro vita sociale e politica, hanno così sviluppato odio nei confronti dei potenti e del mondo e come popolo sacerdotale e religioso si sono consolati nell’idea di una vendetta immaginaria divina. Si forma così una morale del risentimento, puramente reattiva contro gli altri, che trionferà con il cristianesimo. Il risentimento si trasforma da una parte in spirito di vendetta che si esplicherebbe nell’al di là, e dall’altra si introverte, insieme all’aggressività e alla violenza, indirizzandosi contro sé stessi in un senso di colpa per un peccato commesso originariamente contro Dio che spiegherebbe la sofferenza subita nel mondo: nel cristianesimo l’autosacrificio di Dio renderebbe infinito il debito umano nei suoi confronti, moltiplicando infinitamente il senso di colpa. Questa “cattiva coscienza” implicata dal cristianesimo diventa la più grave malattia dell’umanità occidentale che impone sofferenza e rinunzia alla vita, mascherando nella malafede il risentimento come amore altruistico: il cristianesimo si presenta così a Nietzsche come mero nichilismo dei deboli e degli schiavi contro la vita e il mondo. Gli ebrei sono considerati da Nietzsche come gli artefici della più radicale trasvalutazione di tutti i valori nella morale, come mostruosa e funesta iniziativa contro la vita: in questo caso, la critica della religione si risolve nella critica di un’intera etnia identificata con essa. Agli ebrei risalirebbero anche le radici delle moderne tendenze egualitarie democratiche e socialiste. Questo di Nietzsche, seppure diverso da quello più rozzo e più violento poi affermatosi in Germania anche sulla base di 20 F. OVERBECK, Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie, Fritzsch, Leipzig, 1873, e Naumann, Leipzig 1903; tr. it. a cura di A. Pellegrino, Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, ETS, Pisa 2000. 34 una nefasta interpretazione delle idee, è puro antisemitismo: l’anticristianesimo si fonda anche sull’antisemitismo. Nietzsche era profondamente antisemita, senza bisogno di alcuna posteriore falsificazione dei suoi scritti da parte della sorella, e nonostante le fasulle rivalutazioni di questo aspetto del suo pensiero. L’atteggiamento antiteoretico e antifilosofico deriva a Nietzsche certamente da Schopenhauer, e quindi indirettamente dal cristianesimo e dal buddhismo; ma la sua critica a queste religioni e alla morale che incarnano non gli permette di prenderle come modello, per cui si rivolge alla cultura greca pre-filosofica. Anche per l’arte, Nietzsche segue Schopenhauer: Nietzsche stesso pensava che sarebbe diventato famoso come musicista (famoso è rimasto il suo Inno alla vita quale esempio di una sua creazione che stimava più di altre). L’arte che per Nietzsche dà un immediato accesso alla realtà della straripante potenza della Natura e della vita è la tragedia greca, esprimente il dionisiaco come impulso all’ebbrezza della vita, senza freni e rappresentazioni razionali, attraverso la musica, il canto e la danza in cui i confini della propria individualità sono superati. Dapprima crede che Richard Wagner, con la sua opera totale e con la sua musica, possa rappresentare una rinascita dello spirito della tragedia, ma poi se ne distacca, valutando la musica di Wagner e gran parte della storia della musica occidentale come malata: quella di Wagner rappresenterebbe solo il culmine di un’estenuazione di un atteggiamento che consiste nel crogiolarsi nella sofferenza nell’illusione della catarsi, e a questa tradizione contrappone la musica gioiosa ed esaltante la vita come la Carmen di Bizet. Secondo Nietzsche, originariamente la tragedia era costituita solo dal coro, mentre il drama, cioè l’azione compiuta, intervenne dopo e il dialogo fu ampliato da Euripide che operò quindi una razionalizzazione. Al pessimismo della tragedia originaria, dopo i primi pensatori pre-socratici, nella filosofia greca si sostituì l’illusione ottimistica di poter comprendere la vita e il mondo in termini di una conoscenza teoretica razionale che fosse di base all’etica, da raggiungere socraticamente attraverso la dialettica e da articolarsi nell’analisi di relazioni causali necessarie. Ma queste rappresentazioni razionali, come per Schopenhauer, non possono cogliere la realtà della 35 volontà di potenza della Natura, e sono soltanto strumentali a mascherare la tragicità della vita, per sopravvivere; a differenza di Schopenhauer, però, queste rappresentazioni razionali non sono uniche, necessarie e universali, ma storiche, sociali, individuali e quindi costituiscono una molteplicità. Come per Schopenhauer, l’io non è il soggetto della rappresentazione: in questa prospettiva, il cartesiano cogito ergo sum non può fornire la certezza dell’io, ma solo del pensiero come rappresentazione cui l’io è interno. La filosofia e la scienza non sono espressione di una conoscenza, ma strumenti della vita. Le loro supposte verità proprio in quanto presunte tali sono errori: errore è credere erroneamente che esista la verità e voler sostituire gli errori con un’altra presunta nuova verità. Come bisogna liberarsi dagli errori della morale che generano le costruzioni metafisiche per ripristinare una presunta giustizia e un presunto bene, come bisogna andare al di là del bene e del male, così bisogna andare al di là della verità e dell’errore, che sono tali solo strumentalmente alla volontà di potenza e alla vita. La Natura e la vita sono un continuo divenire: la verità cerca di fissare una realtà che non può essere fissata, perché in continua trasformazione, la verità è quindi un errore perché nessuna affermazione fissa può corrispondere alla realtà del divenire della Natura. Cade la teoria della verità come corrispondenza alla realtà, cade la possibilità della conoscenza della realtà: Nietzsche distrugge la metafisica, la gnoseologia e la logica con una estremizzazione della decostruzione francescana degli universali e dei concetti, e le reinterpreta come funzionali alla vita o alla sua repressione. Non si tratta quindi di fornire una dimostrazione dell’inesistenza di Dio, ma la liberazione dagli errori della morale non può che condurre all’eliminazione del concetto di Dio, come rappresentazione contraria al libero esprimersi della vita. Nietzsche si presenta così in qualche modo come lo stesso autore dell’assassinio di Dio da parte dell’uomo più brutto che non sopporta più lo sguardo di Dio, da parte della vita nella sua potenza distruttrice, da parte di chi torna a essere fedele alla terra e alla vita senza sostituire il mondo sensibile con un mondo intellegibile “più vero”. L’ateismo assoluto non è così espressione di una nuova filosofia teoretica, ma della morte di Dio ucciso dalla violenza stessa della vita che riemerge da una repressione precedente durata millenni. I 36 valori superiori e trascendenti non si sono rivelati in grado di svolgere la loro funzione: la morte di Dio si delinea attraverso l’esito nichilistico che è la stessa morte dell’essere umano. Necessaria diventa una nuova trasvalutazione di tutti i valori, necessario il superamento di ciò che fino adesso è stato l’essere umano: si profila la necessità di un “super-uomo” che realizzi pienamente la volontà di potenza della vita, con il ritorno a Dioniso, un dio che canta e danza. La critica di Nietzsche alla storia si rivolge alla duplicità dei significati del termine italiano: l’essere umano soffre secondo Nietzsche di una “malattia storica”, cioè di una concezione storica lineare e progressiva degli eventi umani, che deriva effettivamente da una secolarizzazione della concezione escatologica cristiana della storia: questa concezione fa sopravvalutare la modernità rispetto alle altre epoche, mentre non è che un processo di decadenza in cui incalza un egualitarismo livellatore delle differenze e le considerazioni quantitative, di massa, prevalgono sulla qualità. D’altra parte, la storiografia, nelle sue varie forme, danneggia la vita: la storia monumentale, che si confronta solo con i grandi o con i grandi personaggi, per trovare nel passato un modello, falsifica l’immagine del passato concentrandosi solo su alcuni aspetti e rischia di arrestare il flusso della vita per rifugiarsi nel modello di una presunta grandezza che fu; la storia antiquaria, che invece si sofferma sui più minuti dettagli, rischia di diventare mera erudizione di un sapere in nessun rapporto con la vita, in cui tutti gli eventi diventano oggetto di una sorta di attività collezionistica per la valorizzazione del passato in quanto passato senza alcun discernimento; la storia critica, che vuole solo distruggere il passato in quanto passato per liberarcene per il nuovo, opera anch’essa senza discernimento e non ci permette di comprendere i nostri legami con il passato, quello che si può mantenere e quello che si deve superare. Ma è la storiografia, nell’interezza di questi vari atteggiamenti, che si vuole presentare come disinteressata e oggettiva, che perde ogni contatto con la vita e la riduce a suo oggetto sacrificandola. A questa storiografia, Nietzsche contrapporrà una nuova indagine che prenderà il nome di genealogia: si tratterà di comprendere quali atteggiamenti vitali, nel duplice senso di favorevoli alla vita o suoi repressori, stanno dietro agli eventi della storia materiale e spirituale dell’umanità e del 37 suo pensiero. Solo questo tipo di storia come genealogia può costituire una storia al servizio della vita. Nietzsche aveva definito la sua filosofia come una forma di prospettivismo, che derivava da Leibnitz attraverso Ruggero Boscovich (1711-1787), ma, eliminando la prospettiva infinita divina che poteva ricomporre tutte le prospettive, anche quelle non umane, in un unico mondo, arrivò alla conclusione che non esiste un mondo vero e unico, quanto piuttosto un’infinità di prospettive di mondi da parte di differenti centri di forza e di vita, di volontà di potenza: questo è il senso della famosa espressione “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, che non è una negazione della realtà che è questa infinità di centri di forza e di vita, ma una negazione della possibilità del pensiero di attestare un’unica verità. Non si tratta quindi di un relativismo soggettivistico umano nel senso idealistico della riduzione della realtà al pensiero, ma, anzi, il contrario, cioè l’affermazione dell’impossibilità di ridurre la realtà della Natura e della vita ad unica rappresentazione razionale e quindi al pensiero in senso soggettivistico umano: è il pensiero che è parte della Natura e della vita infinite, al loro servizio. 4.1 Heidegger e Nietzsche: Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”. L’oltrepassamento della metafisica. Già dagli anni trenta il pensiero di Friedrich Nietzsche21 fu il riferimento principale delle riflessioni di Heidegger, che culmineranno nei due volumi dedicatigli e contenenti scritti elaborati fra il 1936 e il 194622. Nietzsche aveva già valorizzato il pensiero tragico greco, aveva già distrutto la storia della metafisica, la storia della filosofia; aveva già distrutto la storia del Cristianesimo come dottrina, come teologia filosofica e metafisica, quale “platonismo per il popolo”, e determinato la necessità di 21 F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke, a cura di G. COLLI & M. MONTINARI, Deutscher Taschenbuch Verlag/de Gruyter, München/Berlin-New York 1967-1980; tr. it. a cura di G. COLLI & M. MONTINARI, Opere complete, Adelphi, Milano 1968, 2008. 22 M. HEIDEGGER (1936-1946), Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961; tr. it. a cura di F. VOLPI, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994. M. HEIDEGGER (1951-1952), Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in Was heisst Denken?, Niemeyer, Tübingen 1954; tr. it. di U. UGAZIO a cura di G. VATTIMO, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1988; M. HEIDEGGER (1953), Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. VATTIMO, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 66-82 38 una filosofia atea, basata sulla consapevolezza della “morte di Dio” o quantomeno di Dio come concetto dei filosofi. Nietzsche aveva già smascherato l’antropocentrismo e l’umanismo sottostanti la tradizione filosofica e scientifica; aveva già smascherato le rappresentazioni umane, come determinate dalla sua volontà di potenza, di affermarsi in tutta la sua potenza; aveva già delineato la necessità di un nuovo pensiero aurorale, che superasse il vecchio uomo e tutto ciò che era “umano, troppo umano”. Heidegger però non condivide la parte costruttiva del pensiero di Nietzsche e si dedica ad una sottilissima distruzione del suo pensiero positivo come compimento della metafisica, nonostante i suoi propositi. Certo, Heidegger sa che Nietzsche è stato un filosofo anomalo, non sistematico, che ha espresso il suo pensiero in aforismi o poeticamente, ma questo non elude il fatto che anche “poeticamente”, in maniera affascinante e suadente come mai è la prosa filosofica, si possano formulare concetti metafisici, snaturando invero la poesia nella metafisica. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? Non è certamente lo Zarathustra storico, il profeta religioso iraniano che ha influenzato la prospettiva escatologica del giudeo-cristianesimo, perché al contrario annuncia una dottrina ciclica del tempo implicita nella concezione dell’eterno ritorno. Il Così parlò Zarathustra è un confronto continuo implicito con il Cristianesimo e un tentativo di un suo superamento con toni profetici, da “buona novella” anti-cristiana che paradossalmente annuncia la morte di Dio e una nuova era, nuove “beatitudini” e nuove “maledizioni” (“guai a…”), una nuova prospettiva di redenzione. Zarathustra è colui che proclama un “uomo nuovo”, che deve avere tratti completamente diversi dal vecchio, e che per questo chiama Übermensch, che dovrebbe essere meglio tradotto come “oltre-uomo”. Bisogna proclamare un “oltre-uomo” per difendere la vita, la sofferenza: Zarathustra è l’“avvocato” della vita e della sofferenza, ovvero si potrebbe tradurrecomprendere il “Paracleto”, diversamente annunciato da Gesù stesso. La necessità di difendere la vita con tutta la sua sofferenza nasce dal fatto che il platonismo e il Cristianesimo come dottrina hanno mortificato e sacrificato la vita rimandando a un al di là, ad un mondo sovrannaturale. Nietzsche non distingue come Heidegger fra un Cristianesimo originario, come esperienza autentica di fede nell’auto-comprensione della radicale finitezza dell’esistenza che rifiuta qualsiasi fuga 39 metafisica, e il Cristianesimo come dottrina metafisica: Nietzsche, anche attraverso l’interpretazione di Tolstoj del Cristianesimo, pensa che l’unico cristiano autentico sia stato solo Gesù stesso e che già i suoi apostoli e Paolo lo abbiano completamente tradito. Nietzsche vuole superare il solito ateismo, segnare definitivamente la morte di Dio una volta per tutte e fornire non solo una critica filosofica atea del Cristianesimo, ma anche una nuova mitopoiesi atea che risponda all’esigenza “religiosa” dell’essere umano: questa nuova mitopoiesi, alternativa al Cristianesimo, non può che risolversi nella ripresa dell’antico mito pagano di un mondo ciclico, basato anche su nuove speculazioni che derivano dalla portata cosmologica di alcune possibili riduzioni del significato della seconda legge della termodinamica23. Ma, proprio per questo motivo, questa nuova mitopoiesi si traduce, secondo Heidegger, in una nuova metafisica filosofica. Nietzsche effettua una genealogia della metafisica platonico-cristiana e ne trova le radici in uno spirito di risentimento e di vendetta: superare la metafisica platonico-cristiana implicherà quindi la redenzione da questo spirito di risentimento e di vendetta. Lo spirito di vendetta è sicuramente all’opera, secondo Nietzsche, nella concezione dell’inferno come luogo di punizione eterna degli ingiusti: la concezione dell’inferno è in contraddizione con la prospettiva di perdòno infinito di Gesù. Anche la concezione platonica della reincarnazione degli ingiusti in forme di vita inferiore deriva da uno spirito di vendetta mai sedato. Per Kant, Dio risultava necessario per la ragione pratica come garante di una remunerazione equa di ricompense e di punizioni nei confronti dei giusti e degli ingiusti. In definitiva, quindi, per Nietzsche era un falso sentimento morale animato da un effettivo spirito di vendetta a richiedere l’esistenza di Dio e di un mondo sovrannaturale, sovra-sensibile, in cui le sofferenze e le presunte ingiustizie della vita sarebbero state compensate. Spiega Nietzsche, quindi, generalizzandone il senso, che lo spirito di vendetta non è altro che l’avversione della 23 G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; tr. it. di S. TASSINARI, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978; e poi nuova traduzione a cura di F. POLIDORI, intr. di M. FERRARIS, Feltrinelli, Milano 1992 e ulteriore nuova ed. italiana con appendice a cura di F. POLIDORI, tr. it. di F. POLIDORI & D. TARIZZO, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002; H. S. KRAGH, Entropic Creation – Religious Contexts of Thermodynamics and Cosmology,Ashgate, Aldershot (UK) 2008. 40 volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’: si tratta cioè di un avversione contro la temporalità della vita che ne segna la transitorietà, il suo passare immodificabile e quindi intrinsecamente incompensabile nelle sue sofferenze e nelle sue presunte ingiustizie. Si tratta cioè di una debolezza della volontà, di un volere contro la volontà che sorge dentro spiriti deboli o indeboliti dalla sofferenza, che non sanno accettare la vita che è esplicazione di una naturale volontà di potenza creatrice e distruttrice delle sue forme finite al di là del bene e del male; si tratta anche di quella nolontà che caratterizza l’ascesi buddhista e la prospettiva di Schopenhauer. L’oltre-uomo, espressione suprema della volontà di potenza, accetta invece la vita in tutte le sue esplicazioni, in tutta la sua finitezza e incompensabilità. L’accetta così tanto da volere la vita, da dirle sì non una sola volta, ma infinite volte: sarebbe pronta a ripeterla, pure in tutte le sue sofferenze, infinite volte, eternamente. La suprema volontà di potenza vuole l’eterno ritorno del tempo: “imprimere al divenire il carattere dell’essere – questa è la suprema volontà di potenza”. Nell’idea dell’eterno ritorno, Heidegger, però, scorge una ricaduta nella metafisica: si tratta comunque, seppure paradossalmente, di eternizzare il tempo, di non accettare la radicale finitezza dell’esistenza temporale. Heidegger, al contrario, ha impresso all’essere il carattere del divenire, il carattere di un’intrinseca finitezza temporale: è questa, per Heidegger, l’unica soluzione antimetafisica. Nietzsche vuole eternizzare il tempo e trovava, ancora prima della teorizzazione dell’eterno ritorno, nell’attimo-istante, che comporta l’arresto del tempo, questa possibilità di eternizzazione della dimensione temporale: per Heidegger, Nietzsche non si è ancora liberato dalla metafisica dell’eternità e non riconosce la vera dimensione temporale che l’istante-ora non può cogliere (da questa prospettiva Nietzsche, nonostante il suo stile diverso, è più vicino ad Aristotele che a Kierkegaard). La prospettiva nietzschiana dell’eterno ritorno è quindi metafisica in un mero ribaltamento dei valori associati da Platone al mondo ideale e al mondo sensibile: per Nietzsche è il mondo sensibile ad essere superiore ed eterno. Fra l’altro, il rifiuto del platonismo si sviluppa in Nietzsche con una 41 ricaduta in prospettive biologistiche e materialistiche, seppure non meccaniciste. Ma anche la prospettiva nietzschiana della volontà di potenza è per Heidegger metafisica: si tratta di una metafisica soggettivistica in cui l’essere è concepito umanisticamente nei termini di una volontà di potenza illimitata, tipica solo degli enti umani. Nel medioevo cristiano la teologia francescana della volontà si era opposta ad una teologia aristotelica dell’intelletto, e questa teologia, attraverso il concetto di impetus poi ripreso da Bruno (e invero anche da Galileo) e Leibniz, aveva inaugurato una nuova filosofia della Natura, distante dall’intellettualismo logico-ontologico greco. Questa prospettiva era stata poi deformata dall’idea meccanicistica dell’inerzia e dalla biologia evoluzionistica che aveva ricondotto la volontà a un istinto vitale egoistico, che influenzò sia Schopenhauer che Nietzsche seppure con valutazioni opposte di questo istinto. Il tutto si legò in Nietzsche a una secolarizzazione di una teologia protestante, fissata dall’interpretazione della Bibbia a una visione essenzialmente ancora vetero-testamentaria e pre-gesuana della volontà, che concepiva Dio al di là della connotazione umana del bene e del male e considerava bene tutto – anche sofferenza, morte, violenza, assassinio – se e in quanto voluto da Dio. Al contrario, per Heidegger, conformemente alla rivoluzione gesuana che identifica Dio con l’Amore (I Giov. 4.8), essere-nel-mondo non può essere autenticamente che cura dell’alterità e del mondo; mentre la volontà di potenza illimitata dell’essere umano non può che esserne un’assoluta distorsione che considera l’essere e gli altri enti strumentalmente come oggetti disponibili al suo arbitrio, da sfruttare, da fagocitare e da dominare tecnicamente a vantaggio della propria vita, propria di chi non vuole accettare la propria finitezza temporale e si illude di poterla superare nell’illimitatezza dell’estensione del suo dominio. Non solo: la prospettiva nietzschiana si mostra metafisica ad Heidegger in quanto le rappresentazioni del pensiero filosofico e scientifico, seppure smascherate come determinate strumentalmente da una volontà di potenza, sono valutate positivamente da Nietzsche se non legate ad una sua repressione ma invece ad una sua esaltazione. La verità è strumentale alla realizzazione della massima volontà di potenza del soggetto umano, ed è un errore in quanto fissa ciò che diviene 42 e quando legata a rappresentazioni che non la realizzano: la verità non è propria dell’essere, ma è relativa alle varie prospettive dei vari soggetti, è soggettiva ed è determinata dalla massima efficacia delle rappresentazioni a vantaggio della volontà di potenza del soggetto24. Questa prospettiva nietzschiana non è per Heidegger meramente metafisica, ma è il compimento assoluto della metafisica occidentale moderna e del suo soggettivismo: non c’è più un mondo vero, un essere, una verità; nella prospettiva nietzschiana assurge apertamente a verità quanto è strumentale al dominio dell’illimitata volontà di potenza della soggettività umana; l’efficacia strumentale per il dominio viene epistemologizzata a criterio di verità strumentale. Si conclude così quel processo che con la rivoluzione scientifica aveva portato all’epistemologizzazione della tecnica. In Nietzsche, indipendentemente dalla tecnica, viene legittimata apertamente anche quella che può essere considerata la sua motivazione, una volontà di potenza oltre-umana (invero, “umana, troppo umana”), illimitata e al di là del bene e del male. L’esito è che la metafisica di Nietzsche, pur essendone sganciata, può costituire il fondamento del dominio tecnico umano che riduce tutto a fondo di risorse di energia, nella devastazione assoluta della terra da parte dell’umanità. 24 Karl Lӧwith, che, come altri allievi ebrei, si sentì profondamente tradito da Heidegger (aveva corretto con lui anche le bozze di Essere e tempo) per la sua adesione al nazismo, deve arrampicarsi sugli specchi per contestare il suo maestro ormai inviso sul piano filosofico: presenta il caso di Nietzsche come esempio del fallimento dell’ermeneutica heideggeriana, che comporterebbe quindi la falsità dell’analitica esistenziale su cui si basa. Non comprendendo l’intreccio complesso e inevitabile fra interpretazione in senso stretto, valutazione critica e sviluppo delle problematiche poste da un autore al di là delle soluzioni proposte, giudica l’ermeneutica heideggeriana “solipsistica”, autocentrata e non rivolta ad un’effettiva comprensione dell’altro. Lӧwith deve affermare che se Nietzsche non avesse scritto perlopiù per aforismi, ma piuttosto sistematicamente come Aristotele, se Nietzsche non si fosse “talora” espresso come si è espresso, se non si leggessero gli aforismi del Wille zur Macht, allora si sarebbe compreso non come Heidegger pretenderebbe. Siccome Lӧwith non riesce a smontare la veridicità dell’interpretazione di Nietzsche data da Heidegger, allora attacca direttamente l’analitica esistenziale, l’essere heideggeriano che non sarebbe altro che un retro-mondo sovrasensibile metafisico (quando è chiaro che non esiste mai né dietro né fuori dagli enti), poi cerca di spiegare storicamente e sociologicamente il pensiero di Heidegger come di un’epoca di crisi, in cui ci sono ancora teologhi atei, come lui, che non hanno accettato la morte di Dio evidenziata da Nietzsche (mentre è chiaramente Nietzsche che ha dovuto colmare questa morte divinizzando la volontà di potenza dell’oltre-uomo): K. LÖWITH, Heidegger. Denker in dürftiger Zeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1960; tr. it. di C. CASES & A MAZZONE, Saggi su Heidegger (I. L’esistenza che si accetta e l’essere che si dà; II. Evenienzialità, storia, ventura dell’essere; III. L’interpretazione di ciò che rimane taciuto nel detto di Nietzsche “Dio è morto”; IV. Per una valutazione critica dell’influenza di Heidegger), Einaudi, Torino 1966, 1974, pp. 83-123, in particolare pp. 117 e 123, e inoltre pp. 130-131. Di Lӧwith si veda anche: K. LÖWITH, Zu Heideggers Seinsfrage: Die Natur des Menschen und die Welt der Natur, in Die Frage Martin Heideggers. Beitrӓge zu einem Kolloquium mit Heidegger aus Anlass seines 80., Winter, Heidelberg 1969, pp. 36-49; tr. it. di N. Curcio, intr. di F. Volpi, K. LÖWITH, La questione heideggeriana dell’essere: la natura dell’uomo e il mondo della natura, in G. ANDERS, H. ARENDT, H. JONAS, K. LӦWITH, L. STRAUSS, Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998, pp. 75-88; K. LÖWITH, Husserl il pazzo e Heidegger il gesuita, da Fiala. Die Geschichte einer Versuchung (Fiala. La storia di una tentazione) in Internazionale Zeitschrift für Philosophie, n. 1 (1997), pp. 136-167, pres. di O. Franceschelli, in Micromega, pp. 297-306; K. LÖWITH, Mein Lebenin Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stuttgart 1986, pp. 42-45; tr. it. di E. Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, il Saggiatore, Milano 1988, pp. 69-72. 43 Il detto di Nietzsche “Dio è morto” per Heidegger ha due aspetti25: da una parte, va compreso positivamente nel senso della morte della metafisica del mondo sovrasensibile platonico-cristiano, del cristianesimo come dottrina metafisica, e mai nel senso del Dio della fede dell’esperienza autentica del Cristianesimo originario. Dal punto di vista specifico, invece, dell’assenza e del rifiuto della fede autentica in Dio, espressa da Nietzsche nell’uccisione vendicativa e consapevole di Dio da parte dell’“uomo più laido” (per non avere testimoni della propria abiezione), ha un aspetto negativo ma non esprime una novità; è piuttosto il culmine del processo di oblio dell’essere, che, nella modernità, ha i tratti della de-divinizzazione già discussa e a cui ha contribuito anche il cristianesimo dottrinario e religioso moderno che ha ridotto, con la filosofia moderna, soggettivisticamente il mondo a immagine, perdendo il senso divino della Physis. In questa prospettiva heideggeriana, Nietzsche non supera il nichilismo dei valori che segue, secondo Nietzsche, la “morte di Dio”, perché la trasmutazione nietzschiana di tutti i valori a favore della “valorizzazione” di una volontà di potenza senza valori è parte di questo nichilismo che deriva invece, per Heidegger, dall’oblio dell’essere e dalla de-divinizzazione che è prima di tutto perdita del senso della Physis, per cui neanche l’assenza di Dio può essere più percepita come tale. L’oltrepassamento della metafisica, per Heidegger, non è soltanto una svolta all’interno della disciplina della filosofia, ma piuttosto richiede una nuova maniera di esistere autenticamente in una nuova pre-comprensione dell’essere; è un evento nella storia dell’essere, in cui dopo l’abbandono e l’oblio totale dell’essere che costituiscono l’attuale nichilismo, che annichila l’essere nella devastazione della Physis, torna a rivelarsi l’essere. Tuttavia, seppure l’eterno ritorno e la volontà di potenza di Nietzsche rientrano nella metafisica e nell’ideologia della violenza, l’essere di Heidegger – seppure completamente temporalizzato - , riconducendo le cose stesse nella prospettiva dell’antica ontologia seppure modificata, è meno indicato del divenire nietzscheano per cogliere la temporalità costitutiva delle cose; e la rivelazione 25 M. HEIDEGGER (1936-1943), Nietzsches Wort “Gott ist tot, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; tr. it. di P. CHIODI, La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp. 191-246. 44 della Physis oltre la metafisica è vanificata dall’ontologizzazione trascendentale e metafisica della Physis nell’essere compiuta da Heidegger. Se si tolgono alla volontà di Nietzsche la sua connotazione di potenza e di dominio e quindi la sua connotazione di violenza amorale egoistica, si può accettare pienamente il suo sì alla vita e farne come in Albert Schweitzer 26 il fondamento volontaristico di una morale del rispetto della vita in tutte le sue forme, evitando le critiche di Heidegger di un sottostante soggettivismo umanistico. 26 A. SCHWEITZER, Aus meinem Leben und Denken, F. Meiner, Leipzig 1931; tr. it. di A. GUADAGNIN, La mia vita e il mio pensiero, Comunità, Milano 1965; A. SCHWEITZER, Die Weltanschauung der indischen Denker. Mystik und Ethik, Beck, München 1934; tr. it., I grandi pensatori dell’India, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1962, e, a cura di S. Marchignoli, Donzelli, Roma 1997; A. SCHWEITZER, Die Ehrfurcht vor dem Leben – Grundtexte aus fünf Jahrzehnten, a cura di H. W. Bӓhr, Beck, München 1991; A. SCHWEITZER, Gesammelte Werke in fünf Bänden. Hrsg. von Rudolf Grabs. Beck, München 1974. 45 5. Søren Kierkegaard e la filosofia dell’esistenza Søren Kierkegaard (1813-1855) diede origine a un nuovo tipo di filosofia: la sua filosofia dell’esistenza si oppone a tutte le precedenti filosofie delle essenze, che avevano avuto il loro culmine in quella di Hegel. Si presenta come una nuova forma di filosofia cristiana che si contrappone alla trasformazione del cristianesimo in una metafisica teologica: le sue radici affondano nella critica degli universali effettuata dalla rivoluzione francescana e dal rifiuto luterano della intellettualistica filosofia teoretica greca delle essenze. Si tratta di una filosofia, del tutto soggettiva, dell’esistenza nella sua concretezza e singolarità, dove anche la fede non si costituisce come suo fondamento razionale ma come particolare esperienza esistenziale concreta. Kierkegaard in Enten – Eller (Aut-aut, 1843) (con lo pseudonimo di Victor Eremita che avrebbe trovato i fogli pubblicati in due volumi: il primo, Enten, scritto da A l’esteta, mentre ‘il diario del seduttore è scritto da Johannes; il secondo, Eller, scritto dal giudice in pensione Wilhelm parla dello stadio etico); e in Stadi sul cammino della vita (1845), (in danese Stadier paa Livets Vei. Studier af Forskjellige sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder, la vita religiosa è descritta solo nella terza sezione), delinea un’analitica e una dialettica dell’esistenza, senza che queste possano però costituire un sistema filosofico dell’esistenza: la filosofia è intesa come tutt’uno con l’esistenza, come consapevolezza esistenziale e progetto d’esistenza, e mai come compendiabile in un sistema di una ragione teoretica. Qui, Kierkegaard descrive e distingue tre tipologie di esistenza, che possono costituire anche tre stadi successivi: questa analitica prende le mosse dalle proprie esperienze esistenziali individuali e non dal ragionamento astratto legato all’universalità impersonale di un io trascendentale. La prima tipologia d’esistenza è quella di una vita estetica, o meglio di un modo di vivere da esteta (di cui il Don Giovanni è esempio paradigmatico), che si realizza nel godere il piacere momentaneo dell’attimo fuggente, in una ricerca continua ma disciplinata di qualcosa di non-banale, di sofisticato e intenso che possa ravvivare un ebbrezza che perduri. Questa tipologia d’esistenza è destinata, per la sua natura, ad avere come esito la noia o eventualmente la disperazione. Quando la disperazione diventa 46 prevalente, allora si prospetta una nuova possibilità, un’esistenza alternativa: la disperazione è quindi non meramente negativa, ma ambivalente perché permette anche di uscire fuori dalla sfera estetica. Si apre allora la strada ad una seconda tipologia d’esistenza, quella di una vita etica. Il passaggio però non è facile perché non si tratta di un percorso continuo, senza fratture: vi è un abisso da superare ed un salto da effettuare per questa trasformazione segnata da una discontinuità radicale. La scelta di una vita etica comporta il raggiungimento di una nuova stabilità ed una nuova continuità, di livello superiore a quello della vita estetica che aveva bisogno sempre di novità esteriori per mantenersi nella sua intensità: questa nuova stabilità ha corso nella scelta di sé stessi, di un sé stesso che si ritrova proprio nel suo scegliere in una continuità temporale che fonda la propria identità nella sua storia, e in accordo a una legge universale che lo lega all’intera umanità. L’esito della vita etica è il riconoscimento della propria colpa, e anche delle colpe ereditate come membro della specie umana, che ne mostra l’insufficienza. Il sentimento di colpa genera angoscia, e, questa angoscia presenta ancora un’ambivalenza, perché non è solo negativa ma può condurre a uscire da questa sfera d’esistenza. Si apre allora la possibilità del pentimento, della metànoia e della conversione alla vita religiosa. Anche fra vita etica e vita religiosa c’è un abisso, ancora più incolmabile del precedente, e richiede il salto della fede che non è attuabile dal solo essere umano, ma coinvolge Dio: la fede è dono della Grazia. Kierkegaard distingue nettamente la vita religiosa dalla vita etica richiamandosi alla figura antico-testamentaria di Abramo, e sarà seguito in questo, successivamente dal teologo Karl Barth: vede in Abramo il paradigma della fede che può portarlo anche all’uccisione del figlio, cioè alla sospensione dell’etica e delle sue leggi. Kierkegaard crede sia questa la radicalità della fede cristiana, ma in effetti il Dio di Kierkegaard resta così ancora quello vetero-testamentario che è molto diverso dall’etico Dio-Amore di Gesù e del Nuovo Testamento (I Giov. 4.8). La fede, allora, per Kierkegaard non può che qualificarsi a sua volta, in questa sospensione dell’etica, che un’incertezza angosciosa, dove certa resta solo l’angoscia. La fede è così paradosso e scandalo, contraddizione ineliminabile. Il paradosso massimo è quello del Cristo dalla doppia 47 natura, umana e divina. Ma questo paradosso si ripresenta in ogni esperienza esistenziale della fede in cui Dio è presente nella vita dell’essere umano: da un lato, è l’essere umano che deve scegliere la vita religiosa, dall’altro è Dio che sceglie/elegge l’essere umano nella Grazia della fede. Se questa è l’esperienza esistenziale umana che riproduce il paradosso proprio del Cristo, allora il cristianesimo rivela la struttura stessa dell’esistenza: contraddizione, paradosso, scandalo, dubbio, angoscia sono le caratteristiche dell’esistenza e del cristianesimo, non solo della vita religiosa ma anche della vita estetica e della vita etica. L’esperienza esistenziale è esperienza di una contingenza radicale, contingenza della propria esistenziale e contingenza delle cose. L’esperienza non solo non è sufficiente per delineare alcunché di necessario, ma è tale da dover escludere la necessità: tutto accade in quanto possibilità. A sua volta, anche la storia è il regno della possibilità, in quanto propria del divenire: il divenire è sempre un annientamento parziale delle possibilità soppiantate dalla realtà: il passato non è necessario neanche dopo essere accaduto, altrimenti necessario sarebbe anche il futuro; il necessario, proprio dell'essere immutabile, non include il possibile del divenire, come erroneamente pensava Aristotele, ma ne è l’opposto. Il passato resta sempre possibile e quindi la sua stessa realtà è la realtà di una possibilità (per questo Dio può cambiare anche il passato, come per la teologia di Pier Damiani). Il passato non è che un futuro che è accaduto: la dimensione fondamentale del tempo, come sarà ripreso da Heidegger, è così il futuro. Come regno del possibile, il divenire non ammette causalità: Kierkegaard segue e va oltre Hume. Il divenuto è conoscibile nel suo darsi immediato alla percezione, ma il divenire non è conoscibile: il cambiamento non è conoscibile. Non c’è una scienza del divenire della Natura: nessuna logica dialettica hegeliana può stabilirsi, ma neanche una scienza della Natura basabile sulla continuità e sulla causalità che non sono tracciabili. Questa prospettiva sarà alla radice della filosofia quantistica della Natura di Niels Bohr (1885-1962) di fronte alle evidenze di impossibilità sperimentali del mondo atomico e microfisico: è possibile descrivere l’elettrone solo negli stati stazionari dell’atomo, e mai nelle transizioni da uno stato all’altro, che non sono descrivibili tramite funzioni 48 matematiche continue o connessioni causali prevedibili e si configurano come i salti di Kierkegaard fra i vari stati d’esistenza; l’elettrone verrà poi pensato da Bohr, secondo il principio di complementarità del 1928, come avente una doppia natura di corpuscolo e di onda come la doppia natura del Cristo in cui la contraddizione è pensata in termini appunto di complementarità. Anche la storia come divenire non può essere quindi oggetto di scienza, in quanto niente del nonessere o distruzione delle possibilità che si sono realizzate, passaggio dal niente a una possibilità multipla. La storia non è quindi oggetto di scienza. La struttura dell’esistenza è quindi la possibilità, che sottostà alle varie possibili scelte alternative di vita: l’angoscia che caratterizza l’esistenza è legata all'indeterminazione e all’infinità delle possibilità che si concretizzano nell'avvenire, a ciò che non è ma può essere nel futuro, al nulla che è possibile o alla possibilità nullificante, a cui si collega la morte. Il passato non può angosciare: ha potuto angosciare nel suo essere possibile futuro che stava accadendo o può angosciare nel suo possibile ripetersi futuro. L'angoscia è, come la disperazione, una categoria esistenziale che ci fa comprendere, come per Luther, che nella vita può accadere di tutto e che la perdizione e l'annientamento sono in ogni momento possibili per la struttura stessa dell'esistenza. L'angoscia è relativa alla condizione di possibilità esistenziale dell'essere umano in relazione al mondo, la disperazione è invece correlata alla condizione di possibilità esistenziale interna a sé stesso: la disperazione è la malattia mortale non perché comporti la morte effettiva, ma perché è la possibilità impossibile di affermare o negare sé stesso rispettivamente nella propria autosufficienza o insufficienza che comporterebbe essere altro da sé e autosufficienza; si tratta di "vivere la morte dell'io come autosufficienza". Solo la fede permette di superare la disperazione in quanto fede in un Dio a cui tutto è possibile. Ma la fede sconfina al di là della ragione ed è sempre paradosso e contraddizione: così, costituisce un capovolgimento dell’esistenza per cui al possibile come fonte di radicale instabilità si sostituisce la stabilità del possibile dipendente da Dio che può tutto. Fede e dubbio non sono due categorie gnoseologiche ma passioni contrarie, ma la fede è anche decisione che esclude il dubbio che non si risolve razionalmente. 49 Il rapporto fra Dio ed essere umano non si verifica nella storia o nel divenire ma nell'istante in cui l'eternità incontra il tempo, la verità di Dio si impone sulla non-verità umana che è propria del peccato, per cui non si può raggiungere la verità attraverso una maieutica socratica che presuppone la presenza della verità come interna all'essere umano, ma solo attraverso la redenzione operata dal Cristo. Dio non è dimostrabile razionalmente dall’essere umano perché caratterizzato come non verità: le dimostrazioni presunte presuppongono già Dio e sono quindi sviluppi idealistici e non prove. Dio è follia impensabile, differenza assoluta rispetto all'essere umano. Con la fede, possiamo accedere alla doppia natura del Cristo, uomo e Dio, che resta per noi paradossale e non risolvibile teoreticamente, ed il Cristo è il paradigma dell’incontro esistenziale dell’essere umano e di Dio, dell’incontro fra Natura e Grazia nell’esistenza umana. L’esistenza umana, così, secondo Kierkegaard, si può comprendere attraverso l’esempio del paradosso e della contraddizione che la persona di Gesù vive in sé e che il cristiano ripercorre: anche Gesù, secondo i Vangeli, ha vissuto pienamente l’esperienza dell’angoscia. Secondo Kierkegaard, è così il cristianesimo che svela la struttura dell’esistenza umana: questo tema verrà ripreso da Heidegger che costituirà la struttura trascendentale dell’esistenza sulla base della fenomenologia della vita religiosa che rappresenta la forma di esistenza autentica. 50 6. La fenomenologia di Edmund Husserl La fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) va situata storicamente per essere compresa pienamente: si tratta di una reazione alla crisi del pensiero moderno, scientifico e filosofico. In fisica, dopo la costruzione della termodinamica e dell’elettromagnetismo a partire da metà Ottocento, si delineò la crisi del meccanicismo: la concezione meccanicistica della Natura non poteva più costituire il fondamento del pensiero fisico. D’altra parte, la costruzione delle geometrie non-euclidee, delle algebre non-commutative, di nuove teorie dei numeri, già nella prima metà dell’Ottocento, determinò una crisi dei fondamenti della matematica e quindi dell’intera scienza moderna: logicismo, formalismo, intuizionismo-costruttivismo si fronteggiarono proponendo soluzioni che non si rivelarono positive. La fondazione della filosofia teoretica era invece crollata sotto le critiche di Arthur Schopenhauer, Karl Marx, Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche. Il dubbio teoretico con cui Husserl si confrontava era quindi prima di tutto un dubbio storico: il legame con Cartesio, ancora prima che teoretico, è storico: si era riaperto l’abisso di un mondo non razionale e non razionalizzabile. Husserl tenta una rifondazione della filosofia teoretica nello spirito greco, ma in termini della moderna metafisica soggettivistica. A partire dalle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, il cui primo volume fu pubblicato nel 1913 (altri due, postumi, appariranno nel 1952)27, Edmund Husserl così aveva proposto il metodo della cosiddetta “riduzione fenomenologica” (la sospensione del giudizio dello scetticismo antico, l’epoché) per accedere a una dimensione in cui i fenomeni si mostrano come tali a una coscienza pura: secondo Husserl, si devono “mettere fra parentesi” i pre-giudizi e i giudizi del senso comune e anche delle teorie scientifiche che presuppongono già un mondo di cui l’essere umano è parte. Unico modo per accedere al mondo vero è ricostituirlo a partire dagli atti intenzionali della coscienza pura che lo costituiscono come tale (il mondo si coglie solo come il correlato oggettivo di una coscienza pura che s’intenziona verso di esso e che si presenta come 27 E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Niemeyer, Halle 1913; tr. it. a cura di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965. 51 un’intersoggettività originaria): Husserl vuole partire da una correlazione originaria soggettomondo, sperando così di superare l’astratto realismo delle cose in sé e l’astratto idealismo di una coscienza in sé a cui il mondo è interno, ma comunque il mondo si costituisce solo attraverso il soggetto come fenomeno per una coscienza pura. Secondo Husserl, il mondo vero non è quello descritto dall’esterno dalla scienza moderna, ma quello “vissuto” dall’interno, dalla coscienza interiore dell’essere umano. Questa prospettiva di Husserl vuole superare con l’idealismo post-kantiano la metafisica distinzione (kantiana) fra fenomeno e noumeno, e si ripropone, in un contesto storico mutato, una rifondazione filosofica della conoscenza scientifica da un punto di vista che resta soggettivistico e che certamente non tiene conto che indirettamente della problematica humiana ormai lontana. Husserl segue il dubbio metodico cartesiano e si arresta allo stesso modo all’indubitabile certezza dell’io, seppure trascendentalizzato alla Kant. C’è, poi, secondo Husserl, oltre l’intuizione sensibile kantiana, un’intuizione categoriale (non dell’intelletto kantiano) che permette di accedere, oltre l’intuizione empirica, alle universali e a priori modalità d’essere “oggettive” in cui si struttura l’esperienza, cosicché si ha una riduzione eidetica dei singoli dati empirici alle “essenze oggettive” (dei “trascendentali oggettivi”, ontologici) delle cose per come si danno allo sguardo teoretico disinteressato. Solo questa intuizione eidetica permette di fondare una scienza rigorosa, che non è possibile fondare a partire dall’esperienza come vorrebbero le scienze naturali. Che fosse possibile fondare una scienza rigorosa era per Kant una fiducia assoluta nella scienza newtoniana, ma per Husserl, che non ritiene fondate le scienze naturali, resta una mera petizione di principio, come anche il fatto che ci sia un’essenza ideale delle cose coglibile da un’intuizione eidetica e che lo porta a un realismo delle idee, ovvero a una sorta d’idealismo platonico senza iperuranio, un idealismo trascendentale che ha un risvolto ontologico. Questo aprirà la strada all’ontologizzazione del trascendentale kantiano da parte di Heidegger. 