Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo

Jean-Charles-Léonard Simonde de
Sismondi
Storia delle repubbliche Italiane
dei secoli di mezzo.
Tomo XVI
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TITOLO: Storia delle repubbliche Italiane dei secoli
di mezzo. Tomo XVI
AUTORE: Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde : de
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TRATTO DA: Storia delle repubbliche Italiane dei
secoli di mezzo di J. C. L. Simondo Sismondi delle
Accademie Italiana, di Wilna, di Cagliari, dei
Georgofili, di Ginevra ec. Traduzione dal francese.
Tomo 16. -16 - Italia, 1817-1819 - 568 p. ; 12
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STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
DEI
SECOLI DI MEZZO
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE
ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
Traduzione dal francese.
TOMO XVI.
ITALIA
1819.
CAPITOLO CXXI.
Apparecchj de' Fiorentini per difendere la loro libertà; sono
assediati dal principe d'Orange. Imprese nello stato fiorentino
di Francesco Ferrucci, commissario generale; viene a
battaglia col principe d'Orange, e nella mischia periscono
ambidue; capitolazione di Firenze.
1529=1530.
Mentre che tutti gli altri stati d'Italia, traditi dai loro capi,
saccheggiati dagli stranieri, spossati da lunga guerra, divisi da una
mal intesa politica, e venduti dai loro alleati, si andavano, senza
resistenza, assoggettando al giogo che loro dava Carlo V, la
repubblica di Firenze apparecchiavasi, sebbene sola, a cadere
coraggiosamente in nobile olocausto, piuttosto che rinunciare
all'antica sua libertà. Depositaria di tutto lo splendore, di tutte le
virtù, di tutto il sapere di quelle repubbliche de' secoli di mezzo,
tra le quali si era innalzata, e le quali tutte aveva superate in fama,
in potenza, in ricchezze, dessa pareva ricuperare le antiche forze
colla ricordanza della passata gloria; e se più non aveva speranza,
se la sua resistenza non poteva essere coronata da felice
avvenimento, non perciò si credeva meno obbligata a difendersi
per l'onore delle sue rimembranze.
Firenze non era mai stata repubblica militare; ed anche in que'
tempi, in cui, tenendo il primo posto tra le potenze d'Italia,
poneva argine alla potenza dei duchi di Milano, dei re di Napoli e
degl'imperatori, non aveva nella sua armata quasi verun cittadino.
Quegli stessi uomini, che, in mezzo alle più terribili sciagure,
mostravano ne' consiglj una costanza, una fermezza invincibile,
non sapevano esporsi a personali pericoli; ma quando un'estrema
ruina venne a minacciare la loro patria, gli stessi Fiorentini
impugnarono le armi. Abbandonati dalla Francia, minacciati da
tutte le forze della Chiesa, dell'impero e dei regni di Spagna e di
Napoli, sentirono di non potere in altro confidare che nel proprio
valore. Senza trascurare veruno de' mezzi che poteva tuttavia
attaccare alla loro causa, in qualità di condottieri, i piccoli
principi loro vicini, previdero che potevano essere da costoro
abbandonati nell'istante del bisogno; e si fecero a reggimentare ed
addestrare la milizia nazionale, che sola non poteva venir meno.
E sebbene lo spirito di parte abbia potuto presiedere allo
stabilimento dei varj corpi di questa milizia, uno stesso zelo
militare e patriotico animava tutto il popolo, e lo fece capace di
un'eroica resistenza.
Il popolo fiorentino, prendendo successivamente le armi,
aveva formato tre diversi corpi; il primo, che si era raccolto in
dicembre del 1527 per la guardia pel pubblico palazzo e del
gonfaloniere, era composto di trecento giovani quasi tutti
appartenenti a nobili famiglie. Ma perchè l'amore di libertà era tra
questi giovani più vivo, che non tra i vecchi, così erano essi
ancora più proclivi alla diffidenza. Gli estremi riguardi di Niccolò
Capponi verso i Medici li teneva inquieti; avevano di già
concepito qualche sospetto intorno alla segreta di lui
corrispondenza con papa Clemente VII, e si risguardavano meno
destinati a fargli la guardia, che a custodire il palazzo pubblico
contro di lui1.
Ma con una vista affatto diversa erasi formata la guardia
nazionale de' cittadini fiorentini, dietro un ordine del gran
consiglio del 6 novembre del 1528. Doveva questa essere
composta di sedici compagnie, cadauna di dugento
cinquant'uomini, sotto il comando dei sedici gonfalonieri di
quartiere, i quali formavano il collegio della signoria; pure non si
trovarono sui ruoli che mille settecento archibugieri, mille armati
di picca, e trecento alabardieri, ossiano soldati armati di alabarde
1
Ben. Varchi, l. V, p. 49. - Bern. Segni, l. II, p. 34.
e di spade a due mani, in tutto tre mila uomini, dell'età dai
diciotto ai trentasei anni, ed appartenenti a padri ammessi a
prendere posto nel gran consiglio. La signoria accordò ad ogni
compagnia, in principio del 1529, il diritto di nominare il proprio
capitano, ed affidò l'addestramento di questo corpo a varj distinti
ufficiali, che avevano militato nelle bande nere. Questo corpo in
breve superò la migliore truppa di linea2.
Per ultimo il terzo corpo era formato delle milizie del territorio
fiorentino, che chiamavansi tuttavia le bande dell'ordinanza.
Questa milizia, arrolata sotto il gonfaloniere Pietro Soderini
dietro i consiglj datigli dal Macchiavelli, era stata dai Medici
licenziata e disarmata, e di nuovo ragunata nel 1527. Nella prima
revista si era trovata non minore di dieci mila uomini; era formata
dal fiore dei contadini dell'età dai diciotto ai trentasei anni, che
ogni mese venivano addestrati a tirare coll'archibugio, e
ricevevano un tenue pagamento anche quando non erano forzati
ad abbandonare le proprie case: eransi fatte venire per loro dalla
Germania armi d'ogni qualità, ed erano essi stati divisi in trenta
battaglioni, secondo le province cui appartenevano. I sedici
battaglioni della destra riva dell'Arno erano stati, in giugno del
1528, posti sotto gli ordini di Babbone di Bersighella, nipote di
quel Naldo di Val di Lamone, che primo d'ogni altro aveva
illustrata la fanteria italiana nella battaglia di Agnadello; i
quattordici battaglioni della sinistra erano stati affidati a
Francesco del Monte. E questi due capitani avevano seco condotti
cadauno cinquecento uomini di truppe di linea, per esercitare la
milizia3.
In sul finire del 1528 i Fiorentini scelsero per capitano
generale dei loro uomini d'armi don Ercole d'Este, figlio del duca
Alfonso di Ferrara, il quale era in allora tornato dalla Francia,
dove aveva sposata madama Renata, figlia di Luigi XII e cognata
di Francesco I. Pareva impossibile che questi l'abbandonasse, ed i
2
3
Ben. Varchi, l. VIII, p. 224. - Bern. Segni, l. II, p. 38.
Ben. Varchi, l. VI, p. 134. - Bern. Segni, l. I, p. 17.
Fiorentini credevano attaccarsi più fortemente alla casa di
Francia, scegliendo un generale che le apparteneva così da vicino;
e di ciò gli aveva assicurati il Visconte di Turenna, ambasciatore
del re presso la repubblica. Dall'altro canto mantenevasi un odio
ereditario fino dai tempi di Leon X tra la casa d'Este ed i Medici,
ed Alfonso, minacciato su tutti i punti dei suoi stati da Clemente
VII, pareva dovere essere il più fedele alleato della repubblica
contro un nemico ad ambidue egualmente formidabile4.
Le fortificazioni cominciatesi in Firenze nel 1521, per ordine
del cardinale Giulio de' Medici, prima di avere il papato, non
erano ancora ultimate. Non potevansi condurre a termine senza
distruggere o danneggiare i poderi di alcuni cittadini, e la
magistratura dei nove della milizia fu incaricata, in principio
d'aprile del 1529, di fare stimare tutti que' terreni, dandone credito
ai proprietarj sul libro del Monte coll'interesse del cinque per
cento. In pari tempo Michel Angelo Bonarruoti venne creato
direttore generale delle fortificazioni della città5.
A misura che il pericolo si andava avvicinando, i dieci della
guerra facevano nuovi sforzi per accrescere le difese della
repubblica. Siccome avevasi opinione che le province d'Arezzo e
di Cortona somministrassero i migliori soldati di Toscana, i
Fiorentini vi mandarono Raffaele Girolami, loro quartier mastro
generale, ed otto capitani, che tutti avevano militato nelle bande
nere, con ordine di levarvi cinque mila fanti. Presero nello stesso
tempo al loro soldo, in maggio del 1529, Malatesta Baglioni,
signore di Perugia, dandogli il titolo di governatore generale, con
mille fanti. Il Baglioni era figliuolo di quel Gio. Paolo, che Leon
X aveva fatto tanto ingiustamente morire; e perciò egli desiderava
di vendicarsi del Medici, egli doveva temere l'ambizione del
papa, ed occupava a Perugia un'importante situazione per
4
Ben. Varchi Stor. Fior., l. VII, p. 194, 200. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 349. Bern. Segni, l. II, p. 51.
5
Ben. Varchi, l. VIII, p. 234. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 349. - Bern. Segni, l. III,
p. 75.
chiudere la strada della Toscana ad un'armata che venisse da
Napoli e da Roma. Molti altri distinti capitani, quali erano
Stefano Colonna, Mario Orsini e Giorgio Santa Croce, presero
servigio dai Fiorentini; questi per altro eran forzati ad accarezzare
l'orgoglio di tutti questi piccoli principi, che, non avendo verun
grado in un'armata di già stabilita, non volevano riconoscere altra
superiorità che quella dei sovrani. Era appunto per questo motivo
che nè l'incapacità di Ercole d'Este, nè la più volte sperimentata
malvagia fede di Malatesta Baglioni, non avevano ritratti i
Fiorentini dal porre gli occhi sopra di loro per il comando. Si
sarebbero potuti preferire migliori capitani; ma gli altri ufficiali
non avrebbero voluto esser loro subordinati6.
Mentre che la repubblica si premuniva con attività contro i
pericoli onde era da ogni banda minacciata, fu atterrita dalla
scoperta di cosa che a bella prima parve una congiura del suo
primo magistrato. Il gonfaloniere, Niccolò Capponi, confidava
assai meno in tutti i mezzi di difesa che riunivano i dieci della
guerra, che nelle negoziazioni che potevano disarmare la collera
del papa. Egli stesso di moderato carattere, e nulla avendo
sofferto sotto il governo de' Medici, apparteneva ad una famiglia,
che aveva saputo conservare una tal quale neutralità nelle
dissensioni della sua patria. Suo padre Piero, ed i suoi antenati
Neri e Gino, non si erano trovati arrolati nè sotto le insegne degli
Albizzi, nè sotto quelle de' Medici, ed in tempo di quelle
amministrazioni avevano saputo rendere eminenti servigj allo
stato. Dacchè il Capponi era gonfaloniere, erasi studiato di
calmare il furore del popolo, di difendere i partigiani de' Medici,
ed in pari tempo di addolcire il risentimento del papa con esteriori
dimostrazioni di rispetto. Egli non aveva trovate le medesime
disposizioni in coloro che i suffragj del popolo ponevano con lui
alla testa dello stato; ma aveva seguita l'usanza praticata dai
Medici, e prima di loro dagli Albizzi, di chiamare alle
6
Ben. Varchi, l. VIII, p. 234. - Bern. Segni, l. II, p. 56. - Jac. Nardi, l. VIII, p.
349. - Lett. de' Princ., t. II, f. 172 e seg.
deliberazioni i cittadini che, senza essere rivestiti di veruna
autorità, avevano acquistata una lunga abitudine de' pubblici
affari. A queste consulte, che a Firenze avevano il nome di
pratica, il Capponi chiamava moltissimi cittadini, conosciuti pel
loro attaccamento ai Medici, tra i quali egli trovava sempre chi
spalleggiasse le misure di conciliazione ch'egli andava
proponendo7.
I consiglieri nominati dal popolo, ed in possesso della
confidenza pubblica, lagnavansi acerbamente perchè le
deliberazioni, invece di decidersi coi loro suffragj, dipendessero
da quelli di persone senza missione, che il gonfaloniere chiamava
a votare con loro, e non pochi dei quali, come Francesco
Guicciardini, Francesco Vettori e Matteo Strozzi, si erano renduti
così sospetti pel loro attaccamento ai Medici, che il popolo non
aveva voluto affidar loro veruna incumbenza. Perciò una legge
regolò la pratica, che doveva tener luogo di consiglio ai dieci
della guerra; questa legge la formò dei dieci magistrati che
uscivano in allora di carica, e di venti aggiunti scelti dal grande
consiglio ogni sei mesi, cinque per cadaun quartiere della città. Il
gonfaloniere, privato da questa legge del suo consiglio abituale,
non per questo rinunciò a lasciarsi dirigere dai soli uomini di
stato che si fossero guadagnati la sua confidenza, e d'allora in poi
li tenne quasi sempre ne' suoi appartamenti per consultarli in ogni
occorrenza8.
Questi suoi privati consiglieri lo avevano incoraggiato a tener
viva una segreta corrispondenza con Clemente VII, per cercare di
calmare la di lui collera; questa corrispondenza aveva cominciato
ne' tempi in cui Lautrec assediava Napoli. Temeva questo
generale che l'irritamento di Clemente VII contro i Fiorentini non
lo consigliasse a porsi tra le braccia dell'imperatore, ed aveva egli
medesimo eccitato il gonfaloniere a mostrare dei riguardi verso il
7
8
Jac. Nardi, l. VIII, p. 342-345. - Stor. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 40.
Fil. de' Nerli, l. IX, p. 186. - Bern. Segni, l. I, p. 18, l. II, p. 51.
papa, ed a dargli delle speranze9. Dopo la sconfitta di Lautrec, il
Capponi aveva continuato a carteggiare con Jacopo Salviati, che
dopo la ritirata dalla corte pontificia di G. M. Chiberti, era
diventato il principale segretario di Clemente VII10. Certo
Jachinotto Serragli era il segreto mezzano di tale corrispondenza,
che il gonfaloniere teneva nascosta alla signoria. Una lettera,
caduta di seno al Capponi, fu raccolta il 16 aprile del 1529 nella
stessa sala dei priori da Jacopo Gherardi, priore egli stesso, e
forse quegli che di già nudriva i più gagliardi sospetti contro il
gonfaloniere. La lettera rendeva conto in ristretto di un
abboccamento avuto tra il Serragli, che la scriveva, e Jacopo
Salviati; dessa annunciava che il papa, sotto certe condizioni,
acconsentirebbe a mantenere la libertà fiorentina; ma chiedeva al
gonfaloniere di spedire segretamente a Roma suo figliuolo, per
intendersi intorno a ciò che non potevasi convenientemente
affidare ad uno scritto11.
Questa lettera, comunicata dal Gherardi ai più violenti
avversarj del gonfaloniere, fu da loro risguardata come una
manifesta prova di tradimento: venne denunciata alla signoria,
che per l'indomani convocò il consiglio degli ottanta,
proponendogli che fosse deposto e tratto in giudizio il
gonfaloniere. Niccolò Capponi, atterrito dalla violenza dei suoi
nemici, invece di giustificare la propria condotta, si limitò a
dichiarare con estrema perturbazione, che suo figlio non era in
verun modo colpevole, non avendo pure contezza di quest'affare.
Con ciò veniva quasi a confessarsi egli stesso delinquente; onde
fu deposto nel medesimo giorno, e nel susseguente il grande
consiglio nominò suo successore Francesco, figlio di Niccolò
9
Bern. Segni, l. I, p. 27.
Lettere de' Principi. Varie lettere di Jacopo Salviati scritte in principio del
1529, t. II, f. 154 e seg.
11
Ben. Varchi, l. VIII, p. 243. - Bern. Segni, l. II, p. 59. - P. Jovii, l. XXVII, p.
86. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 343. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 41. - Fil. de' Nerli, l.
VIII, p. 179.
10
Carducci, che doveva occupare tale carica fino alla fine
dell'anno12.
Questa deposizione e la nuova elezione eransi fatte con una
precipitazione e violenza proporzionate al turbamento ed alla
timidità mostrata dal Capponi nella propria difesa, ed
all'accanimento di coloro tra i suoi nemici che speravano di
rimpiazzarlo. Tosto che fu nominato il di lui successore, e che i di
lui invidiosi nemici perdettero la speranza d'avere le sue spoglie,
il loro furore si calmò, ed egli medesimo ricuperò quella
tranquillità e presenza di spirito che si conveniva al suo stato.
Tratto innanzi alla signoria giustificò con nobile fermezza le sue
intenzioni e la sua condotta; sostenne d'avere fatto per la
repubblica precisamente quello che far doveva, e la sola cosa che
potesse salvarla. Di già più non eravi alcuno cui fosse ancora
sospetta la di lui buona fede; coloro ch'erano a parte delle di lui
segrete negoziazioni, e coloro, che senza averne contezza,
interamente si affidavano alla di lui lealtà, lo difendevano
caldamente, di modo che venne onoratamente assolto dal
giudizio; ed il popolo, per compensare la fattagli ingiuria, lo
ricondusse con pompa alla di lui casa13.
Appena aveva il nuovo gonfaloniere preso possesso del suo
impiego, quando la repubblica ricevette una dopo l'altra le più
sconfortanti notizie. Alla sconfitta di San-Paolo, alla di lui
prigionia, alla dispersione di tutta l'armata francese, tennero
subito dietro gli avvisi del trattato di Barcellona, nel quale Carlo
V abbandonava i Fiorentini alle vendette del papa, e prometteva
di rimettere nella loro città la tirannia della casa dei Medici. Pochi
giorni dopo si ebbe notizia del trattato di Cambrai, col quale
Francesco I, ad onta dei più solenni trattati, escludeva i Fiorentini
12
Ben. Varchi, l. VIII, p. 244. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 344. - Gio. Cambi, p. 43.
Comment. del Nerli, l. VIII, p. 180. - Bern. Segni, l. II, p. 60. - P. Jovii, l.
XXVII, p. 86.
13
Ben. Varchi, l. VIII, p. 251, 271. - Bern. Segni, l. II, p. 61-67. - Comment. di
Fil. de' Nerli, l. VIII, p. 182. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 344. - P. Jovii, l. XXVII, p.
89.
dalla pace generale, e si obbligava a non dar loro protezione. Si
seppe nello stesso tempo essere Carlo V sbarcato a Genova con
un'armata spagnuola, e scendere in Italia un'armata tedesca per
raggiugnerlo. Questi replicati colpi erano fatti per atterrire il più
saldo coraggio; e tanto più grande era lo spavento sparso in
Firenze, in quanto che i preti ed i monaci, ravvivando la setta del
Savonarola, e secondando con tutte le forze loro il governo
popolare, avevano accertato, come cosa loro palesata per divina
rivelazione, che quest'anno l'imperatore non sarebbe venuto in
Italia. Questo primo avvenimento, che smentiva le loro profezie,
fece vacillare la fede che il popolo accordava a tutte le altre14.
Non pertanto i Fiorentini, determinato avendo di far testa a
questi nuovi pericoli con indomabile coraggio, adottarono in
allora le più energiche misure per potere resistere. Il gonfaloniere,
fornito di irremovibile costanza, comunicava il proprio vigore ai
consiglj ed al popolo. Era in particolar modo secondato da
Bernardo di Castiglione, Gio. Battista Cei, Niccolò Guicciardini,
Jacopo Gherardi, Andrea Niccolini e Luigi Soderini, i quali tutti
si erano dichiarati pel partito popolare15.
Prima d'ogni altra cosa conveniva trovar modo di sostenere le
spese di una guerra, che i più ricchi monarchi non potevano lungo
tempo sopportare. Il gonfaloniere ottenne una prima legge
derogante alla costituzione fiorentina, colla quale veniva
autorizzato il gran consiglio a fissare qualunque prestito o nuova
imposta colla sola maggioranza de' suffragj16. In fatti le leggi
fiscali, che la necessità fece emanare in tempo dell'assedio, non
avrebbero giammai potuto essere sanzionate secondo le antiche
forme; poichè dovendosi sostenere inaudite spese, in tempo che
tutte le ordinarie entrate erano cessate a motivo dell'occupazione
del territorio e della soppressione delle gabelle delle porte,
14
Ben. Varchi, l. IX, p. 20. - Bern. Segni, l. III, p. 73. - Comment. di Filippo de'
Nerli, l. IX, p. 188.
15
Ben. Varchi Stor. Fior., l. IX, p. 30. - Fil. de' Nerli, l. IX, p. 189.
16
Jac. Nardi, l. VIII, p. 353.
convenne aver ricorso a misure arbitrarie e rigorose per levare
danaro. Più volte si percepirono prestiti forzati da coloro che i
commissarj, nominati per quest'oggetto, indicavano come i
cinquanta, i cento, i dugento più ricchi cittadini della repubblica.
Tutti gli argenti delle chiese, e tutti quelli de' privati, vennero
portati alla zecca; furono date in pegno le pietre preziose che
ornavano le reliquie, e venduta la terza parte dei poderi
ecclesiastici, degli immobili delle corporazioni delle arti e
mestieri e dei beni dei ribelli. Con tali mezzi spesso violenti, ma
giustificati dalla necessità, la repubblica si vide in istato di
opporre lunga resistenza ad un'armata destinata a spogliarla, non
meno della sua proprietà che della sua libertà17.
Il gonfaloniere e la signoria ordinarono in seguito alle genti del
contado di riporre in Firenze, o nelle terre murate, tutte le loro
granaglie; ma i raccolti erano in quell'anno stati così ubertosi, che
quest'ordine venne male eseguito; onde i nemici, assai più che i
cittadini, approfittarono di tanta ricchezza di messi. Le città di
Borgo san Sepolcro, Cortona, Arezzo, Pisa e Pistoja, ove il
governo non era amato, dovettero dare ostaggi a Firenze. In tutte
le altre ed in tutte le fortezze, la signoria mandò fidati
comandanti. All'ultimo furono nominati sette commissarj con
quasi dittatoriale autorità, per vegliare alla salvezza della
repubblica; ma sgraziatamente la scelta cadde sopra uomini
troppo disuguali per talenti, per esperienza, per energia, i quali nè
furono abbastanza d'accordo fra di loro, nè abbastanza pronti
nelle loro risoluzioni, perchè l'opera loro riuscisse di grande
utile18.
Avvicinandosi il pericolo, i dieci della guerra intimarono ad
Ercole d'Este di recarsi al suo posto, e nello stesso tempo gli
mandarono il soldo dei mille fanti che doveva seco condurre. Ma
17
Fil. de' Nerli, l. X, p. 216. - Bern. Segni, l. III, p. 97.
Furono questi Jacopo Morelli, Zanobi Carnesecchi, Anton Francesco
Albizzi, Bernardo di Castiglione, Alfonso Strozzi, Agostini Dini e Filippo
Baroncini. Ben. Varchi, l. IX, p. 34.
18
di già il duca di Ferrara di lui padre stava negoziando per
riconciliarsi coll'imperatore e col papa, e non voleva esacerbarli
mandando il figliuolo ai servigj dei loro nemici. Dopo avere
accettato il danaro de' Fiorentini, e promesso che il figliuolo suo
non tarderebbe a porsi in istrada colle sue truppe, andò, sotto varj
pretesti, procrastinando la di lui partenza; poi rifiutò
perentoriamente, senza rendere il danaro che aveva ricevuto.
Poco dopo richiamò da Firenze il suo ambasciatore, ed all'ultimo
prestò al papa artiglieria e due mila zappatori, per adoperarli
contro i Fiorentini19.
Allorchè la signoria ebbe notizia dello sbarco dell'imperatore a
Genova, credette di dovergli mandare una deputazione. Questo
passo somministrò un pretesto avidamente accolto da tutti gli
alleati dei Fiorentini, per pretendere violata la lega. In fatti le
potenze italiane si erano obbligate a non trattare separatamente; e
fin allora niun'altra aveva scopertamente mancato a tale
promessa. D'altronde la deputazione fiorentina era stata scelta
altrettanto male, quanto mandata inopportunamente. I quattro
membri che la componevano tenevano opinioni e partiti diversi,
onde mai non furono uniti per agire concordemente. L'imperatore
ricusava di trattare con loro, se preventivamente non si
riconciliavano col papa, e risguardò come insufficienti le loro
facoltà, sebbene queste portassero che la repubblica acconsentiva
a tutte le condizioni che le verrebbero imposte, eccettuata
l'alienazione della propria libertà. Il gran cancelliere
dell'imperatore dichiarò loro, che, a motivo degli ajuti dati alla
Francia, avevano meritato di perdere questa libertà, ed ogni altro
loro privilegio, e non volle ammettere la risposta dei deputati, i
quali dicevano essere Firenze uno stato indipendente, che non
riconosceva i suoi privilegj da qualche concessione degli
imperatori, ma dai suoi proprj diritti. In appresso gli ambasciatori
vennero congedati; ma non pertanto due di loro, atterriti dalle
disposizioni della corte imperiale, non ripresero la strada della
19
Ivi, p. 35.
loro patria. Matteo Strozzi rifugiossi a Venezia e Tommaso
Soderini a Lucca. Niccolò Capponi, l'antico gonfaloniere, che era
il terzo ambasciatore, quando giunse a Castelnuovo di
Garfagnana, scontrossi in Michel Angelo Bonarruoti, che fuggiva
con Rinaldo Corsini, e che gli diede le più tristi notizie intorno ai
rovesci di già provati dalla repubblica. Il Capponi, oppresso dalla
fatica, dall'età, dal dolore, venne subito sorpreso da una malattia
che lo trasse al sepolcro il giorno 8 di ottobre. Raffaello Girolami
tornò solo a Firenze a rendere conto della sua ambasciata, ed
incoraggiò i suoi concittadini ad affrontare coraggiosamente 20 la
burrasca ond'erano minacciati21.
L'imperatore aveva commessa la conquista di Firenze ed il
compimento delle vendette di Clemente VII al principe di
Orange, in allora vicerè di Napoli. Clemente stava dunque per
volgere contro la sua patria quello stesso generale e quell'armata
medesima, che tre anni prima l'avevano con tanto rigore tenuto
assediato, che avevano saccheggiata sotto i suoi occhi la sua
capitale con sì atroce barbarie, e che non gli avevano renduta la
libertà, che dopo avergli estorta una scandalosa taglia. Il prezzo
pel quale il papa acconsentì a perdonare tante ingiurie, era
l'assunto che prendeva cotal gente ferocissima di trattare colla
stessa barbarie la di lui città natale. L'esercito che aveva
saccheggiata Roma, e che aveva vissuto in Milano a discrezione,
fu richiamato sotto le bandiere dei suoi capi dalla speranza di
saccheggiare Firenze; e furono veduti alcuni soldati spagnuoli,
20
Nell'originale "coraggiosamante". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
Ben. Varchi, l. IX, p. 38-42. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 354. - Filip. de' Nerli, l.
IX, p. 191-195. - Bern. Segni, l. III, p. 75. - Pare che Michel Angelo provasse
terrori altrettanto più vivi, quanto più vasta era la sua immaginazione. Vedendo
i primi rovesci de' Fiorentini, fuggì fino a Venezia, di dove un sentimento di
rimorso e di vergogna lo ricondusse bentosto al suo posto ed alla direzione
delle fortificazioni. Quando fu presa la città, venne colpito da nuovo spavento,
e si tenne molto tempo nascosto; ma poichè Clemente VII lo ebbe fatto
rassicurare, intraprese per riconoscenza le statue dei sepolcri della cappella
Laurenziana. Ben. Varchi, t. IV, l. XII, p. 293-294.
21
che erano trattenuti innanzi ai tribunali per cause civili, protestare
alla parte avversaria tutti i danni e perdite nei quali incorrere
potrebbero per non avere parte al sacco di Firenze22,
Pure, quando in sul finire di luglio, il principe d'Orange recossi
a Roma per avere un abboccamento col papa intorno ai mezzi
occorrenti per dare cominciamento alla spedizione, venne qualche
tempo trattenuto dall'avarizia e dalla diffidenza di Clemente VII,
il quale non voleva privarsi del danaro che gli si chiedeva.
All'ultimo acconsentì a stento a pagare trenta mila fiorini
contanti, ed a prometterne altri quaranta mila entro breve
termine23; ma trovò un altro mezzo per cattivarsi l'amore de'
soldati, senza danno del suo tesoro. Questi, abbandonando Roma
il 17 febbrajo del 1528, non avevano terminato di riscuotere le
taglie ed il prezzo de' riscatti che avevano arbitrariamente
imposto ai cittadini, e dopo tale epoca più non credevano potere
pretenderne il pagamento. Clemente VII loro accordò il privilegio
di farsi pagare tutto quanto era loro dovuto ad estinzione delle
cedole da loro estorte ai Romani colla violenza24.
L'esercito del principe d'Orange adunossi tra Foligno e Spello
ai confini dello stato perugino. Vi si trovavano tre mila
cinquecento Tedeschi, avanzo dei tredici mila landsknecht, che
Giorgio Frundsberg aveva condotti al Borbone nel 1526; gli altri
erano caduti vittime della peste di Roma e della fame di Napoli:
vi si trovavano pure cinque mila Spagnuoli del marchese del
Guasto, invecchiati come i Tedeschi in tutte le guerre d'Italia.
Soltanto dopo la pace di Lombardia vi si videro inoltre giugnere
sotto Pietro Velez di Guevara due mila Spagnuoli di fresco
sbarcati a Genova, che per anco non avevano militato, e che
giunti essendo, secondo il consueto delle reclute spagnuole,
affatto ignudi, chiamavansi dagl'Italiani Bisogni: circa lo stesso
22
Ben. Varchi, l. IX, p. 54. - Bern. Segni, l. III, p. 77. - Jac. Nardi, l. VIII, p.
350.
23
Ben. Varchi, l. IX, p. 50.
24
Ben. Varchi, l. IX, p. 53.
tempo il conte Felice di Wirtemberga condusse altre reclute
tedesche: il rimanente dell'esercito consisteva in soldati italiani,
ed era la maggior parte che servivano sotto i loro più distinti
capitani, senza paga e per la sola speranza del saccheggio.
Quando il principe d'Orange entrò in campagna, in sul cominciare
di settembre, non aveva sotto i suoi ordini più di quindici mila
soldati; ma avanti che terminasse l'assedio ne contò più di
quaranta mila25.
Per entrare in Toscana l'Orange doveva attraversare lo stato di
Perugia, difeso da Malatesta Baglioni con tre mila uomini al
soldo de' Fiorentini. Il castello di Spello, posto in sull'estremo
confine del Perugino, ove l'abate Leone de' Baglioni, fratello
naturale del Malatesta, erasi chiuso, trattenne alcun tempo i
nemici. Giovan d'Urbina, luogotenente generale dell'armata
imperiale, vi fu ucciso; ma Spello all'ultimo fu preso il primo dì
di settembre e saccheggiato con estrema crudeltà 26. L'esercito
giunse in appresso sotto Perugia; ma l'assedio di questa città posta
in sulla vetta d'una piccola montagna, ed in gagliarda situazione,
offriva grandissime difficoltà. Il principe d'Orange, che non osava
intraprenderlo, offrì a Malatesta Baglioni onorate e vantaggiose
condizioni. Obbligavasi a farlo assolvere dal papa da tutte le
censure ecclesiastiche che aveva incorse, a fargli permettere di
continuare nel servigio dei Fiorentini colla sua compagnia di
ventura, e finalmente a conservargli la signoria di Perugia, purchè
evacuasse questa città, che l'Orange nè voleva assediare, nè
lasciarsi alle spalle in mano de' nemici. Il Baglioni chiese ai
Fiorentini, o di acconsentire a questo trattato, o di accrescere
considerabilmente la sua armata. Siccome questi non potevano
interamente affidarsi al Baglioni, nè ai Perugini, accettarono il
primo partito. Si sottoscrisse il trattato il 10 di settembre, ed il 12
25
Ben. Varchi, l. X, p. 128. - Bern. Segni, l. III, p. 99. - P. Jovii, l. XXVII, p.
116.
26
Ben. Varchi, l. X, p. 132. - Comment. di Fil. de' Nerli, l. IX, p. 192. - Bern.
Segni, l. III, p. 78. - P. Jovii, l. XXVII, p. 112.
Malatesta Baglioni prese la via d'Arezzo colle truppe sue e
fiorentine27.
Il principe d'Orange gli tenne dietro da vicino: il 14 di
settembre s'accostò a Cortona difesa da soli 700 fanti di
guarnigione, e dopo avere sofferto qualche perdita in un assalto,
ch'egli fece dare lo stesso giorno alla città, la ricevette
all'indomani per capitolazione. In appresso l'Orange, seguendo la
cominciata strada sopra Arezzo, dove era stato mandato per
commissario Francesco Albizzi con due mila uomini; ma questi,
sconcertato dal vedere sopraggiugnere Malatesta Baglioni, e dalla
pronta capitolazione di Cortona, evacuò Arezzo colla sua truppa,
e, ritirandosi precipitosamente a Firenze, sparse la costernazione
in tutta Val d'Arno disopra. Affermarono i nemici del
gonfaloniere, che questi, senza partecipazione della signoria e dei
dieci della guerra, aveva ordinato a Francesco Albizzi di ritirarsi,
onde riunire in Firenze tutta la fanteria, invece di perderla alla
spicciolata nel sostenere assedj. Anche in tale supposizione il
disordine di questa ritirata sarebbe stato non meno colpevole che
imprudente28.
Arezzo, evacuato dai Fiorentini, aprì il 18 settembre le porte
all'armata imperiale. Allora questa città sperò di ricuperare la sua
antica libertà: fece battere moneta, spedì commissarj in tutte le
castella dell'antico suo territorio, rifece la sua amministrazione
sotto il nome di repubblica d'Arezzo, e durante l'assedio di
Firenze somministrò agl'imperiali continui ajuti, senza prevedere
che all'istante che fosse presa Firenze, Arezzo ricaderebbe sotto il
giogo29.
Alla perdita di Cortona e di Arezzo tenne dietro
immediatamente quella di Castiglione Fiorentino, di Firenzuola e
di Scarperia: l'armata imperiale si andava avanzando, e pareva
27
Ben. Varchi, l. X, p. 137. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 350. - Bern. Segni, l. III, p.
86. - P. Jovii, l. XXVII, p. 113.
28
Ben. Varchi, l. X, p. 142. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 351. - Bern. Segni, l. III, p.
88. - Fil. de' Nerli, l. IX, p. 192. - P. Jovii, l. XXVII, p. 114.
29
Ben. Varchi Stor. Fior., l. X, p. 155. - Bern. Segni, l. III, p. 87-90.
che verun ostacolo non potesse più trattenerla. Il suo
avvicinamento riempì Firenze di terrore; ed allora si videro
fuggire dalla città coloro che la pusillanimità o l'attaccamento ai
Medici consigliava a non partecipare alla sorte della loro patria.
Ne diede l'esempio Bartolomeo o Baccio Valori, e fu imitato da
Roberto Acciajuoli, da Alessandro Corsini, da Alessandro de'
Pazzi, e finalmente dallo storico Francesco Guicciardini, il quale,
dopo avere menata vita principesca nel suo governo di Parma e di
Modena, non credeva che nella sua repubblica si avesse per lui
abbastanza rispetto e riconoscenza. Egli recossi al campo nemico;
ebbe una parte odiosa nelle vendette della fazione trionfante, e
contribuì in una maniera ancora più fatale al finale stabilimento
della tirannide, adoperando la sua abilità politica nella ruina del
proprio paese. L'odio che in Firenze, anche quando questa città fu
fatta schiava, perseguitò in appresso tutti coloro che avevano
tradita la libertà, pare aver consigliato il Guicciardini a scrivere la
storia de' suoi tempi onde ricuperare la pubblica stima. E senza
dubbio lo stesso motivo trasse Filippo de' Nerli a dettare i suoi
commentarj. Si era costui renduto talmente sospetto col suo zelo
pei Medici, che il giorno 8 ottobre del 1529 venne arrestato con
altri diciotto cittadini, e custodito in palazzo fino alla fine
dell'assedio30.
La signoria aveva di fresco spediti quattro ambasciatori al
papa; ma troppo limitate erano le facoltà loro date, per soddisfare
all'ambizione della casa de' Medici. Clemente VII rispose loro
che il suo onore richiedeva che la città gli si rendesse a
discrezione; che allora farebbe a vicenda vedere al mondo ch'egli
ancora era Fiorentino, e che amava la sua patria 31. Questa risposta
fu comunicata ad un'assemblea generale de' cittadini adunati nella
sala del gran consiglio; in appresso questi si divisero in sedici
30
Ben. Varchi, l. X, p. 170. - Fil. de' Nerli, l. IX, p. 198. - Bern. Segni, l. III, p.
92. - Fr. Guicciardini, l. XIX, p. 532.
31
Ben. Varchi, l. X, p. 167. - Fil. de' Nerli, l. IX, p. 196. - Bern. Segni, l. III, p.
86.
sezioni per deliberare sotto i loro gonfalonieri, e quindici di
queste sezioni dichiararono, che preferivano di sagrificare i loro
beni e le loro vite in una battaglia piuttosto che l'onore e la libertà
in un trattato32.
Malgrado i progressi fatti dall'arte di attaccare le città, le
fortificazioni di Firenze erano tuttavia risguardate come quasi
inespugnabili dalla banda del piano; ma quella parte delle mura
che attraversa le colline al mezzodì dell'Arno, era mal situata,
signoreggiata in più luoghi ed assai debole. Della porzione
montuosa di questo ricinto, chiamato Monte a Samminiato, fu
affidata la difesa a Stefano Colonna, che poca cura prendevasi del
rimanente dell'assedio, e che nel suo quartiere non riconosceva
verun superiore33. Gli indugj del principe d'Orange, che consumò
quasi quindici giorni in Val d'Arno, quando aspettavasi di vederlo
ad ogni istante giugnere sotto la città, diedero il tempo di
afforzare, con nuovi lavori, quelle mura che si credevano più
deboli; permisero pure di dare effetto ad un ordine emesso il 19 di
ottobre dal consiglio degli ottanta, ciò era di spianare tutti i
sobborghi, tutte le case, tutti gli orti entro il raggio di un miglio
dalle mura di Firenze. Quest'ordine, che sagrificava migliaja di
ricchi edificj e di deliziosi orti nella più popolata e più riccamente
coltivata situazione d'Italia, venne eseguito con uno zelo
veramente patriotico dai medesimi proprietarj, i quali si vedevano
entrare in città carichi di fascine che avevano tagliate per le
fortificazioni, tra gli oliveti, le ficaje, gli aranci ed i cedri de' loro
proprj giardini34.
Soltanto il 14 di ottobre il principe d'Orange venne ad
alloggiarsi a Pian di Ripoli, sotto Firenze. Aveva chiesta
dell'artiglieria ai Sienesi, che, prestandola a mal in cuore, la
facevano avanzare assai lentamente. Perciò le prime batterie non
32
Ben. Varchi, l. X, p. 173.
Ivi, l. IX, p. 81. - Jac. de' Nerli, l. VIII, p. 356.
34
Ben. Varchi, l. X, p. 185. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 353. - Fil. de' Nerli, l. IX, p.
197 e 202.
33
si scoprirono che sul principio di novembre; ed in quell'intervallo
i Fiorentini avevano lavorato con tanta costanza intorno alle loro
fortificazioni, che più non credevano di dover temere gli attacchi
de' loro nemici. La repubblica pagava allora il soldo di diciotto
mila fanti e di seicento cavalli: ma effettivamente non aveva che
tredici mila soldati in attività, sette mila de' quali in Firenze, e sei
mila nelle guarnigioni di Prato, Pistoja, Empoli, Volterra, Pisa,
Colle e Montepulciano. Malatesta Baglioni aveva sotto il suo
comando tre mila Perugini, ed il capitano Pasquino, a lui
subordinato, tre mila Corsi; Stefano Colonna comandava ai tre
mila uomini della milizia urbana, che servivano non altrimenti
che se fossero truppe di linea. Tutta la popolazione aveva
contratte abitudini militari, e tranne i lavori affatto meccanici
erasi in città abbandonata ogni altra occupazione. La spesa di
questo nuovo stato di guerra ammontava ogni mese a settanta
mila fiorini35.
Per difendere le più lontane parti del territorio, ed in
particolare Borgo san Sepolcro e Montepulciano, i Fiorentini
avevano stipendiato Napoleone Orsini, più conosciuto sotto il
nome di abate di Farfa, sebbene già da lungo tempo egli avesse
riconsegnata quest'abazia per far il mestiere di condottiere. Era
costui uno dei più formidabili tra que' gentiluomini che passavano
la loro vita tra la guerra e gli assassinj. Aveva nel suo feudo di
Bracciano adunato un numeroso corpo di soldati e di banditi, coi
quali, per vendicare, secondo egli diceva, i Romani, esercitava
grandi crudeltà contro gli imperiali, e poi contro i soldati del
papa36. Da principio servì utilmente i Fiorentini coi trecento
cavalli che aveva seco; ma in appresso si lasciò sorprendere da
Alessandro Vitelli tra Borgo san Sepolcro e Città di Castello: la
di lui truppa fu totalmente dispersa, ed egli medesimo salvossi a
35
36
Bern. Segni, l. III, p. 89.
Marco Guazzo Ist. de' suoi tempi, f. 52. - Lett. de' Principi, t. II, f. 137 e seg.
stento, abbandonando, dopo quest'accidente, il servigio de'
Fiorentini37.
Altri fatti d'armi di non molta importanza accaddero ne'
contorni di Firenze, sia lungo le linee che voleva formare il
principe d'Orange, sia nell'attacco delle piccole fortezze di Val
d'Arno, ch'egli cercava di occupare. Francesco Ferrucci
segnalossi in queste scaramucce per la sua intrepidezza e per le
sue cognizioni militari, e si acquistò non meno la confidenza de'
suoi concittadini che la stima de' nemici. Sebbene antica fosse la
famiglia del Ferrucci, era povera, e da più generazioni non aveva
dato verun distinto magistrato. Suo avo Antonio si era fatto nome
negli assedj di Pietra Santa e di Sarzana. Egli e suo fratello
Simone avevano militato sotto Anton Giacomino Tebalducci, il
migliore ufficiale che i Fiorentini avessero avuto da lungo tempo:
avevano da lui imparata l'arte della guerra, e si erano poi fatto
nome nelle bande nere sotto Giovanni de' Medici. Francesco
Ferrucci aveva sempre servito in questa ragguardevole milizia, e
nella spedizione di Napoli, di dove era recentemente tornato,
aveva le incumbenze di pagatore38. Dalla signoria fu spedito in
qualità di commissario generale prima a Prato, in appresso ad
Empoli; e dopo avere poste quelle piccole città in istato di difesa,
egli tenne la campagna con tanto vantaggio, e prese così spesso ai
nemici grossi convoglj di cavalleria o di vittovaglie, seppe
mantenere tanta disciplina nella sua piccola armata, che i soldati,
che egualmente lo amavano e rispettavano, credevansi sotto i di
lui ordini invincibili39.
Gli Spagnuoli, appena giunti presso Firenze, avevano preso
Samminiato, dove avevano lasciato dugento fanti, che,
spalleggiati dagli abitanti della terra, infestavano tutto il
circostante paese, e rendevano più difficile la comunicazione tra
37
Bern. Segni, l. III, p. 99; l. IV, p. 104. - P. Jovii Hist., l. XXVIII, p. 131.
Jac. Nardi, l. VIII, p. 363. - Bern. Segni, l. IV, p. 103. - Ben. Varchi, l. X, p.
222.
39
Ben. Varchi, l. X, p. 224. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542.
38
Firenze e Pisa. Avendo il Ferrucci determinato di scacciarli, andò
ad assalirli con sessanta cavalli e quattro compagnie di fanteria;
fu il primo a piantare la sua scala contro le mura, ed il primo a
salirvi; e sebbene gli Spagnuoli facessero, coll'ajuto degli abitanti,
una vigorosa resistenza, il Ferrucci prese Samminiato d'assalto,
ed occupò pure la fortezza, uccidendo quasi tutti gli Spagnuoli
che avevano difese le mura. Mentre che stava eseguendo questa
spedizione, fu attaccato dagl'imperiali il castello della Lastra
posto sulla stessa strada, ma più di Samminiato vicino a Firenze.
Questo castello oppose una gagliardissima resistenza, e gli
Spagnuoli avevano di già perduta molta gente, quando fecero
avanzare l'artiglieria. Allora gli assediati chiesero di trattare, ed
ottennero un'onorata capitolazione. Ma gli Spagnuoli, appena
passata la porta, assalirono la guarnigione che stava senza
sospetto, e tutta la passarono a fil di spada40.
Fin qui l'esercito imperiale nulla aveva tentato contro la stessa
piazza di Firenze; ma il 10 di novembre, vigilia di san Martino,
supponendo l'Orange che i Fiorentini non facessero attenta
guardia in quella notte consacrata al piacere, approfittò della
profonda oscurità, renduta ancora maggiore dall'abbondante
pioggia che cadeva, per tentare la scalata: furono poste in opera
quattrocento scale lungo le mura, dalla porta di san Niccolò fino a
quella di san Friano; cioè in tutta la più montuosa parte di
Firenze; ma in ogni luogo le sentinelle chiamarono all'armi, la
guardia nazionale gareggiò colla truppa di linea, ed il nemico fu
respinto41.
Appunto un mese dopo questo primo sperimento, Stefano
Colonna, che comandava nel quartiere che gl'imperiali avevano
tentato di sorprendere, si provò ancor egli di attaccarli
all'impensata nelle loro linee. Era egli personalmente nemico di
suo parente Sciarra Colonna, che serviva nel campo nemico, e la
40
Ben. Varchi, l. X, p. 227. - Bern. Segni, l. IV, p. 103. - Jac. Nardi, l. VIII, p.
365. - P. Jovii, l. XXVIII, p. 135. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 540.
