verso un sistema bipolare: la relazione usa-cina tra

VERSO UN SISTEMA BIPOLARE: LA RELAZIONE USA-CINA TRA VINCOLI E CONFLITTO
Francesco Nicoli
Aseri, Postgraduate School of Economics and International relations
Dal 1989 al 2007, per quasi un ventennio, il sistema internazionale è stato caratterizzato dalla presenza di
una nazione egemone, gli Stati Uniti d’America. Oggi non è più così. Nel corso dell’ultimo decennio, gli Stati
Uniti hanno visto scemare tanto il proprio prestigio quanto il proprio reale potere. La recente crisi
economica ha accelerato drammaticamente un declino già avviato, lasciando aperta la domanda circa
l’assetto internazionale dei prossimi anni.
Due sono le principali ipotesi discusse: che si vada, in primo luogo, verso un sistema multipolare,
caratterizzato dalla presenza di un numero elevato di attori regionali in collaborazione-competizione
reciproca, oppure che emerga un “grande sfidante”, la Repubblica Popolare Cinese (RPC), e che quindi si sia
in presenza di un sistema che tende a evolvere in senso bipolare. Di quest’ultima possibilità ci occupiamo in
quest’articolo, che ha lo scopo di mostrare come un sistema bipolare USA-RPC sia destinato ad essere
sostanzialmente differente da tutti i bipolarismi conflittuali che hanno caratterizzato la storia delle relazioni
internazionali.
Il legame più forte tra i due paesi è senza dubbio di natura economica. Essi producono il 35% del totale PIL
annuale del pianeta e l’interscambio commerciale-finanziario tra le due nazioni è il maggiore mai osservato
nella storia dell’economia moderna. Comparando i fondamentali dei due paesi, si può attestare come la
crescita cinese si aggiri attorno al 9%, mentre quella americana al 2%. Il PIL della Repubblica Popolare,
allo stato attuale, è commisurabile a meno della metà di quello americano (42%) ; la popolazione
raggiunge un livello quasi 4 volte superiore. 1 Ad una prima analisi, pare chiaro come agli attuali ritmi
saranno necessari almeno due decenni (escludendo probabili rallentamenti) prima che l’economia
cinese sorpassi quella americana in termini assoluti, e più di un secolo prima che questo avvenga in
termini di ricchezza pro-capite. La distanza quindi, pur ristringendosi, rimane importante (si vedano i
grafici in appendice).
Inoltre, vi è una fondata ragione per ritenere che l’integrazione economica abbia raggiunto livelli tali da
rendere estremamente costoso, e quindi meno probabile, un conflitto. La realtà è che allo stato attuale
ciascuno dei due è a suo malgrado “garante” della stabilità economico-sociale del partner-competitor: la
stabilità economico-sociale degli Stati Uniti infatti è garantita dal binomio dato da sproporzionati livelli di
consumo e bassa tassazione, che si traducono in deficit pubblico e deficit commerciale; la Repubblica
Popolare Cinese, sia come fornitore primario di beni a costo limitato, sia come principale acquirente estero
dei titoli di stato americani, è garante e realizzatore di questa situazione. Un cambiamento nelle sue
politiche di esportazione o di finanziamento del debito americano metterebbe a dura prova la stabilità
sociale americana, sconvolgendone nel profondo la cultura di consumo.
D’altra parte, la stabilità socio-economica cinese si regge sulla crescita costante dell’occupazione e sulla
sostanziale difesa del potere d’acquisto dei lavoratori. Solo garantendo questi due fattori la leadership della
Repubblica Popolare riesce a tenere assieme un numero elevatissimo di etnie e popolazioni, garantendo la
coesione del paese altrimenti privo di identità nazionale. Ora, la crescita dell’occupazione dipende dalla
competitività della produzione cinese, che è garantita dal livello dei prezzi relativamente basso e dal tasso di
cambio ampliamente sottovalutato. Tuttavia, l’enorme deficit di bilancia commerciale degli Stati Uniti
rispetto alla Cina avrebbe l’effetto di svalutare profondamente la moneta americana, incidendo fortemente
sulla competitività e quindi sulla stabilità cinese; In realtà, l’unico modo possibile alla Repubblica Popolare
per mantenere il tasso di cambio con il dollaro ad un livello stabile è reinvestire una parte del colossale
ammontare di dollari che ogni anno riceve a pagamento delle esportazioni in titoli di stato americani,
tenendo alto il livello delle quotazioni e comprimendo il tasso di interesse. È la presenza del deficit
americano che permette alla Cina di approfittare di uno Yuan deprezzato; un cambiamento repentino di
questa politica porterebbe una profonda instabilità interna, dovuta alla disoccupazione crescente. È
possibile affermare, quindi, che ciascuno stato è a suo modo garante della stabilità del partner; questa
reciproca garanzia rende di fatto costosissimo sia un conflitto reale tra le due nazioni, sia il ricorso a
pressioni economiche per conformare il partner alla propria volontà. Ciascuno dei due contendenti infatti
1
Dati per il 2011, fonte: http://www.economywatch.com/economic-statistics. le proiezioni sono effettuate
dall’autore sui dati disponibili alla fonte indicata, senza tenere conto di possibili cambiamenti esogeni.