52 Ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 28 Husserl terrà conto dell’analitica esistenziale di Heidegger, che, nel 1927, con Essere e tempo, si era distaccato dalla sua filosofia, tematizzando il “mondo della vita” (Lebenswelt) per tenere conto dell’origine della scienza moderna: riconosce il fatto che dietro le teorie scientifiche ci sia l’esperienza pratica e tecnica del mondo come suo presupposto, cioè l’essere-nel-mondo-della-vita costituisce l’apriori storico e pratico-tecnico della scienza moderna. Tuttavia, Husserl rifiuta la prospettiva heideggeriana per cui è questo il fenomeno del mondo: bisogna effettuare un’epoché anche del mondo della vita, per costituire il fenomeno del mondo nella coscienza pura. Il confronto con le scienze fa emergere degli altri aspetti del suo pensiero: per Husserl la fenomenologia resta, per esempio, pre-copernicana, perché la base su cui si costituisce poi la conoscenza scientifica è quella dei vissuti di coscienza dell’essere umano che è radicato nella Terra come punto d’osservazione29: questo chiarimento mostra, come già detto, perché fosse fuorviante l’analogia posta da Kant tra la sua prospettiva e la “rivoluzione copernicana”. Si ha così il paradosso per cui per l’essere umano il fenomeno del tramonto è reale seppure apparenza 30, e il moto rotatorio della Terra intorno al suo asse, che sta dietro quel fenomeno, non ha realtà effettiva ma astratta perché non riferita al senso che ha per l’essere umano conoscente. Così, tutta la prospettiva delle teorie fisiche della relatività, sia di Bruno e Galileo sia di Poincaré ed Einstein, è 28 E. HUSSERL (1936), Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in Husserliana, Gesammelte Werke, Bd. VI, Nijhoff, Den Haag 1954, 1959; tr. it. di E. FILIPPINI, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961. 29 E. HUSSERL (1934), Umsturz der koperkanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation, pubblicato postumo con il titolo Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Raumlichkeit der Natur, in Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, ed. M. Farber, Cambridge Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1940, pp. 307-325; Rovesciamento della dottrina copernicana nell'interpretazione della corrente visione del mondo, tr. it. a cura di G. D. Neri, in aut-aut 245 (1991), pp. 1-18; il titolo completo dato da Husserl suonava: Rovesciamento [Umsturz] della dottrina copernicana nell'interpretazione della corrente visione dei mondo. L'Arca originaria Terra non si muove. Ricerche fondamentali circa l'origine fenomenologica della corporeità, della spazialità, della natura nel senso primario delle scienze naturali. 30 Si veda la corrispondente discussione, sul tempo del mondo, da parte di Heidegger nel § 80 di Essere e Tempo, che fa pensare ad una prospettiva di pensiero a cui quanto meno non interessa nulla del copernicanesimo: M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar - esemplare della baita - di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, a cura di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006. 53 considerata astratta e non restituente la realtà e il senso effettivi delle cose. Il fenomeno tematizzato dalla fenomenologia non è più il fenomeno oggettivo del senso ordinario o della scienza e neppure quello kantiano, ma è un fenomeno completamente soggettivistico. La fenomenologia era nata per comprendere i fenomeni psicologici o logici interni alla coscienza (gli atti intenzionali della coscienza erano già stati introdotti per quelli da Franz Brentano che però li considerava immanenti alla coscienza e non correlativi ad essa come Husserl), ma applicata ai fenomeni naturali si è rivelata riduttiva e antropocentrica. 54 7. Il tentativo di ripristinare una metafisica ontologica: Martin Heidegger Martin Heidegger (1889-1976) inizia in qualche modo come teologo e come fenomenologo della vita religiosa. Era stato questo il tema di Heidegger nei suoi primi corsi a Freiburg, 31 in cui aveva delineato i limiti e le “deviazioni”, l’autocomprensione falsata della vita propria di quelle pratiche teoretiche che astraggono dalla vita, paradigmatiche, a partire dal pensiero antico greco, di tutta la filosofia occidentale come della scienza, caratterizzanti la conoscenza come separata dalla vita fattizia e operanti, di converso, un processo di de-vitalizzazione e di de-naturalizzazione della stessa vita. A tali pratiche teoretiche separate dalla vita, Heidegger contrapponeva l’autocomprensione (storica) autentica della vita fattizia storica nel mondo nell’esperienza del cristianesimo originario, che identificava con quello “paolino”, derivandolo da un'interpretazione dei più antichi testi delle lettere di Paolo (la lettera ai Galati e le due lettere ai Tessalonicesi). Già qualche anno dopo, Heidegger tradirà in effetti tale proposito radicale di comprensione inevitabilmente storica, ontologizzerà il suo pensiero nel tentativo di una fondazione puramente filosofica di una teoria generale, universalmente valida, di una “analitica” dell’esistenza e dell’essere, staccata dall’esperienza storica e dalla vita fattizia: i corsi di Freiburg, pubblicati solo da qualche anno e ancora poco studiati, sono fra l’altro perlopiù interpretati in continuità, come meri antecedenti storici di Sein und Zeit , senza che se ne comprenda l’irriducibile rivoluzionarietà perduta negli sviluppi successivi.32 In tale prospettiva iniziale, Agostino era interpretato come caso complesso di autocomprensione della vita fattizia cristiana, già in gran parte però minata da elementi neoplatonici in un quadro teoretico onto-teologico in cui lo stesso Cristianesimo occidentale, ellenizzato e latinizzato, post-niceano si configurerà dissolvendo la stessa esperienza originaria della vita protocristiana. 31 M. Heidegger (1995), Phänomenologie des religiösen Lebens. 1.Einleitung in die Phänomenologie der Religion (WS 1920/21), a cura di M. Jung e T. Regehly. 2. Augustinus und der Neuplatonismus (SS 1921). 3. Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (1918/19) a cura di C. Strube, in Gesamtausgabe LX , Klostermann, Frankfurt am Mein, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003. 32 M. Heidegger (1927), Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976. M. Heidegger (1975), Die Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt am Main, tr. it. di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo, Genova 1988, pp. 218-327. Si veda anche: G. Gregorio, Hans-Georg Gadamer e la declinazione ermeneutica della fenomenologia , Alfieri & Ranieri, Palermo 1997. 55 In Sein und Zeit, Heidegger, di fronte alla crisi del pensiero moderno, ha ritenuto che fosse necessario abbandonare la metafisica soggettivistica e ritornare ad un’antica metafisica ontologica: la crisi della modernità viene affrontata con una critica assoluta della modernità. Heidegger tenta così di mettere insieme trascendentalismo kantiano e poi hegeliano, fenomenologia husserliana, l’ermeneutica di Wilhelm Dilthey (1833-1911), ed esistenzialismo kierkegaardiano all’interno di una prospettiva metafisico-ontologica. Dalla modernità Heidegger ha ripreso a suo modo il tema di una pre-comprensione del mondo di tipo pratico: tuttavia, connotò questo rapporto pratico in senso puramente strumentale legato all’uso del mondo da parte dell’essere umano, ontologizzandolo trascendentalmente33. Heidegger, in Essere e tempo, sostituisce alla correlazione coscienza-mondo di Husserl, la correlazione essere umano – mondo, che si costituisce nell’essere-nel-mondo che è il Da-sein: il soggetto si correla al mondo nel suo esistere. L’analitica dell’esistenza di Kierkegaard è ripresa e riformulata: la concreta esperienza esistenziale di Kierkegaard è sostituita in Heidegger da un’analitica trascendentale della struttura ontologica dell’esserci (non gnoseologica come in Kant), che prescinda dall’esperienza. Al di fuori della concreta dinamica esistenziale considerata da Kierkegaard nei suoi salti da una vita estetica ad una etica e a una religiosa, l’angoscia e la morte stessa vengono trascendentalizzate in uno struttura ontologica dell’essere-per-la-morte che in qualche modo le neutralizza. L’epoché del mondo operata da Husserl è quindi rifiutata, perché la costituzione del mondo come fenomeno non è operata dalla coscienza, ma sul piano stesso dell’esistere nel mondo stesso. Il logos che può operare questa costituzione, così, per Heidegger, non è quello della tradizione razionalistica che culmina nel paradigma esplicativo-causale delle scienze naturali quali scienze nomotetiche che riconducono il fenomeno a una legge che lo sussume, ma quello proprio a una comprensione dei fenomeni nella loro irriducibile singolarità come nelle scienze dello spirito, nelle scienze storiche 33 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar - esemplare della baita - di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976, § 7 pp. 46-47, § 7 C, p. 55; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, a cura di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, in particolare §§ 14-22. 56 come scienze idiografiche, e quindi ermeneutico: si tratta di una comprensione dei fenomeni in termini del loro senso per l’esistenza, perché anche il mondo si costituisce come fenomeno in termini del suo senso esistenziale per l’essere umano che si dà all’interno di un pensiero poetante, ovvero del linguaggio poetico (in una sorta di trasformazione linguistico-ermeneutica del kantismo). Tuttavia, anche l’ermeneutica fenomenologica di Heidegger, pur superando l’intellettualismo coscienzialistico di Edmund Husserl, presenta, come si è accennato, problemi analoghi per raggiungere le “cose stesse”: se la costituzione del mondo come fenomeno è un fatto dell’esserci umano, allora si comprende come Heidegger possa giudicare “poveri di mondo” gli altri esseri animali, restando in una prospettiva antropocentrica; anche il linguaggio poetico, analizzato soprattutto dall’ultimo Heidegger, non lo apre a superare l’orizzonte antropocentrico, perché è solo l’essere umano che ‘poeticamente abita’ fra terra e cielo, nell’incontro con gli dèi che è dei soli veramente mortali, per Heidegger gli esseri umani. Nel § 43 di Essere e Tempo, Heidegger si confronta sia con il realismo sia con l’idealismo: da una parte, Heidegger concorda con il principio realistico per cui il mondo esiste anche se la sua esistenza non va dimostrata ma piuttosto è costitutiva dell’esserci come essere-nel-mondo; dall’altra parte, Heidegger condivide il principio idealistico per cui l’essere è “nella coscienza”, cioè si dà solo nella comprensione dell’esserci. Solo all’interno della comprensione dell’esserci si danno per Heidegger le cose stesse, le cose in sé, che altrimenti resterebbero indeterminabili e indeterminate. Nel § 44c, Heidegger afferma altresì che “ogni verità è relativa all’essere dell’esserci”, che prima e dopo l’esserci non c’è verità, che è apertura o scoprimento del mondo nell’esserci: come esempio, Heidegger dice che le leggi di Newton, il principio di non contraddizione non erano veri prima che fossero scoperti. L’ermeneutica fenomenologica di Heidegger ha quindi una connotazione idealistica trascendentale che comunque resta soggettivistica e umanistica, seppure il legame al soggetto umano non si situi su un piano gnoseologico ma piuttosto di una (pre-)comprensione ontologica. Heidegger è consapevole che il mondo si incontra prima nella prassi che nel pensiero, ma nel passare dalla pre-comprensione della prassi alla comprensione ontologica dell’essere, 57 ontologizzando la prassi, Heidegger subordina ancora la prassi alla teoria (ontologica) e riconduce il mondo stesso alla comprensione ontologica che ne ha l’esserci. Heidegger effettua un doppio movimento: segue la prospettiva gnoseologica che aveva ricondotto l’ontologia alla gnoseologia, ma poi ontologizza la gnoseologia. Così, Heidegger crede di poter superare l’aporia che oppone idealismo e realismo, ma invero, in quanto l’ontologizzazione è comunque teoretica, Heidegger non riesce a superare il paradigma teoretico greco e resta imprigionato in un soggettivismo gnoseologico: la sua ontologia resta nascostamente gnoseologia, è gnoseologia travestita; ontologizzare il soggetto gnoseologico non implica soltanto una contraddizione nel ridurlo a oggetto, ma anche un ridurre le cose alle forme conoscitive del soggetto umano; anziché evitare i due errori del realismo e dell’idealismo, Heidegger li compie entrambi34. La questione dell’essere, riproposta da Heidegger, è, se non la più antica, la questione storicamente più importante della filosofia occidentale. Da dove ha origine? Essere è un verbo, una parte fondamentale di un linguaggio umano legato a una scrittura alfabetico-fonetico-lineare, un concettorelazione fra altre parole-concetti, il concetto più generale che è incluso nella definizione di tutti gli altri concetti che esprimono invenzioni fantastiche, enti puramente linguistici o pensati, o cose reali. Questo concetto ha assunto un significato filosofico per l’interpretazione della Physis/Natura, a partire dalla teorizzazione del divenire e del mutamento da parte di Eraclito in termini di essere e di non essere, e poi dell’immutabilità da parte di Parmenide in termini di essere. Martin Heidegger, seguendo la scia di Søren Kierkegaard, ha cercato di ridare concretezza all’essere, in un’interpretazione ontologica dell’esistenza: non si tratterebbe più di un concetto teoretico, ma ciò che solo è irriducibile a concetto, che resta quando sospendiamo tutti i concetti e tutte le teorie. Questa concretezza però può sussistere solo intendendo l’essere come “essere qualcosa o qualcuno”, in una sua determinazione singolare, individuale. Tuttavia, nel momento stesso in cui 34 G. CALOGERO, Leggendo Heidegger, in Rivista di filosofia XLI, n.2 (1950), pp. 136-149; poi ristampato nella seconda edizione de La scuola dell’uomo, in Scritti di Guido Calogero I, Sansoni, Firenze 1956, pp. 231-249. 58 Heidegger pone come fondamentale, invero già in Sein und Zeit,35 la differenza ontologica tra essere ed ente, astrae l’essere dall’ente, considera l’essere come indeterminato e quindi lo riduce a concetto, a universale seppure non esistente platonicamente in sé, ma sempre connesso a un individuo: non basta dire che l’essere è sempre l’essere di un ente, perché nel dire questo non si specifica mai l’essere nella singolarità dell’ente cui si riferisce, tanto da poterlo pensare come essere (generale, universale) degli enti. Essere un particolare essere umano è diverso dall’essere un altro essere umano, come essere un essere umano è diverso dall’essere una farfalla: perché l’essere sia concreto non può essere neanche un universale di specie, deve essere considerato sempre e comunque nella sua singolarità individuale. Nella originaria comunanza-partecipazione dell’essere a tutti gli enti, Heidegger sperava di dare un fondamento ontologico-trascendentale all’etica, implicata nell’originario conessere sicuramente degli esseri umani; eventualmente estendibile illimitatamente, anche oltre Heidegger, a un con-essere di tutti gli enti: un fondamento ancora più profondo, trascendentale, precedente alla, e indipendente dall’osservazione empirica, fatta propria dalla teoria evoluzionistica dell’origine delle specie, di una comune e unica origine di tutti gli esseri viventi. Purtroppo, questa fondazione trascendentale ontologica escogitata da Heidegger per l’etica si è rivelata illusoria. L’essere di Heidegger si è dimostrato un concetto etno-linguisticamente e storicamente determinato all’interno degli sviluppi di un’etno-filosofia greca. Guido Calogero aveva già fatto notare che quella di Heidegger era una metafisica neo-parmenidea, e che quelle di Eraclito e Parmenide erano delle proto-logiche ontologizzate, delle onto-logiche sorte da un’ipostatizzazione della più comune funzione verbale.36 Se l’essere è questa 35 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar (esemplare della baita) di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006; E. GIANNETTO, Un fisico delle origini. Heidegger, la scienza e la Natura, Donzelli, Roma 2010. 36 G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, Tipografia del Senato, Roma 1932, seconda edizione, La Nuova Italia, Firenze 1977; G. CALOGERO, Parmenide e la genesi della logica classica, in Annali della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, serie II, v. 5 (1936), pp. 143-185; G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967. 59 ipostatizzazione indebita, allora la filosofia non è rivelazione dell’essere, pensiero dell’essere, e il linguaggio non è la dimora dell’essere né una sua rivelazione: il logos greco, presocratico, della physis, era solo un discorso umano, un logo umano proiettato sulla Natura; solo il logos cristiano era carne, era vita, era amore, era rivelazione e non può essere ricompreso insieme a quello greco. Lo stesso pensiero dell’essere di Heidegger si è manifestato quale un mero ferro ligneo, che aveva tentato di mettere insieme intellettualismo greco e prassi etica d’amore del Cristianesimo: la rivelazione di Dio nella Natura non si può pensare in termini della physis greca ridotta intellualisticamente a un logos ontologico. Se l’essere è questa ipostatizzazione indebita, allora la storia degli enti e dell’esserci umano o dell’umanità non è riconducibile storia dell’essere, come fa Heidegger dopo la svolta degli anni trenta, traducendo nel suo linguaggio ontologico la ‘storia dello spirito’ di Hegel; né la storia concreta dell’esistere umano può essere compresa in termini di una sua fondazione trascendentale nella storia dell’essere che ne determinerebbe così le condizioni di possibilità: con la conseguente de-responsabilizzazione dell’individuo umano dalle sue scelte esistenziali, perché condizionate dallo stesso essere che determina la storia mondiale dell’umanità. Questa prospettiva filosofica della storia trascendentale dell’essere permette di capire perché Heidegger non si sia mai scusato del proprio errore dell’adesione al nazismo: non solo la verità, secondo Heidegger, appartiene all’essere, ma anche l’errore ha un suo fondamento ontologico; è l’essere stesso che nell’umanità erra e si oblia, come massimamente nell’età moderna della tecnica distruttrice di cui il nazismo sarebbe solo un epifenomeno. 60 8. Fra Heidegger e Marx Fra gli allievi di Heidegger, alcuni hanno tentato di mettere insieme marxismo e filosofia di Heidegger. Il nucleo più importante della filosofia di Heidegger fu identificato nella critica della scienza moderna e della tecnica come dominio della Natura e degli altri esseri viventi. Si trattava di superare il presupposto tecnico-economico che caratterizzava la concezione dell’essere umano proposta da Marx, strettamente legato al lavoro, come attività tecnica di trasformazione della Natura che riduceva la Natura a valore d’uso dell’umanità. Una qualche critica della scienza e della tecnica era stata in qualche modo già proposta da Gyӧrgy Lukacs (1885-1971) in Storia e coscienza di classe (1923), all’origine del marxismo occidentale. La critica della razionalità scientifico-tecnica, strumentale, fu sviluppata però soprattutto dagli allievi ebrei di Heidegger della cosiddetta Scuola di Francoforte. Herbert Marcuse (1898-1979) fin dagli anni trenta aveva cercato di sviluppare un Heidegger Marxismus, che poi rielaborò ancora senza però più citare Heidegger in maniera rilevante: troppo forte era stato il “tradimento” di Heidegger con la sua adesione al nazismo e con il non riconoscere pubblicamente il proprio errore. In Marcuse si tenta anche di mettere insieme freudismo e marxismo: in Eros e Civiltà (1955) vi è la reinterpretazione della liberazione marxiana del lavoro in termini di liberazione dal lavoro (tecnico); contrariamente a quanto affermato da Freud, è possibile una civiltà che non reprima l’eros, la pulsione vitale da Freud individuata quale caratteristica fondamentale della psiche. L’uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata (1964) ebbe grande importanza anche per il movimento di rivolta del 19661968: Marcuse caratterizzava il movimento studentesco come nuova “classe rivoluzionaria”. La storia dell’essere heideggeriana veniva tolta dal suo piedistallo trascendentale e concretizzata in termini della storia economica occidentale: si passava dalla struttura ontologica trascendentale dell’esistenza umana alla struttura economica concreta che determina la struttura delle società umane. L’oblio dell’essere che caratterizza l’età moderna della tecnica è legato allo sviluppo del capitalismo moderno, che costituisce un apriori storico tecnico-economico come “trascendentale materiale”, che fa sì che dominio tecnico della Natura e dominio dell’uomo sull’uomo siano 61 strettamente connessi: inautenticità dell’esserci heideggeriano e alienazione marxiana vengono identificate; l’essere umano viene ridotto a una sola dimensione consumistica, anche nel pensiero che ne è ideologia (la filosofia analitica soprattutto che si limita a un’analisi conservatrice del linguaggio che è espressione di potere e di dominio). Marcuse delinea anche un processo rivoluzionario di liberazione che implica una rivoluzione del linguaggio del pensiero (Saggio sulla liberazione, 1969). Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Wiesegrund Adorno (1903-1969) sviluppano la loro critica della tecnica e della razionalità scientifica illuministica soprattutto in Dialettica dell’illuminismo (1947). Horkheimer e Adorno sono estremamente critici nei confronti di Heidegger, ma in effetti ne riprendono la visione critica della scienza e della tecnica in una maniera molto simile e parallela a quella di Marcuse. Adorno non tiene conto che la prospettiva di Hediegger si basa tutta sulla distruzione dei concetti della tradizione filosofica e teologica, e lancia l’accusa che Heidegger rinuncerebbe all’analisi dei concetti e del pensiero critico; tuttavia, la negativizzazione della dialettica operata da Adorno, che elimina da quella il momento sintetico, sembra dipendere dalla distruzione dei concetti operata da Heidegger e dalla sua reinterpretazione della storia hegeliana da rivelazione positiva a rivelazione negativa (oblio) dell’essere. 37 C’è una critica generica e aprioristica, da parte di Adorno, della metafisica ontologica dell’essere di Heidegger: il banale fatto che viola la filosofia di Kant viene presentato come un errore di Heidegger, ma l’ontologizzazione del trascendentalismo kantiano operata da Heidegger è un’altra prospettiva; che nell’esserci di Heidegger si effettui anche una trascendentalizzazione dell’esperienza non lo distingue da Kant; che Heidegger non segua il metodo dialettico non può essere in sé un’obiezione e non se ne può dedurre che si tratti di un “pensiero dell’identità”; la 37 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966; tr. it. di C. A. DONOLO, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970. Si vedano anche: TH. W. ADORNO, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie, Surkhamp, Frankfurt am Main 1964; tr. it. di P. Lauro, intr. di R. Bodei, Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, Bollati Boringhieri, Torino 1989; TH. W. ADORNO, Philosophische Terminologie, I-II, Surkhamp, Frankfurt am Main 1973; tr. it. di A. Solmi, Terminologia filosofica, I-II, Einaudi, Torino 1975; M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 1997. 62 critica ideologica marxista di idealismo vale altrettanto poco. Si tratta di critiche che cercano di mostrare delle inconsistenze nel pensiero di Heidegger, ma non dall’interno: vengono effettuate dalla presupposizione di un’altra filosofia. La critica dell’essere come ipostatizzazione della forma grammaticale della copula non è originale ed è sicuramente desunta dagli studi critici parmenidei.38 Tuttavia, la critica di Adorno ad Heidegger è pure in gran parte aggressiva, disordinatamente insistente, ripetitiva, eccessiva, ideologica, pretestuosa e falsa. Adorno diverte le argomentazioni razionali critiche nell’identificazione sarcastica di un presunto gergo dell’autenticità di Heidegger che nasconderebbe pure romanticismo agrario (anche attraverso una banalizzazione di poesie di Heidegger), idealismo borghese, banalità, tautologie, violenza, conservatorismo e nazismo. Adorno straparla sì in un gergo pseudoconcettuale e pseudofilosofico, pseudosociologico e pseudopsicologico, che dà aura intellettuale a un mero spirito di risentimento e di vendetta dettato da odio ideologico: effettua connessioni deliranti, mascherandole di razionalità, per il puro gusto di annientare Heidegger, presentato come nichilista che effettua una pseudo-teodicea della morte, solo perché fa della morte la cifra della finitezza costitutiva dell’esserci. Questo significa non volersi confrontare effettivamente con Heidegger per nascondere forse il fatto che tutta la critica della razionalità illuministica moderna, della razionalità strumentale e tecnica e del conseguente dominio sulla Natura, condotta da Adorno insieme ad Horkheimer, è copiata, trasposta-incollata in ambito marxista, e rielaborata a partire da Heidegger: Adorno ed Horkheimer hanno capito bene che tutta la critica della modernità effettuata da Heidegger poteva essere presentata senza bisogno di ontologizzazioni, senza bisogno di introdurre il concetto di essere, formulando il tutto nei termini della critica del dominio della Natura. In fondo, pur se non lo 38 Questa critica a Parmenide è svolta nella sua forma più piena negli studi di Guido Calogero (che poi la ripresentò brevemente in un saggio su Heidegger del 1950: G. CALOGERO, Leggendo Heidegger, in Rivista di filosofia XLI, n.2 (1950), pp. 136-149; poi ristampato nella seconda edizione de La scuola dell’uomo, in Scritti di Guido Calogero I, Sansoni, Firenze 1956, pp. 231-249), che ebbero risonanza internazionale e che già nel 1938 furono presentati in Germania da una recensione di Kurt von Fritz, ristampata nell’edizione tedesca del 1970 e poi nella seconda italiana del 1977: G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, Tipografia del Senato, Roma 1932, seconda edizione La Nuova Italia, Firenze 1977; tr. ted. di W. Raible, Studien über den Eleatismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1970 & Olms, Hildescheim-New York 1970. 63 avrebbero mai ammesso, la dialettica negativa (legata a Kierkegaard e Heidegger; non è un caso che tutta la prima parte è dedicata alla critica dell’ontologizzazione della filosofia operata da Heidegger) e la dialettica dell’illuminismo non sono altro che forme di Heidegger-Marxismus, come quella di Marcuse, e non potrebbero essersi originate (non basta l’opera di Gyorgy Lukacs per comprenderle) e non potrebbero essere comprese se non nei termini di una variante eretica heideggeriana del marxismo ortodosso. La sintesi operata da Jean-Paul Sartre (1905-1980) fra marxismo e heideggerismo si articola soprattutto intorno alle radici esistenzialistiche del pensiero di Heidegger, svolte in termini puramente ateistiche a partire dall’occultamento operato da Heidegger nei confronti della matrice cristiana kierkegaardiana. Sartre riuscì a diffondere l’esistenzialismo al di là dell’ambito filosofico non solo per la sua coniugazione con l’impegno politico marxista, ma anche per la sua traduzione in opere letterarie e teatrali di grande suggestione, di cui il romanzo La nausea (1938) (traduzione dell’angoscia e della noia esistenziali di Heidegger) rappresenta il momento più espressivo (vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1964, che con atto politico rifiutò). 64 9. La filosofia matematica La nascita delle geometrie non-euclidee nella prima parte dell’Ottocento fu all’origine della crisi dei fondamenti della matematica. Karl Friedrich Gauss (1777-1855) diede i primi decisivi contributi: dal 1813 sviluppò una geometria coerente con la proprietà che la somma degli angoli interni di un triangolo sia < 180° e che chiamerà prima “anti-euclidea”, poi “astrale”, infine “non-euclidea”; caratterizzata da curvatura negativa, descrive uno spazio “aperto”, applicabile ad una superficie a sella; la differenza rispetto ai 180° è proporzionale all’area del triangolo; nel 1827, misurò la somma degli angoli del triangolo formato da tre vette montuose (Brocken, Hohehagen, Inselberg), ma gli errori di misura e la relativa piccolezza del triangolo impedirono una determinazione sperimentale della geometria dello spazio fisico. Nel 1825, Nikolaj Ivanovic Lobacevskij (17391856) fu il primo a pubblicare un’opera su una geometria non euclidea: per un punto esterno a una retta data non passa una e una sola retta parallela, ma due parallele, la somma degli angoli interni di un triangolo è < 180°, e si tratta di una geometria “iperbolica”. Se P è un punto ad una distanza a da una retta r, PD = a, esiste un angolo &, tale che tutte le rette che formano con PD un angolo minore di & intersecano r, tutte le rette che formano un angolo maggiore o uguale ad & non intersecano r. Di queste ultime, le due rette p e q che formano un angolo & sono dette parallele, le altre non intersecanti, anche se nella geometria euclidea queste sarebbero chiamate parallele (e da questo punto di vista si potrebbe dire che esistono infinite parallele passanti per P); & è chiamato angolo di parallelismo. Per & = 90°, si ha l’assioma di Euclide, ovvero la geometria euclidea è un caso particolare della geometria iperbolica, per raggio di curvatura infinito (curvatura zero). La fondazione della geometria è, per Lobacevskij, fisica, a partire dalle relazioni fra corpi solidi che si toccano in un punto, una linea o una superficie. Le due geometrie coincidono a meno di infinitesimi di ordine superiore al secondo, il che significa che nel ‘piccolo’, all’interno degli errori di misura si può ancora considerare valida la geometria euclidea, mentre, per Lobacevskij, a livello astronomico vale quella iperbolica; e facile modificare la nel 1829 ipotizza che sia meccanica sulla base della nuova geometria. Insieme a Lobacevskij, pubblica 65 sulla geometria iperbolica, nel 1825 e poi nel 1832-33, Jànos Bolyai (1802-1860), ma con un’impostazione astratta e non fisica. Un’altra geometria fu costruita da Georg Bernhard Riemann (1826-1866), nel 1854 in una dissertazione, presentata poi nel 1868: si tratta di una geometria ellittica, a curvatura positiva, che descrive uno spazio “chiuso”, applicabile ad una superficie sferica in cui le “rette” sono le circonferenze massime, illimitate ma tutte della stessa lunghezza finita e si incontrano in due punti; tutte le perpendicolari ad una retta data s’incontrano in un punto; non esistono rette parallele e la somma degli angoli interni di un triangolo è > 180°. La nascita delle geometrie non-euclidee implicava una pluralità di geometrie, tutte rigorosamente fondate. La non-univocità della geometria comportava un’incertezza nei fondamenti della geometria, ma anche della scienza moderna: la matematizzazione della fisica all’alba della scienza moderna si era basata sulla geometria euclidea. Si pensò che i fondamenti della matematica restassero inviolati al livello dell’aritmetica e dell’algebra, se non della geometria. Tuttavia, William R. Hamilton nel 1843 aveva creato l’algebra non-commutativa dei quaternioni, e poi Arthur Cayley quella delle matrici: si trattava della costruzione di “numeri generalizzati”, sui quali si costituivano nuove aritmetiche e nuove algebre. Si dava così una pluralità di aritmetiche e di algebre possibili, che comportavano un’incertezza ancora più profonda nei fondamenti della matematica e di tutta la scienza moderna basata sull’aritmetica e sull’algebra. Hermann von Helmholtz (1821-1894), nel 1868, fondazione della geometria euclidea sulla tentò una nuova meccanica newtoniana dei corpi solidi rigidi e, nel 1887, affermò che anche le verità degli assiomi dell’aritmetica non sono a priori, ma dipendono dall’esperienza. A partire dalle formulazioni della teoria degli insiemi finiti e infiniti-transfiniti di Georg Cantor (1845-1918), si tentò di fondare tutta la matematica sulla teoria degli insiemi. La teoria degli insiemi si presentava non solo come la base di una teoria dei numeri e della geometria, ma anche come una matematica teoria delle idee, o dei concetti: come il numero 2, per esempio, poteva essere definito come l’insieme che contiene tutte le tipologie dell’essere 2 (due mele, due pere, due cani, 66 due gatti, due uomini,...), definibile intensivamente come ciò che è comune agli elementi dell’insieme, così anche il concetto di cane può essere definito come l’insieme di tutti i tipi di cane, o ciò che è comune a tutti gli elementi dell’insieme (bassotto, barboncino, bull-dog, alano,...). Tuttavia, a partire dall’assiomatizzazione di Ernst Zermelo (1871-1953) fino alla più recente dimostrazione del 1966 di Paul Cohen (1934-2007), anche della teoria degli insiemi si stabilì la possibilità di costruirne una pluralità, che non permetteva di identificare un fondamento univoco. Ancora più recentemente, Abraham Robinson (1918-1974) costruì nel 1963 anche un’analisi nonstandard, basata sull’accettazione dei differenziali di Leibnitz. La non univocità diventa una caratteristica di tutta la matematica. Già nel 1854, intanto, in The Laws of Thought, George Boole (1815-1864) era riuscito a dare forma algebrica alla logica realizzando in qualche modo il progetto della mathesis universalis di Descartes o della characteristica universalis di Leibnitz. La logica si trasformava da logica filosofica a logica matematica, riportando in qualche modo la logica alla sua origine matematica. Tuttavia, questa costruzione portò alla convinzione di poter risolvere il problema dei fondamenti della matematica risalendo alla logica come fondamento univoco e certo. La prospettiva che ne conseguì fu chiamata logicismo ed ebbe la sua massima espressione nei Principia Mathematica (1910-1913) di Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Whitehead (1861-1947). Al logicismo si opposero il formalismo di David Hilbert (1862-1943), che considerava la matematica come un mero gioco formale di simboli senza significato in una prospettiva finitista che rifiutava la nozione di infinito, e l’intuizionismo di Luitzen Brouwer (1881-1966), che fondava la matematica su un’intuizione del pensiero che ne precedeva ed eccedeva la formalizzazione. La formalizzazione dell’intuizionismo fu compiuta definitivamente da Arend Heyting (1898-1980): questa portò alla realizzazione di una logica matematica costruttiva e di una matematica costruttiva, alternative a quelle standard, in cui non vale più il principio del terzo escluso e non sono ammesse le dimostrazioni per assurdo, o ancora non è più definibile lo zero o un infinito in atto diverso da quello potenziale. 67 Ciò nonostante, Russell non accettava di lasciare il “paradiso” dei transfiniti creati da Cantor e aveva fornito un’interessante interpretazione nominalistica della teoria degli insiemi, e quindi dei numeri e dei concetti ridotti all’insieme degli individui singoli che ne costituiscono gli elementi, senza riferimento all’astratta proprietà comune. Il logicismo, però, fallì già nel momento in cui, indipendentemente dalla logica intuizionistica, si scoprì che era possibile costruire logiche diverse da quella aristotelica-crisippea: si dava una pluralità di logiche e quindi un’incertezza nei fondamenti della logica e quindi di tutta la scienza moderna. Ciò nonostante, la matematizzazione della logica ebbe come conseguenza il tentativo di costruire una filosofia matematica, basata su un’analisi logico-matematica del linguaggio. Russell in Introduzione alla filosofia matematica (1919) ne delineò le caratteristiche fondamentali. Sembrava possibile così trasferire il rigore della matematica a tutto il pensiero filosofico. Di questa prospettiva, l’opera più rappresentativa è il Tractatus-logico-philosophicus (1921) di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Per Wittgenstein, si tratta di riconoscere i limiti di esprimibilità del pensiero, che sono dati dai limiti del linguaggio, rigorosamente analizzato in termini logicomatematici. Gli enunciati della logica e della matematica sono considerati “analitici”, cioè veri apriori: per essere tali non possono che essere delle tautologie, ovvero non fanno altro che esplicitare quanto è implicito nei loro termini. Gli altri enunciati devono concernere il mondo come totalità dei fatti attingibili dall’esperienza, come tutto ciò che accade, come la totalità degli stati di cose sussistenti: essi raffigurano il mondo, non in termini iconici, ma in termini logici, con immagini logiche, cioè è possibile istituire fra essi e il mondo dei fatti una corrispondenza biunivoca, matematicamente definita. Questa corrispondenza è possibile se la forma logica degli enunciati coincide con la forma della realtà. Gli enunciati sono veri o falsi a seconda che lo stato di cose affermato sussista nel mondo o no. Nessi causali fra i fatti non sono fatti, sono quindi residui metafisici che vanno eliminati dalle scienze naturali. Tutto ciò che si afferma oltre i fatti è metafisica, ed è insensato. La filosofia non è altro che il chiarimento di ciò che può essere detto all’interno di un linguaggio rigorosamente costruito in termini logico-matematici: si tratta di una 68 cura che elimini le “malattie” del linguaggio, mostrando l’insensatezza degli enunciati della metafisica. Gli enunciati del linguaggio esprimono come il mondo è, ma “che il mondo è” non è oggetto di possibile riflessione filosofica è il mistico, resta cioè qualcosa di ineffabile. La filosofia si deve quindi arrestare di fronte ai limiti del linguaggio e riconoscere che c’è qualcosa di indicibile: su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. La filosofia si arresta quindi di fronte a tutti i problemi che costituiscono il senso dell’esistenza umana, che è razionalmente inattingibile. Anche l’attribuzione di valori alle cose è affermare qualcosa che va oltre i fatti, ma non è insensato allo stesso modo della metafisica: l’etica non può essere una disciplina filosofica, ma solo una prassi di vita. Così, svolto il suo compito di chiarificazione, la filosofia si può autodissolvere, come si può togliere via una scala, dopo che si è saliti nel luogo in cui si voleva arrivare. E così lo stesso Wittgenstein si allontanò dalla filosofia, facendo vari lavori. Tornò alla riflessione filosofica solamente quando si rese conto che era necessaria una nuova impostazione del problema filosofico, cosa che portò da ultimo alla stesura delle Ricerche filosofiche, pubblicate postume (1953). Wittgenstein si rese conto che la pluralità delle logiche matematiche non consentiva la costruzione di un pensiero filosofico, fondato sull’univocità della logica matematica. Si presentava ormai una pluralità di “giochi linguistici”, che non potevano contare su un fondamento razionale univoco che ne privilegiasse uno sugli altri. Non esistendo un fondamento razionale univoco, l’esistenza di una pluralità di giochi linguistici può essere compresa solo in termini di radici storiche e antropologiche: non c’è più una sola forma logica che corrisponde alla forma della realtà, ma la pluralità delle forme linguistiche corrispondono alla pluralità delle forme di vita umana che le generano. La pluralità delle forme linguistiche si dà quindi in corrispondenza alla varietà storica e antropologica delle forme di vita umana. La filosofia occidentale stessa non è altro quindi che un prodotto etnico-culturale, una etno-filosofia. La scienza è un’etno-scienza, la matematica un’etno-matematica, che varia da cultura a cultura, da una forma di vita a un’altra. 69 L’esito della filosofia matematica è in Wittgenstein alla fine lo stesso crollo della metafisica occidentale, già accertato, con diversi strumenti, dall’esito della filosofia in Nietzsche o in Kierkegaard. Contemporaneamente all’opera di Wittgenstein, e in parte anche da questa influenzata, si sviluppò la filosofia del cosiddetto “neo-positivismo logico” o “neo-empirismo logico”, soprattutto nei due centri di Wien e di Berlin, dove si crearono dei veri circoli filosofici. Del circolo di Vienna, fra altri, si può ricordare Rudolf Carnap (1891-1970) che, nel 1928, pubblicò Der logische Aufbau der Welt (La costruzione logica del mondo). Più originale il contributo di Hans Reichenbach (1891-1953), del circolo di Berlino, perché più a dentro nelle rivoluzioni della fisica di quegli anni. Già nel 1920, con Relativitätstheorie und Erkenntnis apriori (Teoria della relatività e conoscenza a priori), gettava le basi della critica del trascendentalismo kantiano a partire dalla determinazione aposteriori, dall’esperienza-esperimento della geometria del mondo come una cronogeometria noneuclidea a quattro dimensioni. In Philosophie der Raum-Zeit-Lehre (Filosofia dello spazio e del tempo), nel 1928, Reichenbach poteva affermare la relatività della stessa geometria, e, nel 1944, con I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, affermare la determinazione aposteriori, dall’esperienza-esperimento, della stessa logica del mondo che si rivela una nuova logica quantistica con un terzo valore di verità indeterminato, oltre il vero e il falso. La sua prospettiva fu poi sintetizzata in La nascita della filosofia scientifica (1951). Nel frattempo, il cosiddetto teorema di Leopold Lӧwenheim (1878-1957) e Thoralf Skolem (18871963) aveva stabilito la non-adeguatezza espressiva, la non-caratterizzabilità e non-unicità dei modelli (esistono anche modelli non-isomorfi) per teorie formali con finanche un numero infinito numerabile di assiomi (pari cioè al numero infinito dei numeri naturali): l’ambiguità semantica non è solo del linguaggio naturale, ma anche della matematica. Tuttavia, l’esito finale della filosofia matematica è però dato soprattutto dai due teoremi rivoluzionari di Kurt Gӧdel (1906-1978), formulati nel 1930 e nel 1931. Si tratta di due teoremi che si applicano a una qualunque teoria formale che parta finanche da un numero infinito 70 numerabile di assiomi. Gӧdel dimostra un primo teorema per cui una tale teoria è sempre incompleta, cioè al suo interno si presentano sempre degli enunciati indecidibili, di cui non si può dimostrare né la verità né la falsità. E un secondo teorema per cui all’interno di una tale teoria non si può mai dimostrare l’enunciato che attesta la sua non-contraddittorietà. Questi teoremi mostrano che all’interno della stessa logica matematica si può sviluppare una riflessione formale (meta-matematica) sui limiti della matematica stessa (non solo dell’approccio formalista hilbertiano). Come il teorema d’indeterminazione di Werner Heisenberg (1901-1976), formulato nel 1927, costituiva una riflessione formale sui limiti della fisica stessa, della misurabilità sperimentale e della calcolabilità matematica delle grandezze fisiche a livello microscopico. I teoremi di Gӧdel dimostrano però i limiti di una qualunque teoria scientifica: la scienza non può costituire un sapere assoluto, completo e certo della propria non-contraddittorietà. Anche la scienza moderna non ha quindi comunque un fondamento certo. Questa non è solo una debolezza della scienza moderna, ma anche la sua forza, perché dimostra la possibilità di mettere in discussione criticamente i propri fondamenti. D’altra parte, i limiti della razionalità scientifica, quale forma più rigorosa di razionalità, sono i limiti della stessa razionalità filosofica: neanche una teoria filosofica può basarsi su un numero di principi-assiomi maggiore dell’infinito numerabile, data la finitezza di ogni possibile costruzione razionale umana. I teoremi di Gӧdel rappresentano così la più rigorosa dimostrazione del crollo della metafisica occidentale. La filosofia analitica contemporanea, che si rifà all’ideale della filosofia matematica di un’analisi rigorosa del linguaggio su una base logico-matematica, non ha mai tenuto conto dell’impossibilità di un fondamento univoco di un sapere assoluto, completo e certo della propria noncontraddittorietà. 71 10. La condizione post-moderna Le reazioni di Husserl ed Heidegger alla crisi del pensiero filosofico moderno, pur nella loro parziale originalità, non costituivano che la riproposizione di precedenti metafisiche e non hanno potuto arginarla che momentaneamente. Nel frattempo, la crisi delle scienze è esplosa, nella prima metà del Novecento, in una serie di rivoluzioni fra cui spiccano quelle della fisica, quali le teorie della relatività, la fisica dei quanti. D’altra parte, gli eventi storici della seconda guerra mondiale con la soluzione finale dello sterminio di milioni di ebrei, il cui simbolo è Auschwitz, hanno decretato nei fatti il crollo del paradigma dominante della modernità quale auto-affermazione dell’umanità occidentale nel dominio tecnico della Natura con la falsificazione dei suoi miti di progresso e di emancipazione politica. A questi eventi ne sono poi seguiti altri che hanno ulteriormente aggravato la situazione: primi fra tutti, la falsificazione del marxismo nell’esito sovietico e la crisi ecologica. L’abisso del male del mondo si è riaperto in una forma ancora più sconvolgente. Questo crollo del paradigma dominante della modernità può essere interpretato o nel senso dell’apertura di una nuova fase della modernità, una tardomodernità in cui possono acquisire nuova rilevanza paradigmi prima minoritari, o nel senso dell’apertura di una nuova età post-moderna. Le due locuzioni alternative enfatizzano rispettivamente maggiori elementi di continuità o di discontinuità rispetto alla modernità, ma corrispondono comunque a una stessa situazione storica. 10.1 Jean-François Lyotard e la fine delle grandi narrazioni Jean-François Lyotard (1924-1998) ha caratterizzato questa situazione come la “condizione postmoderna” (La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, 1979): si tratterebbe, dal punto di vista filosofico, della fine delle “grandi narrazioni” o dei “metaracconti”, ovvero delle “ideologie”, cioè di quei sistemi di pensiero religiosi, filosofici, scientifici, psicoanalitici, tecnico-economici o politici, che, presentandosi come fondati su principi assoluti, cercavano di legittimare la prassi di vita umana. Si tratterebbe cioè della fine non solo della fede religiosa come sistema di pensiero, come all’origine della modernità, ma anche di tutti quei sistemi di pensiero laici che ne avevano 72 preso il posto e che si rivelano quali altrettante forme di fede laica senza fondamento teoretico. Questi sistemi sono caduti sotto il peso di una critica teorica interna dei fondamenti e di una critica esterna che li ha falsificati nella prassi sullo scenario della storia stessa. Quello che ne risulta è non solo la frammentazione dei saperi che non possono essere più onnicomprensivi, la loro pluralità irriducibile, ma anche la loro temporalizzazione e la localizzazione, la loro etnicizzazione, la loro relativizzazione in termini di pratiche discorsive o non discorsive legate a forme di vita e a contesti etnico-culturali senza fondamento teoretico. La trasformazione delle nostre società in società multiculturali e multietniche, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha portato alla relativizzazione non solo della religione, ma anche della filosofia e delle scienze. 