41
Ben. Varchi, l. X, p. 229.
notte dell'undici di dicembre andò ad attaccarlo nel suo quartiere
di santa Margarita a Montici, con cinquecento fanti, ai quali
aveva fatto porre sopra le armi, per conoscersi nell'oscurità, delle
camicie bianche. Gl'imperiali, sorpresi in mezzo a tanta oscurità,
perdettero molta gente prima che potessero ordinarsi, ed un
ridicolo accidente accrebbe ancora il loro disordine: i Fiorentini,
andando dovunque in traccia de' nemici, forzarono le porte d'una
stalla, nella quale erasi chiusa una mandra di majali delle
Maremme quasi selvaggi, i quali, spaventati dalle voci dei soldati,
precipitaronsi tra i fuggiaschi con orribili grugniti, ed atterrarono
moltissimi soldati, che nulla potendo discernere in così grande
oscurità credevansi inseguiti dai nemici. Di già erano accorsi il
principe d'Orange e don Ferdinando Gonzaga per soccorrere le
loro genti, ed andavano ponendo qualche ordine nelle difese,
quando da tre porte di Firenze sortirono, secondo il preventivo
accordo fatto con Stefano Colonna, tre nuovi corpi d'armata per
attaccare gl'imperiali. Gli assedianti vennero forzati in molte
posizioni, e più volte si credettero in sul punto di essere scacciati
dal loro campo. Finalmente Malatesta Baglioni fece suonare a
raccolta assai più presto che non abbisognava; e forse perdette
così l'unica occasione di mettere fine alla guerra con una
vittoria42.
Due giorni dopo il commissario Ferrucci tese presso
Montopoli un'imboscata al colonnello Pirro di Stipicciano, della
casa Colonna, e gli uccise o prese molta gente. Questi fatti,
benchè di non molta importanza, giovavano però a rianimare il
coraggio degli assediati, ed a far dimenticare le loro perdite.
N'ebbero spesso di assai dolorose. Il 16 di dicembre due de' loro
migliori capitani, Mario Orsini e Giorgio Santa Croce, furono
uccisi da un solo colpo di colombrina, mentre stavano ordinando
certi cambiamenti da farsi alle fortificazioni43. Lo stesso giorno i
42
Ben. Varchi, l. X, p. 238. - Bern. Segni, l. IV, p. 104. - Fr. Guicciardini, l.
XX, p. 540. - P. Jovii, l. XXVIII, p. 130.
43
Ben. Varchi, l. X, p. 243. - Bern. Segni, l. IV, p. 104.
Fiorentini ricevettero una notizia che li liberò da un cocente
pensiero; Girolamo Moroni era morto il 15 di dicembre nel
campo degli assedianti. Quest'uomo così versato in tutte le arti
dell'intrigo, che aveva governato con dispotica autorità
Massimiliano, indi Francesco Sforza, e che aveva avuta tanta
parte nelle rivoluzioni della Lombardia, era passato all'armata
imperiale come prigioniero del Pescara. Era di già condannato a
pena capitale, quando giunse ad acquistarsi il favore del Borbone,
che lasciossi poscia da lui governare fino alla sua morte sotto le
mura di Roma. Il principe d'Orange aveva coll'armata raccolto il
consigliere del suo predecessore, ed oramai non faceva nulla
senza il di lui parere: lo stesso Clemente VII era vinto dalla
opinione del sorprendente ingegno politico del Moroni, e gli
perdonava il male che aveva da lui ricevuto in visto del male che
sperava di poter fare col di lui mezzo ai nemici. Pareva che il
Moroni tenesse dietro alla fortuna piuttosto che ad un determinato
oggetto; voleva rendere potenti coloro cui erasi attaccato, e
condurre a felice fine le loro imprese; del resto pareva
indifferente rispetto alle persone ed ai principj, e dopo avere
lavorato per escludere gli stranieri d'Italia, si adoperava con
eguale ardore per servirli contro gl'Italiani. Morì naturalmente e
quasi senza malattia in età decrepita. Lusingavansi i Fiorentini
che la di lui morte lascerebbe il principe d'Orange senza mezzi
nel consiglio, e senza opinione nell'armata, perchè credevano che
il destro Moroni fosse stato fin allora l'anima del campo nemico44.
Frattanto le negoziazioni di Bologna si accostavano al loro
fine, e colla mediazione del papa tutti gli stati d'Italia si andavano
riconciliando coll'imperatore, abbandonando i Fiorentini. Questi
vedevano separarsi da loro un dopo l'altro tutti i membri di quella
lega, chiamata santa, per la quale il re d'Inghilterra, il re di
Francia, il duca di Milano, i Veneziani, il duca di Ferrara, eransi
obbligati a difendere la loro repubblica ed a non trattare senza di
lei; ma li ferì tanto più l'abbandono de' Veneziani che avevano
44
Ben. Varchi, l. X, p. 245.
maggior ragione di risguardarsi come uniti da una medesima
causa, e che ancora recentemente avevano raffermata la loro
alleanza45. D'altra banda mentre perdevano i loro alleati vedevano
crescere i nemici, perciocchè una delle condizioni della
pacificazione di Lombardia portava che Carlo V ne ritirerebbe le
sue truppe; ed infatti negli ultimi giorni di dicembre circa venti
mila tra Spagnuoli e Tedeschi passarono gli Appennini con una
numerosa artiglieria, e vennero ad accamparsi sulla riva destra
dell'Arno, che fin allora si era preservata dai guasti della guerra 46.
I Fiorentini, atterriti dall'arrivo di questi nuovi nemici,
evacuarono Pistoja e Prato con quella stessa precipitazione con
cui al sopraggiugnere della prima armata avevano evacuata
Cortona ed Arezzo. Le più lontane fortezze di Pietra Santa e di
Motrone aprirono volontariamente le loro porte agl'imperiali, di
modo che prima che terminasse l'anno l'autorità della repubblica
più non era conosciuta che in Livorno, Pisa, Empoli, Volterra,
Borgo san Sepolcro, Castrocaro e nella cittadella d'Arezzo47.
Malgrado i pericoli dello stato, la prima magistratura veniva
ricercata con eguale ardore. Francesco Carducci, ch'era stato
sostituito al Capponi negli otto ultimi mesi del 1529, aveva dato
prove del vigore del suo carattere e del suo ingegno. Desiderava
di essere confermato pel susseguente anno, ed espresse
abbastanza chiaramente tale suo desiderio nel gran consiglio, ove
rappresentò ai suoi concittadini che in così difficili circostanze,
non potevasi quasi mutare il capo dello stato, senza esporsi altresì
a cambiare tutte le misure, ed a sovvertire tutti i progetti maturati
lungo tempo innanzi. Ma questo stesso avvertimento parve
offendere coloro che credevansi non meno di lui capaci di
sostenere la prima carica della stato, ed il Carducci non venne
pure annoverato tra i sei candidati designati pel gonfalone. Il gran
45
Ben. Varchi, l. X, p. 257-261.
Ivi, p. 268. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 359. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 540. Fil. de' Nerli, l. IX, p. 207. - Bern. Segni, l. III, p. 98.
47
Ben. Varchi Stor. Fior., l. X, p. 279. - Filippo de' Nerli, l. IX, p. 206. - Bern.
Segni, l. IV, p. 102.
46
consiglio scelse il 2 di dicembre Raffaele Girolami, il solo degli
ambasciatori mandati a Carlo V a Genova, che fosse tornato in
patria a rendere conto della sua missione. Dopo tal giorno il
Girolami visse nel palazzo del pubblico, ed assistette alle
deliberazioni della signoria, sebbene non entrasse in funzione che
il primo gennajo del 153048.
Dopo l'arrivo della seconda armata imperiale provegnente
dalla Lombardia, Firenze era circondata da ogni banda, ed il
principe d'Orange aveva una formidabile artiglieria, e più che
bastante per istringere vivamente l'assedio; pure non cercò di
battere in breccia le mura, e solo tentò, e quest'ancora con infelice
riuscita, di atterrare alcune torri dalla di cui artiglieria veniva
incomodato, limitandosi a bloccare la città colla speranza di
affamarla49.
Oltre l'ordinaria numerosa sua popolazione, Firenze conteneva
in allora molti contadini che vi si erano rifugiati dalle circostanti
campagne, e dodici in quattordici mila soldati. Gli ultimi non si
erano accostumati in veruna delle precedenti guerre d'Italia a
soffrire le privazioni. La loro moderazione, la loro disciplina, la
loro pazienza formarono un singolare contrasto colle vessazioni
sofferte dalle altre città per parte de' soldati ricevuti entro le loro
mura. Senza dubbio Firenze andava di ciò debitrice alla guardia
urbana, che colla sua lodevole condotta serviva d'esempio alle
altre truppe, e le teneva in dovere. Nondimeno tutti i granaj di
Firenze sarebbersi a lungo andare vuotati, se il commissario
generale Francesco Ferrucci non avesse trovato il mezzo, mercè
una costante attività ed uno zelo eguale al suo coraggio,
d'introdurre in città varj convoglj di bestiami, di granaglie e di
48
Ben. Varchi, l. X, p. 237. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 370. - Ist. di Gio. Cambi, t.
XXIII, p. 47. - Filippo de' Nerli, l. IX, p. 204. - Bern. Segni, l. IV, p. 103.
49
Jac. Nardi, l. VIII, p. 359. - Bern. Segni, l. IV, p. 103. - P. Jovii Hist. sui
temp., l. XXVIII, p. 130.
foraggi, e di farvi passare le munizioni che si trovavano
ammassate ad Empoli, a Volterra ed a Pisa50.
L'accordo d'Ercole d'Este in qualità di capitano generale era
terminato col 1529, senza ch'egli si fosse mai recato al suo posto.
Gli uomini d'armi da lui mandati avevano ubbidito al conte
Ercole Rangoni, di lui luogotenente; ma si erano contenuti assai
mollemente, dietro gli ordini stessi ricevuti da Ferrara. Alla fine
dell'anno il principe li richiamò. Egli più non desiderava di
conservare il posto di capitano generale, ed i Fiorentini non
avevano verun pensiero di confermarlo in cotale carica. I dieci
della guerra procedettero a nominargli un successore; ma
pendevano incerti tra Malatesta Baglioni, che ancora non aveva
titolo di governatore generale, e Stefano Colonna, generale della
loro ordinanza; ma quest'ultimo, uomo circospetto, e che
trasparire non lasciava le segrete sue intenzioni, dichiarò che
continuava a considerarsi come soldato del re cristianissimo,
ch'egli rimaneva in Firenze per di lui servigio, e che non
desiderava verun'altra distinzione51. Per lo contrario il Baglioni
faceva pratiche per avere la prima carica. Sebbene indebolito e
quasi storpiato da lunghe malattie, non era meno illustre per
coraggio, che per militari talenti; aveva gloriosamente militato
negli eserciti veneziani; sapeva farsi amare e rispettare dai
soldati, sebbene facesse mantenere la più severa disciplina; e
comecchè in appresso l'esperienza dimostrasse, che preferiva il
suo personale interesse al dovere, ebbe, mancando ancora a
quest'ultimo, certi riguardi per l'onor suo, che il più delle volte
venivano dai condottieri trascurati. Fu il 26 di gennajo che il
gonfaloniere Raffaele Girolami gli consegnò lo stendardo della
repubblica ed il bastone del comando, dopo averlo esortato in
presenza di tutto il popolo a versare, se il bisogno lo richiedesse,
50
Ben. Varchi Stor. Fior., t. IV, l. XI, p. 41. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 541. Filip. dei Nerli, l. IX, p. 207.
51
Ben. Varchi, t. IV, l. XI, p. 23.
il suo sangue per la difesa della libertà fiorentina, e dopo avere
ricevuto il di lui giuramento52.
Pochi dì avanti Francesco I, per fare cosa grata al papa ed
all'imperatore, aveva fatto dare ordine a questo stesso Malatesta
Baglioni, ed allo stesso Stefano Colonna, di abbandonare il
servigio de' Fiorentini, dichiarando di non li volere incoraggiare
nella loro ribellione contro la Chiesa e contro l'impero; ma in pari
tempo che loro pubblicamente mandava quest'imbasciata, li
faceva segretamente avvisare di non ubbidire. Richiamava il
signore de Viglì, ma vi lasciava Emilio Ferreto in qualità di
segretario dell'ambasciata, commettendogli di sostenere il
coraggio de' Fiorentini, e di accertarli, che ricuperati che avesse i
figliuoli col pagamento della loro taglia, tornerebbe a dar loro
aperti ajuti53.
Dietro una decisione del gran consiglio, il nuovo gonfaloniere
aveva spediti ambasciatori all'imperatore ed al papa a Bologna
per chiedere la pace. Erano essi incaricati di offrire il richiamo de'
Medici in Firenze, a condizione che tutto lo stato fiorentino
sarebbe restituito alla repubblica, che sarebbe conservata la di lui
libertà, e che la presente costituzione non verrebbe alterata. Carlo
V non volle trattare con loro, e sempre li rinviò al papa; questi
parve volere accordare le due prime condizioni, ma si alterò
grandemente contro coloro che proponevano la terza; giurò che
rovescierebbe un governo abbandonato alla plebaglia, che
opprimeva tutto ciò che la nazione avrebbe dovuto rispettare; e
costrinse gli ambasciatori, a mezzo febbrajo, ad uscire
immediatamente da Bologna senza avere niente convenuto54.
Ma nè la durezza dell'imperatore e la collera del papa, nè
l'abbandono del re di Francia, nè la fuga di varj capitani che
passarono tra i nemici, nè le trame dei partigiani de' Medici,
52
Ben. Varchi. l. XI, p. 24. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 358. - Ist. di Gio. Cambi, t.
XXIII, p. 48. - Fil. de' Nerli, l. X, p. 219. - Bern. Segni, l. IV, p. 103.
53
Ben. Varchi, l. XI, t. IV, p. 19. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 541.
54
Fil. de' Nerli, l. X, p. 217, 218. - Bern. Segni, l. IV, p. 106. - Ben. Varchi, t.
IV, l. XI, p. 12-18.
perseguitati con un rigore e con forme di giudizj indegni di una
repubblica, nè la successiva perdita di tutto il dominio dello stato,
ebbero forza di scoraggiare i Fiorentini. I monaci del convento di
san Marco ed i proseliti di Girolamo Savonarola avevano
ricominciate le loro prediche. Fra Benedetto da Fojano di santa
Maria Novella, e fra Zaccaria, domenicano di san Marco, erano
tra costoro i due più eloquenti oratori, e quelli che il popolo
ascoltava con maggiore entusiasmo. Incoraggiavano essi i divoti
colla promessa che Cristo, nominato loro re, penserebbe a
difenderli, e profetizzavano che quando parrebbe impossibile
ogni umano soccorso, quando gl'imperiali avrebbero di già
innalzate sulle mura le loro insegne, gli Angeli del Signore
scenderebbero in mezzo alla battaglia, e scaccierebbero colle
infuocate loro spade i nemici del Signore dalla città che si era
data in di lui potere55.
Mentre i Fiorentini aspettavano ogni venerdì di essere attaccati
dal principe d'Orange, perchè gli Spagnuoli risguardavano tale
giorno siccome fausto, non lasciavano dal canto loro passare un
sol dì senza tentare con qualche sortita di sorprendere alcun posto
de' nemici. In molte di queste zuffe perirono parecchj uomini che
alla repubblica erano utilissimi, e si prese da ciò motivo di
accusare Malatesta Baglioni di aver voluto spossare la
guarnigione con questa piccola guerra. Con ciò, a dir vero, il
Baglioni riuscì a rendersi affatto dipendente il consiglio di guerra,
perchè gli ufficiali, che si andavano perdendo in queste
scaramucce, venivano sempre rimpiazzati da creature proposte da
lui medesimo; e dall'altra parte potev'essere fondato a credere che
con queste piccole perdite non comperava a troppo caro prezzo il
vantaggio di agguerrire i suoi soldati, d'inspirar loro confidenza e
di dissipare quell'impazienza e quella noja che spesso riescono
alle truppe assediate più funeste che le spade nemiche56.
55
Ben. Varchi, l. XI, p. 39, 178. - Bern. Segni, l. IV, p. 116. - Ist. di Gio.
Cambi, t. XXIII, p. 52, 66.
56
Ben. Varchi, t. IV, l. XI, p. 30 e seg. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 359.
Alcune delle sortite de' Fiorentini avevano un piano più
generale. Sorprendendo di notte i quartieri de' nemici, potevano
lusingarsi di disordinare tutto l'esercito e di forzarlo a levare
l'assedio. Queste notturne sorprese chiamavansi incamiciate,
perchè gli assalitori si coprivano con una camicia bianca, ad
oggetto di riconoscersi nell'oscurità. Talvolta i Fiorentini non
temevano di attaccare i loro nemici in pieno giorno; ed il 21 di
marzo, dietro gli ordini di Malatesta Baglioni, cinque corpi,
cadauno di cinque in sei cento uomini, sortirono da cinque
diverse porte per attaccare contemporaneamente gl'imperiali,
onde occupare un ridotto, chiamato il cavaliere, innalzato dal
principe d'Orange in faccia alla porta Romana: un corpo doveva
condurre a fine quest'impresa, mentre gli altri distrarrebbero
l'attenzione del nemico. Sgraziatamente i Fiorentini furono traditi
da un disertore, che uscì di città mezz'ora prima di loro; pure,
sebbene gl'imperiali si trovassero da per tutto apparecchiati a
riceverli, l'attacco dei Fiorentini fu così vivo, che molti di loro
giunsero sul Cavaliere; e quando si ritirarono all'avvicinarsi della
notte, avevano fatto ai nemici assai maggior male che non ne
avevano ricevuto57. Rinnovarono lo stesso attacco il 28 di marzo,
ma meno felicemente. Il giorno di Pasqua ed i seguenti giorni,
ebbero ancora luogo alcune brillanti scaramucce. Intanto
l'imperatore era partito alla volta della Germania, il papa era
tornato a Roma, e l'armata dell'Orange cominciava a sentire il
bisogno di danaro. I Fiorentini erano persuasi che se riusciva loro
in tale circostanza di ottenere qualche importante vantaggio
sull'armata imperiale, farebbero levare l'assedio; mentre che
invece sottomettendosi ad un più lungo blocco, la fame avrebbe
all'ultimo consumate le loro forze58.
Sentendosi Malatesta Baglioni accusato dal popolo di trarre in
lungo la guerra, vedendo che le guardie nazionali desideravano di
fare una sortita generale, e che la volevano i dieci della guerra e
57
58
Ben. Varchi, l. XI, p. 54. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542.
Ben. Varchi, l. XI, p. 71.
la signoria, dichiarò che condurrebbe i Fiorentini alla battaglia,
sebbene egli non lo credesse utile agli assediati. In fatti il 5 di
maggio fece sortire più di mezza guarnigione fuori di porta
Romana e di due altre porte dallo stesso lato dell'Arno; prese
d'assalto il convento di san Donato, difeso dagli Spagnuoli; gettò
il disordine in tutta l'armata del principe d'Orange, e se avesse
fatto uscire il restante delle truppe di cui poteva disporre, o se
Amico di Venafro, da lui destinato a comandare una delle tre
colonne, non fosse stato ucciso nel precedente giorno, avrebbe
probabilmente costretto il principe d'Orange a levare l'assedio59.
Dal canto suo Stefano Colonna diresse un attacco contro il
campo de' Tedeschi in sulla destra dell'Arno, dove il conte Luigi
di Lodrone era subentrato a Luigi di Wirtemberga. Il Colonna
sortì dalla città il 10 di giugno, alcune ore prima che facesse
giorno, per la porta di Faenza, onde marciare direttamente contro
i nemici, mentre dovevano assecondarlo, il capitano Pasquino
Corso uscendo dalla porta di Prato, e Malatesta Baglioni tenendo
d'occhio il fiume per impedire che il principe d'Orange non
ajutasse i Tedeschi. Il Colonna combattè valorosamente; forzò la
doppia trincea de' Tedeschi, e loro uccise molta gente: ma il
capitano Pasquino non venne in suo ajuto, secondo gli era stato
imposto, e Malatesta Baglioni, nel caldo della battaglia, invece di
avanzarsi egli stesso, fece suonare a raccolta. Stefano Colonna la
fece in buon ordine riportando un immenso bottino, preso ne'
quartieri del nemico60.
Nello stesso tempo si combatteva ancora in altre parti dello
stato fiorentino. Lorenzo Carnesecchi era commissario generale
nella Romagna toscana; risiedeva d'ordinario a Castrocaro; e con
pochissimi soldati e senza danaro, trovò il modo di allestire una
piccola armata in questa provincia; rispinse gli attacchi delle
truppe papali; portò invece il terrore ed i guasti in tutta la
59
Ben. Varchi, l. XI, p. 77. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 362.
Benedetto Varchi, l. XI, p. 100. - Jac. Nardi, l. IX, p. 374. - Filippo de' Nerli,
l. X, p. 231. - Ber. Segni, l. IV, p. 117. - P. Jovii, l. XXVIII, p. 146.
60
Romagna pontificia, e sforzò il governatore della legazione a
chiedergli una parziale tregua. Il Carnesecchi non vi acconsentì,
che quando ebbe egli medesimo esaurite tutte le sue forze per
continuare la guerra61.
La cittadella d'Arezzo, assediata dagli Aretini, capitolò il 22 di
maggio. I soldati che vi stavano di guarnigione si erano
ammutinati, per non assoggettarsi più lungo tempo alle privazioni
rendute necessarie dallo stato d'assedio. Gli Aretini non l'ebbero
appena in loro potere che la spianarono all'istante, affinchè il
principe d'Orange non potesse mandarvi guarnigione 62. Il 23 di
giugno si arrese agli Spagnuoli per capitolazione Borgo san
Sepolcro, senza avere prima sostenuto un assedio 63. Volterra si
era data alle truppe del papa il 24 di febbrajo64: ma perchè questa
città credevasi di somma importanza, i dieci della guerra, dopo
avere nominato Francesco Ferrucci commissario generale, ed
avergli date illimitate facoltà, e tali che mai non le aveva avute
verun cittadino fiorentino, lo incaricarono di soccorrere la
fortezza di Volterra, che tuttavia si difendeva, e di tentare, se
fosse possibile, di riavere ancora la città.
Il Ferrucci aveva adunata la sua piccola armata in Empoli,
dove aveva pure raccolti abbondantissimi magazzini di
vittovaglie, che successivamente spediva a Firenze; ed aveva
posta quella città in così buono stato di difesa, ch'egli accertava
che le sole donne avrebbero potuto coi loro fusi respingere gli
Spagnuoli; egli partì il 27 di aprile, a seconda degli ordini
ricevuti, e affidò il comando della città ad Andrea Giugni ed a
Pietro Orlandini65.
La partenza del Ferrucci ebbe per Empoli funeste
conseguenze: il principe di Orange spedì Diego Sarmiento, coi
61
Ben. Varchi, l. XI, p. 112.
Ben. Varchi, l. XI, p. 117.
63
Ivi, p. 118. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 366.
64
Ben. Varchi, l. XI, p. 131. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 542. - Bern. Segni, l.
IV, p. 110. - P. Jovii, l. XXVIII, p. 148.
65
Ben. Varchi, l. XI. p. 93.
62
Bisogni spagnuoli, per assediarla; vi aggiunse tutta la cavalleria
di don Ferdinando Gonzaga, e varie vecchie bande del marchese
del Guasto. Nello stesso tempo Fabrizio Maramaldo batteva la
campagna, e vietava al Ferrucci di avvicinarsi all'assediata città.
Le batterie spagnuole cominciarono a battere Empoli il 24 di
maggio, ed il 28 gl'imperiali diedero alla piazza un
sanguinosissimo assalto; ma dopo molte ore di battaglia furono
respinti. Nella susseguente notte, gli abitanti d'Empoli, temendo i
patimenti di un assedio, mandarono segretamente al campo
spagnuolo per capitolare, ed avendo ottenuta una salvaguardia per
le persone e proprietà loro, non fecero parola dei soldati che gli
avevano valorosamente difesi. I due capitani Giugni ed Orlandini
avevano avuto parte in questa vergognosa transazione. Quando in
seguito gli Spagnuoli vennero introdotti entro le mura di Empoli,
disprezzarono la capitolazione, ed abbandonarono al saccheggio
non solo i ricchissimi magazzini adunati con tanto zelo e stento
dal Ferrucci per assicurare l'approvvigionamento di Firenze, ma
inoltre tutte le case degli abitanti66.
Intanto Francesco Ferrucci aveva condotta a buon fine la sua
spedizione: partito da Empoli il 27 d'aprile, con circa mille
quattrocento fanti e dugento cavaleggieri, cui aveva fatto
prendere provvigioni per due giorni, giunse non pertanto lo stesso
giorno a Volterra, tre ore prima di notte. Dopo essere entrato
nella cittadella per la porta del soccorso, ed avere dato un'ora di
riposo a' suoi soldati, scese nella città e forzò i primi
trinceramenti innalzati dai Volterrani, e gl'inseguì vivamente fino
alla piazza di sant'Agostino, dove eransi eretti altri trinceramenti.
Intanto era sopraggiunta la notte, ed i suoi soldati, oppressi dalla
fatica del lungo cammino fatto e dalla recente ostinata battaglia,
più non potevano reggersi in piedi; fu d'uopo perciò trincerarsi
sulla piazza, aspettando il vegnente mattino. All'indomani
66
Ben. Varchi, l. XI, p. 91. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 367. - Fr. Guicciardini, l.
XX, p. 543. - Fil. de' Nerli, l. X, p. 226. - Bern. Segni, l. IV, p. 112. - P. Jovii, l.
XXVIII, p. 153.
ricominciò la battaglia in sul fare del giorno. I Volterrani
attendevano ad ogni istante gli ajuti loro promessi da Fabrizio
Maramaldo, il quale occupava la provincia con due mila
cinquecento Calabresi, i quali, non ricevendo il soldo, vivevano a
discrezione. Ma il Ferrucci costrinse i Volterrani a capitolare,
prima che il Maramaldo potesse soccorrerli67.
Il Ferrucci si affrettò di mettere Volterra in istato di difesa:
doveva nello stesso tempo tenersi in guardia contro gli abitanti
della città, pieni di rancore verso i Fiorentini, e contro Fabrizio
Maramaldo, che non tardò ad attaccarlo colla sua infanteria
leggiere. Prolungaronsi fra di loro le zuffe tutto il mese di maggio
con un accanimento che si cangiò in odio personale. Dopo la
presa di Empoli, il marchese del Guasto e don Diego di
Sarmiento raggiunsero Maramaldo coi loro corpi d'armata. Il 12
di giugno scoprirono le loro batterie contro le mura di Volterra, e
vi aprirono larghe brecce. Il Ferrucci rimase gravemente ferito in
due parti durante quest'attacco; ma senza dar tempo di farsi
medicare, fecesi portare sopra una seggiola in tutti i posti più
minacciati dal nemico, e continuò egli solo, senza perdere un solo
istante, a dirigere la difesa68. Il 17 di giugno, il marchese del
Guasto, che aveva ricevuto dal campo del principe d'Orange un
rinforzo d'artiglieria, aprì nuovamente larghe brecce nelle mura
della città. La febbre erasi aggiunta alle ferite del Ferrucci; ma
non pertanto questi, lasciando in non cale ogni cura della sua
salute, fece testa al nemico, e dopo un'accanita zuffa lo costrinse
a levare vergognosamente l'assedio69.
Dopo avere assicurato il possedimento di Volterra, il Ferrucci
rivolse il pensiero ad eseguire la commissione che gli era stata
67
Ben. Varchi, l. XI, p. 149. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 358. - Fr. Guicciardini, l.
XX, p. 542. - P. Jovii, l. XXVIII, p. 150. - B. Segni, l. IV, p. 111. - Fil. de' Nerli,
l. X, p. 226. - Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 54.
68
Ben. Varchi, l. XI, p. 162. - P. Jovii, l. XXIX, p. 134.
69
Ben. Varchi, l. XI, p. 164. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 368. - Fr. Guicciardini, l.
XX, p. 544. - Gio. Cambi, t. XXII, p. 66. - B. Segni, l. IV, p. 114. - P. Jovii, l.
XXIX, p. 157.
data dai dieci della guerra; cioè di ragunare tutti i soldati
fiorentini che trovavansi nelle varie parti del territorio tuttavia
soggetto al governo della repubblica, e di venire, dopo avere in tal
guisa ingrossato il più che poteva la sua piccola armata, ad
attaccare il campo degli assedianti, mentre che i Fiorentini lo
asseconderebbero con una vigorosa sortita; imperciocchè il
gonfaloniere, la signoria, i dieci della guerra, e lo stesso consiglio
degli ottanta, desideravano la battaglia, ed ordinavano ai loro
generali d'attaccare il nemico. Invano Malatesta Baglioni e
Stefano Colonna dichiaravano di non poter condurre le milizie
contro soldati veterani, superiori di numero, e protetti dai loro
trinceramenti in gagliarde posizioni: i consiglj replicavano
l'ordine d'attaccare il nemico, onde almeno conservare alcuna
possibilità di prosperi avvenimenti, mentre che la fame, ch'essi
vedevano non lontana, e la peste, che dal campo nemico era
entrata in città, gli andavano distruggendo, quasi con tanta
rapidità come avrebbe fatto la battaglia, senza lasciar loro nè
gloria, nè speranza70.
Il Ferrucci ricevette il 14 di luglio le nuove facoltà che gli
venivano affidate, le quali lo rendevano in autorità eguale alla
signoria ed all'intero popolo di Firenze; in pari tempo ebbe ordine
di porsi in cammino per salvare la sua patria, che tutte in lui solo
riponeva le sue speranze. Egli aveva sotto i suoi ordini venti
compagnie, sette delle quali lasciò alla custodia di Volterra, e
seco condusse le altre tredici, che non ammontavano in tutto a più
di mille cinquecento uomini, sebbene in origine fossero tutte
composte di dugento soldati. Scese la Cecina, ed arrivò per Vado
e Rossignano a Livorno, senza lasciarsi trattenere dagli
archibugieri di Maramaldo, che tentavano di precludergli la
strada. Da Livorno recossi a Pisa, ove il signore Giampaolo
Orsini lo stava aspettando con un corpo quasi eguale al suo. Era
questi figliuolo di Renzo di Ceri, e nel maggior pericolo della
70
Ben. Varchi, l. XI, p. 175, 176. - Jac. Nardi, l. IX, p. 375. - Fil. de' Nerli, l.
X, p. 234.
repubblica, le si era offerto con una specie di cavalleresco
sagrificio, onde avere parte in quest'ultima battaglia in favore
della libertà e dell'indipendenza italiana71. Per pagare queste due
piccole armate, convenne levare danaro in Pisa col mezzo
d'arbitrarie contribuzioni; e mentre che il Ferrucci, oppresso dalle
fatiche e dalle cure, doveva provvedere personalmente a tutto, fu
sorpreso da violenta febbre, che lo tenne tredici giorni in una
forzata e disperante inazione72.
Il piano che stava per eseguire il Ferrucci non era suo. Egli
aveva offerto alla signoria di condurre la sua piccola armata
contro Roma, dove sapeva trovarsi il papa senza veruna difesa;
avrebbe dato voce d'andare a mettere a sacco per la seconda volta
la corte romana, ed avrebbe richiamati così sotto le sue insegne la
folla dei mercenarj senza onore e senza religione, che non
guerreggiavano che per bottinare: soprattutto contava di
guadagnare facilmente i Bisogni spagnuoli di Diego Sarmiento. Il
papa, atterrito all'avvicinarsi di questa truppa, avrebbe fatta la
pace, o per lo meno avrebbe richiamato il principe d'Orange per
difendersi. Ma la signoria ricusò di approvare cotale progetto, da
lei giudicato troppo ardito73.
Francesco Ferrucci, avendo finalmente ricuperate le forze,
prese tutte le convenienti misure per la sicurezza di Pisa; in pari
tempo si provvide d'artiglieria, di fuochi artificiali, e di tutto
quanto poteva dare alla sua piccola armata maggiore fiducia in se
medesima; indi si pose in cammino la notte del 30 luglio, tre ore
dopo il tramontare del sole, con un'armata di tre mila pedoni e di
quattro in cinquecento cavalli. Uscì di Pisa per la porta di Lucca,
ed attraversando tutto lo stato lucchese tentò da prima di entrare
nel piano di Pescia pel ponte di Squarcia Boccone; ma perchè vi
trovò qualche resistenza, penetrò nelle montagne lucchesi, e si
71
Jac. Nardi, l. IX, p. 375. - Ben. Varchi, l. XI, p. 69.
Ben. Varchi, l. XI, p. 208. - Jac. Nardi, l. VIII, p. 370. - Bern. Segni, l. IV, p.
120. - P. Jovii, l. XXIX, p. 160.
73
Jac. Nardi, l. IX, p. 376.
72
accampò la prima notte a Medicina; indi passò la seguente a
Calamecca nelle montagne di Pistoja. Sperava di ragunare in
questa provincia tutta la fazione dei Cancellieri, i quali erano ben
affetti alla repubblica, e, dopo avere ingrossata la sua armata con
bande d'insorgenti, d'impadronirsi di Pistoja, ove potrebbe
adunare i magazzini che destinava a vittovagliare Firenze. Ma i
partigiani dei Cancellieri, ch'egli trovò a Calamecca, volendo
approfittare del di lui arrivo per vendicarsi del partito nemico de'
Panciatichi, lo traviarono dalla strada che avrebbe dovuto tenere,
e lo condussero a San Marcello, ove signoreggiavano i
Panciatichi. Infatti il Ferrucci prese questa terra, la saccheggiò, e
la bruciò, perdendo in tal modo un tempo prezioso. Una dirotta
pioggia gli fece inoltre differire alcune ore la partenza; egli
condusse poi la sua armata a Gavinana, castello spettante alla
fazione dei Cancellieri, lontano quattro miglia da San Marcello ed
otto dalla città di Pistoja74.
Ma qualunque stata fosse la rapidità del Ferrucci e l'accortezza
della sua marcia, che, girando la metà de' confini toscani, lo
conduceva in soccorso di Firenze per la parte più opposta a quella
ond'era partito, egli era quasi circondato da tutte le bande.
Fabrizio Maramaldo trovavasi sulla di lui manca, e lo aveva
sempre seguito senza tentare di venire alle mani. Alessandro
Vitelli stava alla destra col corpo dei Bisogni spagnuoli, che
poc'anzi si erano ammutinati e ritirati ad Alto Pascio, di dove egli
aveali ricondotti all'ubbidienza colla speranza di una battaglia. Il
Bracciolini lo seguitava con un migliaja d'uomini della fazione
dei Panciatichi, armati sulle montagne. Pure il Ferrucci credevasi
ancora in situazione di sottrarsi a tutti, o di attaccarli e vincerli
separatamente, quando lo stesso principe d'Orange gli si fece
incontro con mille veterani tedeschi, altrettanti spagnuoli e
quattro colonnelli italiani75.
74
Ben. Varchi, l. XI, p. 210. - Bern. Segni, l. IV, p. 121. - Filip. de' Nerli, l. X,
p. 236. - P. Jovii, l. XXIX, p. 162.
75
Ben. Varchi, l. XI, p. 213. - P. Jovii, l. XXIX, p. 163.
Il principe d'Orange, che confidato aveva il comando
dell'armata, durante la sua assenza, a don Ferdinando Gonzaga,
ed al conte di Lodrone, non poteva allontanarsi tanto da Firenze,
che sull'appoggio di un tradimento. Sapeva il gonfaloniere che la
salvezza della repubblica era tutta ridotta nel solo Ferrucci, onde
voleva assecondarlo col più vigoroso attacco contro il campo
degli assedianti. Qualunque si fosse la superiorità della posizione,
del numero o della disciplina degli Spagnuoli e de' Tedeschi,
voleva affrontarla, ed ordinò a Malatesta Baglioni di
apparecchiarsi ad una generale sortita. Dichiarò in pari tempo che
si porrebbe egli stesso alla testa della scelta milizia fiorentina, e
che seguirebbe la truppa di linea ovunque il Malatesta la
condurrebbe, lasciando la guardia di Firenze ai vecchi ed
all'ordinanza dei contadini76.
Ma il Baglioni non aveva più che sperare o temere dalla
repubblica fiorentina, e non voleva più oltre legare la propria
fortuna a quella di uno stato che vedeva in sul punto di perire.
Aveva segretamente negoziato col principe d'Orange, e per
mezzo di lui anche con Clemente VII; erasi fatta confermare la
sua sovranità di Perugia e promettere nuovi favori ecclesiastici e
temporali, obbligandosi per iscrittura verso il principe d'Orange a
non attaccare il campo, mentre il principe ne starebbe lontano per
andare contro il Ferrucci. Successivamente oppose tre proteste
agli ordini datigli dalla signoria di attaccare il nemico; ed il suo
collega Stefano Colonna ebbe la debolezza ancor esso o la falsità
di sottoscriverle. Diceva in queste scritture che la battaglia cui
volevasi sforzarlo cagionerebbe l'irreparabile ruina della sua
armata e della repubblica; e quando all'ultimo ebbe un perentorio
ordine di marciare, vi si prestò con tanta lentezza, che prima
ch'egli si fosse mosso, i Fiorentini ebbero notizia dell'esito della
spedizione del Ferrucci77.
76
77
Ben. Varchi, l. XI, p. 191.
Ben. Varchi, l. XI, p. 179, 204. - Jac. Nardi, l. IX, p. 385.
Il principe d'Orange era partito dal suo campo la sera del
primo giorno di agosto; camminò tutta la notte, ed all'indomani
diede riposo alle sue truppe a Lagone, villaggio posto tra
Gavinana e Pistoja: colà stavano mangiando nella stessa ora in
cui quelle del Ferrucci facevano lo stesso a San Marcello. Le due
armate ripresero di nuovo il cammino press'a poco nello stesso
istante, e giunsero nello stesso tempo innanzi a Gavinana. La
campana a stormo che suonavasi in questo villaggio, avvisò il
Ferrucci dell'avvicinarsi del nemico, senza che per altro potesse
sospettare che fosse lo stesso principe d'Orange, ed una tanto
ragguardevole parte della di lui armata, che avessero abbandonato
il campo sotto Firenze78.
La fanteria del Ferrucci era divisa in due corpi, ognuno di
quattordici compagnie; egli comandava il primo, e Giampaolo
Orsini il secondo, che serviva di retroguardia. Era egualmente
divisa in due squadroni la cavalleria; uno de' quali era condotto
da Amico d'Ascoli, l'altro da Carlo di Castro e dal conte di
Civitella79. Prima di venire a battaglia, il Ferrucci esortò
brevemente i suoi commilitoni; loro ricordò che la salvezza di
Firenze e l'ultima speranza della repubblica erano riposte nella
piccola loro armata, e non altro domandò loro che di seguirlo
dovunque lo vedessero avanzarsi80.
Il Ferrucci, essendosi rimesso il caschetto, scese da cavallo ed
entrò in Gavinana colla picca in mano nell'istante medesimo in
cui Fabrizio Maramaldo, avendo fatto atterrare un muro secco, vi
entrava per un'altra strada. La fanteria delle due armate s'incontrò
sulla piazza del castello, intorno ad un alto castagno che ne
occupava il centro; ed in tal luogo la pugna fu più lunga e più
accanita, mentre che il principe d'Orange colla sua cavalleria
attaccava impetuosamente quella del Ferrucci, ch'erasi trattenuta
78
Ben. Varchi, l. XI, p. 214.
Jac. Nardi, l. IX, p. 377.
80
Ben. Varchi, l. XI, p. 215. - Jac. Nardi, l. IX, p. 377. - Bern. Segni, l. IV, p.
122.
79
fuori delle mura. I cavalieri fiorentini tennero saldo; alcuni
archibugieri, frammischiati nelle loro linee, fecero replicate
scariche contro i cavalli nemici e gli sgominarono. Il principe
d'Orange, cercando di riordinarli, attraversò solo di galoppo una
ripida costa sotto il fuoco de' Fiorentini, e colpito nello stesso
tempo da due palle nel collo e nel petto, cadde subito morto.
Antonio d'Herrera ed il rimanente de' cavalieri, presenti alla
caduta del principe, si posero in fuga, e non si trattennero che a
Pistoja, ove sparsero il terrore nella loro fazione. I soldati del
Ferrucci trovarono nelle tasche del principe d'Orange lo stesso
viglietto di Malatesta Baglioni, con cui il Malatesta gli
prometteva di non attaccare il di lui campo81.
La cavalleria del Ferrucci, dopo avere dispersa quella del
principe d'Orange, ed ucciso questo generale, faceva echeggiare
l'aria colle grida della vittoria. Ma nello stesso tempo Giampaolo
Orsini era stato attaccato da Alessandro Vitelli; la retroguardia da
lui comandata aveva perdute le insegne disordinandosi, e
Giampaolo era stato forzato a ritirarsi a piedi in Gavinana, dove
aveva raggiunto il Ferrucci. Questi dal canto suo aveva cacciato
fuori di Gavinana Maramaldo ed i di lui Calabresi, i Landsknecht
ed i cavalli del principe; ma dopo avere combattuto tre ore sotto
un cocente sole di agosto, egli riposavasi appoggiato sulla sua
picca, quando venne attaccato da un altro corpo di Landsknecht
che non aveva per anco combattuto; in quell'istante il Ferrucci e
Giampaolo non avevano presso di loro che pochi ufficiali,
essendosi alquanto allontanati i loro soldati per riposarsi qualche
minuto. Con questo piccolo corpo scelto l'Orsini ed il Ferrucci si
difesero ancora lungo tempo. Frattanto Giampaolo, ferito, e
coperto di polvere, più non vedendo speranza di salvezza,
rivoltosi al Ferrucci gli disse: Signor commissario, non vogliamo
ancora arrenderci? No! rispose il Ferrucci, e scagliossi contra un
nuovo squadrone di nemici che veniva ad attaccarlo. Infatti lo
81
Ben. Varchi, l. XI, p. 217. - Jac. Nardi, l. IX, p. 377, 385. - Bern. Segni, l. IV,
p. 122. - P. Jovii, l. XXIX, p. 164.
respinse fuori delle porte; ma mentre lo inseguiva vide chiudersi
le porte alle spalle. La terra era presa, tutti i suoi soldati morti,
feriti, o fuggitivi; lo stesso Ferrucci aveva ricevuto più d'una
ferita mortale, e nel di lui corpo omai rimanevano poche parti
sane; finalmente egli si arrese ad uno spagnuolo, che, per
guadagnare il di lui riscatto, procurava di salvargli la vita. Ma
Maramaldo, fattoselo condurre innanzi sulla piazza del castello,
lo fece disarmare e lo pugnalò colle sue mani. Il Ferrucci si
contentò di dirgli: tu uccidi un uomo di già morto82.
Nello stesso tempo fu fatto prigioniere Giampaolo Orsini, che
poi riebbe la libertà pagando una taglia; era venuto in mano de'
vincitori anche Amico d'Ascoli, ma il di lui personale nemico,
Muzio Colonna, lo comperò per seicento ducati da colui che lo
aveva preso, per ucciderlo poi a voglia sua; Guglielmo
Frescobaldi, che il Ferrucci aveva pel suo migliore luogotenente,
morì a Pistoja in conseguenza delle sue ferite; rimasero sul campo
di battaglia circa due mila morti, ed ancor maggiore fu il numero
de' feriti. L'armata del Ferrucci era distrutta; ma gl'imperiali
avevano a caro prezzo acquistata la vittoria: grandissima era la
perdita dell'armata imperiale, e la morte del suo generale poteva
disordinarla, tanto più che il marchese del Guasto l'aveva in allora
abbandonata per passare ai servigj di Ferdinando d'Ungheria83.
Vero è che il Ferrucci era ancora più necessario ai Fiorentini,
che non il principe d'Orange agl'imperiali. Allorchè il 4 di agosto
si ebbe in Firenze la notizia della morte di lui, tutta la città fu
compresa da dolore e da spavento. Invano il gonfaloniere e la
signoria si sforzavano di rianimare gli abbattuti spiriti, e di far
mostra de' mezzi che tuttavia restavano. La sconfitta del Ferrucci
veniva in parte attribuita ad una dirotta pioggia che aveva spente
82
Ben. Varchi, l. XI, p. 219. - Jac. Nardi, l. IX, p. 378. - Fr. Guicciardini, l.
XX, p. 544. - P. Jovii, l. XXIX, p. 168. - Bern. Segni, l. IV, p. 123. - Gio.
Cambi, t. XXIII, p. 67. - L'ultimo racconta questi fatti assai inesattamente,
sebbene scrivesse giorno per giorno le notizie che si avevano a Firenze.
83
Ben. Varchi, l. XI, p. 221. - Jac. Nardi, l. IX, p. 378. - P. Jovii, l. XXIX, p.
165.
le trombe a fuoco, specie di artificio che i fanti fiorentini
portavano attaccato alle loro picche, e che, costantemente
vomitando fiamme, spaventava i cavalli. Ma il gonfaloniere
ricordava che quella stessa pioggia che aveva perduto il Ferrucci,
poteva salvare la città; che le acque dell'Arno erano così gonfie,
che varj quartieri del campo nemico non potevano più avere
comunicazione cogli altri; e che i Fiorentini, con una generale
sortita, potevano avere il vantaggio del numero, attaccando ad
uno ad uno i posti nemici. Affrettava perciò Malatesta Baglioni a
venire a battaglia, e la signoria, per affezionarsi i capitani delle
sue truppe di linea, prometteva loro per premio della vittoria la
continuazione del soldo finchè vivrebbero; ma Malatesta Baglioni
ricusò di ubbidire, e dichiarò altamente di volere oramai salvare
una città, vicina a perdersi a cagione dell'ostinazione e della
temerità de' suoi capi84.
Il Baglioni trovava in Firenze un grosso partito che faceva eco
al suo rifiuto di combattere. Tutte le persone deboli e pusillanimi,
tutti gli egoisti e coloro che sospiravano dietro i godimenti d'una
vita tranquilla, desideravano la pace, e l'avrebbero accettata a
qualunque patto. I partigiani dell'aristocrazia più non si curavano
di esporsi ulteriormente pel mantenimento dell'autorità popolare:
i segreti partigiani dei Medici osavano essi pure di manifestare i
loro voti; e gli storici di questo partito confessano il tradimento
del Baglioni per fargliene un merito 85. Oramai i cittadini attaccati
alla libertà non venivano indicati con altri nomi che con quelli di
ostinati e di arrabbiati. Il Malatesta dichiarò che piuttosto che
attaccare il campo imperiale, comandato, dopo la morte del
principe d'Orange, da don Ferdinando Gonzaga, darebbe la sua
dimissione. I dieci della guerra credettero di poterlo prendere in
parola, e l'otto agosto gli spedirono Andreolo Niccolini per
84
Ben. Varchi, l. XI, p. 229. - Bern. Segni, l. IV, p. 124. - Jac. Nardi, l. IX, p.
379. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 68.
85
Fil. de' Nerli, l. X, p. 225. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 545. - P. Jovii, l.
XXIX, p. 166.
portargli il congedo dettato colle più lusinghiere espressioni.
Estrema fu la sorpresa del Baglioni quando lo ricevette, e
maggiore della sorpresa la rabbia: senza volerlo accettare, senza
volerlo leggere, si fece addosso al Niccolini che lo recava, e lo
ferì con ripetute pugnalate86.
Il gonfaloniere volle fare un altro esperimento per mantenere
la vacillante autorità della repubblica; ordinò a tutte le compagnie
della milizia di adunarsi in piazza, e si pose alla loro testa per
andare contro il Baglioni. Ma il terrore aveva di già sbandita ogni
subordinazione, ed invece delle sedici compagnie, otto sole si
trovarono sulla piazza. Dall'altro canto Malatesta Baglioni aveva
di già introdotto nel suo bastione il capitano imperiale, Pirro
Colonna di Stipicciano; aveva disarmata o congedata la guardia
fiorentina della porta Romana, ed aveva rivolta contro la città
l'artiglieria destinata a difendere le mura87.
Firenze era perduta, e non eravi umana forza che potesse
salvarla. Mentre che molti cittadini volevano ancora morire liberi
e colle armi alla mano, gli altri conoscevano che verun ostacolo
più non poteva oramai trattenere quella feroce armata, che si era
infamata colla tirannide esercitata in Milano, e col sacco di
Roma: si riparavano nelle chiese colle loro donne, i figliuoli e le
loro ricchezze, e senza potersi appigliare a verun partito, senza
nutrire veruna speranza, più non ubbidivano alle magistrature, e
non facevano che imbarazzare coloro che non avevano per anco
tutto perduto il coraggio, e mostravano ancora costanza.
La signoria colla più profonda umiliazione, e col più acerbo
dolore, restituì il bastone del comando al Malatesta, in arbitrio del
quale stava il permettere agli imperiali d'inondare la città, o
l'imporre loro qualche condizione88. Quattrocento giovani, tra i
quali si videro con dolore i figli ed i generi del gonfaloniere
86
Ben. Varchi, l. XI, p. 235. - Jac. Nardi, l. IX, p. 380.
Ben. Varchi, l. XI, p. 239. - Bern. Segni, l. IV, p. 124. - Gio. Cambi, t. XXIII,
p. 69.
88
Nell'originale "condizioni". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
87
Niccolò Capponi, eransi schierati in armi sulla piazza di santo
Spirito, risoluti di appoggiare il Baglioni e di non riconoscer più
la signoria. Fece questa un estremo sforzo per richiamarli sotto le
sue insegne; rappresentò loro, che separandosi dai proprj
concittadini in così difficili circostanze, esponevano la patria e sè
medesimi ai più spaventosi pericoli; ma per tutta risposta non
ebbe che insulti e minacce da quei giovani che vennero in armi
sulla piazza del palazzo, e costringerla a porre in libertà tutti
coloro che ella teneva custoditi a motivo del loro attaccamento
alla fazione dei Medici89.
Fra tanto perturbamento la signoria nominò quattro
ambasciatori, che spedì al campo di Ferdinando Gonzaga per
chiedere una capitolazione. Scelse Baldo Attuiti, Jacopo Morelli,
Lorenzo Strozzi e Pier Francesco Portinari. Non ebbero questi
d'uopo di cercare lontano coloro coi quali dovevano trattare,
perchè Bartolomeo Valori, uno degli emigrati che il papa aveva
nominato suo commissario in Toscana, e che a nome dei Medici
governava tutto il paese occupato dall'armata imperiale, era
venuto in quella medesima casa dei Pini, in cui abitava Malatesta
Baglioni. Le condizioni che ottennero gli ambasciatori erano più
vantaggiose che sperare si potessero in così tristi circostanze; ma
le condizioni sono di poca importanza, quando vengono giurate
da sovrani senza fede, ed in seguito riclamate da uomini senza
potenza. È probabile che il papa avesse ordinato al Valori di
acconsentire a tutto, riservandosi poi l'interpretazione del trattato
a modo suo. L'imperatore nulla affatto somministrava pel soldo e
pel mantenimento dell'esercito sotto Firenze, e Clemente VII non
aveva più credito per essere state le sue entrate assorbite da
lunghe guerre, e le sue ricchezze perdute nel sacco di Roma:
perciò non poteva più oltre sostenere cotali spese, che
oltrepassavano i settanta mila fiorini al mese90.
89
Ben. Varchi, l. XI, p. 245. - Fil. de' Nerli, l. X, p. 239. - Gio. Cambi, t. XXIII,
p. 70.
90
Jac. Nardi, l. IX, p. 381. - Fil. de' Nerli, l. X, p. 241. - B. Segni, l. IV, p. 119.
Il trattato, che venne sottoscritto il 12 di agosto del 1530 a
santa Margarita di Montici, portava che la forma del governo di
Firenze sarebbe regolata dall'imperatore entro il termine di
quattro mesi, a condizione che sarebbe salva la libertà.
Prometteva la repubblica di pagare all'armata cinquanta mila
scudi in danaro sonante, e trenta mila in cambiali; ed in compenso
le truppe imperiali dovevano immediatamente allontanarsi.
Dovevansi consegnare al commissario del papa le fortezze di
Pisa, di Volterra e di Livorno. Per guarenzia del pagamento delle
cambiali, della consegna delle fortezze e dell'ubbidienza del
popolo a quel governo che gli darebbe l'imperatore, i Fiorentini
dovevano dare nelle mani di Ferdinando Gonzaga cinquanta
ostaggi a sua scelta. Finalmente a nome del papa e dell'imperatore
veniva accordata un'amplissima amnistia, tanto a tutti i Fiorentini
senza eccezione per tutto ciò che potessero avere fatto contro la
casa dei Medici, quanto a tutti i sudditi dell'impero e della Chiesa
che gli avevano serviti in tempo della guerra, portando le armi
contro i loro abituali signori91.
In conseguenza di questo trattato, che bentosto si rimase negli
archivj, quale monumento della scandalosa mancanza di fede dei
due sovrani, in nome de' quali era stato convenuto, tutti gli
emigrati fiorentini ed i commissarj del papa rientrarono in città.
Bartolomeo Valori fece occupare il 20 di agosto la piazza del
palazzo da quattro compagnie di soldati corsi; costrinse in
appresso la signoria a scendere sul balcone, e fece suonare la
maggiore campana per adunare il popolo a parlamento. Appena si
trovarono adunati nella piazza trecento cittadini; taluno di coloro
che voleva andarvi per emettere per l'ultima volta un libero
suffragio, venne respinto a colpi di pugnale 92. Salvestro
Aldobrandini volgendosi a questa irrisoria assemblea del popolo,
gli domandò se acconsentiva, «che si creassero dodici uomini che
91
Ben. Varchi, l. XI, p. 246-250. - Jac. Nardi, l. IX, p. 382, 383. - Fil. de' Nerli,
l. XI, p. 244. - P. Jovii, l. XXIX, p. 173.
92
Ben. Varchi, l. XI, p. 257.
avessero essi soli altrettanto d'autorità e di potere, quanto ne
aveva tutt'insieme il popolo di Firenze.» Tre volte fu rinnovata
questa domanda, e tre volte il popolaccio ed i fanciulli risposero:
Sì! sì! le palle, le palle! (stemma dei Medici) i Medici! i Medici!
Dopo questo preteso assenso popolare, furono dal commissario
apostolico nominati dodici signori della balìa. Questi deposero la
signoria, i dieci della guerra, gli otto della guardia e balìa, ossiano
supremi giudici criminali. Fecero deporre le armi al popolo, e
così la libertà fiorentina soggiacque per l'ultima volta. Avanti che
spirasse l'autorità di costoro, lo stesso nome di repubblica venne
annullato93.
Bened. Varchi, l. XI, p. 256-260. - Jac. Nardi Ist. Fior., l. IX, p. 387. - Fr.
Guicciardini, l. XX, p. 545. - Istor. di Gio. Cambi, t. XXIII, p. 73. - Fil. de'
Nerli, l. X, p. 242. - Ber. Segni, l. V, p. 128. - P. Jovii, l. XXIX, p. 175.
La storia di Firenze di Jacopo Nardi termina colla presa della città e collo
stabilimento della balìa. È scritta con un certo che di candore e di lealtà che ci
affeziona allo storico; vi si ravvisa l'amico della libertà, l'uomo religioso e
dabbene. Il Nardi non risguardava il suo libro come terminato, e lo avrebbe
distrutto quando stava per morire, se fortunatamente non ve ne fossero stati di
già varj esemplari presso altre famiglie. Per altro i primi sei libri, che
comprendono l'accaduto dall'anno 1494 fino alla morte di Leon X, sembrano
avere ricevuta tutta la perfezione che l'autore poteva loro dare. Lo stesso non
può dirsi degli ultimi tre; la narrazione vi si trova appena abbozzata, e pare che
l'autore gli scrivesse senza avere sott'occhio i materiali che doveva adoperare.
Trovansi in questi ultimi tre libri alcuni errori di fatto e di date, molte
ripetizioni, molto disordine, ed alcuni pezzi che non sembrano essere stati
dall'autore riletti. Jacopo Nardi ebbe qualche parte nella rivoluzione del 1527;
e perciò fu tra gli esiliati, che la balìa del 1530 privò della loro patria. Il Nardi
fu in appresso incaricato dagli emigrati di portare le loro lagnanze
all'imperatore intorno alla violazione della capitolazione di Firenze, di esporre
le loro ragioni in una scrittura che fu mandata a Carlo V. Fino alla fine della
sua vita, che terminò in esilio, Jacopo Nardi lavorò, malgrado la povertà e la
vecchiaja, a procurare vindici alla libertà della sua patria. La sua storia si
stampò in Firenze in 4.° nel 1584 in un volume di 590 pagine.
93
CAPITOLO CXXII.
Violazione della capitolazione di Firenze; persecuzione di tutti
gli amici della libertà. Regno e morte di Alessandro de'
Medici: successione di Cosimo I al titolo di duca di Firenze.
Siena, oppressa dagli Spagnuoli, abbraccia il partito
francese: assedio ed ultima capitolazione di questa città.
1530=1555.
L'indipendenza dell'Italia, che aveva cominciato col XII
secolo, e che era stata solennemente riconosciuta in forza delle
vittorie della lega lombarda sopra Federico Barbarossa, cessò
all'epoca del coronamento dell'imperatore Carlo V a Bologna, o a
quella dell'occupazione di Firenze fatta da' generali imperiali in
marzo o in agosto del 1530. Prima del dodicesimo secolo, l'Italia,
rammentando ancora l'antica sua grandezza, sdegnavasi di essere
ridotta in servitù dai vicini popoli. Credevasi meritevole di
miglior sorte; ma pure ubbidiva. L'Italia faceva prima parte
dell'impero de' Franchi, poi di quello della Germania. La sua sorte
era regolata dalle passioni, dalla politica e dalle vittorie de' popoli
d'oltremonti, dei quali essa non conosceva nemmeno il
linguaggio. Tale tornò ad essere la sua situazione dal 1530 fino
all'età nostra.
La libertà aveva dati all'Italia quattro secoli di grandezza e di
gloria. In quei quattro secoli fece poche conquiste al di là de'
naturali suoi confini; ma non pertanto assicurò a' suoi popoli il
primo posto tra le nazioni dell'occidente. L'Italia mai non esercitò
la sua potenza sugli stati limitrofi in modo di porre in pericolo la
loro indipendenza; divisa in molti piccoli stati, le era
assolutamente interdetta quest'ambiziosa carriera; ma quella
stessa divisione, che gli toglieva ogni esterno dominio, aveva
moltiplicati i suoi mezzi e sviluppato lo spirito ed il carattere in
tutte le sue piccole capitali. In allora gl'Italiani non avevano
d'uopo di conquiste per farsi conoscere come grande nazione. I
Tedeschi, i Francesi, gl'Inglesi, gli Spagnuoli avevano e privilegj
municipali, e feudatarj, e monarchi da difendere: soltanto
gl'Italiani avevano una patria, e lo sentivano. Essi avevano
rialzata l'umana natura degenerata, e dando a tutti gli uomini i
diritti che all'uomo si convengono, e non privilegj, avevano essi i
primi studiate le teorie de' governi, e dati agli altri popoli modelli
di liberali instituzioni. Gl'Italiani avevano ridonate al mondo la
filosofia, l'eloquenza, la storia, la poesia, l'architettura, la scultura,
la pittura, la musica, ed avevano fatti far rapidi progressi al
commercio, all'agricoltura, alla nautica, alle arti meccaniche; in
una parola erano stati i precettori dell'Europa. Appena si potrebbe
nominare una scienza, un'arte, una nozione qualunque, di cui non
abbiano insegnati i principj ai popoli che dopo gli hanno
superati94. Questa universalità di cognizioni aveva sviluppato il
loro ingegno, il loro gusto, le loro maniere, e per lungo tempo
conservarono quella civiltà anche dopo perduti tutti gli altri
vantaggi; l'eleganza e la gentilezza sopravvissero all'antica
dignità: ma questa n'era stato il fondamento, e durò quanto la
libertà italiana. Tale fu la grandezza della nazione ne' tempi della
sua gloria; e certo questa grandezza non aveva bisogno di vittorie
per sostenersi.
Avanti il XII secolo alcuni piccoli principi italiani si
credevano indipendenti, alcuni popoli poco numerosi si
credevano liberi, e forse erano tali. Pure pei soli duchi di Spoleto
o di Benevento, e per le repubbliche di Amalfi o di Napoli, non
abbiamo creduto di dover cominciare la storia dell'Italia dalla
caduta dell'impero romano in occidente; e parimenti non
crediamo doverla continuare dopo la caduta di Firenze, pei duchi
94
Forse in alcune scienze, ma nelle lettere e nelle arti non mai; del che ne
convengono tutti quegli spassionati stranieri che preferiscono all'amor proprio
la verità, e che sono a portata di gustare i capi d'opera de' nostri grandi maestri.
N. d. T.
di Toscana o di Parma, e per le repubbliche di Venezia o di
Genova.
In tutto il tempo che gl'Italiani furono veramente nazione,
abbiamo cercato di raccogliere con iscrupolosa esattezza tutti i
fatti che potevano dipingere il loro carattere, spiegarne la politica,
far conoscere i motivi delle loro leggi, e risvegliare ne' loro
discendenti istruttive memorie, o servire di specchio agli altri
popoli liberi. Non abbiamo temuto di scendere a troppo minute
particolarità; cotali particolarità non sono inutili, quando giovano
a dipingere gli uomini. Non abbiamo inoltre temuto di mescolare
alla nostra narrazione i principali avvenimenti degli altri paesi
d'Europa; perciocchè l'influenza dell'Italia facevasi sentire sopra
tutti, e non poteva intendersi la politica de' suoi stati senza
volgere di quando in quando lo sguardo sulla Grecia, la Spagna,
l'Ungheria, la Francia, la Turchia e la Germania. Abbiamo in
appresso veduto l'abbassamento di quest'influenza italiana sopra
le straniere contrade. Abbiamo veduta l'Italia, vittima a vicenda
della falsa politica dei suoi capi, della mala fede degli
oltremontani, della ferocia de' soldati mercenarj; guastata dalle
armate, dalla peste e dalla fame pel corso di trentasette anni di
quasi continue guerre; l'abbiamo veduta nell'estremo esaurimento.
Siamo finalmente giunti all'epoca in cui cessò di esistere.
Abbiamo osservato per l'ultima volta un imperatore di Germania
venire in una chiesa italiana per ricevervi la corona d'oro dalle
mani del papa; e questa cerimonia, diventata futile, più non si
rinnovò dopo Carlo V. Nel 1530 egli aveva cominciato a regnare
pel solo diritto della spada; egli più non aveva bisogno, per
assumere il titolo d'imperatore, che un rappresentante dell'Italia
sanzionasse la sua inaugurazione con un'autorità religiosa.
Da quest'epoca fino all'età nostra, otto in dieci principi
continuarono in Italia a credersi sovrani, ma senza godere di
veruna indipendenza, senza mai difendersi colle proprie forze,
senza giammai esercitare sopra gli stranieri quell'influenza che gli
stranieri esercitavano continuamente sopra di loro. Tre e se
vogliamo ancora quattro repubbliche, comprendendovi San
Marino, continuarono a respingere dal loro seno il potere di un
solo, ma senza mantenere la loro libertà, senza conservare
verun'ombra nè della sovranità del popolo, nè della guarenzia de'
diritti e della sicurezza de' cittadini. D'allora in poi l'Italia altro
non fu che un vasto museo, nel quale trovansi deposti sotto gli
occhi de' curiosi i monumenti della morte. Più non si ebbe
occasione di chiedere una sola volta a Vienna, a Madrid, a Parigi,
a Londra cosa vorrebbero, cosa farebbero i principi ed i popoli
d'Italia. I popoli avevano cessato di avere o di esprimere una
volontà; ed i principi, distruggendo lo spirito vitale de' loro
sudditi, si erano distrutti essi medesimi. L'Italia snervata più non
parlava che alla memoria; e che l'interpellava intorno a ciò che
aveva fatto in altri tempi, era certo ch'ella non si rianimerebbe
mai più.
Non perciò abbandoneremo questi popoli, co' quali abbiamo,
per così dire, vissuto tanto tempo, senza gettare un'ultima rapida
occhiata sulla sorte che loro era riservata nella nuova
organizzazione. Siccome ne' sei primi capitoli di quest'opera
abbiamo corso lo spazio di sei secoli, e ci siamo appagati di
fissare nella nostra memoria alcune date ed alcuni principali tratti,
così speriamo che il nostro lettore indulgente ci vorrà permettere
di concedere ancora pochi capitoli ai tre ultimi secoli, affinchè la
nostra storia comprenda, sebbene in differentissime proporzioni,
la prima fanciullezza, la virilità e la decrepitezza della nazione
italiana.
La Toscana, che per così lungo tempo era stata la patria della
libertà, a sè richiama i primi nostri sguardi. La storia di Firenze
non sembra totalmente terminata colla capitolazione di questa
città; finchè i cittadini, che si erano veduti animati da così ardente
patriottismo, erano ancora vivi, finchè continuavano a lottare
contro l'assoluto potere, la repubblica fiorentina esisteva tuttavia,
almeno nella loro memoria, e noi dobbiamo ammirare i loro
estremi sforzi. Essi seppero associare la loro causa a quella della
libertà di Siena, e la caduta di quest'ultima repubblica merita
altresì dal canto nostro qualche attenzione.
La repubblica fiorentina venne distrutta (1530) con forme
repubblicane. Per creare una balìa si convocò un parlamento, e
venne consultata una pretesa assemblea di tutto il popolo
fiorentino. Si era chiesto a questo popolo di conferire la totalità
del suo potere ai commissarj che dovevano riordinare la tirannide.
Ciò era un riconoscere la sovranità del popolo, nell'istante
medesimo in cui il popolo rinunciava per sempre a tale sovranità.
Ma il parlamento fiorentino che creò la balìa del 1530 doveva
essere l'ultimo; ed infatti fu in appresso ordinato di spezzare la
campana che serviva ad adunarlo, onde più servire non potesse
dinnanzi a tale uso95.
Firenze fu per parecchj mesi governata in proprio nome dalla
sola balìa, e non già a nome del papa o de' Medici. Ma era
Clemente VII che aveva così voluto, affinchè i suoi commissarj,
che in ogni cosa operavano soltanto dietro i suoi ordini e che
aspettavano da Roma la decisione di tutti gli affari, non si
credessero legati dalla capitolazione sottoscritta a nome suo da
Bartolomeo Valori. Il papa e l'imperatore avevano promesso a
Firenze libertà ed amnistia; ma Clemente pretendeva che se la
repubblica voleva ella medesima mutare le sue leggi, e castigare i
suoi cittadini, non poteva esserne impedita dalla capitolazione. Ed
affinchè la balìa sembrasse ancora meglio rappresentare la
repubblica, il papa volle che fosse formata da un corpo più
numeroso, depositario della sovranità; perciò nel mese di ottobre
fu eletta una seconda balìa di cento cinquanta individui, tra i quali
trovavansi tutti i capi di quella parte dell'aristocrazia che si era
mostrata affezionata a' Medici96.
Allora cominciarono le vendette del papa e de' suoi partigiani.
I più riputati membri dell'antico governo vennero assoggettati ad
95
B. Segni, l. V, p. 129. - Il 12 ottobre 1532. Gio. Cambi, t. XXIII, p. 122. Ben. Varchi, l. XIII, t. V, p. 9.
96
Ben. Varchi, l. XII, p, 317. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 81.
una rigorosa tortura; indi furono condannati a perdere la testa il
Carducci, per lo addietro gonfaloniere, Bernardo di Castiglione,
ed altri quattro di que' venerandi magistrati 97. L'altro
gonfaloniere, Raffaele Girolami, ottenne grazia della vita per
l'intercessione di Ferdinando Gonzaga, ma venne chiuso nella
cittadella di Pisa, ove poco dopo morì di veleno 98. Il predicatore
Benedetto da Fojano fu dato nelle mani del papa, e tradotto a
Roma. Clemente, nell'atto di farlo imprigionare in castel
sant'Angelo, ordinò che ogni giorno gli si diminuisse la razione di
acqua e di pane, e con tal mezzo lo fece lentamente morire di
fame. Frate Zaccaria, ch'era egualmente cercato, trovò modo di
fuggire travestito da contadino. Riparossi a Ferrara, poi a
Venezia, ed all'ultimo morì a Perugia, dov'erasi recato per gittarsi
ai piedi di Clemente VII ed implorare perdono99. Una ventina di
coloro che si credevano più compromessi si sottrassero al
supplicio colla fuga. Infatti furono condannati a morte in
contumacia, e confiscati vennero i loro beni. Cento cinquanta
cittadini all'incirca furono relegati per tre anni in determinati
luoghi, e d'ordinario a grandissima distanza dalla loro patria e dai
loro affari; ma il nuovo governo, che invece di colpire tutti ad un
tratto i suoi nemici diventava più severo di mano in mano che si
andava rassodando nella sua autorità, desiderò bentosto
un'occasione di condannare quei medesimi esiliati come ribelli, e
di confiscarne i beni. Poichè que' miseri si furono conformati alla
loro condanna con gravissimo dispendio, la balìa, passati i tre
anni, li relegò in un altro esilio più incomodo del primo, e
costrinse in tal guisa la maggior parte di loro a disubbidire100.
Pareva che la repubblica esistesse ancora; un corpo
aristocratico assai numeroso sembrava investito della sovranità; il
97
Ben. Varchi, l. XII, p. 295. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 79. - Scip. Ammirato, l.
XXXI, p. 414. - Ben. Segni, l. V, p. 133.
98
Bened. Varchi, l. XII, p. 289.
99
Ivi, p. 275.
100
Ben. Varchi, l. XII, p. 304-312. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 87-95. - B. Segni,
l. V, p. 135. - Fil. de' Nerli, l. XI, p. 252. - Fr. Guicciardini, l. XX, p. 546.
papa, che non aveva voluto mandare a Firenze niuno della sua
famiglia, e che fingeva di non esercitarvi la più assoluta autorità,
onde non essere risponsabile de' supplicj che ordinava, lasciava
agire Bartolomeo Valori, lo storico Francesco Guicciardini,
Francesco Vettori e Roberto Acciajuoli. Questi parevano i capi
della repubblica, e questi versarono il sangue e confiscarono le
sostanze de' più virtuosi cittadini; questi condannarono a perpetuo
esilio coloro che mostravano di risparmiare; questi con arbitrarie
tasse ruinarono tutti coloro ch'eransi fatti conoscere affezionati
alla libertà; questi fecero restituire senza verun compenso tutti i
beni patrimoniali o ecclesiastici venduti d'ordine della giustizia;
questi fecero disarmare il popolo, promulgando le più severe pene
contro qualunque ritenesse armi, e questi finalmente furono
coloro che per conservare la propria autorità col terrore,
assoldarono due mila de' Landsknecht che avevano assediata
Firenze101.
Ma Clemente VII che riponeva ogni fiducia nello zelo de' capi
di partito per vendicarsi, non ignorava che non sarebbero poi
egualmente proclivi ad eseguire i suoi ulteriori progetti, ed a
mutare la costituzione della loro patria, per farne un'assoluta
sovranità a favore di uno de' suoi nipoti. Aveva perciò mandato
Alessandro de' Medici in Germania ed in Fiandra alla corte di
Carlo V, per sollecitare l'imperatore a regolare il governo di
Firenze a norma delle facoltà conferitegli dalla capitolazione.
Sebbene l'imperatore avesse promessa ad Alessandro la sua figlia
naturale, era ben lontano dal corrispondere all'impazienza del
papa. Aveva non solo lasciati decorrere i quattro mesi fissati dalla
capitolazione, ma quasi un anno intero, prima di rimandare a
Firenze Alessandro dei Medici, che di già portava il titolo di duca
di Cività di Penna. Questo giovane signore fece il suo ingresso
soltanto il 5 di luglio del 1531; e nel susseguente giorno Giovan
Antonio Mussetola, ambasciatore di Carlo V, comunicò alla
101
Ben. Varchi, l. XII, p. 310, e seg. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 79. - Bern.
Segni, l. V, p. 131. - Filip. de' Nerli, l. XI, p. 250.
signoria ed alla balìa il decreto sottoscritto dall'imperatore in
Augusta il 21 ottobre del precedente anno, col quale rimetteva i
Fiorentini nel possedimento degli antichi loro privilegj, a
condizione che riconoscerebbero per capo della repubblica
Alessandro de' Medici, e dopo di lui i suoi figliuoli, ed in loro
mancanza il più attempato degli altri Medici, e ciò a perpetuità, e
per ordine di primogenitura102.
Sembrava che il decreto d'Augusta non sovvertisse
interamente lo stato; perciocchè apparentemente esso conservava
tuttavia la libertà e la riforma repubblicana. Il decreto imperiale
non accordava alla casa de' Medici che le prerogative di cui
godeva avanti il 1527, trasmutandole in diritti, ed assicurava al
duca Alessandro ventimila fiorini d'oro di pensione, invece di
lasciare in di lui arbitrio tutte le entrate dello stato. Ma Clemente
VII non si accontentava di questa limitata autorità, e non erano
del tutto tranquilli coloro che lo avevano servito nelle sue
vendette. Sapevano costoro di essere l'oggetto dell'odio, non già
di una fazione, ma di tutti i proprj concittadini, e temevano di
essere di bel nuovo cacciati da Firenze alla morte del papa, o
quando accadesse la prima rivoluzione d'Italia. Il Guicciardini,
interpellato da Clemente VII, rispose non essere possibile che il
governo acquistasse veruna popolarità; che altro mezzo non gli
rimaneva per minorare l'odio pubblico che quello di darsi dei
compagni; che doveva meno pensare a formarsi de' partigiani fra
gli uomini ricchi e versati negli affari, che a comprometterli con
tutto il popolo, affinchè, come il governo medesimo, e come
quelli che avevano tenute le di lui stesse direzioni, costoro ancora
si persuadessero non esservi per loro salvezza che nel
mantenimento della casa de' Medici. Dietro questi principj si
apparecchiò una nuova rivoluzione103.
102
Ben. Varchi, l. XII, p. 356-359. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 103. - Scipione
Ammirato, l. XXXI, p. 416. - Bern. Segni, l, V, p. 143. - Filip. de' Nerli, l. XI, p.
255.
103
Lettera di Francesco Guicciardini a Niccolò di Schomberg, arcivescovo di
Capoa, del 30 gennajo 1532, con una Memoria intorno al governo di Firenze.
Il papa, disponendo ed ordinando ogni cosa, volle ancora che i
cittadini fiorentini che di que' tempi governavano, si addossassero
soli la responsabilità del nuovo cambiamento. Mandò il suo piano
bello e fatto da Roma, ma ne commise l'esecuzione a Bartolomeo
Valori, al Guicciardini, a Francesco Vettori, a Filippo de' Nerli ed
a Filippo Strozzi. Non ignorando quest'ultimo di essere l'oggetto
della diffidenza e del segreto odio di Clemente VII, cercava di
ricuperare la di lui grazia, eseguendo i di lui voleri con maggiore
zelo che tutti gli altri104.
Questi confidenti del papa forzarono in certo qual modo la
balìa ad ordinare, il 4 aprile del 1532, la creazione di un comitato
di dodici cittadini incaricati della riformagione del governo dello
stato e della città di Firenze; dello stato e della città dissero,
conciossiachè d'allora in poi si cessò di pronunciare il nome di
repubblica. Fu accordato loro il termine di un mese per terminare
questo lavoro; ma perchè tutto era stato preventivamente
apparecchiato dal papa, questi commissarj furono a portata di
pubblicarlo ancora più presto105.
La nuova costituzione venne pubblicata il 27 di aprile del
1532. Questa sopprimeva il gonfaloniere di giustizia e la signoria,
e vietava per sempre il ristabilimento di tale magistratura, ch'erasi
con tanta gloria mantenuta dugento cinquant'anni. Dichiarava
Alessandro dei Medici capo e principe dello stato, col titolo di
doge, ossia duca della repubblica fiorentina, trasmissibile a
perpetuità ai suoi discendenti per ordine di primogenitura, e
stabiliva due consiglj vitalizj per dividere con lui le cure del
governo. Uno, chiamato i dugento, comprendeva tutti gli attuali
membri della grande balìa e quasi un centinajo d'altre persone,
delle quali Alessandro si era riservata la nomina; l'altro, detto il
senato, doveva essere composto di quarantotto membri scelti fra i
Lett. de' Principi, t. III, f. 8, e seg.
104
Ben. Varchi, l. XII, p. 367. - Bern. Segni, l. V, p. 149. - Filippo de' Nerli, l.
XI, p. 260.
105
Ben. Varchi, l. XII, p. 372. - Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 419. - Ist. di Gio.
Cambi, t. XXIII, p. 110.
dugento dell'altro consiglio, che avessero oltrepassati i trentasei
anni. Quattro consiglieri eletti ogni tre mesi, ogni volta da un
quarto del senato, dovevano tener luogo della signoria nelle
onorifiche sue funzioni; il gonfaloniere o per meglio dire tutta la
repubblica dovea venire rappresentata dal doge o dal suo
luogotenente. Il doge solo od il suo luogotenente, potevano
proporre progetti alla deliberazione dei consiglj, e niun progetto
poteva avere forza di legge senza il loro formale assentimento; i
nuovi consiglj non diedero un solo esempio di una proposizione
del principe, che non fosse con servile sollecitudine sanzionata106.
Alessandro de' Medici fu tale quale doveva essere un principe
posto sul trono da straniere armate, contro il voto di tutti i suoi
concittadini, dopo una guerra che aveva affatto ruinata ed
umiliata la sua patria. Diffidando di tutti, e sforzandosi di ottenere
col terrore ciò che sperare non poteva dall'amore, si circondò di
stranieri soldati, capitano dei quali creò Alessandro Vitelli di
Città di Castello, perchè lo conosceva irritato contro i Fiorentini e
lo stato popolare, che aveva fatto morire il di lui padre Paolo
Vitelli. Afforzò in riva all'Arno un bastione che poteva servirgli
di rifugio in caso d'insurrezione popolare; ma non credendosi con
ciò abbastanza sicuro, il 1.° giugno del 1534, fece porre i
fondamenti di una fortezza nel luogo in cui trovavasi la porta di
Faenza, e vi fece lavorare con tanta attività che prima che
terminasse l'anno fu messa in istato di difesa. Alessandro
assecondò vigorosamente la disposizione data dai commissarj per
disarmare i cittadini, e pronunciava la pena di morte e la confisca
dei beni contro coloro nelle di cui case si trovavano armi: nello
stesso tempo aveva formata una milizia di sudditi della
repubblica, armandola ed accordandole privilegj, onde tenere in
dovere gli antichi sovrani col timore de' loro antichi vassalli107.
106
Ben. Varchi, l. XII, p. 374 e t. V, l. XIII, p. 12. - Gio. Cambi, t. XXIII, p.
114. - B. Segni, l. V, p. 160. - Filip. de' Nerli, l. XI, p. 262-268.
107
Ben. Varchi, t. V, l. XIII, p. 5; l. XIV, p. 85. - Ist. di Gio. Cambi, t. XXIII, p.
137. - Bernardo Segni, l. VI, p. 153. - Filippo de' Nerli, l. XI, p. 270-272.
I soldati d'Alessandro tutto credevano permesso al loro
libertinaggio ed all'avarizia loro; e non eravi oltraggio, pel quale i
cittadini chiedessero giustizia, che venisse mai punito in verun
militare, nè in veruno ufficiale o servitore della casa del duca.
Pareva che questi mirasse continuamente ad umiliare i suoi
compatriotti, paragonandoli sempre agli stranieri. Aveva
successivamente offesi quasi tutti coloro che gli si erano mostrati
più affezionati; i capi di quelle grandi famiglie che avevano
diretta la fazione de' Medici, e che in tempo dell'assedio avevano
portate le armi contro la loro patria, di bel nuovo abbandonata
avevano quella patria, dove più non potevano vivere sotto il
tiranno ch'essi medesimi le avevano dato. Francesco Guicciardini,
che Clemente VII aveva nominato governatore di Bologna, non
provava ancora il dolore di ubbidire dove aveva comandato; ma
Bartolomeo Valori, sebbene governatore della Romagna a nome
del papa, non si poteva dar pace della parte avuta nella
rivoluzione, e della schiavitù in cui egli medesimo erasi ridotto.
Filippo Strozzi, malgrado tutti i suoi sforzi per guadagnarsi la
benevolenza del duca, lo sapeva geloso delle smoderate sue
ricchezze, e sempre apparecchiato ad offenderlo; perciò in
occasione del matrimonio di Catarina dei Medici col duca
d'Orleans, nel 1533, recossi alla corte di Francia, e nel
susseguente anno vi chiamò pure la sua numerosa famiglia. Tutti
i cardinali fiorentini, che in allora erano quattro, si erano uniti ai
nemici di Alessandro; ma di tutti il più caldo era Ippolito de'
Medici, di lui cugino, il quale risguardandosi come più
onoratamente nato di Alessandro, e di età maggiore, non sapeva
darsi pace che si fossero concesse ad un bastardo d'incerto padre
e di madre infame quelle prerogative di cui aveva egli stesso
goduto alcun tempo, ed alle quali sapevasi pure chiamato
dall'amore de' suoi concittadini108.
Infatti la stessa madre di Alessandro non sapeva se fosse
figliuolo di Lorenzo duca d'Urbino, di Clemente VII, o di un
108
Ben. Varchi, t. V, l. XIV, p. 90. - Ber. Segni, l. VI, p. 156.
mulattiere. Nel primo caso sarebbe stato fratello germano di
Catarina dei Medici, unica figliuola di Lorenzo e di Maddalena
della Torre d'Alvergna, cui Clemente VII aveva procurato un
collocamento al di là delle sue speranze. Clemente, incerto nella
sua politica ed instabile nelle sue alleanze, si era ravvicinato alla
Francia; era stato a Nizza per abboccarsi con Francesco I; era di
là passato a Marsiglia; ed all'ultimo aveva maritata Catarina, il 27
ottobre del 1533, con Enrico d'Orleans, secondogenito di
Francesco I, cui quest'Enrico successe nel trono di Francia109. La
pace durava tuttavia tra Francesco e Carlo V; e Clemente VII,
alleandosi colla Francia, non si era perciò dichiarato contro
l'imperatore, dal quale conoscevasi dipendente: il matrimonio del
suo prediletto Alessandro colla figlia naturale di Carlo V, sebbene
da gran tempo convenuto, non si eseguiva ancora a motivo della
tenera età di Margarita d'Austria, ed il papa non voleva esporsi a
farlo rompere: sapeva che Alessandro non troverebbe verun
appoggio in Catarina, che lo detestava come tutti i suoi parenti;
ma più Alessandro aveva nemici e più Clemente VII gli si
affezionava: rallegravasi vedendo questo giovane esercitare le
proprie vendette, lo dirigeva, approvava tutti gli atti del governo
di lui, e lo copriva col manto di una protezione che sapeva
dovergli in breve mancare, perciocchè in giugno del 1534
Clemente VII era stato sorpreso da lenta febbre, della quale morì
il 25 di settembre dello stesso anno, lasciando il suo protetto
esposto agli attacchi de' molti nemici che s'era procacciati110.
Da principio Clemente VII aveva avuto intenzione di far
continuare ogni sei mesi le liste di proscrizione in occasione che
si rinnovava il tribunale degli otto di balìa, e ne fu soltanto
impedito dalle grida che contro di lui s'innalzarono in tutta
l'Europa111. Pure infinito era di già il numero degli esiliati e degli
109
B. Varchi, l. XIV, p. 53. - Bern. Segni, l. VI, p. 161. - P. Jovii, l. XXXI, p.
224.
110
B. Varchi, l. XIV, p. 88. - Gio. Cambi, t. XXIII, p. 141. - Scip. Ammirato, l.
XXXI, p. 429. - P. Jovii, l. XXXII, p. 234.
111
Ben. Varchi, l. XII, t. IV, p. 315.
emigrati fiorentini; e quando Clemente intimò al duca di Ferrara
di cacciarli da' suoi stati, eransene trovati in quella sola provincia
più di trecento112. Il loro partito si fece ancora più formidabile
dopo la morte del papa. Paolo III, della casa Farnese, che gli
successe, favoreggiava tutti i nemici di Clemente e della memoria
di lui; e con ciò aveva incoraggiati i cardinali fiorentini a
dichiararsi più scopertamente.
Il cardinale Ippolito de' Medici aspirava alla gloria di restituire
la libertà alla sua patria. Gli Strozzi, ch'erano i più ricchi privati
d'Europa, i Valori, i Ridolfi, i Salviati, che nell'ultima guerra si
erano dichiarati tutti per la fazione dei Medici, eransi adunati in
Roma per trovare i mezzi di rovesciare il tiranno. Tutti gli altri
fuorusciti, avendoli raggiunti, vennero formando fra di loro una
specie di governo, e spedirono in Ispagna all'imperatore tre de'
principali cittadini di Firenze, per impetrare che privasse della sua
protezione un principe, la di cui crudeltà, dissolutezza e perfidia
non potevano paragonarsi che a quelle di un Falaride o di quei
pochi altri famosi mostri dell'antichità, e per riclamare
l'osservanza della capitolazione di Firenze113.
Carlo V, maravigliato delle orribili ingiustizie, delle atroci
crudeltà, degli assassinj, degl'imprigionamenti infiniti che udiva
imputarsi ad Alessandro, promise di esaminare la di lui condotta,
quand'egli stesso tornerebbe dalla sua spedizione di Tunisi.
Infatti, mentre riposavasi in Napoli dalle fatiche sostenute in
quell'impresa, gli emigrati fiorentini gli deputarono il cardinale
Ippolito dei Medici per terminare d'illuminarlo intorno alla
condotta di Alessandro; ma Alessandro aveva prese le opportune
misure per disfarsi del suo antagonista. Il cardinale giunto ad Itri,
in sulla strada da Roma a Napoli, fu avvelenato il giorno 10
d'agosto dal suo coppiere, e morì dopo tredici ore di atroci
tormenti. Morirono all'indomani, vittime dello stesso veleno,
112
Ben. Varchi, t. IV, l. XIV, p. 80.
Ivi, t. V, l. XIV, p. 108. - B. Segni, l. VII, p. 178. - P. Jovii, l. XXXIV, p. 302.
- Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 430. - Fil. de' Nerli, l. XII, p. 277.
113
Dante di Castiglione e Berlinghiero Berlinghieri che lo
accompagnavano: ma il duca non riuscì a fare assassinare Filippo
Strozzi, sebbene lo avesse più volte tentato, e furono egualmente
scoperte le insidie che tendeva agli altri suoi nemici114.
La morte d'Ippolito, liberando Alessandro dal suo più
formidabile nemico, aggiugneva non pertanto una nuova macchia
alla sua riputazione. Infami erano i suoi costumi, viziose tutte le
sue abitudini; e perchè aveva riempita tutta l'Europa dei suoi
nemici, i suoi delitti venivano dovunque predicati. Gli era stata
promessa la figlia dell'imperatore; ma essa non gli era per anco
stata data, e dacchè il suo parentado non era più un'arra
dell'alleanza della Chiesa, poteva temere che Carlo V non
cogliesse con piacere un plausibile pretesto di rompere i
progettati sponsali, e per disporre del suo stato a favore di un
altro. Ma Carlo nudriva un inveterato odio contro le repubbliche,
e contro le pretese dei popoli alla libertà; diffidava principalmente
dei Fiorentini che sapeva da tanto tempo attaccati alla Francia,
colla quale stava per ricominciare la guerra; ed Alessandro, fidato
a questa parzialità, passò a Napoli, per perorare personalmente la
sua causa alla corte dell'imperatore115.
Il duca aveva saputo riguadagnare al suo partito Bartolomeo
Valori, che seco condusse a Napoli, come pure Francesco
Guicciardini, Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi. Anche gli
emigrati si erano nello stesso tempo recati a Napoli, e tra gli altri
vi si trovavano Filippo Strozzi co' suoi figliuoli, i cardinali
Salviati e Ridolfi, ed i loro fratelli, tutti prossimi parenti di coloro
che tenevano le parti del duca. La città e la corte erano pieni di
Fiorentini de' due partiti, e quelli che stavano per la libertà della
loro patria sembravano favorevolmente accolti dai ministri
dell'imperatore. Furono invitati a presentare in iscritto le loro
114
Ben. Varchi, l. XIV, p. 132. - Ber. Segni, l. VIII, p. 188. - Filip. de' Nerli, l.
XII, p. 278. - Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 430.
115
Ben. Varchi, l. XIV, p. 138. - Bern. Segni, l. VII, p. 189. - Partì il 19 di
dicembre del 1535. - Fil. de' Nerli, l. XII, p. 279.
accuse, e Filippo Parenti, e dopo di lui lo storico Jacopo Nardi, lo
fecero con molta forza, dando circostanziate prove de' varj delitti
di Alessandro, e delle spaventose estorsioni colle quali ruinava la
Toscana. Francesco Guicciardini prese a confutare queste
scritture articolo per articolo, ed accrebbe in tal guisa verso di sè
medesimo l'odio popolare, cui di già si lagnava di vedersi
esposto. Finalmente l'imperatore pronunciò in febbrajo del 1536
la sentenza che gli veniva chiesta. Tutti gli esiliati ed emigrati
fiorentini dovevano, secondo il suo rescritto, essere richiamati in
patria, rimessi nel possedimento de' loro beni, e guarentiti nelle
persone; ma non si dava verun provvedimento intorno alla
costituzione dello stato, nè si accordava al popolo verun
privilegio116.
In allora tutti gli emigrati fiorentini, sebbene molti sentissero
di già il peso per sua guarenzia della miseria, si riunirono per
ricusare un compromesso che tendeva soltanto a salvare le loro
persone, e sagrificava la patria loro. La loro risposta, una delle
più nobili che si conservino negli archivj della diplomazia,
cominciava con queste parole: «Non siamo qui venuti per
chiedere alla imperiale maestà sotto quali condizioni dobbiamo
servire il duca Alessandro, nè per ottenere il di lui perdono, dopo
avere volontariamente, con giustizia, e secondo il dover nostro,
lavorato per mantenere o ricuperare la libertà della nostra patria.
Non l'abbiamo invocata per ritornare schiavi in una città, dalla
quale siamo usciti poc'anzi liberi, nè per riavere i nostri beni. Ma
siamo ricorsi all'imperiale maestà, affidati alla di lei bontà e
giustizia, affinchè si degnasse di restituirci quell'intera e verace
libertà, che gli agenti e ministri di lei si obbligarono a conservarci
nel trattato del 1530.... Altra cosa non sappiamo dunque
rispondere al decreto che ci fu rimesso per parte di sua maestà, se
non che siamo tutti determinati di vivere e di morire liberi, quali
siamo nati, e che nuovamente supplichiamo sua maestà di
116
Ben. Varchi, l. XIV, p. 143-219 e 224. - Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 431. Bern. Segni, l. VII, p. 189. - Fil. de' Nerli, l. XII, p. 279.
sottrarre questa sventurata città al giogo crudele che
l'opprime....117.»
Francesco Sforza, duca di Milano, era morto il 24 ottobre del
1535. Suo fratello naturale, Giovanni Paolo Sforza, marchese di
Caravaggio, che aveva qualche pretesa alla successione, perchè
nelle investiture vi era stato chiamato in mancanza della linea
legittima, fu avvelenato mentre passava per Firenze in poste, onde
recarsi alla corte dell'imperatore; la di lui morte risolse a favore
della casa d'Austria una lite assai difficile. Stava per ricominciare
tra l'Austria e la Francia una furiosa guerra: il duca Alessandro
prometteva danaro, e non era dubbiosa la di lui fedeltà, mentre la
repubblica fiorentina, se fosse stata ripristinata, non avrebbe
tardato ad ascoltare l'antica sua inclinazione verso la Francia.
Carlo V non fu più incerto tra le due parti: il 28 di febbraio maritò
sua figlia naturale, Margarita d'Austria, al duca Alessandro, ed in
contraccambio ricevette da lui una ragguardevole somma di
danaro; e rimandandolo più potente, che prima non era, ne' suoi
stati. Il matrimonio d'Alessandro, fu per la seconda volta
festeggiato in Firenze il 13 giugno del 1536118.