dispone di efficaci strumenti economici per indurre pressioni sul partner (in particolare, la politica monetaria
inflattiva2 per gli Stati Uniti e i connaturati diritti di creditore per la Cina), ma l’utilizzo di tali strumenti è
limitato all’ambito della pressione tattica, non potendo essere concretamente volto a danneggiare il partner
e con esso l’equilibrio sistemico. Una tale relazione economica è sconosciuta all’analisi classica del
bipolarismo, che si concentra invece sugli elementi di conflittualità.
Se si sposta lo sguardo sulla situazione geopolitica, si vede invece come gli approcci reciproci dei
contendenti siano ben più tradizionali. In particolare gli Stati Uniti, sebbene abbiano dovuto dedicare una
parte importante delle proprie risorse alla gestione di altri conflitti, hanno avviato nei confronti del
potenziale competitor (visto si, su questo piano, come una potenziale minaccia) una politica di
accerchiamento e containment dai caratteri assolutamente tradizionali e “dottrinali”, per rendere complesso
sia l’accesso della flotta cinese agli oceani, sia l’espansione sulla massa continentale euro-asiatica. A nord est
e levante il pacifico è chiuso dalla presenza di due dei più solidi alleati degli USA, Giappone e Corea del Sud;
a sud-est, si estende il protettorato militare americano su Taiwan; a sud, gli Stati Uniti hanno rafforzato
fortemente le relazioni con l’ASEAN, preoccupata dell’espansionismo cinese nell’area3; a sud ovest, oltre
l’Himalaya, si trova la Repubblica Federale Indiana, la maggiore democrazia del pianeta e rivale di lunga
tradizione della Repubblica Popolare; proprio con gli indiani gli Stati Uniti hanno avviato una recente politica
di sostegno allo sviluppo del nucleare, nonché sottoscritto importanti contratti d forniture militari; la
relazione USA-India, proprio in chiave anti-cinese, potrebbe diventare uno dei tratti caratterizzanti del
secolo alle porte. Continuando in senso orario, a ovest siamo di fronte alla presenza militare americana in
Afghanistan, mentre a nord si estendono le steppe della Siberia, territorio russo ma anche terra di
penetrazione continua di migranti dagli occhi a mandorla; proprio questo tentativo indiretto di
“colonizzazione” rende particolarmente complesse le relazioni tra Cina e Russia, completando di fatto un
accerchiamento continuo.
Sul piano geostrategico, la risposta cinese è ambivalente: in parte fortemente tradizionalista, in parte
assolutamente innovativa. Tra gli strumenti tradizionali possiamo annoverare in primo luogo il
rafforzamento progressivo dei bilanci della difesa e dello sviluppo di tecnologie militari all’avanguardia,
sebbene il gap con gli Stati Uniti resti attualmente incolmabile; in secondo luogo, laddove si sia rivelato
geograficamente possibile, la dirigenza cinese sta provando a mettere in campo un sistema di alleanze “a
scacchiera”, rinforzando sia le sue relazioni con il Pakistan, che con l’Iran. Più interessante è invece la
strategia non convenzionale: per sfuggire all’accerchiamento strategico infatti la RPC ha avviato da tempo
una fase di penetrazione economica e politica in Africa e Sud America, “de localizzando” dalle proprie
frontiere le possibili fonti di conflitto.
La penetrazione in Africa centrale ha una doppia giustificazione. In primo luogo, come tradizionalmente
sottolineato dalla letteratura scientifica, si inserisce in un contesto di crescente pressione sull’offerta di
risorse naturali: la presenza cinese sul luogo è volta ha garantire forniture di lungo periodo di tali risorse e
concessioni al loro sfruttamento, ottenute in cambio della realizzazione di imponenti progetti
infrastrutturali. La portata di questo fenomeno ha raggiunto dimensioni estremamente rilevanti: un numero
considerevole di governi e potentati ha preferito ricorrere a questo schema di finanziamento nella
realizzazione delle reti infrastrutturali, poiché risulta molto più opaco, flessibile ed economico dei
finanziamenti allo sviluppo intermediati dalle istituzioni internazionali tradizionale, di matrice occidentale, il
cui costo è appesantito dalla burocrazia e da vincoli di rispetto dei diritti umani e ambientali.