10.2 Roland Barthes e la semiologia contro l’impero dei segni Roland Barthes (1915-1980) elabora una semiologia come studio generale della cultura (Elementi di semiologia, 1964) all’interno del linguaggio in cui è possibile comprendere le diverse forme di segni: una scienza dei segni, una semiologia è possibile solo a partire dalla linguistica, perché vi sono immagini e altri tipi di simboli che sono asemantici e acquistano un significato solo quando ricondotti al linguaggio verbale; si tratta di un ribaltamento della prospettiva desaussuriana. Già a partire da questa riflessione si può notare come al massimo la prospettiva di Barthes si possa definire come post-strutturalista, e non strutturalista. La cultura umana, come insieme di saperi teoretici e saperi pratici che sono legati a un saper fare e hanno aspetti di “materialità”, può essere considerata come una gerarchia di sistemi semiotici. La cultura umana non è un semplice riflesso sovrastrutturale di una certa forma di vita con le sue strutture economiche ma nella sua “materialità” tecnica svolge essa stessa un ruolo strutturale primario nell’organizzazione della vita umana. Non solo: tutta la vita sociale ed economica si costituisce nel linguaggio come un sistema di segni; tutto allora è struttura e sovrastruttura. La gerarchia interna in cui si articola è legata al fatto che alcuni sistemi semiotici, corrispondenti a certi 73 saperi disciplinari, svolgono un ruolo di fondamento e di legittimazione degli altri e della complessiva forma in cui si organizza la vita umana. Per lungo tempo nella storia dell’occidente, ma non solo, la religione, come pratica cultuale e come sapere teoretico quale teologia, ha costituito il sistema semiotico di fondamento di tutti gli altri e di riferimento per l’organizzazione della vita umana dei segni; dopo questo ruolo è stato svolto anche dalla politica e dalla scienza moderna. Si è passati così mitologie e ideologie religiose “verticali” che hanno costituito delle metafisiche pansemiotiche religiose, a delle mitologie e ideologie socioeconomico-politiche “orizzontali” che hanno costituito nuove metafisiche pansemiotiche sociali (Mythologies, 1957), in cui tutto rimanda non più a Dio secondo la prospettiva della signatura rerum, ma direttamente a un ordine socio-economico-politico, che non ha più bisogno di una legittimazione divina. La semiologia diventa così semioclastia, in una prospettiva di riforma del marxismo, smascheramento dei meccanismi di significazione dell’ideologia che manipola le coscienze e le vite e che legittima i poteri, le violenze, le ingiustizie: la mitologia e l’ideologia si presentano come significazioni comuni, innocenti nella finzione di relazioni naturali e non arbitrarie fra significante e significato, spaziano dagli articoli giornalistici alle pubblicità, dalle immagini di copertina alla moda vestiaria, dai cibi ai costumi, dal cinema o dalla letteratura commerciale ai saggi divulgativi o conservatori, tutte cose che legittimano le convenzioni delle società borghesi. La mitologia e l’ideologia sono sistemi semiologici secondari che si strutturano su altri pre-esi stenti, veicolano significazioni parassite di altre che si innestano nel linguaggio e che riducono ad altri significati superiori a partire da una presunta (ma invero arbitraria) iconicità asemantica che rimanda a un ordine di poteri, instaurando, materialmente e idealmente, un impero dei segni (L’impero dei segni, 1970). Il linguaggio stesso è “fascista” (Lezione, 1977), impone un certo tipo di dire che riflette una gerarchia di poteri diffusi. Se l’oriente giapponese, attraverso l’influenza del buddhismo zen, induce a nientificare il potere dei segni nel vuoto, tendendo a una de-semiotizzazione della realtà, anche 74 questa de-semiotizzazione può essere giocata a sostegno dei poteri. Oltre lo smascheramento della semiologia, è la letteratura, la scrittura poetica che contrasta la microfisica del potere che è attiva nel linguaggio, smascherandola e decostruendola. Seppure la riflessione di Barthes sulla scrittura è stata riassorbita nel decostruzionismo di Derrida e la prospettiva di Derrida non sarebbe comprensibile senza l’analisi di Barthes, la prospettiva è molto diversa. La morte dell’autore (1968) teorizzata da Barthes è molto diversa da quella strutturalista, foucaultiana e derridiana: quello che è eliminato è l’autore esterno al testo, a favore di un autore che è rintracciato all’interno della scrittura stessa, nelle varie funzioni discorsive come quella dell’io narrante o altre corrispondenti meno dirette. La morte dell’autore è un atto volontario dell’autore che nella vera scrittura letteraria trascende sé stesso e consegna la propria vita agli altri, decide di vivere nel senso che gli daranno gli altri in una polifonia. La scrittura di Barthes diventerà negli ultimi anni, anche a causa del lutto della madre nel 1977 che sarà per lui devastante, sempre più personale, non più teoretica-descrittiva, ma costituita da testi in cui la sua riflessione è direttamente connessa alla sua vita (Frammenti di un discorso amoroso, 1977; La camera chiara, 1980). Qui è Barthes, che, da innamorato, da persona coinvolta, contro i discorsi ideologici e di potere, che parla d’amore, imbastisce frammenti di un discorso amoroso in una società che non gli dà più valore, e opera una transvalutazione dei valori borghesi per cui la sentimentalità dell’amore è equiparata a oscenità; è Barthes che direttamente, da persona in lutto, parla della morte in una società che la esorcizza e la rimuove considerandola oscena come l’amore, e opera una semiotropia, una trasformazione dei segni che, come le fotografie singolari, come la foto del giardino d’inverno della madre,fanno risorgere i morti a una vita nuova. 10.3 Gilles Deleuze e Felix Guattari Gilles Deleuze (1925-1995), filosofo, e Felix Guattari (1930-1992), psicoterapeuta anomalo, tentarono invece di costruire una filosofia che mette insieme differenti istanze provenienti dalla scienza moderna, dall’arte, dalla psicoanalisi esistenziale, dal marxismo e dalla filosofia di 75 Nietzsche. Deleuze (Nietzsche e la filosofia, 1962; Differenza e ripetizione, 1968) si era posto il problema di salvare l’alterità senza ridurla all’identità, di rispettare la differenza senza ridurla all’uguaglianza. La dialettica hegeliana o marxista non era riuscita a salvare l’alterità negando il principio logico della non-contraddizione: aveva ridotto l’alterità al negativo, in qualche modo subordinandola ancora all’identità positiva, e poi la sintesi l’annullava ad una nuova identità positiva che l’aveva fagocitata. L’alterità e la differenza vanno mantenute in quanto tali e non sono mai riducibili ad unità. L’alterità e la differenza sono alla base di una molteplicità che costituisce il reale come temporalità di un divenire radicale mai riducibile all’essere statico: si può così riformulare l’esito della filosofia di Nietzsche senza più legarla alla volontà di potenza, ma partendo piuttosto da una differenza di potenziale energetico; si tratta di un concetto ripreso dalla fisica, non compromesso con eventuali soggettivistiche volontà di dominio, ma che piuttosto rimanda alla potenza creatrice della Natura di cui l’essere umano è solo un caso. L’interpretazione della volontà di potenza di Nietzsche in termini di una volontà creatrice artistica più che di dominio, non è l’esito di un lavoro filologicamente fedele alla lettera nietzschiana, quanto piuttosto di una trasformazione della stessa filosofia di Nietzsche in una nuova filosofia che non presenti più come fondamentale la concezione della vita in termini di un dominio violento del singolo sugli altri, ma piuttosto di una differenza motrice e creatrice nel rispetto dell’alterità. L’identità stessa è ripensata in termini di una differenza che la precede: l’identico è solo il ripetersi del differente, statico è solo il ripetersi del mutamento, eterno non è l’essere ma solo il divenire, cui va ricondotta la stessa idea nietzschiana dell’eterno ritorno che non va pensato come un ciclo identico che si ripete, ma una differenza che si ripete non riproducendo mai lo stesso stato precedente. Deleuze e Guattari (L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia I, 1972) sviluppano insieme questa filosofia della differenza di Deleuze, innestandole degli elementi derivati dalla psicoanalisi. Le differenze di potenziale energetico si qualificano così in termini di flusso di desiderio: la tematizzazione della realtà umana, non più in termini di volontà di potenza nietzschiana, avviene ora in termini di un desiderio inconscio, che non deve più essere represso come nella psicoanalisi freudiana per la costituzione della società, perché 76 non ha più una connotazione puramente individuale e meramente sessuale, ma piuttosto preindividuale, pre-personale e presoggettiva, che attraversa e costituisce i corpi e le identità. Il flusso di desiderio è quindi intrinsecamente e originariamente relazionale e sociale, ed è l’individualizzazione di esso che costituisce una sorta di arresto del flusso se l’individuo si chiude su sé stesso e sul suo piacere privato egoistico. Il desiderio di Deleuze e Guattari ha più caratteristiche dell’agape cristiano che non dell’eros greco: non nasce da una mancanza, ma da un’eccedenza, da una differenza positiva come surplus che ne genera la dinamica, ed ha carattere relazionale e non legato al piacere individualistico. In maniera infelice, però, per caratterizzare questo flusso, Deleuze e Guattari introducono la metafora della “macchina desiderante”, che si contrappone al soggetto individuale ma anche alla struttura statica dello strutturalismo: questa metafora rischia di dare una connotazione meccanicistica al divenire, che è considerato dalla prospettiva di una sorta di una filosofizzazione radicale di una fisica quale dinamica energetica e di una microfisica del desiderio. Si voleva così contrapporre, sempre sulla scia di una modifica dello strutturalismo dominante in Francia, con impeto anarchico rivoluzionario, alle strutture del potere delle macchine del desiderio. La critica della metafisica dell’essere, della dialettica marxista e della psicoanalisi, li induce alla teorizzazione di una schizo-analisi: eliminata la riduzione delle contraddizioni sociali al dramma familistico privato dell’Edipo freudiano, Deleuze e Guattari colgono nella schizofrenia, al di là della patologia clinica, il paradigma di una nuova possibilità del pensiero, che superi la riduzione dialettica delle contraddizioni a sintesi positiva, ovvero di “logica schizofrenica” (in cui l’affermazione è delle contraddizioni del divenire e l’alterità non è ridotta a negazione), che sola potrebbe cogliere l’irrazionalità folle e le contraddizioni del reale e portare a una liberazione del pensiero e a un’azione sociale antagonista alle strutture del potere. La microfisica del potere va battuta da una microfisica del desiderio che diventa una micropolitica di flussi, di turbolenze e vortici sociali impredicibili che fanno saltare, destabilizzandole, anche le macrostrutture istituzionali del potere. 77 In Rizoma (il rizoma è un tubero, che è contrapposto all’albero e alla radice) già del 1976 (poi ricompreso come introduzione in Mille piani) si presenta una forma di pensiero “rizomatico” che, non binario-dualistico o non procedente per opposizioni logiche, e non gerarchico arborescente che si costituisce in un tronco principale da cui si diramano le altre parti, invece procede in più direzioni-associazioni, attraverso una molteplicità potenzialmente infinita di connessioni, e non più ordinato in una sequenza lineare, nel seguire una corrispondente realtà “rizomatica”, complessa per l’intreccio di connessioni dinamiche: un pensiero contrapposto al pensiero arborescente-deduttivo, a un pensiero delle radici che costituiscono un fondamento, a un pensiero gerarchico, lineare della tradizione metafisica (Rizoma girò già tradotto, come ciclostilato, nel 1977 nel movimento studentesco italiano che lo accolse come progetto di liberazione, di un nuovo modo anarchico di vivere e di pensare). Il pensiero come rizoma è un processo temporale, contingente che può sempre ricadere in irrigidimenti arborescenti o in radicamenti che lo chiudono in sé. In Millepiani. Capitalismo e schizofrenia II del 1980, si realizza una filosofia positiva del divenire, della differenza, della frammentazione, della pluralità, delle molteplicità, delle singolarità, della località, della temporalità e della relatività, dei processi e delle transizioni di fase, del caos molecolare ed evolutivo, una filosofia che articola la microfisica del desiderio in una metageometria e in una meta-topologia (in geometrie e in topologie relativistiche dello spazio-tempo metaforizzate) degli eventi nella loro singolarità impredicibile e nella loro ecceità, e si costituisce su più piani autonomi e indica non tanto e non soltanto una deriva dei saperi, ma la stessa realtà come divenire di differenze energetiche, sulla scia del prospettivismo leibniziano rivisitato da Nietzsche per superare tutte le metafisiche delle rappresentazioni razionali e tutte le dialettiche delle opposizioni logiche. Il pensiero di Deleuze e Guattari non è antropocentrico, non fissa una discontinuità fra esseri umani e altri animali, ma non si è mai articolato in un’etica animale. La prospettiva di Deleuze e Guattari, tuttavia, nella misura in cui non effettua un’analisi critica profonda delle teorie matematiche e fisiche che metaforicamente usa, ricade in una meta-fisica materialistica e meccanicistica (nell’abolizione della soggettività considerata come epifenomeno), 78 seppure non nella metafisica dei solidi criticata da Henri Bergson (1859-1941),39 ma in alternativa metafisica dei fluidi, dei liquidi. Bergson era stato il riferimento filosofico anche della nuova epistemologia della fisica del caos e della complessità di Ilya Prigogine (1917-2003).40 Si tratta di un progetto filosofico che converge con quello dello storico della scienza Michel Serres (1930) che aveva riscontrato il risorgere della fisica epicurea-lucreziana nella novecentesca fisica del caos e analizzato la corrispondente geometria frattale:41 “C’era una volta l’età dell’oro. Dove e quando, lo ignoro. Dopo, si dice, vennero l’età del bronzo e il secolo del ferro. Miti o storie, sempre di metalli. Dei metalli o della pietra: levigata, tagliata, neolitica o paleolitica. Sappiamo parlare soltanto di solidi, sappiamo scrivere soltanto sui solidi. Perché? A causa del loro ordine e del loro legame. Coerenza , rigore e rigidità, la molecola cristallina locale qui è più o meno la stessa di quella laggiù, prolunga la sua identità, la sua monotonia, sotto l’effetto di un forte vincolo. Così si scrive la storia dove il locale ritorna al globale secondo la ripetizione di una legge omogenea. Il discorso non è diverso dalla materia dura su cui è scritto. Meccanica dei sistemi solidi. Ecco le acque , cataratte e flussi, fiumi e turbolenze , della fisica epicurea. Il locale qui fa scorrere la sua debole viscosità, senza intaccare eccessivamente il volume globale. I vincoli svaniscono non lontano dal suo intorno. Vi sono, come si dice, dei gradi di libertà. Il turbine si forma e si disfa, nell’incertezza, ma ovunque, altrove, la pianura è calma, secondo i casi. Spazio seminato di circostanze. Inventare la storia e le età delle acque”.42 10.4 Michel Foucault e la genealogia storica 39 G. DELEUZE, Le Bergsonisme, PUF, Paris 1966; tr. it. di F. SOSSI, Il bergsonismo, Feltrinelli, Milano 1983. I. PRIGOGINE & I. STENGERS, La Nouvelle Alliance. Métamorphose de la Science, Gallimard, Paris 1979; tr. it. di P. D. NAPOLITANI, La Nuova Alleanza – metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1981; e, anche, con un testo diverso: I. PRIGOGINE, La nuova alleanza – uomo e natura in una scienza unificata; tr. it. a cura di R. MORCHIO, Longanesi, Milano 1979. 41 M. SERRES, Hermes I-V, Minuit, Paris 1969-1980; tr. it. del vol. V di E. Pasini & M. Porro, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, Parma 1984. 42 M. Serres, La naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Paris 1977, tr. It. Di P. Cruciani e A. Jeronimidis, Palermo 1980. 40 79 Il pensiero di Michel Foucault (1926-1984) ha radici soprattutto nel pensiero di Nietzsche e di Heidegger e nello strutturalismo. Gli inizi, legati a una critica della psicoanalisi e della psicologia dominanti, si rifanno alla psicoanalisi esistenziale di Ludwig Binswanger (1881-1966), che aveva inaugurato un’analisi esistenziale dell’essere-nel-mondo che superasse il dualismo psiche/corpo su cui si basava la stessa psicoanalisi freudiana e la caratterizzazione del malessere nei termini di una patologia medica estesa alla psyche: si trattava di ricomprendere il malessere, prima considerato come malattia psichiatrica o nevrosi o psicosi, come un modo diverso di essere-nel-mondo, un modo diverso di esistere, guardando al malessere non dall’esterno ma fenomenologicamente come un vissuto interno dell’esserci, pur non riducendo i fenomeni inconsci alla coscienza come in Husserl. In questo contesto, Foucault riprende inoltre, attraverso la mediazione di Sartre, la critica di Heidegger a Kant volta alla valorizzazione dell’immaginazione trascendentale, per elaborare a partire da una fenomenologia del fenomeno inconscio del sogno una sorta di “onirica trascendentale” che ribaltasse completamente il rapporto fra sogno e ragione all’interno della tradizione filosofica occidentale: la ragione risulta così secondaria rispetto al sogno, che costituisce la forma originaria dell’esperienza del pensiero umano e dell’esperienza della libertà (Introduzione a Sogno ed esistenza di L. Binswanger, 1954). Ma un ribaltamento ancora più radicale della tradizione filosofica occidentale e del suo razionalismo è effettuato da Foucault qualche anno dopo a partire dalla tematizzazione fenomenologica della follia come esperienza vissuta al di là della sua medicalizzazione psichiatrica (Storia della follia nell’età classica, 1961). La critica al razionalismo filosofico moderno è svolto anche attraverso una critica dell’esclusione della follia dall’esperienza del pensare effettuata da Descartes, con la sua identificazione della follia con la sragione: su questo punto si aprirà una polemica con Jaques Derrida. Il ritorno all’esperienza stessa della follia è da comprendersi nella prospettiva di un ritorno al fenomeno stesso della follia attraverso l’epoché husserliana applicata a tutta la ragione e più ancora attraverso la distruzione heideggeriana della psicologia, della psicoanalisi, della psicopatologia e della psichiatria. Husserl non gli basta perché la follia, come il 80 sogno, sfugge a una fenomenologia della coscienza che cerca di ricondurre l’immaginario onirico e del folle proprio di un’attività inconscia a significati concettuali. Il concetto di malattia mentale o psichica viene distrutto ed emerge l’esperienza di un diverso modo di essere-nel-mondo. Foucault però si oppone all’interpretazione puramente soggettivistica del Dasein e considera, al di là di un’originaria inautenticità umana dell’essere-nel-mondo, la trasformazione del mondo che questa inautenticità comporta rendendolo a sua volta inautentico. L’inautenticità del mondo economico, sociale, politico in cui vive il singolo rende impossibile un’autentica dimensione spazio-temporale dell’Umwelt e un autentico Mitwelt, un autentico Miteinandersein. Non ci si può fermare all’analisi formale ontologica dell’esistenza, ma bisogna comprendere le concrete condizioni antropologiche e storiche dell’esistenza che provocano come reazione, al di là delle razionalizzazioni sovrastrutturali, complesse strategie di sopravvivenza che però non permettono di eliminare la sofferenza ma invece l’acuiscono in una rottura radicale col mondo inautentico e le sue razionalizzazioni ideologiche: le contraddizioni reali del mondo si traducono in conflitti interni. Foucault così scrive la storia della follia come storia della sua costruzione sociale e della violenza che il mondo esercita sui “folli” come capri espiatori della sua follia. Così, Foucault va molto oltre Binswanger: la follia non è solo un modo diverso di essere-nelmondo, ma rappresenta l’unica esperienza autentica della verità, in grado di superare le mistificazioni della realtà ad opera della ragione attraverso processi di razionalizzazione che mirano prima di tutto a un’esorcizzazione della morte. Da un punto di vista storico, la stessa esperienza del Cristo e del cristianesimo che fino al rinascimento si manifesta nell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam (1466-1536) si caratterizzano in termini dell’esperienza autentica della follia. La follia della croce e dell’amore cristiano a partire dal XVII secolo, nonostante il giansenismo, Port-Royal e Pascal, non è più considerata come una sragione o una contro-ragione, ma come una ragione superiore: solo con Dostojevskij e Nietzsche, dice Foucault, ritorna la gloria della follia del Cristo, attorniato da tutti i folli del mondo di cui si è preso cura; la follia è stata parte del cammino di Passione cui Dio ha preso parte e che così ha glorificato e redento. Ma ora non è più Follia 81 l’incarnazione di Dio nell’essere umano, ma follia è solo la caduta dell’uomo nella bestia senza ragione, segno più evidente della sua colpevolezza e quindi della misericordia divina. C’è una razionalizzazione del Cristianesimo senza più alcuna richiesta di abbandono delle pretese di certezza della ragione: già dal IV secolo almeno il Cristianesimo si costruisce come teologia filosofica, ma i dogmi restano come misteri inaccettabili, inspiegabili dalla ragione; solo con Cartesio si passa ad un soggettivismo filosofico di una metafisica cristiana (il cristianesimo ridotto a visione del mondo, dice Heidegger); mentre per Luther la ragione è la “puttana del diavolo”, per Cartesio la ragione è il fondamento di tutta la fede. Si profila quindi la necessità di una storia non della psicologia, ma una storia di quella esperienza segregata e internata della follia con la legittimazione della psicologia e della psichiatria, della separazione di ragione e follia. La necessità di una storia della separazione del sogno dalla ragione. La necessità di una storia della separazione dell’Oriente dall’Occidente. Con la Storia della follia Foucault inaugura una riflessione filosofica, che invero si è trasformata sostanzialmente in un’indagine storica del tipo della genealogia nietzschiana delle pratiche discorsive in relazione alle altre pratiche umane, che ne mettesse in evidenza le motivazioni ideologiche di dominio all’interno di una vera e propria dinamica microfisica del potere nelle relazioni umane: l’esclusione e la patologizzazione della follia viene criticata non solo attraverso una critica teoretica filosofica astratta, ma mostrando tutta la storia concreta di violenza e di potere, delle istituzioni che l’hanno “definita” e costretta fisicamente come un’anormalità. Per superare il soggettivismo, Foucault si riconduce alla prospettiva strutturalista che integra con Nietzsche ed Heidegger. Da Ferdinand de Saussure (1857-1913), che aveva elaborato uno strutturalismo linguistico, lo strutturalismo aveva evidenziato nei vari campi del sapere (Claude Lévi-Strauss (1908-2009) in antropologia, Georges Dumézil (1898-1986) nella storia delle religioni, Louis Althusser (1918-1990) nella storia economica marxista) la priorità delle forme simbolicoculturali sui soggetti umani che le praticano, trasformando una struttura storica prodotta da soggetti storici in un trascendentale oggettivo. 82 Così, Foucault va alla ricerca di quelle strutture storiche ma trascendentali del sapere e del potere, come le epoche dell’essere di Heidegger ma integrate con la storia concreta che le realizzerebbe. La modalità è simile a quella individuata da Foucault, sulla base dell’interpretazione di Kant data da Heidegger43, come relazione sussistente fra la Critica della ragion pura e la Antropologia dal punto di vista pragmatico di Kant44, e che portò Foucault a presentare l’essere umano come un “allotropo empirico-trascendentale”45, per cui il trascendentale è sempre storico e deriva dall’empirico. In Le parole e le cose (1966) delinea così, sulla falsariga della storia delle scienze naturali di Thomas Kuhn (1922-1996) che aveva individuato le rivoluzioni scientifiche in termini di grandi “paradigmi”,46 una storia delle scienze umane, che comprendono anche la filosofia, in termini di cambiamenti di un’“episteme” individuata in termini di invarianti semiotici epocali, comuni a più discipline. Con Kant l’unità della mathesis si spezza, fra ciò che è analitico e ciò che è sintetico, e fra ciò che è fondato trascendentalmente e ciò che non lo è. Da Kant, le scienze venivano a distinguersi fra quelle apriori e quelle aposteriori senza fondazione trascendentale, e dove le forme deduttive della logica e della matematica sono applicate solo frammentariamente e localmente. Sono gli ambiti disciplinari in cui si dà un discorso sulla vita, sul lavoro e sul linguaggio in cui si concretizza l’esistenza dell’uomo, ovvero nella biologia, nell’economia e nella filologia, che determinano concretamente la finitezza del sapere sull’uomo e le sue condizioni di possibilità e che allo stesso tempo costituiscono il quadro di riferimento per le scienze umane che hanno come nuovo oggetto appunto l’uomo. Le scienze, che studiano storicamente l’uomo che vive, l’uomo che lavora e l’uomo che parla, non ritrovano mai però questo soggetto umano se non come un oggetto 43 M. HEIDEGGER (1929), Kant und das Problem der Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main 1973 4, tr. it. di M. E. Reina a cura di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981. 44 M. FOUCAULT, Introduction à l’Anthropologie, in E. KANT, Anthropologie du point de vue pragmatique, a cura di D. Defert, Fr. Ewald e F. Gros, Vrin, Paris 2008, pp. 7-79; tr. it. di M. BERTANI & G. GARELLI, Introduzione all’Antropologia di Kant, in I. KANT, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2010, pp. 9-94. L’edizione italiana non restituisce però il testo di Kant come tradotto da Foucault, ma lo traduce dall’originale tedesco; nell’indice dei nomi, l’Heidegger conosciuto e citato da Kant viene identificato con Martin Heidegger, citato nella presentazione francese come colui che ha influenzato quest’opera di Foucault! 45 M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966 ; tr. it. di E. PANAITESCU, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967. 46 T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago1962; tr. it. di A. Carugo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969. 83 storicamente determinato dalla biologia, dall’economia e dalla filologia, e caratterizzano così questo soggetto come storico, finito, relativo. Non solo: la vita, il lavoro, il linguaggio sono quegli ambiti in cui heideggerianamente l’uomo è gettato nel suo essere-nel-mondo, ambiti che lo precedono e lo sovrastano e ne mostrano la finitudine radicale perché è vissuto dalla vita, è prodotto dal lavoro, è parlato dal linguaggio, immerso nelle loro storie diverse. Se è da queste scienze che si svilupperà un’analitica della finitudine, termine che rimanda alla Daseinsanalyse a cui Foucault è legato, pure queste si configurano all’interno di una metafisica dell’uomo come soggetto trascendentale che diventa necessariamente oggetto del sapere, cioè di un’antropologia filosofico-metafisica che si sostituisce alla teologia filosofica o di una metafisica antropologica. Con Nietzsche ed Heidegger, e poi con lo strutturalismo epistemico che dissolve il soggetto epistemico in delle strutture semiotiche, Foucault arriva ad affermare la fine dellla metafisica antropologica e dell’uomo e la necessità di una completa analitica della finitudine alla Heidegger ma concreta, sviluppata anche attraverso l’attività antiepistemica della psicoanalisi, dell’etnologia e della linguistica che distruggono la metafisica dell’uomo, evidenziandone sul piano del sapere e dell’essere il fondo impensabile e impensato, inconscio individuale e collettivo da cui emerge come un effetto di superficie. L’originalità di Foucault sta nel metodo archeologico-strutturale (L’archeologia del sapere, 1969), nell’analisi storica concreta che dà contenuto alla prospettiva heideggeriana rispetto alle individuazioni delle condizioni di vita inautentiche, ovvero di dominio e di potere, che determinano l’episteme, nel rilievo dato allo snodo kantiano all’interno della classicità/modernità e alla correlata questione delle scienze umane. Volendo distruggere il soggettivismo coscienzialistico di Husserl e seguendo la prospettiva heideggeriana della non strumentalità e non antropologicità del linguaggio, Foucault vuole risalire alle pratiche discorsive come cose stesse, come fenomeni indipendenti dai soggetti umani: una fenomenologia delle pratiche discorsive è una sorta di fisica, di dinamica interna delle pratiche discorsive che ne sveli l’architettura interna, che riveli come si formino da queste delle discipline attraverso la chiusura di universi del discorso e la cancellazione arbitraria 84 delle interferenze, delle connessioni, in un’archeologia che fa emergere gli strati più nascosti, in particolare gli invarianti che costituiscono le varie forme di episteme, e che non riguardano i significati per i soggetti né i significanti puri che caratterizzano la struttura formale delle pratiche, quanto le relazioni fra le “parole” e le “cose”, ovvero ciò che qualifica le pratiche discorsive come tali rispetto al mondo e non rispetto a un soggetto. Questa ricerca di invarianti è però comunque una ricerca di essenza delle pratiche, seppure storica, e fa trascurare le devianze, le pratiche minoritarie e non dominanti che sole possono spiegare la transizione da un’episteme a un’altra. La genealogia poi mette in evidenza l’essenza storica del sapere come potere, nelle sue varie articolazioni disciplinari e discorsive, cioè la dinamica esterna delle pratiche discorsive, in quanto legittimazione del potere e della violenza e in quanto progetto di potere e di violenza codificatore e regolatore delle altre pratiche non discorsive umane in una sorta di trasformazione semiotica del kantismo in quanto “strutturano” comunque le condizioni di possibilità dell’esperienza della vita e non solo della conoscenza. Certamente, lo spostamento dai discorsi alle pratiche discorsive permette di considerare i discorsi all’interno della complessità delle pratiche umane, cosa che permette di analizzare molto meglio quella dinamica che a livello discipline si suddivide nell’attestazione di un interno e di un esterno, perché le discipline si situano solo a un livello del sapere distinto dalle altre pratiche umane, mentre al livello delle pratiche cade il confine fra discorsivo e non discorsivo, fra sovrastruttura ideale e struttura materiale. Non c’è più da una parte la complessità del sapere e dall’altra la complessità della storia umana o del mondo, ma c’è un’unica complessità in cui anche le formazioni discorsive sono eventi fra altri eventi della storia e del mondo: non si tratta più di una storia delle idee da una parte e storia delle istituzioni, storia socio-economico-politica dall’altra; si tratta di una storia del mondo umano in tutta la sua complessità. Nascono così i grandi progetti storiografici (Nascita della clinica, 1963; Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, 1975; Storia della sessualità, 1976, 1984) intorno a una serie di esperienze negate o controllate anche attraverso la costituzione di dispositivi teorici razionali che attraversano 85 varie pratiche discorsive, come i lavori sulla storia delle scienze umane, della medicina e della psicoanalisi, sulla storia della follia e della sessualità che si avvalgono di un complesso intreccio di apparati teorico-critici. Nell’ultimo periodo, Foucault sviluppa la prospettiva della cosiddetta biopolitica, che analizza come il potere controlli i corpi e la vita. 10.5 Jean Baudrillard e la seduzione In un famoso testo del 1977, Dimenticare Foucault, Jean Baudrillard (1929-2007) contesta a Foucault la trascendentalizzazione di queste strutture del sapere e del potere: la microfisica del potere analizzata da Foucault, per quanto de-centralizzi la nozione classica del potere, che lo identificava con il potere statale-politico, non raggiunge quella conclusione che ne sarebbe stata l’esito necessario. La disseminazione del potere mostrerebbe che non esistono strutture trascendentali del potere, che sono solo una costruzione teorica che ipostatizza il potere a partire dalle libere scelte dei soggetti umani che non sono vincolate da alcuna struttura trascendentale storica. A loro volta, le strutture del sapere non derivano necessariamente da strutture di potere, ma più in generale sono generate da una libertà creativa. In una serie di testi, dal Sistema degli oggetti del 1968, alla Società del consumatore: miti e strutture del 1970, fino a Per una critica dell’economia politica del segno, del 1972 e Lo specchio della produzione del 1973, Baudrillard aveva mostrato che il mondo dei segni non costituisce marxianamente una mera sovrastruttura ideologica della struttura economica, ma esso stesso presenta un aspetto economico, con un suo valore d’uso e di scambio, e svolge quindi un ruolo determinante la stessa struttura economica: anzi lo stesso mondo degli oggetti, soprattutto nelle società post-industriali, si costituisce come un mondo di segni sociali e produce una genesi ideologica di bisogni che fa sì che sia il consumo a determinare la produzione e quindi la struttura economica della società. Le strutture delle società contemporanea sono determinate dalle forme di comunicazioni dei segni, mediatiche, informatiche, virtuali. Al modo della produzione degli oggetti, alla stessa ermeneutica dell’interpretazione, in una critica radicale anche della psicoanalisi come economia energetica del desiderio e di un presunto femminismo, Baudrillard contrappone il modo della seduzione (femminile) dell’apparizione degli 86 oggetti-soggetti de-semiotizzati al di là di ogni riduzione a un senso, a un significato, a una verità, a una realtà che sono sempre prodotti della ragione: al posto della profondità del senso razionale o inconscio, dell’intelletto o del sesso materiale (che è pure un effetto del discorso), bisogna ritornare agli abissi superficiali della seduzione simbolica pura, in cui la Natura, la donna, le cose seducono i soggetti (Della seduzione, 1979), ma non sono mai comprensibili razionalmente in discorsi di verità. La loro immersione in un sistema di segni ci preclude l’accesso alla reale realtà degli oggetti e ci consegna solo una versione simulata di realtà o di iperrealtà che sostituisce e provoca la scomparsa della realtà. La de-materializzazione della realtà è tutt’uno con la fine delle rappresentazioni razionali, la fine della storia e della politica, che caratterizzano la post-modernità. All’economia dei segni, Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, 1976) contrappone lo scambio simbolico come dono (potlach), studiato in antropologia da Marcel Mauss (1872-1950) come caratteristico delle società arcaiche, e che solo può decostruire il sistema economico dei segni: secondo Baudrillard, l’esorcizzazione e l’esclusione della morte nelle nostre società è alla base di tutti gli altri meccanismi di esclusione e discriminazione. 11. Jacques Derrida e il carnofallogocentrismo Al di là delle soluzioni specifiche che ha dato ad alcuni problemi filosofici, l'importanza del pensiero di Jacques Derrida (1930-2004) sta senz'altro in una serie di questioni critiche che ha aperto. Il pensiero di Derrida è stato parte fondamentale anche della mia formazione, cosa che mi spinse, ormai nel lontano 1988, ad andare a seguire le sue lezioni a Parigi. Derrida parte da un’apertura sull'antropologia e sul mito portando all’attenzione filosofica l'opera dell'antropologo André Leroi-Gourhan: questi ha messo in evidenza come nel Neolitico, con 87 l'invenzione della scrittura alfabetico-fonetico-lineare, ci sia stata la contrazione di un pensiero complesso ad un pensiero lineare.47 Prima di questa transizione, i simboli sono disposti o su superfici bidimensionali o su volumi tridimensionali, non sono direttamente legati o subordinati a fonemi, a suoni, e non sono ordinati in una sequenza lineare come poi lo saranno con l’invenzione della scrittura fonetico-alfabetica lineare: sono simboli multidimensionali e non-lineari, sono ideogrammi in cui le associazioni di idee sono molteplici e in varie direzioni. Si tratta di un pensiero per immagini, multidimensionale, non-lineare e complesso. A tali ideogrammi sono associate delle fonetizzazioni non univoche, legate a dei rituali religiosi. Forse, alla scrittura fonetico-alfabetica, affermatasi intorno al 3000 a. C., poi lineare, è da connettersi l’evento epocale più importante nella storia del pensiero umano: al pensiero per immagini multidimensionale non lineare e complesso che si estrinsecava nei primi simboli si sostituisce quasi totalmente un pensiero logico-verbale, linguistico, unidimensionale, lineare e sequenziale. Si tratta di una riduzione estrema della complessità del pensiero per immagini che resterà vivo solo in parte come sfondo ultimo su cui si fonda comunque il pensiero logicoverbale. Il pensiero matematico geometrico e la scrittura matematica non-fonetica e in parte nonlineare attuali sono residui di quell’arcaico pensiero complesso. Ed esito di ciò sarà il predominare di una cultura scritta su quell’orale nel mondo greco del VI sec. a.C. e il separarsi di un logos dal mythos con l’emergere di una nuova forma di sapere logico-filosofico, separato dalla religione, che si oppone al sapere mitico, nella sua ricerca di un fondamento fisso, stabile, certo e univoco del sapere: un sapere quello del logos basato ormai sulla scrittura lineare e non più su ideogrammi associati in maniera multidimensionale come il mythos. Derrida - pur non evidenziando che nelle considerazioni di Leroi-Gourhan era in questione la possibilità stessa di una fondazione autonoma della filosofia che comunque ha le sue radici nel mito (essendo impossibile una qualsiasi mito-logia filosofica) e va compresa antropologicamente in modo concreto al di là della mera asserzione di un etnocentrismo occidentale - ha cercato 47 A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole: I. Techinque et langage; II. La mémoire et les rythmes, A. Michel, Paris 1964-65, tr. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola, voll. I & II, Einaudi, Torino 1977, vol. I, pp. 221-254. 88 d’interpretare tali pratiche simboliche ideogrammatiche originarie come un’archi-scrittura trattabile ancora all’interno di un nuovo sapere filosofico e ha interpretato la storia della metafisica occidentale, dai presocratici ad Heidegger, come storia della metafisica della scrittura fonetica, come storia del logos come phoné: come storia del logofonocentrismo, cui si contrappongono la sua decostruzione e il nuovo sapere filosofico come grammatologia. quale scienza dei segni scritti.48 Qui Derrida eredita da Heidegger la convinzione di un continuum costitutivo della storia della metafisica occidentale come storia, senza fratture, della metafisica dell'essere come presenza e come onto-teologia, e la specifica ulteriormente come storia della metafisica del logos come phoné, inserendovi dentro anche Heidegger. Ora, non c'è dubbio che si può far risalire l'origine della metafisica alle astrazioni implicite nella prima scrittura alfabetico-fonetico-lineare con la transizione da pratiche simboliche evocative e iconiche a pratiche di segni denotativi e in parte convenzionali e arbitrari, la cui economia di dominio della Natura e degli altri viventi è stata costitutiva della riduzione metafisica soggettivistica di questi a concetti umani. Tuttavia, già la caratterizzazione heideggeriana della storia della metafisica come un continuum senza soluzione di una onto-teologia è fallace: la storia del pensiero cristiano non è tutta inscrivibile in esso; il Logos del Cristianesimo non è identificabile con il logos della filosofia greca, e di ciò era consapevole la stessa prima riflessione di Heidegger. L’esistenza di un simbolismo iconico non fonetico sulla scrittura alfabetico-fonetico-lineare viene trasformata da Derrida in una priorità della scrittura sul linguaggio parlato, cosa ben diversa. In questa prospettiva, Socrate e Platone (nel Fedro) determinano la tradizione filosofica successiva sul primato del logos come parola parlata, come voce che si dà, per Platone, nel dialogo interiore dell’anima con sé stessa, come costitutiva dell’anima stessa. Derrida riprende così le tesi strutturaliste sul linguaggio elaborate da Ferdinand de Saussure: considera quindi come primaria la struttura trascendentale della scrittura, per superare una prospettiva soggettivistica e umanistica, come Heidegger voleva tematizzando l’essere, ma, per 48 J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, tr. it. di R. Balzarotti et al., Della grammatologia, Jaca Book 1969, pp. 5-7 e 97-100. 89 Derrida, però, non è possibile andare oltre i limiti della scrittura, e quindi questa dimensione non soggettivistica e non-umanistica va ritrovata nella scrittura stessa; un testo scritto può essere considerato indipendentemente da un soggetto umano che lo produce. Per lo strutturalismo linguistico, il significato non risiede nell’intenzionalità del soggetto, in quello che il soggetto vuole dire, ma nasce all’interno della struttura, dalle differenze fra i termini. Che non si possa andare oltre i limiti della scrittura comporta però non solo che non si possa ricercare un significato esterno ad essa, ma anche che non si possa determinare univocamente un significato anche interno alla scrittura: eliminato un significato esterno, si può dare una molteplicità di significati potenzialmente infinita, con una disseminazione del senso, con una deriva dei significati inarrestabile e non con una mera polisemia. Mentre il linguaggio parlato indica la presenza di un soggetto, ed è quindi, per Derrida, legato a una metafisica della presenza a un soggetto e di un soggetto, al contrario la scrittura indica un’assenza, è la “traccia” di un’assenza, di qualcosa di mai attingibile, e la traccia è segno di una differenza assoluta (différance) che non è più fra essere ed ente, ma fra scrittura ed essere che cancella del tutto l’essere e il suo senso. La metafisica per Heidegger riduttiva dell’essere ad enti semplicemente presenti viene reinterpretata da Derrida come metafisica della presenza a un soggetto e di un soggetto, tipica del linguaggio parlato e della subordinazione ad esso della scrittura. Il voler trovare o dare un senso per un soggetto, proprio del logos come linguaggio parlato, è non solo pretesa illusoria ma anche violenza del soggetto umano, che riduce tutto a sé. Se questa violenza si qualifica subito come propria del pensiero e della cultura occidentale, il logo-fonocentrismo si qualifica subito come un etno-logo-fono-centrismo. Ma c’è di più: perché in effetti nel logos si strutturano e si legittimano tutte le relazioni di dominio, tutti i rapporti di violenza. Così, la violenza dell’uomo maschio occidentale nei confronti della donna fa dell’etno-logo-fono-centrismo un etno-fallogo-fono-centrismo, e la violenza sugli altri animali determina un etno-carno-fallogofono-centrismo. La metafisica del logos è così espressione non solo del dominio tecnico sulla Natura come in Heidegger, ma della violenza del soggetto maschio occidentale carnivoro. Non è 90 possibile però, per Derrida, proporre una nuova filosofia priva di violenza, perché questa è insita nel linguaggio: si può solo denunciarla e smascherarla. L’esito della prospettiva di Derrida è quindi nichilistico nei confronti dell’ermeneutica: non c’è più la prospettiva di una comprensione di un testo o della testualità generale propria della scrittura, ma resta solo una molteplicità di interpretazioni. Derrida vorrebbe presentare questa sua prospettiva come realizzazione della “morte di Dio” annunciata da Nietzsche, che qui si traduce nella morte del senso. Tuttavia, il prospettivismo di Nietzsche è differente, è costitutivo della realtà del mondo come per Leibnitz, e non è espressione di una deriva dei sensi di un testo. La distruzione fenomenologica della metafisica operata da Heidegger e che porta a un’ontologia ermeneutica si traduce in Derrida in una de-costruzione dei testi del logos, dei suoi sensi, attraverso una deriva linguistico-interpretativa, attraverso la sovrapposizione di un’ipertestualità che si svolge su testi molteplici paralleli per superare la linearità del pensiero sequenziale che si costituisce nella scrittura alfabetico-fonetico-lineare. La deframmentazione di un testo fino alla disseminazione del suo senso ha avuto applicazione nella critica letteraria fin anche dei testi biblici, dove il decostruzionismo ha rappresentato un nuovo paradigma. Seppure, la critica della violenza del logos della metafisica occidentale sia condivisibile in tutti i suoi aspetti, è la specificità attribuita alla scrittura rispetto al logos che non convince: il logos diventa cifra della metafisica dell’anima, invero, solo quando si astrae dalla concreta situazione di dialogo e diventa soliloquio egoico che astrae e quindi nega l’altro; in questa prospettiva, anche la scrittura è parola astratta dal dialogo concreto, e, anche quando si presenta sotto forma apparentemente dialogica, è puro monologo escludente l’alterità. Pensare che la scrittura o un testo si possa considerare come oggetto puro, indipendente dal soggetto che scrive, è un’illusoria astrazione, e la disseminazione del senso non è indipendente da una pluralità infinita di atti soggettivi arbitrari, che non fanno che moltiplicare all’infinito il soggettivismo. 