Erano pochi mesi passati dopo la celebrazione di questo
matrimonio, ed Alessandro era vissuto nelle abituali sue
dissolutezze, portando alternativamente il libertinaggio ed il
disonore ne' conventi e nelle più nobili case di Firenze, quando fu
assassinato il 6 di gennajo del 1537, da un uomo che aveva
saputo guadagnarsi la sua confidenza. Era costui Lorenzino de'
Medici, suo cugino, primogenito del ramo cadetto di questa casa,
e quegli stesso che il rescritto imperiale chiamava successore di
Alessandro, qualora questi mancasse senza figli. Lorenzino, assai
più stimato pel suo raro ingegno e pel suo gusto pelle lettere che
pei suoi costumi o pel suo carattere, era vissuto ne' piaceri, ed
117
Tutte le scritture originali vengono riportate da Benedetto Varchi, questa,
dice egli, ebbe molto credito in Italia, l. XIV, p. 229-230.
118
Ben. Varchi, l. XIV, p. 259. - Bern. Segni, l. VII, p. 192-198. - Fil. de' Nerli,
l. XII, p. 283, 285. - Della storia di Gio. Battista Adriani, l. I, p. 11. Serve di
continuazione al Guicciardini che finisce alla morte di Clemente VII.
aveva servito da vile adulatore il duca Alessandro ne' di lui
impudici amori. Lo aveva ajutato a sedurre parecchie nobili
donne, e spesso prestava la propria casa attigua a quella del duca,
in Via larga, pel loro abboccamento. Gli promise di condurgli la
consorte stessa di Lionardo Ginori, sorella di sua propria madre,
ma di questa assai più giovane. La bellezza della dama aveva già
da lungo tempo ferito il duca, fin allora respinto dalle di lei virtù.
Dopo cena lo stesso giorno dell'Epifania, in cui comincia il
carnovale, Lorenzino avvisò il duca, che, se voleva trovarsi in sua
casa affatto solo, e mantenendo il più profondo segreto, vi
troverebbe sua zia Catarina Ginori. Alessandro accettò
l'abboccamento, allontanò tutte le sue guardie, si tolse di vista a
tutti coloro che potevano osservarlo, ed entrò senza che veruno lo
vedesse nella casa di Lorenzino. Trovavasi affaticato, e voleva
riposare; ma prima di gettarsi sul letto, si discinse la spada, e
Lorenzino prendendola dalle sue mani per attaccarla alla spalliera
del letto, fece passare il cinturone intorno all'elsa in maniera che
non fosse facile il poterla sguainare. Uscì in appresso, dicendogli
di riposarsi intanto ch'egli andava in cerca della zia, e lo chiuse
sotto chiave. Tornò un istante dopo con un sicario, chiamato per
soprannome Scoronconcolo, ch'egli aveva preventivamente
appostato, dicendogli di volersi servire di lui per disfarsi di un
ragguardevole personaggio di corte, che non nominò;
conciossiachè Lorenzino era giunto fino all'estremo momento
dell'esecuzione senza manifestare a veruno il proprio segreto.
Entrando pel primo nella camera, Lorenzino disse al duca:
Signore, dormite? e nello stesso tempo lo passò da banda a banda
con una spada corta che teneva in mano. Alessandro, quantunque
mortalmente ferito, tentò di lottare contro il suo uccisore; ma
Lorenzino, per impedirgli di gridare, nell'atto di dirgli, signore,
non abbiate paura, gli cacciò due dita in bocca. Alessandro lo
morse con quanto aveva di forza, rotolandosi sul letto con
Lorenzino, che teneva strettamente abbracciato. Scoronconcolo,
non potendo ferire l'uno senza pericolo di ferire anche l'altro,
cercava di giugnere Alessandro tra le gambe di Lorenzino, mentre
si dibattevano; ma tutti i suoi colpi si perdevano ne' materassi.
All'ultimo si ricordò di avere un coltello in tasca, e cacciandolo
nella gola del duca, lo uccise119.
Lorenzino era ben sicuro che per quanto si gridasse nel suo
appartamento, niuno si accosterebbe a chiederne la cagione,
essendo i suoi servitori a ciò accostumati. Niuno sapeva il suo
segreto; egli aveva più ore di vantaggio, nelle quali non sarebbe
da chicchessia fatta inchiesta del duca, nè avvertita la di lui
mancanza; ora d'altro più non si trattava che di raccogliere i frutti
della congiura da lui condotta a fine con tanta destrezza e così
segretamente. Ma Lorenzino colla precedente sua vita aveva
eccitata la diffidenza di tutte le persone dabbene; non aveva amici
cui chiedere consiglio o assistenza; non aveva partigiani; non
aveva mai dato indizio di quello zelo di libertà che affettò in
appresso, e che forse non era che un mascherato eroismo.
Sebbene fosse il primo de' Medici nella linea della successione,
niuno a lui pensava, o perchè non dubitavasi che Alessandro,
giovane vigoroso e di fresco ammogliato, non dovesse aver prole,
o perchè non risguardavasi lo stato monarchico come abbastanza
solidamente stabilito per supporre che la successione fosse per
passare in un ramo lontano. Egli era agitato dall'azione
commessa, dal timore di Scoronconcolo suo complice, e forse
ancora dal dolore cagionatogli dalla sua mano violentemente
morsicata da Alessandro. Altronde egli suppose distrutto il
presente governo dalla morte del tiranno, il quale non aveva
figliuoli, nè fratelli pronti a succedergli; egli stesso era il più
prossimo erede, e non poteva nemmeno prevedere a qual persona
il partito de' Medici potesse deferire l'autorità monarchica. Ad
altro adunque più non pensò che a porsi egli stesso in salvo pei
119
Ben. Varchi, l. XV, p. 264, 272. - B. Segni, l. VII, p. 204, 206. - Filip. de'
Nerli, l. XII, p. 286-290. - Gio. Battista Adriani, l. I, p. 11. - Scip. Ammirato, l.
XXXI, p. 436. - P. Jovii, l. XXXVIII, p. 387, 391. - Ist. di Matteo Guazzo, f.
159.
primi momenti di effervescenza, ed a riunire gli emigrati che
dovevano raccogliere il frutto del suo ardire. Chiuse la porta della
sua camera, e ne portò seco la chiave; poi, facendosi dare un
ordine perchè gli si aprissero le porte della città e gli si
somministrassero cavalli di posta, sotto pretesto che aveva avuto
avviso della malattia di suo fratello in villa, partì subito alla volta
di Bologna, e di là per Venezia con Scoronconcolo120.
Lorenzino raccontò a Salvestro Aldobrandini a Bologna, ed a
Filippo Strozzi a Venezia, d'avere dato morte al tiranno. Il primo
non volle credergli, l'altro rimase lungamente incerto, ed
all'ultimo, dandogli fede, lo chiamò il Bruto di Firenze, e gli
promise che i due suoi figliuoli sposerebbero le due sorelle di
Lorenzino. Ad ogni modo la dissimulazione del nuovo Bruto, che
venne in allora celebrato dai poeti e dagli oratori di tutta l'Italia,
non ebbe i felici risultamenti di quella del primo. Il senato, ch'era
stato creato per secondare Alessandro, non aveva verun motivo di
essere contento del governo del duca; ma quanto più violenta e
crudele era stata la rivoluzione che lo aveva stabilito, tanto più
coloro che vi avevano contribuito temevano il ritorno e le
vendette degli emigrati. Il cardinale Cibo, principale ministro
d'Alessandro, fu il primo ad essere informato che il duca non si
trovava nel suo appartamento, che quella notte non si era veduto
tornare, e che non sapevasi dove si trovasse. La subita partenza di
Lorenzino, della quale ebbe poco dopo notizia, gli fece sospettare
l'accaduto; ma sebbene il popolo fosse disarmato e spaventato
dalla fortezza eretta dal duca, nutriva tanto odio verso i Medici e
verso tutti i loto agenti, che si doveva temere una sollevazione
nell'istante che sarebbe pubblicata la morte del duca. Il cardinale
Cibo fece dire a tutti i cortigiani che venivano a palazzo, che il
120
Ben. Varchi, l. XV, p. 273, ed altri degli storici sovrallegati. Lorenzino de'
Medici scrisse egli medesimo una scrittura per giustificare la sua intrapresa.
Roscoe la pubblicò nell'appendice alla vita di Lorenzo de' Medici, n.° 84, p.
148-165. Una lettera scritta da Roma, il 15 di marzo, a Mess. Paolo del Tosco,
da suo fratello, dà pure alcune circostanze raccontate dallo stesso Lorenzino.
Lettere de' principi, t. III, f. 52.
duca riposava ancora, perchè aveva vegliato tutta la notte. Nello
stesso tempo mandò un corriere ad Alessandro Vitelli,
comandante della guardia, per affrettarlo a tornare all'istante con
tutti i soldati che potrebbe adunare, perciocchè Lorenzino aveva
scelta per l'esecuzione del suo progetto la circostanza in cui il
Vitelli erasi recato a città di Castello. Il Cibo fece pure avvisare
tutti i comandanti di piazza, tutti i capitani d'ordinanza, di tenersi
pronti; e non fu che nella notte del 7 all'8 gennajo, ch'egli ebbe
coraggio di far aprire col più profondo segreto l'appartamento di
Lorenzino, ove trovò il duca giacente nel proprio sangue121.
Lorenzino de' Medici aveva bensì fatto dare notizia della
morte del duca ad alcuni patriotti fiorentini; ma o questi non
l'avevano creduta, o non avevano osato promulgare un così
pericoloso segreto. Quando finalmente cominciava questo segreto
a divulgarsi tra il popolo, si vide giugnere in poste Alessandro
Vitelli, il lunedì mattina, 8 di gennajo, e tutti i luoghi forti della
città, ed i capi strada principali, munirsi di soldati e di artiglieria.
La difficoltà di tirare vantaggio da un avvenimento di cui tutti si
rallegravano, ma di cui veruno non osava per anco tenersi sicuro,
andava di mano in mano crescendo. Frattanto i quarantotto
senatori si adunarono nel palazzo de' Medici sotto la presidenza
del cardinale Cibo. Uno di loro, Domenico Canigiani, propose di
deferire la dignità a Giulio, figlio naturale, ancora nell'infanzia, di
Alessandro; Francesco Guicciardini propose per capo della
repubblica Cosimo, figlio di Giovanni, l'illustre capitano delle
bande nere. Questo giovinetto, ignorando ciò che accadeva,
trovavasi in allora nella sua villa di Trebbio in Mugello, lontana
quindici miglia da Firenze. Ma Palla Rucellai si oppose
sdegnosamente a queste due proposizioni. Poichè la provvidenza,
disse egli, ci ha liberati da un odioso tiranno, consolidiamo questa
libertà che il cielo ci accorda, e rendiamo alla repubblica l'antica
121
Bened. Varchi, l. XV, p. 278. - Com. di Filippo de' Nerli, l. XII, p. 291. Bern. Segni, l. VIII, p. 208. - Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 437. - Gio. Batt.
Adriani, l. I, p. 12. - P. Jovii, l. XXXVIII, p. 391.
sua costituzione: soprattutto non adottiamo veruna risoluzione,
mentre tanti nobili cittadini esiliati o emigrati, i quali hanno i
medesimi diritti di noi alla sorte della patria comune, si trovano
lontani122.
La maggior parte de' senatori stavano per l'opinione del
Rucellai, ma tremavano tuttavia innanzi ai quattro uomini che
avevano avuta la maggiore influenza nell'ultimo governo; e
questi, cioè Francesco Vettori, il Guicciardini, Roberto Acciajuoli
e Matteo Strozzi, credevano di non potersi con altro mezzo
salvare dall'odio dei loro concittadini, che innalzando un nuovo
principe in luogo di quello ch'era perito. Rappresentarono ai
senatori tuttociò che l'oligarchia aveva a temere dall'indignazione
del popolo, e dalle vendette degli emigrati; e non potendo
condurli ad una più precisa risoluzione, li persuasero almeno a
deferire per tre giorni piena autorità al cardinale Cibo, il quale,
essendo figliuolo di una sorella di Leon X, poteva essere
risguardato quale rappresentante della casa de' Medici, sebbene
non fosse fiorentino123.
Ma questa risoluzione non bastava a contentare il Guicciardini
ed i suoi compagni: sapevano essi che la fazione repubblicana
teneva dal canto suo segrete adunanze, pensavano che una più
lunga irrisoluzione poteva ruinare la loro fazione, e tennero di
notte un segreto comitato, cui furono presenti, oltre i quattro capi
del partito, il cardinale Cibo, Alessandro Vitelli, comandante
della guardia, ed il giovane Cosimo de' Medici, che
sollecitamente era giunto da Trebbio per cogliere l'occasione che
gli veniva dalla fortuna offerta. Convennero di adunare
nuovamente all'indomani mattina il senato, e di persuaderlo ad
eleggere Cosimo de' Medici non in qualità di duca, ma come capo
e governatore della repubblica fiorentina, con limitati poteri,
122
Ben. Varchi, l. XV, p. 284. - Bern. Segni, l. VIII, p. 213. - Filippo de' Nerli,
l. XII, p. 291.
123
Ben. Varchi, l. XV, p. 285. - Ber. Segni, l. VIII, p. 212. - Filip. de' Nerli, l.
XII, p. 292. - Gio. Battista Adriani, l. I, p. 14.
adoperando, ove il bisogno lo richiedesse, la forza per affrettare
la risoluzione de' senatori. Infatti, mentre questi, il martedì 9 di
gennajo del 1537, tenevansi ancora titubanti di accettare e
sanzionare le condizioni che Francesco Guicciardini aveva scritte,
Alessandro Vitelli, che aveva fatta empire tutta la strada di
soldati, fece risuonare le grida di viva il duca ed i Medici! e
avvisò i senatori di affrettarsi, perchè più non si potevano
contenere i soldati. In tal guisa si risolse in senato l'elezione di
Cosimo I con grande maggiorità di voti124.
Cosimo de' Medici, figliuolo di Giovanni, che era egli
medesimo pronipote di Lorenzo, fratello del vecchio Cosimo,
aveva concetto di lentezza e di timidità. Il Guicciardini, che aveva
avuta la principale parte nell'elezione di lui, tenevasi sicuro di
governare questo giovane privo di esperienza, e che supponeva
non avere inclinazione che per la caccia e per la pesca. Aveva
fatto ristringere a dodici mila scudi il trattamento annuale del
duca, mentre credevasi diventato egli stesso il vero sovrano di
Firenze. Ma niun giovane più di Cosimo de' Medici seppe
ingannare l'universale aspettazione: sotto il suo contegno
taciturno e riservato nascondeva la più sospettosa gelosia del
potere, la più smisurata ambizione, la più profonda
dissimulazione; colui che tutti speravano di governare, non ebbe
confidenti, e non volle ricevere consiglj da veruno125.
I tre cardinali fiorentini, Salviati, Ridolfi e Gaddi,
quand'ebbero avviso di quest'elezione, partirono subito da Roma
alla volta di Firenze con due mila uomini di truppe levate a loro
spese. Bartolomeo Valori, che aveva abbandonato il duca
Alessandro nel suo ritorno da Napoli, e che dopo tale epoca erasi
associato agli emigrati, accompagnò i cardinali con moltissimi
fuorusciti. Dal canto suo Filippo Strozzi erasi da Venezia recato a
Bologna, e vi assoldava truppe. Il più piccolo attacco poteva
124
Ben. Varchi, l. XV, p. 287. - Scip. Ammirato, l. XXXI, p. 438. - Gio. Battista
Adriani, l. I, p. 18. - Bern. Segni, l. VIII, p. 216. - Fil. de' Nerli, l. XII, p. 293.
125
Ben. Varchi, l. XV, p. 326.
bastare a rovesciare il nuovo governo; ma perchè i figliuoli dello
Strozzi avevano preso servizio in Francia, e perchè gli emigrati
speravano di già ajuti da questa corona, i generali dell'imperatore
si affrettarono di dare assistenza a Cosimo, facendo passare in
Toscana due mila Spagnuoli in allora sbarcati a Lerici. Frattanto
il duca di Firenze aveva dirette ai cardinali le più rispettose
proteste coll'invito di rientrare senz'armi nella loro patria,
accertandoli del suo desiderio di uniformarsi in ogni cosa alle
loro volontà. Il cardinale Salviati, riconosciuto dagli altri prelati e
da tutti gli emigrati per loro capo, era fratello della madre di
Cosimo; e questa stretta parentela pareva che dovesse agevolare
le negoziazioni. Gli emigrati acconsentirono a licenziare le loro
truppe; entrarono in Firenze con doppio salvacondotto di Cosimo
de' Medici e di Alessandro Vitelli; ma non tardarono ad
accorgersi di essere stati ingannati, perciocchè le truppe
spagnuole, che, secondo le promesse di Cosimo, dovevano essere
rimandate nello stesso tempo che le loro, si andavano invece
sempre più avvicinando a Firenze, che la cittadella era stata
occupata per sorpresa da Alessandro Vitelli ed era guardata a
nome dell'imperatore, che non si accordavano loro le condizioni
che si erano fatte loro sperare, finalmente che il Vitelli
cominciava a farli minacciare da' suoi soldati: perciò tutti si
ritirarono di bel nuovo precipitosamente il 1.° di febbrajo dopo la
breve dimora in Firenze di nove giorni. E perchè il cardinale
Salviati, credendo di non avere che temere da suo nipote, era
rimasto in città dopo di loro, Alessandro Vitelli fece circondare la
di lui casa da' suoi soldati, e minacciandolo di farlo tagliare a
pezzi, lo costrinse a fuggire126.
L'imprudenza ed i replicati falli di coloro che gli emigrati
avevano riconosciuti per loro capi, perchè erano i soli del partito
126
Ben. Varchi, l. XV, p. 311. - Bern. Segni, l. VIII, p. 219. - Com. de' Nerli, l.
XII, p. 294. - Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 24. - Lettera di cinque cardinali
Fiorentini al card. Cibo, Roma 13 gennajo 1537. Lettere de' Princ., t. III, p.
57.
che fossero abbastanza ricchi per fare la guerra col loro privato
peculio, contribuivano a consolidare il governo di Cosimo I.
Cotale governo acquistò maggiore stabilità per la venuta di
Ferdinando di Silva, conte di Sifonte, ambasciatore
dell'imperatore, il quale in un'adunanza del senato del 21 giugno
produsse una bolla imperiale del 28 di febbrajo, colla quale
Cosimo de' Medici veniva dichiarato legittimo successore di
Alessandro nel principato di Firenze, mentre che Lorenzino, il
fratello di lui, e tutti i discendenti di Pier Francesco, venivano per
sempre privati del loro diritto all'eredità a motivo dell'uccisione
dell'ultimo principe. Vero è che questa sentenza attaccava
crudelmente l'indipendenza dello stato fiorentino, ed era inoltre
accompagnata da condizioni ancora più contrarie agli antichi
diritti della repubblica. Le fortezze di Firenze e di Livorno
ricevettero guarnigione imperiale, e non furono restituite al
sovrano della Toscana che nel 1543127.
Non però per questo gli emigrati avevano deposta la speranza
di rovesciare colla forza il governo di Cosimo I. Dopo essere
rimasti perdenti colle truppe assoldate a loro spese, ricorsero
all'assistenza della Francia. Era scoppiata la guerra tra Carlo V e
Francesco I, senza che le armate dell'ultimo avessero potuto
penetrare al di qua del Piemonte. Ma il conte della Mirandola si
era conservato sotto la protezione della Francia; aveva aperta ai
Francesi la sua fortezza, e questi tentavano tuttavia di ricuperare
presso gli stati d'Italia quell'opinione di cui avevano goduto
nell'ultima guerra. Perciò alla Mirandola col danaro di Francesco
I e con quello di Filippo Strozzi gli emigrati assoldarono in
Ben. Varchi, l. XVI, p. 373. - Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 448. - Bern.
Segni, l. VIII, p. 223. - Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 51. - Fil de' Nerli, l. XII, p.
297.
Giunti a quest'epoca, prenderemo congedo da Benedetto Varchi, forse il più
verboso storico che producesse l'Italia. Ma tra le infinite minutissime
circostanze con cui opprime il lettore, trovansi elevati pensieri, e filosofia. Il
suo sedicesimo libro termina al principio del 1538. Pare che l'opera non sia
stata ridotta a termine.
127
principio di luglio quattro mila fanti e trecento cavalli sotto gli
ordini di Pietro Strozzi, primogenito di Filippo, di Bernardo
Salviati, priore di Roma e di Capino di Mantova128.
Tutta la provincia di Pistoja era in aperta insurrezione; le
antiche fazioni de' Panciatichi e de' Cancellieri avevano
ricominciato ad attaccarsi con furore. Uno de' capi de'
Panciatichi, Niccolò Bracciolini, offrì a Filippo Strozzi di dargli
in mano Pistoja, che dipendeva quasi totalmente da lui; egli lo
tradiva ed era fin allora d'accordo con Alessandro Vitelli; pure
riuscì ad ispirare tanta confidenza agli emigrati, che Filippo
Strozzi, che fino a tale punto aveva dato prove di singolare
prudenza, Bartolomeo Valori e quasi tutti gli altri capi della
fazione, risolsero di entrare in Toscana in sul finire di luglio del
1537, sotto la protezione di alcune compagnie di cavalleria; essi
s'innoltrarono fino a Montemurlo, castello posto in vantaggiosa
posizione, alle falde degli Appennini, tra Pistoja e Prato, mentre
che Capino ed il Salviati venivano più lentamente dalla
Mirandola per raggiugnerli129.
Tutti gli emigrati fiorentini avevano raggiunta l'armata di
Pietro Strozzi e del priore di Roma, e tutti gli scolari fiorentini
delle università di Padova e di Bologna eransi fatto un dovere di
venire a combattere per la libertà. Dal canto suo Cosimo de'
Medici aveva al suo servigio un grosso corpo di veterani
spagnuoli e tedeschi, che l'imperatore gli aveva dati per
mantenere la di lui autorità, ma più ancora per assicurarsi della di
lui ubbidienza. Aveva inoltre sufficienti truppe italiane per farsi
rispettare; pure affettò la più viva inquietudine, richiamò in città
tutte le sue truppe spagnuole, e non prese che misure difensive.
Con questo simulato terrore ingannò tanto bene gli emigrati, che
Filippo Strozzi, Bartolomeo Valori e gli altri ch'erano meno
128
Bernardo Segni, l. VIII, p. 227. - Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 54. - Fil. de'
Nerli, l. XII, p. 299.
129
Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 54. - Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 450. - Bern.
Segni, l. VIII, p. 227. - Fil. de' Nerli, l. XII, p. 299. - P. Jovii hist. sui temp., l.
XXXVIII, p. 409.
accostumati alle fatiche della guerra, andarono ad alloggiarsi
come in piena pace nella casa dei Nerli a Montemurlo, che in
addietro aveva servito di rocca, ma che ora non ne conservava
che il nome; mentre che Pietro Strozzi con poche centinaja
d'uomini stava a piè del colle, e che l'armata, trattenuta da dirotte
piogge, trovavasi tuttavia distante quattro miglia130.
Cosimo de' Medici approfittò accortamente della confidenza
che aveva saputo ispirare a' suoi nemici: nella notte del 31 di
luglio fece uscire tutta la sua armata sotto gli ordini di Alessandro
Vitelli, e la mandò senza far alto a Montemurlo. Pietro Strozzi
aveva divisa la piccola sua truppa per tendere un'imboscata ad un
debole corpo di cavalleria, col quale si era battuto nel precedente
giorno. Sandrino Filicaja, che aveva il comando de' soldati
appiattati, sorpreso di vedersi passare innanzi un'intera armata
invece di uno squadrone, non uscì d'aguato, e non potè prevenire
Pietro Strozzi; questi fu sorpreso nel suo quartiere, la sua truppa
sgominata, ed egli medesimo fatto prigioniere, ma senz'essere
conosciuto; onde trovò in appresso il modo di fuggire,
attraversando a nuoto un piccolo fiume131.
Quando si raccontò a Filippo Strozzi che suo figliuolo era stato
ucciso o fatto prigioniere, egli si smarrì, e sebbene fosse ancora in
tempo di salvarsi, aspettò di essere attaccato da Alessandro
Vitelli. Questi, giunto sotto l'antica rocca di Montemurlo, che gli
emigrati avevano barricata alla meglio, la fece attaccare ed
appiccare il fuoco alla porta. Dopo una sanguinosa pugna, che
durò più di due ore, gli assalitori penetrarono da ogni banda nella
fortezza, e gli emigrati si diedero prigionieri ai soldati, italiani o
spagnuoli, ch'erano i primi ad arrestarli. Per tal modo Filippo
Strozzi, che fin allora era stato creduto il più felice privato
cittadino d'Italia, siccom'era ancora il più ricco, si arrese allo
stesso Vitelli. Avendo questi avviso che l'armata di Capino e del
130
P. Jovii, l. XXXVIII, p. 411. - Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 55. - Bern. Segni, l.
VIII, p. 228. - Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 450.
131
P. Jovii, l. XXXVIII, p. 412. - Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 58.
priore Salviati avvicinavasi, ed era di già arrivata a Fabbrica,
poco distante da Montemurlo, egli non volle aspettarla ed esporre
all'incertezza d'una nuova pugna i molti prigionieri che aveva
fatti. Rientrò in Firenze il primo giorno d'agosto colla sua
vittoriosa truppa, conducendo prigionieri nella loro patria per lo
meno un individuo di ognuna delle illustri famiglie dell'antica
repubblica; mentre che l'armata degli emigrati, informata della
sventura de' suoi capi, si ritirava a precipizio oltre gli
Appennini132.
Era Cosimo persuaso che non sarebbe mai sicuro del suo
potere finchè non avesse distrutti tutti coloro che amavano la loro
patria, e che vi avevano qualche considerazione. Ma sebbene tutti
i suoi nemici fossero prigionieri della sua armata, non poteva
ancora disporre della loro sorte; perciocchè, essendosi essi arresi
in una battaglia ai soldati come prigionieri di guerra, erano
diventati proprietà di coloro che gli avevano presi. Cosimo
incaricò il supremo tribunale di balìa di entrare in trattato coi
soldati per acquistare da loro i proscritti, e di sorpassare le taglie
che le loro famiglie sarebbero disposte a dare. Il dispotismo
avvilisce talmente coloro cui confida le sue dignità, che i giudici
e i magistrati accettarono questa vergognosa incumbenza. La più
parte de' soldati spagnuoli ricusarono di trattare con loro; ma
gl'Italiani furono meno delicati, ed appunto tra le loro mani si
trovavano i più illustri prigionieri133.
Cosimo I aveva voluto vedere tutti i prigionieri nello stesso
giorno in cui erano entrati in Firenze, ed aveva seco loro parlato
con apparente moderazione; pure all'indomani il tribunale degli
otto, avendone riscattati alcuni dai soldati, li fece porre alla
tortura, ed in appresso decapitare sulla piazza della signoria.
Nello spazio di quattro giorni ne perirono in tal modo quattro al
132
P. Jovii, l. XXXVIII, p. 412. - Gio. Batt. Adriani, l. I, p. 61. - Bern. Segni, l.
VIII, p. 229. - Fil. de' Nerli, l. XII, p. 301. - La sua storia termina con questa
sconfitta, ch'egli risguardava come il trionfo del suo partito.
133
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 63. - Bern. Segni, l. IX, p. 234. - Scipione
Ammirato, l. XXXII, p. 452.
giorno, ed era il duca intenzionato di continuare lungamente; ma,
intimidito dai clamori del popolo, egli spedì gli altri, tra i quali
trovavasi Niccolò Macchiavelli, figliuolo dello storico, nelle
carceri di Pisa, di Livorno, di Volterra, ove perirono in breve. I
prigionieri più illustri, cioè Bartolomeo Valori, Filippo suo figlio,
ed un altro Filippo suo nipote, Anton Francesco Albizzi ed
Alessandro Rondinelli, vennero riservati a morire il 20 d'agosto,
anniversario del giorno in cui lo stesso Valori aveva, sett'anni
prima, adunato il parlamento, violata la capitolazione di Firenze,
ed assoggettata la sua patria alla tirannia di quegli stessi Medici,
che lo ricompensavano a quel modo che i tiranni sogliono
ricompensare chi li serve. Prima del supplicio vennero tutti
cinque posti alla tortura, ed il duca, per seminare sospetti in tutto
il partito degli emigrati, si fece carico di pubblicare che le loro
deposizioni svelavano una privata ambizione e personali progetti,
che ognuno di loro nascondeva sotto la maschera del patriottismo
e dell'amore di libertà134.
Filippo Strozzi era tuttavia prigioniero di Alessandro Vitelli; e
questo generale aveva avuta l'antiveggenza di chiuderlo nella
fortezza di cui era padrone, trattandolo colà con molti riguardi.
Ricusava di consegnarlo a Cosimo, prometteva d'interporsi presso
l'imperatore per la liberazione di lui, e con tali mezzi riusciva ad
estorcere dal suo prigioniere ragguardevoli somme. Filippo
Strozzi, sposo di Clarice de' Medici, nipote del magnifico
Lorenzo, aveva contribuito al ritorno dei Medici nel 1530; aveva
prestato danaro al duca Alessandro per fabbricare quella stessa
rocca, ove si trovava chiuso, e non aveva abbandonato il partito di
lui, che dopo avere provato come ogni grandezza, ogni
vantaggiosa opinione, ogni indipendenza di fortuna, riuscivano
sospette ad un assoluto padrone. L'immensa sua ricchezza non era
la sola circostanza che richiamava sopra di lui gli sguardi
dell'Europa; egli era rinomato pel suo sapere, pel suo gusto in
134
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 66. - Bern. Segni, l. IX, p. 234. - P. Jovii, l.
XXXVIII, p. 414. - Marco Guazzo, f. 178. - Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 453.
fatto di arti e di letteratura, pel suo cortese contegno, per la
generosità del suo carattere. Aveva date prove di quest'ultima
coll'accoglimento che aveva fatto a tutta la famiglia di Lorenzino
de' Medici, scacciata da Firenze e spogliata d'ogni avere. Aveva
ricevuti la madre ed il fratello in propria casa, ed aveva maritate
le due sorelle ai due suoi figliuoli, senz'altra dote che quella di
appartenere al Bruto fiorentino135.
Per qualche tempo Carlo V difese Filippo Strozzi contro la
vendetta di Cosimo; all'ultimo, vinto dalle reiterate istanze del
duca, acconsentì nel 1538, che questo illustre cittadino fosse
posto alla tortura, ed in appresso mandato al supplicio; ma nello
stesso giorno in cui giugneva a Firenze l'assenso dell'imperatore,
ne fu dato avviso a Filippo Strozzi, il quale, temendo che il dolore
lo riducesse ad accusare i suoi amici, si tagliò egli stesso la gola,
dopo avere scritto sul muro della sua prigione quel verso di
Virgilio: Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor! cui parve
conformarsi l'intera vita di suo figlio Pietro, in appresso
maresciallo di Francia136.
Lorenzino de' Medici non si trovava cogli emigrati che
s'innoltrarono fino a Montemurlo contro Cosimo: egli non
ignorava d'essere nello stesso tempo perseguitato dal duca di
Firenze e dall'imperatore, e che la sua vita era dovunque in
pericolo. Perciò da Venezia, dove si era da principio riparato,
passò in Turchia; di là tornò in Francia, ma non facendosi
conoscere, e stando sempre in guardia contro le insidie; poi
ritornò a Venezia, ove all'ultimo fu assassinato, nel 1547 col suo
zio Soderini, per ordine di Cosimo137.
Il nuovo duca di Firenze non si era per anco liberato che dai
suoi nemici; ma non erano costoro ch'egli più temesse o più
odiasse. Sapeva che mentre una repubblica non ha ragioni di
135
Ben. Varchi, t. IV, l. XII, p. 321, t. V, l. XIV, p. 60. - Bern. Segni, l. VIII, p.
227. - P. Jovii, l. XXXVIII, p. 415. - Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 71.
136
Ivi, p. 100. - Bern. Segni, l. IX, p. 245. - P. Jovii, l. XXXVIII, p. 415.
137
P. Jovii, l. XXXVIII, p. 396. - Bern. Segni, l. XII, p. 313.
temere coloro che l'hanno istituita o salvata, un tiranno può
compensare i servigj, ma perdonare i beneficj non mai. Andrea
Doria poteva tutto ripromettersi dall'amore e dalla riconoscenza
de' Genovesi, ma Cosimo doveva sempre paventare coloro che
avevano contribuito a collocarlo sul trono. E siccome questi non
potevano essere persuasi d'avere fatta una buona azione, così non
potevano in sè medesimi trovare la costanza di mantenerla.
Cosimo colla battaglia di Montemurlo e col patibolo erasi di già
liberato dalla maggior parte di coloro che nel 1530 avevano
chiamata la casa de' Medici alla sovranità di Firenze; ma egli
temeva inoltre coloro che direttamente gli avevano trasmessa
l'eredità di Alessandro, e che credevano con tale segnalato
beneficio d'avere acquistati diritti alla sua gratitudine; questa
rivoluzione era stata l'opera del cardinale Cibo, di Alessandro
Vitelli e di quattro Fiorentini, Francesco Guicciardini, Francesco
Vettori, Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi; onde egli pensò a
disfarsi a poco a poco ancora di questa gente.
Il cardinale Cibo si era presa la cura di educare i figli naturali
di Alessandro. Scoprì, o credette di scoprire, che uno speziale,
chiamato Biagio, era stato sedotto dai ministri del duca per
avvelenare Giulio, il maggiore di que' fanciulli, e quello stesso
ch'era stato a bella prima proposto per successore ad Alessandro.
Egli ne fece lagnanza, e Cosimo si dolse ancora più altamente col
cardinale di un'accusa, com'egli diceva, affatto calunniosa, tanto
lo minacciò che lo costrinse a ritirarsi a Massa di Carrara presso
la marchesa sua cognata138.
Alessandro Vitelli aveva forzato il senato ad eleggere Cosimo
col terrore de' suoi soldati, ed aveva in appresso consolidato il di
lui trono colle vittorie. Vero è che se n'era fatto ampiamente
pagare; che aveva ammassati grandissimi tesori in occasione delle
rivoluzioni di Firenze; e che, quantunque bastardo della sua casa,
era più ricco che i capi della linea legittima. Si era inoltre
138
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 110, 111. - Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 458. Bern. Segni, l. IX, p. 246.
impadronito per sorpresa della fortezza di Firenze, e ne aveva
dato il possesso all'imperatore piuttosto che a Cosimo. Questi si
adoperò molto tempo invano per iscreditare il Vitelli presso
l'imperatore; finalmente ottenne nel 1538 che gli fosse dato per
successore don Giovanni de Luna nel comando della fortezza di
Firenze, e ch'egli fosse allontanato da questa città139.
I quattro senatori fiorentini che avevano innalzato Cosimo sul
trono, sentivansi ad un tempo esposti al disprezzo ed all'odio dei
loro compatriotti, ed alla gelosa diffidenza del tiranno, che li
teneva lontani da tutti gli affari: costoro, abbandonati ai loro
rimorsi, non tardarono a cadere vittime del loro pentimento.
Francesco Vettori più non uscì dalla sua casa dopo la morte di
Filippo Strozzi, con cui aveva avuta la più stretta famigliarità, per
essere portato al sepolcro. Il Guicciardini ritirossi colmo di dolore
nella sua villa, ove morì nel 1540 non senza sospetto di veleno.
Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi lo seguirono in breve. Maria
Salviati, madre di Cosimo, morì nel 1543. Francesco Campana,
intimo di lui segretario, che aveva avuta grandissima parte nella
di lui elezione, morì pure disgraziato; ed in allora Cosimo sentì
finalmente che non aveva più amici e che cominciava a
regnare140.
Le scintille di libertà, che rimanevano tuttavia disperse in
Italia, si andavano n poco a poco spegnendo. Negli stati del papa
Ancona aveva conservata un'amministrazione repubblicana ed
indipendente fino al mese d'agosto del 1532: essa godeva senza
strepito di questa libertà, quando Clemente VII fece avvisati i
magistrati di questa piccola città, che una flotta di Solimano,
entrata nell'Adriatico, apparecchiavasi ad attaccarla; ed in pari
tempo gli offrì l'ajuto di una piccola armata sotto gli ordini di
Luigi Gonzaga. Gli Anconitani accolsero senza diffidenza le
139
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 76-89. - Bern. Segni, l. IX, p. 244. - Scip.
Ammirato, l. XXXII, p. 455.
140
Bern. Segni, l. IX, p. 248. - Il Guicciardini morì nella sua villa d'Arcetri il 17
di maggio del 1540, in età di 58 anni. Tiraboschi Stor. della Letter. Ital., t. VII,
l. III, c. I, § 39, p. 883.
truppe del papa; ma queste, avendo occupati le porte, arrestarono
tutti i magistrati, tagliarono la testa a sei di loro, disarmarono tutti
i cittadini, fabbricarono una rocca sul monte San Ciriaco, e
privarono la città di tutti gli antichi suoi privilegj141.
La repubblica d'Arezzo, che era risorta in tempo dell'assedio di
Firenze, non aveva durato lungamente. Dopo avere nudrita
l'armata imperiale per tutto il tempo che Firenze si difese, dopo
avere fatti i più grandi sagrificj, questa città fu ancor essa
attaccata dai suoi vittoriosi alleati, ed il 10 ottobre del 1530 venne
forzata a ritornare sotto il dominio dei Fiorentini 142. Il conte
Rosso di Bevignano, che aveva avuta tanta parte nella
sollevazione d'Arezzo contro la repubblica fiorentina, e che così
vigorosamente aveva assistiti Clemente VII ed i Medici, venne
arrestato nello stato pontificio, dato nelle mani del duca
Alessandro ed appiccato143. Cosimo I fece rifabbricare una rocca
in Arezzo nel 1538, ed un'altra in Pistoja; fece disarmare gli
abitanti delle due città, e si assicurò in tale maniera della loro
sommissione144.
La repubblica di Lucca tentava l'ambizione del nuovo duca di
Firenze; egli la costrinse ad uscire dalla sua oscurità,
approfittando di tutte le occasioni di offendere il di lei governo
per trarla in una guerra che sperava di potere terminare colla
conquista di quel piccolo stato. Si esercitarono più volte degli atti
ostili tra i villani dei due dominj; e la gelosia e l'odio di vicinato
scoppiarono tra di loro con un carattere che mai non avevano
avuto fin ch'era durata la repubblica fiorentina. Ma i Lucchesi,
conoscendo la loro debolezza, avevano riposta ogni speranza
nella protezione dell'imperatore. Comperavano con ragguardevoli
somme di danaro difensori nel di lui consiglio, ed in tal guisa
141
Ben. Varchi, l. XIII, t. V, p. 7. - Bern. Segni, l. VI, p. 157.
Ben. Varchi, l. XII, t. IV, p. 325-328.
143
Ben. Varchi, l. XIII, t. V, p. 17.
144
Bern. Segni, l. IX, p. 246. - Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 97. - Scipione
Ammirato, l. XXXII, p. 456.
142
evitarono un attacco cui probabilmente avrebbero dovuto
soggiacere145.
Furono più fortunati i progetti di Cosimo I sopra la repubblica
di Siena. La prudenza, la dissimulazione e la costanza del duca
trionfarono di una città indebolita da una lunga anarchia, e più
ancora dalla contraria fortuna de' Francesi, che, strascinando la
repubblica di Siena nel loro partito, la ruinarono coi medesimi
loro soccorsi, come avevano già ruinati i Fiorentini
abbandonandoli.
Sebbene la repubblica di Siena fosse da gran tempo attaccata
alla parte imperiale, il trattato di Cambrai le aveva fatto, come a
tutti gli altri stati dell'Italia, perdere la sua indipendenza. Carlo V
la lasciava in preda senza rammarico a tutti gl'inconvenienti
dell'anarchia, purch'ella gli desse una sufficiente guarenzia del
costante suo attaccamento al partito imperiale. Altronde la corte,
per via di quell'inclinazione naturale ai principi, ai cortigiani ed ai
ministri, riservava all'aristocrazia sola tutti i suoi favori; e la
repubblica di Siena, invece d'essere agitata, come nel precedente
secolo, dalle tumultuose passioni del popolo, lo era allora dalle
contese non meno sanguinose che violente 146 delle grandi
famiglie.
Il duca d'Amalfi, Alfonso Piccolomini, discendente da un
nipote di Pio II, era stato prescelto mediante l'influenza
dell'imperatore, in maggio del 1538, per capo della repubblica di
Siena147. D'allora in poi era stato il principale agente di Carlo V
presso di questo stato; ma perchè era egli medesimo poco capace
di governare, erasi totalmente abbandonato ai consiglj di Giulio
Salvi e de' sei fratelli di costui, la di cui famiglia si era sollevata
ad un cotal grado di potenza e di arroganza, che sprezzava tutte le
leggi ed assoggettava alla sua tirannide le sostanze, le mogli e le
145
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 95 ad an. 1538, ed altrove frequentemente. Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 145 ed altrove.
146
Nell'originale "violenti". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
147
Orlando Malavolti Stor. di Siena, p. III, l. VIII, f. 140.
figlie dei cittadini. I Sienesi portarono le loro lagnanze
all'imperatore, che ritornava dalla sua spedizione di Algeri; e
Cosimo de' Medici diede a queste maggior peso, denunciando a
Carlo V un supposto trattato, ch'egli pretendeva d'avere scoperto
tra Giulio Salvi ed il signore di Montluc, in allora segretario
d'ambasciata a Roma pel re di Francia. Lo scopo di questo trattato
doveva essere quello di dare Porto Ercole in mano de' Francesi, di
que' tempi in procinto di ricominciare la guerra contro
l'imperatore, d'introdurli da quel porto in Toscana, di attaccare la
repubblica di Siena alla loro alleanza, e di dar loro il mezzo in tal
modo d'influire nuovamente negli affari d'Italia148.
Infatti i Francesi cercavano avidamente l'occasione di
rinnovare qualche negoziazione coll'Italia, e di ricuperarvi
qualche considerazione; e l'imperatore si adoperava con egual
zelo a precludere loro ogni comunicazione con que' piccoli stati.
Carlo V incaricò il Granvella di riformare il governo di Siena;
questi recossi in questa città colla guardia tedesca di Cosimo de'
Medici; ed affidò la sovranità ad una balìa, o stretta oligarchia di
quaranta membri, trentadue dei quali vennero nominati dai
diversi Monti, ossia ordini de' cittadini, ed otto dallo stesso
Granvella. La presidenza de' tribunali fu riservata ad un suddito
dell'imperatore, da nominarsi ogni tre anni dal senato di Milano o
da quello di Napoli. Tale era la libertà che Carlo V lasciava alle
repubbliche sue più antiche alleate, quando acconsentiva di
proteggerle149.
Siena era scontenta assai di questa nuova costituzione, e senza
le truppe che Cosimo I aveva ai confini, questa repubblica non
avrebbe tardato ad iscuotere il giogo150. Nella guerra che si era
riaccesa tra la Francia e l'impero, Pietro Strozzi e suo fratello
Leone, priore di Capoa, sempre meditando di vendicare il loro
148
Gio. Batt. Adriani, l. III, p. 133, 134. - Malavolti, p. III, l. VIII, f. 141. - Il
Montluc non fa parola di questo trattato. Mem., l. I, p. 124.
149
Gio. Batt. Adriani, l. III, p. 157, 158. - Malavolti, p. III, l. VIII, f. 142. Bern. Segni, l. X, p. 265.
150
Gio. Batt. Adriani, l. III, p. 185, l. IV, p. 208.
padre Filippo e di rovesciare dal suo trono Cosimo I, cercavano
una piazza d'armi in Toscana, ove potere unire i soldati che loro
dava la Francia ai malcontenti sempre apparecchiati ad
assecondarli. Lo stato di Siena sembrava loro eminentemente
opportuno a ricevere i loro sbarchi; e perchè Francesco I aveva
fatto contro Carlo V alleanza coll'impero turco, e che la flotta
francese si univa tutti gli anni a quella del famoso Barbarossa,
queste due flotte unite attaccarono più volte i porti dello stato
sienese, ed all'ultimo il Barbarossa occupò nel 1544 Telamone e
Port'Ercole, ed assediò pure Orbitello che gli fece resistenza. I
Sienesi erano atterriti, vedendo i Turchi sbarcare sulle loro coste;
pure loro riuscivano ancora più sospetti gli ajuti offerti da Cosimo
I. Un tale stato di alterni sospetti e pericoli si protrasse fino al
trattato di Crespi, del 18 settembre 1544, col quale per poco
tempo si ristabilì la pace tra la Francia e l'impero151.
Dopo la pace don Giovanni de Luna continuò a tenere a Siena
una piccola guarnigione spagnuola sotto colore di mantenere
l'ordine in città, ma infatto per mantenerla dipendente dal partito
imperiale. Carlo V però mai non mandava danaro ai suoi soldati,
ed in tempo di pace lasciava che vivessero a discrezione nelle
province suddite o alleate, le quali perciò non soffrivano meno
dalla crudele avidità degli Spagnuoli, che non un paese nemico in
tempo di guerra152. Il malcontento cagionato dalle ruberie degli
Spagnuoli era di già arrivato all'estremo, e venne accresciuto dal
costante favore che don Giovanni de Luna, d'accordo con Cosimo
I, mostrava all'aristocrazia. Volevano questi due che ogni potere
fosse concentrato nella nobiltà e nel monte dei nove, che quasi
colla nobiltà si confondeva; e mostravano agli altri ordini quel
disprezzo che i borghesi soffrivano nelle monarchie. Il popolo,
spinto agli ultimi estremi, sollevossi il 6 di febbrajo del 1545;
151
Gio. Batt. Adriani, l. IV, p. 261. - Bern. Segni, l. XI, p. 295. - Orl. Malavolti,
p. III, l. VIII, f. 143. - P. Jovii, l. XLV, p. 599. - La storia di Paolo Giovio
termina al trattato di Crespi.
152
Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 293.
furono uccisi circa trenta gentiluomini, e gli altri cercarono
rifugio in palazzo presso don Giovanni de Luna. Cosimo I, che
teneva le sue truppe apparecchiate ai confini per approfittare di
questo tumulto, cui forse ebbe qualche parte, voleva che don
Giovanni le lasciasse entrare in città; ma questi mancò di
risoluzione o di antiveggenza; lasciò licenziare la propria
guarnigione spagnuola, ed all'ultimo fu costretto ad uscire egli
medesimo di Siena il 4 di marzo del 1545 con un centinajo di
membri dell'aristocrazia; nello stesso tempo tutto il monte dei
nove venne privato d'ogni partecipazione al governo153.