2
Vincolando il valore della propria moneta a quello del Dollaro, la banca centrale cinese perde di fatto il controllo
della politica monetaria. Poiché il tasso di interesse è strutturalmente più alto nella RDC, tuttora paese in via di
sviluppo, un’espansione monetaria americana si concluderebbe con un afflusso di capitali in Cina; a questo punto,
o il governo Cinese sceglie di reagire abbandonando la politica di cambio fisso e lasciando apprezzare il cambio
(erodendo quindi la competitività e danneggiando l’occupazione) oppure effettua a sua volta un’espansione
monetaria, mantenendo fisso il cambio ma creando inflazione, la quale a sua volta erode la competitività del
paese ed il tasso di occupazione. La “gabbia di ferro monetaria” nella quale la dirigenza cinese è costretta a
muoversi è particolarmente stringente, e consegna di fatto le chiavi della competitività nominale del paese alla
FED. La recente inflazione cinese è proprio ascrivibile a una politica di espansione monetaria di questo tipo, il
celebre “Quantitative Easing II”
3
Si legga il bell’articolo dell’Aspeninstitute disponibile al link: http://www.aspeninstitute.it/aspeniaonline/article/il-nuovo-ruolo-dell%E2%80%99asean-negli-equilibri-asiatici
È riscontrabile tuttavia una seconda ragione a giustificazione dell’attenzione ossessiva per l’Africa. A ben
pensare, il continente africano è quello che meno ha risentito dei benefici globali scaturiti dalla “vittoria” del
liberalismo sul modello sovietico. L’Africa ha sopportato per decenni tutti i costi delle contraddizioni insite al
modello liberale, pagandone il conto con la moneta amara del sottosviluppo e del sangue. Intervenire in
Africa rappresenta il tentativo (per ora, di successo) di legittimare un modello alternativo che riesca a creare
ricchezza e benessere là dove il liberismo ha sostanzialmente fallito.
In America Latina, il discorso è simile; considerato dagli americani come “il cortile di casa” fin dall’epoca
della Dottrina Monroe, il continente centro-americano ha pagato negli anni un costo elevato agli interessi
statunitensi. Rafforzare la propria presenza in un’area considerata dagli americani come proprio dominio
riservato rappresenta un tentativo importante di destabilizzare il modello di relazioni internazionali su cui il
mondo si è retto dagli anni ’80 ad oggi. Va sottolineato tuttavia come l’America centro-meridionale abbia
una lunga tradizione democratica, pur se scossa da ciclici rigurgiti autoritari; il paese leader della regione, il
brasile socialdemocratico dell’(ormai ex) presidente Lula, ha sì interessi economici e in parte politici
temporaneamente convergenti con quelli della Repubblica Popolare, ma appartiene per sua natura ad un
altro campo. Per queste ragioni, la penetrazione cinese nell’area ha un carattere quasi strettamente
economico, pur non celando mire d’altro genere, e non è ad uno stato tale da mettere a rischio i solidi
legami tra democrazie dell’America meridionale e blocco occidentale.
esiste poi un’ultima direttrice della “competizione cooperativa” tra Stati Uniti d’America e Repubblica
Popolare Cinese: lo scontro intangibile per il controllo del cosiddetto “soft power”. Per soft power si intende
la capacità di un attore di conformare alla propria volontà le azioni dei partner senza ricorrere a minacce o
incentivi diretti. Tre sono i principali elementi che concorrono alla formazione del soft power: la
socializzazione delle élites, la produzione di cultura scientifica, il controllo di un modello ideologicoistituzionale dotato di un elevato appeal. Tradizionalmente, gli Stati Uniti si sono rivelati grandi utilizzatori e
talvolta monopolisti del soft power: l’America settentrionale (e l’Europa occidentale), oltre a rappresentare
la prova tangibile degli effetti benefici del modello democratico, è stata per decenni il centro della
produzione scientifica mondiale nonché il luogo dove le élites di tutto il mondo studiavano, si confrontavano
e si formavano. Oggi, la situazione sta cambiando. Sebbene gli Stati Uniti restino un polo importante sia
come luogo di socializzazione delle élites, sia come centro di produzione scientifica, La crisi economica
globale ha posto in profonda crisi il terzo e fondamentale pilastro del soft power americano, accentuando la
sfiducia nella capacità della democrazia di promuovere un benessere stabile e prolungato. La storia ci
insegna che la democratizzazione del mondo avanza per flussi e riflussi, e dopo le ondate democratiche
post-guerra fredda, stiamo ora vivendo una fase di riflusso, dove la democrazia perde appeal sia sulle masse
che sulle élites, e dove un certo numero di paesi in transizione democratica hanno arrestato o addirittura
annullato i propri progressi.4 In questo scenario, si inserisce il modello del socialismo di mercato, che
coagula la presenza di un’autocrazia politica e un capitalismo possente. L’imponente sviluppo economico
che i paesi promotori di questo modello hanno realizzato (Cina in primis) sta costruendo un pericoloso rivale
per il modello del soft power americano.