91 La metafisica non è allora della phoné, in quanto tale e in quanto costitutiva dello spirito, come pure Derrida ha pensato,49 ma della scrittura fonetica in quanto contrazione del pensiero astratto dalla vita cui i simboli mitogrammatici erano sempre legati. E, in ogni caso, e contrariamente a quanto affermato da Derrida, la metafisica non è solo metafisica della scrittura fonetica: anche la scrittura non fonetica ha una parte fondamentale nella storia della metafisica occidentale, ed è questo che fa comprendere come la metafisica non è della phoné in quanto tale. Quale scrittura non fonetica? Certamente non i mitogrammi originari. La scrittura non fonetica della matematica e della scienza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della metafisica: la scienza non è estranea o contraria all'imperialismo del logos e del fallogocentrismo.50 Già nel momento in cui, nella rivoluzione neolitica, i simboli matematici aritmetici e geometrici perdono il loro valore evocativo e diventano rappresentazioni e strumenti di calcolo e di misura, o sostituti sacrificali nel pensiero, per il conteggio di capi di bestiame da allevare o da sacrificare e per la misura di appezzamenti di terreni agricoli, essi costituiscono un logos mathematikòs di una metafisica in cui i viventi e la Natura sono ridotti a quantità interscambiabili e che si pone come ideologia e progetto di un dominio tecnico, di uno sfruttamento, di un assassinio sistematico degli altri viventi e dello stupro agricolo della Natura archetipo della violenza fallocentrica sulla donna. 51 Il pensiero topologico parmenideo e il pensiero geometrico platonico, ormai funzionali ad una metafisica dell'essere come presenza da cui è stato escluso il tempo, costituiscono un logos mathematikòs su cui si edifica una cosmologia e un'astronomia metafisica legata ad un'ontoteologia astrale che sarà dominante non solo nella filosofia e nella scienza greche ma anche nel medioevo: la metafisica matematica platonica del cerchio e della sfera dominerà in astronomia e cosmologia fino alla sua decostruzione con Giordano Bruno e Johannes Kepler.52 49 J. Derrida, La voix et le phenomenon, PUF, Paris 1967, tr. it. a cura di G. Dalmasso, introduzione di C. Sini, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1968; C. Sini, I segni dell'anima. Saggio sull'immagine,Laterza, Roma-Bari 1989. 50 J. Derrida, Della grammatologia, op. cit., p. 6. 51 E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 37-41. 52 E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 43-87 e 199-231. 92 La geometria meccanica di Archimede costituisce un logos mathematikòs technikòs che si identifica con una metis mechaniké53 e sarà poi la base, nel corso della rivoluzione scientifica che portò alla scienza moderna, della successiva riduzione della fisica a tecnica meccanica attraverso l'istituzione del metodo meccanico-sperimentale galileiano, ovvero della scienza a tecnica; sarà la base della concezione meccanicistica della Natura e degli animali ridotti da esseri viventi e animati a macchine quale metafisica soggettivistica legata a un'onto-teologia meccanica e a una meccanizzazione e a un dominio tecnico della Natura e dei viventi non umani, ormai consapevolmente epistemologizzato quale scienza moderna non più sterilmente contemplativa ma tecnicamente produttiva secondo un fallogocentrico baconiano <<parto maschio del tempo>>.54 Con la geometria analitica cartesiana, che, seppure riduce gli iconici simboli geometrici in arbitrari convenzionali segni algebrici, permette di ricondurre ogni astratta dipendenza funzionale matematica a un pensiero di immagini diagrammatiche,55 e con l'analisi del calcolo differenziale la scienza moderna porta a provvisorio compimento la metafisica occidentale dell’essere come presenza, della riduzione dell’essere ad ente semplicemente presente nella riduzione della Natura e dei viventi a macchine deterministiche, costituite di mera materia inerte e passiva, quali meri oggetti a disposizione dell'arbitrio manipolatorio tecnico della volontà di potenza del soggetto umano.56 Ma c'è di più: la scrittura non fonetica matematica, quale rappresentazione geometrica meccanica o algoritmo di calcolo meccanico non ha svolto un ruolo fondamentale soltanto nella caratterizzazione metafisica della Natura come oggetto, ma anche nella caratterizzazione metafisica del soggetto umano come soggetto di conoscenza scientifica, come soggetto trascendentale quale controparte dell'oggettivizzazione meccanica della Natura. Il soggetto trascendentale kantiano che, secondo 53 M. Detienne & J.-P. Vernant, Les ruses de l'intelligence – Les mètis des Grecs, Flammarion, Paris 1974, tr. it. di A. Giardina, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1978. 54 E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 63-65 e 235-266. 55 G. Pasqui, La scrittura delle scienze sociali, Jaca Book, Milano 1996. 56 E. Giannetto, Heidegger and the question of physics, in Proceedings of the "Conference on Science and Hermeneutics" (Veszprém 1993), M. Feher, O. Kiss & L. Ropolyi, eds., Reidel, Dordrecht 1999, pp. 225-245; E. Giannetto, "L'esterno dell'interno": il "paradigma" fisico dell'energia, in Le comunità scientifiche tra storia e sociologia della scienza. Atti del Workshop (18-20 Aprile, 1991), a cura di G. Battimelli & E. Gagliasso, Serie di Quaderni della Rivista di Storia della Scienza, n. 2 (1992), pp. 335-344; E. Giannetto, The Epistemological and Physical Importance of Gödel's Theorems, in First International Symposyum on Gödel's Theorems, a cura di Z. W. Wolkowski, World Scientific, Singapore 1993, pp. 136-147. 93 Adorno ripreso da Derrida,57 ha espunto da sé ogni traccia di vitalità e di animalità per porsi cartesianamente come pura sostanza pensante, non è altro che l'introiezione nell'uomo della soggettività matematica-sperimentale-tecnica della scienza moderna che preordina secondo la calcolabilità e la misurabilità l'esperienza umana: le forme a priori dell'intuizione, che caratterizzano il soggetto trascendentale come soggetto formale al di là dei particolari soggetti empirici, non sono altro che l'introiezione della forma-spazio della scrittura non fonetica della geometria e della formatempo della scrittura non fonetica dell'aritmetica, dell'algebra e dell'analisi. Che queste forme vuote siano introiettate dalla scrittura matematica è evidente dal fatto che devono garantire la certezza e l'univocità della conoscenza scientifica. Non è allora la voce, la phoné a costituire il soggetto umano come spirito, come pura sostanza pensante dell'idealismo, ma la scrittura non fonetica matematica che costituisce come tale il soggetto della conoscenza della scienza moderna quale soggetto matematico-sperimentale del dominio tecnico della Natura e dei viventi non umani. Il fondamento dello stesso carno-fallogocentrismo denunciato da Derrida,58 il fondamento epistemologico cioè dell'etnocentrismo e del maschilismo occidentale, dell'antropocentrismo e dello specismo che costituisce il nucleo profondo del moderno soggetto umano quale maschio carnivoro occidentale è la scrittura non fonetica matematica. Se quindi è la scrittura matematica ad aver costituito la base della caratterizzazione della Natura come puro oggetto meccanico di un soggetto umano formale che la trascende e che la domina, al di là di ogni controversia speculativa filosofica, si può allora decretare il crollo della metafisica occidentale e dello stesso carnofallogocentrismo. Con la costruzione delle geometrie non-euclidee già dalla prima metà dell'Ottocento, delle algebre non commutative, delle aritmetiche e delle analisi non standard, delle teorie degli insiemi e delle logiche matematiche devianti, ovvero con la pluralizzazione di scritture matematiche alternative e 57 J. Derrida, L'animal que donc je suis, a cura M.-L. Mallet, Galilée, Paris 2006, tr. it. di M. Zannini, a cura di G. Dalmasso, L'animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, pp. 150-155. 58 J. Derrida, <<Il faut bien manger>> ou le calcul du sujet, intervista con Jean-Luc Nancy, in Cahiers Confrontation 20, 1989, ripresa poi come Après le sujet qui vient in Points de suspension, Galilée, Paris 1992. 94 incompatibili fra loro, si è delineata la “decostruzione” del fondamento univoco e certo della metafisica occidentale e del carnofallogocentrismo.59 Con le rivoluzioni della fisica del Novecento, con le teorie della relatività, del caos e dei quanti, si è delineato il crollo del materialismo meccanicistico e deterministico e della sua controparte, ovvero dell'idealismo matematico alla base della metafisica occidentale quale progetto di dominio tecnico della Natura e dei viventi non umani in una prospettiva carnofallogocentrica.60 In particolare, con le teorie della relatività si distrugge la metafisica dell'essere come presenza e della riduzione dell'essere a ente semplicemente presente, si distrugge la concezione volgare del tempo e si delinea la dimensione fondamentale del tempo autentico-proprio degli eventi, di un Dasein fisico che caratterizza non solo l’essere umano ma tutte le parti della Natura quali viventi. 61 Nella fisica contemporanea si delinea l'auto-dissoluzione del logos mathematikòs quale metis mechaniké del dominio umano violento sulla Natura e sugli altri viventi e quindi del carnofallogocentrismo per altro ancora imperante nelle società umane.62 Non siamo destinati quindi a restare prigionieri del carnofallogocentrismo, della sua logica sacrificale, violenta, carnivora e anche cannibalica della fagocitazione, reale o simbolica nella sua forma sublimata del logos come phoné della scrittura alfabetico-fonetico-lineare, dei suoi linguaggi e delle sue concettualizzazioni, di cui sarebbero partecipi anche i vegetariani o i vegani più radicali.63 La prassi di vita di etica radicale vegana del cristianesimo originario o comunque effettivo64, come amore universale e rispetto per ogni vita, in cui si fa esperienza di un altro Logos che è Dia-logos e distrugge la logica sacrificale della fagocitazione reale o simbolica nel pasto eucaristico è il corrispettivo concreto di quella teoria/teologia negativa fatta di quei teo-remata 59 E. Giannetto, The Epistemological and Physical Importance of Gödel's Theorems, op. cit.; E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 299-305. 60 E. Giannetto, Heidegger and the question of physics, op. cit.; E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 299-437. 61 E. Giannetto, Heidegger and the question of physics, op. cit.; E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 317-325. 62 E. Giannetto, Physis, Bios, Psyché e Logos: note verso una fisica come dissoluzione delle pratiche simboliche, in Metaxù 8, 1989, pp. 43-60. 63 J. Derrida, <<Il faut bien manger>> ou le calcul du sujet, op. cit. 64 E. Giannetto, Il Vangelo di Giuda –traduzione dal copto e commento, Medusa, Milano 2006. 95 negativi che costituiscono l'auto-dissoluzione del logos mathematikòs quale metis mechaniké, che può ridonare all'uomo quell'esperienza del mondo, della Natura, di cui le sue concettualizzazioni intrinsecamente carnofallogocentriche lo avevano privato e che, all'opposto di quanto pensato da Heidegger,65 è propria di ogni parte minima della Natura, di ogni vivente, di ogni animale senza le fagocitazioni simboliche, o meglio dia-boliche, delle concettualizzazioni umane. 11.1 Heidegger, Levinas, Derrida: il Cristianesimo originario e la filosofia La consapevolezza, solo recentemente raggiunta dai critici e neppure unanime, di una radice etica cristiana continuamente operante nella filosofia di Heidegger, cambia completamente la prospettiva del rapporto Heidegger-Levinas dal punto di vista della storia della filosofia. La critica di Emmanuel Lévinas (1906-1995) ad Heidegger, effettuata sulla base di una rivendicata priorità dell’etica come disciplina filosofica sull’ontologia, si rivela quantomeno un fraintendimento, perché l’ontologia di Heidegger nasce dall’ esperienza etica, è basata sulla vita etica cristiana, anche se poi la ontologizza. Levinas pone l'etica come "filosofia prima" e come metafisica che contrappone all'ontologia: l'ontologia si confronta con un essere astratto e generale che costituisce una totalità che schiaccia la singolarità degli esistenti; l'etica, invece, nel teorizzare l'esperienza dell'altro apre alla trascendenza, all'infinito, a Dio come Assolutamente Altro, e diventa quindi metafisica. Jacques Derrida (1930-2004) vede in Levinas66, e nell’irruzione con lui della tradizione ebraica in quella della filosofia occidentale, un’alternativa alla tradizione greca cui associa non solo Husserl ma anche Heidegger, ma anche questo è, almeno in parte, un grave fraintendimento. Heidegger, invero, anche se non ci riesce, sulla scia di Kierkegaard introduce per primo nella tradizione greca l’esperienza storica ed esistenziale del Cristianesimo originario per distruggere la tradizione filosofica e teologica occidentale, l’astrazione teoretica della metafisica greca che si distacca dalla 65 M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik – Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Klostermann, Frankfurt am Main 1983, tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica – Mondo – finitezza – solitudine, Il melangolo, Genova 1999, § 42, pp. 230-232, § 47, p. 252; J. Derrida, L'animale che dunque sono, op. cit., pp. 199-222. 66 J. DERRIDA (1964), Violence et metaphysique. Essai sur la pensée d’Emmanuel Levinas, in L'écriture et la différence, Seuil, Paris 1967; tr. it. di G. POZZI, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 99-198, in particolare pp. 102-106. 96 vita, per distruggere quel “ferreo ligneo” sorto dalla mistione del Cristianesimo medioevale con una metafisica platonico-aristotelica, che si riduce a onto-teologia. Levinas disconosce il suo maestro e Derrida in parte difende Heidegger67 rispetto ai fraintendimenti di Levinas, ma in parte legittima Levinas in quest’operazione consapevolmente perseguita, perché Heidegger si era macchiato di adesione al nazismo. Levinas fraintende in parte l’essere di Heidegger come un concetto metafisico generale, anziché considerarlo nelle singolarità esistenziali degli enti: come concetto metafisico generale precluderebbe l’esperienza effettiva dell’altro nella sua singolarità e ci sarebbe una violenza teoretica della luce rivelatrice dell’essere68. Al contrario è invece vero che l’esperienza etica originaria dell’alterità, propugnata da Levinas in relazione all’epifania del volto degli altri (seppure solo umani, per Levinas), è l’esperienza etica che sta dietro la tematizzazione dell’essere come con-essere-con-altri-nel-mondo alla base dell’onto-logia heideggeriana; il problema di Heidegger è che, ontologizzando trascendentalmente l’etica, la neutralizza. Levinas, che pensa l’io e l’altro assolutizzati come del tutto separati originariamente, non riuscirà mai a potere colmare questa distanza che è già un’astrazione metafisica soggettivistica. Chiaramente, Levinas parte dal presupposto non dichiarato di voler trovare nel pensiero di Heidegger le radici del totalitarismo politico violento nazista e crede di poter ritrovare una totalità nell’essere come concetto metafisico generale in cui le alterità singolari sarebbero schiacciate69: questo, però, non può che essere un fraintendimento malevolo, perché per Heidegger l’essere si dà solo nelle singolarità degli altri a cui è legata la propria esistenza; queste singolarità non sono mai riducibili o riconducibili a una totalità chiusa e anonima, ma costituiscono l’apertura originaria del nostro essere singolare proprio perché l’essere si dà infinitamente in ulteriori alterità. La metafisica, la teologia e l’ontologia della tradizione filosofica occidentale che Heidegger vorrebbe distruggere sono la forme ideologiche del totalitarismo e della violenza della politica. Solo che il pensiero di 67 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 170-198. 68 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 106-138. 69 E. LEVINAS, Totalité et Infini. Essaie sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980. 97 Heidegger astrae comunque l’essere dagli enti per superare il soggettivismo ontologico dell’io e per dare una fondazione ontologica all’etica, per evitare la violenza della metafisica: così, per dare forma filosofica trascendentale a quell’autentico pensiero non-violento, che è proprio dell’escatologia etica del Cristianesimo originario, lo ingabbia in una tematizzazione trascendentale dell’essere di una legge etica-ontologica che rischia di nullificare la moralità in termini di scelta esistenziale. Come spiega anche Derrida70, la pre-comprensione dell’essere è secondo Heidegger anche precomprensione pre-concettuale e pre-teoretica della divinità, precedente qualsiasi teologia o qualsiasi opzione teoretica fra teismo e ateismo: per questo, Derrida71 dice che la prospettiva di Heidegger non va confusa con alcuna teologia negativa (o più in generale con un’ontologia negativa), in quanto comunque teoria; si può parlare, in una maniera non considerata da Derrida, di teo-logia negativa (onto-logia negativa) in Heidegger, solo intendendo così un logos divino o dell’essere e non teoretico umano. Ma in effetti l’ontologia di Heidegger riconduce la pre-comprensione a teoria. Levinas coglie qui, inoltre, in Heidegger, però, un aspetto di paganesimo che Derrida non intravvede72. Questo perché l’ebraismo di Levinas, legato a una tradizione dominante nel giudaismo, vede Dio come un Infinitamente Altro rispetto all’essere che è la Physis: questo fare della Physis il luogo della manifestazione della divinità è per Levinas una sorta di divinizzazione della Natura. Per Heidegger, invece, nella modernità, la Riforma Protestante, che recupera quell’ebraismo, è all’origine di un processo di de-divinizzazione della Natura che porta all’umanismo antropocentrico e preclude anche la pre-comprensione del senso di Dio73 (è da qui che deriverebbe un’accusa metafisica all’ebraismo?). Heidegger, poi, riconsidera la Physis greca dal 70 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 182, 185-188, 192-194; M. HEIDEGGER (1946-1947), Brief über den “Humanismus”, Klostermann, Frankfurt am Main 1976, tr. it. a cura di F. Volpi, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995 e in Segnavia, pp. 267315. 71 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 187-188. 72 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 185-187. 73 M. HEIDEGGER (1938), Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; trad. it. a cura di P. CHIODI, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp. 71-101; E. R. A. GIANNETTO, Un fisico delle origini. Heidegger, la Natura e la scienza, Donzelli, Roma 2010, pp. 181-187. 98 punto di vista del pensiero dell’essere, legato comunque ad una prospettiva teologica cristiana: l’essere non è Dio, la Physis come essere diventa dono, grazia, come il pensiero che è rivelazione e non più discorso filosofico umano. Nel Cristianesimo originario, con cui Heidegger si è confrontato, la prospettiva della Shekinàh ebraica si è radicalizzata nella considerazione dello Spirito Santo come Ruchàh Qadòsh che vivifica la Natura dall’interno e nel rilievo del farsi carne del Logos divino, rendendo la Physis ripiena di Dio. Solo che Heidegger antropocentricamente riduce il Logos divino della Physis al logos umano. Secondo Heidegger, Dio non è riducibile a un ente sommo, a un ente infinito, come determinazione ontica dell’essere: sarebbe considerarlo come un ente fra altri enti, e l’infinito, rileva Derrida 74, non permette una determinazione. La pre-comprensione dell’essere come con-essere-con-altri-nelmondo, formandosi solo in un’esperienza etica ontica, che Heidegger invece trascendentalizza, non può, cristianamente, non basarsi sull’Amore che costituisce gli enti in questa connessione originaria che precede qualsiasi azione etica umana: la pre-comprensione del con-essere implicitamente è precomprensione dell’Amore che è Dio75, e tale pre-comprensione, dopo la rottura originaria di questo con-essere da parte dell’essere umano (“peccato originale”, un oblio totale della Physis), nella storia dell’essere non potrebbe che basarsi sulla rivelazione storica di Dio-Amore in Gesù, che Heidegger però come storia empirica trascura; chiaramente, questo non può essere un dato di un pensiero filosofico umano, ma di un pensiero che deriva dalla fede che viene considerata da Heidegger solo negli studi di Fenomenologia della vita religiosa.76 L’essere-di-Dio (che cristianamente è quindi l’Amore che costituisce la trama degli enti della Physis), quindi è considerato implicitamente da Heidegger all’origine della stessa differenza ontologica e dell’essere come con-essere77, ma non può 74 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 192-194. 75 A questa conclusione sembra giungere Derrida: J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., p. 188 e relativa nota. 76 M. HEIDEGGER, Phänomenologie des religiösen Lebens. 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion (WS 1920/21), a cura di M. JUNG e T. REGEHLY. 2. Augustinus und der Neuplatonismus (SS 1921). 3. Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (1918/19) a cura di C. STRUBE, in Gesamtausgabe LX, Klostermann, Frankfurt am Main 1995; tr. it. di G. GURISATTI, a cura di F. VOLPI, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003. 77 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., p. 192. 99 essere tematizzato come in Levinas, altrimenti si ricade nella metafisica e nella teologia che riducono Dio a concetto, la verità a possesso umano e portano a un totalitarismo politico violento. La possibilità di un pensiero non-violento, aspirazione di Levinas e negata da Derrida78, è invece potenzialmente correlabile all’esito parzialmente non-filosofico e non greco della filosofia di Heidegger, alla prospettiva di un pensiero poetante non oggettivistico, di un pensiero non umano come rivelazione della Physis, come dono e come grazia da una parte e come rammemorazione, ringraziamento e “pietà” (Amore) dall’altra: questo era implicito nell’inizio di Heidegger, volto a superare il teoreticismo devitalizzante della filosofia greca, cui, sulla scia di Kierkegaard 79 pure criticato per il suo soggettivismo, contrapponeva l’esperienza di esistenza autentica del Cristianesimo originario. In definitiva, in maniera nascosta e discreta – neanche Derrida se ne è reso conto80 -, è solo con Heidegger che il Cristianesimo, dopo la sua confusione medioevale con la metafisica platonicoaristotelica, sarebbe potuto entrare nel pensiero occidentale, come radicale alterità al pensiero filosofico greco, se Heidegger stesso non avesse ricondotto la Physis e l’esistenza all’antica tematizzazione intellettualistica dell’ontologia greca dell’essere, che persiste anche nell’esito ultimo heideggeriano presuntamente non-filosofico. Nell’ontologizzazione dell’etica e della storia operata da Heidegger, questa rischia di restare chiusa nella dimensione comunque teoretica del pensiero e di non manifestarsi nella prassi di vita se non di essere completamente elusa. D’altra parte, Derrida ha ragione nel criticare l’idea heideggeriana del linguaggio come “dimora dell’essere”,81 come luogo privilegiato in cui si possano incontrare le cose stesse, i fenomeni si 78 Derrida nega la possibilità di uscire fuori dal pensiero filosofico come logos umano che già nella predicazione fa violenza alle cose: J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 188-191, 194-197. 79 Derrida discute il rapporto fra Levinas e Kierkegaard: J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 138-141. 80 J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 196-198. 81 La critica di Derrida ad Heidegger si articola in molti testi, ma non è sempre condivisibile: J. DERRIDA, Geschlecht. Différence sexuelle, différence ontologique, in J. DERRIDA, Psyché. Inventions de l’autre, Éditions Galilée, Paris 1987; tr. it. di G. Scibilia, Geschlecht. Differenza sessuale, differenza ontologica, in J. DERRIDA, La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 3-29; J. DERRIDA, Geschlecht II: Heidegger’s hand, conferenza pronunciata nel marzo 1985 presso la Loyola University di Chicago in occasione di un convegno organizzato da John 100 possano manifestare in sé stessi: si tratta comunque di un linguaggio umano, soggettivo, non si esce quindi dal soggettivismo; c’è sempre uno scarto insuperabile fra il linguaggio e l’essere; il linguaggio umano non è quello della Natura che ne comprende molteplici non umani; non si esce dagli errori di prospettiva umana attribuendoli all’essere o alla Physis. Si riducono quindi le cose a logos umano e si ricade comunque in una metafisica idealistica e soggettivistica umana: Derrida chiama questa prospettiva “logocentrismo”, o “fallogocentrismo” evidenziando gli aspetti patriarcali e maschilisti di questa cultura del logos, o anche “carno-fallogocentrismo” facendo riferimento agli aspetti del logos come linguaggio umano, specista, antropocentrico modellato sul carnivorismo e sulla fagocitazione umana di altri esseri viventi.82 Tuttavia, la proposta “positiva” di Derrida di risalire a una “archiscrittura” originaria, precedente il linguaggio e la scrittura fonetica, a una scrittura iconica, ideogrammatica, indipendente dai soggetti parlanti, indagata dalla scienza della grammatologia83, non permette di oltrepassare comunque la soggettività umana e chiude la possibilità di qualunque accesso alle cose stesse, riducendo tutto il sapere a un gioco scritturale che non è esente da un’ideologia, da una metafisica trascendentale che non permette nemmeno alcun accesso etico alle cose e al mondo84. Sallis, e successivamente pubblicata negli atti del convegno Deconstruction in Philosophy, University of Chicago Press, Chicago 1987; poi come La main de Heidegger (Geschlecht II), in J. DERRIDA, Psyché. Invention de l’autre, Éditions Galilée, Paris 1987; tr. it. di G. Scibilia, La mano di Heidegger, in J. DERRIDA, La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 31-79; J. DERRIDA, Heidegger’s Ears. Geschlecht IV: Philopolemology (conf. del settembre 1989 alla Loyola University di Chicago), in J. Sallis (a cura di), Reading Heidegger. Commemorations, Indiana University Pr., Bloomington – Indianapolis 1993, tr. it. di G. Chiurazzi, L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia, in J. DERRIDA, La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 81-170; J. DERRIDA, Heidegger et la question. De l'esprit et autres essais, Flammarion, Paris 1990; J. DERRIDA, De l'esprit: Heidegger et la question, Galilee, Paris 1987; tr. it. di G. ZACCARIA, Dello spirito: Heidegger e la questione, Feltrinelli, Milano 1989. 82 J. DERRIDA, <<Il faut bien manger>> ou le calcul du sujet, intervista con Jean-Luc Nancy, in Cahiers Confrontation 20, 1989, ripresa poi come Après le sujet qui vient in Points de suspension, Galilée, Paris 1992; J. DERRIDA, Après le sujet qui vient in Points de suspension, Galilée, Paris 1992 ; J. DERRIDA, L'animal que donc je suis, a cura M.-L. Mallet, Galilée, Paris 2006, tr. it. di M. ZANNINI, a cura di G. DALMASSO, L'animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006. 83 J. DERRIDA, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, tr. it. di R. BALZAROTTI et al., Della grammatologia, Jaca Book 1969. 84 Si veda anche la critica di Habermas a Derrida: J. HABERMAS, Il sopravanzamento della filosofia temporalizzata dell’originario: la critica di Derrida al fonocentrismo, in Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Surkhamp, Frankfurt am Main 1985; tr. it. di Emilio & Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987, terza edizione 1991, pp. 164-188. 101 12. Luce Irigaray e la filosofia di genere Luce Irigaray (1930) ha tentato di dare concretezza al discorso di Derrida sul fallogocentrismo, fondando una vera e propria filosofia femminista della differenza sessuale (Speculum. L’altra donna, 1974; L’oblio dell’aria, 1983; Amo a te, 1992; Essere due, 1994; La via dell’amore, 2002; Condividere il mondo, 2008) cercando di de-costruire soprattutto la centralità del fallo maschile nel pensiero psicoanalitico di Sigmund Freud (1856-1939) e di Jacques Lacan (1901-1981) e in generale in tutto il pensiero filosofico occidentale, e di gettare le basi di un nuovo linguaggio e di una nuova cultura dell’amore non maschilista. Il rapporto fondamentale nella formazione psicologica della personalità e dell’identità e della differenza sessuale è il rapporto con la madre: all’origine della civiltà ci fu non l’assassinio del padre, come per Freud, ma della donna madre, e questo fu l’atto inaugurale di una società e di una cultura patriarcali e maschiliste, basate sulla negazione del femminile. All’ordine simbolico lacaniano del logos del padre e del fallo va sostituito, con Julia Kristeva (1941) (Séméiôtiké. Ricerche per una semanalisi, 1969; La rivoluzione del linguaggio poetico, 1974), l’ordine semiotico della madre e della donna, delle immagini del linguaggio dell’inconscio femminile, rimosso dalla coscienza maschile. 102 13. La tradizione italiana “Si può dire che il tratto peculiare del pensiero italiano della prima metà del Novecento sia la sua integrale storicizzazione. Con questo termine non mi riferisco soltanto alla consapevolezza, pure netta nei suoi principali esponenti, della determinatezza storica della propria, come di ogni altra, filosofia; quanto piuttosto alla tendenza, tacita o proclamata, a farsi esso stesso storia o, per usare un’espressione più carica di risonanze, ‘pensiero in atto’ – inteso nel senso, insieme dell’azione e dell’attualità...Rompendo con una concezione tradizionalmente intellettualistica, il pensiero italiano novecentesco si ricollega, nello stesso tempo, ai caratteri profondi della propria genealogia. E ciò non solo perché porta a compimento la vocazione pratica, o civile, che fin dalle sue radici la connota. Ma anche perché fornisce una risposta radicale alla questione, posta drammaticamente nella stagione precedente, dello scarto insanabile tra ‘la scienza e la vita’ – dell’eccedenza che quest’ultima manifesta rispetto a tutti i tentativi di comprenderla concettualmente. La soluzione adesso avanzata sta nel ribaltamento dell’ottica con cui il problema era stato fino allora guardato: anziché cercare, invano, di costringere la vita nei parametri formali della filosofia, conferire alla filosofia i caratteri concreti della vita. Per potere attingere una falda vitale refrattaria alla dimensione del concetto, un pensiero che voglia essere all’altezza del proprio tempo non può che calarsi in essa, facendosi appunto ‘pensiero vivente’. Ma perché ciò sia possibile – è l’ultimo, e più drastico, passaggio del ragionamento – esso deve incrociare la politica o, meglio, riscoprire la propria costitutiva politicità. Solo in questo modo, operando praticamente nel mondo, la filosofia può davvero rivitalizzarsi, riconoscersi in una storicità che fa tutt’uno col movimento inesauribile della vita...condiviso il progetto di fare della pratica filosofica una potenza storica destinata a cambiare il mondo”. Così, Roberto Esposito descrive il pensiero filosofico italiano del Novecento 85. La filosofia italiana si ripropose il compito di delineare il carattere pratico di tutta la filosofia, non solo della filosofia della Natura e della storia: tutta la filosofia si deve trasformare in filosofia pratica. Rispetto al grande paradigma greco-tedesco dominante in filosofia, quello teoretico, la 85 R. ESPOSITO, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, pp.150-151. 103 filosofia italiana non poteva che risultare teoreticamente povera, ma questo è un giudizio in base a un presupposto che invece dovrebbe essere dimostrato. In Italia, che non ha vissuto la riforma protestante ma ha avuto solo l'umanesimo e il rinascimento, oltre la scienza galileiana, questa opposizione di pensiero e fede non c'è mai: anche il contrasto galileiano è esteriore, perché Galileo tenta una conciliazione fra pensiero e fede, come Bruno, non mettendo limiti alla ragione per la fede, ma semplicemente ponendo una distinzione di due ambiti ermeneutici separati ma illimitati: da una parte il libro della Bibbia, dall'altro il libro della Natura, dove questo non è più fruibile secondo la vecchia metafisica greca teoretica ma dalla prassi di un soggetto scientifico universale senza bisogno di soggettivizzare individualisticamente la fede che resta legata alla comunità della Chiesa cattolica-universale. Così, in Italia, l'esito della modernità non sarà anti-religioso o post-religioso e ateo come in Germania (o in Francia che ha conosciuto la rivoluzione) attraverso una secolarizzazione che rifonderà la modernità in senso deistico o panteistico o ateo, ovvero non-cristiano, ma sarà cristiano-cattolico laddove, oltre la persistenza di una metafisica neo-scolastica o ontologica cattolica, anche il più radicale immanentismo, da una parte, dell'attualismo di Gentile si qualificherà come cristiano-cattolico, e, dall'altra parte, dello storicismo di Croce arriverà alla spiegazione del Perché non possiamo non dirci cristiani (1942), in una secolarizzazione e in un laicismo che si presentano non anti-cristiani ma come inveramenti filosofici del Cristianesimo. La filosofia italiana non parte da Bruno, ma dalla rivoluzione gioachimita e francescana, da una parte all'origine della storia dello spirito in cui si spiritualizza la storia e si storicizza lo spirito, e d'altra parte all'origine del volontarismo e della prassi di vita, distruttrici della metafisica greca e all'origine dell'umanesimo e del rinascimento. Posta sul piano strettamente storico degli eventi, la modernità si presenta con varie facce perché in alcuni contesti ci sono stati certi eventi come la Riforma che ha prodotto l'opposizione fra ragione e fede, e in altri contesti come quello italiano cattolico non ci sono stati; e questo, come fa notare Esposito con strumenti di geofilosofia deleuziana più che nazionalista hegeliana o poi spaventiana, indipendentemente dalla costituzione di uno stato nazionale che in Italia si è formato solo dopo con 104 il Risorgimento, e quindi anche la secolarizzazione politica (con la negazione del potere temporale della Chiesa e la confisca dei suoi beni e la riduzione ad un punto geometrico del suo territorio di sovranità) è arrivata molto più tardi. Ma in chi si realizzò effettivamente questo progetto di una filosofia pratica? In Italia, fu Giovanni Gentile (1875-1944) con il suo libro su La filosofia di Marx (1899) a enfatizzare la prospettiva di Marx come una filosofia della prassi. Maurice Blondel (1861-1949), oltre e diversamente da Marx, aveva pure cercato di ritematizzare l’importanza fondamentale dell’azione per la filosofia86 e insieme ad altri esponenti del modernismo cristiano del primo Novecento ebbe una certa influenza sulla filosofia italiana. 86 M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris 1893 e poi Puf, Paris 1950, 1973; tr. it. a cura di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, 1997. 105 14. Lo storicismo di Benedetto Croce Anche Benedetto Croce (1866-1952) ebbe, in qualche modo, un percorso parallelo e divergente insieme da quello di Gentile. Tanto che si parla, per riferirsi ad essi congiuntamente, di neoidealismo italiano. Il loro pensiero è stato messo da parte nel dopoguerra e poi dimenticato: la qualifica di Gentile quale filosofo del fascismo è stata certo determinante, ma ancora di più la volontà di chiudere i conti con il fascismo in una maniera netta ma superficiale, condannando tutta la cultura italiana di quel periodo come arretrata e chiusa alle istanze esterne. Nel dopoguerra, in Italia, sono dilagate le mode di praticamente tutte le correnti di pensiero non-italiano, dall'esistenzialismo all'ermeneutica, dal marxismo alla fenomenologia, dal neo-positivismo alla filosofia analitica. Croce fu soprattutto uno storico e fece coincidere la storia con la filosofia. C’è l’influenza della teoria di Vico del verum/factum. Se la filosofia è conoscenza della realtà e la realtà si presenta all’essere umano nella storia, allora la filosofia non può che identificarsi con la stessa storia. Non fu un professore universitario e scrisse soprattutto sulla rivista da lui fondata nel 1903, La critica, cui collaborò anche Gentile fino alla rottura del 1924. Fu senatore, presidente del partito liberale ed ebbe grande influenza sulla storia politica italiana, dal 1925 con il suo manifesto degli intellettuali antifascisti a dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1893 pubblicò La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Anche Croce iniziò a misurarsi con Marx, su spinta anche di Gentile, con dei saggi scritti fra il 1896 e il 1899 poi raccolti in un volume: Materialismo storico ed economia marxista è del 1900. Seguirono nel 1902 Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, nel 1905 Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, nel 1906 Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, nel 1909 Logica come scienza del concetto puro e Filosofia della pratica. Economia ed etica, nel 1915 Contributo alla critica di me stesso, nel 1917 Teoria e storia della storiografia, testi in cui si dipanava quella che chiamò “filosofia dello spirito”. Lo spirito andava inteso, sulla scia della riforma dell’hegelismo tentata da Bertrando Spaventa (1817-1883), come soggetto conoscente umano e non più come lo spirito assoluto di Hegel. La 106 storia come l’arte riguarda il concreto individuale ed è il risultato dell’azione degli esseri umani concretamente esistenti. Croce concretizza la concezione della conoscenza come prodotto del processo storico di Hegel, anche attraverso la ripresa della prospettiva del materialismo storico che non aveva accettato gli schemi ideali aprioristici di spiegazione: si trattava di de-teologizzare e di de-metafisicizzare la filosofia di Hegel. L’analisi marxiana del capitalismo è, invece, per Croce, legata a un presupposto morale di giustizia, perché anche la teoria del plusvalore non tiene conto, per esempio, di un fattore come il ruolo del capitale nella formazione del valore della merce. La prima distinzione fra le attività dello spirito è quella fra attività teorica che riguarda la conoscenza e attività pratica che è legata a obiettivi da realizzare nell’azione. Estetica e Logica costituiscono rispettivamente la conoscenza dell’individuale e la conoscenza dell’universale. Le attività pratiche sono l’economia come volizione dell’individuale e l’etica come volizione dell’universale. La volizione effettiva coincide con l’azione. Ma mentre l’azione deriva dalla volontà del singolo, l’accadimento storico deriva dal complesso di tutte le volontà individuali, del tutto, ovvero dello spirito universale. A queste quattro forme d’attività dello spirito corrispondono quattro categorie, quella del bello, del vero, dell’utile e del buono. Fra queste quattro forme, vi è circolarità dello spirito, l’una presupponendo l’altra o convertendosi nell’altra, senza bisogno di un rinvio a una realtà esterna. La filosofia non ha un ruolo trascendentale al di là di queste attività dello spirito, ma il suo tipo di conoscenza si dà solo all’interno di queste forme di attività: non costituisce un sapere separato. L'arte, per Croce, è il momento aurorale dello spirito, come emergere dell'intuizione-immagine dalla notte della psiche, il “sogno della vita teoretica”: è legata a quella speciale forma di conoscenza creativa che è l'intuizione, una forma di pensiero per immagini che si oggettivano in un'espressione, una conoscenza immediata e pre-logica, pre-concettuale che non distingue fra fantasia e realtà, una forma di attività dello spirito autonoma dalle altre (erronee sono perciò le estetiche edonistiche, utilitaristiche o etiche che subordinano il bello all’utile o al buono): si tratta di un'attività espressiva interiore che solo secondariamente si estrinseca in delle opere; da questo punto di vista, non c'è più 107 distinzione delle arti, ma solo delle opere artistiche. Nel Carattere lirico dell’intuizione artistica del 1908, nel Breviario di estetica del 1912, in Il carattere di totalità della espressione artisitica (1917) e in La poesia del 1936 si fa strada l'idea della cosmicità dell'arte come sintesi a priori di sentimento e immagine e della critica come sintesi di pensiero e di sensibilità, ovvero sintesi di contenuto e forma: laddove il sentimento ha una catarsi in un’immagine pura, qui pure si mostra la presenza di motivi trascendentali nella filosofia di Croce, che, pur presentandosi come uno storicismo legato alla storia concreta, presenta dei tratti di trascendentalismo nel riconoscimento del ruolo attivo del soggetto conoscente nella conoscenza storica. Il linguaggio ha un’origine fantastica o poetica, e, in questo senso, ogni essere umano che esprime il suo vissuto in immagini fa poesia: homo nascitur poeta. La logica, invece, come conoscenza dell'universale, è una conoscenza per concetti, che però presuppone la conoscenza intuitiva individuale propria dell'estetica: i concetti sono come delle idee platoniche incarnate nelle cose individuali, come le forme aristoteliche, che Croce indica come universali concreti. Concetto è la bellezza o la bontà, ma non 'cane' o 'casa' che sono 'pseudoconcetti', in quanto legati a una molteplicità di intuizioni individuali non sussumibili in un universale: si tratta di 'pseudo-concetti' empirici. Ci sono poi anche degli universali non concreti e non esperibili, come le forme matematiche, per esempio geometriche, che sono dei 'pseudo-concetti astratti'. Così, le scienze naturali empiriche sono legate a pseudo-concetti empirici, e fanno parte dell'attività pratica dello spirito e non hanno quindi valore teoretico o conoscitivo; le scienze matematiche sono legate a pesudo-concetti astratti e sono vuote di contenuto e quindi solo strumenti utili per attività pratiche, per contare o misurare. Che Croce non abbia compreso pienamente la portata filosofica della scienza moderna, vedendone solo l’aspetto strumentale, di contro a una presunta vera universalità concettuale filosofica è certo e che abbia contribuito a un paradigma dominante di sottovalutazione della scienza è altrettanto vero, ma che Croce o l’idealismo abbiano contrastato o ritardato lo sviluppo della scienza è impossibile, perché la scienza italiana di quell’epoca non è seconda a quella di alcun altro paese: è la 108 storiografia del dopoguerra giustamente autocritica, ma pure negativamente distruttiva dell’identità culturale italiana, ad aver creato un falso problema. La logica non è più anteposta alla fenomenologia come in Hegel, cioè non si dà indipendentemente dalla vita dello spirito. La filosofia non è, come in Hegel, una sintesi finale in cui si ha la fine della storia. Il pensiero filosofico è quindi un pensiero superiore che articola verbalmente concetti in un linguaggio, che dà loro forma di giudizi universali o individuali: la filosofia è quindi un sistema di concetti che attraverso un giudizio universale costituisce delle idee, ma trova espressione in giudizi individuali storici, in cui elemento logico universale dei concetti ed elemento empirico individuale si legano in una sintesi della conoscenza storica che, nel Croce maturo, si distingue quindi dall'arte come conoscenza meramente intuitiva ed individuale: la filosofia è sintesi apriori logica di concetto ed intuizione. La filosofia è storia e muta storicamente: non si può costruire quindi una metafisica che dia accesso a verità eterne sovra-storiche, né esiste una filosofia definitiva che valga sempre: la filosofia è la stessa storia dello spirito in tutte le sue forme di attività, e si concretizza, in un dato momento, come risposta ai problemi di quel momento. Questa storia non si presenta, come in Hegel o in Marx, come una mera dialettica degli opposti, ma piuttosto come una dialettica anche dei distinti (lo spirito è unità dei distinti, di cui ognuno è sintesi di opposti), come arte, religione e filosofia, in un superamento del panlogismo hegeliano che aveva decretato la risoluzione di tutte le attività dello spirito nella filosofia. Il concetto senza l'intuizione è vuoto. L'economia è una forma autonoma di attività pratica dello spirito, che tende all'utile, mentre l'etica (Croce sviluppa un'etica del lavoro) dipende dall'economia nel legare il bene all'utile senza ridurlo però all'utile. La religione è ridotta da Croce all'etica, alla filosofia e per i miti alla poesia e all'estetica, come all’economia per l’organizzazione ecclesiastica. Il diritto e la politica si riducono in qualche modo all'economia con l'uso di pesudo-concetti: non c'è primato dello stato sugli individui, ma è fondamentale la volontà individuale. La storia però non è dei singoli, ma 109 dell'umanità nel suo complesso. Le res gestae si danno solo nell'historia rerum gestarum, nella storiografia come conoscenza dell'universale concreto: la filosofia si qualifica quindi come quella parte della storiografia che è la sua metodologia, il chiarimento delle sue categorie di conoscenza. La storia è sempre contemporanea nel senso che ha a proprio oggetto l'attività pratica dello spirito, l'azione etica e politica per l'interesse che il passato può avere per il presente: non giudica eticamente, non è giustiziera, ma giustificatrice nella comprensione degli eventi. Ma, nei saggi che compongono La storia come pensiero e come azione (1938), è sottolineato il ruolo emancipatorio della storia per fondare l'azione efficace nella storia, per la lotta contro il “male” e per il progressivo realizzarsi della libertà; Croce delinea così una “religione della libertà” di una storia etico-politica come azione, anche in parte superando la visione hegeliana per cui coincidono essere e doveressere, realtà e razionalità con la riduzione della realtà del male a mero momento negativo della storia solo per opposizione e non in sé, tanto da fargli giustificare anche la guerra. Croce cambierà pensiero fino alla fine della sua vita, diventando meno ottimista e parlando di una forza bestiale che è sempre presente nell’umanità e che costituisce un’irredimibile peccato originale che può portare a La fine della civiltà (1946). 