Mentre che in Toscana omai più non restava orma dell'antica
libertà, che tutta l'Italia aveva perduta la sua indipendenza, e che
veruna potenza estera pareva in istato di soccorrerla, un
gonfaloniere di Lucca formò l'audace disegno di richiamare in
vita tutte quelle antiche repubbliche, di unirle con una
confederazione, di scuotere il giogo dell'imperatore, in allora
trattenuto in Allemagna dalla lega di Smalcalde, di schivare
d'assoggettarsi a quello della Francia, e di riconquistare nello
stesso tempo l'indipendenza dell'Italia, la libertà politica dei
cittadini e la libertà religiosa, di cui ne aveva a Lucca inspirato il
desiderio la predicazione della riforma. Francesco Burlamacchi,
autore di questo progetto, era uno de' tre commissarj
dell'ordinanza ossia milizia del territorio di Lucca. Aveva sotto il
suo comando circa mille quattrocento uomini, e poteva portarli a
due mila senza dare sospetto. Secondo l'usata pratica di ogni
anno, contava di farli passare in rassegna sotto le mura di Lucca,
e quando le porte della città si chiuderebbero dopo la rassegna,
voleva sotto finto pretesto condurre la sua truppa, a traverso al
monte di san Giuliano, a sorprendere Pisa che non aveva
guarnigione, ed ove il comandante della rocca era con lui
d'accordo; voleva rendere ai Pisani quella libertà per la quale
avevano combattuto quarant'anni prima con tanto valore; unirli ai
153
Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 327. - Malavolti, p. III, l. VIII, f. 144-145. - Scip.
Ammirato, l. XXXIII, p. 475. - Ber. Segni, l. XI, p. 306.
suoi Lucchesi per marciare insieme sopra Firenze, ed approfittare
dell'universale malcontento dei popoli, e della sicurezza dei
tiranni, per dilatare ovunque la rivoluzione. Un altro corpo di
truppe doveva incamminarsi verso Pescia e Pistoja, ove lo spirito
di fazione aveva mantenute le abitudini militari. Arezzo che di
fresco aveva mostrato il suo attaccamento alle idee repubblicane,
Siena che temeva il risentimento dell'imperatore, Perugia che nel
1539 aveva pure cercato di scuotere il giogo del papa 154, Bologna
che lo sopportava impazientemente, dovevano entrare nella nuova
lega, la quale doveva ad ogni città guarentire la rispettiva libertà e
tutti i necessarj mezzi di resistenza. I due fratelli Strozzi avevano
promessi trenta mila scudi in effettivo danaro, i soccorsi della
Francia, e l'attiva cooperazione degli emigrati fiorentini; ma essi
persuasero il Burlamacchi a differire l'esecuzione del suo disegno
per aver tempo di conoscere i risultamenti della guerra
incominciata dall'imperatore contro i protestanti della Germania:
intanto un Lucchese, che i congiurati volevano associarsi, andò a
Firenze a darne avviso al duca Cosimo I. Il Burlamacchi era in
allora gonfaloniere; e sebbene la sua carica non potesse sottrarlo
al gastigo meritato da una tanto ardita impresa, fatta senza
l'assenso della sua patria, avrebbe ancora avuto tempo di fuggire
quando seppe che il suo disegno era stato rivelato a Cosimo, se le
generose cure ch'egli volle avere per alcuni emigrati sienesi che
temeva di avere compromessi, e che lo denunciarono ai consiglj
di Lucca, non fossero stati, trattenendolo, cagione del di lui
arresto. Cosimo I persuase l'imperatore a domandare un
prigioniere che aveva voluto sollevare tutta l'Italia. I Lucchesi
non ebbero il coraggio di ricusarlo: e il Burlamacchi fu tradotto a
Milano, posto alla tortura, poi condannato all'estremo supplicio155.
154
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 119. - Ber. Segni, l. IX, p. 251.
Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 345-350. - Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 476. Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 146. - Galluzzi Stor. del gran ducato di Toscana,
l. I, c. V, t. I, p. 105.
155
La congiura del Burlamacchi diede all'imperatore un nuovo
motivo per assicurarsi del governo di Siena. Temeva che il
malcontento che ogni giorno vedeva farsi maggiore, non
ispingesse questa repubblica a cercare un più leale protettore, ad
aprire le sue porte ai Francesi, ed in tal modo a dar loro
un'importante stazione nel centro dell'Italia: perciò, malgrado la
ripugnanza dei Sienesi, risolse d'introdurre di nuovo nella loro
città una guarnigione spagnuola, in sul piede di quella di don
Giovanni de Luna, ch'essi avevano rimandata. Ne affidò il
comando a quel don Diego Hurtado de Mendoza, che si acquistò
gran nome tra i letterati colla sua Storia della guerra di Granata,
le sue poesie, ed il suo romanzo di Lazarillo di Tormes, ma che in
Italia si rendette detestabile colla sua alterigia, colla sua avarizia e
colla sua perfidia. La guardia spagnuola entrò in Siena il 29 di
settembre del 1547; ed il Mendoza, ch'era nello stesso tempo
ambasciatore a Roma, e che, di là dirigendo gl'intrighi spagnuoli,
era troppo contento d'avere in vicinanza e sotto i suoi ordini una
piazza d'armi, recossi a Siena il 20 di ottobre, poi nel 1548 vi fece
entrare altre truppe, disarmò i cittadini, e mutò il governo in
maniera da renderlo affatto dipendente dal suo volere. Il 4 di
novembre del 1548 vi creò una nuova balìa di quaranta membri,
venti de' quali furono eletti dall'antico senato e venti da lui
medesimo. La sovranità della repubblica venne conferita a questo
corpo; ma dopo tale epoca vi comandava tanto dispoticamente
l'imperatore, che potè offrire Siena al papa Paolo III invece di
Parma e Piacenza, come se avesse pieno diritto di disporne156.
Per essere ancora più certo dell'ubbidienza di questa
repubblica, il Mendoza ottenne precisi ordini dall'imperatore di
fabbricare in Siena una rocca, malgrado la costante ed unanime
opposizione di tutte le classi dei cittadini. Gli Spagnuoli si
comportavano con tanta insolenza, era così difficile l'ottenere
156
Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 383, 401, 421, l. VII, p. 463, 474. - Orl.
Malavolti, p. III, l. IX, f. 146, 147. - Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 481. - Bern.
Segni, l. XII, p. 315.
giustizia dei furti, degli omicidj, degli oltraggi di ogni sorta, di
cui si rendevano colpevoli, che i cittadini li vedevano con sommo
terrore assicurarsi sempreppiù il possedimento della loro città. Lo
storico Malavolti fu egli stesso deputato presso Carlo V, per
supplicarlo di rinunciare ad un progetto che metteva nella
disperazione i suoi compatriotti. Riuscirono vane le sue
rappresentanze; ma il piano adottato dal Mendoza per l'erezione
della rocca era così vasto, richiedeva così ragguardevoli spese,
che le opere cominciate non bastarono a coprire i soldati che
dovevano difenderle, quando sopraggiunse il pericolo157.
Niuno stato d'Italia fu forse più che la repubblica di Siena
ostinato, prima nell'antico partito ghibellino, poi, quando questo
nome cominciava ad essere dimenticato, nel partito imperiale per
opposizione a quello della Francia. Tutte le fazioni che si erano
fatte la guerra e strappato di mano a vicenda il timone della
repubblica, avevano professate le stesse opinioni; ma l'avarizia
spagnuola e l'iniqua fede del Mendoza avevano alla fine trionfato
di questo lungo attaccamento; e quando nel 1552 si rinnovò la
guerra in Piemonte ed in Germania fra Carlo V ed Enrico II, i
Sienesi si rivolsero alla Francia ed implorarono il di lei ajuto per
sottrarsi alla dura tirannia che cominciava a pesare sul loro
capo158.
Il duca di Firenze, che teneva aperti gli occhi su questo vicino
stato, scoprì la corrispondenza de' Sienesi coi Francesi; egli aveva
cagione di essere scontento del Mendoza e del governo di
Spagna. Invece di essere trattato qual principe indipendente, egli
sentiva che si cercava di farlo scendere ogni giorno al rango di
vassallo dell'imperatore; temeva lo stabilimento degli Spagnuoli
in Siena quasi quanto quello dei Francesi; ma ad ogni modo il suo
principale interesse era sempre quello di contenere il malcontento
157
Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 515-563. - Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 148,
150. - Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 486. - Bern. Segni, l. XIII, p. 339.
158
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 590. - Orl. Malavolti, p. III, l. IX, f. 152. - Giac.
Aug. de Thou. Hist. univ., t. II, l. XI, p. 103.
de' Fiorentini, e di conservare la propria signoria a dispetto
dell'odio de' suoi sudditi. Perciò, a fronte delle umiliazioni che
soffriva per parte dell'imperatore o dei suoi ministri, non lasciava
di conservarsi loro fedele. Nella presente circostanza offrì
gagliardi ajuti a don Diego Mendoza; ma questi, più geloso del
duca che premunito contro il comune nemico, ricusò di ricevere
le truppe di Cosimo in Siena159.
Erasi formato un attruppamento nei contadi di Castro e di
Pitigliano, sotto il comando di Niccolò Orsini, che aveva preso
servigio sotto i Francesi: due emigrati sienesi, Enea Piccolomini
ed Amerigo Amerighi, eransi fatti capi di un corpo d'insorgenti,
che, attraversando lo stato di Siena, s'ingrossò fino al numero di
circa tre mila. Il Piccolomini si presentò la sera del 26 luglio del
1552 alle porte di Siena, proclamando il nome di libertà. Il
popolo, sebbene disarmato, si sollevò; non eranvi in città che
quattrocento Spagnuoli, sotto gli ordini di don Giovanni Franzesi,
essendo stati gli altri mandati ad Orbitello ed in varj porti delle
Maremme, mentre il Mendoza trattenevasi in Roma. I Sienesi
aprirono le porte al Piccolomini, e subito scacciarono gli
Spagnuoli dal convento di san Domenico, dove questi si erano
afforzati, e gl'inseguirono fino alla rocca, che l'avarizia del
Mendoza aveva lasciata male armata, e mal provveduta di
vittovaglie. Cosimo dei Medici si affrettò di mandare soccorsi
agli Spagnuoli; ma in seguito, temendo di tirarsi addosso le armi
della Francia, mentre Carlo V, vivamente attaccato da Maurizio
di Sassonia, sembrava inabilitato a secondarlo, richiamò le sue
truppe, e si fece mediatore di una capitolazione, in forza della
quale la fortezza innalzata a porta di Camullia fu, il 3 agosto del
1552, data in mano ai Sienesi, che la demolirono, e la guarnigione
spagnuola si ritirò a Firenze160.
159
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 593. - Bern. Segni, l. XIII, p. 342.
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 598. - Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 489. - Orl.
Malavolti, p. III, l. IX, f. 152. - Ber. Segni, l. XIII, p. 343. - J. Aug. de Thou., l.
XI, p. 106, 112.
160
Enrico II colse avidamente l'occasione che venivagli offerta di
far penetrare le sue armate nel cuore dell'Italia, e di approfittare
dell'universale malcontento per invitare i popoli a scuotere il
giogo della corte di Spagna. Fece passare ai Sienesi alcuni
gentiluomini francesi per dirigerli, soldati per difenderli, e
soccorsi d'ogni maniera. Il duca di Termini, in addietro
governatore di Parma, venne l'11 di agosto a soggiornare in
Siena, ed in breve fu stipulato un trattato tra la repubblica ed il re
di Francia161.
Cosimo I vedeva con estrema inquietudine lo stabilimento de'
Francesi alle sue porte. Ad ogni modo non credeva le circostanze
favorevoli per discacciarli a forza aperta; aveva promesso di
tenersi neutrale, ed Enrico II si era obbligato a rispettare la di lui
neutralità. Cosimo cercava di far sentire a Carlo V, che colla
pazienza e coll'accortezza giugnerebbe a' suoi fini ugualmente
che colle armi. Ma il 2 di agosto l'imperatore aveva sottoscritta la
pace di religione a Passavia, e così trovandosi liberato da
Maurizio di Sassonia, il suo più temuto nemico, risolse di punire i
Sienesi di una rivoluzione, ch'egli risguardava per sè
disonorevole, ed ordinò a don Pedro di Toledo, vicerè di Napoli,
e suocero di Cosimo I, di recarsi per mare a Livorno colle forze di
cui poteva disporre162.
Il vicerè, uno de' più crudeli ed avari fra quei ministri di Carlo
V, che avevano in Italia renduto odioso il nome dell'imperatore,
non ebbe tempo di meritare le maledizioni dei Toscani, come
aveva raccolte quelle dei Napolitani. Giunse in Firenze in sul
cominciare del 1553 e vi morì nel susseguente febbrajo, dopo
essere sembrato per tutto quel tempo assorto intieramente nei
piaceri di un fresco matrimonio, che mal conveniva alla sua
161
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 625. - Scip. Ammirato, l. XXXII, p. 492. - Orl.
Malavolti, p. III, l. IX, f. 154. - Pecci Memorie di Siena, t. III, p. 230, 261. Lettere dei Sienesi ad Enrico II del 5 di agosto. - Lett. de' Principi, t. III, f.
131.
162
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 628. - Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 156. - Bern.
Segni, l. XIII, p. 348. - J. Aug. de Thou., l. XII, p. 165.
vecchiaja163. Cosimo I, cui Carlo V voleva affidare il comando di
quest'impresa, lo ricusò: don Garzia di Toledo, figlio del vicerè,
n'ebbe perciò l'incarico. Costui trovossi alla testa di un'armata di
sei mila Spagnuoli e di due mila Tedeschi che aveva condotti in
Toscana suo padre, e di otto mila Italiani raccolti nella provincia
di Val di Chiana da Ascanio della Cornia, nipote del papa. Con
tale esercito don Garzia entrò nel Sienese; prese Lucignano,
Monte Fellonico e Pienza; guastò quasi tutto il territorio della
repubblica, e pose l'assedio a Montalcino 164. Ma frattanto i
Francesi avevano invocata l'assistenza della flotta turca, che ogni
anno veniva a saccheggiare le coste degli stati dell'imperatore in
Italia, e che ogni anno rendeva inefficace la sua assistenza colla
sua lentezza a trovarsi al luogo concertato, e colla sua prontezza a
ritirarsi. La di lei comparsa sulle coste del regno di Napoli
costrinse non pertanto don Garzia di Toledo a levare l'assedio di
Montalcino, ed a ricondurre il suo esercito nell'Italia
meridionale165.
Cosimo I, abbandonato in giugno dagli Spagnuoli, trovavasi in
un crudele imbarazzo; ricusando di rinunciare apertamente alla
sua neutralità aveva vivamente irritato l'imperatore, aveva assai
più offesi i Sienesi ed il re di Francia, poichè, sotto la maschera
della neutralità, aveva dati soccorsi d'ogni genere ai loro nemici;
si era fatto cedere Lucignano, una delle piazze conquistate sopra
di loro, ed all'ultimo aveva, per mezzo del suo ambasciatore,
ordita in Siena una cospirazione ch'era stata scoperta, ed aveva
costato la vita a Giulio Salvi, che n'era capo, ed a molti di lui
complici. Cosimo, vedendosi esposto al risentimento de' Francesi,
de' Sienesi e degli emigrati fiorentini che erano venuti a Siena, si
affrettò di trattare la pace, che si conchiuse in giugno del 1553.
Lucignano fu restituito ai Sienesi con tutte le conquiste fatte nel
163
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 631. - Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 156. - Scip.
Ammirato, l. XXXIII, p. 493. - Bern. Segni, l. XIII, p. 349.
164
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 634, 637. - Malavolti, l. V, f. 157.
165
Gio. Batt. Adriani, l. IX, p. 648. - Malavolti, p. III, l. X, f. 159. - Scip.
Ammirato, l. XXXIII, p. 497. - Bern. Segni, l. XIII, p. 350.
loro territorio; e questi promisero di non ricevere nel loro stato i
nemici del duca166.
Ad ogni modo Cosimo I era ben lontano dal volere
religiosamente osservare il trattato che aveva conchiuso; egli non
poteva mantenersi sul trono, a dispetto dell'odio di tutti i suoi
sudditi, senza essere spalleggiato da estera potenza; onde gli era
impossibile di conservarsi neutrale tra la Francia e l'impero. Al
servigio della Francia vedeva ricolmo di onorificenze Pietro
Strozzi, figliuolo di quel Filippo ch'era perito nelle sue prigioni.
Pietro, favoreggiato dalla regina Catarina de' Medici sua cugina
germana, andava non pertanto assai più debitore della sua fortuna
al proprio valore ed al singolare suo ingegno; era maresciallo di
Francia e luogotenente del re in Italia, e non aveva altro più
ardente desiderio che quello di balzare Cosimo I dall'usurpato suo
trono. Cosimo non poteva dunque fare a meno di non attaccarsi al
contrario partito, e di non assecondare l'imperatore; e benchè
fosse stato più volte ingannato dai ministri di Carlo V; benchè
fosse stato strascinato in enormi spese per la difesa di Piombino,
che poi questo monarca gli aveva ritolto senza verun compenso,
dopo averglielo dato; benchè si aspettasse d'avere lo stesso
trattamento quando riuscisse a conquistare Siena a proprie spese;
risolse nulladimeno di entrare in guerra, di sostenerne tutto il
peso, e di prendere in oltre sopra di sè la vergogna di cominciarla
con un tradimento167.
I Sienesi si riposavano tranquillamente sul trattato fatto con
Cosimo I, ed improvvidi ad esempio de' Francesi, loro alleati e
loro ospiti, non pensavano che a godersi il presente senza
apparecchiare i mezzi di difesa per l'avvenire. Intanto Cosimo
faceva guardare severamente i suoi confini, onde niuno potesse
dare ai Sienesi notizia de' suoi apparecchj; assoldava nuove genti,
166
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 649. - Ber. Segni, l. XIII, p. 351. - Orl. Malavolti,
p. III, l. X, f. 161. - J. Aug. de Thou, l. XII, p. 173.
167
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 669. - Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 499. - Jac.
Aug. de Thou, l. XIV, p. 249.
poneva in movimento le sue milizie e dava ordine ad ogni corpo
della sua armata di trovarsi il 26 gennajo del 1554 a Poggibonzi,
ultimo castello dello stato fiorentino sulla strada di Siena. Cosimo
non prendeva giammai egli stesso il comando delle sue truppe, e
nominò supremo comandante di queste Gian Giacomo Medici, o
Medichino, da prima conosciuto sotto il nome di castellano di
Musso, poi di marchese di Marignano, uomo intraprendente, e
non pertanto cauto, perseverante, crudele, e che risguardavasi
come uno de' migliori generali dell'imperatore. Nello stesso
tempo, per lusingare la di lui vanità, finse Cosimo di trovare tra i
Medici di Milano e quelli di Firenze un parentado che mai non
aveva esistito168.
Il 27 gennajo del 1554 il territorio sienese doveva
contemporaneamente essere attaccato su tutti i punti; ma le dirotte
piogge che caddero la notte sospesero tutti gli attacchi ad
eccezione di quello del marchese di Marignano. Essendosi questi
partito da Poggibonzi due ore prima di notte con quattro mila
fanti e trecento cavaleggieri, arrivò senz'essere conosciuto fino
alla porta di Siena, detta Camullia, e prese d'assalto il bastione
destinato a difenderla, ch'era stato lasciato in piedi quando il
popolo, scacciando gli Spagnuoli, aveva spianata la fortezza
eretta da don Diego di Mendoza169.
Il cardinale di Ferrara, don Ippolito d'Este, che risiedeva in
Siena a nome del re di Francia, erasi lasciato ingannare dalle
carezze e dalle adulazioni di Cosimo I, e, credendo di non dover
nulla temere da lui, passava il tempo in continue feste. Trovavasi
al ballo nell'istante in cui fu sorpresa porta Camullia, ed i Sienesi
poterono trattenerlo a stento in città quando n'ebbe avviso. Ma
siccome questi opposero una vigorosa resistenza al Marignano, e
gli vietarono di penetrare in città, il cardinale di Ferrara si
168
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 670. - Malavolti, p. III, l. X, f. 161. - Scip.
Ammirato, l. XXXIII, p. 499. - Bern. Segni, l. XIII, p. 352.
169
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 671. - Bern. Segni, l. XIV, p. 360. - Scip.
Ammirato, l. XXXIII, p. 501. - J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 253.
rassicurò, e subito dopo Pietro Strozzi, che in allora visitava
Grosseto, Massa, Porto Ercole e le altre fortezze della Maremma,
rientrò in Siena, e la pose in migliore stato di difesa. Il Marignano
credette cosa imprudente l'aprire le sue batterie contro le mura di
Siena, coperte di buona artiglieria e difese da numerosa
guarnigione, e giudicò più conveniente di bloccare la città. I
raccolti del precedente anno erano stati distrutti dalla guerra, e
sembrava facile il distruggere altresì quelli dell'anno che
cominciava. La città, sorpresa da inaspettato attacco, non aveva
potuto fare grandi approvvigionamenti, ed il Marignano,
prendendo successivamente i castelli che signoreggiavano tutte le
strade che conducono a Siena, lusingavasi d'impedire che vi si
recassero vittovaglie da esteri paesi170.
Le truppe spagnuole e tedesche, che dall'imperatore erano state
promesse a Cosimo I, arrivarono le une dopo le altre quando era
già cominciata la guerra, e l'armata sotto Siena contò in breve
ventiquattro mila fanti e mille cavalieri. Dall'altro canto
arrivarono pure a Pietro Strozzi, o per mare, o a traverso allo stato
romano truppe francesi o al soldo della Francia; ma queste erano
sempre in minor numero che quelle che giugnevano al
Marignano, onde questi, a seconda del suo piano di campagna,
potè dare principio all'attacco de' castelli del territorio sienese. Il
primo che prese fu l'Ajuola, i di cui abitanti si arresero a
discrezione dopo averlo valorosamente difeso. Il Marignano li
fece appiccare quasi tutti, dichiarando che riservava lo stesso
trattamento a tutti coloro che aspetterebbero in una rocca da nulla
il primo colpo della sua artiglieria171. Ma questa barbarie non
ebbe altro risultamento che quello di accrescere gli orrori della
guerra; i contadini sienesi con una costanza degna di miglior
170
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 673. - Scip. Ammirato, l. XXXIII, p. 503. - Bern.
Segni, l. XIV, p. 361. - Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 165. - Lettere di Cosimo I
alla repubblica di Siena, e risposta, 28 e 31 gennajo 1554. Lettere de'
Principi, t. III, f. 148.
171
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 691. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 506. - J. Aug.
de Thou, Hist. univers., t. II, l. XIV, p. 257 e seg.
sorte, mostraronsi sempre irremovibili nella loro fedeltà verso la
patria, qualunque si fosse il governo della medesima. Turrita,
Asinalunga, la Tolfa, Scopeto e la Chiocciola opposero la
medesima resistenza e provarono lo stesso trattamento. Un
generale, che si piccava di bravura e di lealtà, diede ovunque in
mano ai carnefici quegli uomini valorosi cui altro non poteva
rimproverare che la loro fedeltà ed il loro valore172.
Dal canto loro i Sienesi ebbero alcuni vantaggi che sostennero
la loro costanza. In sul declinare di marzo il Marignano aveva
mandato il suo generale di fanteria, Ascanio della Cornia, con
Ridolfo Baglioni a Chiusi, che, secondo la promessa di alcuni
traditori, doveva essergli consegnato. Ma i traditori, ch'egli
credeva di avere sedotti, lo avevano ingannato; Ascanio della
Cornia fu fatto prigioniero, il Baglioni fu ucciso, e la loro truppa,
che ammontava a più di quattro mila uomini, fu interamente
distrutta173. Ma Cosimo I si affrettò di somministrare altri fondi
per fare nuove leve di soldati e riparare questa perdita. Poi
ch'ebbe ricevuti alcuni rinforzi, il Marignano continuò l'assedio e
l'incendio delle terre murate dello stato di Siena. Prese
successivamente i castelli di Belcaro, Lecceto, Monistero,
Vitignano, Ancajano e Mormoraja. Ogni terra gli costò ostinate
pugne, ed ogni terra fu trattata con eguale barbarie; parte degli
abitanti fu mandata al supplicio, tutte le messi immature distrutte,
e guastate tutte le campagne174.
Estrema era la desolazione del territorio sienese, gli ajuti della
Francia tardi ed insufficienti, e la sorte della guerra che nello
stesso tempo trattavasi in Fiandra era contraria ad Enrico II.
Nondimeno le speranze dei Sienesi e quelle dello Strozzi
172
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 693. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 507-516. Bern. Segni, l. XIV, p. 363. - Lettere tra Pietro Strozzi ed il marchese di
Marignano. Lett. dei Principi, t. III, f. 149 e seg.
173
Gio. Batt. Adriani, l. X. p. 694. - Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 163. - Bern.
Segni, l. XIV, p. 362. - J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 261.
174
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 706-718. - Orl. Malavolti, p. III, l. X, f. 163, 164.
- Bern. Segni, l. XIV, p. 368.
venivano ravvivate dall'odio universale che i Fiorentini portavano
alla casa de' Medici. Ovunque due Fiorentini si scontrassero,
fuori del dominio di Cosimo, essi riconoscevansi tosto per le
maledizioni che scagliavano contro il tiranno. Coloro che il
commercio aveva adunati a Roma, a Lione, a Parigi, aprivano
soscrizioni per mandare danaro a Pietro Strozzi, onde ajutarlo a
scuotere il vergognoso giogo che opprimeva la loro patria175.
Sapendo Pietro Strozzi che si adunavano alla Mirandola alcuni
corpi di truppe francesi, egli risolse di aprire loro la strada di
Siena. Uscì l'undici di giugno dalla città assediata con circa sei
mila uomini176; passò l'Arno a Pontedera, e si avanzò, per la
macchia di Cerbaia, verso lo stato di Lucca, che poi attraversò.
Colà infatti ricevette i promessigli rinforzi di truppe che avevano
tenuta la strada di Pontremoli; ma la flotta francese, che nello
stesso tempo doveva giugnere a Viareggio, non comparve; essa fu
ritardata più di quaranta giorni, ed il priore Strozzi, fratello di
Pietro, che stava aspettandola con due galere, fu ucciso presso
Scarlino. Due dì dopo la morte del gran priore, Biagio di
Montluc, che Enrico II aveva scelto per comandare a Siena,
venne a sbarcare a Scarlino con dieci compagnie francesi ed i
tedeschi di Giorgio di Ruckrod, che di là passarono a Siena177.
La spedizione del maresciallo Strozzi più avere non potendo
quel successo che egli ne aveva sperato, quando aveva creduto di
tener solo la campagna e di assediare Firenze coll'ajuto delle
truppe che dovevano essergli condotte dalla flotta, egli ripassò
l'Arno colla medesima rapidità e felicità con cui l'aveva guadato
la prima volta, e ricondusse la sua armata a Casoli, nello stato di
Siena178.
175
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 722. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 515. - Bern.
Segni, l. XIV, p. 366.
176
Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 734. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 517.
177
Mém. de Blaise de Montluc, l. III, p. 115, t. XXIII.
178
Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 747. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 520, 522. Bern. Segni, l. XIV, p. 364. - J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 272.
Non pertanto la spedizione dello Strozzi aveva sparso il terrore
in tutti i partigiani del duca in Toscana, e pareva promettere i più
felici risultamenti. Il Marignano, che lo aveva seguito con tutta
l'armata dell'assedio, soprappreso da panico terrore, erasi ritirato
da Pescia verso Pistoja; e già stava in sul punto di abbandonare
anche Pistoja come aveva fatto Pescia179. La fertile provincia di
Val di Nievole si dichiarò pel partito dello Strozzi e della
repubblica; i castelli di Monte Catini e di Monte Carlo avevano
ricevuto guarnigione francese, e l'ultimo sostenne non molto dopo
un assedio di più mesi; finalmente l'allontanamento delle due
armate in tempo del raccolto avrebbe dato opportunità agli
abitanti di Siena di fare grossi approvvigionamenti di vittovaglie,
se avessero saputo approfittarne180.
Ma quest'anno la terra era stata sterile; altronde la guerra aveva
impedito ai contadini di lavorare e di seminare i campi intorno
alla città, ed i Sienesi o non fecero abbastanza grandi sagrificj, o
non ebbero il tempo necessario ne' quindici giorni che le loro
strade furono libere, per importare da più lontane parti i loro
approvvigionamenti. Di già si cominciava in città a mancare di
viveri; ed i due campi dello Strozzi e del Marignano, ch'erano
tornati nello stato di Siena, penuriavano egualmente di
vittovaglie. Pareva che il Marignano fosse convinto della sua
inferiorità: un secondo terrore panico gli fece abbandonare il suo
campo, presso la porta Romana di Siena, con non minore
precipizio di quello che aveva fatto Pescia poche settimane
prima181.
Pietro Strozzi, volendo coll'allontanamento delle armate
lasciar respirare Siena, risolse di trasportare la guerra in Val di
Chiana; il 20 di luglio occupò Marciano ed Oliveto, ed accampò
179
Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 743. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 721. - Bern.
Segni, l. XIV, p. 365. - J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 274.
180
Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 797. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 724. - J.
Aug. de Thou, Hist. univ., l. XIV, p. 275.
181
Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 761. - Scip. Ammirato, l. XXXIV, p. 527. - Bern.
Segni, l. XIV, p. 367.
la sua armata al ponte della Chiana. Il Marignano gli tenne dietro
ed ottenne sopra di lui un notabile vantaggio in una scaramuccia a
Marciano, nella quale quasi le due intere armate presero parte; ma
questo non fu che un preludio di maggiore disastro. Lo Strozzi,
che soffriva nel suo campo mancanza di acqua e di vittovaglie,
volle ritirarsi; il Marignano lo seguì, e lo costrinse di venire a
formale battaglia, il 2 agosto, sotto Lucignano. Il Marignano
aveva due mila Spagnuoli, quattro mila Tedeschi e sei in sette
mila Italiani con mille dugento cavaleggieri. Lo Strozzi aveva
press'a poco un egual numero di combattenti; ma tre mila soltanto
all'incirca erano Francesi, gli altri Tedeschi, Grigioni ed Italiani.
La viltà della sua cavalleria, che fuggì in principio della battaglia,
e la poca fermezza dei Grigioni, diedero la vittoria agl'imperiali:
ma non pertanto venne lungamente contrastata dal valore e
dall'abilità di Pietro Strozzi, ed il campo di battaglia rimase
coperto da più di quattro mila morti182.
Dopo la sconfitta di Lucignano, più non restava a Siena
speranza di salute; pure i cittadini, incoraggiati da Montluc, che
comandava la guarnigione francese, e dai vantaggi ottenuti dal
signore di Brissac in Piemonte, non lasciaronsi sgomentare da
veruna privazione o pericolo: essi dovevano difendersi contro il
più freddamente crudele di tutti i generali imperiali, il cui
carattere distintivo pareva essere la ferocia: e se il viaggiatore
vede anche nell'età presente lo stato di Siena ridotto a vasto
deserto, deve in gran parte darne colpa al marchese di Marignano
ed a Cosimo I. Tutte le volte che i Sienesi facevano uscire dalla
loro città alcune bocche inutili, il Marignano le faceva uccidere
senza misericordia; qualunque volta i contadini Sienesi tentavano
d'introdurre viveri in città, il Marignano li faceva appiccare; tutti
coloro che ne' loro villaggi o castelli facevano qualche resistenza
182
Gio. Batt. Adriani, l. XI, p. 783-787. - Relazione della battaglia, mandata il
24 d'agosto del 1555, dal marchese di Marignano all'imperatore. Lettere de'
Principi, t. III, f. 154. - Bern. Segni, l. XIV, p. 371. - Scip. Ammirato, l. XXXIV,
p. 529. - Orl. Malavolti, t. III, l. X. f. 163. - Mém. di Montluc, t. XXIII, l. III, p.
139. - Hist. J. Aug. de Thou, l. XIV, p. 283.
all'armata, venivano passati a filo di spada; tutte le provvigioni,
tutti i viveri degli infelici contadini erano saccheggiati dagli
Spagnuoli, e ciò che non si consumava dai soldati distruggevasi
rigorosamente. Tutta la provincia di Siena provava gli orrori della
fame: la popolazione della Maremma venne allora distrutta, ed in
appresso non potè mai più rinnovarsi, essendo l'aria di questa
fertile contrada pestilenziale. L'esperienza ha più volte dimostrato
che il movimento di una numerosa popolazione migliora l'aere
cattivo, mentre lo fa più pernicioso la mancanza degli abitanti.
Altronde tutte le abitazioni, tutti i lavori dell'uomo erano stati
distrutti dalla ferocia spagnuola; e coloro che dopo quest'epoca
vennero da lontane contrade per coltivare quelle campagne,
sonosi per la maggior parte trovati allo scoperto, senza veruna
comodità della vita, ed esposti alle intemperie di un funesto
clima183.
Il Marignano fondava soltanto nella fame ogni speranza di
prendere Siena; tentò, a dir vero, in gennajo del 1555, d'aprire
alcune batterie presso porta Ovila e presso porta Ravaniano; ma
quest'attacco non ebbe verun effetto, ed il Marignano vi
rinunciò184. Erasi lo Strozzi lusingato che i vantaggi ottenuti da
Brissac in Piemonte moverebbero l'imperatore a richiamare
l'armata che assediava Siena, per contrapporla ai Francesi; ma
Cosimo non risparmiava nè danaro, nè munizioni, nè viveri per
appagare quelle truppe, la cui avidità andava sempre crescendo in
ragione ch'esse sentivano diventare più importanti i loro servigj.
183
Gio. Batt. Adriani, l. XII, p. 815. - Durante questa guerra la popolazione
della città di Siena fu ridotta dalle trenta alle dieci mila anime: si calcolò che
perirono nella provincia, di miseria, nelle battaglie, o sotto il ferro del
carnefice, cinquanta mila contadini, senza contare quelli che si rifugiarono in
estere contrade. Ber. Segni, l. XIV, p. 377. Trovasi una lacuna in Scipione
Ammirato fino all'anno 1561, ed il Malavolti non ardisce dare veruna
particolarità. - Mémoires de Blaise de Montluc, t. XXIII, l. III, p. 170. - Hist. de
J. Aug. de Thou, t. II, l. XIV, p. 288.
184
Giovan Battista Adriani, l. XII, p. 836. - Bern. Segni, l. XIV, p. 379. - Biagio
di Montluc, l. III, p. 196-235.
Pure il timore di vedere richiamata l'armata del Marignano, gli
fece ardentemente desiderare la pace. Scrisse al governo di Siena
per accertarlo che non voleva distruggere la libertà della
repubblica; che null'altro domandava se non che tornasse sotto la
protezione imperiale, e ch'egli si offriva per mediatore di un
trattato con Carlo V, che gli guarentirebbe tutti i suoi privilegj185.
Infatti dopo che i Sienesi ebbero sofferti gli orrori del blocco,
con una pazienza ed un coraggio a tutta prova, e al di là di tutti i
calcoli che avevano fatti da prima; dopo ch'ebbero talmente
consumati i loro viveri, che non avevano più nulla nel
susseguente giorno, ottennero ancora da Cosimo I onorate
condizioni, e press'a poco eguali a quelle che venticinque anni
prima aveva ottenuto Firenze; ma desse furono altresì egualmente
violate colla medesima impudenza. L'imperatore accolse sotto la
sua protezione la repubblica di Siena, promise di conservarle la
sua libertà ed i suoi ordinarj magistrati, di perdonare a tutti coloro
che si erano adoperati contro di lui, di non fabbricarvi fortezze, di
pagare egli stesso la guarnigione che terrebbe in città per la di lei
sicurezza, e di permettere a tutti coloro che volessero emigrare di
ritirarsi liberamente coi loro beni e famiglie in quella parte dello
stato Sienese che non era sottomessa. Il trattato venne sottoscritto
il 2 di aprile; ma perchè i viveri non terminarono che il 21,
soltanto in questo giorno la guarnigione francese uscì di Siena, e
vi entrarono gl'imperiali186.
La riserva stipulata a favore de' Sienesi che volessero
emigrare, non era una inutile precauzione. Moltissimi illustri
cittadini, non pochi de' quali avevano mostrato grandissimo zelo
per la libertà della loro patria, uscirono di Siena colla guarnigione
francese, il 21 di aprile, e si ritirarono a Montalcino, piccola città
posta sopra una montagna a poca distanza dalla strada che
185
Gio. Batt. Adriani, l. XII, p. 488. - Lettera del mar. di Marignano alla
signoria di Siena. Letter. de' Princ., t. III, f. 158.
186
Gio. Batt. Adriani, l. XII, p. 864. - Malavolti, p. III, l. X, f. 166. La sua
storia finisce con questa capitolazione. - Bern. Segni, l. XIV, p. 380. - Blaise de
Montluc, l. III, p. 266, 279. - J. Aug. de Thou, l. XV, p. 314.
conduce da Siena a Roma; colà essi mantennero l'ombra della
repubblica Sienese fino alla pace di Cateau Cambresis, del 3
aprile 1559, che gli assogettò alla sorte dell'intera Toscana187.
Rispetto alla metropoli, non venne eseguito verun articolo
della capitolazione; e la violazione di questo sacro patto non fu
meno impudente di quella della capitolazione di Firenze. Perciò,
Cosimo I, che aveva conquistata Siena a sue spese e colle sue
armi, non ne ottenne subito il possesso. Filippo II, a favore del
quale Carlo V aveva abdicata la corona, voleva conservare questo
stato per meglio assicurare il suo alto dominio sopra la Toscana.
La guerra accesa dall'ambizione di Paolo IV e dei Caraffa, di lui
nipoti, gli fece porre in disamina se dovesse loro cedere lo stato
di Siena in compenso di que' paesi cui essi aspiravano.
Finalmente Filippo trovò più utile di valersene per acquistare la
cooperazione del duca di Firenze. Con un trattato, conchiuso in
luglio del 1557, acconsentì di cedere lo stato di Siena a Cosimo I,
il quale ne prese possesso il 19 di luglio, come di una provincia
suddita. Ad ogni modo Filippo riservò alla monarchia spagnuola i
porti di questa repubblica, cioè Orbitello, Porto Ercole,
Telamone, Monte Argentaro, e Porto santo Stefano. Dopo
quest'epoca quella piccola provincia formò lo stato detto de'
Presidj; la separazione di questa dal rimanente della Toscana
privò lo stato di Siena dell'antica sua comunicazione col mare e
del suo commercio, e contribuì a perpetuare quello spaventoso
stato di desolazione, cui trovasi ridotta la Maremma Sienese188.
187
Gio. Batt. Adriani, l. XVI, p. 1107-1122. - Bernardo Segni, essendo morto il
13 aprile del 1558, lasciò la sua storia interrotta nel XV.° libro, nel quale
racconta la guerra di Cosimo contro i Sienesi di Montalcino. - J. Aug. de Thou,
l. XXII, p. 661, 665, t. II.
188
Gio. Batt. Adriani, l. XIV, p. 1000-1015. - Il duca prese possesso di Siena il
19 di luglio del 1557. - Lettere de' Principi, t. III, f. 165 e segu. Tra le altre una
Memoria di Pietro Strozzi intorno alla difesa di Siena, p. 177, 180. - Hist. de J.
Aug. de Thou, t. II, l. XV, p. 343, l. XVIII, p. 471.
CAPITOLO CXXIII.
Rivoluzioni di diversi stati d'Italia, dopo la perdita
dell'indipendenza italiana, fino alla fine del sedicesimo secolo.
1531=1600.
La storia d'Italia nel sedicesimo secolo dividesi in tre epoche,
ognuna delle quali offre un assai diverso carattere. La prima si
stende dal principio del secolo fino alla pace di Cambrai,
dell'anno 1529. Fu questo un periodo di continue guerre e di
desolazione, durante il quale la potenza della Francia e quella
della casa d'Austria parvero bastantemente equilibrate, perchè i
popoli d'Italia non potessero prevedere quale sarebbe la
trionfante. Essi attaccaronsi alternativamente all'una ed all'altra;
sperarono mantenere fra le medesime la loro indipendenza, e non
si avvidero che gl'Italiani avevano cessato di esistere come
nazione soltanto nell'istante in cui Francesco I li sagrificò col
trattato delle dame sottoscritto da sua madre.
Il secondo periodo comincia alla pace di Cambrai, del 5 agosto
1529, e termina con quella di Cateau-Cambresis del 3 aprile
1559. Con questa Enrico II e Filippo II posero fine alla lunga
rivalità delle loro due case, e le riunirono col matrimonio di
Filippo con Elisabetta di Francia. Questo periodo di trent'anni
venne insanguinato quasi con altrettante guerre che il precedente,
e sempre tra gli stessi rivali. Ma queste guerre più non si
presentavano agl'Italiani sotto lo stesso aspetto, e più in loro non
risvegliavano le medesime speranze. Tutti i diversi loro stati o
erano caduti sotto l'immediato dominio di casa d'Austria, o
avevano riconosciuta la di lei protezione con trattati che loro non
lasciavano veruna indipendenza. Se in questo spazio di tempo
alcuni di loro si staccarono momentaneamente da quest'alleanza,
che si era loro imposta, vennero piuttosto trattati come ribelli che
come nemici pubblici. La Francia, non isperando di trovare fra di
loro degli alleati, invece di guadagnarseli colle ricompense,
sforzavasi di distruggere le loro ricchezze, persuasa che tutti i
loro soldati e tutti i loro tesori sarebbero sempre a disposizione
dal suo costante nemico. Fece perciò alleanza contro di loro coi
Turchi e coi Barbareschi, ed abbandonò le coste dell'Italia ai
guasti dei Musulmani.
I trentanove anni che decorsero dopo la pace di CateauCambresis fino a quella di Vervins, sottoscritta il 2 di maggio del
1598, da Enrico IV, Filippo II ed il duca di Savoja, dovrebbero,
paragonati ai due primi periodi, considerarsi come un tempo di
profonda pace; imperciocchè in tutto questo tempo le province
d'Italia non furono attaccate da veruna armata straniera; e gli stati
italiani, contenuti dalla coscienza della propria debolezza,
giammai fra di loro non si abbandonarono a lunghe ostilità. Per
altro l'Italia non gustò in questa sgraziata epoca i vantaggi della
pace. La Francia, lacerata da civili guerre, più non aveva peso
nella bilancia politica dell'Europa, mentre che il feroce Filippo II,
sovrano d'una gran parte d'Italia, e che quasi comandava
egualmente ai suoi alleati come a' suoi sudditi, aveva determinato
di schiacciare il partito protestante ne' Paesi bassi, in Francia ed
in Germania. Durante tutto il suo regno, Filippo non cessò di
combattere gli Olandesi ed i Calvinisti della Francia, e di dare
ajuto agli imperatori suoi alleati, Ferdinando suo zio,
Massimiliano II e Rodolfo II, che tutti parimenti furono di
continuo impegnati nelle guerre coi protestanti di Germania, e coi
Turchi. Gl'Italiani militarono continuamente in tutto questo
periodo ne' lontani paesi in cui Filippo portava la guerra. I loro
generali come i loro soldati rivalizzarono di gloria, d'ingegno e di
coraggio colle vecchie bande spagnuole, delle quali parevano
avere adottato il carattere. In tal guisa la nazione andò
ricuperando la sua virtù militare in servigio degli stranieri; e se
l'avesse in seguito adoperata in difesa della patria, forse non
l'avrebbe pagata troppo cara con tutto il sangue ch'ella versò; ma
continuò sempre a servire, finchè nuovamente perdette l'abitudine
del combattere.
La più grande disgrazia, inseparabile da questo stato abituale
di guerra straniera, fu la continuazione del regime militare, la
dimora o il passaggio delle truppe spagnuole nelle diverse
province italiane, e più di tutto le insopportabili imposte colle
quali la corte di Madrid opprimeva i popoli. L'ignoranza de'
ministri spagnuoli, che non conoscevano verun principio di
economia politica, era ancora più funesto che la loro rapacità, e le
loro dilapidazioni. Essi mai non inventarono un'imposta che non
sembrasse destinata a schiacciare l'industria ed a ruinare
l'agricoltura. Le manifatture andavano in decadimento,
scompariva il commercio, le campagne si disertavano, e gli
abitanti, ridotti alla disperazione, erano in ultimo costretti ad
abbracciare, come una professione, l'assassinio. Capi distinti pei
loro natali e pei loro talenti si posero alla testa di compagnie
d'assassini, che formaronsi in sul declinare del secolo nel regno di
Napoli e nello stato della Chiesa; e la guerra dei malandrini pose
più volte in pericolo la stessa sovrana autorità. In questo tempo le
province restavano senza soldati, le coste senza vascelli da
guerra, le fortezze senza guarnigione. Nulla opponevasi ai guasti
dei Barbareschi, che, non contenti delle prede che potevano far
sul mare, eseguivano sbarchi alternativamente su tutte le coste, e
strascinavano in ischiavitù tutti gli abitanti. Tutte le atrocità con
cui la tratta dei Negri afflisse l'Africa negli ultimi due secoli,
vennero nel sedicesimo praticate dai Musulmani in Italia. Questi
avidi mercanti di schiavi mantenevano egualmente dei traditori
sulle coste per avvisarli e dar loro nelle mani gli sventurati
Italiani; egualmente veniva sempre offerta una mercede al delitto,
e l'estrema sventura pendeva sempre sul capo della famiglia che
credeva poter riporre la sua fiducia nella propria innocenza ed
oscurità. Tali erano le calamità, sotto il peso delle quali, in sul
finire del sedicesimo secolo, l'Italia piangeva la perdita della sua
indipendenza.
Abbiamo negli ultimi volumi esposti circostanziatamente tutti
gli avvenimenti del primo dei tre periodi ne' quali si è diviso il
sedicesimo secolo. Abbiamo altresì nel precedente capitolo
raccolti alcuni de' fatti spettanti, per ciò che risguarda il tempo, al
secondo periodo, sebbene sembrino avere tuttavia alcuno dei
caratteri del primo; e questi sono l'estrema lotta sostenuta in
Toscana per la libertà, e gli sforzi de' Sienesi per respingere il
giogo che loro voleva imporre Carlo V. Oramai più non ci resta
che di dare un'idea degli avvenimenti che nello stesso tempo o nel
susseguente periodo mutarono le relazioni tra gli stati d'Italia,
influirono nella sorte de' popoli, o ne alterarono il carattere
nazionale. Per farlo terremo dietro ad uno ad uno ai governi tra i
quali trovavasi divisa l'Italia, e daremo compendiosamente un
cenno delle loro rivoluzioni.