Riassumendo, dei quattro elementi che caratterizzano un modello egemonico (potere militare, predominio
economico, vantaggio strategico, soft power) gli Stati Uniti ne mantengono una parte:
continuano a detenere il potere militare;
- hanno perso il predominio economico nei confronti del rivale –non tanto per la dimensione delle
rispettive economie, visto che si presume che il PIL cinese raggiungerà quello americano solo a metà
degli anni ’30 di questo secolo, quanto perché il livello di interdipendenza rende impossibile l’utilizzo
effettivo del potere economico5;
- mantengono, almeno dal punto di vista della strategia convenzionale, un vantaggio importante;
4
Fonte: www.freedomhouse.org. In particolare, si consulti il report annuale 2011 “freedom in the world”.
Studi recenti mostrano, tra l’altro, che le probabilità di un rallentamento sostenuto dell’economia cinese
raggiungano il picco per il periodo tra 2015-2021, quando il PIL pro-capite del paese asiatico rappresenterà solo il
58% di quello americano. Da sottolineare come le proiezioni basate su un calo radicale del tasso di crescita cinese
attorno al 2020 (dal 9% al 4,5%) spostano nel tempo il punto di superamento dell’economia cinese dal 2030 al
2040.
. Cfr. B. Eichengreen, D. Park and K.Shin (2011) “when fast growing economies slow down: international evidence
and implications for China”. Nber working papers, National Bureau of Economic research, Cambridge, 2011.
5
- non sono più monopolisti del soft power, anzi il modello da loro proposto conosce una fase di riflusso.
Questo ci porta a concludere che, nel caso non scontato in cui emerga un sistema a configurazione bipolare,
l’assenza di un predominio certo di uno dei contendenti sull’altro e l’elevatissimo grado di interdipendenza
economica degli attori porti a una configurazione cooperativa e centripeta, con un rafforzamento
progressivo dei temi di confronto e delle competenze di questo “direttorio a due”. Considerata l’importanza
dei temi globali sul tavolo (dalla stabilità finanziaria, al problema ambientale, al disarmo nucleare) questo
non può che farci sorridere: è cruciale infatti che i due poli di potere si percepiscano sempre meno come una
minaccia, e maggiormente come un partner ineludibile nella risoluzione dei problemi del pianeta.
PROIEZIONI GRAFICHE.
Grafico 1.1: Andamento demografico.6
2500
2000
1500
1000
500
0
China: Millions of people
US: Millions of People
Grafico 1.2: Crescita del PIL7 in ipotesi di rallentamento diluito della crescita Cinese
240000
225000
210000
195000
180000
165000
150000
135000
120000
105000
90000
75000
60000
45000
30000
15000
0
China: GDP trillions $
USA: GDP trillions $
6
Proiezioni proprie su dati Economicwatch: http://www.economywatch.com/economic-statistics. il tasso di
crescita utilizzato è stato calcolato utilizzando il tasso medio annuo di crescita del periodo 2000-2016, rivisto al
ribasso del 2% per decennio nel caso della Cina a partire dal 2060.
7
Proiezioni proprie su dati Economicwatch. In particolare, la crescita americana è tenuta costante al 2% per tutto
il periodo, mentre la crescita cinese è stata ipotizzata pari al 9% fino al 2020, all’8,5% dal 2020 al 2030, del 6,5%
dal 2030 al 2040, del 4,5% dal 2040 al 2060, del 2,5% in tutti i periodi successivi.
Grafico 1.3: la crescita del Pil Pro Capite in ipotesi di rallentamento diluito della crescita cinese
120,000
110,000
100,000
90,000
80,000
70,000
60,000
50,000
40,000
30,000
20,000
10,000
0,000
China: thousands of $ per
capita
US: thousands of $ per capita
Grafico 1.4: la crescita del Pil in ipotesi di rallentamento repentino della crescita cinese:
160000
150000
140000
130000
120000
110000
100000
90000
80000
70000
60000
50000
40000
30000
20000
10000
0
China: GDP trillions $
USA: GDP trillions $
Grafico 1.5: la crescita del Pil pro capite in ipotesi di rallentamento repentino della crescita cinese:
120,000
100,000
80,000
60,000
40,000
20,000
0,000
China: thousands of $ per capita
US: thousands of $ per capita