110 15. Giovanni Gentile e l’idealismo attuale Gentile cercò di riacquisire gli esiti marxisti ad un idealismo post-hegeliano: si trattava di riconoscere l’inconciliabilità della marxiana filosofia della prassi con la concezione del materialismo storico e di riacquisire all’idealismo la verità secondo cui “quando si conosce, si costruisce, si fa l’oggetto, e quando si fa o si costruisce un oggetto, lo si conosce; dunque l’oggetto è un prodotto del soggetto”. Così, Gentile, ribadendo la posizione di Vico ne assumeva anche l’inversa. Si spostava così dalla statica idea platonico-hegeliana al processo concreto del pensare, considerando il pensiero una vera attività, in cui unitariamente stabiliva un’identità di teoria e prassi; si trattava di ristabilire la dialettica dello spirito come actus purus, differente dall’actum aristotelico statico in quanto potenzialmente infinita attività dinamica. Questa è la filosofia dell’attualismo, del pensiero come atto puro. Il riferimento di Gentile è alla Riforma cattolica di Gioberti del 1856-1857, e al modernismo cattolico: alla poligonia del cattolicesimo come universalismo che contiene tutti. Invece, per Gentile non c’è opposizione fra pensiero e fede, ma fra pensiero greco e fede. Gentile, nel 1906, scrive I saggi di filosofia dell’azione del Laberthonnière, compreso in Il modernismo fra religione e filosofia, e contrappone all’idealismo greco antico, quello moderno, cristiano, che considera la verità non statica o già fatta, ma dinamica, storica come nella rivelazione, e Dio stesso non quello greco immobile, perché Dio agisce e ama, s’incarna, come avrebbe compreso Hegel nella fenomenologia. La soggettivizzazione fichtiana dell'hegelismo operata da Bertrando Spaventa e compiuta in Gentile lo ha de-realizzato, risogettivizzando l'idealismo, e ha ricondotto la storia del mondo a storia dell'essere umano come nella materializzazione marxista della dialettica storica hegeliana, ma trasponendo il piano della prassi sul piano del pensiero, dando concretezza al pensiero, anche politica o etica, ma allo stesso tempo riducendo la storia, la politica, l'etica alla dimensione del pensiero. L’essere di Gioberti diviene così immanente al pensiero. Gentile contrapponeva al 111 materialismo della cultura illuministica francese una nuova prospettiva religiosa che s’inverava nella filosofia e che riprendeva lo spiritualismo di Rosmini e Gioberti. L’attualismo o idealismo attuale, preannunciato nel 1911, vede in una pubblicazione del 1912, L’atto del pensare come puro. Nel 1913 escono i saggi della Riforma della dialettica hegeliana e il Sommario di pedagogia come scienza filosofica. Nel 1916 appare la Teoria generale dello spirito come atto puro, insieme a I fondamenti della filosofia del diritto. Il Sistema di logica come teoria del conoscere è in due volumi, il primo del 1917 e il secondo del 1923. Si tratta di un soggettivismo immanentistico assoluto, che rende la storia, la natura e Dio come immanenti al pensiero. La stesso spazio e lo stesso tempo non sono più i connotati materiali dell’attività pensante, ma sono prodotti del pensiero. Alla dialettica del pensato di Hegel, Gentile contrappone la dialettica del pensiero pensante, al logo astratto un logo concreto che non presuppone astrattamente un mondo dato indipendentemente dal pensare stesso: questo comporta che la fenomenologia dello spirito non presuppone la logica come sua legge apriori, ma la logica si dipana nella stessa fenomenologia. Per Gentile, la logica aristotelica è la logica del logo astratto, mentre la logica dialettica hegeliana è la logica del logo concreto. L’altro dal pensiero è quindi posto dal pensiero stesso e non può essere altro che il pensiero pensato, che si è fissato ed è diventato fatto, natura. Per poterci essere dialettica, però, la sintesi non può essere finale, ma originaria, altrimenti non ci potrebbe essere movimento da un opposto all’altro, che costituiscono dei pensati e come tali sono fissi. Il pensiero pensante racchiude in sé soggetto e oggetto del pensiero. Conoscere è quindi riconoscere nel pensiero pensante l’identità degli opposti, in qualche modo identificare e inglobare l’alterità nell’identità: gli altri non esistono realmente fuori dall’io trascendentale. Il pensiero pensante, l’atto stesso del pensare è però il soggetto trascendentale e non l’io empirico che è un dato: si tratta quindi di un processo autocostruttivo e non una sostanza statica. Comunque, questa prospettiva rischia non solo di risolversi in un solipsismo trascendentale, ma anche di risolvere la stessa dialettica nell’identità, come anche di risolvere il male a una mera astrazione superata dal bene attuale. 112 Le scienze naturali ricadono quindi nel logo astratto, riducendo ad oggetto, a dati empirici di soggetti empirici, la natura: la Natura vera, cioè la realtà, si deve identificare invece con la stessa attività dello spirito e la vera scienza con la filosofia del pensiero pensante. Le scienze naturali costituiscono delle astrazioni che hanno valore meramente pratico, e che inglobano in sé una posizione filosofica naturalistica, materialistica e meccanicistica. L’arte rappresenta il sentimento come soggettività, la religione, a quella antitetica, la negazione del soggetto in quell’oggetto che è Dio. La vera arte si realizza con la sua morte e il suo dissolversi nella sintesi della filosofia. Lo stesso vale per la religione. La filosofia fonde insieme arte e religione in una sintesi che le supera, che è propria del pensiero pensante: laddove la religione pone un processo di creazione del soggetto da parte di Dio, cioè di eteroctisi, nella filosofia il soggetto trascendentale è artefice della propria auto-creazione, ovvero dell’autoctisi, e si rivela quindi come lo stesso Dio, non più concepito come un oggetto trascendente. La filosofia sostituisce alla rivelazione la conoscenza, alla grazia la volontà produttrice del bene, a Dio come oggetto trascendente un soggetto che si identifica misticamente con esso, all’immortalità dell’io empirico l’assenza di morte per l’io trascendentale. Il male è solo un momento nella dialettica del pensiero pensante, che nel momento in cui ne è consapevole lo supera come un errore. In questa prospettiva, Gentile riconosce al cristianesimo lo statuto della religione più alta, inverata dalla filosofia: infatti, il dogma dell’incarnazione, ovvero il dogma dell’Uomo-Dio in qualche modo è considerato inverato in quel processo del pensiero pensante in cui io umano e Dio vengono a coincidere. La stessa pedagogia di Gentile considera l’educazione come auto-educazione e riduce in qualche modo l’altro da educare alla soggettività dell’educatore che lo pensa. Se la storia è anche interna al pensiero pensante, allora non c’è differenza fra res gestae e historia rerum gestarum: la storia s’identifica con la stessa storia della filosofia, e quindi con la filosofia in quanto processo del pensiero pensante: così per fare filosofia occorre fare storia della filosofia e per fare storia della filosofia occorre fare filosofia. 113 Per Gentile, c’è quindi una profonda unità dello spirito e non si devono distinguere varie forme di attività come in Croce: non c’è neppure possibile distinzione fra teoria e prassi, perché il conoscere è un fare. In effetti, però, Gentile riduce la prassi a teoria, più che la teoria a prassi: al di là dei giochi di parole, che vorrebbero ridefinire il pensiero pensante come un’attività pratica, costruttiva e non passiva come la contemplazione, si tratta sempre di un’attività teoretica che ha fagocitato dentro di sé la prassi come prassi del pensiero. Nel 1943, nel momento in cui si istituisce la repubblica di Salò, Gentile scrive Genesi e struttura della società, pubblicato poi postumo nel 1946. Qui, si confronta con il tema della società e dello stato etico hegeliano: neanche in questo caso però riesce a superare la sua posizione di soggettivismo immanentistico, per cui la società è già e solo contenuta all’interno dell’io trascendentale. Si tratta quindi di una società trascendentale (societas in interiore homine) e l’eticità è già tutta dispiegata nel pensiero pensante dell’io trascendentale: l’unità di logica ed etica è quindi considerata in termini di una riduzione dell’etica alla logica dialettica. Lo stato è la coscienza del volere come volere comune e universale, e non è quindi un dato istituzionale, ma un atto stesso che crea la nazione. La legge è volontà voluta dallo stato come autocoscienza del soggetto trascendentale come volontà universale, come volontà volente universale, a cui devono subordinarsi le volontà individuali. Non si può definire una libertà individuale al di fuori della società trascendentale che si costituisce in stato, e la vera libertà è una libertà che riconosce consensualmente allo stato il diritto di una forza coattiva degli individui. L’etica politica di Gentile trova così la sua forma più alta nello stato etico, portando a una legittimazione dello stato totalitario fascista. Certo, il fascismo di Mussolini è soprattutto prassi rivoluzionaria e poi statale che legittima la violenza, ma non su un piano ideale che come tale è ancora marxianamente inteso come ideologia che costituirebbe un’astrazione teorica dall’effettiva azione politica: non si può quindi identificare con il neo-idealismo gentiliano, che, però, attraverso l’affermazione dell’identità di teoria e prassi e della società trascendentale con lo stato etico-politico ne costituì un personale tentativo di legittimazione ideologica. 114 16. Dopo Croce e Gentile Antonio Gramsci (1891-1937) ebbe un’esistenza condizionata dalla condanna e dal carcere dove fu dal 1928 alla morte per attività anti-fascista; ne nacquero i cosiddetti Quaderni del carcere in cui si trovano le sue riflessioni più mature. Cercò una via personale al marxismo: fece proprie le istanze gentiliane di identificazione di teoria e prassi, ribaltandola marxianamente in una filosofia della prassi materiale; allo stesso modo, fece proprie le istanze della storia etico-politica di Croce che lo portarono a una rivalutazione, rispetto alla storia puramente economica marxiana, del momento dell’ideologia rivoluzionaria, non considerata più come una mera sovrastruttura passiva, ma come un’attività in grado di produrre un cambiamento della struttura economica della società, svolgendo un ruolo di egemonia culturale: l’intellettuale deve risultare organico al partito e all’azione rivoluzionaria. Mentre il pensiero di Croce, nonostante la qualifica del suo pensiero come una filosofia non definitiva e contingente, come risposta storica a particolari problemi storici, diede vita, da parte dei suoi allievi, sostanzialmente a una scolastica crociana, il pensiero di Gentile, o meglio, l’attualismo si configurò come un movimento volto alla concretezza del pensiero, anche in direzioni molto diverse da quella di Gentile. Si distingue solitamente una destra gentiliana, sostanzialmente volta a riaprire una metafisica ontologica cattolica: legati a questa tendenza si possono ricordare Armando Carlini (1878-1959) e Augusto Guzzo (1894-1986). Si può poi anche ricordare Vincenzo La Via (1895-1982), che, data la coincidenza di pensiero e realtà nell’attualismo, lo trasformò in un “realismo attuale” in cui non è l’essere ridotto al pensiero, ma è il pensiero a essere ricondotto a un darsi dell’essere, con tratti simili alla posizione di Heidegger in cui vi è rivelazione dell’essere nel pensiero. Alla sinistra gentiliana, si riconducono l’idealismo etico di Giuseppe Saitta (1881-1958), il problematicismo di Ugo Spirito (1896-1979), che arriva a conclusioni che riconducono la filosofia e il pensiero in atto allo spirito scientifico problematizzante tutto. Anche Guido Calogero (19041986), viene legato alla sinistra gentiliana e all’attualismo. Tuttavia, il fraintendimento 115 dell’attualismo come movimento con l’idealismo attuale di Gentile, ha fatto sì che il pensiero di Calogero venisse appiattito su quello di Gentile, senza che si comprendesse che ne costituiva un’alternativa radicale. 116 17. Guido Calogero e la filosofia del dialogo Guido Calogero (1904-1986) nasce a Roma nel 1904. Il padre, Giorgio, di origini messinesi, studioso di letteratura francese, si era però interessato di filosofia etica e politica su cui aveva pubblicato alcuni volumi, in particolare sul socialismo anarchico e sul pensiero di Tolstoj. La madre, Ernesta Michelangeli, era la prima donna laureata in lettere all’Università di Messina, aveva pubblicato un testo sulla donna in Grecia ed era figlia di Luigi Michelangeli, studioso e docente di filologia greca. Nel 1920, Guido, educato alla letteratura pubblicò il suo primo libro: di poesie. In università iniziò a studiare letteratura e filologia greca e solo dopo cambiò e studiò filosofia. Nel 1924 fece l’esame di storia della filosofia con Giovanni Gentile, mettendolo in difficoltà: portò tutto Platone in greco. Si laureò subito dopo, nel 1925, con Gentile con una tesi sulla logica di Aristotele: da questa tesi, nacque il volume su I fondamenti della logica aristotelica (1927). Ma già del 1925 era un saggio in cui aveva definito in una prima forma la sua filosofia (Coscienza e volontà). Ottenne la libera docenza in Storia della filosofia antica già nel 1927 (a ventitré anni) e andò con una borsa di studio ad Heidelberg. Poi fu per tre anni incaricato di Storia della filosofia antica all’università La Sapienza di Roma. Del 1928 è la traduzione e l’introduzione al Simposio di Platone. Già dal 1929 fu schedato come antifascista per attività sovversiva. Dal 1929 iniziò la collaborazione all’Enciclopedia Italiana Treccani fino al 1937, per cui scrisse migliaia di voci. Vinse la cattedra a 27 anni, nel 1931, e andò a insegnare a Firenze. Del 1932 sono gli Studi sull’eleatismo; nel 1934 si trasferì a Pisa dove nel 1935, finito lo straordinariato, fu nominato professore ordinario in Storia della filosofia. A Pisa iniziò a tenere corsi anche alla Scuola Normale. Non poté trasferirsi in altre università per la mancata adesione al partito fascista. Nel 1937 ottenne la laurea in giurisprudenza a Siena, anche temendo l’espulsione dall’università: già dal 1937 infatti aveva iniziato l’attività clandestina, ponendosi come un punto di riferimento per l’elaborazione del Manifesto del liberalsocialismo, con Aldo Capitini (1899-1968) nel 1940. Pubblicò nel 1934-1936 il Compendio di Storia della Filosofia, La conclusione della filosofia del conoscere, è del 1938 (del 1960 è una seconda edizione ampliata). Del 1939 è La scuola dell’uomo (1956, in seconda edizione 117 ampliata), del 1944 Il metodo dell’economia e del marxismo, del 1945 la Difesa del Liberalsocialismo, del 1946 Etica, giuridica, politica, del 1947 Estetica, semantica, istorica, del 1948 Logica, gnoseologia, ontologia, tre volumi (scritti in gran parte in carcere) che costituiranno le Lezioni di Filosofia. Calogero fu arrestato il 27 Gennaio del 1942 a Firenze, sospeso e poi destituito dalla cattedra universitaria. Poi fu condannato a 2 anni di confino e mandato al confino a Scanno, negli Abbruzzi. Fu liberato, ma nel 1943 fu di nuovo recluso nel carcere di Bari e liberato solo dopo la destituzione di Mussolini del 25 Luglio. Fu poi reintegrato come docente all’università di Pisa, mentre nella prospettiva liberalsocialista, in contrasto con Croce, fondò il Partito d’Azione nel 1942-43. Dal 1948 al 1950 fu visiting professor in Canada e negli Stati Uniti. Una sua nuova prospettiva filosofica è presentata in Logo e dialogo che è del 1950, e poi nella Filosofia del dialogo del 1962. Dal 1950 al 1955 fu direttore dell’istituto italiano di cultura a Londra. All’università di Roma tornò ad insegnare Storia della filosofia antica dal 1950 al 1954 e fino al 1966 Storia della filosofia, e poi passò a Filosofia Teoretica che insegnò fino al 1975, e nel 1981 divenne professore emerito. Nel 1967 era apparsa la Storia della logica antica, sui presocratici. Le sue pubblicazioni appurate sono più di duemila. E' molto importante questa doppia formazione insieme a questa doppia tipologia di ricerca, da una parte di storia della filosofia, in particolare antica, e di filosofia teoretica, che lo ha sempre caratterizzato. La visione della storia della filosofia, che Calogero si è fatto e che trova un primo compimento nell'opera didattica del Compendio di Storia della filosofia, è quella che è stata seguita fin qua: si tratta appunto del riconoscimento dell'intellettualismo greco che si contrappone al volontarismo cristiano. Nel momento in cui il volontarismo cristiano, dopo la parentesi conciliativa medioevale, si emancipa dalla filosofia teoretica pura espressione dell'intellettualismo greco, sorge la modernità: il pensiero moderno è un inveramento filosofico della prospettiva cristiana della fede. Ma questo non è che lo schema generale. 118 Calogero è stato considerato quasi sempre essenzialmente come storico della filosofia antica, mentre la sua produzione teoretica è stata sottovaluta. La filosofia di Calogero è stata spesso considerata come una mera variazione della posizione di Gentile: questo è accaduto anche per l’iniziale presentazione del suo pensiero come il vero attualismo. Eventualmente, gli si è riconosciuto il tentativo di integrare all’interno della prospettiva di Gentile quella di Croce: anche in questo caso presentato dallo stesso Calogero come una sorta di inveramento del crocianesimo; per cui sostanzialmente la sua filosofia non sarebbe originale, ma una sorta di sintesi, più o meno plausibile o riuscita, di quelle due prospettive. In verità, negli anni, Calogero ha operato una distruzione del neo-idealismo italiano di Gentile e di Croce, e con questo, considerato come culmine di tutta una tradizione filosofica occidentale, greca e intellettualistica, di tutta la filosofia nella sua mono-logicità e prospettato una nuova filosofia del dialogo. 17.1 La storiografia come dialogo Prima di entrare nei dettagli degli esiti della sua ricerca storiografica, si può brevemente delineare la sua “metodologia”. Seppure la tematizzazione esplicita del dialogo come forma di “approccio storiografico” sarà successiva alla formulazione della prospettiva della “filosofia del dialogo” del 1950, si può considerare già dagli inizi il suo lavoro storiografico nei termini di un’ermeneutica dialogica. Qualsiasi testo va compreso risalendo al senso legato alle intenzioni dell’autore, il che implica la conoscenza di tutte le competenze linguistiche, storico-contestuali, culturali necessarie. Non si può considerare il testo scritto come un in sé, indipendentemente dall’autore. Fermarsi al solo testo significa eliminare l’alterità che in esso si esprime: dare al testo un senso diverso da quello voluto dall’autore non è solo forzare il testo, ma rifiutarsi di comprendere l’altro che lo ha scritto, fare violenza all’altro. Il primo principio ermeneutico non può che essere il principio etico di rispetto e comprensione dell’altro. In nessun modo si può evitare la soggettività della comprensione: superare il soggettivismo rinunciando al senso, come proprio della prospettiva di Derrida e dello strutturalismo, è del tutto impossibile. Bisogna superare l’illusione di una storiografia oggettivistica 119 di un testo o di un autore: qualsiasi forma di comprensione è legata all’esperienza, alla cultura e alla filosofia del soggetto interpretante. La violenza non sta nel voler attribuire un senso a un testo, ma nel non voler comprendere il senso dell’altro, nel disseminare il senso in un nichilismo ermeneutico, come in Derrida. Si tratta invece di aprire un dialogo fra il soggetto interpretante e il soggetto scrivente che non va mai ridotto all’oggettività impossibile di un testo. Così, in particolare, fare storia della filosofia è far dialogare la propria prospettiva filosofica con quella dei filosofi studiati ricompresi nella loro soggettività: questo permette di ridare rilevanza filosofica alla storia della filosofia, che non si limita a una mera analisi storica erudita di qualcosa di passato, ma si caratterizza esplicitamente, come sempre non può non essere, quale una storia filosofica della filosofia senza sovrapposizioni non esplicitate del proprio pensiero interpretante a quello interpretando. 17.2 La storia della logica antica La Storia della logica antica di Calogero, pubblicata nel 1967, contiene parti rilevanti già pubblicate negli anni trenta. Esprime la consapevolezza che la storia della filosofia antica non si contrapponga effettivamente alla storia della filosofia moderna, per la prevalenza del carattere ontologico della prima e del carattere gnoseologico della seconda, ma solo per la indistinzione e non-separazione nella prima di ontologia, logica e gnoseologia, e, per i pre-socratici, della realtà e della verità del pensiero visivo e della parola. Il pensiero arcaico è importante per comprendere gli inizi della filosofia in Grecia, gli autori presocratici.87 Come già accennato, si tratta essenzialmente di un pensiero visivo per immagini, in cui ciò che è intuito, visto, è identificato con il reale: pensato e reale coincidono. Il pensiero animale è un pensiero visivo, un pensiero sensibile, non un pensiero verbale basato sul linguaggio: non c’è negli altri animali una sintesi fra funzione intellettiva e funzione comunicativa, in cui il linguaggio è diventato il supporto su cui articolare il pensiero. Il pensiero animale è un pensiero noetico, legato all’intuizione-visione, un pensiero intellettivo-intuitivo per immagini, e non 87 G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967. 120 un pensiero dianoetico88 di una ragione articolata su un linguaggio: un pensiero senza analisi e sintesi linguistico-concettuali di esperienze percettive per mezzo delle immagini, inutile per la vita nella sua immediatezza e legato a progettazioni di un dominio sistematico della Natura e degli altri esseri viventi. Anche l’essere umano ha un originario pensiero visivo89, ma a cui si è sovrapposto, fino quasi a nasconderlo e a renderlo inconscio, un pensiero verbale dominante: solo nei sogni, nelle azioni “automatiche”, nelle arti figurative, nell’immaginazione poetica, nelle figurazioni geometriche, si manifesta ancora un pensiero umano non-verbale, un pensiero umano visivo, per immagini, e che originariamente si era espresso in simbolismi ideogrammatici o geroglifici90. Conoscere è vedere e vedere ci restituisce immediatamente la realtà. Verità e realtà coincidono. I primi filosofi traspongono nel linguaggio una logica della visione, o logica noetica, che invero deriva da quel tipo di pensiero visivo che è la geometria antica sviluppata in un simbolismo ideogrammatico o geroglifico.91 Un tipo di logica che si basa sulla distinzione e sulle proprietà delle varie forme, cioè su un principio di determinazione. Solo quando si passò a una scrittura alfabetico-fonetico-lineare nacque la logica dianoetica, dal tentativo di innestare la logica noetica nel linguaggio. Il logos filosofico, che si va separando nel tempo dal mythos, nasce da questa esigenza di rigorizzare il linguaggio in una nuova forma di sapere sulla base di questa logica noetica matematica, in un primo tentativo analogo a quello posteriore della novecentesca filosofia matematica (possibile dopo la ri-matematizzazione della 88 La distinzione fra pensiero noetico e dianoetico è stata introdotta in: G. CALOGERO, I fondamenti della logica aristotelica, Le Monnier, Firenze 1927, seconda edizione La Nuova Italia, Firenze 1968, e poi è stata rielaborata in connessione alla distinzione fra una logica della visione e una logica della parola in: G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967; G. CALOGERO, Lezioni di Filosofia I-II-III: Logica-Etica-Estetica, Einaudi, Torino 1947, seconda edizione 1960, e, in particolare, vol. I, Logica, pp. 12-24. 89 G. CALOGERO, Lezioni di Filosofia I-II-III: Logica-Etica-Estetica (1942-1943), Einaudi, Torino 1947, 1960, e in particolare, vol. III, Estetica, pp. 164-178, 196-213. 90 A. LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole: I. Techinque et langage; II. La mémoire et les rythmes, A. Michel, Paris 1964-65, tr. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola, voll. I & II, Einaudi, Torino 1977, vol. I, pp. 221-254; E. R. A. GIANNETTO, Saggi di storie del pensiero scientifico, Sestante for Bergamo University Press, Bergamo 2005, pp. 19-22; E. GIANNETTO, Derrida, Leroi-Gourhan, la scrittura matematica e il carnologofallocentrismo, in A partire da Jacques Derrida, a cura di G. DALMASSO, Jaca Book, Milano 2007, pp. 109-120. 91 La distinzione fra pensiero noetico e dianoetico è stata introdotta in: G. CALOGERO, I fondamenti della logica aristotelica, Le Monnier, Firenze 1927, seconda edizione La Nuova Italia, Firenze 1968, e poi è stata rielaborata in connessione alla distinzione fra una logica della visione e una logica della parola in: G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967; G. CALOGERO, Lezioni di Filosofia I-II-III: Logica-Etica-Estetica (1942-1943), Einaudi, Torino 1947, seconda edizione 1960, e, in particolare, vol. I, Logica, pp. 12-24. 121 logica), da cui è nata la filosofia analitica. Le prime cosmologie ioniche, pitagoriche e in generale pre-socratiche, sono quindi delle proto-cosmo-logiche, il primo tentativo di comprendere logicamente il mondo della physis. In questa prospettiva, non si può parlare di verità in senso di un aletheia come verità ontologica dell’essere: ancora non esiste un’ontologia distinta da una logica, ma l’identità di pensato e reale implica anche l’identità di soggettivo e oggettivo. Non esiste quindi, come per Heidegger, una prima connotazione non soggettivistica della verità; piuttosto, la verità si presenta sempre come idea, come forma vista da un soggetto che la identifica con la realtà stessa. La coincidenza di pensato e reale è, per questa logica della visione, anche la coincidenza di logos e physis, ma questa coincidenza non indica una originaria connotazione ontologica del logos, come in Heidegger, quanto il fatto che la physis si dà sempre in un logos soggettivistico umano. Così, le antiche cosmologie sono delle cosmo-logiche; questo originario logos della visione costituisce infatti una proto-logica intuitiva in cui sono articolate le prime cosmologie filosofiche. Gli Studi sull’eleatismo del 1932 sono stati cruciali per questa consapevolezza: fanno comprendere che la questione dell’essere e quindi l’ontologia nascono dall’entificazione di modalità proprie della struttura del linguaggio greco e dalla sua logica verbale. Così, le cosmologie filosofiche si strutturano come logiche ontologizzate, dove a una logica del vedere si va sovrapponendo e sostituendo una logica del dire, a una logica intuitivo-visiva noetica si va giustapponendo una logica dianoetica, e da un pensiero visivo, basato su simboli ideo-grammatici, iconici, si passa a un pensiero verbale basato sul linguaggio e sulla sua codificazione in una scrittura alfabetico-foneticolineare. La logica nasce come onto-logica e questo indica che la logica nasce come cosmo-logica, logica del mondo, come logos della physis, indicata dalla regolarità del moto dei corpi celesti che implica, nell’interpretazione umana della sua non casualità e della sua ferrea (dalla solida struttura sferica del mondo) necessità, una intelligenza intrinseca alla Natura. E l’essere umano proietta così la propria logica sul mondo, come logica del mondo. 122 Calogero fa notare, infatti, come in Parmenide il principio d’identità non sia originariamente una tautologia, ma presuppone l’identità in un moto ciclico rotatorio (per cui punti-stelle che appaiono diversi sono lo stesso punto-stella, A=A’=A’’=...), cioè un’immutabilità nel moto rotatorio della sfera, ovvero si tratta di un’invarianza per rotazione della sfera, riducibile a un’identità per un tempo totalmente dispiegato al pensiero puro. Calogero non gli attribuisce direttamente il principio di non-contraddizione e del terzo escluso nella Storia della Logica antica, se non con un cenno di un ‘quasi’ quando parla invece di Empedocle, in quanto Parmenide passa subito dalla logica della visione alla logica verbale. La determinazione noetica oggettiva deriva dalla possibilità di ricondurre diversi percepiti ad un’unica determinazione intellettuale, e dalla possibilità di fissare in maniera chiara e distinta le forme matematiche (celesti), le forme geometriche e le corrispondenti forme numeriche, figure finite, limitate, dai contorni ben definiti, le cui connessioni possono essere oggettivate in maniera indiscutibile e necessaria: per Parmenide, la struttura sferica del mondo, che come superficie non ha parti distinguibili e limitata non ha limiti, nel puro pensiero in cui il tempo si dispiega astrattamente come una totalità non successiva ma immediata, si mostra immobile ed immutabile. In Parmenide,92 si viene a delineare una prima logica della parola, una prima logica verbale che si struttura sulla originaria logica della visione. Parmenide richiede che il linguaggio coincida con l’intuito-pensato-visto e con il reale: bisogna allora riformare il linguaggio ed eliminare la negazione. Solo così l’essere della copula, l’estìv, potrà coincidere con una realtà, ora concepita in termini di essere. Si tratta di un’ipostatizzazione dell’essere come relazione fra soggetto e predicato, in un essere della realtà. Parmenide struttura così una proto-logica verbale del giudizio, una protologica dianoetica, che si basa sul principio di determinazione e che si presenta come un’onto-logica. Sul principio di determinazione noetica, ora anche ontologica, si costituirà il principio di non- 92 G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 1932, seconda edizione 1977; G. CALOGERO, Parmenide e la genesi della logica classica, in Annali della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, serie II, v. 5 (1936), pp. 143185; G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967. 123 contraddizione, e da questo sarà derivato il principio del terzo escluso. L’ontologia non è che una logica travestita, ipostatizzata. 17.3 La storia dell’etica Lo Schizzo di una storia dell'etica è un testo breve, che risale già al 1932, ma che permette di comprendere bene, insieme all’Introduzione al Simposio di Platone già del 1928, la prospettiva etico-dialogica di Socrate, che sarà la base, seppure modificata in punti essenziali, della più matura Filosofia del dialogo di Calogero, la metafisica platonica, e, in contrasto a queste, la fede cristiana, che costituirà, pure per il non-credente Calogero, l’altro riferimento fondamentale della sua etica. 17.3.1 Prima di Socrate Secondo Calogero, si deve riconoscere l’impossibilità di una storia dell’ethos greco che molti hanno cercato di fare a partire da una storia della letteratura, storia dell’arte, storia della filosofia, soprattutto per esaltare la grecità rispetto al Cristianesimo. Possibile è certamente una storia dell’etica come disciplina filosofica autonoma, che come tale propriamente nasce in Grecia.93 L’etica filosofica nasce svincolandosi, separandosi e opponendosi all’etica religiosa del sapere mitico. I pensatori “pre-socratici” si oppongono all’etica dei culti sacrificali, del carnivorismo, della predazione e della guerra della religione neolitica, legata a divinità personali, antropomorfe e arbitrariamente capricciose nei loro voleri, e richiamano a un ordine morale implicito nell’ordine cosmico di una Natura unitariamente considerata divina come nella mitica età dell’oro. La Themis si esprimeva in un thesmos, in una legge divina da seguire, corrispondente alla necessità di un ordine impersonale “oggettivo” che riesprime anche il fato del pensiero tragico greco, con un fondamento oltreumano. Nella scuola ionica è soprattutto l’ordine del tempo che va accettato, come in Anassimandro, nel rispetto reciproco dell’alternarsi dell’essere e del non-essere degli enti; così in Eraclito, per cui anche il sapere filosofico è ancora una rivelazione divina e non un sapere umano, nella considerazione della relatività del bene degli esseri che lo induce a tener conto del bene di tutti. Nella scuola pitagorica, in cui ancora filosofia e 93 G. CALOGERO, Etica, in Enciclopedia Treccani (1932), vol. XIII, pp. 447b-454a, poi come Schizzo di una storia dell'etica, in Saggi di Etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, pp. 106-139. 124 rivelazione sono tutt’uno ed è sicuramente presente l’eredità orfica e mediorientale con la teoria della reincarnazione, per cui l’etica è volta alla purificazione e alla liberazione dal ciclo delle rinascite e il vegetarianesimo è legittimato dalla prospettiva in cui un’anima umana si è potuta reincarnare anche in un altro essere vivente animale proprio a causa della reciproca fagocitazione. Nella scuola eleatica, legata in parte a Pitagora e in parte alla critica all’antropomorfismo religioso effettuata da Senofane, per cui la via dell’essere indicata da Parmenide è non solo via della Verità ma anche della Giustizia, che si realizza nella decisione del rispetto dell’essere, e quindi della molteplicità degli enti che compongono un essere unitario non-separabile. Ma fino a quando l’unità uomo-Natura non è posta in dubbio, l’etica è implicita nella cosmologia, l’ordine etico è parte dell’ordine cosmico e non richiede un’esplicita condotta che non sia implicita nella sua natura di uomo e che vada al di là dell’accettazione dell’ordine naturale come un fato. 17.3.2 I sofisti, Socrate e la nascita dell’etica. Socrate, Platone e il Cristianesimo: un confronto La messa in discussione dell’ordine naturale e del corrispondente ordine etico, nella convergenza di un relativismo gnoseologico ed etico legato a un rifiuto della religione, avviene con Protagora (486411 a. C.) e la sua scuola sofistica:94 non c’è verità, si tratta semplicemente di persuadere retoricamente gli altri alla posizione più conveniente per sé; così non c’è legge morale o politica, ma solo una thesis come costruzione artificiale umana, come “convenzione”, imposta dai potenti umani a loro vantaggio o accettata per convenienza, e contrapposta alla realtà effettiva della physis.Vi è così l’affermarsi di un relativismo soggettivistico per cui bene coincide con il piacere individuale che non si cura se questo comporta male per altri: edonismo. L’etica vera e propria, come disciplina separata e autonoma dalla cosmologia, sorge quindi come reazione al relativismo sofistico. E Socrate ne è il fondatore:95 è chiaro così perché Socrate non fondi l’etica in una “visione 94 G. CALOGERO, Schizzo di una storia dell'etica, in Saggi di Etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, pp. 106139. 95 G. CALOGERO, L’età socratico-platonica nello sviluppo della logica classica, progettato come primo capitolo di un preannunciato secondo volume della Storia della logica antica (che non sarà mai pubblicato), in Studi Filosofici (1979) II, pp. 1-33; G. CALOGERO, Schizzo di una storia dell'etica, in Saggi di Etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, 125 del mondo”, in quanto è proprio quella fondazione che è messa in discussione e bisogna rifondare l’etica come sapere indipendente. Fino a Socrate non esisteva un’etica separata: l’ordine morale era tutt’uno con l’ordine naturale del cosmo, e con Parmenide l’etica era diventata tutt’uno con l’ontologia. Socrate reagisce ai sofisti, e al relativismo gnoseologico da cui segue il relativismo morale: il relativismo gnoseologico fa esplodere il problema della soggettività individuale della conoscenza della realtà; così, Socrate cerca di fondare un’etica autonoma dalla cosmologia e dall’ontologia, che risultano soggettive. Per Socrate, la verità etica non viene più ricercata tramite una logica della visione, ma tramite una logica della parola e come esito di un dialogo fra più soggetti. Socrate pensa sia possibile arrivare ad una verità unica, alla conoscenza del bene universale, attraverso il dialogo. Subordina così ancora l’etica alla gnoseologia e alla logica: è questo l’intellettualismo etico di Socrate. La conoscenza razionale è necessaria perché il bene è identificato con la felicità non immediata ma globale nel tempo. La risposta di Socrate sta, infatti, nella possibilità di giungere alla definizione di un bene oggettivo attraverso il confronto intersoggettivo del dialogo: partendo da un dubbio metodico legato al sapere di non sapere, attraverso la contrapposizione dei soggettivi logoi, si decostruiscono le definizioni puramente individualistiche del bene e si afferma un concetto universale di bene, un universale etico che nasce per induzione e astrazione dai casi particolari e individuali come un comune invariante, per cui il vantaggio-piacere individuale si risolve nel bene universale; questo bene non è però universale perché di tutti gli esseri, ma è universale solo nel senso in cui tutti convengono che la felicità individuale è il bene. Non è vero che il bene è la felicità individuale, ma viceversa è la felicità individuale che è definita dal bene. Tuttavia, anche se non si riduce il bene alla felicità individuale, non c’è una definizione del bene in sé e il bene resta determinabile solo attraverso la felicità individuale. pp. 106-139; G. CALOGERO, Introduzione a, Platone, Simposio, tr. it. a cura di G. Calogero, Laterza, Bari 1928, pp. 174, poi ristampato in G. CALOGERO, Scritti minori di filosofia antica, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 175-228. 126 Che si tratti comunque di un’astrazione è evidente anche dalla scelta di Socrate della morte volontaria pur di non violare la legge politica come un bene assoluto la cui validità deve comunque sussumere ogni caso individuale. L’etica socratica così è edonistico-eudemonistica, economicoutilitaristica, anche se è l’economico a risolversi nell’etica e non viceversa: nel mondo greco si può affermare un’etica solo legittimandola utilitaristicamente, egoisticamente. Platone spiega questa prospettiva socratica nel suo dialogo Protagora. Il piacevole sembra non coincidere con il buono solo in una considerazione che si limiti all’immediato presente, all’istante, non tenendo conto della piena dimensione temporale che impone la considerazione del futuro: azioni piacevoli non buone non tengono conto di futuri dolori maggiori del piacere presente; azioni buone non piacevoli non tengono conto di futuri piaceri maggiori del dolore presente. L’escatologia socratica, stando all’Apologia di Socrate e considerando solo platoniche le elaborazioni dei dialoghi successivi, è molto semplice e rimanda o a un sonno impassibile senza sogni o a una continuazione della vita e della prassi terrene. Non c’è quindi forse una valutazione dei piaceri che si estende a una vita ultraterrena dopo la morte, ma solo una valutazione più ampia che quella immediata. Chiaramente, qui sta una delle connotazioni più evidenti di quello che viene chiamato “intellettualismo socratico”, perché l’individuazione del bene sta nel risultato di un calcolo razionale dei piaceri che va oltre l’immediata soddisfazione istintuale: ciò implica che il bene non può essere raggiunto da un’azione naturale nel senso puramente istintuale ma solo da un calcolo razionale teoretico che orienti la prassi; bisogna conoscere teoreticamente il bene, perché il bene non è un dato immediato del desiderio istintuale, ma il prodotto razionale di un calcolo dato da un’intuitiva somma integrale dei piaceri nel tempo (in cui si contino i dolori come piaceri negativi). Si agisce male, allora, non perché si voglia il male, ma perché non si conosce il bene. La massima virtù è quindi la conoscenza del bene che sola permette di agire bene e che può essere insegnata. La volontà consapevole del bene è attratta da un desiderio del bene, che è il daimon dell’eros: cioè, secondo Socrate, la razionalità determina necessariamente la volontà fissandone univocamente le scelte. Il bene è ciò che è consapevolmente voluto nell’azione e come tale ne è l’interno contenuto e non è qualcosa di 127 dato esternamente al volere e presente a un sapere teoretico indipendente da meramente contemplare. Come tale, il bene è un fine futuro che non è attualmente presente; d’altra parte, per essere criterio universale d’azione deve essere saputo, cioè presente anticipatamente alla mente nel calcolo che lo pre-vede e da questa sempre contemplabile. Proprio questa caratteristica contribuirà a convincere Platone che il bene sia un’idea eterna, esistente in sé, come bene in sé la cui contemplazione teoretica sia considerata la massima attività etica dell’uomo, indipendente da qualsiasi azione o volizione pratica. Come Calogero spiega nell’Introduzione al Simposio di Platone del 1928, per Socrate, tuttavia, l’eros non tende a un fine trascendente come in Platone, il bene è sempre un fine immanente: l’eros è comunque la tendenza naturale-necessaria, per quanto consapevole, di un desiderio-volontà del bene, che come tale è mancante, imperfetto, incompiuto, dialettica che dal male tende al bene e per questo si manifesta come potenzialità d’azione umana, che si distingue dalla contemplazione immota, già attuale e inattiva propria della divinità. L’eterna ricerca del bene in Socrate, viene trasformata da Platone in una ricerca del bene eterno come idea pura. L’eros socratico-platonico, comunque, anche quando si specifichi in amore degli altri, è sempre teso al bene inteso come felicità individuale egoistica: l’altro, anche se non mero strumento di piacere, è sempre solo un mezzo di felicità individuale. Socrate non sviluppa nemmeno una filosofia teoretica staccata dalla vita: la conoscenza teoretica è quindi una consapevolezza interna alla stessa prassi della vita, legata a un dialogo vivente e non a una scrittura morta staccata dalla vita. Secondo Calogero, è solo con il Cristianesimo che appare una vera etica, perché anche quella socratico-platonica dell’eros è egoistica. Il declino della civiltà ellenistico-romana vide la diffusione di religioni misteriche, mitriache, orfico-dionisiache, di Cibele, di Atti; a livello filosofico, la ripresa dell’escatologia orfico-pitagorica-platonica, con la negazione della vita e del mondo presente in attesa di uno venturo, e quindi lo sviluppo di un neo-pitagorismo e di un neo-platonismo. Su tutti questi movimenti religiosi e fiduciosi andò imponendosi il Cristianesimo: la visione escatologicaapocalittica ebraica da cui proveniva era stata in qualche modo realizzata o ribaltata; non si trattava 128 più di negare il mondo presente e di attendere un mitico mondo futuro, ma di affermare e realizzare il mondo futuro nel presente. Questo comportava una nuova etica radicale, non come una disciplina filosofica autonoma o parte di una teo-cosmologia o di una onto-teologia, non come parte di un pensiero mitico-religioso, ma come una consapevole prassi di vita etica che, senza alcun fondamento esterno, si autogenera e si autosostiene e si automoltiplica in una fede nell’Amore che si manifesta come Dio: è la prassi etica che si fa fede, che si fa rivelazione divina. Questa è l’etica più grande mai apparsa, anzi la prima e unica etica mai apparsa: l’etica precedente, greca, romana, orientale, era stata solo un grande egoismo, in cui si trattava solo della propria felicità individuale, della propria realizzazione/liberazione individuale, cura di sé in cui gli altri esseri entrano in gioco solo in funzione di sé stessi. Anche quando Platone e Aristotele hanno esaltato le virtù della giustizia e dell’amicizia, si è sempre trattato di virtù che erano funzionali eudemonisticamente alla felicità individuale. L’immagine dell’Eros come un demone imperfetto indica l’ideale greco di perfezione in una contemplazione in sé chiusa, senza volontà e azione e amore: atarassia, apatia, adiaforia. Non bisogna scambiare la prospettiva cristiana per un’eudemonia che si realizza in un futuro escatologico: non c’è propriamente eudemonia cristiana, si ama indipendentemente dalla sofferenza o della felicità che ne sia effetto. Oppure si deve parlare di amore che tende alla felicità altrui, anche se comporta propria sofferenza, e in cui la propria sofferenza può essere vissuta come felicità che si moltiplica all’infinito per la felicità altrui: non più cura di sé, ma cura attiva degli altri esseri, in cui l’alterità non è più mezzo per il proprio fine e come tale oggetto, ma piena soggettività, persona e non cosa, fine e non mezzo (come sarà poi chiaro nell’etica di Kant). La filosofia greca era di fatto solipsistica nella sua etica: era come se l’altro non esistesse in quanto tale. Solo l’amore cristiano riconosce effettivamente l’essere dell’altro, che non è mero dato ontologico o logicamente dimostrato, ma è riconosciuto come tale in quella fede, fiducia consapevole, che è amore. La filosofia moderna etica non può che essere, per Calogero, un inveramento filosofico della prassi etica cristiana. 17.3.3 Cirenaici ed Epicurei, Cinici e Stoici 129 Si comprendono così i vari sviluppi cui l’etica socratica diede vita. 96 Da un lato, si hanno i cirenaici e i cinici, dall’altro Platone. Per i cirenaici, si può ricordare Aristippo (435-355 a. C.) di Cirene: a lui si deve l’elaborazione propria dell’edonismo, a partire dall’identificazione del bene con ciò che è desiderato e che dà la felicità individuale come massimo del piacere. Qui si vede l’insufficienza dell’etica socratica che, in fondo, tesa a dimostrare che la felicità individuale è data dal bene universale-vero e non da beni fallaci e particolari effimeri e istantanei, si basa su un’indeterminazione del bene in sé. L’unico criterio individuato è quello del calcolo razionale del massimo del piacere che però può essere solo intuitivo e indeterminato, legato come è a una previsione del futuro: nell’unica certezza futura della morte il massimo del piacere non sarà dato dall’accumulo di tutti i piaceri possibili? L’edonismo di Epicuro (341-270 a. C.) si innesta nuovamente in una cosmologia, quella atomistica di Democrito (450-360 a. C.) (erede in qualche modo dell’empia visione ateistica di Anassagora di Clazomene (500-428 a. C.) e correlata al pensiero tragico-fatalistico di Sofocle, Eschilo e Euripide, anch’egli allievo di Anassagora), e l’etica non è più indipendente ma conseguenza della cosmologia: corregge l’edonismo cirenaico, in quanto questo non è in grado di affrontare e superare i dolori della vita e non riesce a condurre a una vera e stabile felicità individuale. Non c’è un senso della vita che sia ulteriore alla necessità naturale degli atomi (anche se declinata come necessità del caso del moto come kinesis katà parenklisis, e anche se non si riconduce ad un ordine cosmico divino implica una legge oggettiva), i piaceri e i desideri soggettivi sono convenzioni non reali e la nostra propria morte non ci riguarda come dolore: l’uomo deve quindi arrivare alla felicità individuale in una libertà che è distacco dal mondo e il massimo piacere sta nel liberarsi dal desiderio dei piaceri la cui insoddisfazione sarebbe causa di dolori, in una inerte quiete dell’anima come atarassia. L’edonismo si tramuta così in ascetismo e il piacere in assenza di dolore e di sentimenti/percezioni in una contemplazione puramente intellettuale e quindi distaccata delle vicende del mondo che non sono altro che perpetue aggregazioni e disgregazioni di atomi nel vuoto. 96 Guido Calogero, Schizzo di una storia dell'etica, in Saggi di Etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, pp. 106139. 