Gli stati della casa di Savoja, i primi che i Francesi
scontravano sul loro cammino entrando in Italia, eransi sottratti ai
guasti delle prime guerre del secolo. Le relazioni di parentela del
duca Carlo III coi due capi delle case rivali aveva al certo
contribuito ad ispirar loro de' riguardi per lui. Questa stessa
parentela fu poi cagione dell'invasione del Piemonte, quando del
1535 si rinnovò la guerra tra Francesco I e Carlo V. Il duca di
Savoja aveva sposata Beatrice di Portogallo, sorella
dell'imperatrice, e si era lasciato da lei strascinare in una
confederazione colla casa d'Austria. Francesco, per vendicarsene,
riclamò una parte della Savoja come eredità di sua madre Luigia,
sorella del duca regnante; e sotto questo pretesto la maggior parte
della Savoja e del Piemonte fu invasa dai Francesi; mentre dal
canto loro gl'imperiali posero guarnigione nelle poche città che
poterono sottrarre agli attacchi de' loro nemici. Per lo spazio di
ventott'otto anni il Piemonte fu il principale teatro della guerra tra
i re di Francia e di Spagna. Quando Carlo III morì a Vercelli, il
16 agosto del 1553, trovavasi spogliato di quasi tutti i suoi stati,
non meno dai suoi amici che dai suoi nemici; e sebbene suo
figlio, Emmanuele Filiberto, si fosse di già acquistato nome di
valoroso generale al servigio dell'imperatore, e che continuasse
nelle guerre di Fiandra a coprirsi di gloria, non trovò
riconoscenza ne' principi pei quali aveva combattuto. La pace di
Cateau-Cambresis, che in certo qual modo fu dettata da Filippo II
alla Francia, non assicurò gl'interessi d'Emmanuele, avendo essa
pace lasciati nelle mani del re francese, Torino, Chiari, Civasco,
Pignerolo e Villanuova d'Asti coi loro territorj, e nelle mani del re
di Spagna Vercelli ed Asti. Soltanto le guerre civili della Francia
persuasero Carlo IX a restituire nel 1562 al duca di Savoja le città
che tuttavia occupava in Piemonte189.
Di quest'epoca soltanto la casa di Savoja fu veduta innalzarsi
in Italia quanto gli altri stati erano decaduti. Emmanuele
Filiberto, e suo figlio Carlo Emmanuele, che gli successe nel
1580, non avevano più che temere dalla Francia, in allora lacerata
dalle guerre di religione. Anzi l'ultimo per lo contrario fece delle
conquiste e contese al maresciallo di Lesdiguieres il
possedimento della Provenza e del Delfinato. Filippo II, che
cominciava a veder declinare la sua potenza, sentì la necessità di
accarezzare un principe bellicoso, che copriva i confini dell'Italia;
ed il duca di Savoja era il solo tra gli alleati della Spagna, che
avesse meno cagioni di lagnarsi dell'insolenza de' vicerè e dei
generali di Filippo. Quand'ebbero fine le guerre di religione, il
duca di Savoja venne vantaggiosamente compreso nella pace di
Vervins del 2 di maggio del 1598. Gli restava tuttavia una
vertenza con Enrico IV rispetto al possedimento del marchesato
di Saluzzo. In tempo delle guerre d'Italia questi marchesi si erano
attaccati alla corte di Francia, che gli aveva colmati di favori: essi
avevano richiamate in vita alcune antiche carte, in forza delle
quali si riconoscevano feudatarj dei Delfini del Viennese. La loro
famiglia dopo essere stata divisa da alcune guerre civili, nelle
189
Guichenon, Hist. général de la maison de Savoie, t. II, p. 256. - Mém. de M.
du Bellay, l. IV, p. 296; l. V e seg. - Hist. de la Diplomatie française, t. II, l. IV,
p. 46. - De Thou Hist. génér., t. III, l. XXXI, p. 251. - Muratori Annali d'Italia
ad ann.
quali s'immischiò Francesco I, si spense nel 1548, e la Francia
occupò il marchesato di Saluzzo che gli apriva la porta dell'Italia.
Dall'altro canto il duca di Savoja approfittò delle guerre civili
della Francia per andare al possedimento dello stesso feudo
nell'anno 1588190. I due trattati del 27 di febbrajo 1600, e del 17
gennajo 1601, terminarono queste vertenze tra la Savoja e la
Francia, cui tutta l'Italia dava la più grande importanza. Enrico IV
accettò la Bresse invece del marchesato di Saluzzo, e con questa
transazione egli escluse affatto sè medesimo dall'Italia privando
così gli stati di questa contrada della speranza che quel re andava
fomentando di ristabilire un giorno la loro indipendenza191.
In questo secolo aveva la casa d'Austria estesa la sua sovranità
sopra quattro de' più potenti stati d'Italia, il ducato di Milano, il
regno di Napoli, il regno di Sicilia e quello di Sardegna. Il duca di
Milano, Francesco II, ultimo erede della casa Sforza, era morto il
24 ottobre del 1535, dopo aver fatto un inutile esperimento per
iscuotere il giogo di Carlo V, che parevagli insopportabile. Egli
aveva intavolati col re di Francia pericolosi trattati, ed aveva
ottenuto che un ambasciatore di quella corona fosse mandato alla
sua corte con una segreta missione; poi tutt'ad un tratto,
spaventato dalla collera di Carlo V, aveva fatto decapitare
quest'inviato, chiamato Maraviglia, o Merveilles, in occasione di
una disputa intentatagli da lui medesimo192. Questa fu la cagione
principale del rinnovamento della guerra tra la Francia e l'impero,
nel 1535; e si pretende che la paura delle vendette del re
affrettasse la morte del duca.
Il possedimento del Milanese, quando si spense la famiglia
Sforza, non era stato definitivamente regolato nel trattato di
Cambrai, e Carlo V, avanti di ricominciare la guerra, lusingò
alcun tempo Francesco I, intraprendendo una negoziazione
190
Enrico Cather. Davila delle guerre civili di Francia, l. IX, p. 526. Guichenon Hist. gén., t. II, p. 287.
191
Ivi, p. 352 e seg. - Hist. de la Diplomatie française, t. II, p. 197 - Hist. univ.
J. Aug. de Thou, t. IX, l. CXXIII, p. 325 e l. CXXV, p. 413.
192
Mém. de mess. Martin du Bellay, l. IV, p. 235.
tendente ad infeudare il Milanese al secondo o terzo figliuolo del
monarca francese. Nello stesso tempo fece avanzare le sue
armate, ed approvvigionò le sue fortezze; e perciò quando
scoppiarono le ostilità, i Francesi mai non riuscirono a
sottomettere le piazze più importanti del ducato, ed i loro
vantaggi si limitarono al guasto de' paesi confinanti.
I Milanesi non potevano in verun modo, sotto
l'amministrazione spagnuola, rialzarsi dai disastri sofferti nelle
precedenti guerre. Assurde imposte ne avevano ruinate le
manifatture ed il commercio; e se le leggi non riuscirono ad
isterilire quelle ricche campagne, rendettero almeno miserabili
coloro che le coltivavano. Il governo volle inoltre aggravare
l'odioso giogo che portavano i Milanesi collo stabilimento
dell'inquisizione spagnuola. Quella dell'Italia che da molto tempo
era di già stabilita in Milano, non soddisfaceva del tutto il feroce
fanatismo, o la politica di Filippo II. Il duca di Sessa, governatore
di Milano, annunciò nel 1563 questa reale determinazione alla
nobiltà ed al popolo; ma eccitò cotale proposizione una così
violenta fermentazione, ed i Milanesi parvero così determinati ad
opporsi armata mano allo stabilimento di questo sanguinario
tribunale, che il governatore persuase Filippo a rinunciare a
questo suo divisamento193.
Il regno di Napoli trovavasi da molto più tempo che non il
Milanese sotto il dominio spagnuolo. Era stato invaso in sul finire
del precedente secolo da Carlo VIII, e ne' primi anni del
sedicesimo da Luigi XII; ma durante il bellicoso regno di
Francesco I le armate francesi non vi furono che
momentaneamente sotto il signore di Lautrec, e durante il regno
di Enrico II, figlio di Francesco, e la spedizione del duca di
Guisa, nel 1557, sebbene concertata con papa Paolo IV, non
penetrò al di là dei confini degli Abruzzi. Questa provò che il
193
Pallavicino Storia del Concilio di Trento, l. XXII, c. VIII, t. V, p. 215, ediz.
di Faenza del 1796 in 4.° - De Thou Hist., l. XXXVI, p. 471. - Greg. Leti Vita
di Filippo II. l. XVII, t. I, p. 405.
partito angioino non era del tutto spento in quelle province; ma
non pose un solo istante in pericolo la monarchia austriaca in
Napoli.
D'altra parte il regno di Napoli fu lasciato quasi senza difesa ai
saccheggi de' Turchi e delle potenze barbaresche, che, durante
questo stesso secolo, sollevaronsi ad una grandezza fin allora
senza esempio. Horuc ed Ariadeno Barbarossa (Aroudi e KhairEddyn) figliuoli di un corsaro rinegato di Metelino, dopo avere
acquistato nome colla loro audacia come pirati, pervennero ad
avere il comando delle flotte di Solimano, ed a salire sui troni di
Algeri e di Tunisi194. Il mestiere di corsaro, ch'era stato il primo
grado della loro grandezza, fu sempre d'allora in poi la scuola de'
loro soldati e dei loro marinai, e la sorgente principale delle loro
ricchezze. Dal 1518 al 1546, epoca del regno del secondo
Barbarossa, si videro flotte di cento e di cento cinquanta vele
armate pel solo oggetto di guastare le coste, di rapirne gli abitanti
e venderli come schiavi. Il regno di Napoli, che presentava una
lunga linea di littorali senza difesa, i di cui abitanti avevano sotto
un giogo oppressivo perduto tutto il coraggio e lo spirito militare,
e le di cui leggi cacciavano fuori della società numerose partite di
banditi, di contrabbandieri, di facinorosi, sempre apparecchiati a
servire al nemico in ogni impresa, fu più che tutto il rimanente
dell'Italia esposto ai guasti dei Barbareschi. Nel 1534 tutto il
paese che stendesi da Napoli a Terracina fu saccheggiato, e gli
abitanti fatti schiavi. Nel 1536, la Calabria e la Terra d'Otranto
provarono la stessa sorte; nel 1537 furono pure ruinate la Puglia e
le adiacenze di Barletta; nel 1543 fu bruciato Reggio di Calabria,
e fino alla fine del secolo pochissimi anni passarono senza che i
Barbareschi, sotto il comando di Dragut Rayz dopo la morte del
Barbarossa, poi di Piali e di Ulucciali, re di Algeri, non
194
P. Jovii Hist., l. XXVII, p. 98 ed altrove. - Bern. Segni, l. III, p. 90, l. VI, p.
166.
predassero e riducessero in servitù gli abitanti di molti villaggi, e
talvolta di parecchie città195.
Mentre che le province napolitane stavano in continuo timore
di essere saccheggiate dai Barbareschi e dai malandrini; mentre
ognuno doveva ad ogni istante tremare di vedersi rapiti i suoi
beni, la moglie ed i figli, o di essere tratto egli medesimo in
ischiavitù, l'amministrazione spagnuola affliggeva la capitale con
un altro genere di calamità. Don Pedro di Toledo, che fu vicerè di
Napoli quattordici anni, e che diede il proprio nome alla più bella
strada di quella città, da lui aperta verso il 1540196, fu in certo qual
modo l'istitutore della amministrazione spagnuola a Napoli; ed i
suoi successori non fecero che seguire le sue pedate. Fu il Toledo,
che, riservando allo stato il monopolio del commercio dei grani,
espose la capitale a frequenti carestie, e la ridusse a non avere,
negli anni più abbondanti, che un pane di qualità inferiore a
quello che negli anni di sterilità mangiavano i poveri quand'era
libero il commercio197. Egli fu che diede origine a quell'odio che
costantemente si mantenne inappresso, e che spesse volte scoppiò
in battaglie sanguinose tra la guarnigione spagnuola ed i soldati
della città. Egli fu che, geloso della nobiltà napolitana, la rese
sospetta all'imperatore, e l'oppresse di mortificazioni che spinsero
varj suoi capi alla ribellione. Per ultimo fu il Toledo che in aprile
del 1547 volle stabilire l'inquisizione a Napoli; ma trovò nel
popolo e nella nobiltà una resistenza, che credeva non doversi
aspettare nè dallo stato d'oppressione cui era ridotta la nazione, nè
dal di lui fanatismo religioso. I Napolitani risguardarono lo
stabilimento dell'inquisizione presso di loro, come ingiurioso
all'onore dell'intera nazione, quasi ch'ella fosse colpevole di
eresia o di giudaismo: altronde essi sapevano che quest'odioso
195
P. Jovii Hist., l. XLIII, p. 533 ec. - Summonte Istoria di Napoli, t. VIII, c. II,
t. IV, p. 146. - Giannone Ist. civ., t. IV, l. XXXII, c. VI, p. 166.
196
Summonte Ist. della città e regno di Napoli, l. IX, c. I, t. IV, p. 173. Giannone Ist. civ. del regno di Napoli, l. XXXII, c. III, t. IV, p. 87.
197
Summonte Ist. di Napoli, l. IX, c. I, p. 173. - Giannone Ist. civ., l. XXXII, c.
II, p. 84. - Bern. Segni, l. XIII, p. 346.
tribunale era un cieco istrumento nelle mani del despota, per
ischiacciare e ruinare ingiustamente tutti coloro che gli si
rendevano sospetti. Tutta la città impugnò le armi; si sparse
alternativamente il sangue de' Napolitani e degli Spagnuoli; il
Toledo e Carlo V dovettero all'ultimo rinunciare al progetto
dell'inquisizione; ma quasi tutti coloro che si erano dichiarati
protettori della causa del popolo, ed avevano ardito di opporsi ai
voleri della corte, furono in appresso sagrificati198.
Il regno di Sicilia, che dopo i vesperi siciliani era unito alla
monarchia arragonese, ed il regno di Sardegna, aggiunto alla
stessa monarchia verso la metà del quattordicesimo secolo, dopo
tale epoca più non avevano avuta influenza sulla politica d'Italia
che per dare ajuto a coloro che dovevano opprimere
l'indipendenza nazionale. Nel sedicesimo secolo i popoli di
queste due isole, trovandosi sudditi dello stesso governo che
possedeva la maggior parte del continente, ricominciarono a
risovvenirsi di essere italiani, ma soltanto per soffrire e gemere
insieme ai loro compatriotti. L'amministrazione spagnuola aveva
di già fatte retrocedere le due isole verso la barbarie; aveva
spogliate le città del commercio e delle manifatture; aveva
lasciate le campagne in balìa de' banditi e de' contrabbandieri, ed
abbandonate le coste ai guasti de' corsari barbareschi. Nel 1565 la
Sicilia si trovò esposta ad essere miseramente invasa dalla flotta
ottomana, che Solimano aveva spedita per conquistarla; ma,
contro i consiglj del pascià Maometto, comandante della
spedizione, volle il sultano che prima di scendere sulle coste della
Sicilia si assediasse Malta. Questa imprudente risoluzione salvò
la Sicilia, che il vicerè, Garzia di Toledo, non avrebbe potuto
difendere. Tutta la potenza dei Turchi andò a rompersi contro
l'eroica resistenza del gran maestro La Valette e de' suoi cavalieri.
198
Summonte Ist. di Napoli, l. IX, c. I, p. 178-210. - Pallavicini Ist. del Concil.
di Trento, l. X, c. I, t. III, p. 82. - Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 402 e seg. Giannone Ist. civile, l. XXXII, c. V, p. 107. - Fr. Paolo Ist. del Concil. di
Trento, l. III, p. 279. - De Thou, Hist. univers., l. III, p. 220.
Dragut Rayz, re di Tripoli, vi fu ucciso il 21 di giugno del 1565.
Hassem, figliuolo di Barbarossa, re d'Algeri, ed i pascià Piali e
Mustafà furono respinti; e l'armata, dopo quattro mesi di
battaglie, fu costretta a ritirarsi in disordine dall'assedio199.
Le guerre, che ne' primi anni del secolo avevano precipitata
l'Italia nella schiavitù, erano state quasi tutte accese
dall'ambizione o dalla politica dei papi Alessandro VI, Giulio II,
Leon X e Clemente VII. L'ultimo, dopo essere stato crudelmente
punito delle sue pratiche, si era non pertanto alla conclusione
della pace trovato sovrano di più vaste province, quali la Chiesa
non mai aveva riunite sotto il suo governo. Vero è che tali
province erano ridotte in povertà e spopolate da trent'anni di
guerre, e più che dalle guerre dalla ferocia de' vincitori spagnuoli;
ma la cieca pietà dei Cattolici portava tuttavia alla santa sede ogni
anno ricchi tributi; il nome del papa era sempre temuto: desso
pareva rendere più formidabili le leghe cui prendeva parte; e
passò alcun tempo prima che i successori di Clemente VII si
accorgessero, che, sebbene il trattato di Barcellona avesse loro
rendute tutte le province che questo pontefice aveva perdute, non
avevano però colle province ricuperata l'indipendenza.
Clemente VII ebbe per successore Alessandro Farnese, decano
del sacro collegio, il quale, eletto il 12 di ottobre del 1534, prese
il nome di Paolo III. Non meno ambizioso che Clemente VII, egli
ebbe la stessa passione di dare alla sua famiglia il grado di casa
sovrana. Questa famiglia, che possedeva il castello di Farneto nel
territorio d'Orvieto, aveva nel quattordicesimo secolo dati alla
milizia alcuni distinti condottieri. Ma Paolo III le diede un nuovo
lustro, accumulando tutti gli onori di cui poteva disporre sul capo
di suo figlio naturale Pier Luigi, e dei figli di questi. Nel 1537
cominciò ad erigere in ducato le città di Nepi e di Castro in favore
di Pier Luigi Farnese; e la seconda di queste città, situata nelle
199
Summonte Ist. di Napoli, l. X, c. V, p. 343-348. - Gio. Batt. Adriani, l. XVIII,
p. 1303, 1329. - De Thou, l. XXXVIII, p. 564 e seg. - Gregorio Leti Vita di
Filippo II, l. XVIII, p. 442.
Maremme toscane, diventò poi l'appannaggio d'Orazio, il secondo
de' nipoti pontificj. Pier Luigi, nominato nello stesso tempo
gonfaloniere della Chiesa, segnò lo stesso anno in cui ricevette i
primi feudi della camera apostolica, con uno scandaloso eccesso
commesso contro il giovane vescovo di Fano, prelato non meno
commendevole per la sua santità che per la sua avvenenza. Il
tiranno, che assoggettò quest'uomo ad un'indegna violenza, con sì
enorme delitto non tanto provava le abituali sue dissolutezze,
quanto il desiderio di offendere la pubblica morale e la religione,
di cui suo padre era sommo sacerdote200.
Paolo III non ristringeva le sue viste ai piccoli ducati dati al
figliuolo; egli sentiva che per istabilire la grandezza di casa
Farnese conveniva porre a prezzo l'alleanza della santa sede, e
trovò i due rivali, che si contendevano il dominio dell'Europa,
disposti a dare lo stesso prezzo che avevano di già pagato a
Clemente VII. Carlo V, per guadagnarsi l'amicizia del papa,
accordò nel 1538 sua figlia Margarita d'Austria, vedova di
Alessandro de' Medici, ad Ottavio Farnese, nipote di Paolo III,
creandolo in pari tempo marchese di Novara. Inoltre il papa
acquistò per lui nel susseguente anno il ducato di Camerino 201.
D'altra banda Paolo III ottenne nel 1547 per Orazio, duca di
Castro, suo secondo nipote, una figlia naturale di Enrico II.
Ma sebbene Paolo III facesse a vicenda sperare all'imperatore
ed al re di Francia di unire le sue alle loro armate, seppe fino alla
fine del suo pontificato sottrarsi a qualunque impegno di guerra.
Per lo contrario cercò più volte di mettere pace fra i due rivali.
Vero è che nello stesso tempo mirava a raccogliere per sè
medesimo grandi vantaggi; perciocchè, ammettendo sì l'uno che
l'altro essere conveniente al riposo dell'Europa che l'eredità dello
Sforza passasse in una nuova famiglia di feudatarj, Paolo III
200
Ben. Varchi, l. XVI, t. V, p. 389. - Bern. Segni, l. IX, p. 238; l. XI, p. 304. Belcarius Rer. Gallicar. - J. Aug. de Thou, Hist. univers., l. IV, p. 286. - Jo.
Sleidani Comment., l. XXI, p. 376.
201
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 98. - Bern. Segni, l. IX, p. 237.
chiedeva il ducato di Milano per suo figlio Pier Luigi, ed offriva
ai due sovrani per tale concessione ricche ricompense202.
Per altro Paolo III non tardò ad avvedersi che il riposo
dell'Europa non era il primo oggetto cui mirassero i due
monarchi, e che non pensavano a dare il ducato di Milano ad un
terzo, che perchè perdevano203 la speranza di conservarlo per sè
medesimi. Carlo V essendosi all'ultimo appropriato questo
ducato, Paolo si ristrinse a formare uno stato a suo figlio a spese
di quello della Chiesa. Finalmente in agosto del 1545 ottenne
l'assenso del sacro collegio per accordare a Pier Luigi Farnese gli
stati di Parma e di Piacenza, col titolo di ducato dipendente dalla
santa sede. In contraccambio il nipote del papa rinunciò ai due
ducati di Nepi e di Camerino, che vennero riuniti alla camera
apostolica; ed i cardinali, comperati con ricchi beneficj,
credettero, o finsero di credere che tornava più vantaggioso alla
santa sede la nuova incorporazione di queste piccole due
province, che si trovavano nel centro de' stati pontificj, anzi che
la conservazione di due altre, veramente più grandi, ma rispetto
alle quali erano tuttavia dubbiosi i diritti della Chiesa, e che più
non avevano veruna comunicazione coll'altro suo territorio204.
Tale principio ebbero i ducati di Parma e di Piacenza, e la
nuova grandezza di casa Farnese. Questa si collocò tra le case
sovrane quasi nello stesso tempo che quella dei Medici; e la
rivalità di queste due case, che si spensero nello stesso tempo, si
tenne viva due secoli. Entrambe queste case scosse nella loro
origine dall'odio de' loro sudditi e dalla violenta morte del
fondatore della loro dinastia, non parevano destinate a durare
lungo tempo. Pier Luigi Farnese aveva appena regnato due anni,
quando fu assassinato il 10 settembre del 1547 dai nobili di
Piacenza, ai quali erasi renduto esoso colle disolutezze,
202
Gio. Battista Adriani, l. II, p. 89. - P. Jovii Hist., l. XLIII, p. 534.
Nell'originale "perdevao". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
204
Gio. Batt. Adriani, l. V, p. 305-311. - Bern. Segni, l. XI, p. 302. - Pallavicini
Ist. del Concil. di Trento, l. V, c. XIV, t. II, p. 62. - Fra Paolo Ist. del Con. di
Trento, l. II, p. 125.
203
coll'avarizia e colle crudeltà sue. Don Ferdinando Gonzaga,
governatore del Milanese a nome dell'imperatore aveva tenuto
mano a questa congiura, ed occupò subito Piacenza in nome del
suo padrone205. Paolo III, non dubitando che non venisse bentosto
attaccata anche Parma, la riunì nuovamente agli stati della Chiesa,
per dare maggior peso ai diritti della santa sede sopra questa città.
Egli offrì in contraccambio ad Ottavio lontane speranze, che
questi non osava lusingarsi di vedere ridotte ad effetto a cagione
della decrepita vecchiaja di suo avo. Resistè finchè gli fu
possibile al volere del papa, ma finalmente dovette cedere.
Ferdinando Gonzaga erasi impadronito de' luoghi più forti del
circondario di Parma e teneva la città quasi bloccata; nello stesso
tempo l'imperatore domandava imperiosamente al papa che gli
fosse restituita Parma, siccome parte del ducato di Milano. Il
vecchio pontefice cercava di far valere i diritti della santa sede
con Memorie e con Manifesti; ma egli si andava sempre più
indebolendo: la contesa mantenevasi già da due anni, e le
speranze d'Ottavio Farnese diminuivano ogni giorno. Finalmente,
supponendo di non avere più tempo da perdere, egli si recò in
poste a Parma, e tentò di occuparla di nuovo. I comandanti della
città e del castello non vollero ubbidirgli; e Paolo III, avvisato di
quest'intrapresa e delle offerte di accomodamento fatte da Ottavio
a don Gonzaga, ne concepì tanto dolore, che ne morì dopo quattro
giorni il 10 novembre del 1549 in età di ottantadue anni206.
Sarebbesi dovuto credere che la casa Farnese più non avrebbe
potuto rialzarsi da tante calamità. Ottavio era stato spogliato della
metà de' suoi stati dall'imperatore suo suocero, e dell'altra metà
dal papa suo avo. Più non aveva nè tesori, nè armate, nè fortezze,
e pareva ridotto a non avere più speranze, siccome più non aveva
nè forze proprie, nè alleati. Ma Paolo terzo nel suo lungo
205
Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 414-420. - Ber. Segni, l. XII, p. 319. - Fra Paolo
Conc. di Trento, l. III, p. 281. - De Thou Hist. univ., l. IV, p. 283, t. I.
206
Gio. Batt. Adriani, l. VII, p. 479-482. - B. Segni, l. XII, p. 322. - Pallavicini,
l. XI, c. VI, t. III, p. 154. - Jo. Sleidani, Comment., l. XXI, p. 375. - De Thou, l.
VI, p. 512.
pontificato aveva creati più di settanta cardinali. Sedevano tra gli
altri nel sacro collegio due suoi nipoti, i quali ebbero bastante
influenza e destrezza per far cadere l'elezione, il 22 di febbrajo
del 1550, sopra il cardinale del Monte, creatura del loro avo, che
assunse il nome di Giulio III. Questi, due giorni dopo la sua
elezione, ordinò che Parma colla sua fortezza si restituisse ad
Ottavio Farnese; confermò l'investitura del ducato di Castro ad
Orazio Farnese di lui fratello; lasciò ad ambidue le importanti
cariche di prefetto di Roma e di gonfaloniere della Chiesa, ed in
fine fece
per quella casa ciò che Paolo III con tutta la sua ambizione non
aveva potuto fare207.
Ma non per questo poteva credersi assicurata la sorte del duca
di Parma: l'imperatore pareva avere dimenticato d'averlo egli
stesso scelto per suo genero, e pretendeva di spogliarlo del
restante de' suoi stati. Lo ridusse con ciò a gettarsi nelle braccia
del re di Francia, a nome del quale Ottavio Farnese fece la guerra
dal 27 di maggio del 1551 fino al 29 d'aprile del 1552, ed al
servigio del quale Orazio, duca di Castro, fratello di Ottavio,
militò fino al 18 di luglio del 1553, ch'egli fu ucciso in Hesdin
mentre difendeva questa città contro gl'imperiali 208. Ma Piacenza
non fu restituita al duca Ottavio che il 15 settembre del 1556 da
Filippo II, il quale, spaventato dall'invasione del duca di Guisa in
Italia, volle procurarsi l'alleanza del Farnese209. Ad ogni modo
Filippo conservò una guarnigione nella rocca di quella città, che
restituì soltanto trent'anni più tardi, nel 1585, in segno di
riconoscenza per gli eminenti servigi prestatigli da Alessandro
Farnese, figlio d'Ottavio e principe di Parma.
Ottavio andò in parte debitore alla lunga sua vita dello
stabilimento della sua sovranità, ch'egli lasciò ai suoi discendenti.
207
Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 495. - Bern. Segni, l. XII, p. 324. - Pallavicini,
l. XI, c. VII, t. III, p. 156. - De Thou, l. VI, p. 521.
208
Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 524 e seg.
209
Ivi, l. XIV, p. 947. - J. Aug. de Thou Hist. univers., l. XVII, p. 407.
Morì il 18 settembre del 1586; e suo figlio Alessandro, che da
lungo tempo mieteva allori alla testa delle armate spagnuole in
Fiandra, non governò giammai personalmente gli stati da lui
renduti illustri. Egli ancora guerreggiava ne' Paesi Bassi, quando
morì in Arras il 2 dicembre del 1592, lasciando suo figlio
Rannuccio solidamente stabilito nei due ducati di Parma e di
Piacenza sotto la duplice protezione della Chiesa e del re di
Spagna210.
Paolo III fu l'ultimo di quegli ambiziosi pontefici che
smembrarono il dominio della Chiesa per dare stato alla loro
famiglia. Giulio III, che gli successe il 9 febbrajo del 1549,
credette di non avere ottenuta la tiara che per abbandonarsi senza
ritegno alla pompa ed ai piaceri. Egli soltanto ottenne da Cosimo
de' Medici Monte Sansovino sua patria, nel territorio d'Arezzo;
eresse quella terra in contea, a favore di suo fratello Baldovino
del Monte, e diede a questo stesso fratello il ducato di Camerino,
dal Farnese restituito alla camera apostolica. Del resto parve che a
null'altro pensasse che a colmare di ricchezze e di onori
ecclesiastici un giovanetto da lui amato. Lo fece adottare da suo
fratello; lo creò cardinale in età di diciassette anni, sotto il nome
d'Innocenzo del Monte, e lo corruppe in modo con tanti favori,
che questo giovane, tolto dalla più bassa classe del popolo,
diventò a cagione de' suoi vizj lo scandalo del sacro collegio, dal
quale lo scacciarono i successori di Giulio III211.
Questo pontefice degno di non molta stima e di poco biasimo,
morì il 29 di marzo del 1555, ed ebbe per successore Marcello II
di Monte Pulciano, che regnò soltanto ventidue giorni, dal 9 al 30
aprile. L'immatura morte di lui fece luogo a Giovan Pietro
210
Henr. Cather. Davila Guerre civili di Francia, l. XIII, p. 814, ediz. di
Venezia in 4.° 1630. - Card. Bentivoglio Guerra di Fiandra, p. II, l. VI, p. 168,
Venezia, in 4.° 1645.
211
Gio. Battista Adriani, l. VIII, p. 497 e seguenti. - Bern. Segni, l. XII, p. 323.
- Pallavicini, l. XI, c. VII, t. III, p. 159. - Fra Paolo, l. III, p. 307. - J. Aug. de
Thou Hist. univ., l. VI, p. 520, t. I.
Caraffa, Napolitano212, che nell'avanzata età di ottanta anni fu
eletto il 23 maggio del 1555 sotto il nome di Paolo IV213.
Da gran tempo la santa sede non aveva avuto che uomini
unicamente animati da mondane viste, che si erano
successivamente proposto di soddisfare al loro gusto pei piaceri,
per le arti, per la magnificenza o per la guerra. Gli uni avevano
voluto dilatare la stessa monarchia della chiesa, gli altri per lo
contrario staccarne de' feudi per innalzare le loro famiglie; in tutti
l'uomo politico aveva coperto l'uomo di chiesa, ed il fanatismo
religioso aveva avuta pochissima influenza sulla loro condotta.
Tale fu il carattere dei papi in tutto il tempo che decorse dal
concilio di Costanza a quello di Trento; ma papa Paolo IV aveva
un affatto diverso sentimento.
Il pericolo che sovrastava alla chiesa romana pei progressi
della riforma, mutò alla fine il carattere de' suoi capi. Erasi fin
allora veduto il basso clero geloso del clero superiore, i vescovi
gelosi della corte di Roma, i cardinali gelosi del papa, e dal canto
loro i superiori sempre diffidenti o sempre gelosi dei diritti dei
loro inferiori. Avevano i papi lungo tempo risguardati i vescovi
come loro segreti ma costanti nemici, e questi avevano
effettivamente mostrato uno spirito repubblicano che mirava a
limitare il potere del capo della chiesa. Ma nello stesso tempo i
riformatori avevano attaccato il basso e l'alto clero e l'intera
chiesa; coloro che si erano divisi per attirare a sè tutto il potere,
sentirono in allora la necessità di unirsi per la comune difesa. I re,
cui il clero aveva tanto tempo contrastata l'autorità, si trovarono
dopo quest'epoca in guerra collo spirito repubblicano de'
riformatori; perciò fecero alleanza cogli antichi loro nemici
contro i nuovi avversarj, e tutti coloro che per qualunque titolo e
sotto qualsiasi protesto proponevansi di vietare agli uomini di
212
Nell'originale "Napolitapo". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
Gio. Battista Adriani, l. XII, p. 867, l. XIII, p. 876, 890. - Lett. de' Princ., t.
III, f. 161. Lettera di un conclavista con diverse curiose circostanze intorno alle
cerimonie dell'elezione.
213
operare e di pensare da sè, riunironsi in una sola lega contro tutto
il resto del genere umano.
Fu questo nuovo spirito di resistenza alla riforma che diede al
concilio di Trento un carattere così diverso da quello de'
precedenti concilj. Dietro le calde istanze di Carlo V questo
concilio erasi convocato da Paolo III ad oggetto di decidere tutte
le quistioni di fede e di disciplina che la riforma aveva fatto
nascere in Germania. Era stato aperto a Trento il 15 dicembre del
1545; ma poco dopo Paolo III, diffidando di quest'assemblea,
l'aveva nel 1547 traslocata a Bologna, affinchè fosse più
dipendente dalla santa sede. Giulio III acconsentì nel 1551 a farlo
tornare a Trento. Le vittorie di Maurizio di Sassonia contro Carlo
V, ed il subito avanzamento verso il Tirolo dell'armata
protestante, la disperse nel 1552. Il concilio si riaprì di nuovo
nella stessa città di Trento, il giorno di Pasqua del 1561, da papa
Pio IV, e durò fino al 4 di dicembre del 1563214.
Il concilio di Trento si adoperò con eguale ardore a riformare
la disciplina della Chiesa, come ad impedire ogni riforma nelle
credenze e negl'insegnamenti di lei. Egli allargò la breccia tra i
cattolici ed i protestanti; sanzionò come articoli di fede le
opinioni più invise a coloro che volevano far uso della ragione o
de' loro naturali sentimenti per dirigere la loro coscienza 215.
Spinse al più alto grado il fanatismo dell'ortodossia; ma in pari
tempo ritornò al clero il primiero vigore da gran tempo
indebolito. I preti avevano troppo apertamente sagrificata la
propria riputazione ai loro piaceri; tutti gli abusi che si erano
introdotti nella disciplina miglioravano la loro condizione, ma in
pari tempo diminuivano la loro riputazione ed il loro potere. Per
lo contrario la politica del concilio mirò a renderli rispettabili agli
occhi dei divoti, a vincolarli più strettamente collo spirito di
214
Pallavicini stor. del Conc. di Trento. - Fr. Paolo Sarpi stor. del Concil.
stesso. - Rayn. An. Eccl. ad An. - Fleury Hist. Eccl., l. 144 e seg. - Labbei
Conc. gener., t. XIV, p. 725.
215
Cioè a coloro che più non volevano riconoscere la legittima autorità della
Chiesa. N. d. T.
corporazione, ad assoggettarli alla regola; e questa stessa
ubbidienza avrebbe loro data un'irresistibile forza, ed essi
avrebbero signoreggiati i consigli di tutti i re, se i progressi dello
spirito umano non si fossero avanzati con maggiore rapidità che
questa riforma del clero.
Si sentì l'influenza del nuovo spirito che animava la chiesa, e
che si era esteso fino al sacro collegio, nelle prime elezioni che
seguirono la convocazione del concilio di Trento. Incominciando
da quest'epoca i pontefici furono spesso più fanatici e crudeli che
non i loro predecessori; ma più non furono visti disonorare la
santa sede coi vizj e con un'ambizione affatto mondana. Vero è
che Giulio III, il quale fu eletto dopo essersi adunato il concilio,
non corrispose alla vantaggiosa opinione che si era di lui
concepita; tuttavolta quest'opinione era fondata sulle virtù e
sull'austera condotta di cui diede prove prima di giugnere alle
ultime grandezze. Marcello II, che gli successe, e che regnò
pochissimi giorni, era riputato un uomo santissimo. Paolo IV,
creato il 23 di maggio del 1555, si era dato a conoscere per uno
de' più dotti cardinali; era stato in particolar modo notato il di lui
zelo per l'ortodossia e l'ordine dei Teatini da lui fondato, gli dava
grande riputazione di santità216.
Il fanatismo persecutore salì con Paolo IV sulla sede di san
Pietro. L'intolleranza de' precedenti pontefici non era, per così
dire, che l'effetto della loro politica; ma quella di Paolo IV era ai
suoi occhi medesimi la giusta vendetta del cielo irritato, e della
propria disprezzata autorità. L'impetuoso carattere di questo
vecchio napolitano non ammetteva nè modificazioni, nè ritardo
nell'ubbidienza ch'egli esigeva; qualunque esitanza parevagli una
ribellione, e perchè confondeva in coscienza le sue proprie
opinioni colle suggestioni dello spirito santo, avrebbe creduto di
peccare egli stesso, se avesse accordato un solo istante a coloro i
216
Gio. Battista Adriani, l. XII, p. 890. - Ber. Segni, l. XV, p. ult. - Pallavicini,
l. XIII, c. XI, p. 310. - Onof. Panvinio vite de' Pont., f. 284, 286. - F. P. Sarpi
Istor. del Conc., l. IV, p. 400.
quali erano tanto empi d'avere l'ardire di opinare diversamente da
lui. Era egli stato, fin sotto il regno di Paolo III, il principale
promotore dello stabilimento dell'inquisizione in Roma, ed aveva
egli stesso coperta la carica di grande inquisitore. Quando salì sul
trono raddoppiò il rigore degli editti de' suoi predecessori, e
moltiplicò i suplicj di coloro che nello stato della Chiesa
rendevansi sospetti di favoreggiare le nuove dottrine.
Filippo II e Paolo IV cominciarono a regnare nello stesso
tempo, ed erano ambidue animati dallo stesso fanatismo; pure
questa passione non formò tra di loro l'unione che poteva
aspettarsi. Sdegnato il papa della dipendenza in cui la casa
d'Austria aveva ridotta la chiesa romana, aveva determinato di
scuotere cotal giogo; fece perciò alleanza con Enrico II, che,
sebbene amico fosse degli eretici di Germania e de' Turchi,
trattava i protestanti francesi con non minore ferocia e perfidia
del monarca spagnuolo. Quest'alleanza strascinò la corte di Roma
in una breve guerra contro Filippo II, la quale fu l'estrema che i
papi intraprendessero nel presente secolo per motivi di pura
politica; questa ebbe un esito assai più felice che non poteva
sperarsi dalla debolezza del papa, e dalla inconsideratezza dei
suoi tre nipoti, de' quali aveva troppo ascoltati i consigli, e
lusingata l'ambizione. Il duca d'Alba, che comandava gli
Spagnuoli, in sul cominciare di dicembre del 1556, entrò nello
stato della chiesa ed occupò molti luoghi forti senza quasi
incontrare resistenza. Il duca di Guisa accorse in ajuto del papa
con un'armata francese; ma la disfatta del contestabile di
Montmorencì a san Quintino sforzò bentosto Enrico II a
richiamarlo. Il papa restava senza alleati e senza mezzi, quando
Filippo II, che non poteva risolversi a stare in guerra contro la
santa sede, il 14 settembre del 1557, comperò la pace al prezzo
delle più umilianti condizioni. Per altro si vendicò dei Caraffa,
che Paolo IV, loro zio, aveva arricchiti colle spoglie della casa
Colonna, e ch'egli sagrificò negli ultimi anni della sua vita,
conoscendo d'essere stato da loro ingannato217.
A Paolo IV, morto il 18 d'agosto del 1559, successe Pio IV,
fratello del marchese di Marignano della casa de' Medici di
Milano. Comincia con lui la serie di que' pontefici, che gli storici
ortodossi lodano senza restrizione; Pio V, che gli successe il 17 di
gennajo del 1560, e Gregorio XIII, che fu creato il 13 di maggio
del 1572, avevano press'a poco lo stesso carattere. Tutti tre d'altro
non parvero occupati che della cura di combattere e di sopprimere
l'eresia: affatto rinunciando ad ogni disputa per istabilire
l'indipendenza della santa sede, ad ogni gelosia verso la corte di
Spagna, intimamente si collegarono con un monarca, che col suo
zelo per l'inquisizione, per l'uccisione de' Giudei di Arragona, dei
Musulmani di Granata, de' protestanti dei Paesi Bassi, che colle
sue continue guerre contro i Calvinisti di Francia, gl'Inglesi ed i
Turchi, mostravasi il più affezionato figliuolo della chiesa. I papi
più non pensarono a fare la guerra pel temporale interesse de' loro
stati o delle loro famiglie, ma largamente contribuirono coi tesori
e coi soldati della chiesa alle imprese del duca d'Alba ne' Paesi
Bassi, al sostentamento della lega di Francia ed alle guerre coi
Musulmani. Sotto questi tre papi si videro di nuovo le legioni
romane in riva alla Senna ed al Reno, mentre altre
guerreggiavano contro i Turchi sulle sponde del Danubio e sulle
coste di Cipro e dell'Asia Minore: e Marc'Antonio Colonna,
generale delle galere pontificie, ebbe una parte essenziale alla
vittoria di Lepanto, ottenuta il 7 ottobre del 1571, da don
Giovanni d'Austria sopra i Musulmani218.
In mezzo a questa serie di papi egualmente onorati per la
decenza de' loro costumi, per la sincerità del loro zelo religioso, e
217
Gio. Battista Adriani, l. XIV, p. 980; l. XV, p. 1044. - Onof. Panvino Vita di
Paolo IV, f. 289. - Pallavicini Stor. del Con. di Trento, l. XIII, c. XVI, al l. XIV,
c. IV, p. 325 e segu., t. III. - Fr. Paolo Concil. di Trento, l. V, p. 417.
218
Gio. Batt. Adriani, l. XXI, p. 1579-1589. - Ant. Ciccarelli, vita di Pio V, f.
299. - Greg. Leti vita di Filippo II, t. II, l. I, p. 37. - J. Aug. de Thou., l. L, p.
456, t. IV.
per la non curanza de' loro personali interessi, Sisto V, successore
di Gregorio XIII, che regnò dal 24 aprile del 1585 fino al 20
agosto del 1590, si distingue pel vigore del suo carattere, per le
sue grandiose imprese, per la magnificenza de' monumenti con
cui abbellì Roma, e per le forme pronte, severe, dispotiche della
sua amministrazione. Egli liberò i suoi stati dagli assassini e vi
mantenne una rigorosa polizia; accumulò col mezzo di gravissime
imposte un immenso tesoro, e si meritò ad un tempo
l'ammirazione e l'odio de' suoi sudditi219.
Urbano VII, Gregorio XIV, Innocenzo IX, che tennero
soltanto alcuni mesi il papato, avevano le stesse virtù ed i
medesimi difetti de' loro predecessori dopo il concilio di Trento.
Clemente VIII, che fu eletto il 30 gennajo del 1592, protrasse il
suo regno fino al 30 di marzo del 1605. Dovremo parlarne,
allorchè indicheremo compendiosamente le rivoluzioni del
susseguente secolo.
L'amministrazione di tutti i papi che si succedettero dopo
l'apertura del concilio di Trento fino alla fine del secolo, è
macchiata dalle atroci persecuzioni esercitate contro i protestanti
d'Italia. Gli abusi della corte di Roma erano in questo paese assai
meglio conosciuti che oltremonti; vi si erano coltivate più presto
le lettere, e con maggior cura; la filosofia vi aveva fatti più grandi
progressi, ed in principio del secolo aveva discusse le stesse
materie religiose con grandissima indipendenza. La riforma si era
fatta tra i letterati non pochi partigiani; ma meno assai nella classe
povera e laboriosa, che l'adottò con tanto ardore in Germania ed
in Francia. I papi riuscirono a spegnerla nel sangue;
l'inquisizione, in tutto il secolo, fu la strada che più sicuramente
condusse al trono pontificio220.
219
Ant. Ciccarelli vita di Sisto V, f. 312. - J. Aug. de Thou, l. LXXXII, t. VI, p.
503. - Labbei Concil. gen., t. XV, p. 1190.
220
Muratori Ann. ad ann. 1567, t. X, p. 438. - Gio. Batt. Adriani, l. XIX, p.
1348.
I papi non mostrarono meno il loro crudele fanatismo nella
parte che presero alle guerre civili e religiose del restante
dell'Europa. Pio V, per ricompensare il duca d'Alba dell'atroce
sua condotta verso i Fiamminghi, gli mandò nel 1568 il cappello
e lo stocco gemmato, che i suoi predecessori avevano talvolta
mandati ai gran re221. Gregorio XIII aveva fatto rendere grazie a
Dio per l'assassinio del giorno di san Bartolomeo 222. I successori
di questo papa ricusarono di ricevere gli ambasciatori di Enrico
IV, quando vennero per concertare l'abjura di Enrico, ed ancora
quando Enrico stesso si fu pubblicamente ricreduto. Tutti questi
pontefici non cessarono di fomentare le guerre civili della
Francia, della Fiandra, della Germania, e le congiure contro la
regina d'Inghilterra; di modo che le calamità degli ultimi
cinquant'anni del sedicesimo secolo furono, in tutta l'Europa,
costantemente l'opera dei papi.
I sudditi dei papa, durante la seconda metà del sedicesimo
secolo, non furono più felici che quelli della Spagna: un governo
non meno assurdo gli opprimeva senza proteggerli, mentre che le
più onerose gabelle, i più ruinosi monopolj distruggevano ogni
industria; un'amministrazione arbitraria e violenta, vincolando il
commercio dei grani, era cagione di frequenti carestie, sempre
seguite da contagiose malattie. Quella del 1590 e 1591 rapì alla
sola Roma sessanta mila abitanti, molte castella; e molti doviziosi
villaggi dell'Ombria rimasero dopo tale epoca affatto spopolati 223.
In tal modo stendevasi la desolazione sopra campagne in addietro
tanto feraci, le quali diventavano indi preda d'un aere malsano: in
appresso l'effetto si faceva a vicenda causa, e gli uomini più non
potevano vivere dove que' flagelli avevano distrutte le precedenti
popolazioni.
221
Bentivoglio Guerra di Fiandra, p. I, l. V, p. 92.
Gio. Batt. Adriani, l. XXII, p. 49. - Cathr. Davila Guerra civ. di Francia, l.
V, p. 273. - J. Aug. de Thou, l. LIII, p. 632, t. IV.
223
Ciccarelli vita di Gregorio XIII, f. 336-337.
222
Sebbene lo stato pontificio avesse il vantaggio di una profonda
pace, tutte le sue truppe non bastavano a proteggere i cittadini, nè
contro le incursioni dei Barbareschi, nè contro i guasti dei
masnadieri. Questi, renduti arditi dal loro numero, e facendosi
gloria di combattere contro il vergognoso governo della loro
patria, erano giunti a segno di risguardare il proprio mestiere
come il più onorato di tutti; lo stesso popolo, da loro taglieggiato,
applaudiva al loro valore e risguardava le loro bande come
semenzai di soldati. I gentiluomini addebitati, i figli di famiglia
sconcertati ne' loro affari, recavansi ad onore di avervi servito per
qualche tempo in queste bande, ed alcune volte varj grandi
signori si posero alla loro testa per sostenere una regolare guerra
contro le truppe del papa. Alfonso Piccolomini, duca di Monte
Marciano e Marco Sciarra, furono i più destri ed i più formidabili
capi di questi facinorosi: il primo ruinava la Romagna, l'altro
l'Abruzzo e la campagna di Roma. Siccome l'uno e l'altro
avevano ai loro ordini più migliaja di uomini, non si limitavano a
svaligiare i passaggeri, o a somministrare assassini a chiunque
volesse pagarli per eseguire private vendette; ma sorprendevano i
villaggi e le piccole città per saccheggiarle, e forzavano le più
grandi a riscattarsi con grosse taglie, se i loro abitanti volevano
salvare dall'incendio le loro ville e le messi224.
Questo stato di abituale assassinio fu sospeso durante il regno
di Sisto V, che col terrore della sua militare giustizia, ottenne di
liberare i suoi stati dai banditi, dopo averne fatte perire diverse
migliaja; ma così rapide e così violenti furono l'esecuzioni da lui
ordinate, che non pochi innocenti vennero avviluppati ne' supplicj
de' colpevoli. Altronde gli assassinj ricominciarono sotto il regno
de' suoi successori con più furore di prima; i signori dei feudi
continuarono a dare asilo ne' piccoli loro principati ai delinquenti
perseguitati dai tribunali, ed a riguardare quest'asilo come il più
bel privilegio delle giurisdizioni signorili. Quest'usanza si
224
Ciccarelli vita di Gregorio XIII, p. 300. - Galluzzi Istor. del gran ducato, l.
IV, t. III, p. 273 e seguenti.
mantenne in vigore fino all'età nostra, e furono più volte veduti i
signori avere la parte loro de' prodotti del delitto. Le abitudini
nazionali ne rimasero pervertite, ed anche oggi in quella parte
dello stato romano ove non fu distrutta tutta la popolazione,
specialmente nella Sabina, il contadino non si fa scrupolo di
associare il mestiere d'assassino e di ladro a quello di agricoltore.
Abbiamo di già osservato quali furono in questo secolo il
principio ed i progressi del ducato di Parma e Piacenza, il più
vasto feudo della Chiesa. Quello di Ferrara, che di poco gli
cedeva in estensione ed in popolazione, doveva avere una sorte
tutt'affatto diversa negli ultimi anni del secolo.
Alfonso I d'Este, che possedeva questo ducato unitamente a
quelli di Modena e di Reggio, durante i pontificati di Giulio II, di
Leon X e di Clemente VII, morì il 31 ottobre del 1534, un mese
più tardi dell'ultimo di questi pontefici, di cui aveva sperimentata
la crudele nimicizia225. Ercole II, che gli successe, sentì che l'Italia
aveva affatto perduta l'indipendenza, e più non si considerò che
come un luogotenente di Carlo V. Pure la sua consorte era
francese e figlia di Lodovico XII: sua figliuola aveva sposato il
duca d'Aumale, che poi fu duca di Guisa; tutte queste relazioni lo
attaccavano alla Francia; onde fidando nella forza naturale del
suo paese sparso di canali e di paludi, in quella della sua capitale
e nella vicinanza de' Veneziani che segretamente favoreggiavano
la Francia, egli tentò due volte di scuotere un giogo che provava
troppo pesante. Quando il duca Ottavio Farnese fu costretto nel
1551 a porsi sotto la protezione d'Enrico II, il duca di Ferrara non
cessò mai di mandargli approvvigionamenti di munizioni; e
benchè non la rompesse apertamente coll'imperatore, eccitò in lui
il più vivo risentimento226. Di nuovo, quando in principio del
regno di Filippo II, Paolo IV si alleò colla Francia contro questo
monarca, Ercole II accettò nel 1556 le funzioni di generale
dell'armata della lega, e colla sua piccola armata venne talvolta a
225
226
P. Jovii vita Alfonsi; della traduzione, p. 144.
Gio. Batt. Adriani, l. VIII, p. 153. - Jac. Aug. de Thou, l. III, p. 680, t. I.
battaglia ai confini de' suoi stati col duca di Parma, che in allora
si era dato al partito imperiale. Filippo, poichè si fu riconciliato
col papa, incaricò i duchi di Firenze e di Parma di castigare
Ercole II; e questi, dopo avere sofferto i guasti delle loro truppe,
si dovette credere troppo felice di poter ottenere una pace
umiliante colla Spagna, il 22 aprile del 1558. Egli morì il 3
d'ottobre del susseguente anno227.
Alfonso II, figliuolo d'Ercole, quello stesso principe che si
acquistò un'odiosa celebrità colle persecuzioni esercitate contro il
Tasso, non si provò giammai a scuotere il giogo della Spagna, nè
a rivendicare un'indipendenza ch'era d'uopo risguardare come
perduta. Altronde il piccolo e vano suo spirito non era fatto per
concepire un progetto che richiedesse vera fierezza; ed egli non
cercava altra gloria che quella che potevano dargli le feste della
sua corte. Esaurì in una profonda pace le finanze de' tre ducati coi
suoi splendidi divertimenti, con tornei e con pompe d'ogni
genere; raddoppiò tutte le imposte, e ridusse i suoi popoli alla
disperazione. Tutta la carriera politica di Alfonso II si limitò a
dispute di precedenza col sovrano della Toscana, ed a dispendiose
pratiche per acquistare i suffragj de' Polacchi nel 1575, onde
ottenere la corona di quel regno. Sebbene ammogliato tre volte,
non ebbe prole, e la legittima linea della casa d'Este finì in lui il
27 ottobre del 1597228.
Ma Alfonso I aveva avuto, poco prima di terminare i suoi
giorni, un figlio naturale da Laura Eustochia, poscia, secondo
dicevasi, da lui sposata. Questo figlio, chiamato come lui
Alfonso, era stato autorizzato a portare il nome della casa d'Este,
ed era stato dato in isposo a Giulia della Rovere, figlia del duca di
Urbino, dalla quale aveva avuto un figlio chiamato Cesare, che
Alfonso II nominò suo erede. Non era questa la prima volta che
227
Gio. Battista Adriani, l. XIV, p. 989; l. XVI, p. 1132. - J. Aug. de Thou, Hist.
univ., l. XX, p. 559, l. XXIII, p. 712.
228
Galluzzi Istor. del gran ducato, t. II, p. 380, t. IV, p. 317. - J. Aug. de Thou,
Hist. univ., l. CIX, p. 141, t. IX.
l'eredità di casa d'Este passava in mano di bastardi, ed i papi non
si erano opposti alla successione di Lionello e di Borso, nel
quindicesimo secolo. Sebbene la casa d'Este avesse riconosciuto
di tenere il ducato di Ferrara come un vicariato della Chiesa, da
circa quattrocento anni n'era effettivamente sovrana, ed i papi si
erano accontentati dei vani onori della suprema signoria229.
Ad ogni modo l'ambizione che Giulio II, Leon X e Clemente
VII avevano manifestata nelle loro guerre contro Ferrara, si
risvegliò nel loro successore alla morte di Alfonso II. Clemente
VIII, conosciuto prima sotto il nome di cardinale Ippolito
Aldobrandino, era salito il 30 gennajo del 1592 sul trono
pontificio. Quand'ebbe avviso della morte di Alfonso, si affrettò
di dichiarare tutti i feudi ecclesiastici della casa d'Este devoluti
alla santa sede per l'estinzione della legittima discendenza, e di
mandare verso il Ferrarese suo nipote, il cardinale Pietro
Aldobrandino, con una grossa armata. Don Cesare, che mancava
di talenti e di vigore di carattere si lasciò atterrire
dall'avvicinamento delle milizie pontificie. Non cercò di
difendere uno stato che offriva grandissimi mezzi, ed il 13
gennajo del 1598 sottoscrisse un vergognoso trattato, col quale
rilasciava alla santa sede Ferrara e tutti i feudi ecclesiastici da lui
posseduti, riservandosi solamente i beni patrimoniali de' suoi
antenati. Ritirossi in appresso ne' ducati di Modena e di Reggio, il
di cui possedimento non gli venne contrastato dall'imperatore
Rodolfo II, che ne aveva il supremo dominio230.
Ferrara, cadendo sotto il dominio ecclesiastico, perdette la sua
industria, la sua popolazione, le sue ricchezze. Al presente più
non trovasi in questa deserta e ruinata città veruna immagine di
quella splendida corte, in cui i letterati e gli artisti venivano
accolti con tanto favore. Modena per lo contrario, diventata la
sede del governo di casa d'Este, si arricchì sulle ruine della sua
229
Muratori Antichità Estensi, t. II. - Dello stesso Ann. d'Italia ad an. 1597.
Murat. Antichità Estensi, t. II ed Annali d'Italia all'anno 1498, in principio.
- Greg. Leti Vita di Filippo II, p. II, l. XIX. p. 529.
230
vicina, e vestì un aspetto di eleganza, d'industria e di attività che
mai conosciuto non aveva ne' migliori tempi de' suoi primi duchi.
Anche i ducati d'Urbino e di Camerino erano feudi della santa
sede, meno importanti assai di quelli di Parma e di Ferrara; ma la
riputazione militare del duca Francesco Maria della Rovere, e la
protezione de' Veneziani, de' quali aveva tanto tempo comandati
gli eserciti, contribuivano alla sua sicurezza. Nel 1534 aveva fatta
sposare a Guid'Ubaldo, suo figliuolo, Giulia, figlia di Giovan
Maria di Varano, ultimo duca di Camerino, e sperava con ciò di
riunire questi due piccoli stati; ma Ercole di Varano riclamava
Camerino come feudo maschile; e non trovandosi abbastanza
potente per fare da sè medesimo valere i proprj diritti, li vendette
a papa Paolo III. Quando venne a morte Francesco Maria della
Rovere, il primo di ottobre del 1538, suo figlio Guid'Ubaldo, che
gli successe, acconsentì a comperare l'investitura di Urbino colla
cessione al papa del ducato di Camerino, che fu di nuovo
infeudato prima ai Farnesi, indi ai conti del Monte, nipoti di
Giulio III, e che all'ultimo ricadde alla camera apostolica231.
Guid'Ubaldo II, che governò il ducato d'Urbino dal 1538 al
1574, non giunse di lunga mano alla gloria paterna. I suoi confini
mai non furono esposti a veruna minaccia, ed il suo montuoso
paese era poco esposto al passaggio delle armate. Non aveva
coste che potessero essere saccheggiate dai Barbareschi; ma pure
la vanità ed il lusso del principe erano tali, che riuscivano ai
popoli quasi non meno pesanti che le guerre straniere. Le
eccessive imposte ridussero gli abitanti in estrema miseria, cui
tennero dietro necessariamente la carestia e le malattie
contagiose. Nel 1573 scoppiarono alcune sedizioni, che
Guid'Ubaldo punì con estremo rigore, facendo perire in mezzo ai
tormenti molti suoi sudditi. Egli morì nel susseguente anno, e gli
successe suo figlio Francesco Maria II, il di cui regno fu ancora
meno fecondo d'avvenimenti che non quello del padre232.
231
232
Gio. Batt. Adriani, l. II, p. 103. - Lett. de' Prin. t. III, p. 28.
Muratori Annali d'Italia all'anno 1574.
I marchesi di Monferrato e di Mantova contavansi ne'
precedenti secoli fra i principi indipendenti d'Italia. Federico II,
duca di Mantova, raccolse l'eredità di queste due dinastie
nell'epoca in cui era moribonda l'indipendenza italiana; ma dopo
tale unione egli si trovò meno potente di quel che lo fossero i suoi
antenati, quando non erano che semplici marchesi di Gonzaga.
Bonifacio, marchese di Monferrato, era morto per una caduta
da cavallo, nel 1531, in sul fiore dell'età. Altri non restava della
nobilissima famiglia de' Paleologhi che il zio Bonifacio, Giovan
Giorgio, che depose per succedergli le insegne ecclesiastiche, e
due sorelle, la maggiore delle quali sposò il duca di Mantova
Federico II233. Allorchè il giorno 30 aprile del 1533 morì Giovan
Giorgio, i commissarj imperiali occuparono il Monferrato,
aspettando che Carlo V decidesse a chi spettava quest'eredità. Al
duca di Mantova riuscì facile il dimostrare che il Monferrato era
un feudo femminile, e che era entrato nella casa Paleologa per
mezzo di donne. Ad ogni modo non ne ottenne dall'imperatore il
possesso che il 3 di novembre del 1536; e l'imperatore a questo
modo rinunciò appena a conservarlo per sè medesimo. I
Gonzaghi, che si succedettero in quel secolo, e che nel 1574
ottennero che il Monferrato fosse eretto in ducato come lo era di
già il Mantovano, governarono questi due paesi come se fossero
luogotenenti della casa d'Austria. Federico II morì il 28 di giugno
del 1540. Dopo di lui regnarono i due suoi figliuoli, da prima
Francesco III il primogenito che si annegò, il 21 di febb. del
1550, nel lago di Mantova, poi il secondogenito che morì il 13
agosto del 1587, lasciando erede l'unico suo figlio don Vincenzo.
Tutta la storia di questi principi non versa che intorno ai sontuosi
accoglimenti fatti ai sovrani che attraversarono i loro stati,
intorno ai loro proprj viaggi, ed a pochi sussidj dati agli
imperatori per fare la guerra ai Turchi.
Nel precedente capitolo abbiamo veduto quale si fosse fino
alla metà del secolo il governo del duca di Firenze. Cosimo de'
233
P. Jovii Historiarum l. XXXVIII, p. 333.
Medici diffidente, dissimulato, crudele, sostenevasi in trono a
dispetto di tutta la nazione da lui governata. Meno libero, meno
indipendente che gli efimeri magistrati della repubblica da lui
soppressa, egli doveva rispettare non solo gli ordini
dell'imperatore e di Filippo II, ma quelli inoltre di tutti i loro
generali, e dei governatori di Napoli e di Milano, che gli facevano
crudelmente sentire tutto il peso dell'insolenza spagnuola. Per
dare un compenso all'antico orgoglio de' cittadini fiorentini, egli
li decorò con nuovi titoli di nobiltà. Nel mille cinquecento
sessanta instituì un nuovo ordine religioso e militare sotto il
patrocinio di santo Stefano. I ricchi cittadini di Firenze e del
territorio toscano, sedotti dall'allettamento di questa onorificenza,
ritirarono dal commercio i loro fondi, impiegandoli nell'acquisto
di terreni, che obbligarono in sostentamento delle nuove dignità
che ottenevano per le loro famiglie con fedecommessi,
sostituzioni perpetue e commendarie. Era questo lo scopo cui
mirava Cosimo I, che credeva più facile il bandire da Firenze
l'antico suo commercio, che non il piegare lo spirito
d'indipendenza di quei ricchi mercanti234.
Non era lungo tempo passato da che Cosimo erasi liberato dal
timore inspiratogli da Pietro Strozzi, ucciso nell'assedio di
Thionville del 1558, quando la sua casa fu insanguinata da tragici
avvenimenti, avvolti entro dense tenebre, che mai non si
dissiparono affatto agli occhi della posterità. Si pretende che don
Garzia, il terzo de' suoi figli, assassinasse don Giovanni il
secondo, di già decorato del cappello cardinalizio, e che Cosimo
lo vendicasse colle proprie mani, uccidendo don Garzia col suo
pugnale tra le braccia della madre Eleonora di Toledo, che ne
morì di dolore235. Sebbene il duca cercasse di nascondere al
pubblico così tristi avvenimenti, dessi contribuirono però ad
234
Galluzzi Storia del gran Ducato, t. II, p. 257. - Gio. Batt. Adriani, l. XVI, p.
1178. - J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. XXXII, p. 269, t. III.
235
Cronica del MS. del Settimani all'anno 1562, presso Anguillesi Notizie del
palazzo di Pisa, p. 143. - J. Aug. de Thou, Hist. univ., l. XXXII, p. 270.
inspirargli il desiderio di ritirarsi dalla scena più attiva del
mondo, ed a scaricarsi delle principali cure del governo sopra suo
figliuolo primogenito don Francesco. Egli eseguì tale risoluzione
nel 1564. Nè meno perfido, nè meno crudele del padre, ma più
dissoluto, più vano, più iracondo, don Francesco non aveva i
talenti con cui Cosimo aveva fondata la grandezza della sua
famiglia. Fu perciò, più che il padre, l'oggetto dell'odio dei
popoli, il quale odio non era temperato da verun sentimento di
rispetto per l'ingegno di lui. Per altro Cosimo erasi riservata la
suprema direzione degli affari, inoltre tutte le relazioni
diplomatiche, e la cura continua di lusingare Pio V, dando in
mano all'inquisizione di Roma tutti i suoi sudditi che il papa
credeva infetti d'eresia, e perfino il proprio confidente Pietro
Carnesecchi; le quali cose gli guadagnarono in modo l'affetto del
pontefice, che, nel 1569, ottenne da lui il titolo di gran duca di
Toscana236.
La Toscana non era, nè mai era stata, un feudo della Chiesa, di
modo che il papa non poteva a buon diritto cambiare il titolo del
suo sovrano. Perciò quest'innovazione non solamente eccitò la
collera di tutti i duchi, i quali vedevano innalzarsi al di sopra di
loro quello di Firenze, ma altresì quella dell'imperatore, che
sentiva il torto fatto alle sue prerogative. Cosimo I morì il 21 di
aprile del 1574, prima di avere veduto condotte a fine le
negoziazioni colle quali cercava di ridurre i sovrani dell'Europa a
riconoscere il suo nuovo titolo 237. Ma don Francesco, che gli
successe nel 1575, ottenne dall'imperatore Massimiliano II, che
gli conferisse egli stesso il 2 di novembre il titolo di gran duca di
Toscana, come una nuova grazia, e senza fare memoria della
precedente concessione del papa238.
236
Gio. Batt. Adriani, l. XIX, p. 1348; l. XX, p. 1504. - Galluzzi Stor. del gran
Ducato, t. II, p. 310 e 348.
237
Gio. Batt. Adriani, l. XXII, p. 86. - Qui finisce la sua storia. - Galluzzi Storia
del gran Ducato, l. III, c. VIII, p. 56, t. III.
238
Galluzzi Storia del gran Ducato, l. IV, c. I, t. III, p. 166.
Una congiura contro il gran duca, che fu scoperta nel 1578, e
punita con molti supplicj, fu l'ultimo sforzo che in Firenze
facessero gli amici della libertà per iscuotere l'odiato governo dei
Medici239. Questo governo erasi stabilito già da quarantott'anni,
ed aveva lasciati morire in esilio tutti coloro che avevano un
elevato carattere; il commercio fiorentino era distrutto; eransi
mutate le costumanze nazionali, e la recente educazione aveva
accomodate le anime al giogo.
Il gran duca aveva incaricato Curzio Picchena, suo segretario
d'ambasciata a Parigi, di liberarlo dai distinti emigrati che tuttavia
si trovavano alla corte di Catarina de' Medici. Gli fece avere
sottili veleni, per formare i quali Cosimo I aveva eretta nel suo
palazzo un'officina, che diceva essere un laboratorio chimico per
le sue esperienze; gli diresse inoltre alcuni assassini italiani
superiori a tutti gli altri; e promise il premio di quattro mila ducati
per ogni omicidio, oltre il rimborso di tutte le spese che sarebbero
occorse. Nel 1578 Bernardo Girolami fu la prima vittima di
questa trama; e la di lui morte atterrì in modo tutti gli altri
emigrati fiorentini, che questi per salvarsi si dispersero per le
province della Francia e dell'Inghilterra. Ma ovunque furono
inseguiti dai sicarj di don Francesco, e tutti coloro che avevano
recata qualche molestia al gran duca perirono240.
Don Francesco visse e morì totalmente subordinato a Filippo
II: e perciò mostrossi agli occhi de' suoi sudditi sempre
spalleggiato da tutta la potenza spagnuola; e sebbene nel 1579 si
rendesse più spregievole, che non lo era prima, colle sue nozze
coll'accorta e dissoluta Bianca Cappello241, sebbene nella sua
famiglia si andassero continuamente rinnovando gli assassinj, gli
avvelenamenti, i delitti d'ogni sorta, i Fiorentini più non tentarono
di sottrarsi alla sua autorità; ma soltanto non dissimularono la
239
Muratori Ann. d'Italia ad ann.
Galluzzi Stor. del gran Ducato, l. IV, c. III, t. III, p. 220.
241
Anguillesi Memorie del Poggio a Cajano, p. 111, estratto dai MS. del
Settimani. - Galluzzi, t. II e III.
240
loro gioja, quando, il 19 ottobre del 1587, Francesco e sua moglie
morirono avvelenati a Poggio a Cajano, in occasione di un
convito di riconciliazione che colà egli dava al cardinale
Ferdinando de' Medici, suo fratello242.
Questo Ferdinando, che gli successe, e che depose le vesti
ecclesiastiche per ammogliarsi, fu il primo a rialzare la nazione
toscana dall'oppressione in cui essa aveva sospirato sessant'anni.
Egli aveva tutta quell'attitudine al governo che può avere un
uomo senza virtù, e tutta la fierezza che può conservarsi senza
nobiltà d'animo. Si propose di sottrarsi al giogo spagnuolo che
aveva così duramente oppressi i suoi due predecessori: volle di
nuovo opporre la Francia alla casa d'Austria, e fu il primo
sovrano cattolico che riconoscesse Enrico IV, e si alleasse con
lui. In appresso s'interpose per la di lui riconciliazione col papa, e
gli ottenne l'assoluzione. Ma il trattato di Parigi del 27 febbrajo
del 1600, tra la Francia ed il duca di Savoja, togliendo alla prima
la comunicazione coll'Italia pel marchesato di Saluzzo, fece
ricadere il gran duca sotto il giogo della Spagna, che aveva
cercato di scuotere243.
Tale fu in compendio la storia di tutti i principi sovrani che in
questo secolo contava l'Italia. Quella delle tre repubbliche che
tuttavia conservavano la loro libertà fu ancora più povera
d'importanti avvenimenti. In Toscana la repubblica di Lucca
aveva conservata la sua indipendenza. Se si vuole farne giudizio
dalle sue forme esteriori, essa continuava a governarsi
democraticamente: la sovranità risiedeva in tre corpi che
dovevano approvare tutte le leggi; questi erano, la signoria
formata da un gonfaloniere e da 9 anziani che mutavansi ogni due
mesi; il senato formato di 36 membri che si rinnovavano ogni sei
mesi all'anno; ed il consiglio generale formato di 90 individui che
242
Galluzzi, t. IV, p. 55, l. IV, c. VIII. - Anguillesi Notizie del Poggio a Cajano,
p. 117.
243
Galluzzi, l. V, c. VI, VII ed VIII, t. IV.
sedevano un anno244. Ma perchè i magistrati in esercizio nel corpo
dell'anno formavano essi medesimi il corpo elettorale, dal quale
venivano nominati i magistrati del susseguente anno, gli stessi
uomini trovavano il destro di occupare sempre tutti gl'impieghi,
soltanto col cambiare fra di loro le rispettive funzioni, perchè la
legge non acconsentiva di essere rieletti senza intervallo. Per ciò
gli emigrati fiorentini, assai numerosi in Lucca, rinfacciavano ai
loro ospiti di avere abbandonata la repubblica ad una stretta
oligarchia, detta burlevolmente i signori del cerchiolino245.
Alcuni oppressivi regolamenti emanati a favore de' capi
manifatturieri contro gli artigiani, ed in particolare contro i
tessitori di seta, diedero motivo, il primo maggio del 1531 ad
un'insurrezione che costrinse la signoria a transigere col popolo, e
ad accrescere di un terzo il numero de' consiglieri, onde accordare
queste piazze ad uomini nuovi; ma prima che terminasse l'anno la
signoria si fece autorizzare a prendere una guardia di cento
soldati forastieri per difendere il palazzo pubblico, e coll'ajuto di
questa e delle milizie del territorio, ristabilì l'antico sistema, il 9
aprile del 1532, ed annullò tutte le leggi fatte in favore delle classi
inferiori246.
Per altro non fu che dopo la capitolazione di Siena, e quando
la libertà era di già stata esiliata da tutto il rimanente della
Toscana, che il gonfaloniere Martino Bernardino, il 9 dicembre
del 1556, propose e fece sanzionare la legge che i Lucchesi
risguardarono poi come il fondamento della loro aristocrazia, e
come equivalente al serrar del consiglio di Venezia, e che
intitolarono dal suo autore legge Martiniana. Martino, che voleva
ridurre la sovranità in pochissime famiglie, accarezzava non
pertanto ancora la pubblica opinione, e non aveva infatti espresso
ancora tutto ciò che voleva stabilire. La legge Martiniana vuole
244
Dissertaz. VIII sopra la Storia Lucchese, t. II, delle Memorie e documenti
sopra la Storia Lucchese.
245
Beverini Ann. Lucenses Mans., l. XIV. - Dissert. VIII sopra la Storia
Lucchese, t. II, p. 252.
246
A. N. Cianelli Dissertaz. VIII sopra la Storia Lucchese, p. 268.
soltanto che ogni figlio o di forastiere o di campagnuolo sia
perpetuamente escluso da qualunque magistratura. Con tali
indiretti modi il corpo aristocratico, che di già era stato ridotto a
poche famiglie, si assicurò di non essere mai più rinnovato,
perchè tutti i nuovi candidati che vi si sarebbero potuti introdurre,
non potevano essere che stranieri naturalizzati, o di già sudditi
dello stato fatti nobili. In questo modo la sovranità venne
trasmessa per ereditario diritto ad un sempre più ristretto numero
di famiglie nobili247. Sembra infatti che nell'anno 1600
l'aristocrazia lucchese non contasse che cento sessant'otto
famiglie, le quali, nel 1797 in occasione degli ultimi comizj
adunati per l'elezione delle magistrature, trovaronsi ridotte a sole
ottant'otto, e queste non somministravano un sufficiente numero
d'individui per tutti gl'impieghi dello stato248.
La costituzione che si era data la repubblica di Genova,
quando Andrea Doria le aveva renduta la libertà, aveva colmati di
riconoscenza tutti i Genovesi, perchè chiamava a governare il
maggior numero di loro, nell'istante in cui avevano potuto temere
che la sovranità venisse usurpata da un solo: pure questa
costituzione era puramente aristocratica, e tendeva a sempre più
restringere il circolo dei depositarj della suprema autorità.
D'altronde l'assoluta dipendenza in cui si erano poste, rispetto alla
Spagna, la famiglia Doria e la repubblica doveva altresì riuscire
vantaggiosa all'oligarchia per via di tutti i pregiudizj di nobiltà
fomentati dall'orgoglio di Filippo II e della sua corte249.
Dacchè Andrea Doria, giunto ad una estrema vecchiaja, e
molestato dalla gotta, più non usciva di casa, suo nipote
Giannettino, aveva preso il comando delle sue galere; onorato
come lo zio del favore dell'imperatore, aveva pure le prime parti
nella repubblica: ma egli si era arrogata maggior potenza d'assai
247
Beverini Ann. Lucenses, l. XV. - Dissertazione IX sopra la Storia Lucchese,
t. II, p. 271.
248
Dissert. IX sopra la Storia Lucchese, t. II, p. 301.
249
Ub. Folieta della repubblica di Genova, Dialoghi. - Fil. Casoni Ann. di
Genova, l. V, p. 157.
di quella che aveva avuta lo zio, e la esercitava con maggiore
orgoglio.
Il
popolo,
afflitto
di
vedersi
escluso
dall'amministrazione della repubblica, e la primaria nobiltà,
gelosa della potenza del Doria, sentivano ogni dì crescere il loro
malcontento. Giovanni Luigi del Fiesco, conte di Lavagna e
signore di Pontremoli, ascoltando l'antico odio della sua famiglia
contro i Doria, ed offeso dall'orgoglio di Giannettino, progettò di
sottrarre la sua patria tutta ad un tratto all'autorità
dell'aristocrazia, a quella dei Doria ed a quella della Spagna. Si
assicurò degli ajuti di Pier Luigi Farnese, nuovo duca di Parma e
di Piacenza, e di quelli della Francia; trasse ne' suoi interessi
molti cittadini affezionati all'antica fazione popolare, e gli avanzi
del partito dei Fregosi; finalmente fece venire da' suoi feudi molti
suoi vassalli, e circa dugento fidati soldati, sotto colore di armare
quattro sue galere per andare in corso contro i Barbareschi250.
Giovan Luigi del Fiesco aveva invitati molti giovani, di coloro
ch'egli credeva più scontenti del governo, ad un convito che diede
il 2 di gennajo del 1547; e quando gli ebbe tutti adunati in casa
sua, e che le porte furono chiuse e custodite da gente fidata,
dichiarò apertamente tutto il piano della sua congiura, loro
chiedendo di secondarlo e di seguirlo, se volevano salvare la
propria vita. I più di costoro, atterriti dalle minacce di lui,
piuttosto che strascinati dalle proprie passioni, si obbligarono con
giuramento. Giovan Luigi del Fiesco divise in allora la truppa coi
suoi fratelli, onde attaccare nello stesso tempo il porto ove il
Doria teneva le sue galere, la porta di Bisagno, e quella che
conduceva al palazzo ove dimoravano i due Doria fuori di città.
La notte era di già molto inoltrata quando la zuffa cominciò
contemporaneamente in ogni luogo. Giannettino Doria, avvisato
dal tumulto che si era eccitato, fu ucciso presso la porta della città
nell'atto che vi accorreva per calmarlo: allora Andrea Doria,
credendo la città e le sue galere perdute, fuggì fino a Sestri. In
fatti la cospirazione aveva dovunque avuto buon esito; la flotta,
250
Giovan Battista Adriani, l. VI, p. 369. - Bern. Segni, l. XII, p. 316.
che aveva quaranta galere era di già venuta in mano
degl'insorgenti, e le porte della città erano state sorprese. Ma
invano si andava cercando Luigi del Fiesco per incamminarsi
verso il palazzo, scacciarne la guardia della signoria, e mutare il
governo; ma Luigi, volendo passare a bordo della galera capitana
nell'istante in cui questa si scostava dalla riva, era caduto in mare
col ponte su cui passava, ed il peso delle sue armi gli aveva
impedito di salvarsi a nuoto. I di lui partigiani, perduto avendo il
coraggio alla notizia della sorte di lui, più non osarono di
occupare il palazzo, e, sebbene di già vincitori, trattarono colla
signoria come se stati fossero vinti; offrirono di cedere le porte a
condizione di avere un'intera amnistia, la quale poichè fu
accordata e solennemente giurata, i Fieschi si ritirarono a
Montoglio251. Ma un governo che ubbidiva all'influenza
spagnuola non credevasi tenuto all'osservanza delle sue
promesse: crudelissime furono le vendette del vecchio Andrea
Doria, e non ebbero fine che colla di lui vita, che si prolungò fino
ai novantaquattro anni, e si spense il 25 di novembre del 1560252.
In tutto il restante del secolo i Genovesi furono sempre
soggetti agli Spagnuoli, e perdettero nel 1566 l'isola di Scio,
conquistata da Solimano sopra i Giustiniani, loro concittadini, che
se n'erano arrogata la sovranità. Furono pure in pericolo di
perdere la Corsica, che, dopo essere stata invasa dai Francesi nel
1553253, si sollevò nel 1564, e continuò a respingere con tutte le
sue forze il giogo oppressivo della repubblica, fino al 1568, in cui
fu di nuovo sommessa254. Più non vi fu pace in Genova. Dopo la
congiura dei Fieschi i più ricchi e più potenti membri
251
Gio. Batt. Adriani, l. VI, p. 369-375. - Bern. Segni, l. XII, p. 316. - De Thou,
Hist. univers., l. III, p. 203-217. - Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 157.
252
Gio. Batt. Adriani, l. XVI, p. 1177. - Fil. Casoni Ann. di Genova, l. VI, p.
144. - A queste autorità allegate dal nostro autore, devesi aggiungere la
circostanziata descrizione che della congiura dei Fieschi fece elegantemente
nella sua storia di Genova Jacopo Bonfadio. N. del T.
253
Gio. Batt. Adriani, l. X, p. 658.
254
Ivi, l. VII, p. 457. - Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 203.
dell'aristocrazia, temendo di vedersi tolto di mano il governo
dall'odio popolare, avevano risolto di rialzare una rocca alla
Lanterna, con intenzione d'introdurvi una guarnigione spagnuola,
onde tenere la città in dovere e consolidare la propria autorità.
Questo progetto doveva avere esecuzione nel 1548, in occasione
del passaggio per Genova di don Filippo, principe di Spagna: e
don Ferdinando di Gonzaga, governatore del Milanese, doveva
spalleggiarlo con tutte le sue forze. Ma malgrado la loro
ubbidienza, i Genovesi abborrivano gli Spagnuoli; onde
pregarono Andrea Doria di opporsi a così vergognoso progetto,
cui lo spirito di vendetta lo aveva in sulle prime ridotto ad
acconsentire; gli raccomandarono la libertà della repubblica, di
cui era il secondo fondatore, ed ottennero da lui la promessa, che
nè il principe di Spagna, nè le truppe di lui sarebbero ricevute in
città255.
Nuove dissensioni scoppiarono nella seconda metà del secolo
tra l'antica e la nuova nobiltà, i di cui diritti non erano ben
definiti; e tanto s'innoltrarono queste da dare speranza a Giovanni
d'Austria di potere occupare Genova, quando nel 1571 passò
davanti a questa città colla flotta, che in appresso conseguì la
vittoria di Lepanto256. In questa circostanza papa Gregorio XIII
prese sotto la sua protezione la repubblica, e contribuì
potentemente a riconciliare le fazioni. Nel 1575 ottenne da
queste, che rimettessero le ragioni loro in arbitrio di tre mediatori,
cioè egli stesso, l'imperatore ed il re di Spagna. Le tre corti
modificarono la costituzione della repubblica, ed in parte
distrussero l'opera di Andrea Doria. La recente loro legge,
pubblicata il 17 marzo del 1576, accrebbe i privilegj dei nuovi
nobili, ma sempre come nobili: restarono dimenticati i diritti dei
cittadini, e la libertà venne bandita da questa repubblica quasi
come dagli assoluti principati257.
255
256
Gio. Batt. Adriani, l. VII, p. 457. - Fil. Casoni Ann. di Genova, l. V, p. 203.
Adriani, l. XXI, p. 1569. - Casoni, t. IV, l. VIII, p. 5.
La libertà non era meglio conosciuta a Venezia; questa città,
dopo avere esaurite le proprie forze per resistere alla lega di
Cambrai, pareva cercare l'oscurità facendo di tutto per seppellirsi
nel silenzio, diffidare de' suoi cittadini, de' suoi alleati, e de' suoi
nemici, ed allegando i pericoli che la stringevano ora dal canto
della Turchia, ed ora dal canto dell'Austria, sottrarsi dal far
mostra di sè medesima. Due crudeli guerre coi Turchi privarono
effettivamente la repubblica di molti de' suoi più importanti
possedimenti nel Levante. Cominciò la prima nel 1537 col guasto
di Corfù, e finì il 20 ottobre del 1540 colla cessione fatta a
Solimano di tutte le isole dell'Arcipelago che di già si trovavano
in potere dei Turchi, e delle forti città di Napoli e di Malvagia, o
Epidauro, che la repubblica possedeva ancora nel Peloponneso258.
L'altra fu dai Turchi intrapresa nel 1570 per conquistare l'isola di
Cipro; la quale, difesa con prodigj di valore e con infiniti sagrificj
di uomini e di danaro, fu all'ultimo perduta dai Veneziani, ed
abbandonata colla pace che sottoscrissero nel mese di marzo del
1573259.
Il timore dei Turchi, che in tutte le guerre aveva avuti costanti
vantaggi contro la repubblica, costringeva questa ad allearsi colla
casa d'Austria. Circondata dagli stati di questa casa, costretta di
ricorrere a lei contro un nemico ancora più terribile, la repubblica
non ardiva pretendere ad un'assoluta indipendenza. Finchè le due
monarchie dei Turchi e degli Spagnuoli conservarono tutto il loro
vigore, i Veneziani furono abbastanza fortunati di sottrarsi al
pericolo coll'oscurità, e di evitare ogni azione che attirare potesse
su di loro gli sguardi dell'Europa.
257
Graevi Thes. Rer. Ital., t. I, p. II, p. 1471. - Ciccarelli Vita del papa
Gregorio XIII, f. 304. - Fil. Casoni Ann. di Genova, t. IV, l. VIII, p. 72.
258
P. Paruta Ist. Ven., l. X, p. 726. - P. Jovii Hist., l. XXXVI, p. 333; e l.
XXXIX, p. 417. - Laugier Hist. de Venise, t. IX, l. XXXVI, p. 480-577. - Vettor
Sandi Storia civile veneta, p. III, l. X, c. VI, p. 625.
259
Lett. de' Princ., t. III, f. 243 e seg. - De Thou Hist. univ., l. XLIX, p. 412 e
seg. - Laugier Hist. de Venise, l. XXXVIII, t. X, p. 183 e seg. - Vettor Sandi, p.
III, l. X, c. XI, p. 667-698.
Tali furono in tutti gli stati d'Italia le rivoluzioni accadute nel
sedicesimo secolo. Il nome di questo secolo richiama a principio
un periodo di gloria, perchè i primi anni di questo vennero
illustrati dai più grandi ingegni che l'Italia producesse nelle lettere
e nelle arti. In mezzo ad orribili calamità, ogni speranza non era
in allora per anco perduta, e questa sosteneva i talenti di coloro
ch'erano nati, o che si erano formati in più felici tempi. Tutti i
grandi uomini onde si onora l'Italia appartengono a questa prima
metà del sedicesimo secolo, in cui l'Italia sentivasi ancora libera.
Il solo Tasso è di tutti il più moderno, perciocchè non pubblicò il
suo poema che nel 1581, e di già in allora si trovava isolato, quale
rappresentante degli andati tempi, in mezzo ad una degenere
nazione. Il genio sparve con lui dalla terra, dalla quale era stata
scacciata la libertà; e la fine del sedicesimo secolo, in cui l'umana
specie fu in Italia colpita dalle più spaventose sventure, non
dev'essere ricordata che coll'orrore che ispirano il delitto, i
patimenti e l'avvilimento dei nostri simili.
CAPITOLO CXXIV.
Rivoluzioni de' varj stati d'Italia nel corso del diciassettesimo
secolo.
1601=1700.
Mentre che presso gli altri popoli inciviliti gli ultimi secoli
svilupparono tanti nuovi interessi, e nuovi sentimenti e nuove
passioni, che più non potrebbesi ristringere la loro storia
nell'angusto circolo che bastava ai precedenti secoli, la storia
d'Italia diventa più sterile di mano in mano che ci avviciniamo
all'età nostra. Ma tutte le altre nazioni giugnevano lentamente
all'esistenza, mentre che la nazione italiana perdeva la sua. Anche
dopo terminata l'ultima contesa per l'indipendenza, fu ancora
necessario qualche tempo per disingannare gli uomini dai sogni
della loro ambizione, per convincerli che più non restava loro a
sperare nè libertà, nè grandezza, nè gloria; molti genitori avevano
instillati ne' loro figli i sentimenti di cui si erano essi medesimi
nudriti in più felici tempi; molti caratteri erano stati di nuovo
rinvigoriti dall'esilio, dalle persecuzioni, dai patimenti della
guerra e da tutte le calamità dei primi anni del sedicesimo secolo;
molti uomini energici, avendo presa una falsa direzione, e servito
il comune nemico, erano stati accarezzati da que' medesimi che
opprimevano tutti gli altri, ma che sentivano il bisogno di
riservarsi alcuni strumenti abbastanza forti per signoreggiare il
paese. Molti altri, senz'avere alcuno determinato scopo o speranza
di miglior sorte, si andavano tuttavia agitando per l'abitudine
delle rivoluzioni, in quello stesso modo che la materia conserva il
movimento, per la forza d'inerzia, allorchè l'ha ricevuto una volta.
Così tutto il sedicesimo secolo ebbe ancora un'apparenza di vita,
ed è per questo, a non dubitarne, ch'egli partecipò tutt'intero alla
gloria che gli procacciarono eterna i poeti, i letterati, gli artisti,
che fiorirono principalmente ne' primi anni. Per lo contrario il
diciassettesimo secolo è un'epoca di compiuta morte; e quanto la
storia letteraria lo rappresenta come in preda al più cattivo gusto,
alla insipidezza, al languore ed alla sterilità, altrettanto la storia
politica lo mostra privo d'ogni azione come d'ogni virtù, d'ogni
elevato carattere, d'ogni importante rivoluzione. Di mano in mano
che andiamo avanzando ci è forza di rimanere convinti, che la
storia, non solo delle repubbliche, ma dell'intera nazione italiana,
finì coll'anno 1530.
Ma si verserebbe in un grand'errore, se, osservando che la
storia quasi d'altro non si occupa che delle disgrazie degli uomini,
si supponesse che i tempi di cui essa non parla siano stati meno
infelici. Non tutte le calamità sono istoriche, loro abbisognando
un certo qual grado di grandezza e di nobiltà perchè possano
richiamare la nostra attenzione, ed imprimersi nella nostra
memoria. Acciocchè gli stessi contemporanei ci trasmettano i fatti
circostanziati dell'età loro, d'uopo è che le calamità siano comuni
a molti individui, e che si possa a prima vista comprendere il
rapporto che corre fra la cagione e l'effetto. Le disgrazie del
diciassettesimo secolo erano di diversa natura; erano tacite, e non
sembravano dipendenti dalla politica: ognuno soffriva, ma
ognuno soffriva nella propria famiglia, come uomo e non come
cittadino. Avvelenate erano le private relazioni, distrutte le
speranze, diminuita la fortuna, mentre che i bisogni di ognuno
andavano ogni giorno crescendo: la coscienza invece di essere di
sostentamento nella sventura, rinfacciava continuamente le
passate colpe; ed aggiugnendosi la vergogna al dolore, ognuno
sforzavasi ancora di nascondere agli occhi del mondo le sue pene
e d'involarne la memoria alla posterità.
Perciò non si pensò ad enumerare tra le pubbliche calamità
dell'Italia la cagione forse più generale de' privati patimenti di
tutte le famiglie italiane; il torto, dico, fatto al sacro nodo del
matrimonio con un altro nodo, risguardato come onorevole, e che
gli stranieri vedono sempre in Italia con eguale stupore, senza
poterlo comprendere; ed è quello de' cicisbei, o de' cavalieri
serventi. Questa sciagurata moda essendo stata una volta
introdotta nel diciassettesimo secolo dall'esempio delle corti, ed
essendo posta sotto la protezione di tutte le vanità, la pace delle
famiglie fu bandita da tutta l'Italia; verun marito più non
risguardò la sua consorte come una fedele compagna, associata a
tutta la sua esistenza; più non trovò in essa un consiglio nel
dubbio, un sostegno nell'avversità, un salvatore nel pericolo, una
consolatrice nella disperazione; niun padre osò assicurarsi che i
figliuoli a lui dati dal matrimonio fossero suoi; niuno si sentì
legato a loro dalla natura; e l'orgoglio di conservare il proprio
casato, sostituito al più dolce ed al più nobile affetto, avvelenò
tutte le domestiche relazioni. Quanto non demeritarono
dell'umanità que' principi, che riuscirono ad impedire che i loro
sudditi conoscessero qualcuno de' dolci affetti di sposi, di padri,
di fratelli e di figli!
Sebbene l'instituzione di tutti i ridicoli doveri de' cicisbei fosse
per avventura il più efficace mezzo di calmare gli spiriti irrequieti
di fresco ridotti in servitù, di snervare i coraggi troppo maschi,
d'effeminare i nobili ed i cittadini intolleranti del giogo, facendo
loro scordare che avevano perduto ciò che più non dovevano
cercare, forse si viene a far troppo onore alla penetrazione di
coloro che mutarono le costumanze d'Italia, supponendo che
prevedessero tutte le conseguenze delle nuove mode ch'essi
introducevano; pure l'istinto del delitto conduce più volte tanto
direttamente allo scopo, quanto il calcolo.
Fino alla metà del sedicesimo secolo l'abitudine del lavoro era
stata la qualità distintiva degl'Italiani: a Firenze, a Venezia, a
Genova il primo ordine era dei mercanti; e le famiglie decorate di
tutte le dignità dello stato, della Chiesa o dell'armata, non perciò
rinunciavano al commercio. Filippo Strozzi, cognato di Leon X,
padre del maresciallo Strozzi e del gran priore di Capoa, amico di
molti sovrani, il primo cittadino dell'Italia, erasi fino alla fine
della sua vita mantenuto capo di una casa di banco. Ebbe sette
figli; ma, malgrado la sua immensa ricchezza, non ne aveva
destinato veruno all'ozio. I principi vollero sostituire a questa
formidabile attività ciò che essi intitolarono un nobil ozio; le armi
castigliane inondavano l'Italia, ed essi chiamarono in loro ajuto i
pregiudizj castigliani, che coprivano con un profondo disprezzo
ogni specie di lavoro. Trassero tutti i loro cortigiani a convertire
le loro sostanze in terre, a destinarle a perpetuità al primogenito
della loro famiglia, sagrificando in tal modo all'orgoglio i più
giovani fratelli e le femmine, e condannando ad una costante
inerzia tutti i figli primogeniti per alterigia, tutti i figli cadetti per
impotenza.