130 L’esito ascetico di atarassia dell’edonismo lo avvicina alla scuola cinica che aveva interpretato la felicità individuale socratica in termini opposti come implicante il superamento della soddisfazione dei piaceri istintuali immediati, il superamento dei dolori immediati in un dominio di calcolo razionale di tutti i tipi di passioni. I più importanti rappresentanti di questa prospettiva furono Antistene (436-366 a. C.), il fondatore, e Diogene di Sinope (412-323 a. C.): si riunivano nel Cinosarge (Cane agile), ginnasio ateniese in cui erano accettati anche i ‘semicittadini’, e furono chiamati per questo cinici ma anche per la loro vita naturale da ‘cani randagi’, nel rifiuto della cultura umana. Dall’ideale socratico dell’autogoverno, autarchia, e del dominio di sé e delle passioni, cioè dell’enkrateia, si sviluppò così l’ideale cinico dell’autarkeia, ovvero dell’autosufficienza, che non poteva non comportare un’adiaforia, ovvero un’indifferenza alle cose del mondo completamente svalutate, per raggiungere un’apatia, un distacco e una libertà dai legami del mondo e conseguentemente una libertà dalla necessità dell’azione nel mondo divenuta così inutile per raggiungere l’immota quiete dell’anima. Giustamente, allora, Calogero parla di teologizzazione cinica dell’io che corrisponde alla simile teologizzazione dello spirito nel buddhismo. L’apatia cinica subisce una trasformazione reattiva nello stoicismo di Zenone di Cizio in Cipro (336-264 a. C.), che riconduce l’etica a nuova cosmologia. Questa nuova cosmologia panteistica considera il mondo come costituito in un ordine cosmico divino, retto da un fato razionale espressione di un logos cosmico diffuso: in contrasto col cinismo, tutte le cose hanno quindi un valore teologico fondamentale, ma proprio per questo l’uomo non può che accettarle con rassegnazione, apatia, atarassia, autarchia e indifferenza di fronte agli eventi in quanto fiducioso nella razionalità universale di ciò che accade. Si arriva così alla stessa conclusione cinica sull’inutilità dell’intervento umano e alla stessa negazione del volere e dell’azione. Seneca (4 a. C. – 65 d. C.), Epitteto (50-120 d. C.) e Marco Aurelio (121-180 d. C.) sviluppano l’ideale stoico con qualche apertura in più (per esempio nella considerazione degli schiavi; Marco Aurelio perseguitò crudelmente i cristiani). 131 17.4 Platone (428-347 a. C.) In Platone,97 c’è un ritorno alla logica della visione per ridare un fondamento ontologico all’etica, riducendo il bene a un’idea: la ricerca eterna del bene si traduce in una ricerca del bene eterno. La logica della visione è legata alla conoscenza delle idee, la logica verbale del giudizio, che si fonda su una relazione soggetto-predicato, esprime invece la partecipazione delle cose alle idee. La sua riflessione parte certamente da Socrate, lo prende a modello, lo fa portavoce delle sue elaborazioni, ma certamente ne vuole costituire un superamento. L’etica di Socrate non è conclusiva, si presta a differenti interpretazioni, la sua fondazione umana, seppure nell’intersoggettività del dialogo, non riesce a superare comunque il soggettivismo sofista. L’evoluzione dai primi dialoghi socratici a quelli dell’età matura testimonia in Platone l’esigenza di rifondare l’etica socratica all’interno di una teo-cosmologia. Il bene non può essere meramente un concetto umano, seppure universale e su cui possono convenire i vari individui; la verità non può essere semplicemente l’esito di un dialogo umano. La teoria teo-cosmologica di Pitagora fornisce a Platone il quadro in cui innestare e inverare l’etica socratica, precisando la prospettiva già mitica del mondo terrestre come immagine del mondo celeste con la teoria delle divine idee-forme-numeri eterne del cielo più alto e di cui partecipano tutte le cose terrene quali loro copie imperfette e che costituiscono il loro vero essere al di là del divenire. La verità è un’idea divina eterna a cui l’uomo può cercare di risalire al di là delle ombre terrene; il bene è la divinità somma, l’idea divina eterna somma a cui tendere. Solo così si può fondare un’etica universale e oggettiva. Il bene non può essere per Platone semplicemente il fine immanente al desiderio umano, alla volizione e all’azione umane, ma, esistendo in sé, può essere effettivamente conosciuto nella sua realtà e non solo indirettamente e vagamente intuito nell’anticipazione del calcolo dei piaceri, e conosciuto invero 97 Guido Calogero, Platone, in Enciclopedia Italiana, vol. XXVI (1935), pp. 510b-521b; Guido Calogero, Schizzo di una storia dell'etica, in Saggi di Etica e di teoria del diritto, Laterza, Bari 1947, pp. 106-139); G. CALOGERO, Introduzione a, Platone, Simposio, tr. it. a cura di G. Calogero, Laterza, Bari 1928, pp. 1-74, poi ristampato in G. CALOGERO, Scritti minori di filosofia antica, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 175-228. 132 indipendentemente dall’azione, in quanto la sua realtà è spirituale, eterea, statica, perfetta e attuale in sé non potendosi manifestare in volizioni e azioni. Anzi, in quanto realtà ideale il bene in sé implica che l’attività etica massima non è un’azione, ma la contemplazione teoretica del bene che comporta la beatitudine suprema. Vi è così un sapere che non è più la base della prassi, ma risulta fine a sé stesso. La felicità individuale definitiva, vittoriosa sul dolore, è assicurata dall’escatologia orfico-pitagorica, implicitamente negatrice della vita presente per una vita ultraterrena dell’anima immortale, e che Platone rielabora e che prevede l’ascesa dell’anima all’idea del bene: l’eudemonia porta così ad un’ascetica risalita attraverso la dialettica dinamica dell’eros come metaxù fra cielo e terra, fra divinità e uomo, in cui l’eros stesso si sublima da desiderio eterno del bene a desiderio del bene eterno, dall’amore per il corporeo, terreno, singolo ente temporale all’amore per lo spirituale, celeste, universale essere eterno. La socratica consapevolezza del desiderio si trasforma in desiderio della conoscenza senza desiderio. Questa nuova considerazione del bene come idea comporta una visione dualistica dello spirito, in cui si determina una superiorità del sapere sul volere, della teoria sulla prassi, della razionalità sul desiderio. Da questa divisione ne consegue che il dominio del sapere sul volere non conduce a un dover essere che non può non essere secondo una necessità naturale intrinseca, ma a un dover essere che può non essere in caso d’indisciplina del mondo dei desideri e delle passioni e delle azioni, secondo una specifica esigenza morale. L’individuo è così una psyché che ha una parte razionale volta all’attività conoscitiva e una parte irrazionale, volta alla prassi, ovvero ai desideri, agli affetti, agli impeti passionali, alle volizioni tendenti a tradursi in azioni: la parte irrazionale è bipartita, da una parte le passioni estroverse, dall’altra i desideri introversi. A ogni parte corrisponde una virtù: il coraggio alle passioni-impeti, la temperanza/enkrateia ai desideri alimentari/sessuali, la sapienza/sophia alla ragione, tutte sottoposte alla giustizia. A quest’etica della virtù che diventa una scienza corrisponde anche una politica che riconosce nella società la classe economica corrispondente ai desideri, la classe militare 133 corrispondente agli impeti, la classe dei filosofi alla ragione e che deve costituire il governo che domina e controlla desideri e passioni. Se l’essere è idea, luce propria che si manifesta, la conoscenza è visione suprema. Sottesa alla logica della parola è quindi una logica della visione, in cui si dà la verità dell’essere che però mai sarà completamente posseduta, mai sarà conoscibile perfettamente se non solo alla fine di un’ascesi ultraterrena e oltrecorporea che ci farà accedere direttamente alla visione suprema delle idee che prima abbiamo solo come reminiscenza: la logica della visione si basa sulla dialettica dinamica delle idee. Le idee si ordinano secondo una gerarchia di massima estensione e minore comprensione: quella dell’Essere e del Bene sono di estensione massima in quanto ciascuna idea partecipa dell’essere e del bene. La molteplicità delle idee platoniche è in qualche modo negazione dell’unità assoluta parmenidea, ma risolve comunque il non-essere in essere-altro, nella dialettica dell’identità e dell’alterità. Platone sfugge così ad una metafisica soggettivistica, ma riconduce la filosofia come eros a una contemplazione teoretica negatrice della vita attiva, preparatrice alla morte. 17.5 La logica di Aristotele I fondamenti della logica aristotelica di Guido Calogero è un libro molto difficile, per contenuto e per struttura (la non-presenza dei testi aristotelici solo indicati o riportati solo in greco). Adesso, non gode di tanta fortuna perché considerato come un testo “attualista”, in cui si discuterebbe con categorie “attualiste” Aristotele; ma questo non è affatto vero, anche se confronti dialogici con l’attualismo sono presenti. In questo testo sono le basi di tutta la filosofia di Calogero. Calogero spiega che, mentre, per Platone, la logica noetica è legata alla contemplazione delle idee e la logica dianoetica del giudizio ha pure un valore ontologico perché denota la partecipazione delle cose terrestri all’essere delle idee, della materia alla forma, invece per Aristotele, che pensa il sinolo come un’unità originaria, la logica noetica è associata alla contemplazione degli individui reali in ‘concetti individuali’: il noema è intuitiva determinazione individuale del sinolo, sintesi in sé di ideale e materiale; la determinazione noetica individuale lascia fuori di sé ciò che è altro da sé. 134 La logica dianoetica del giudizio perde per Aristotele qualsiasi valore ontologico e gnoseologico, diventa meramente formale, mera esplicitazione di inerenze, sdoppiamento linguistico che fuorvia dall’unità reale. La teoria del sillogismo, e invero tutta la logica, nasce in Aristotele in reazione ai sofisti e ai retori per fissare le regole di un onesto colloquiare. Il giudizio per Aristotele non ha più funzione ontologica né gnoseologica, essendo riducibile al concetto individuale (il giudizio non è che un raddoppiato rapporto d’inerenza), e così il il sillogismo e l’apodissi quali forme logiche di sviluppi del giudizio sono riducibili al singolo noema: questa forma di linguaggio è legata solo al colloquio e quindi le sue regole sono regole etiche del colloquio per capirsi e per non cadere in inganni. Anche la premessa-protasi del sillogismo (tutti gli uomini sono mortali) non è pensata come legata ad un’induzione, che al massimo ne è una prova empirica, ma ad un’appercezione dell’intelletto divino, che così fonda la conoscenza umana. Da questo punto di vista, la logica aristotelica diventa puramente formale, e quindi vana esplicitazione di ciò che è implicito. Che cosa dimostra effettivamente Calogero? a) Che in Aristotele, dietro la logica verbale dianoetica, è presente e fondante una logica visiva noetica, come riconosciuto pure da Heidegger in qualche modo nel §44b di Essere e tempo. b) Che la logica dianoetica è totalmente riducibile in Aristotele alla logica noetica, anche se non identitariamente. Calogero si accorge che alla base del principio di antifasi o di non-contraddizione e anche del terzo escluso c’è il principio di determinazione noetica. Il principio del terzo escluso non vale per la logica noetica. La logica noetica scoperta da Calogero in Aristotele è come la logica intuizionista di Brouwer, ma a un livello più profondo (Heyting traduce in termini formali dianoetici la logica noetica, per cui non si parla più di principio di determinazione, ma di principio di non contraddizione e non si capisce più perché non dovrebbe valere il principio del terzo escluso), la logica che soggiace al pensiero visivo geometrico e matematico. c) Che l’ontologia di Aristotele non è che una logica ontologizzata, in un misto di logica noetica e dianoetica, visiva e verbale. La prospettiva sul sinolo di materia e forma fuse insieme è specchio dell’unità appercettiva del pensiero noetico, in contrasto con la prospettiva platonica della 135 partecipazione di ciò che è reale-materiale all’essere delle idee-forme che si rispecchia nella logica dianoetica dualistica nei termini soggetto/predicato. D’altra parte, la prospettiva aristotelica della verità come adeguazione del pensiero alla realtà, inverte la prospettiva teologica platonica dell’adeguazione della realtà all’idea, in quanto il noema rispecchia un sinolo reale e non è mera forma (idea, fantasia, allucinazione). Diventa così chiaro che tale garanzia o è data teologicamente dall’intelletto divino le cui idee sono realtà (così, in Aristotele), oppure, al di là di Aristotele, fuoriesce dalle possibilità di pensiero del singolo soggetto, sia nel senso che il pensiero deve essere atto, azione sia anche nel senso che il pensiero va vagliato nel confronto dialogico con altri soggetti. Il dialogo è quindi essenziale al raggiungimento della verità. d) Che la logica noetica di Aristotele sarebbe alla base dell’unità dell’atto del pensiero pensante, concepito come intuizione di un individuo e non universalizzante, di un vero attualismo, mentre questa logica noetica non era riconosciuta da Gentile, che pensava comunque la logica dianoetica aristotelica come un logo astratto rispetto al logo concreto della logica dialettica. La logica dianoetica e la sillogistica costituiscono per Calogero una logica e una gnoseologia metafisica che non coglie l’unità inoggettivabile e non formalizzabile del pensiero, e che è legata a una metafisica dualistica delle sostanze e degli accidenti o degli attributi. La logica verbale e formale è una sovrastruttura gnoseologico-metafisica. Decostruita tale logica dianoetica, è decostruita con essa tutta la logica formale occidentale e la gnoseologia, come anche la metafisica platonica e la metafisica sostanzialistica dualistica pure presente in Aristotele. Non ci sono leggi logiche, leggi del pensiero oltre il principio di determinazione noetica. L’analisi di Aristotele è quella che permette a Calogero di determinare ‘la conclusione della filosofia del conoscere’ e a prendere le distanze dagli aspetti logico-gnoseologici dell’attualismo e dall’interpretazione gentiliana della logica aristotelica e della logica dialettica hegeliana. D’altra parte, questa ‘conclusione’ gli sembrava già deducibile dalla postulata illimitatezza del pensiero da parte dell’attualismo contro Kant e con Hegel: certamente, la critica kantiana era postulata come un dovere di “pensare nei limiti dell’esperibile” e mai come una necessità dell’essere e quindi ne seguiva l’impossibilità di pensare il noumeno; 136 Calogero pensa come metafisica la nozione di noumeno come realtà oltre il pensiero, perché non può pensarsi una realtà che non si dia nel pensiero e quindi i limiti del pensiero sono i limiti dell’esperienza-azione e non limiti propri (mentre la realtà è quella esperibile, non c’è realtà non esperibile; il problema del pensiero è che quello che pensa viene ridotto a oggetto e quindi il pensiero non può cogliere il soggetto pensante né porgli limiti). e) Che la logica (dianoetica) non è solo tutt’uno con l’etica come nell’attualismo per cui banalmente la teoria è prassi, ma non è altro che etica nel senso di regole di un dialogo etico in cui è bene non contraddirsi e nel senso in cui i vari concetti della logica modale, il possibile e il necessario, come il criterio realistico della verità e come i giudizi d’esistenza, non sono comprensibili se non in termini di azione e non in termini di puro pensiero. Calogero si accorge che all’interno del pensiero puro, nella teoria dei vari tipi di sillogismi compresi quelli modali, non è distinguibile la possibilità dalla realtà o dall’esistenza, la possibilità dalla necessità, che si presentano tutte sullo stesso piano nella stessa determinata attualità di ciò che è pensato. Cadono quindi le categorie della logica modale: non si riesce, nella semplice assertorietà di una affermazione, a distinguere il necessario dal reale esistente o dal possibile. Come oggetto del puro pensiero, la realtà appare necessaria nella sua determinazione noetica; solo per una volontà agente si può distinguere una possibilità fra molte da qualcosa di effettivamente realizzato. Qui, sorge la prospettiva calogeriana per cui l’atto di pensiero pensante effettivo a cui tutto si può ricondurre non è di puro pensiero come nell’attualismo gentiliano, ma è pensiero di una prassi, volontà attiva consapevole, vita attiva pensante o pensiero vivente di uno spirito pratico: l’autocoscienza come pensiero di pensiero non solo è impossibile, ma è anche metafisica gnoseologica che va al di là della prassi. Solo nell’azione si può distinguere il possibile dal reale o dall’esistente o dal necessario. Il fatto è che il pensiero puro è solo della divinità aristotelica la cui realtà è identica al pensiero del pensiero, in tutto è atto già compiuto. Nell’essere umano il pensiero effettivo è sempre legato ad azioni, ad attività di vita, anche se contemplativa, e quindi questi concetti sorgono e sono distinguibili solo nel pensiero che tematizza un’azione e i suoi esiti, in una ricerca della verità che si concretizza in un’azione. Le leggi logiche 137 sono quindi leggi dell’azione determinata e compiuta in cui si ricerca la verità, leggi di un pensiero concreto, che si concretizza nell’azione. Vi era quindi una consapevolezza implicita che si comprende il mondo nell’azione corretta, nell’azione etica propria della vita, e che le leggi della sua comprensione siano le leggi dell’azione compiuta. Mentre il pensiero in azione, il pensiero vivente, il pensiero come vita non sottostà a leggi, queste riguardano il pensiero pensato e concretizzato in azioni determinate e compiute. Il pensiero come vita, come volontà consapevole, si apre continuamente a nuove possibili determinazioni, alla possibilità e all’alterità. f) La negazione, da un lato, è ricollegata comunque alla determinazione noetica, dall’altro è ricondotta all’indeterminatezza dell’alterità: così anche la negazione non si spiega nel puro pensiero, in termini puramente logici, né ontologici (il non essere), ma nell’azione per cui il pensiero non si chiude egoisticamente in sé stesso, ma eticamente si apre all’altro senza opposizione dialettica. 17.6 La conclusione della filosofia del conoscere Le conseguenze dell’indagine sulla logica aristotelica, che costituiva la sua tesi di laurea del 1925, già presentate e anticipate nel saggio Coscienza e volontà del 1925 che aprirà poi il volume del 1938, La conclusione della filosofia del conoscere, portano quindi Calogero a una critica della logica verbale-formale (dianoetica) e della logica dialettica (dianoetica), e quindi della gnoseologia come erronee comprensioni del pensiero nel volerne codificare le leggi in una teoria, come alla base di un’ontologia metafisica dualistica. Il riconoscimento della natura intuitiva originaria del pensiero (logica noetica) ci rivela l’origine della metafisica arcaica e platonica della visione e ci apre alla comprensione dell’illimitatezza del pensiero puro ma anche della sua impotenza a cogliere la realtà. Nonostante quindi la sua presunta concretizzazione del pensiero, anche l’attualismo di Gentile ricade in una metafisica idealistica e nelle astrazioni della logica e della gnoseologia. Se la filosofia di Kant aveva in qualche modo, pur mantenendo ancora l’idea del noumeno, determinato la conclusione della filosofia dell’essere, adesso si trattava di sancire la conclusione della filosofia del 138 conoscere. Metafisica oggettivistica ontologica e metafisica soggettivistica gnoseologica non sono che due facce della stessa metafisica che ha le sue basi nella logica, nell’ipostatizzazione del logos umano nelle sue varie forme della visione e della parola. Per quanto riguarda la metafisica oggettivistica ontologica, realistica, la “realtà in sé”, spiega Calogero, è un’astrazione, perché prescinde dall’esperienza di un soggetto, in cui invece sempre si dà: una realtà non esperita e non esperibile da alcun soggetto non può essere che un’immaginazione che si autocontraddice, perché nel momento in cui la si pensa è una realtà che si dà nel pensiero di un soggetto. Se Kant fosse stato conseguente non avrebbe dovuto mantenere la nozione di noumeno. La realtà in sé è quindi un concetto metafisico erroneo da rifiutare: non si può pensare l’essere in sé. La realtà in sé è un concetto, il termine-oggetto di una mera conoscenza intellettuale, come oggetto di una visione distaccata a distanza su cui non posso influire con la mia azione: anche se non vista dagli esseri umani, secondo Berkeley la realtà esisterebbe in quanto vista-contemplata da un Dio intellettualisticamente inteso, ma anche in questo caso si considera l’esistere e ciò che è come ciò che è visto-contemplato, come, se addirittura non posto-creato da chi lo vede-osserva, almeno un suo dato. L’unica prova della gnoseologia realistica, scrive Calogero, è la permanenza del reale nel tempo al di là dell’appercezione: la permanenza però, in prima istanza, implica eventualmente un infinito che non è esperibile e presuppone una sostanzialità eterna non esperibile. Non solo: il visto a distanza o con la mente, che ha come paradigma gli astri come sostanze permanenti eterne divine, idee platoniche, potrebbe essere solo immagine o fantasma; solo agendo, toccando, ci si rende conto della realtà. Pensata come permanente la realtà in sé rimanda a una realtà teologica, oppure creata eternamente da Dio come già compiuta staticamente. Ma c’è di più: la permanenza in un tempo al di là della percezione e dell’esperienza soggettiva, anche se considerato finito, rimanda a un tempo astratto oggettivo non reale. Il pensiero puro, la ragione teoretica pura non può cogliere il tempo nella sua effettività: lo coglie come una totalità dispiegata staticamente di fronte a sé come una molteplicità spaziale; la costruzione kantiana è 139 allora erronea perché assume che noi non possiamo conoscere intellettualmente se non temporalmente, mentre il tempo potrebbe apparire solo per l’azione; non potrebbe darsi tempo, non solo per la ragione teoretica pura ma nemmeno per la ragione pratica pura. Così, Parmenide può considerare il tempo totale come oggetto immediato del pensiero e ridurlo a una molteplicità spaziale, e considerare il tutto, l’eon come totalità, come immutabile e negare la realtà del tempo dal punto di vista del pensiero puro. Così, Parmenide, con tutto il fatalismo greco può pensare la realtà come assolutamente determinata e necessaria solo quando non considerata nel suo farsi, ma aposteriori come dato oggetto di un pensiero puro (non di un’azione) o quando il tempo è spazializzato in relazione a un moto rotatorio ciclico considerato come un tutto, in cui si dispiega indefinitamente la sfera dell’essere restando immobile senza cambiare luogo (che è solo della traslazione). Il pensiero puro, teologizzato in Aristotele, nella sua quiete e immobilità, e il soggetto trascendentale conoscente, a sua volta teologizzato ed eternizzato, non possono cogliere il tempo, il movimento, il mutamento; Si tratta allora di superare l’idea di tempo come oggetto astratto del pensiero e di legarlo allora all’azione di una volontà di un soggetto concreto e non trascendentale. Non si tratta però di una soggettivizzazione umana del tempo, ma solo di chiarire come il soggetto possa cogliere la temporalità della realtà: l’oggettivizzazione del tempo nel pensiero puro non lo può cogliere. Questa considerazione del tempo non coincide con la soggettivizzazione del tempo operata da Heidegger, dell’esserci come tempo; inoltre, nella misura in cui per Heidegger l’azione è ricondotta a un’ontologia trascendentale, si annulla di fatto il tempo nel dispiegarlo trascendentalmente nella sua totalità. Così anche lo spazio non va considerato come una molteplicità astratta che si presenta immediatamente nella sua totalità al pensiero puro, ma piuttosto come spazio in cui si esplica l’attività di un soggetto: da ciò risulta chiaro che lo spazio non è esperibile se non temporalmente, in 140 una connessione spazio-temporale ma non astratta dall’attività di un soggetto, e che lo spazio e il tempo sono molteplici e relativi ai differenti soggetti. Il tempo reale è sempre tempo di un soggetto che agisce, non di un soggetto che si chiude nel pensiero puro: per comprendere il tempo, in quanto comporta un’attività, bisogna essere soggetti coinvolti in un’attività. La realtà che può permanere nel tempo reale al di là della nostra individuale esperienza è realtà esperibile o esperita nel tempo dell’azione di altri, è insomma realtà sempre per un soggetto che agisce e che la esperisce, mai realtà in sé oggettiva. Non si deve confondere la non modificabilità di alcune realtà (lontane, più grandi) da parte della nostra azione con la loro non esperibilità. Si esiste sempre nella reciproca esperienza attiva di altri. Da ciò ne segue che non è possibile concepire neanche la Natura come un oggetto in sé: seppure le stelle non sono attualmente modificabili da noi, le stelle che noi possiamo pensare come reali devono essere esperibili attivamente da noi. Quando pensiamo a una Natura esistente in un tempo in cui l’umanità non era presente, dobbiamo pensarla come esperibile attivamente da altre soggettività viventi non umane o comunque sempre, potenzialmente, attivamente esperibile da una soggettività vivente; oppure dobbiamo considerare la Natura leibnizianamente come costituita da parti che in diverso grado sono soggettività viventi attive, e quindi si tratterebbe di concepire la Natura non come oggetto di pensiero ma soggetto d’azione, la Natura nella sua attività come “spirito pratico”. Il concetto come intuizione è dell’individuale: non esistono universali se non come astrazioni. Filosofia e scienze hanno a che fare sempre con individui, non con universali: gli apparenti universali delle scienze sono “universali empirici”, cioè scritture tachigrafiche di molteplicità di casi individuali incontrati nella speriment-azione del soggetto umano. Per quanto riguarda la metafisica soggettivistica gnoseologica, idealistica, si deve far notare il suo presupposto teologico. Per Dio ogni pensiero corrisponde a una realtà perché ogni potenza è atto, per l’essere umano, no: quindi la credenza nella realtà in sé deriva da una teologia aristotelica del pensiero puro, come realtà somma, che la sostiene. Il pensiero puro invero non può accedere a una realtà che non sia la sua stessa idealità. La gnoseologia idealistica crolla quindi nel non poter 141 distinguere fra possibile e reale, fra fantasia o allucinazione e realtà, e ricade nell’autoctisi gentiliana in un delirio di onnipotenza del pensiero umano. Il modo in cui invece il pensiero umano può corrispondere alla realtà è nella sua attuazione, nell’essere pensiero di un’azione, altrimenti resta come pensiero-fantasia. Il criterio realistico della verità come corrispondenza deve essere ripensato allora come un criterio della verità che si mostra nell’azione che dà accesso alla realtà. La coscienza pura come pensiero puro non può cogliere la realtà; solo la coscienza piena, la coscienza di sé come volontà agente, come coscienza di un mondo (come Heidegger parla di essere-nel-mondo, ma per Calogero senza ontologizzazioni di ciò che dipende dalla volontà e potrebbe non essere): nella risoluzione del teoretico nel pratico e del conoscere nel fare, si ha una caratterizzazione etica dell’atto, ma l’attualismo gentiliano lo aveva continuato a dipingere con valenze logiche e gnoseologiche. La detrascendentalizzazione del soggetto operata da Calogero in termini di temporalità, contingenza, finitudine e volontà avvicina la sua prospettiva alle filosofie della volontà e della vita di Schopenhauer e di Nietzsche e all’esistenzialismo di Kierkegaard, ma la sua declinazione etica la contraddistingue fortemente. Il concreto atto del pensiero pensante-volente per Calogero, non ammette quindi più alcuna apriorità del soggetto che genererebbe l’oggetto appercepito, ma solo un’unità concreta dell’io e del mondo in una dialettica etica dell’alterità che fa passare sempre dal tautòn (percepito-pensato) all’eteron (immaginato ideale e voluto) nell’impossibilità di un’infinità completamente attuata individualisticamente in sé: il pensiero pensante è il pensiero vivente-volente, il pensiero che si fa azione e che è vita. L’ “idealismo” (attualista) e il “realismo” sono così entrambi superati nelle loro astrazioni, perché la trasformazione del pensiero puro in volontà cosciente e agente, di cui il pensiero è solo parte, come il saputo del voluto in Socrate, la trasformazione dell’atto teoretico in atto pratico, non permette più la considerazione della realtà come parte del pensiero, ma piuttosto è il pensiero che è parte della realtà che è attività. Per Gentile, il mondo era interno al pensiero, ad esso immanente e quindi sua costruzione; per Calogero, invece, il mondo non è coglibile dal pensiero puro, ma solo da un’azione-esperienza 142 consapevole etica a cui sola il mondo è interno, come interno al pensiero vivente di una prassi etica che però come pensiero si trascende per incontrare il mondo che non gli può essere immanente come soggettività pensante; come anche la propria stessa soggettività non può essergli immanente non essendo possibile l’autocoscienza (il soggetto pensante è sempre diverso dal soggetto pensato che è ridotto ad oggetto), per cui è il soggetto, il pensiero, che si realizza nell’azione immergendosi nel mondo e non perché il mondo si fa rappresentazione: è il pensiero che deve corrispondere nell’azione alla realtà e non la realtà che deve adeguarsi al pensiero. Il pensiero che si fa azione raggiunge così una dimensione etica, come apertura all’altro, e tutta la filosofia teoretica si converte in filosofia pratica, si converte effettivamente in prassi etica, perché il problema della realtà è un problema dell’azione. 17.7 Misologia? Questo è il titolo di un saggio di Calogero del 1935, in risposta a Croce, poi incluso ne La conclusione della filosofia del conoscere. L’abbandono di una filosofia dello spirito teoretico, concepita come logica o gnoseologia o teoria del conoscere o come filosofia della filosofia da parte di Calogero era stata, infatti, oggetto di una critica di Benedetto Croce (La Critica, 33 (1935), pp. 221-222 e replica ulteriore in La Critica, 33 (1935), p. 318). L’accusa era appunto di misologia. Ma che cosa è la misologia? Il riferimento è al Fedone di Platone (89d-91a, tr. it. di M. Valgimigli), alla situazione d’incertezza che si era creata dopo le obiezioni di Simmia e Cebete, portate contro l’argomentazione di Socrate che cercava di dimostrare l’immortalità dell’anima: Ma prima di tutto bisogna stare attenti che non ci succeda un guaio. - Che guaio?, domandai. [d] Questo, disse: che non diventiamo misòlogi come si diventa misàntropi. Perché non può capitare a uno peggior guaio di questo, che gli vengano in odio i ragionamenti. Misologia e misantropia nascono allo stesso modo. La misantropia ci si mette indosso così, che riponiamo tutta la nostra fiducia in qualcuno senza avere degli uomini nessuna pratica, e crediamo che costui sia la perla della verità della sincerità e della fedeltà; e poi, dopo poco, troviamo che quest’uomo è tristo e infido, e poi ancora lo troviamo diverso, e così avanti. Ora, se questo ci càpiti più volte, e massime 143 da parte di persone che reputassimo [e] intimissime e amicissime, si finisce, naturalmente, per le continue delusioni, con l’odiare tutti quanti a un modo e col credere che addirittura non vi sia più niente di schietto in nessuno. Non ti sei mai accorto tu che succede proprio così? Certamente, dissi. - E dunque, egli disse, non è vergogna che codesto avvenga? non è evidente che colui a cui càpitano di tali delusioni usa trattare con gli uomini senza avere nessuna pratica delle cose umane? Perché, se trattasse con gli uomini avendone qualche conoscenza, giudicherebbe la cosa come realmente è, e cioè che di uomini del tutto buoni e di uomini del tutto mal-[90a] vagi ce n’è pochi da una parte e dall’altra, e che i più invece stanno nel mezzo fra gli uni e gli altri. - Come vuoi dire?, dissi io. - Succede lo stesso, riprese, delle cose estremamente piccole e delle cose estremamente grandi. Credi tu ci sia niente di più raro al mondo che trovare, per esempio, o un uomo o un cane o un altro essere qualsiasi estremamente grande o estremamente piccolo? e così pure, che trovar cosa estremamente veloce o lenta, estremamente brutta o bella, estremamente bianca o nera? Non ti sei accorto che di tutte codeste qualità gli estremi dall’uno e dall’altro lato sono rari e pochi, e che invece le qualità intermedie sono abbondanti e molte? - Certo, dissi io. - E dunque, disse, non credi tu che, se si [b] facesse una gara di malvagità, ben pochi anche qui sarebbero i primi? - E’ naturale, dissi. - Sicuro, disse, è naturale. Ma non è questo il punto in cui io dico si possano assomigliare i ragionamenti agli uomini. Tu mi hai condotto or ora fuori strada, e io ti son venuto dietro. Bensì è questo: e cioè che, quando uno ripone la sua fiducia in qualche ragionamento con la persuasione che sia vero, ma senza ch’egli abbia alcuna conoscenza dell’arte del ragionare; e poi, poco dopo, si metta in capo che codesto ragionamento è falso - e talora è realmente falso, talora non è; - e poi di nuovo gli sembri diverso da prima, e poi ancora diverso e così via... Ora tu sai bene [c] che sono precisamente quei tali che perdono il lor tempo a ragionare pro e contro, i quali finiscono col credere di essere essi soli divenuti sapientissimi e di aver capito essi soli che di tutte le cose di questo mondo non ce n’è una che sia sicura e salda, e così neanche dei ragionamenti; e che insomma tutte quante, proprio come nell’Eurìpo, danno volta continuamente su e giù, e che non c’è mai né un momento né un punto in cui esse rimangono ferme. 144 - Precisamente, risposi; è giusto come tu dici. - Ebbene, o Fedone, egli disse, non sarebbe dunque una condizione lamentevole questa, di uno che, pur essendoci qualche ragionamento vero e saldo e di cui sia pur possi-[d] bile capire che è vero e saldo; per il fatto che poi egli venga a trovarsi dinanzi a ragionamenti i quali, per quanto siano sempre gli stessi, cioè veri o falsi, ora gli appariscono veri ora no, non già incolpasse se medesimo e la sua particolare imperizia, ma, per il piacere di liberarsi dal tormento di simile alternativa, finisse col respingere da sé quella ch’è unicamente sua colpa e la gittasse addosso ai ragionamenti stessi, e così oramai seguitasse per tutto il resto di sua vita, odiando e maledicendo ogni ragionamento, e si privasse della conoscenza e della verità di ciò che realmente esiste? - Senza dubbio, io risposi, sarebbe una lamentevole condizione. - Per prima cosa dunque, egli disse, dobbiamo stare attenti a questo, e non lasciare che si faccia strada [e] nel nostro animo il pensiero che il male abbia da essere nei ragionamenti; ma pensiamo piuttosto che ammalati siamo noi, e bisogna comportarsi da uomini e procurare di esser sani: tu e gli altri, per tutta la vita che vi resta ancora da vivere, io... sì, proprio per questa morte che m’è [91a] addosso. Perché anch’io, trattando di un problema come questo in questo momento, corro il rischio di non comportarmi da vero filosofo, bensì di voler ragione a ogni costo, come quei tali che di educazione filosofica sono privi del tutto. Anche costoro, quando discutono intorno a qualche argomento, non si curano già di ricercare dove sia realmente la verità in ciò di cui stanno ragionando, bensì di fare apparir vere a chi discute con loro le questioni che essi stessi pongono; di questo solo si preoccupano. La replica di Calogero a Croce si basa sul fatto che la stessa pretesa concretezza del pensiero ricercata da Gentile e lo stesso storicismo di Croce portano alla conclusione che non c’è e non ci può essere alcuna effettiva logica o gnoseologia: non si deve e non si può fare però di questa affermazione una certezza logica o gnoseologica positiva, perché si tratta di un’impossibilità concreta, che si mostra nella prassi; è una verità della prassi che non può essere ridotta a teoria. Si tratta di rifiutare la riduzione della vita a logo, di rifiutare la riduzione e l’ipostatizzazione del 145 linguaggio a strumento logico e gnoseologico mentre è mezzo di comunicazione, di dialogo: se questa prospettiva si può chiamare misologia, allora Calogero è pronto a dichiararsi misologo. Ma Calogero non ricade nello scetticismo, ma accetta come verità filosofiche indiscutibili queste necessità della prassi, del dialogo, dell’etica, che si pongono sul piano della volontà consapevole e non del pensiero puro. 17.8 La scuola dell’uomo Compiuta questa critica, questa distruzione della tradizione metafisica occidentale, mostrata la vanità delle costruzioni logiche del mondo, ontologiche o gnoseologiche, come “problemi da rivivere, riconoscere e dimenticare”, Calogero passò a delineare la sua filosofia vivente, la sua filosofia come prassi etica, quello che chiamerà il suo “moralismo assoluto” nelle lezioni de La scuola dell’uomo, tenute all’Università di Pisa come corso di pedagogia nell’anno 1938-1939, e pubblicate poi nel 1939: nella convinzione di una nuova identità fra vita morale ed educazione vivente. Dato il contenuto estremamente composito delle sue varie parti, cercherò di darne qui una descrizione sintetica per capitolo. 17.8.1 Io e gli altri. Calogero inizia a discutere la prospettiva gentiliana dell’educazione come auto-educazione. Seppure condivida la prospettiva per cui insegnare è sempre anche imparare ed educare anche auto-educarsi, e per cui imparare non è ricezione passiva di un insegnamento e quindi essere educati è sempre anche auto-educarsi, Calogero fa notare il rischio solipsistico ed egoistico di questa posizione quando assolutizzata. L’educazione è infatti primariamente etero-educazione: si educano altri e si è educati dagli altri. L’educazione è educazione morale e non c’è morale senza altri reali. Certo, l’esperienza del mondo è sempre soggettiva, non si può prescindere dal soggetto che conosce e non esiste una realtà in sé. La prospettiva della filosofia dell’essere, come quella dei metafisici e di Heidegger, non può essere accettata: la caduta della metafisica ontologica si è avuta già con Kant. E la caduta della metafisica, come discusso ne La conclusione della filosofia del conoscere, implica la caduta della gnoseologia e della logica. Si tratta di vere e proprie malattie del linguaggio: 146 la logica e l’ontologia non sono che ipostatizzazioni della grammatica e della funzione verbale. Se questa diagnosi della metafisica come malattia del linguaggio avvicina Calogero a Ludwig Wittgenstein, la differente valutazione della logica produce una differente terapia e l’esito di Calogero non è certo quello della logicizzazione del linguaggio ricercata da Wittgenstein, ma piuttosto di liberarsi anche della logica come base della metafisica. Non ha senso per Calogero effettuare un’analisi del linguaggio, a prescindere dai parlanti: significa disconoscerne la funzione comunicativa, sostituendola con una funzione logica e gnoseologica. I problemi teorici della filosofia si devono convertire quindi in problemi dell’azione, della prassi etica. 17.8.2 Il mondo morale Non si può identificare l’etica con l’ontologia, come in Heidegger: questo significa annullare l’etica come tale. Bisogna distinguere il “dover essere” dall’essere: se non fosse così, il comportamento morale sarebbe comportamento naturale, sarebbe conseguenza necessaria del proprio essere e non frutto di una libera scelta consapevole e responsabile. Bisogna accettare la prospettiva Kantiana del dover essere, anche se reinterpretandola in termini non rigoristici di un dovere imposto, se non da altri, da sé stessi. La morale si oppone essenzialmente all’ontologia, alla metafisica e alla logica, che cercano di fondarla su esse: non ci sarebbe più libertà del volere, se esistesse un fondamento necessario ontologico o logico della morale. Tuttavia, l’idea di libertà del volere può essere solo la pre-condizione della moralità che si mostra nelle azioni che si sceglie di compiere, e a nulla serve darle uno statuto ontologico-metafisico, che contraddittoriamente la renderebbe necessaria: tutto ciò che è necessario non ha anche un valore morale in sé. La legge morale come un programma della volontà, una volontà volente: non si tratta di un destino, ma di un “dovere” nel senso di scelte che si devono compiere. La legge morale non può essere puramente formale come quella di Kant: si deve presentare concretamente come quella di Socrate o del Vangelo. L’amore del prossimo come amore personale 147 del Vangelo, Kant lo ha tradotto astrattamente nell’espressione per cui l’umanità non deve essere considerata come mezzo ma sempre come fine. Non c’è morale senza gli altri, ma l’esistenza degli altri è legata alla mia volontà di considerare il loro dolore e la loro gioia come i miei: il riconoscimento morale non equivale alla mera ricostruzione ermeneutica della loro personalità, perché si tratta dell’abnegazione di sé stessi per gli altri, di dimenticare le mie cure per le cure degli altri: “ama il prossimo tuo come te stesso” è quindi una traduzione che può essere fuorviante perché potrebbe essere intesa nel senso di un egoismo allargato o di un amore che deve essere uguale all’egoismo, e sicuramente non comporta quel rinnegamento di sé stessi (Matteo 16.21-27) o quel morire per gli altri (Giov. 15.13) che caratterizza la vita e la morte di Gesù e la sequela da Lui richiesta. Bisogna tradurre, invece, l’insegnamento, quando richiamato (Es. 20.12-17, Dt. 5.17-20) da Gesù nel Nuovo Testamento (Matteo 19.19, Luca 10.27, Marco 12.31, tenendo presente il ribaltamento del senso oggettivo in senso soggettivo del prossimo di Luca 10 e seguendo l’interpretazione di Luther che elimina la connotazione egoistica (secondo Luther, “ama il prossimo tuo, come [nel peccato ami] te stesso”) 98 : “Ama e fai l’altro prossimo a te stesso”. Questa abnegazione può esserci anche per animali e per piante anche senza comprensione linguistica o logica, e anche quando potrei non essere in grado di distinguere se fossero macchine: si tratta quindi di una comprensione più alta nell’amore, e quindi non di una logica ermeneutica ma di un’ermeneutica dell’amore. La morale è una fede: perché l’esistenza degli altri non è termine di una constatazione astratta del pensiero puro, ma termine di azione etica: per riconoscere un altro debbo volerlo, il pensiero li ridurrebbe a cose-oggetti. Pascal prima e poi Kant hanno mostrato che il soggetto come libera volontà etica non è empiricamente deducibile, non si può distinguere un essere volente da una macchina. Se questo fosse possibile, riconosceremmo le azioni umane come eventi che violano le leggi di Natura che 98 A. NYGREN (1930), Eros e Agape, tr. it. di N. Gay dalla versione tedesca del 1955, a cura di F. Bolgiani, EDB, Bologna 1990, pp. 724-731. 148 allora erano considerate meccanicistiche e deterministiche: l’essere umano non apparterrebbe alla Natura. Oggi che le leggi della Natura sono state sovvertite dalla fisica quantistica, si può rilevare, e l’elettrone appare muoversi secondo una sorta di libero arbitrio aborrito da Albert Einstein (18791955), il meccanicismo e il determinismo precedenti sono stati falsificati, ma è sorto un altro tipo di meccanicismo più sofisticato, quello che considera la Natura come una macchina calcolatrice, e questa macchina può essere anche un “computer quantistico” che si sta cercando di realizzare: in questo caso non è possibile distinguere comunque il comportamento umano da quello di una macchina calcolatrice “libera”. Dal punto di vista della fisica quantistica, allora, sarebbe possibile mostrare il comportamento libero e impredicibile del volere umano senza escludere l’essere umano dalla Natura, ma non si potrebbe comunque escludere che un comportamento libero e impredicibile sia di una macchina calcolatrice (l’enfasi è qui sulla libertà e non sull’intelligenza come nel test di Turing e nelle sue modifiche). Schopenhauer credeva di poter intuire la volontà noumenica nel proprio corpo, ma non si rendeva conto che più precisamente la propria volontà, che non è più un noumeno per Calogero, si comprende nel pensiero che è tutt’uno con l’azione, ma non si può sentire quella degli altri: l’etica non è una questione di empatia fisica o naturale, ma di volontà simpatetica. Fichte poneva l’esistenza degli altri a partire dall’io, ma non si tratta di porre-creare il non-io da parte dell’io, ma di riconoscere effettivamente gli altri nell’azione etica. L’amore è fede nell’Altro, non c’è bisogno di presupposizioni ontologiche su cui basare l’etica. Chi fosse veramente solo al mondo non potrebbe uscire dal suo egoismo e non potrebbe vivere in un mondo morale. 17.8.3 La morale come educazione Si vuole veramente il bene dell’altro, quando questo bene non si identifichi con qualcosa che comporta il male per altri terzi: non solo questo comportamento che comporti un male per altri terzi 149 non sarebbe morale, ma sarebbe anche diseducativo, un’affermazione dell’egoismo dell’altro. Volere il bene dell’altro è volerlo nel bene di tutti gli altri, volere il tu insieme agli altri lui e lei. In morale non ci sono doveri verso sé stessi. La morale non si può basare né su un dogmatismo trascendente né su un rigorismo trascendentale, che significano comunque obbedienza a un comando incondizionato. Volere l’abnegazione di sé stessi per gli altri è sempre volere quello che si preferisce, altrimenti si farebbe qualcosa solo per dovere e non per proprio impeto morale: l’impeto morale consiste nel preferire la felicità altrui alla propria, nell’essere felici anche nella propria sofferenza per la felicità degli altri (Paolo in I Cor. 7.29-31), gusto del gusto altrui: questo non è egoismo o utilitarismo perché non si richiede nulla in cambio, l’altro è termine di pura gratuita dedizione. Si vuole il bene dell’altro laddove il suo bene è volere il bene di altri in un processo senza fine che coinvolge tutti gli esseri, in una morale che è educazione: questa totalità di esseri non è limitata da nessuna caratteristica ontologica, ma l’infinità è legata al fatto che dipende solo dalla mia volontà, che la mia volontà etica si volge anche verso l’umanità futura e non solo per l’utilità di qualcuno o di tutta l’umanità presente, o anche verso gli altri esseri viventi. La moralità è questa apertura illimitata a riconoscere altri, e in questa sta la sua infinità, divinità, eternità e non in ragioni teologiche o ontologiche. 17.8.4 La libertà In questo riconoscimento dell’altro c’è una limitazione della mia libertà, e nel riconoscimento di altri terzi c’è una limitazione della libertà del tu. La libertà come una libertà della volontà, come una caratteristica trascendentale del soggetto, può secondo Kant essere accessibile solo alla ragione pratica, ma questa definizione teoretica è paradossale perché costituirebbe una necessità ontologica del soggetto: questa libertà del volere equivale al volere, ed è invece la prassi a mostrarla. 150 La vera libertà che costituisce un valore morale non è quella dell’io soggetto del volere, ma la libertà del tu oggetto del volere dell’io: la libertà dell’io è quella che si limita davanti alla libertà del tu, e la libertà del tu quella che si limita davanti alla libertà di altri ancora. La libertà dell’io soggetto del volere, c’è sempre necessariamente; questa libertà del tu oggetto del volere può esserci o non esserci e dipende dalla volontà degli esseri umani, ed è quindi un ideale per cui lottare, una libertà che si vuole e si ama e si difende ed è un valore in quanto può non esserci; questa libertà non è eterna ma deve essere voluta eternamente. Libertà e servitù non sono determinate dal trascendente o dal trascendentale, ma dalla nostra volontà come fede nella moralità. La civiltà è promozione e limitazione voluta della libertà propria per la libertà degli altri, limitazione della fruizione del mondo come mezzo per riconoscere altri come fini. Si tratta di abnegazione della propria libertà per la libertà degli altri che a loro volta si abneghino per altri ancora all’infinito: l’arresto di questo processo infinito, se accade, costituisce il decadimento della morale in utilitarismo. La mia libertà entra in gioco solo nell’educare il tu al rispetto della libertà degli altri: sarà l’altro così a volere la mia libertà. Volere la libertà altrui è equivalente a volere il bene altrui, e questo copre l’intera morale: non c’è bene morale che non sia convivenza di libertà. La felicità morale così intesa in termini di libertà mostra che si basa sempre a una rinunzia al proprio arbitrio che come tale è amorale. La limitazione della libertà propria deve avvenire in modo da poter assicurare la libertà di tutti gli altri senza limiti, per donazione e non per contratto utilitaristico. In questo senso, la libertà si oppone alla giustizia, che fa riferimento se non a una norma giuridica, a un obbligo morale. Non solo: mentre la giustizia solitamente intesa implica una parità di diritti e doveri morali o giuridici, la libertà, che deriva dal dono dell’amore, che si ha nell’amore (la libertà è dell’azione che non ha un secondo fine a cui è asservita: solo l’amore non ha secondi fini, si ama solo per amare), che è amore della libertà altrui, può squilibrarsi verso gli altri e va oltre la giustizia classica che pesa ugualmente i piatti della bilancia; la libertà dell’amore va fino all’annientamento di sé stessi per gli altri (si può 151 donare il mantello, a chi ti ruba la tunica, secondo il discorso della montagna di Gesù), fino alla morte. Per la libertà, bisogna allora ricercare una “giustizia più alta”, bisogna ridefinire la giustizia in termini della libertà. La giustizia sarà allora il volere la libertà giusta degli altri, ripartizione di uguale libertà agli altri libertà anche di volere il bene altrui in eccesso rispetto al proprio o contro il proprio. Bisogna essere giusti per libertà e in libertà, e non per dovere e in parità; bisogna essere uguali non per natura, ma uguali nella libertà per volontà morale. In questo nuovo senso, libertà e giustizia coincidono. Se l’ideale della civiltà antica era l’ideale della giustizia, l’ideale della moderna civiltà cristiana è l’amore, la libertà; la giustizia è quindi da ricomprendere non più secondo la formula “a ciascuno il suo” che indica un dovere e una proprietà inviolabile di diritto, ma piuttosto in termini di equa libertà, “a ciascuno secondo amore”. 17.8.5 Il diritto e la politica L’idea di intervenire perché anche gli altri rispettino la reciproca libertà fa sorgere per Calogero la necessità di un’autorità statale, di un diritto e di una politica che regolino e preservino questa reciproca libertà. D’altra parte, Calogero si confronta con la posizione di chi non si sente di porre costrizioni sulla volontà e sulla libertà altrui, di chi auspica un ideale di non-violenza assoluta che eviti qualsiasi forma di coercizione e che operi solo attraverso la persuasione nel dialogo e la testimonianza di vita: non si tratta quindi di un non intervento. La non resistenza al male, teorizzata da Tolstoj a partire dal Vangelo, ripresa da Gandhi e da tutti i movimenti non-violenti, implica solo il non opporre male al male: si tratta piuttosto di una resistenza passiva alla violenza, ostacolando l’esercizio della violenza su altri, mettendosi in mezzo a scudo degli altri perché la violenza non si effettui. È questo l’ideale evangelico di una più alta rettitudine o giustizia, l’ideale di una società degli esseri umani come dovrebbero essere, e quindi ideale da perseguire nell’educazione e nella civiltà. 152 Calogero ammette che uno si lasci colpire da un altro per non rispondere con la violenza, ma non ammette che si lasci colpire altri: in questo caso, però, la legge (che quindi è “solo” l’estensione della morale all’uso della coercizione) opererebbe solo come prevenzione della violenza e non dopo come punizione della violenza. È comunque la persuasione che deve decidere della eventuale coercizione e non viceversa: è la costituzione accettata per convinzione che è la “legge della formazione delle leggi”. Lo stato non è quindi che quell’attività di una parte rappresentativa di una certa comunità sociale, volta a regolamentare l’uso della coercizione per garantire la giusta libertà. Quando quest’obiettivo è tradito, allora lo stato legittima la violenza, l’ingiustizia, l’illibertà e la diseguaglianza economico-sociale. Anche l’esperienza politica non si distingue da quella giuridica se non per la distinzione fra la funzione giurisdizionale e quella legislativa. Si tratta di un volontarismo etico-pedagogico che estendendosi diventa giuridico-politico. C’è un’educazione giuridico-politica che è estensione di quella morale e c’è una giurisdizione ovvero una politica dell’educazione che deve essere morale. 17.8.6 La storia, la civiltà e lo storicismo Quest’operare morale costituisce la storia come storia della civiltà. C’è il dovere morale di comprendere le personalità altrui di cui facciamo storiografia, senza giustificarle, e c’è il dovere di fronte alle persone per le quali scriviamo questa storiografia. Le opere storiografiche non possono più interessare a chi non ha più possibilità di agire, ma possono interessare chi è ancora coinvolto nell’azione: così, si comprendono e si perdonano tutte le azioni compiute, ma si approvano e si riprovano per chi ancora ha azioni da compiere e per cui il passato costituisce una testimonianza positiva o negativa. La storiografia ci mette di fronte a storie di persone molto diverse, che hanno fatto scelte diverse di vita, che sfilano davanti a noi e ci permettono di fare scelte personali anche sulla base di quelle degli altri nel passato. Lo storico, così, da una parte, deve attenersi ai documenti scrupolosamente e deve essere imparziale nella ricerca della verità per comprendere ermeneuticamente l’esperienza altrui, come nell’esperienza dialogica e morale; sia per le persone che non ci sono più sia per i fruitori della sua opera storiografica. Le opere di storiografia non 153 vengono scritte per malati o per folli, a cui potrebbe essere opportuno nascondere qualche verità sul loro stato di salute: bisogna sempre dire la verità e non nascondere alcunché. Dall’altra parte, pur comprendendo e perdonando, lo storico deve prendere posizione sul bene e sul male della storia, affinché la storiografia abbia valore morale-educativo per orientare le azioni future: così, anche la selezione dei fatti presentati va fatta in funzione di questo valore moraleeducativo, per sottolineare soprattutto quegli eventi e quei processi storici che segnano la storia della civiltà come un’ascesa morale, a contrasto delle azioni opposte, per la loro testimonianza etica. Su questo punto c’è accordo con lo storicismo italiano di Benedetto Croce, anche se in esso sopravvive, seppure modificato, tutto l’armamentario logico-dialettico di Hegel del motivo realistico del “giudicare” e una parte di quietismo legata all’indifferenza dello storico. Lo storicismo, certamente, riconducendo tutto alla storia, abbandona le varie realtà trascendenti e presenta sé stesso come una mera posizione storica all’interno della storia; facendo così, però, lo storicismo non coglie che non può pensarsi in questo modo se non all’interno della propria specifica esperienza soggettiva, che resta sempre fuori da quella storia nel delinearla. Nella considerazione di una storia dello Spirito come nuova divinità trascendente, inoltre, si presenta come una nuova filosofia metafisica della storia, che ingabbia le storie dei singoli uomini che possono essere schiacciati. 17.8.7 I pericoli dello storicismo Lo storicismo rischia sempre di cadere nell’indifferentismo, nel quietismo, nel relativismo. Non si deve più credere nella causalità naturale, né in senso ontologico né gnoseologico, come ciò che ci toglierebbe libertà, né si deve credere in leggi naturali. La Natura è parte della nostra esperienza, e la causalità e le leggi esprimono solo la necessità del passato delle nostre azioni. La scienza della Natura non può dirci nulla sul senso e sul valore della vita, su come dobbiamo viverla eticamente, ma è un complesso di conoscenze basate su esperienze tecniche, che possiamo usare per 154 prevedere le conseguenze di certe azioni e per valutare l’efficacia delle nostre azioni nel controllo degli eventi della Natura. Non bisogna quindi credere che la scienza ci fornisca un sapere superiore, nascosto a chi non si dedica alla ricerca scientifica, relativo a una Natura, intesa come una realtà di una cosa in sé, di un realismo metafisico. La Natura s’incontra sempre e soltanto nell’esperienza e nelle azioni sperimentali; la scienza ha a che fare quindi solo con universali empirici che non hanno cogenza teoretica e si distingue dalle altre forme di sapere solo per la maggiore efficacia d’azione che consente. La conoscenza scientifica non è però inferiore alla presunta conoscenza teoretica della filosofia, come in Croce e Gentile, perché anche la filosofia deve presentarsi come filosofia pratica per non ricadere nella metafisica: non ci sono veri concetti o veri universali, dominio soltanto della logica o della filosofia. Neanche la matematica può accedere alla realtà più del puro pensiero e la cogenza che presenta è quella del principio di determinazione della logica noetica e nulla di più (la matematica non è più considerata come il linguaggio di Dio, ma è un nostro strumento per prevedere e anticipare nel calcolo gli eventi): la ricerca scientifica non può quindi sfuggire più o meno di altre attività umane a una valutazione etica. D’altra parte, questa pretesa della matematica si basava su un presupposto teologico di una Ragione Divina che la istituisca come ciò che presiede alla storia e all’universo. La concezione totalitaria e “infinitistica” di Dio (parmenidea e spinoziana) come una ragione onnisciente non solo non permetterebbe la nostra moralità e la nostra responsabilità, ma non permetterebbe neanche la nostra esistenza. E quindi il fatto stesso che ci siamo e ci poniamo domande sulla sua esistenza è una prova dell’inesistenza di una tale divinità. D’altra parte, il tema dell’onniscienza, derivante dalla teologia greca dell’intelletto, non è conciliabile con la teologia cristiana della volontà onnipotente. L’unica forma di religiosità ammissibile, esperibile, è quella cristiana in cui Dio come Amore si manifesta nella stessa esperienza etica umana, a partire dall’esperienza dell’essere umano considerato divino, Gesù, che ha introdotto nella storia umana quest’esperienza etica: l’idea di Dio 155 non è asserita in una duplicazione del reale oltre il reale, ma è incarnata nella storia umana singolare di Gesù. Solo la divinità umana di Gesù può instaurarsi nella nostra esperienza e fare parte della nostra esperienza etica: i veri cristiani non sono quelli che credono in una divinità in cui si annullano, ma coloro che operano eticamente con Cristo e in Cristo. Mentre l'etica normativa mira alla fondazione del giudizio morale per l'atteggiamento e per il comportamento umano, la parenesi non si prefigge scopi conoscitivi e intellettivi. Mentre l'etica normativa si rivolge all'intelligenza per far capire quale sia il vero giudizio morale, la parenesi si rivolge alla volontà, al cuore, per esortare e ammonire. L’etica del Vangelo è parenetica e la fede può essere solo parenetica (esortativa). La provvidenza teologica, per Calogero, non appartiene all’originaria prospettiva cristiana, ma si deve all’ellenizzazione del Cristianesimo, che causò l’innesto del razionalismo stoico nel volontarismo cristiano, imprigionando nella ragione contemplante greca la bontà operante cristiana, e dando adito a delle teologie della storia, della provvidenza storica, ancora presente, comunque, in Vico, Hegel e Croce. Si ridurrebbe la Grazia imperscrutabile a Ragione certa. L’idea della provvidenzialità di ogni evento porta al quietismo del volere morale. L’unica prospettiva condivisibile non è quella di una sovra-individuale ragione storica che ne regoli il corso, ma piuttosto quella del trovare ragioni storiche delle azioni dei singoli, come implicito nel motivo del nemo sua sponte peccat di Socrate, e del nesciunt quod faciunt e del nolite judicare del Vangelo. Le filosofie idealistiche della storia non duplicano il reale in un ideale separato, ma comunque fanno del reale una manifestazione dell’ideale razionale del bene, nella prospettiva del Weltgeist e dell’astuzia della ragione, in una esonerazione del fare morale dei singoli: per esse, la povertà non è il frutto di un’ingiustizia, ma il necessario polo antitetico dialettico della ricchezza, voluto dallo Spirito del Mondo, che dà ai suoi rappresentanti, Napoleone o Hitler o altri, il diritto di schiacciare gli individui. Bisogna rideclinare invece il divenire spirituale dialettico dalla sfera della ragione alla sfera dell’azione e della volontà. 156 Le leggi della logica e della dialettica sono cristallizzazioni delle regole di onestà nel dialogo, nell’espressione della propria e altrui esperienza, in canoni logici e gnoseologici del pensiero e della dimostrazione della verità, che poi, a loro volta, vengono trasformati in canoni ontologici e metafisici della realtà. Così, la legge dell’universo è diventata la legge logica della non contraddizione del singolo parlante o la legge dialettica della contraddizione degli opponenti nel dialogo. Così, si è concepito il male come necessario presupposto dell’opposto bene e viceversa, per cui il diavolo diventa l’agente della storia di Dio. L’immanentismo si risolve in relativismo. Si deve contrapporre non la filosofia del non senso del mondo a una filosofia del senso del Logos del mondo, ma piuttosto contrapporre a queste una filosofia della volontà morale che il mondo abbia un senso. La storia è storia dei singoli uomini, delle singole volizioni. Anche un momento di sofferenza di un singolo essere umano, di un singolo ente, è un fatto storico gnoseologicamente e ontologicamente più rilevante della storia universale, dei popoli, delle nazioni, dell’essere che costituiscono sempre un’astrazione. 17.8.8 La storia come conquista di abitudini Lo storicismo presenta però non solo una teologia della provvidenza razionale, ma anche una teologia della “creazione” in relazione all’attivismo di Fichte: anche questa però è una visione unilaterale, soggettivistica. Calogero effettua quindi tutta una critica dell'idealismo e del neoidealismo italiano, soprattutto di quello di Gentile, come complesso di novità e pure di residui arcaici. Si tratta di un atteggiamento che sfocia nell'ozio, perché crede di poter effettuare tutto col pensiero, come nell'atteggiamento magico e poi miracolistico, e nella condivisione dell'ideale della tecnica, dell'efficacia tecnica del pensiero umano: lo stesso creazionismo teologico non è, per Calogero, altro che la sublimazione dottrinale del miracolismo tecnologico. L'ideale di una libertà assoluta dell'io che non ha più nessun vincolo morale. 157 Bisogna liberarsi sia della provvidenza storica di Croce che dell'auto-creazione di Gentile per salvare la prassi etica. L’educazione deve mirare all'innamoramento del bene altrui, per fare comprendere che la gioia morale è la più alta: deve mirare a formare l'abitudine morale che costituisce la civiltà. 17.8.9 Educazione e istruzione Per la distinzione fra educazione pratica ed etica e istruzione teoretica, Calogero inizia a fare un’analisi critica delle varie forme di gnoseologia. Quando si critica la gnoseologia dell’azione, in quanto l’azione modificherebbe il reale, in qualche modo falsificandolo, chiaramente lo si fa presupponendo la gnoseologia realistica dell’adeguazione. In Kant, anche l’attività del pensiero è considerata come un’azione che modifica e falsifica il reale, e quindi presuppone la concezione gnoseologica dell’adeguazione. Qualunque gnoseologia si può ridurre a quella dell’adeguazione, se distingue la funzione teoretica da quella pratica. L’ideale diventa quello del conoscere del conoscere, cioè del conoscere che riflette sé stesso, come nella teologia aristotelica. La critica moderna consiste nel mostrare che non si può definire un reale se non nel conoscere e che l’attività teoretica è in realtà vita e cioè attività pratica essa stessa, in quanto stesso desiderio di conoscere, e non mero conoscere, e il conoscere è fine di un desiderio (vita contemplativa: solo con un riferimento a un pensiero incarnato nelle azioni della vita si possono comprendere le dualità fra ideale e reale, fra possibile e necessario, fra immaginario-desiderato e reale, fra universale e singolare-individuale). Il conoscere puro è solo quello della concezione aristotelica di Dio come noesis noeseos che non può godere neanche di sé stesso e non può agire, all’opposto della prospettiva cristiana. Bisogna concludere invece con il pensiero moderno che il conoscere è agire e che le due cose non sono distinguibili. Calogero critica poi la soluzione di Gentile, perché l’azione là resta subordinata agli arcaismi della logica e della gnoseologia e attribuita alla somma delle attività teoretiche e pratiche dello spirito. Croce è poi criticato perché, distinguendo teoria e prassi, subordina l’azione 158 alla gnoseologia dell’adeguazione e dell’universale, perché l’azione in sé stessa e tutto quello che vi è legato (il sentimento, la passione in atto) potrebbero essere colti solo nel momento teoretico più alto che comporta concetti universali, come se non ci potesse essere effettiva consapevolezza e conoscenza se non nell’arte e nella logica e non nella vita stessa. In questo senso, per Calogero, il conoscere è il vivere stesso e l’illuminazione della verità come luce dello ‘spirito’ è sempre presente nella vita consapevole, ma non è un’illuminazione interiore a un pensiero puro: l’illuminazione viene dagli altri nell’azione etica; bisogna riscrivere la poesia di Ungaretti (non “m’illumino d’immenso”, ma piuttosto “m’illumini d’immenso”). Dire che quella teoretica è una conoscenza superiore è possibile solo distinguendo la verità della consapevolezza da una realtà cui avrebbe accesso solo l’attività teoretica, e così si ricadrebbe in una gnoseologia dell’adeguazione a una realtà ontologicamente presupposta al conoscere. 17.8.10 La vita pratica e la vita scientifica Ciò che per il senso comune è solo una distinzione di attitudini e di stili di vita, fra l’operosità pratica e l’operosità teoretica, viene nella filosofia, come in quella crociana, ipostatizzato a una distinzione assoluta fra due momenti dello spirito. Si tratta di distinzioni che si possono cogliere solo facendo riferimento al passato del già fatto (factum) e al futuro del da fare (facendo). La stessa differenza fra logica e dialettica sussiste nell’anti-teologica (nel senso greco aristotelico) del fare che ha sempre un contenuto determinato-delimitato, ma allo stesso tempo sempre superabile nell’alterità aperta dall’azione. Questa distinzione è anche alla base della distinzione fra azione-atto compiuto e volizione d’azione, cosa negata dall’idealismo gentiliano, che, a partire della negazione hegeliana della distinzione dell’essere e del dover essere (seini e solleni sono identificati), cadeva nel delirio d’onnipotenza creazionistico del pensiero che può porre tutto, fino al ‘volere è potere’ del fascismo mussoliniano. L’attività teoretica come vita contemplativa, come ricerca, ha le stesse caratteristiche dell’attività pratica, con finalità e intenzionalità del volere del suo comportamento. Anche la programmazione dell’azione da parte dello scienziato ha un’incompletezza e un’imprevedibilità che rendono 159 possibile o meno una certa realizzazione dell’azione, che non è diversa da quella che sussiste per le attività pratiche: solo per la ‘presunzione’ dell’essere umano che si volge a fini pratici o economici immediati può in quel caso non sussistere. L’idea stessa della rivelazione, per Calogero, non è altro che l’ipostasi mitica o mistica di un’esperienza dall’esito imprevisto. 17.7.11 Le cose e il gusto delle cose La prospettiva personale, soggettiva, dell’esperienza determina differenti modi di vedere, in relazione a differenti ‘gusti’ che orientano differenti direzioni di vita, e non permette quindi di accettare l’illusione di un mondo unico per tutti uguale, dato ontologicamente come indipendente dalla molteplicità delle percezioni soggettive. I processi di astrazione e di identificazione visiva trasposti sul piano del linguaggio, fermando nel linguaggio ciò che si è fermato nella visione, costituisce la logica, pretendendo dagli altri che adottino lo stesso fermo linguaggio, interpretato secondo la stessa ferma visione. Non bisogna giudicare male questo processo di astrazione e identificazione rispetto a un presupposto piano ontologico, ma dobbiamo comprendere con Nietzsche che c’è un bisogno pratico di fare così per un controllo tecnico delle cose come nella fisica e nella meccanica che usano la scrittura più ferma della matematica. Così si può comprendere come “l’attitudine a riassumere, ordinare e dominare nella memoria e nell’azione la maggiore quantità possibile di esperienze utili” possa essere legata al mondo della tecnica e della logica, e la pienezza del sentimento del mondo, non semplificata, sia invece connessa al mondo dei valori e della morale. Istruire è condurre al dominio tecnico delle cose, educare è condurre all’atteggiamento etico verso le cose. L’istruzione raffredda spesso negli esseri umani la passione morale. Da qui si può spiegare l’impossibilità di dimostrare l’etica logicamente; piuttosto per accettare la logica ci vuole la disposizione etica: il richiamo alla coerenza semantica della non-contraddizione non basta per fondare l’etica. L’indeducibilità logica non è che l’indice dell’incoercibile libertà morale. Altro è 160 parlare d’amore, comunque, altro è amare: riconoscere la necessità di una verità filosofica etica, altro è operare eticamente. Così, questo libro, spiega Calogero stesso, è sì l’esposizione di una prospettiva morale, ma anche una predica morale. Da un lato, esprime una verità filosofica come dato inderogabile del suo volere, come necessità della propria esperienza, dall’altro, è un invito agli altri a constatare la stessa necessità del volere altruistico in loro stessi: è la proclamazione di un progetto di vita esposto con amore perché desti amore, confessione di un gusto di carità che ha fede e speranza di essere condiviso. C’è anche una scuola della Natura e del suo silenzio per chi è stanco e ferito dal proprio gusto dell’umanità, spesso deluso dall’umanità stessa. 17.8.12 L’educazione tecnica e la tecnica dell’educazione Qui si parla della necessità dell’istruzione per l’educazione, perché è necessario appropriarsi di tutti quegli strumenti che siano utili per l’affermazione della volontà morale. Anche per la creatività artistica è necessaria una tecnica, e così per l’educazione morale. Studiare la poesia non è solo conoscere tecnicamente il suo mondo espressivo e gustarla, né tantomeno estraniarsi dalla realtà, ma piuttosto anche educare l’animo a quella passione e a quell’amore che in essa vive per fare della vita poesia. 17.8.13 La scuola dell’arte Né l’arte né la scienza possono restare al di sopra della morale. La prospettiva crociana dell’arte come sintesi di immagine e sentimento è ancora valida, se spogliata dal suo carattere gnoseologico: dire immagine è dire immagine sentita. Nel canto, l’amore deve continuare a vivere, anche se in una forma diversa. C’è quindi un’educazione estetica. L'educazione estetica non può che coincidere con l'educazione morale: la catarsi che si realizza nell'arte non può essere diversa dalla catarsi morale in cui il dolore, la sofferenza sono riscattati non nella mera contemplazione di una bellezza 161 compositiva pacificatrice propria di un mondo che è diverso da quello reale e che da questo ci aliena, ma piuttosto nell'amore reale che si trasfonde nella vera opera d’arte e trascende l'egoismo e la sofferenza. Le poesie, i testi, le opere, che esprimono questa purificazione ci devono stare vicino come le compresse contro il mal di testa, perché possano ritrasmetterci quella forza morale che trascende la sofferenza e possano costituire una continua alimentazione spirituale, un'iniezione continua di vita. 17.8.14 La scuola della religione Qui, Calogero continua a contestare quell'esperienza religiosa di un Dio annichilente che è quello della teologia e della mistica che derivano dalla teologia greca intellettualistica, aristotelica, che ha fatto prevalere l'ideale contemplativo (monacale) anche all'interno del cristianesimo, per sua origine legato all'attività della libertà e dell'amore che trascendono qualsiasi dimensione razionale costrittiva. A questa critica di Calogero sfugge solo il misticismo etico di Albert Schweitzer. L'assoluto, contrapposto al relativo, si presenta già in una definizione che lo rende relativo al relativo. Ma la teologia si annida anche nelle filosofie della storia e dell'essere: hanno bisogno di sentire fuori di sé stessi una forza che li appoggi, una ragione o un essere che guidi la storia e li rassicuri che tutto sia razionale, ed eventualmente sia razionale stare dalla parte del vincitore. Bisognerà liberarsi delle idee di paradiso e inferno che condizionano egoisticamente la nostra vita, nell’attesa di una ricompensa individuale e di una punizione di altri: il paradiso è il continuare a vivere negli altri. Cristo non è morto in croce per la propria salvezza, ma per la salvezza degli altri! Ha insegnato a pregare non per sé, ma per gli altri, in una dimensione comunitaria che è quella del Padre nostro. La vera educazione religiosa è l'educazione morale, che non ha bisogno di far credere in teologismi metafisici a chi non ne ha bisogno o di non far credere a chi invece ne ha bisogno. Il Vangelo è il massimo testo di morale a disposizione dell'umanità. 162 Il 'questo è il mio corpo' aveva un senso di scelta di povertà e di cibi che non sacrificassero altre vite, e quindi di dono della propria vita agli altri al contrario della fagocitazione egoistica di altri; ma a livello teologico e liturgico è stato ridotto a egoistico impossessamento della divinità. Anche la confessione, se non è vissuta come strumento di potere o abitudine, può essere educazione morale. Essere cristiani non è studiare la teologia dogmatica, ma mettere in atto la reale imitazione di Cristo. Anche la morale, per il laico, è una religione, una fede, e, seppure è pronto a discuterne con altri, a imparare sempre da altri e altri ancora, è una fede ferma: appartiene a una chiesa che non ammette 'tradimento di chierici'. Lavorare per questa chiesa è la sua missione, che costituisce il senso della sua esistenza. La salvezza non è del proprio io, ma prolungamento del proprio operare morale. Bisogna agire come se si dovesse morire subito e come se non si dovesse morire mai. Partecipare nell’amore alla vita altrui, significa avere una vita negli altri che dura oltre la nostra morte individuale: la resurrezione e l’ “immortalità” indicano non la sopravvivenza di un corpo individuale da conservare-imbalsamare né la sopravvivenza di una sostanza spirituale incorporea come l’anima platonica, ma il vivere la vita infinita dell’amore delle infinite altre vite altrui sempre corporee-e-animate-insieme, nel dialogo infinito delle altre vite. Per questo, come dice Gesù, chi vuole conservare la propria vita (individuale), perderà la vita (non individuale nella sua vera dimensione). Con Goethe, Calogero condivide la speranza che se l'attività mia è un continuo operare morale, nella Natura stessa si avvierà un’altra forma d’esistenza in maniera che questo operare non cessi mai. 17.9 Calogero, la filosofia pratica e la svolta comunicativa di Apel e Habermas e il pragmatismo di Rorty 163 Ancora è grandemente vivo il dibattito, dalle origini antichissime, dei rapporti tra filosofia, etica e politica.99 Solitamente, il problema di questi rapporti viene posto nei termini di un presunto nodo epistemologjco fondamentale, che forse potrebbe essere racchiuso in questi tipi di quesiti: è necessaria una fondazione filosofica (o "scientifica") dell’etica e della politica? Ma è realmente possibile una tale fondazione? E se non lo fosse, si cadrebbe in una sorta di "relativismo" assoluto per il quale "tutto va bene"? Varie risposte a tali quesiti sono state date e si sono storicamente succedute: la maggior parte, compreso il marxiano "rovesciamento della dialettica" con il tentativo di fondare un socialismo "scientifico", ricade in quello che si potrebbe chiamare "paradigma fondazionale". In un tale paradigma, la filosofia, se non più come metafisica dichiarata, soprattutto come teoria della conoscenza o epistemologia, svolge un ruolo gerarchicamente dominante, riduttivo, fondativo e normativo rispetto alle altre varie pratiche umane. La prospettiva che qui seguirà si allontana radicalmente da un tale paradigma fondazionale. Oggi come oggi, il rifiuto di un pensiero fondazionalista si sta diffondendo a livello mondiale in una discreta, larga fascia di pensatori di avanzata ricerca filosofica nelle teorizzazioni della corrente continentale dell’ermeneutica, come filosofia dell’interpretazione. Va di fatto, però, che l’ermeneutica si avvii a divenire una filosofia puramente accademica, pacificata, ideologicamente neutrale, un semplice "indebolimento" teorico di vecchie e definitivamente compromesse posizioni, una nuova retorica del logos filosofico che non riesce mai ad oltrepassarsi, che non vuole rinunciare al suo dominio sulla natura come sulle altre pratiche umane. Insomma, una filosofia formale e vuota, sia che a-storicamente tenda a porsi come "teoria descrittiva della costituzione ermeneutica dell’esistenza", come bene ha spesso stigmatizzato Gianni Vattimo, sia pure, tuttavia, come propone lo stesso Vattimo, che tenda a storicizzarsi e a riconoscersi come "evento del destino", come filosofia dell’epoca delle immagini del mondo e del loro conflitto, di quest’Europa secolarizzata, della società della comunicazione di massa, della razionalizzazione scientifica e tecnologica del 99 E. GIANNETTO, La pratica ermeneutica del dialogos in Ermeneutica e Filosofia Pratica, a cura di N. De Domenico, A. Escher Di Stefano e G. Puglisi, Marsilio, Venezia 1990, 99-112. 164 mondo, del passaggio ad una tecnologia informatica in cui soggetti e oggetti si vanno dileguando. In entrambe queste tendenze, l’ermeneutica si avvia a perdere quell’eredità, che pure ha ricevuto reinterpretandola, di tutte le riflessioni critiche sui rapporti sapere-potere che da Marx a Freud, da Nietzsche a Foucault, a Baudrillard si sono sviluppate, ricadendo appunto in un neutrale, ideologico, nichilismo, e lasciando elusi tutti i residui di antropocentrismo, di biocentrismo, di violenza contenuti in ogni "logos" umano (pure quello ermeneutico) che comunque si auto-affermi. D’altra parte, il rifiuto di un pensiero fondazionalista ha delle radici ben salde, non ha più come semplice retroterra le istanze speculative della corrente ermeneutica: esso si può basare su delle dimostrazioni di teoremi di impossibilità logiche che investono qualsiasi forma di sapere, quali sistemi di proposizioni comunque giustificati o fondati; dimostrazioni che ancora prima che dai più recenti sviluppi della corrente "analitica" derivano dallo stesso pensiero logico-scientifico, dalle indagini di questo sui propri fondamenti. E’ solo una mistificazione filosofica quel tentativo di aggirare gli ostacoli logico-matematici per fondare trascendentalmente il sapere, sia a livello semiotico che "pragmatico". Una riconsiderazione dei rapporti fra filosofia, etica e politica, da un punto di vista antifondazionalista, implicherà allora un’analisi critica dei presupposti di tutto il pensiero filosoficoscientifico, e solo dopo si potrà impostare un discorso relativo ad etica e politica. Un tale percorso, in effetti, è stato compiutamente realizzato nel pensiero di Guido Calogero. E’ questa, infatti, la via che seguirò: partendo da una genealogia critica della logica, si giunge a riconoscere l’impossibilità della filosofia come teoria. Allo stesso modo, per l’etica e la politica come discipline filosofiche: una loro fondazione logico-teorica è impossibile. Si tratta semplicemente di pratiche discorsive non gerarchicamente ordinate. Ma, ancora, l’attestata impossibilità di fondazione del "logos" filosofico indica il suo necessario oltrepassamento in una pratica "ermeneutica" del dialogo (rimosso e cristallizzato nel "logos"), in una pratica etica e politica, irriducibili alla filosofia o alla scienza e assolutamente indipendenti e irrinunciabili. E’ la prospettiva dell’irriducibilità e dell’irrinunciabilità del dialogo che ci indica, nell’attuale non 165 realizzazione di una anarchia pura, il liberalsocialismo, come la più alta forma di democrazia politica. Cercherò di mostrare, quindi, seguendo Calogero, che non solo una fondazione filosofica della prassi etico-politica non è possibile, ma non è neanche necessaria: possiamo giungere ugualmente a delle conclusioni per nulla ideologicamente neutrali. 17.9.1 La critica della logica, della gnoseologia e della teoria Prospettive filosofiche, che muovono verso l’ermeneutica, nel rifiuto di un pensiero fondazionalista di tipo strettamente metafisico o gnoseologico-epistemologico, si fanno oggi presenti nella confluenza di istanze (non commensurabili) che derivano, da un lato, dalla corrente "esistenziale" o continentale che segue da Nietzsche ed Heidegger, e, dall’altro, dagli sviluppi dello stesso pensiero logico-scientifico e dalla corrente "analitica"100. Seppure un’"archeologia" genealogica di tali recenti prospettive si perde, senza alcuna presupposizione di un comune spazio di commensurabilità, nelle origini stesse del pensiero e occidentale e orientale, uno "scavo" nell’ambito critico del neoidealismo italiano mostra, a mio parere, come esse costituiscano anche l’originale, consapevole e pienamente articolato, esito del pensiero di Guido Calogero. Aspetti del suo pensiero possono confrontarsi costruttivamente soprattutto con successive e indipendenti tematizzazioni affini, seppure a volte con sviluppi contrapposti, di Hans Gadamer (1900-2002), Karl Otto Apel (1922), Jürgen Habermas (1929), Bruce Ackerman (1943) e Richard Rorty (1931-2007). E l’ermeneutica come pratica del dialogo, cui giunge Calogero, non si pone come moderna "nuova retorica" del logos. Guido Calogero muove da un’archeologia della logica che conduce alle radici greche: la sua "ricostruzione ermeneutica" evidenzia l’effettiva valenza dei vari principi logici. Il principio d’identità, come il principio di non contraddizione e del terzo escluso, e lo stesso ideale di coerenza non sono altro, da una parte, che cristallizzazioni di mere regole del colloquio, di semplici 100 Si veda per esempio: K. O. APEL, Transformation der Philosophie, I-II, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973; tr. it. parziale di G. CARCHIA, introduzione di G. VATTIMO, Comunità e comunicazione, Rosenberg e Sellier, Torino 1977. 166 schemi verbali da seguire come "norme di onestà" nell’argomentazione; e, dall’altra parte, non sono altro che l’espressione di particolari determinazioni delle nostre concrete esperienze101. Come regole dell’agire comunicativo, essi nascono da una reazione, che ha inizio con Socrate e culmina nella costruzione della sillogistica aristotelica, alle fascinazioni dell’eloquenza oratoria propria dei sofisti102. Il tipo di coerenza formale implicita nei sillogismi, in cui è presupposta la stabilità dei significati dei termini come quella dei termini stessi, è relativa a una specie di situazione-limite, che cessa appena il discorso tende a farsi più complesso. Nella logica non vi è che la grammatica, quale schematizzazione arbitraria, in funzione pratica, del linguaggio "vivente". Già Aristotele, secondo Calogero, aveva svuotato il giudizio platonico e della sua giustificazione metafisica e della sua imprescindibilità gnoseologica (ripresa poi da Kant), quale struttura e fondazione, strumento e veicolo di verità, riconducendolo alla sfera propria della comunicazione linguistica e dell’onesto argomentare. I principi logici non sono che indicazioni linguistiche per una corretta ermeneutica, come attività interpretativa dei parlanti, e non come teoria (platonica) delle "forme" dell’espressione razionale. La razionalità stessa non è che la cristallizzazione di una esprimibilità linguistica. Allo stesso modo, l’essere stesso, se considerato metafisicamente immutabile ed eterno, non è che l’ipostatizzazione ontologica della predicazione verbale, quale espressione di una semplice pertinenza linguistica di una particolare determinazione temporale transitoria. Una tale decostruzione della logica si configura, così, come una decostruzione dell’ontologia, in un percorso molto simile a quello compiuto già dal primo Wittgenstein nel tentativo di liberare la filosofia dalle “malattie del linguaggio”: essa permette di disarticolare il linguaggio dalle entificazioni arcaiche della sua esperienza sintattico-semantica e dalle sue connotazioni di violenza, 101 G. CALOGERO, I fondamenti della logica aristotelica, Le Monnier, Firenze 1927; G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, Roma 1932, La Nuova Italia, Firenze 1977; G. CALOGERO, Parmenide e la genesi della logica classica, in Annali della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, serie II, v. 5 (1936), pp. 143-185; G. CALOGERO, La conclusione della filosofia del conoscere, Sansoni, Firenze 1938; G. CALOGERO, (1942-1943), Lezioni di filosofia I-III:I.Logica. II.Etica. III.Estetica, Einaudi, Torino 1947-1960; G. CALOGERO, Difesa del Liberalsocialismo, Atlantica, Roma 1945; G. CALOGERO, Logo e dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1950; G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1962; G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967. 102 Si confrontino le teorizzazioni molto differenti contenute in: J.HABERMAS, Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983; tr. it. di E.AGAZZI, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985. 167 di tipo logico-ontologico, dalla retorica ontologica che Derrida, dopo Heidegger, riscontra nel linguaggio stesso103. D’altra parte, quella che si prospetta, in Calogero, è una radicale "pragmaticità" ed "empiricità" della logica e dei suoi principi104. L’ideale della coerenza ed il non contraddirsi non sono affatto imperativi del pensare: si deve, anzi, essere pronti a contraddirsi per correggersi, a rompere la coerenza per aprirsi in umiltà al nuovo. Così, non esiste per il pensiero, per la sua volontà di capire, un criterio o un canone che possano mai, effettivamente, dargli valore razionale: esistono solo delle situazioni necessarie della sua concreta prassi; le regole della logica non sono che regole della prassi della vita. Il pensiero non è mai legato da "forme a priori" o "condizioni trascendentali", da leggi: è il suo "contenuto" che presenta le "forme a posteriori" della prassi. E’, cioè, il pensiero pensato, esplicitato, formalmente espresso in un linguaggio, che obbedisce a regole logiche. Vi è una fatale antinomia in ogni logica come teoria del pensiero pensante: è questo, in Calogero, il nucleo della critica teorica della logica. Tutte le volte che il pensiero pensante voglia formulare leggi su sé stesso, voglia cogliere sé stesso come pensante, in quell’atto stesso di pensarlo lo trasformerà in pensato; così qualsiasi asserzione di una sua legge è infirmata dal suo stesso asserirla: l’auto-riferimento è impossibile, è auto-contraddittorio. Questo dell’auto-riferimento è effettivamente il nodo determinante di ogni antinomia, ripresentatasi nella moderna logica formale-matematica, su cui si sono potuti stabilire dei risultati di impossibilità: i teoremi di Gödel di incompletezza sintattica e semantica, di indecidibilità e impossibilità di dimostrazioni di coerenza, validità e non contraddittorietà di teorie formali; i teoremi di Löwenheim 103 J. DERRIDA (1964), Violence et métaphysique, essai sur la pensée d’Emmanuel Levinas, in L'écriture et la différence, Seuil, Paris 1967; tr. it. di G. POZZI, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 99-198. 104 Esiti in questo senso derivano in fisica dalla problematica della logica quantistica: D. FINKELSTEIN, Matter Space and Logic, in Boston Studies in the Philosophy of Science, v. 5 (1969), p. 199. 168 e Skolem sulla non adeguatezza espressiva, sulla non caratterizzabilità, e non unicità e non isomorfismo, di modelli per teorie formali con (fino ad) un insieme numerabile di assiomi105. Risultati che evidenziano un’assenza di fondamenti, l’assenza di un criterio di legittimazione per le "istituzioni" della conoscenza; e da cui si delinea la transizione delle teorie scientifiche da un carattere linguistico denotativo ad uno performativo, la loro caratterizzazione pragmatica. Le conclusioni di Calogero sull’inesistenza di regole logiche del pensiero pensante, e sulla sua assoluta "meta-formalità", si potrebbero presentare come delle controparti, rispettivamente, dei teoremi di Gödel e di Löwenheim-Skolem per i sistemi formali: vi è un’indecidibilità di principi o di modelli per il pensiero pensante descritto all’interno di qualsiasi sistema formale (pensiero esplicitato, pensato). Per Calogero, le norme logiche e le norme scientifiche non sono che regole pratiche: le “verità” non sono della ragione, ma della prassi; non vi è contrapposizione tra filosofia e scienza. Quanto detto per la logica come teoria del pensare vale per la gnoseologia o l’epistemologia come teoria del conoscere: ogni universalità gnoseologica è inficiata dalla sua stessa asserzione. Vi è l’impossibilità logica di una "filosofia" del conoscere, ovvero di una formalizzazione non contraddittoria del processo conoscitivo del pensiero. Ogni "verità" filosofica non è che la manifestazione di una impossibilità, di una incapacità di pensare altrimenti. La critica della funzione gnoseologica del giudizio è anche critica del concetto come strumento di razionalità, dell’universale come funzione gnoseologica, e relativa rivalutazione dell’individuale concretezza dell’esperienza. 105 K. GÖDEL, Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica underwandter Systeme I, Montatshefte für Mathematik und Physik 38 (1931), pp. 173-198, english translation in Gödel's Theorem in focus, a cura di S. G. Shanker, Croom, London 1988; tr. it. a cura di P. PAGLI, Il teorema di Gödel: una messa a fuoco, Muzzio, Padova 1991; L. LÖWENHEIM, Über Möglichkeiten im Relativkalkül, in Math. Annalen, v. 76 (1915), p. 447; TH. SKOLEM, LogischKombinatorische Untersuchungen über die Erfüllbarkeit oder Beweisbarkeit mathematischer Sätze nebst einem Theoreme über dichte Mengen, Videnskapsselskapets Skrifter I, 4 (1920), pp. 1-13, english translation in From Frege to Gödel. Source book in the history of mathematical logic, a cura di J. van Heijenoort, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1967, pp. 252-263; TH. SKOLEM, Über die Nichtcharakerisierbarkeit der Zahlenreihe mittels endlich oder abzählbar unendlich vielere Aussagen mit ausschliesslich Zahlenvariabilen, in Fundamenta Mathemat. 23 (1934), pp. 150-161. 169 Il giudizio, comunque, non è che una delle forme della consapevole attività della vita: vi è anche conoscenza non linguistica, senza giudizio. Analisi e sintesi, induzione e deduzione non svolgono funzioni gnoseologiche, non costituiscono strutture mentali che conferiscono intrinseca razionalità ad un loro dato: sono volontarie e consapevoli modificazioni di concrete esperienze. Anche lo spazio ed il tempo non costituiscono ipostatizzanti categorie gnoseologiche, ma puri ambiti, particolari del nostro consapevole esperire. Non è corretto parlare, a rigore, né di "a priori" né di "a posteriori" nell’unità della conoscenza. Non vi è infatti distinzione tra attività teoretica come conoscere, e pratica, come non conoscere: "tutto è un fare" . Vi sono solo pratiche teoretico-discorsive e non: la distinzione è solo una questione di grado nella relazione che lega l’azione, rispettivamente, meno o più ad una sua consapevole precedente predittiva programmazione. Caso particolare di antinomia gnoseologica è l’antinomia metodologica: è impossibile una metodologia del conoscere. Ogni determinazione metodologica ha quella stessa contingenza empirica che è propria di ogni regola strumentale della prassi. La ricerca (scientifica) è un’attività della vita che non è pura, presente consapevolezza, ma implica anche una sua concreta determinazione. Ogni consapevolezza metodologica non è che un’indicazione di comportamento, un ricollegarsi ad una tradizione per usufruire delle esperienze dei precedenti ricercatori, ma questa tradizione è poi concretamente modificata dalla novità di scoperte e di metodi. Tale critica della metodologia (della scienza), derivante da un’analisi dei limiti di ogni teorizzare, si incontra adesso con l’anarchismo metodologico che emerge dall’effettiva analisi storica della scienza, effettuata da Paul Feyerabend106. 17.9.2 La critica di ogni filosofia come teoria La più generale critica di ogni filosofia, come epistemologia o gnoseologia, da parte di Calogero, ha invece molti tratti in comune, perlomeno nella tecnica decostruttiva, se non nella critica teorica o nell’analisi storica effettiva della problematica, con quella condotta, più recentemente, da Richard 106 P. K. FEYERABEND, Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, NBL 1975; tr. it. di L. SOSIO, a cura di G. GIORELLO, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1979. 170 Rorty107. Come in quest’ultimo, il problema epistemologico è legato al problema del soggetto, all’"invenzione della mente". "La storia del soggetto e dell’oggetto è la storia di un errore", afferma Calogero, che ha conclusione soltanto con l’eliminazione dell’errore stesso, cioè di questo stesso schema dualistico. Questo schema nasce da un’indebita ipostatizzazione oggettiva, di carattere arcaico, dei due termini del soggetto e dell’oggetto, che, caratterizzata da concezioni metaforiche del pensiero che lo legano al modello della visione, si trova all’origine di ogni riflessione gnoseologica. E’ in Cartesio, per Calogero come per Rorty, che si ritrova la concezione di un soggetto come sostanza, contrapposto alla corporeità, e da cui nasce, in termini moderni, il problema epistemologico della fondazione della conoscenza del mondo esterno, della giustificazione del "dubitabile dall’indubitabile del mentale"108. Anche l’attualismo, che pure ha messo l’accento sul concreto atto del pensare, ha ipostatizzato, secondo Calogero, l’attività conoscente di un soggetto, anziché trarre le estreme conseguenze dell’impossibilità di una teoria dell’atto di pensiero e cioè di una logica e di una gnoseologia. L’io o la coscienza, di cui parla Calogero, non è altro che un nesso di volontà e consapevolezza, privo di qualsiasi elemento contenutistico metafisico, come di ogni caratteristica categoriale-formale gnoseologica di derivazione kantiana, privo del1’ipostasi metafisico-gnoseologica di un’autocoscienza: l’io si risolve in una concreta presenza esperienziale, non molto dissimile da quel nesso di desideri e credenze che costituisce l’io di Rorty109. La critica teorica di Rorty è per lo più interna alla filosofia analitica, della quale mantiene la convinzione che la conoscenza sia puramente proposizionale-linguistica: così il suo discorso non esclude la possibilità di una filosofia del linguaggio "pura", che identifica in quella elaborata da Davidson. Dal punto di vista di Calogero, questa filosofia del linguaggio, proprio perché per Rorty la 107 R. RORTY, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton 1979; tr. it. di G. MILONE & R. SALIZZONI, introduzione di D. MARCONI & G. VATTIMO, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986. 108 G. CALOGERO, (1942-1943), Logica, in Lezioni di filosofia I-III:I.Logica. II.Etica. III.Estetica, Einaudi, Torino 1948. 109 R. RORTY, La priorità della democrazia sulla filosofia, tr. it. di F. SALZA, in Filosofia ’86 (a cura di G. VATTIMO), Laterza, Roma-Bari 1987. 171 conoscenza è linguistica, non può che presentarsi ancora se non con inevitabili caratterizzazioni gnoseologiche: è ancora "epistemologia travestita". La "misologia" dichiarata di Calogero è più radicale. La critica della metafisica (e della gnoseologia) non è effettuata da Calogero in base ad una critica logica e linguistica del "senso" del discorso metafisico (come da parte dei neo-positivisti, della tradizione analitica, e in parte dello stesso Rorty), in quanto, per Calogero, proprio nella logica e nella linguistica sono da ritrovarsi le origini della metafisica come dell’ontognoseologia. L’eliminazione del problema della gnoseologia, in particolare come problema del rapporto fra il conoscere e l’essere, produce l’eliminazione dell’ontologia, i cui problemi si risolvono in problemi del fare: l’essere non è che una possibile "base" dell’azione, come contrapporsi del passato al futuro nella presenza consapevole. L’abbandono dell’impresa epistemologica"110 comporta non solo la rinuncia all’idea di filosofia, della tradizione post-kantiana, come teoria della conoscenza e come disciplina di fondazione della scienza, come per Rorty, ma più in generale della filosofia come "teoria". 17.9.3 La pratica etico-politica del dialogo come oltrepassamento della filosofia teoretica Per Calogero, un oltrepassamento del pensiero fondazionalista della metafisica e della gnoseologia è possibile solo in termini pratici, caratterizzati “etico-politicamente”, derivabili da una “ermeneutica” del dialogo111. E’ evidente l’affinità al percorso, seppure ad esso incommensurabile, di Rorty, se si pensa alla sua tematizzazione della transizione dall’epistemologia all’ermeneutica come “conversazione dell’umanità” e del “primato della democrazia sulla filosofia”. Tuttavia, innanzitutto, Calogero evita “le conseguenze del pragmatismo”, evidenziandone il carattere auto-contraddittorio che emerge quando questo si voglia porre come dottrina che produca inevitabilmente un suo criterio logico-gnoseologico: 110 Per la possibilità di considerare un’epistemologia naturale e la sua dissoluzione, si veda: E. GIANNETTO, L’epistemologia quantistica come metafora antifondazionistica, in Immagini Linguaggi Concetti (a cura di S. PETRUCCIOLI), Theoria, Roma 1991, pp. 301-322. 111 G. CALOGERO, (1942-1943), Lezioni di filosofia I-III:I.Logica. II.Etica. III.Estetica, Einaudi, Torino 1947-1960; G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1962 172 teorizzare le verità in funzione della prassi negherebbe la “verità” incondizionata dello stesso pragmatismo, quale appare nel puro esperire consapevole ma non teorizzabile. Bisogna considerare il pragmatismo come una semplice “pratica discorsiva”, che non può mai essere chiusa in una “teoria”. Nel pensiero non c’è alcunché che valga una volta per sempre, la cui “verità” non sia sottoposta a critiche: la sua caratteristica è la non definitività, la sua storicità; ma, ancora, non si deve fare di ciò stesso teoria (logico-gnoseologica), una dottrina che dia una determinazione assoluta della natura del pensiero. Questa semplice consapevolezza non può dire nulla in “positivo” in sede di logica o gnoseologia: non è una conquista filosofica, ma soltanto l’enunciazione del nostro spirito di ricerca, la proclamazione della nostra modestia. Non bisogna, quindi, concepire né la perenne novità storica, né l’illimitato superamento evolutivo o dialettico, né la problematicità del pensiero (che non può ridursi ad accettazione dogmatica, adeguazionistica, oggettivistica della verità della conoscenza), né lo stesso scetticismo quali “categorie gnoseologiche”. Non c’è mai certezza su cui il pensiero possa fondarsi, ma neanche dell’incertezza si può cartesianamente fare certezza, teoria, criterio gnoseologico (ci sono, infatti, certezze in “negativo” contro ogni criterio gnoseologico). Questa presenza consapevole del pensiero pensante, quando voglia effettivamente oltrepassare le sue specifiche determinazioni e non ridursi a dottrina, a puro logos, è volontà ermeneutica di dialogo. Mentre Platone, osserva Calogero, escogitò l’anima che dialoga con sé stessa, per Socrate non c’è “ragionevolezza” senza effettivo dialogo con altri. Le regole pratiche del logos sono “a posteriori” rispetto al logos altrui, e quindi rispetto all’effettivo dialogo: ognuno deve migliorare i suoi argomenti in funzione dell’esperienza degli argomenti altrui, della comunicazione. Se il cogito ergo sum è la situazione del logos (cartesiano), il tecum loquor ergo es è la situazione del dialogo, afferma Calogero. Tale volontà ermeneutica di dialogo non è fondata su verità, né da alcuna logica, gnoseologia, metafisica, che imporrebbero uno spirito di intolleranza rispetto a ogni critica delle loro verità assolute. Il rifiuto di accettare la posizione dogmatico-fanatica del logos non è una particolare affermazione di teoria 173 gnoseologica, ma la dichiarazione di una volontà di dialogo. E’ chiaro, quindi, come, per Calogero, l’ermeneutica non sia una “teoria”, ma una pratica; come sia esclusa una qualsiasi ontologia ermeneutica positiva, o di tipo puramente linguistico come l’ermeneutica del dialogo successivamente elaborata da Hans Gadamer112: la conoscenza o la consapevolezza non si riducono a linguaggio, e la volontà di dialogo è una volontà di comprensione al di là dei linguaggi e del logos. Come resta esclusa qualsiasi tipo di logica ermeneutica113. Seguendo in parte Dewey114, Calogero caratterizza la volontà ermeneutica di dialogo come un’esperienza “morale”, di una allargata “religiosità” che non ha da costituirsi come dottrina (come in Dewey), ma come atteggiamento da applicare a qualsiasi dottrina: è una “fede nell’intelligenza”, nella ricerca e non in una “verità”, che riesamina continuamente l’acquisito, e non può fondarsi non solo su alcun dogma o punto di dottrina, ma neanche su un criterio di probabilità di un maggiore “rendimento conoscitivo”, il quale sarebbe sempre un criterio di confronto gnoseologico. Questa volontà ermeneutica di dialogo si staglia su un’alternativa categorica: “o hai altri di fronte a te o non li hai, o vivi un’esperienza ermeneutica di «ricostruzione» degli altri in te o non la vivi”, afferma Calogero. Questo è un dilemma “etico” dell’“agire comunicativo” cui non ci si può sottrarre, anche se la scelta del polo ermeneutico, l’effettiva instaurazione del dialogo è sempre dipendente dalla volontà. Sottrarsi implicherebbe non più un contraddirsi, ma un impossibile “contraffare”, ovvero una “contraddizione performativa”: è questo lo stesso tipo di argomento, presentato da Karl Apel e Jürgen Habermas per una fondazione razionale ma non deduttiva di un principio etico del dialogo, in un contesto tematico del tutto affine se non fosse inteso, riduttivamente, in un senso puramente linguistico, logico e gnoseologico115. Ogni logos, per Calogero invece, è da sottoporsi al 112 H. G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1960, 1965; tr. it. a cura di G. VATTIMO, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1990; H. G. GADAMER, Wahrheit und Methode. Erganzungen, Mohr, Tübingen 1999; tr. it. a cura di R. DOTTORI, Verità e metodo 2. Integrazioni, Bompiani, Milano 2001. 113 J. HABERMAS, Zur Logik der Sozialwissenschaften, Mohr, Tübingen 1967; tr. it. di G. BONAZZI, Logica delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna 1970; P. RICOEUR, Logica ermeneutica?, in Aut-Aut nn. 217-218 (1987). 114 J. DEWEY, A Common Faith, Yale University Press, New Haven 1934; tr. it. a cura di G. CALOGERO, Una fede comune, La Nuova Italia, Firenze 1959. 115 J. HABERMAS, Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, op. cit. 174 dialogo: non bisogna, quindi, concepire questa enunciazione di volontà di dialogo né come una verità nella quale si attinga l’impossibilità di pensare altrimenti o di agire altrimenti, quanto piuttosto un’assoluta volontà di non pensare altrimenti. Semplicemente non si dà teoria di questa volontà ermeneutica di dialogo, come non si dà logica, che, diversamente, la sua validità sarebbe subordinata alla validità logica della sua prova, di una sua qualsiasi dimostrazione: questa sarebbe, comunque, autocontraddittoria, perché ridurrebbe il dialogos a logos come il pensiero pensante a pensiero pensato. Al di là, quindi, dell'impossibilità teorica di ridurre il pensiero pensante a pensiero pensato, chiuso in una logica, l'impossibilità pratica di farlo è legata alla volontà effettiva di vivere come dialogos. Il dialogo non sottostà nemmeno al dialogo, che lo possa affermare-fondare o negare: è indiscutibile, indubitabile a prescindere dal consenso del logos altrui; diversamente, se ne farebbe ancora teoria, principio logico, certezza gnoseologica. Il dialogo non “è”, accade come volontà ermeneutica: dirlo “principio” o “legge etica”, per Calogero, significa in definitiva negarlo propriamente come principio o legge (che è sempre e solo logica) . E' la libertà indeterminabile della presenza consapevole come volere altruistico, senza alcuna eteronomia ad un logos che la qualifichi teoreticamente come valore o supremo dover essere. Non è quindi la teoresi che oggettivizza, non è un atto gnoseologico a costituire l'altro come presenza concreta di fronte a noi, accanto a noi. Il solipsismo è superabile solo dal dialogo come volontà, che è anche l'unica consapevolezza che permette di superare lo scetticismo ed il dogmatismo. D'altra parte, ogni sua “giustificazione” razionale, logica non sarebbe sufficiente per la determinazione della scelta ermeneutica del dialogo. I dubbi non si presentano più né come deficienze di certezze gnoseologiche né come certezze gnoseologiche essi stessi: costituiscono una consapevolezza “morale” quali atti di “fede” nell'intelligenza non individuale, ma di tutti. E' la “comunità della comunicazione”, per Calogero, ad essere la sorgente di “valori morali”: la volontà di dialogo, come in Dewey, è una “fede comune”; il pronome “filosofico” è il noi. Ogni conoscenza è il prodotto dell'attiva cooperazione e comunicazione di uomini che vivono insieme: questo punto di vista 175 corrisponde allo spostamento di sistema di riferimento dalla coscienza morale isolata (kantiana) alla comunità di discorso dei parlanti, successivamente effettuato da Apel e Habermas116. Tuttavia, il dialogo calogeriano non si costituisce come una classe di volizioni, ma come volontà (comune) di una classe di volizioni, e, per quanto abbia tali caratteristiche anti-individualistiche, non è possibile entificarlo come un dato della comunità, oggettivisticamente e idealisticamente intesa come “a priori trascendentale-pragmatico” alla maniera di Apel (che modifica la versione “scientista” della “comunità dei ricercatori” tematizzata da Peirce, e riecheggia la “fusione di orizzonti” di Gadamer) ed Habermas 117: ciò perché è da questo dialogo come volontà di comprensione dei parlanti che concretamente deriva la comunità. Né si può considerare il dialogo stesso, come appunto in Apel ed Habermas, come condizione trascendentale-pragmatica: il dialogo è volontà ermeneutica. Il principio etico-dialogico di universalizzazione di Habermas, che pure ne esclude un’applicazione nomologica, è un principio logico, di tipo induttivo, con specifiche funzioni gnoseologiche, e di carattere puramente linguistico. Calogero è, invece, consapevole dell’impossibilità di un’etica come sistema di proposizioni logicamente giustificate, come si presenta, in definitiva, l’etica del discorso e di Apel e di Habermas. In questi è ancora presente l’idea che per individuare ideali etici occorra e sia sufficiente la logica: in essi sopravvive ancora una prospettiva logico-gnoseologica. Non si tratta di uno smascheramento nietzschiano delle ragioni della morale: Calogero riscontra l’impossibilità di un’etica o morale come dottrina o teoria, come logos ipostatizzato e staccato dal vivente dialogos. Non si può neanche entificare gli altri, oggettivare la loro presenza, ipostatizzandola in una concezione ontologica, come quella correttamente rimproverata da Derrida a Levinas: l’incontro con l’altro non è di tipo empirico-oggettivistico, e Calogero non riduce l’ermeneutica e la comprensione a puro 116 J. HABERMAS, Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, op. cit.; K. O. APEL, Transformation der Philosophie, I-II, op. cit. ; J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handelns, I-II: 1. Handlungsrationalitat und gesellschaftliche Rationalisierung, 2. Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981; tr. it. di P. RINAUDO a cura di E. RUSCONI, Teoria dell'agire comunicativo, I-II, Il mulino, Bologna 1988. 117 G. VATTIMO, Introduzione a K. O. APEL, Comunità e comunicazione, Rosenberg e Sellier, Torino 1977; C. S. PEIRCE, Collected Papers, I-VIII, a cura di A. W. BURKS, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1931-1958. 176 linguaggio, come Gadamer o Apel o Habermas; ha, poi, comunque, sfrondato il linguaggio dalle connotazioni di violenza di tipo logico-ontologico. La “certezza” del dialogo non è quella di una legge che si imponga ad alcuno, negandone la libertà, perché semplicemente si constata in me e negli altri ad avvenuta comunicazione: non si può presupporre al dialogo alcuna necessità come condizione intrinseca dell’esistenza degli altri o della sua riconoscibilità. Il prossimo non è chi, essendo prossimo, deve essere capito; il prossimo è chiunque, afferma Calogero, capito nel dialogo, diviene prossimo118. Così, il dialogo non può essere condizionato da una presupposta natura dell’altro (in quanto “persona”, “anima”, “figlio di Dio”, “prossimo”), fosse anche la necessità di un principio etico a definirla. La volontà ermeneutica di dialogo non pone alcuna “domanda” ontologica o gnoseologica all’altro, che implicherebbe o il solipsismo o la risoluzione stessa dell’alterità in una gnoseologia dell’adeguazione. L’instaurazione dell’altruità accade in accordo alla plausibilità ermeneutica, che è relativa non .ad una semplice intelligenza “analogica” (come propria di una analogia reinterpretata dalla sua iniziale connotazione negativa, “contrologica”, a logos, invece, alla seconda potenza, così da poter costituire la base comune di commensurabilità fra due differenti logoi), ma propria di un’intelligenza dialogica. La comprensione storica, per Calogero, non è che una particolare ermeneutica del dialogo, in cui la comunità “morale” della comunicazione si estende al passato. La “comunità della comunicazione”, per Calogero, è idealmente illimitata: essa si estenderebbe, oltre i confini della specie “homo sapiens”, a tutti gli altri viventi (anche se, ovviamente, perlopiù nel presente stato dell’organizzazione civile il campo dei doveri giuridici sia limitato a quei confini). Si ammazzano i virus, responsabili di malattie, affinché non ci ammazzino, solo perché non si è riusciti a stabilire con essi alcun rapporto di comunicazione e di mutua volontà di capirsi: perché ogni comunicazione è, al momento, “interdetta”, “interrotta”. Imprescindibile praticamente è, infatti, solo una comune volontà di dialogo, 118 Qui, Calogero ha fatto suo il senso della parabola evangelica del buon samaritano di Luca 10, in cui l’amore del prossimo della Toràh è riconsiderato come un genitivo soggettivo e rivoluzionato nel suo significato: prossimo è il “soggetto” dell’amore, non l’oggetto; prossimo si fa chi ama e l’amore è illimitato, cioè non limitato a un prossimo già dato staticamente e appartenente a un qualunque contesto finito, come quello etnico ebraico. 177 indipendentemente da ogni fisica o metafisica differenza di natura. Ma, come non si può definire coloro che si vogliano intendere in alcuna classe ontologica di enti (ci mostreranno loro la propria irriducibile presenza dialogante), allo stesso modo, non si può diffonderli ovunque, considerando il dialogo come una relazione onnipresente data nell’universo: non bisogna entificare, oggettivare i termini della relazione o gli interlocutori del dialogo. L’altro è tale solo in quanto si mostra tale nella illimitata volontà di dialogo: la sola molteplicità, immune dalla convenzionalità aritmetica, è, per Calogero, quella dei partecipanti al dialogo, accettabile solo in base al suo esercizio e alla sua volontà. Calogero si dimostra consapevole, cosi, dell’impossibilità, già riscontrata da Schopenhauer119, di un’etica della non violenza assoluta, in relazione all’interdizione del dialogo nella natura nei conflitti fra i viventi, quando la volontà di vivere individualistica domini la volontà di dialogo. In ogni caso, nelle Lezioni di Filosofia di Guido Calogero120 è chiarito pienamente come, anche oggi che prevale una forma di pensiero logico-verbale, linguistico, legato appunto a linguaggi o scritture fonetiche, è possibile comprendere che pensare è prima di tutto una sorta di percezione interna, di visione interna: pensare è pensare per immagini, è immaginare, ideare. E solo in questa prospettiva si può comprendere come il pensiero non nasca con l’uomo e superare il fondamento stesso dell'antropocentrismo e dello specismo: tipiche dell’uomo sono le pratiche simboliche in cui il pensiero umano si estrinseca, ma vi è un pensiero animale quale associazione interna di immagini, ideazione-visione interna; la differenza è solo di grado d'elaborazione e di contenuti, non sostanziale o formale121. La sua “etica “ non è mai dottrina, etica come disciplina filosofica; è semplice consapevole volontà pratica ermeneutica del dialogo. Cosi, il consenso fra dialoganti non è, per Calogero, né un mero indizio di una preesistente comune razionalità, né un possibile strumento di 119 A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, Brockhaus, Leipzig vol.I 1818/1819, vol. II 1844; tr. it. di P. SAVJ-LOPEZ & G. DI LORENZO, Il mondo come volontà e rappresentazione, I-II, Laterza, Roma-Bari 1972: 120 G. CALOGERO, Lezioni di Filosofia I-II-III: Logica-Etica-Estetica (1942-1943), Einaudi, Torino 1947, 1960, vol. III Estetica, pp. 164-178, 196-213. 121 G. CALOGERO, Lezioni di Filosofia I-II-III: Logica-Etica-Estetica, op. cit., vol. I, Logica, pp. 12-24. 178 fondazione di verità: al consenso si aspira soltanto, eventualmente, e si ignora se ci sarà. Infatti, effettiva esplicitazione della volontà di dialogo è un’incondizionata difesa della libertà del dissenso, come la sola posizione che possa tenersi senza riguardo a dissensi: è su questa, non su un fondamento logico di eticità, che si costituisce ogni sviluppo di civiltà giuridico-politica di libertà e di eguaglianza civica e sociale. 17.9.4 Il liberal-socialismo come la più alta forma di democrazia. Da queste argomentazioni, segue l’impossibilità di ogni deduzione contrattualistica, come quella di John Rawls122, difesa da Rorty, della democrazia o del liberalismo, la quale tende a prospettare una genesi consensuale del principio del consenso. La calogeriana volontà ermeneutica del dialogo è al di là del dissenso, e vive, più che nella semplice solidarietà consensuale usata in un primo tempo da Rorty per una definizione non oggettivistica della verità (e poi da lui stesso abbandonata) 123, nel concreto “dissidio” dei logoi e dei linguaggi, di cui parla Lyotard124. La “decisione politica” non è relegata in un mitologico inizio della storia, come anche in Rawls, ma si rinnova ogni volta nella convivenza, nel dialogo sociale. Non è il contratto, per Calogero, che può generare la legge, in quanto è il primo che acquista natura giuridica nella seconda, quando la volontà di dialogo si “deforma” in coercizione. E’ mia opinione che dal puro dialogo non possa che derivare coerentemente altro se non un’anarchia etico-giuridico-politica, come l’anarchia logicognoseologica strenuamente prospettata dal Calogero, e che, sola, può rispettare pienamente la libertà. Che la specificazione “dottrinale” storica del dialogo, che Calogero unicamente si concede in campo giuridico-politico (coercizione, “giustificazione” dello stato), sia da oltrepassare nella sua stessa pratica ermeneutica del dialogo è implicito nel suo stesso pensiero, che pure nel 122 J. RAWLS, A Theory of Justice, Belknap, Cambridge (Mass.) 1971; tr.it. di U.SANTINI a cura di S. MAFFETTONE, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1984. La prospettiva di Calogero s’incontra con la problematicizzazione e il riconoscimento d’improbabilità dell’ordine sociale, relativi alla indeterminatezza della complessità sociale, riscontrati da N. Luhmann; tuttavia, Luhmann, come Apel per la contraddizione performativa, usa questa stessa indeterminatezza quale figura retorica per la chiusura di un sistema teorico in una (impossibile) fondazione logica autoreferenziale: N. LUHMANN, Wie ist soziale Ordnung möglich?, in Gesellschaftsstruktur und Semantik: Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, I-IV, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981, vol. II; tr.it. di A.MAGGIORE, Come è possible l’ordine sociale, Laterza, Roma-Bari 1985. 123 R. RORTY, Consequences of pragmatism: essays 1972-1980, University of Minnesota Press, Minneapolis 1982; tr. it. di F. ELEFANTE, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano 1986. 124 J.-F. LYOTARD, Le differend, Minuit, Paris 1983; tr. it. di A. SERRA, Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1985. 179 liberalsocialismo ha saputo cogliere la più alta forma di democrazia. Bruce Ackerman, recentemente, ha proposto, in polemica con Rawls, una teoria del dialogo come fondamento di una teoria della giustizia e della democrazia liberale125: nonostante le affinità con il pensiero di Calogero, il suo concetto di dialogo resta vincolato a condizioni di razionalità, coerenza e neutralità, e, concepito come fondamento, resta espressione teorica, logico-dottrinale. L’affinità delle concezioni dialogica della giustizia di Ackerman e contrattualista di Rawls, realizzabile nell’interdipendenza dei presupposti, da una parte, di neutralità, e, dall’altra, di ignoranza dei contraenti sui loro fini e sulle loro differenze, trova effettivo riscontro nella caratterizzazione antiteorica della volontà di una pratica ermeneutica del dialogo di Calogero. Questi non deriva una teoria della giustizia socio-politica dall’etica, che come teoria rifiuta; come rifiuta la “filosofia” come teoria della natura umana o del bene, della ragione o quale ancora teologia o metafisica, epistemologia o dottrina: vi è, in questo, piena convergenza con Rawls e Rorty. Al contrario però della loro tesi contrattualistica della giustizia, che presenta residui dottrinali nei suoi presupposti “intuitivi”, non sottoposti al dialogo, per Calogero è la stessa volontà ermeneutica del dialogo, che si specifica, come pratica giuridico-politica, nella sua irriducibilità (e non priorità logica) alla “filosofia”. Nessuna “critica dell’ideologia” presente in Apel ed Habermas, (che non sia effettivamente tale, critica, cioè, di ogni teoria, come pratica del dialogo), concepita sul modello di scienze logico-oggettivistiche, è ammessa da Calogero ad integrare la pratica ermeneutica; anche se riconosce il darsi di “opacità” nel concreto dialogo, che presenta effettivi conflitti d’azione. La contingenza storica di ogni concretamento nell’azione della volontà ermeneutica del dialogo, infatti, è caratteristica, secondo Calogero, di ogni esperienza etico-giuridico-politica, e non è meccanicamente deducibile da quella volontà, come un particolare dell’universale: è un risultato del dialogo, delle esigenze derivanti dai risultati dell’effettiva comprensione e dell’avvenuta comunicazione; il dialogo (come in parte in Apel) non è inteso in maniera puramente formale e 125 B. A. ACKERMAN, Social justice in the liberal state, Yale University Press, New Haven 1980; tr. it. di S. SABATTINI, introduzione di F. ROMANI, La giustizia sociale nello stato liberale, Il Mulino, Bologna 1984. Si veda anche: S. VECA, Una filosofia pubblica, Feltrinelli, Milano 1986. 180 linguistica come in Gadamer, e non si concretizza in un perfetto intendersi. In quanto la “comunità della comunicazione”, per Calogero, non può darsi né come soggetto trascendentale di scienza né come oggetto di scienza, la “trasformazione semiotica del kantismo” teorizzata da Apel, seppure storicizzazione delle istanze kantiane e delle metafisiche, ricade all’interno del paradigma fondazionale. Per Calogero, è necessario riconoscere l’insussistenza della maggior parte dei problemi della ricerca e della conquista della verità, dei problemi che, tradizionalmente, vengono designati come pertinenti alla logica, alla gnoseologia, alla metodologia, all’ontologia o alla metafisica, e riconoscere la pertinenza di quelli che possiedono carattere effettivo alle varie pratiche, linguistiche e non, del dialogo della comunità. Dal confronto di teorie o logiche, si passa al riconoscimento della libertà nel dialogo. La “superstite filosofia dei nostri tempi”, abbandonate le realtà metafisiche e le certezze logiche, serve, per Calogero , ad indicare il dialogo come modalità di convivenza civile al di là delle divergenze nelle soluzioni dei problemi: l’ermeneutica si caratterizza, come in Rorty, quale “educazione”-“edificazione”. La volontà ermeneutica del dialogo si presenta in Calogero, come la “fede comune” e la “religiosità” di Dewey, quale laicismo: l’oltrepassamento della metafisica e dell’epistemologia non è altro che la secolarizzazione della violenza sacrificale umana, in senso dissolutivo ed emancipativo. La pratica ermeneutica del dialogos si dà quale che sia la diversità di universi in colloquio: “le nostre prospettive saranno diverse e si integreranno e correggeranno all’infinito: questa non è che la storia...”126. 17.10 Filosofia del dialogo La filosofia del dialogo nasce in Calogero dal superamento etico del soggettivismo immanentistico e solipsistico di Gentile. Si tratta di riconoscere gli altri con la volontà morale del dialogo, perché con il pensiero si presentano solo come oggetti del pensiero, fenomeni per il soggetto; si tratta di riconoscere gli altri non come altri soggetti che sussistono solo come contenuti del pensiero, ma piuttosto come soggetti di pensiero con cui dialogare e da amare: come già detto, potrebbe non essere possibile distinguere col pensiero puro macchine che simulano da esseri senzienti e pensanti. 126 G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, op. cit., p. 385. 181 La concretezza dell’attività dello spirito non sta più per Calogero nel pensiero, seppure pensante, di Gentile, ma nella volontà e nell’azione: il rapporto fra pensiero e volontà e fra teoria e prassi, rispetto a Gentile è rovesciato, perché l’identificazione presunta operata da Gentile era più che altro un inglobamento della volontà all’interno della dialettica del pensiero e della prassi all’interno della teoria. Questa identificazione come inglobamento faceva sì che in effetti la filosofia di Gentile si qualificasse come un neo-idealismo perché tutto restava chiuso all’interno di una soggettività pensante, solipsistica seppure trascendentale, a cui tutto era immanente. Calogero comprende che allora il pensiero pensante non può essere pensato, conosciuto, l’autoconoscenza o l’auto-coscienza non è possibile. La critica di Calogero però procede oltre e comprende che il pensiero non ha in sé alcuna dinamicità propria e nessuna possibilità dialettica, che stanno nella volontà volente e nell’azione: la concretezza sta nell’azione. La realtà non può spiegarsi a partire dal pensiero, ma solo dall’azione: la volontà non è noumeno sostanziale come in Kant, ma attività. Ma il pensiero può solo ridurre a pensato, a oggetto e l’unico mondo che può conoscere è oggettuale; eppure il mondo è soggettivo, secondo l’attualismo. Calogero ne deduce allora che solo la volontà volente le volontà volenti altrui può comprendere l’irriducibile soggettività del mondo, e la concretezza non è del pensiero pensante che non supera il logo, ma solo del dialogo: si passa dal pensiero pensante al dialogo in atto che solo può riconoscere le soggettività. Il reale non è allora immanente al pensiero, ma all’azione mossa dalla fede che è amore. Pensiero pensante è pensiero vivente, e vivente significa volontà consapevole e non pensiero puro: quindi la filosofia di Calogero è filosofia del dialogo, dell’azione etica, della volontà d’amore. La volontà etica oltrepassa il limite d’immanenza del pensiero e opera un trascendersi del pensiero nell’azione e un trascendersi della soggettività egoica nel riconoscimento volontario ed etico di altre soggettività e di altri pensieri/logoi. Se il pensiero riduceva ogni pensato a suo oggetto (era questo in Gentile un residuo di oggettivismo che combatteva), in quanto la volontà non etica riduceva ogni voluto a suo oggetto (l’oggettivismo del pensiero è l’ideologia che maschera la violenza di una volontà che riduce l’altro a proprio oggetto; un pensiero non oggettivistivico è quello ‘dell’io ti 182 penso’, del ‘pensare a qualcuno’ e non del ‘pensare qualcosa’; non è un pensiero che vuole conoscere la realtà, ma un pensiero che è tutt’uno con l’amore: quando amiamo qualche persona e siamo distanti, pensare a lei è il nostro modo di amarla; amare è l’unico verbo che correla due soggetti e non un soggetto e un oggetto, per cui ‘io-ti-amo’ permette la scambiabilità-reversibilità dei ruoli, dell’io e del tu, cioè come soggetti; l’unica frase la cui inversione mantiene i due interlocutori su un piano di simmetria, la cui relazione è sostanzialmente simmetrica e non solo formalmente), al contrario la volontà etica sta nel riconoscere in ogni voluto un volente, un soggetto pensante e volente mai riducibile a voluto. Questo è il passaggio dall’eros greco all’agàpe cristiana, come volontà etica: si tratta di riconoscere la trascendenza dell’alterità. La volontà etica di dialogo si pone quindi come superamento etico di qualsiasi soggettivismo solipsistico ed egoistico, per cui la volontà stessa si qualifica qui come un principio trans-individuale e non come una mera facoltà-funzione individuale. Il dialogo stesso è ciò che ci fa riconoscere l’un l’altro come soggetti: ciò che ci qualifica come individui è qualcosa di trans-individuale, ma non in interiore, come in Gentile o in Platone dove l’anima dialoga con sé stessa, ma in una effettiva comunità. Il dialogo con Dio rischia di essere solipsismo, e per questo non può non esercitarsi nel dialogo con altri. Anche il dialogo con la Natura, nella scienza moderna, è mediato, in qualche modo, da un dialogo con altri. L’oggettivismo non è altro che la proiezione illusoria di un soggetto; il soggettivismo si supera solo con il riconoscimento della pluralità dei soggetti a partire dall’istanza trans-soggettiva che è l’Amore cristiano. La filosofia non è che questa chiarificazione, questa consapevolezza di un’esperienza storica. Una persona è viva fino a quando dialoghiamo con essa anche oltre la morte, continuando ad ascoltarla. La verità dell’Amore non è falsificabile perché non è legata ad un enunciato sulla realtà, ma è una fede, un volere che sia. Qui, risulta chiaramente che Calogero ha modificato la sua precedente prospettiva trascendentale attualistica: là, si partiva dalla individuale soggettività intrascendibile e quindi trascendentale, che costituiva una ‘filosofia della presenza’; qui, appunto intrascendibile è il dialogo all’interno del 183 quale soltanto si riconoscono i soggetti. Si passa da una metafisica soggettivistica ad una fede dialogica: anche l’io non è prioritario al dialogo ma si riconosce nel dialogo; intrascendibile non è la propria prospettiva ma il confronto e la reciproca comprensione e il reciproco rispetto delle varie prospettive possibili. Ciò significa che l’io si dà solo all’interno di un dialogo sociale, di un dialogo della storia, di un dialogo della Natura, di un dialogo con Dio eventualmente: tutto questo però non è metafisicamente presupposto come un dato e quindi comunque oggetto della nostra soggettività, ma è incontrato in un’esperienza etico-dialogica primaria che si costituisce come fede nell’Alterità ed è irriducibile a dato ontologico. Allo stesso modo tale situazione dialogica non è un prioritario mit-sein, ma piuttosto una volontà di Altri (non individuale, ma plurale e comune, e non individualistica: una fede comune) che ci costituisce come soggetti in un dialogo plurale. Nell’agire pratico etico-dialogico-amoroso si incontrano altri, non in una mera speculazione teoretica. C’è una verità etica del dialogo, che si rivela nella fede nel dialogo, che è a fondamento di tutte le altre verità particolari: questa verità non è quindi puramente inter-umana, ma inter-soggettiva in un senso più vasto in cui anche l’oggettività della realtà, della Natura o di Dio sono ricomprese come soggettività inoggettivabili; il dialogo umano è parte del dialogo della storia che è parte di un più vasto dialogo della Natura o di Dio. Il dialogo non si fonda su un essere comune cui tutti si acconsente, ma piuttosto il dialogo permette il riconoscimento di esseri diversi: la comprensione non si basa sull’univocità dell’essere, non è identitaria e non è analogica, ma dialogica. Si tratta di una pratica ermeneutica dialogica, in cui la comprensione non è mai assicurata apriori, non è mai fondata assolutamente da una condizione di possibilità della conoscenza immanente a un soggetto, pur anche universale e trascendentale, ma unico: c’è sempre il rischio di sbagliarsi, di fraintendere, il rischio dell’inganno e del dolo, di mistificazioni personali o ideologiche. L’invarianza che coglie solo ciò che è comune ai soggetti, coglie molto poco, non ci può mai restituire la realtà: può cogliere solo questa volontà comune di dialogo, ma non i suoi contenuti concreti. 184 E questa verità di una delle prospettive non potrà che essere stabilita attraverso il confronto/dialogo con le altre, altrimenti resterebbe una verità basata solo su una presupposizione soggettiva e non sarebbe una verità per tutti. Dal fatto che il riconoscimento degli altri si ha soltanto nella prassi etica che è la stessa fede morale, e non in una fondazione ontologica o gnoseologica, comunque metafisica, della filosofia, se ne deduce che lo stesso io non si dà se non nel riconoscimento che gli altri fanno di noi stessi nella loro prassi etica. Passando dalla volontà cosciente alla volontà che si attua nel dialogo si passa da una volontà individuale a una volontà d’Amore che non è più volontà di un io ma un Amore che vuole in noi e oltre noi in quanto principio d’alterità e di altruismo. Se chiamiamo dialogo il reciproco riconoscimento, che si dà nella prassi etica, degli altri e di noi stessi, allora la fede morale ci mostra un altro possibile inizio per la filosofia: non si può più partire dal soggetto singolo seppure trascendentalizzato, ma si deve partire dal dialogo; solo nel dialogo io posso essere riconosciuto e riconoscermi quale effettivo soggetto etico. La fede morale diventa così non il fondamento logico, ma la radice vitale di una nuova filosofia del dialogo, che rompe con il soggettivismo e con il monologismo che ha sempre dominato la filosofia occidentale. La metafisica monologica si basa sul rifiuto dell’alterità: l’alternativa fra filosofia teoretica greca e fede cristiana si ripropone come alternativa fra filosofia teoretica greca e fede morale che si articola in una filosofia pratica. La fede morale ci assicura che l’unica trascendenza effettiva cui possiamo accedere non è quella della metafisica né quella di una teologia fideistica, ma piuttosto è la trascendenza di noi stessi nell’Amore dell’altro. La fede morale ci apre al superamento della visione monologica, e non in un prospettivismo statico come quello di Leibnitz o di Nietzsche, ma al riconoscimento di una pluralità potenzialmente infinita di prospettive che si confrontano dinamicamente nel dialogo. Non si tratta più di fondare una propria filosofia individualistica per un accesso a una verità unica che si dischiude a un’unica prospettiva teoretica, ma si tratta invece di una “fede morale comune” che apre l’orizzonte di una verità non accessibile individualmente, di una verità etica che è propria del dialogo e dell’amore. 185 La verità che è dell’amore trascende la presunta verità di un altrettanto presunta verità ontologica, logica o gnoseologica. Il principio del dialogo coincide con la regola aurea evangelica: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti (Matteo 7.12, Luca 6.31). Matteo 22.40 mostra che quel fare indica un fare bene, ovvero amare! Si può ritradurre meglio dall’aramaico siriaco la regola aurea: Tutto l’amore che gli esseri umani dovrebbero darvi, voi comunque datelo a loro. L’indiscutibilità del principio del dialogo si mostra da sé: se un altro mi dicesse che non vuole essere ascoltato, per capirlo dovrei ascoltarlo; si costituirebbe altrimenti una contraddizione performativa, una contraffazione impossibile. L’autonomia della morale, invocata da Kant, dipende da questa indiscutibilità, ma è un’autonomia che aprendomi alle prospettive e alle ragioni altrui apre all’eteronomia: altrimenti si ricade in un egoismo trascendentale.. Ognuno deve migliorare i propri argomenti in funzione dell’esperienza degli argomenti altrui: così, se il dialogo costituisce l’apriori, il nostro logo è aposteriori rispetto a quell’altrui che concretamente si dà nel dialogo. Il dogmatismo e lo scetticismo non sono criticati sulla base di un diverso logo, ma sulla sola base della volontà di dialogo, del principio del dialogo che li esclude. La condizione trascendentale del dialogo appartiene alla volontà e alla prassi etica, e non alla ragione. La filosofia del dialogo è un’ermeneutica più alta di quella teoretica della comprensione teoretica di altri, è un’ermeneutica dell’amore che supera la comprensione del pensiero, un’ermeneutica pratica, che si compie in una prassi etica: un’ermeneutica del dialogo, un’ermeneutica dialogica: questo significa che il mondo non si dà a una coscienza, a un soggetto che lo costituisce, né come senso esistenziale per un soggetto individuale o umano, ma si dà in una pluralità di sensi irriducibile, e nella relazione dialogica fra noi e il mondo, o meglio il mondo è un dialogo in cui siamo immersi. 186 Si può ricordare, qui, la disamina, fatta da Calogero, dell’Eutifrone platonico, in cui si afferma che il bene è oggettivo e non può dipendere dal soggettivo volere delle divinità: qui, però la discussione è inficiata dal fatto che l’etica socratico-platonica è eudemonistica e quindi lo stesso bene ideale ed eterno è egoistico e l’individuale volontà divina non può che sottostare come ogni individualità a quell’universale egoismo che lo comprende. Al contrario, il Dio-Amore cristiano risolve questa opposizione perché la divinità non è un intelletto o una volontà individuale e non si può sussumere in una universalità, ma è non un logo individuale, ma un dialogo infinito iper-individuale, è lo stesso principio etico personificato o meglio iper-personificato: si ha l’eticizzazione della teologia, la trasformazione di una teologia individualistica o etnica in un’etica trans-individuale. La Parola giovannea aramaica si dà in un dialogo originario: tradurla con logos ha significato tradirne completamente il senso, identificare il Dio che si fa carne con un intelletto puro, ma il Dio che si fa carne è sempre una Parola che apre un Dialogo con gli esseri umani a cui si rivolge non un intelletto che governa razionalmente il mondo; Dio crea parlando, la creazione è un dialogo, in cui si pone un’alterità e Dio-Amore non è un’egoità che è, come in Esodo 3.14, ma un farsi-altro. Calogero dice che Dio non può amare se non incarnandosi (come l’Eros del Simposio di Platone, che passa da una divinità perfetta e chiusa in sé a una “mezza” divinità metaxù fra cielo e terra). Dio ha una natura spirituale e materiale, di pensiero e azione, perché una potenza realmente infinita non può mai essere finitamente attuata, ma continua attuazione-azione, actus e non actum, azione infinita. Se la perfezione non sta nel finito, ma si realizza infinitamente, allora c’è amore, azione, creazione, vita, sofferenza, morte. Il criterio antico di adeguazione del pensiero alla realtà era però legato all’ideale contemplativo, per Calogero sta nell’azione. Ma la stessa corrispondenza nell’azione del singolo alla realtà non dà certezza di verità, ma bisogna connettere e confrontare le azioni di tutti i soggetti, senza ricercare una riduttiva invarianza, ma nell’insieme di tutte le prospettive e nel loro rispetto non riduttivo. Tolstoj direbbe che Dio ci ha creato così, incapaci di attingere da soli la verità, perché ci amassimo e perché comprendessimo che la verità ultima è l’amore. 187 Alla certezza logico-gnoseologico-metafisica del cogito, ergo sum, per Calogero va sostituita la certezza della volontà della fede morale di un tecum loquor, ergo es. All’esistenza dell’io, l’esistenza degli altri, dei tu. Si tratta dell’amo, dunque sono di Sibilla Aleramo (1876-1960). L’amamus, ergo sumus di Roger Garaudy (1913-2012). Noi è il pronome filosofico. Noi non siamo se non per gli altri che ci riconoscono come tali, non siamo se non negli altri. Noi non conosciamo se non con gli altri. Questa è la condizione di possibilità della nostra esistenza e della nostra consapevolezza del mondo. Questa nostra condizione non è un male metafisico, ma costituisce la nostra possibilità di comprendere la realtà dell’Amore. Ricadiamo in questo male, che non è metafisico ma morale, se non trascendiamo la nostra condizione soggettiva e individuale e umana nell’Amore. L’angoscia autentica non è mai egoistica, ma è un’angoscia per gli altri; non è mai per un nostro astratto essere nulla, ma per il nulla che noi siamo senza gli altri, nella separazione dagli altri. Si può essere felici soffrendo quando si ama, non perché masochisticamente si provi piacere soffrendo, ma perché l’amore permette di partecipare della felicità altrui superando i limiti del proprio ego: è questo che intende san Paolo in I Corinzi 7.29-31. Il male fisico, la sofferenza e la morte costituiscono altresì la condizione di possibilità per trascendere la propria soggettività individuale e conoscere la realtà dell’Amore. Si soffre e si muore per Amore. Il problema del male si risolve nell’Amore. Il bene non è il bene individuale, ma è l’Amore: l’Amore vince la sofferenza, la morte, il male individuale, superandoli, proprio come il senso della vita non è nella propria ma in quella degli altri. La soluzione del problema teologico e filosofico del male non è metafisica, ma morale. I Giov. 3.14 Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli e le nostre sorelle. Chi non ama rimane nella morte. Questo si contrappone a Esodo 3.14: Io sono colui che sono. Dio non esiste metafisicamente: Dio esiste nell’Amore, l’Amore è Dio (I Giov. 4.8 e 16). Chi non ama, ricade nel nulla. 188 Calogero chiarisce il senso della vita per tutti attraverso la prospettiva etica cristiana: non solo si deve agire per la felicità degli altri nel superamento dell’egoismo e si deve imparare a essere felici per gli altri seppure individualmente sofferenti, ma questo ci fa capire che la nostra vita ha senso anche se solo sofferenza, anche se la morte ci coglie in un fallimento individuale o lo segna, perché il senso della nostra vita è nella realizzazione della vita di altri, anche della vita di altri “futuri”. Con molti di voi, questo è l’ultimo corso che facciamo insieme. A parte il dialogo dell’esame, con alcuni di voi, forse, continueremo un percorso di tesi, con altri, forse, non ci si incontrerà se non in altre sedi. Al di là della differenza di idee e di età e di tante altre cose, abbiamo condiviso un percorso, abbiamo dialogato e non solo con le parole. Abbiamo forse vissuto appena l’inizio di una “filosofia del dialogo”, tutti abbiamo, se vogliamo, da realizzarla nella vita. So che la mia vita è nulla senza di voi, so che il senso della mia vita è e sarà nella vostra. 19 Dicembre 2014, Bergamo 189 190