Per occupare l'ozio di tutto ciò che era cortigianesco, di tutto
ciò che venne onorato col titolo di nobiltà, per offrire nello stesso
tempo un compenso a quella folla di cadetti privati di ogni
speranza, e per sempre esclusi dal matrimonio, furono inventati i
diritti ed i bizzarri doveri dei cicisbei, o cavalieri serventi; questi
furono interamente fondati sopra due leggi che s'impose il bel
mondo: niuna femmina più non potè con decenza mostrarsi sola
in pubblico; verun marito non potè, senza esporsi al ridicolo,
accompagnare sua moglie.
L'esempio de' traviamenti de' grandi contribuì senza dubbio
assai a corrompere il popolo: quello della impudica Bianca
Capello, e di tutti i principi e principesse della casa Gonzaga, nel
diciassettesimo secolo, non poteva essere senza influenza: ma
sebbene i costumi delle corti fossero più corrotti, si era
conosciuto l'intrigo e la galanteria fino ne' tempi delle
repubbliche, e questo disordine non bastava solo a distruggere il
carattere nazionale. Ciò che distingue il secolo diciassettesimo è
l'origine d'un pregiudizio antisociale, più del libertinaggio
funesto, dietro il quale facevasi pomposa mostra di ciò che in
addietro si nascondeva. Non fu già perchè alcune donne ebbero
degli amanti, ma perchè una donna non potè più mostrarsi in
pubblico senza un amante, che gl'Italiani cessarono d'essere
uomini.
Mentre che tutti i legami di famiglia furono rotti nel
diciassettesimo secolo con queste nuove costumanze, che,
risguardate in seguito come sole, consentanee all'eleganza,
vennero bentosto imitate dalla intera massa del popolo, il
commercio fu oppresso da un mortal colpo per la subita ritirata
degli uomini industri e dei capitali; ne consumarono la ruina i
monopolj e le assurde gabelle sopra ogni vendita di tutti gli
oggetti commerciabili, stabilite dagli Spagnuoli in tutte le
province loro soggette. Frattanto il fasto andava crescendo a
misura che diminuivano i mezzi; quanto, secondo gli antichi
costumi, erano apprezzati l'ordine e l'economia, altrettanto furono
tenuti in pregio nelle corti lo splendore e il lusso, e a norma di
questi furono fissati i gradi. Gl'Italiani impararono in questo
secolo (e furono loro maestri gli Spagnuoli) l'arte di
economizzare sui più pressanti bisogni per accordare di più
all'apparenza, di sopprimere tutti i comodi non veduti per
accrescere il fasto che abbacina gli occhi del pubblico. La spesa
diventò la misura della considerazione, e si diede lode al capo di
famiglia di tutto ciò che accordava al suo fasto ed a' suoi piaceri.
Ne' tempi delle repubbliche, i cittadini, non cercando altra
decorazione che i suffragj de' loro concittadini, temevano di
eccitare la loro gelosia con ambiziose distinzioni. Nè ricevevano,
nè davano titoli, e non mettevano alla tortura il loro linguaggio
per trovare formole più ossequiose. In ogni cosa le nuove corti
sostituirono la vanità all'orgoglio nazionale; e le questioni di
precedenza occuparono tutta la loro politica. La rivalità tra la casa
d'Este e la casa dei Medici, fra questa e la casa di Savoja, non
aveva altra vera cagione che la rispettiva pretesa di ciascuna di
andare innanzi all'altra nelle cerimonie in cui si scontravano i loro
ambasciatori. Successivamente i sovrani si andavano arrogando
nuovi titoli, mentre ne attribuivano altresì dei nuovi a tutta la loro
corte. Mentre passavano essi medesimi per tutti i gradi
d'illustrissimi, di eccellenze, di altezze, di altezze serenissime, di
altezze reali, creavano pei loro sudditi patenti senza fine di
marchesi, di conti, di cavalieri, loro cedendo in appresso la
qualificazione che essi avevano portata, e che cominciavano a
disprezzare. Tali decorazioni scendevano sempre più a basso
nella folla; più non iscrivevasi trent'anni sono al proprio calzolajo
senza chiamarlo molto illustre: ma col moltiplicare i titoli, non si
erano moltiplicati che i malcontenti e le mortificazioni; ognuno in
cambio di ciò che gli era accordato, non vedeva che quanto gli era
ricusato; e non eravi così magro gentiluomo, così piccolo
ufficiale di milizia, che non si tenesse mortalmente ferito
quand'era per errore chiamato chiarissimo ed eccellentissimo,
quand'egli aspirava all'illustrissimo.
Le leggi, le costumanze, l'esempio, la stessa religione, tal
quale era praticata, miravano a sostituire in ogni cosa l'egoismo
ad ogni mobile più nobile. Ma mentre che si sforzavano gli
uomini di riportare ogni cosa a sè medesimi, nello stesso tempo si
privavano di tutte le soddisfazioni che avrebbero potuto trovare in
sè medesimi. Il padre di famiglia, ammogliato con una donna non
di sua scelta, da lui non amata, e dalla quale non era amato,
circondato da figliuoli di cui non sapeva di essere padre, che non
pensava ad educare, e de' quali non si curava di acquistare
l'amore, continuamente disturbato nella propria famiglia dalla
presenza dell'amico di sua moglie, separato da alcuni de' suoi
fratelli e sorelle, e ch'erano stati fino dalla fanciullezza chiusi ne'
conventi, e stancheggiato dall'inutilità degli altri, i quali, per loro
parte d'eredità, avevano sempre diritto alla sua mensa, non era da
tutti risguardato che come l'amministratore del patrimonio della
famiglia. Egli era soltanto risponsabile della sua economia,
mentre che tutti gli altri, fratelli, sorelle, moglie e figli, erano
entrati in una segreta lega per deviare a loro profitto il più che
potevano della comune entrata, per godere, per mettersi essi
medesimi al largo, senza curarsi delle difficoltà in cui poteva
trovarsi il loro capo.
Questo capo di famiglia più non era il vero proprietario del
fondo patrimoniale; più non aveva verun mezzo di accrescerlo,
mentre che le imposte, le pubbliche calamità e l'accrescimento del
lusso lo andavano sempre diminuendo. La sostanza che ricevuto
aveva da' suoi maggiori era tutt'intera sostituita a perpetuità.
Dessa non apparteneva alla vivente generazione, ma a quella che
non era ancora nata. Il padre di famiglia non poteva nè ipotecare,
nè mutare, nè vendere; se qualche stravaganza giovanile gli aveva
fatto contrarre un debito, le sole sue entrate potevano essere prese
per pagarlo, ed intanto egli doveva per vivere contrarne un altro.
Il legame impostogli dal suo antenato per conservare la sua
sostanza, gl'impediva di usarne. Per ogni impreveduto bisogno
doveva valersi dei capitali destinati all'agricoltura, i soli di cui
potesse disporre, ed i soli che avrebbero dovuto essere intangibili.
Con ciò ruinava quelle terre che non aveva diritto di vendere, e le
numerose famiglie de' coloni erano con lui vittime della sua
inconsiderazione, di quella de' suoi parenti, o dell'accidentale
disgrazia che aveva danneggiata la sua sostanza.
S'egli cercava onori per sottrarsi ai dispiaceri che trovava nella
propria casa, si vedeva ad ogni istante mortificato da tutte le
vanità gelose della sua; se voleva mettersi in sulla strada de'
pubblici impieghi, non poteva avanzarsi che colle arti dell'intrigo,
coll'adulazione e colla bassezza; e se aveva delle processure, le
sue ragioni venivano compromesse dalle interminabili lentezze
del foro, o sagrificate dalla venalità de' giudici; se aveva nemici, i
suoi beni, la libertà, la vita, erano in balìa di segreti delatori, di
arbitrarj tribunali. Non amando che sè medesimo 260, non trovava
in sè medesimo che pene e cure. Per sottrarsi ai suoi dispiaceri era
in certo qual modo costretto a seguire l'universale tendenza della
sua nazione verso i piaceri sensuali, ed abbandonandovisi,
apparecchiavasi ancora in mezzo a questi nuove pene e nuovi
tormenti.
Tale era nel diciassettesimo secolo la situazione di quasi tutti i
sudditi italiani; ed in tal guisa tra le feste ed i divagamenti della
vita, la sventura li raggiugneva in ogni luogo senza lasciare
veruna traccia nella storia. Rispetto agli avvenimenti del secolo di
cui lo storico vuole farsi carico, ove si confronti col precedente,
vi si troveranno per avventura minori calamità generali e più
umiliazioni, un minor numero di quei patimenti violenti e rapidi
che sembrano esaurire le forze della natura umana, ma altrettanta
miseria e maggiore avvilimento.
Carlo V aveva unita l'Italia alla monarchia spagnuola. Filippo
II nel lungo suo regno l'aveva mantenuta in una stretta
dipendenza; e sebbene tutti gli stati che gli erano subordinati
avessero cominciato a deperire nell'istante in cui erano passati in
suo potere, pareva che sotto di lui la monarchia spagnuola
andasse riparando con esterne conquiste la perdita delle interne
sue forze. Invano l'oppressione aveva spinti alla ribellione i Mori
di Granata e gli Olandesi ne' Paesi bassi; invano l'Oceano aveva
260
Nell'originale "mesimo". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
inghiottite le formidabili flotte di Filippo; invano la Francia e
l'Olanda erano lorde del sangue de' suoi soldati; invano il sempre
crescente disordine delle sue finanze l'aveva ridotto a fare un
ignominioso fallimento; ad onta di tutto ciò quando venne a
morte il 13 di settembre del 1598 era tuttavia il più formidabile
monarca d'Europa. Non eravi sovrano che ardisse tentare con lui
la sorte delle armi, e niuno stato poteva conservare a lui vicino la
propria indipendenza. Il diciassettesimo secolo vide regnare tre
principi della linea austriaca di Spagna, successori di Filippo. Suo
figlio Filippo III morì il 31 marzo del 1621; Filippo IV, suo
nipote, mancò il 7 settembre del 1665; e suo pronipote Carlo II
morì il primo di novembre del 1700. La crescente incapacità di
questi tre sovrani, la debole loro pusillanimità, e l'imprudenza de'
loro favoriti e de' loro primi ministri, affrettarono il decadimento
della monarchia spagnuola, e fecero che il disprezzo sottentrasse
allo spavento che aveva inspirato.
Pure questo decadimento della monarchia spagnuola non
somministrò all'Italia i mezzi di spezzare le sue catene. I tentativi
fatti dalle province suddite del re di Spagna furono mal combinati
e mal diretti, e non ottennero che una più crudele oppressione:
rispetto ai piccoli sovrani che si erano posti sotto la protezione
della Spagna, più non avevano bastante energia per desiderare
maggiore libertà. Talvolta pendevano incerti tra questo giogo e
quello della Francia; si avvicinavano momentaneamente a
Lodovico XIV, di cui conoscevano l'ascendente; ma bentosto non
sentendosi appoggiati da bastante buona fede, ricadevano nelle
antiche loro abitudini, e non volevano, per la speranza di lontano
ajuto, esporsi all'inimicizia de' loro prossimi vicini.
L'autorità di Filippo III sopra l'Italia non fu turbata dalla
rivalità del re di Francia. Vero è che durante parte del suo regno
ebbe per antagonista il grande Enrico; ma questo principe, che
voleva rialzare i suoi stati dallo spossamento cui gli avevano
ridotti le guerre civili, evitò le battaglie, e si chiuse in certo qual
modo l'ingresso dell'Italia. La reggenza tutt'affatto austriaca di
Maria de' Medici più non diede alla Spagna motivo
d'inquietudine. Filippo IV, più debole che suo padre, ebbe più
formidabili antagonisti. I due ministri Richelieu e Mazarino,
durante tutta la loro amministrazione, altro scopo non si
proposero che l'abbassamento della casa d'Austria. Cominciando
dal 1621, in cui Richelieu prese a proteggere contro gli Spagnuoli
i diritti de' Grigioni protestanti sopra la Valtellina, fino alla pace
de' Pirenei del 7 di novembre del 1659, la Spagna e la Francia
furono quasi sempre in guerra: ma la Francia non aveva in allora
nè un re che sapesse mettersi alla testa delle armate, nè ministri
guerrieri; onde non si lasciò allettare da lontane spedizioni. Non
perciò fu meno prodiga di sangue e di tesori che in tempo dei più
gloriosi regni di Lodovico XII e di Francesco I: ma le sue armi in
Italia quasi non oltrepassarono i confini della Valtellina e del
Piemonte. Per vero dire i principali suoi sforzi venivano diretti
contro la Fiandra e la Germania, ma non devesi perciò meno
notare quale proprio carattere di tutte le guerre dirette dai due
cardinali, che lo scopo loro fu piuttosto la devastazione che la
conquista, e che ruinavano la Spagna senza riuscire utili alla
Francia.
Il terzo periodo stendesi dalla pace de' Pirenei fino alla guerra
della successione di Spagna, e corrisponde al regno di Carlo II,
siccome agli anni più gloriosi di quello di Lodovico XIV. In
questo tempo gli ultimi monarchi austriaci di Madrid, tutta
sentendo la propria debolezza, cercavano ad ogni prezzo di
schivare la guerra, mentre che il Francese, credendo di non potere
acquistare gloria che colle armi, avidamente coglieva tutte le
occasioni di attaccare i suoi vicini, senza perdere tempo a pesare
la giustizia o l'apparente validità dei pretesti che egli impiegava.
Nè Lodovico XIV, nè veruno de' suoi consiglieri, hanno potuto
credere ben fondati i titoli della regina madre reggente di Francia
a dividere la successione di Filippo IV. Altro vero motivo non
aveva la guerra che il sentimento della forza opposta alla
debolezza, ed i manifesti altro non erano che una grossolana
ipocrisia, che sarebbe stato meglio di risparmiare. Non pertanto in
questo periodo, che costò tanto sangue all'umanità, l'Italia fu
meno che il rimanente dell'Europa il teatro della guerra generale.
Le armi francesi quasi non la visitarono che allorquando la vanità
di Lodovico XIV compiacquesi nel 1662 di umiliare papa
Alessandro VII, in occasione del preteso insulto fatto dai Corsi al
suo ambasciatore, e quando nel 1684 desolò la repubblica di
Genova con un barbaro bombardamento. Altronde i piccoli
principi, imbarazzati dalla libertà che loro rendeva
l'indebolimento della Spagna, si volsero verso l'imperatore per
deferirgli il loro vassallaggio, ed essere spalleggiati dalla sua
protezione; quantunque Leopoldo I, che salì sul trono imperiale
nel 1658, e che vi si tenne fino al 1705, non si facesse in Italia
conoscere che colle vessazioni e colla rapacità dei suoi generali.
Il ducato di Milano ed i regni di Napoli, di Sicilia e di
Sardegna, rimasero tutto il diciassettesimo secolo sotto il dominio
degli Spagnuoli. Non avendo il ducato di Milano in questo spazio
di tempo manifestate nè una volontà nazionale, nè una risoluzione
che gli appartenesse, desso, non altrimenti che le altre province
della vasta monarchia austriaca, non può essere argomento di
separata istoria; desso soffrì come le altre il fasto e l'impero del
duca di Lerma, del conte duca d'Olivarès, di don Luigi di Haro, i
quali, essendo primi ministri e favoriti, dispoticamente
governavano il re ed il regno; soffrì ancora più delle altre
province, perchè la guerra tra la Francia e la casa d'Austria,
avendo in tutto il secolo avuto per oggetto, in Italia il
possedimento del Piemonte, del Monferrato, della Valtellina e del
ducato di Mantova, mai non si allontanò dai confini del Milanese.
Pure questa guerra si trattò, se non con minore crudeltà, almeno
con minore attività che non si trattarono quelle del precedente
secolo; ed i suoi guasti, come i giornalieri errori del governo, non
bastarono a controbilanciare la maravigliosa fertilità di quel bel
paese, o a distruggere le dispendiose opere colle quali gli antichi
suoi proprietarj avevano signoreggiate le acque, facendole servire
ad accrescere le ricchezze delle campagne.
In questo secolo la storia conserva un perfetto silenzio intorno
al vice-regno di Sardegna; ma i regni di Napoli e di Sicilia fecero
almeno parlare di loro cogl'infruttuosi loro sforzi per iscuotere la
tirannide spagnuola.
Le entrate del regno di Napoli, alla metà del XVII secolo,
ammontavano a sei milioni di ducati; e le spese
dell'amministrazione della flotta e dell'armata, comprese ancora le
ambascerie d'Italia, non assorbivano più di un milione e trecento
mila ducati. Riputavasi, a dir vero, che settecento mila ducati
erano impiegati nel regno in segrete spese, o dilapidati dagli
ufficiali del re; ma quattro milioni di ducati, o i due terzi delle
ordinarie entrate uscivano ogni anno del regno per pagare i debiti
o le armate della Spagna261. Un tale impiego dei tributi del popolo
a pro di una politica per la quale egli non prendeva verun
interesse, lo rendeva estremamente scontento; ma il di lui cattivo
umore veniva in oltre accresciuto dal progressivo accrescimento
di tutti i carichi. In forza dei privilegj dello stato, riconosciuti da
Ferdinando e da Carlo V, veruna nuova imposta poteva essere
ordinata senza l'assenso del parlamento, che rappresentava la
nobiltà ed il popolo; ma da gran tempo il parlamento più non si
adunava, ed ogni giorno i vicerè, stimolati dalla loro corte,
inventavano qualche nuova gabella, e sempre più angustiavano
con insopportabili pesi un popolo di già estremamente oppresso.
Gli Spagnuoli, in conseguenza della consueta loro ignoranza
dell'economia politica, gravavano con queste gabelle quasi tutte
le derrate di prima necessità, tassando successivamente le carni, il
pesce, la farina, ed all'ultimo le frutta. I poveri, costretti di
rinunciare ad una consumazione che le imposte rendevano
sempre più cara, si andavano successivamente privando degli
oggetti tassati. La gabella sulle frutta, che si valutava per la sola
città di Napoli quattrocento mila ducati, parve loro fatta per rapir
261
Istor. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 208. Venezia, 1648, 4.°
loro l'ultimo rifugio, togliendo loro il solo cibo non ancora
sproporzionato ai loro mezzi. Si sollevarono il 7 di luglio del
1647 contro il duca d'Arcos, allora vicerè: un giovane pescatore
d'Amalfi, detto Maso o Tommaso Aniello, si fece loro capo;
bruciarono le baracche ove precisavasi l'imposta; minacciarono il
vicerè, e lo costrinsero a fuggire in castel sant'Elmo; incendiarono
le case di coloro che si erano arricchiti colle malversazioni delle
finanze; richiamarono i privilegj loro guarentiti da Carlo V; ed
all'ultimo sforzarono il governo, vinto in varj incontri, a trattare
con loro262.
Di quest'epoca uno spirito di libertà pareva che tutta animasse
l'Europa. Gli Olandesi avevano fatto riconoscere e rispettare la
loro repubblica; gl'Inglesi tenevano Carlo I prigioniero ad
Hampton-Court; i Francesi facevano la guerra a Mazarino ed alla
reggente; i Portoghesi avevano scosso il giogo della Spagna; i
Catalani erano sollevati; ed in Sicilia era scoppiata
un'insurrezione, prima ancora di quella che poi si manifestò in
Napoli. Ma quasi in ogni luogo l'inquietudine ed i lunghi
patimenti avevano sollevati i popoli contro intollerabili abusi,
prima che i popoli stessi avessero bastanti lumi per correggere i
loro governi, o per fondarne di nuovi sopra migliori principj. Il
popolaccio si pose alla testa de' movimenti degl'insorgenti e loro
diede uno spaventoso carattere. Gli uomini di più elevato ordine,
che più ancora della plebe avevano bisogno di libertà,
abbandonarono non pertanto una causa pur troppo
frequentemente macchiata dai delitti; vedevano da un canto lo
stendardo del dispotismo, dall'altro quello dell'anarchia, e non
sapevano quale seguir dovessero. I patimenti del popolo e la
stessa sua ignoranza, ch'erano l'opera del governo, giustificavano,
a dir vero, il suo odio; ma la più dannosa di tutte le passioni cui
gli oppressi possano darsi in preda, è quella della vendetta, la
quale fa andare a male quasi tutte le rivoluzioni.
262
Ist. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 211. - Giannone stor. civile, l.
XXXVII, c. II, t. IV, p. 509.
Il duca d'Arcos diffidava non meno de' gentiluomini napolitani
che del popolo; sapeva di avere violati tutti i privilegj, di avere
amaramente mortificati quei gentiluomini che potevano per altro
sollevare tutte le province, col credito loro presso i contadini loro
vassalli, ed aggiugnerle alla capitale. Giudicò adunque essere
prima di tutto conveniente cosa di spargere tra loro la disunione.
Perciò incaricò i gentiluomini di dare al popolo simulate
proposizioni di conciliazione; li persuase a leggere un falso
privilegio di Carlo V, a rendersi garanti di false scritture, e li
trasse così avanti nelle proprie perfidie, che il popolaccio,
credendoli essere stati strumenti degl'indegni artificj del vicerè,
rivolse contro di loro quel furore che a bella prima concepito
aveva contro gli Spagnuoli, ne uccise molti, ed incendiò le loro
case. Gli altri gentiluomini, sebbene convinti che il solo vicerè
era colpevole del sangue de' loro fratelli, furono costretti di
assecondarlo, perchè più non ottenevano confidenza, nè
trovavano sicurezza nell'opposto partito263.
Non la data fede, non i giuramenti per quanto fossero solenni,
potevano incatenare le vendette del governo spagnuolo. Fu in
mezzo alla chiesa del Carmine, nell'istante in cui faceva leggere
al popolo gli articoli della pace che aveva in allora giurata, che il
duca d'Arcos fece fare una scarica di archibugiate sopra
Masaniello ed i compagni di lui264. Questo capo di fazione, per
una straordinaria felicità, non rimase ferito, ed il vicerè,
dichiarando di non conoscere i banditi da lui adoperati, li
sagrificò al furore del popolo per ricuperare il proprio credito;
poi, continuando a trattare della pace, invitò Masaniello ad un
convito di riconciliazione, nel quale gli fece servire una bevanda
che lo trasse di senno. Il favorito del popolo perdette allora la
confidenza del suo partito a motivo delle sue stravaganze e delle
263
264
Ist. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 216.
Istor. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. V, p. 220.
sue crudeltà; ed il duca d'Arcos ne approfittò per farlo assassinare
il 16 di luglio265.
Ne' pochi giorni in cui si mantenne il suo potere, Masaniello
aveva esercitata sul popolo la più illimitata autorità. I naturali
talenti del giovane pescivendolo, e la pronta ubbidienza della
plebaglia ai voleri di lui, avevano atterrito il duca d'Arcos, e
strappategli tutte le concessioni colle quali aveva cercato di
calmare la sedizione; ma le ritirò tutte tostochè si fu disfatto del
suo nemico. Credette allora di potere annullare senza pericolo le
obbligazioni recentemente contratte; ma il 21 di agosto
ricominciò la sedizione con maggior furore che mai, e gli
Spagnuoli, conoscendosi troppo deboli, si ridussero a fare una
nuova capitolazione266. Ad ogni modo quando colle più solenni
promesse ebbero persuaso il popolo a deporre le armi, i tre forti
che signoreggiano Napoli, e la flotta di don Giovanni d'Austria,
ch'era entrata in porto, cominciarono tutt'ad un tratto, il 5 ottobre
a mezzodì, a cannonare ed a bombardare la città; e mentre il
popolo disarmato, atterrito, sorpreso, chiedeva tuttavia la cagione
di così impreveduto attacco, sbarcarono dalla flotta sei mila
uomini delle bande spagnuole, con ordine di uccidere tutto quanto
incontrerebbero267.
Ma la popolazione di Napoli ammontava a più di quattrocento
mila uomini. Gl'insorgenti, quasi tutti senza casa e senza beni,
non avevano che temere dal bombardamento: combattendo essi
senza ordine, non si accorgevano di tutte le perdite che andavano
facendo, e l'uccisione che accadeva in una strada non era
conosciuta nella vicina, ove cominciava la zuffa. Il popolaccio
camminava dall'uno all'altro tetto gettando pietre e tegole sopra i
soldati, poscia fuggiva prima che dalla truppa di linea potesse
essere raggiunto. Dopo due giorni di battaglia, gl'insorgenti
attaccarono i soldati oppressi dalla fatica, e, cacciandoli da tutti i
265
Ivi, p. 225. - Giannone, l. XXXVII, c. II, p. 517.
Istor. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. IV, p. 273.
267
Ivi, l. V, p. 278. - Giannoni, l. XXXVII, c. III, p. 520.
266
posti, li costrinsero a ripararsi nelle tre fortezze, o sopra la flotta,
restando essi padroni della città268.
Solamente dopo questo fatto i Napolitani cominciarono a
trattare coi Francesi, chiamando in loro ajuto Enrico di Lorena,
duca di Guisa, che in allora trovavasi a Roma. Costui, per parte di
donne discendendo dalla seconda casa d'Angiò, credeva di avere
alla corona di Napoli legittimi diritti, che sperava di mettere in
campo in così favorevole occasione, e faceva capitale sui soccorsi
della Francia. Si recò subito a Napoli, ove fu dichiarato
generalissimo e difensore della libertà. Di già cominciava ad
essere proferito il nome di repubblica di Napoli, e ad essere
accolto con entusiasmo dal popolo, ed in tutte le province, che si
erano sollevate in sull'esempio della capitale269.
Ma il popolo napolitano, sotto il dominio degli Spagnuoli, non
aveva acquistati nè i costumi, nè le abitudini, nè le opinioni colle
quali si fonda una repubblica. Egli non pensava che a far passare
in altre mani l'autorità arbitraria, invece di distruggerla; ubbidì
ciecamente a Masaniello poi a Gennaro Annese ed al duca di
Guisa, nello stesso modo che aveva ubbidito al vicerè; loro
permise di regnare coi supplicj, e non vi fu mai giustizia
sommaria più pronta nè più ingiusta che quella di questi favoriti
della plebaglia. Nella sua cieca superstizione quel popolo contò
assai più sui miracoli della Madonna del Carmine, su quelli dello
stesso Masaniello, che risguardava quale santo, che sopra i proprj
sforzi. Passando da una cieca confidenza ad una insensata
diffidenza, fu tradito da tutti coloro cui affidò il suo potere, e
trasmutò in accaniti nemici tutti coloro che perseguitò con
ingiuriosi sospetti; soprattutto continuò troppo lungamente a
proclamare colle sue grida il re di Spagna, a pretendere di
mantenersegli fedele, ed a rigettare sugli Spagnuoli il nome di
ribelli. Gli è questo un grand'errore, di credere che le parole
268
Ist. del conte Gualdo Priorato, p. IV, l. VI, p. 278.
Gualdo Priorato, p. 283. - Limiers Hist. de Louis XIV, l. I, p. 129. Giannone, l. XXXVII, c. III, p. 521.
269
adoperate contro il loro senso naturale possano fare illusione sul
fondo delle cose. È meno pericoloso per coloro che si ribellano il
confessarsi apertamente ribelli; ed i Napolitani avevano
bastantemente sperimentato il carattere di Filippo IV e del suo
ministero, per essere certi che Filippo non verrebbe con loro a
patti che per ingannarli.
Il duca di Guisa, invece di costituire la repubblica che lo
sceglieva per suo capo, non pensò che ad attribuirsi un assoluto
potere; si mostrò geloso di tutti i diritti della nazione, di tutti
quelli dei suoi magistrati, ed in particolare dell'opinione che
aveva presso il popolo Tomaso Annese, il più destro partigiano
della libertà ed il vero capo della rivoluzione. Siccome il Guisa
nulla aveva fatto pel popolo, così non ottenne dal medesimo que'
generosi sforzi che inspira il solo amore della libertà. Gennaro
Annese, irritato di non avere altro fatto che mutare padrone, e
temendo per sè medesimo la gelosia del Guisa, cominciò
celatamente a trattare cogli Spagnuoli. All'ultimo vendette loro la
propria patria, aprendone loro le porte il 4 aprile del 1648, mentre
che il Guisa aveva fatta una sortita con un piccolo corpo d'armata
per agevolare l'arrivo delle vittovaglie. Ad un giogo più assai
pesante del primo venne assoggettata la città di Napoli, ed altro
conforto non ebbe il popolo che quello di vedere coloro che lo
avevano tradito cadere vittima della propria perfidia. Il duca
d'Arcos aveva perduta la carica di vicerè, ed era stato richiamato
in Ispagna; il duca di Matalona ed il principe don Francesco
Toralto, da lui persuasi con altri gentiluomini napolitani a tradire
i loro compatriotti, vennero uccisi dal popolo furibondo; il duca
di Guisa, fatto prigioniero dagli Spagnuoli, non ottenne la sua
libertà che nel 1652; e Gennaro Annese, che aveva restituita la
corona a Filippo IV, e data la sua patria in mano agli Spagnuoli,
perì sopra un patibolo, per ordine di quel re ch'egli aveva
ristabilito, insieme a quasi tutti coloro che avevano avuta qualche
parte nelle turbolenze; provando in tal maniera che verun
servigio, per quanto possa essere grande, cancella agli occhi di un
despota le passate ingiurie, e che verun giuramento lo lega verso
coloro che una volta tentarono di scemare la sua potenza270.
La sollevazione di Palermo, scoppiata il 20 maggio del 1647,
fu meno lunga e meno importante che quella di Napoli; ma
press'a poco andò soggetta alle stesse crisi. Il vicerè di Sicilia,
don Pedro Faxardo de Zuniga, marchese de los Velez, non fu nè
meno perfido, nè meno crudele del duca d'Arcos. Giuseppe
d'Alessi, filatore d'oro, nativo di Polizzi in Sicilia, ebbe in
quest'insurrezione le stesse parti che Masaniello a Napoli; come
lui fu ucciso il 22 di agosto da' suoi partigiani, comperati dal
vicerè, e come lui fu pianto da quel popolo che avrebbe dovuto
difenderlo. Per ultimo a Palermo come a Napoli, dopo
un'amnistia solennemente accordata, fu tirato nelle strade a
mitraglia sopra il popolo, vennero appiccati tutti i capi, e le
gabelle, che avevano cagionata la ribellione, e che il vicerè aveva
abolite, furono ristabilite in tutta la loro estensione271.
Ma nello stesso secolo venne scossa in Sicilia l'autorità
spagnuola da un'altra sollevazione, dalla quale potevano
aspettarsi più serie conseguenze, perchè gl'insorgenti trovavansi
spalleggiati da Lodovico XIV, in allora giunto al più elevato
grado della sua possanza. Tale insurrezione scoppiò in Messina in
agosto del 1674. Sola di tutte le città della Sicilia Messina era di
que' tempi governata, piuttosto come repubblica che come
municipio, da un senato scelto in città, di cui il governatore
spagnuolo altro non era che il presidente con limitatissima
autorità. La libertà aveva conservata a Messina una prosperità
sconosciuta in tutti gli altri regni di casa d'Austria. La città
contava sessanta mila abitanti; il commercio vi aveva adunate
270
Gualdo Priorato, p. IV, l. VIII, p. 404. - Gio. Batt. Birago Ist. memorabile
de' nostri tempi parte V, annessa all'opera di Alessandro Ziliolo, l. VI, Ven.
1654, in 4.° - Muratori ad ann. - Giannone, l. XXXVII, c. IV, p. 529. - Lahode
Histoire de Louis XIV, t. I, l. V, p. 186.
271
Gualdo Priorato, p. IV, l. IV, p. 159, 173. - Ist. memorabili de' nostri tempi
di Gio. Batt. Birago, p. V, l. III. - Muratori ad An. - Giannone, Ist. civile, l.
XXXVII, c. II, t. IV, p. 511.
grandissime ricchezze; le arti, le manifatture, l'agricoltura
venivano egualmente incoraggiate; ma gli Spagnuoli
risguardavano tanta prosperità come un pericoloso esempio per le
vicine città, alle quali la vista di cotale prosperità poteva far
desiderare i privilegj che avevano da gran tempo perduti.
Altronde i governatori hanno tutti la stessa avversione per quei
diritti che autorizzano i loro amministrati a resistere loro, e sono
sempre solleciti di sopprimerli. Don Diego Soria, governatore di
Messina, oppressava la città con nuove gabelle, sprezzava
apertamente i diritti del senato, e cadde pure in sospetto d'aver
voluto far perire tutti i senatori un giorno che li fece arrestare nel
proprio palazzo. Questo forse malfondato timore fece scoppiare
l'insurrezione. Gli Spagnuoli, scacciati dalla città, si ripararono
nelle quattro fortezze che la circondano. Alcuni deputati spediti al
duca d'Etrèe, ambasciatore in Roma di Lodovico XIV, gli
offrirono pel suo re il possedimento di Messina, e con essa la
sovranità della Sicilia. Tale offerta fu dall'ambasciatore
avidamente accettata ed in appresso dalla sua corte. Lodovico
XIV venne in Messina proclamato re di Sicilia; ed il
commendatore Alfonso di Valbella si recò con sei navi da guerra
a prendere possesso di quella città272.
Nel susseguente anno il duca di Vivonne, ed in appresso il
signore di Quesne intrapresero la conquista delle altre città della
Sicilia, e la difesa di quelle che di già erano dai Francesi
possedute. Accanite zuffe ebbero luogo tra i Messinesi e gli
Spagnuoli, tra i Francesi e gli Olandesi alleati della corte di
Spagna. Fu appunto nella più sanguinosa di tali battaglie che il
valoroso ammiraglio Olandese Ruyter fu mortalmente ferito il 22
aprile del 1676273.
272
Muratori An. d'Italia ad an. 1674, t. XI, p. 324. - Limiers Hist. de Louis
XIV, l. VII, t. II, p. 276. - Giannone, l. XXXIX, c. III, p. 609. - Lahode Hist. de
Louis XIV, t. III, l. XXXV, p. 516.
273
Muratori An. d'Italia ad an. 1674, 1675, 1676. - Limiers Hist. de Louis XIV,
l. VII, t. II, p. 299-308 e segu. - Abregé de l'Hist. de la Hollande, c. XIV, p.
890, t. III. - Lahode Hist. de Louis XIV, t. IV, l. XXXVII, p. 41.
Però Lodovico XIV aveva perduta la speranza di occupare
tutta intera la Sicilia; e quando si aprirono in Nimega le
conferenze per la pace, conobbe bentosto che una delle
condizioni, cui sarebbe forzato di accettare, sarebbe l'evacuazione
di Messina. Facendo di cotale cessione un articolo del trattato,
avrebbe potuto facilmente ottenere un'amnistia per coloro che
l'avevano servito, e fors'anco la ratifica degli antichi loro
privilegj; ma parvegli che il proprio orgoglio avrebbe meno
sofferto evacuando spontaneamente la città, senza condizione,
senza esservi forzato, e come una semplice operazione militare.
Prima del 17 di settembre del 1678, giorno in cui fu sottoscritta la
pace di Nimega colla Spagna, Lodovico XIV mandò ordine al
maresciallo de la Feuillade, che aveva il comando di Messina, di
rassegnare la guardia della città agli abitanti, e di partire
immediatamente con tutti i Francesi. Il senato ricevette questo
crudele avviso, allorchè quasi tutti i Francesi erano di già
imbarcati; desso supplicò la Feuillade di sospendere la sua
partenza almeno pochi giorni, poichè non gli sovrastava verun
pericolo, e di accordare in tale maniera agli sventurati Messinesi
il tempo d'imbarcarsi con lui, onde sottrarsi ai carnefici della
Spagna; per somma grazia non potè ottenere dal maresciallo che
quattr'ore di ritardo. In così breve spazio di tempo si rifugiarono
sulla flotta francese sette mila persone, ma con tanto precipizio
che tutte le famiglie si trovarono separate, e che in questa scena di
spavento non vi fu una sola madre di famiglia che non perdesse lo
sposo, il fratello, o taluno de' suoi figliuoli, non un fuggiasco che
potesse seco trasportare soltanto tutto il suo effettivo danaro, o i
suoi più preziosi effetti. Bentosto, il maresciallo, temendo che la
sua flotta non fosse troppo carica, fece spiegare le vele, mentre
due mila persone gli tendevano ancora dalla riva le braccia, e
chiedevano ad alte grida di essere ricevuti a bordo.
Pur troppo giusto era lo spavento di quegli sciagurati. Il vicerè
don Vincenzo Gonzaga pubblicò, gli è il vero, un'amnistia
quando entrò in Messina, ma la corte di Madrid non tardò ad
annullarla. Vennero confiscati tutti i beni de' fuorusciti; la città fu
privata di tutti i suoi privilegj, e vi s'innalzarono monumenti
ond'eternare la memoria del suo gastigo; furono banditi tutti
coloro che avevano avuto qualche impiego sotto i Francesi, e
condannati a morte quelli che avevano presa una parte più attiva
nella ribellione. Di sessanta mila abitanti che popolavano quella
città, appena ne rimasero undici mila; e questa misera città non
potè mai più rifarsi da tanto infortunio274.
Dall'altro canto coloro, che dopo essersi sagrificati per la
Francia, confidavano nella riconoscenza di Lodovico, e che il
maresciallo de la Feuillade aveva condotti sulla sua flotta,
vennero ripartiti in varie città della Francia e mantenuti a spese
del re per un anno e mezzo; ma questi improvvisamente ordinò
loro sotto pena della vita di uscire dal suo regno, e li privò d'ogni
sussidio. Si videro allora uomini d'illustri natali, che fin allora
avevano vissuto nell'opulenza, ridotti alla mendicità, ed altri
riuniti in bande farsi assassini di strada. Mille cinquecento de' più
disperati passarono in Turchia, ove abjurarono la fede, non
volendo altri compagni che coloro, i quali abborrivano com'essi
tutti i principi cristiani. Per ultimo soli cinquecento ottennero
passaporti dagli ambasciatori spagnuoli per rientrare in patria; ma
il nuovo vicerè di Sicilia, il marchese de las Navas, gli fece
imprigionare di mano in mano che arrivavano; e tutti, ad
eccezione di quattro, furono condannati o alla forca o alle
galere275.
Gli altri stati d'Italia furono ben lontani dal provare in questo
secolo rivoluzioni di tanta importanza. Di tredici papi, che
successivamente occuparono la cattedra di san Pietro, da
Clemente VIII a Clemente XI, tre soltanto richiamano l'attenzione
dello storico sul loro regno per avvenimenti di qualche
274
Muratori Ann. d'Italia ad an. 1678, t. XI, p. 341. - Giannone Ist. civile, l.
XXXIX, c. IV, p. 623.
275
Muratori An. d'Italia ad an. 1678. - Lahode Hist. de Louis XIV, l. XXXIX, t.
IV, p. 169.
importanza. Paolo V, dal 1605 al 1621, per le sue contese colla
repubblica di Venezia; Urbano VIII, dal 1623 al 1644, per la
guerra de' Barberini; ed Alessandro VII, dal 1655 al 1677, per gli
oltraggi ricevuti da Lodovico XIV.
Paolo V, conosciuto prima sotto il nome di cardinale Camillo
Borghese, godeva somma riputazione per l'integrità de' suoi
costumi, pel suo zelo per la religione, ed in particolare pel suo
grande attaccamento alle immunità ecclesiastiche, le quali fino
nel primo anno del suo regno si credette chiamato a difendere,
perchè il consiglio del dieci aveva, in Venezia, fatti imprigionare
un canonico di Vicenza, ed un abbate di Nervesa, accusati di
enormi delitti, e perchè in tale occasione la repubblica aveva pure
richiamata in vigore un'antica legge che vietava agli ecclesiastici
l'acquisto di nuovi stabili. Paolo V intimò al doge di Venezia,
sotto pena di scomunica, di dare in mano al nunzio Mattei i due
prigionieri ecclesiastici e di rivocare una legge che sembravagli
contraria ai diritti della Chiesa. Paolo V era persuaso che niun
sovrano oserebbe resistere all'autorità pontificia; lo zelo religioso
era stato riscaldato dai papi allevati nei tribunali dell'inquisizione
che si erano succeduti in sul declinare del precedente secolo, dal
fanatismo di Filippo II, dalla riforma del concilio di Trento, e
dalla violenza delle guerre di religione di fresco terminate in
Francia, e non ancora spente in Fiandra. La fermezza della
repubblica di Venezia gli recò non poco stupore, e forse fu
cagione che non procedesse a nuove usurpazioni. Piuttosto che
cedere, i Veneziani incorsero la scomunica e l'interdetto contro di
loro fulminati il 17 aprile del 1606. Ordinarono, sotto pena della
vita, a tutti i preti e monaci dello stato di risguardare come non
avvenuto quest'interdetto, e di continuare la celebrazione de'
divini ufficj. I Gesuiti, i Teatini ed i Cappuccini, avendo ricusato
di ubbidire, furono costretti ad uscire dal territorio della
repubblica, ed i primi non vi furono nuovamente ricevuti che nel
1657. Paolo V, non volendo cedere, cominciò a fare leva di
truppe per ispalleggiare colle armi i suoi decreti. I Veneziani
fecero lo stesso, e chiesero l'assistenza del re di Francia, loro
alleato. Questi (Enrico IV) s'interpose con zelo per terminare una
lite che poteva risvegliare una guerra generale. Spedì il cardinale
di Giojosa a Venezia, indi a Roma per trattare; ed appoggiò così
bene la fermezza del senato di Venezia, che la repubblica,
nell'accomodamento conchiuso in Venezia, il 21 aprile del 1607,
nè rinunciò al diritto di tradurre gli ecclesiastici innanzi ai
tribunali secolari, nè alla legge che proibiva loro l'acquisto di beni
stabili, e soltanto consegnò al cardinale di Giojosa i due
ecclesiastici ch'erano stati imprigionati, dichiarando di farlo solo
per deferenza verso il re di Francia276.
Durante il suo lungo papato Paolo V arricchì a dismisura i suoi
nipoti; una ragguardevole parte dell'Agro Romano fu data ai
Borghesi: e que' vastissimi poderi, di mano in mano ch'erano
posseduti da più ricchi proprietarj, vedevano scemare il numero
de' loro abitanti. I Borghesi troppo ricchi per non dissipare con
principesco lusso l'entrate loro procurate dallo zio, non lo erano
bastantemente per far coltivare la provincia che possedevano, e
che rimaneva perciò destinata al pascolo.
Il cardinale Maffeo Barberini, innalzato alla santa sede il 6
d'agosto del 1623, sotto il nome di Urbano VIII, fu ancora più
prodigo dei beni della chiesa verso i suoi nipoti. Nel periodo di
ventun anni di regno, loro abbandonò tutta la direzione degli
affari della chiesa, e fece loro avere più di cinquecento mila scudi
d'entrata. Ma i Barberini non si appagavano delle ricchezze;
volevano approfittare del loro predominio sullo spirito dello zio
pressocchè rimbambito per acquistare i ducati di Castro e di
Ronciglione, feudi di casa Farnese, posti tra Roma e la
Toscana277.
276
Muratori An. ad an. 1605, 1606, 1607. - Hist. de la diplomatie Française 4
periode, l. II, t. II, p. 243-250. - Galluzzi storia di Toscana, l. V, c. XI, t. V, p.
79. - Laugier Hist. de Venise, t. X, l. XXXIX e XL, p. 350 e segu.
277
Ist. del conte Gualdo Priorato, p. III, l. II, p. 84. - Michel le Vassor Hist. de
Louis XIII, t. X, l. XLVIII, 2me part., p. 117, seconde édit.
Di quest'epoca que' due ducati, siccome ancora quelli di Parma
e di Piacenza, erano governati da Odoardo Farnese nipote di
Alessandro, l'illustre rivale di Enrico IV. Credeva Odoardo di
essere per ereditario diritto un eroe ed un valente generale.
Avendo contratti in Roma gravissimi debiti, di cui non pagava le
usure, aveva dato al governo pontificio un plausibile pretesto per
ordinare l'apprensione de' suoi feudi e per proporgli in seguito un
trattato di vendita o di permuta; ma alle pretese dei Barberini egli
oppose un'alterigia eguale alla loro, e non volle sapere di
convenzioni. In tale occasione scoppiò una guerra tra la chiesa ed
il duca di Parma nel 1641: e fu questa la sola in tutto questo
secolo che avesse origine italiana. Tutte le altre guerre, che
durante questo periodo insanguinarono il suolo della penisola,
erano state provocate da oltremontani interessi. Il duca di
Modena, il gran duca di Toscana, e la repubblica di Venezia
presero parte in questa guerra come alleati di Odoardo Farnese; fu
guastato molto paese, e ruinate le finanze della chiesa e del
ducato di Parma; ma non pertanto questa guerra fu ancora più
ridicola che pregiudicevole ai combattenti. Taddeo Barberini,
prefetto di Roma e generale della chiesa, che aveva adunati nel
Bolognese diciotto in ventimila uomini, fuggì colla sua armata,
che interamente si disperse alla sola notizia dell'avvicinamento
del Farnese, sebbene si sapesse che questa non aveva più di tre
mila cavalli. Ma lo stesso Odoardo per la sua instabilità, per una
presontuosa ignoranza, e per una inconsiderata prodigalità,
perdette tutto il vantaggio che gli avevano dato la viltà de' suoi
nemici e la cooperazione de' suoi alleati. Perciò dovette riputarsi
felice che, colla pace sottoscritta in Venezia il 31 maggio del
1644, si rimettessero le parti belligeranti nello stato in cui si
trovavano prima della guerra278.
278
Muratori Ann. 1641 e segu. - Ist. del conte Gualdo Priorato, p. III, l. VIII,
p. 316. - Ist. della repub. Veneta di Battista Nani, l. XII, p. 553-744, ediz. in
4.° ven. 1663. - Galluzzi stor. di Toscana, l. VII, c. II, e III, t. VI, p. 137 e segu.
Nel diciassettesimo secolo i papi più non avevano sullo stato
politico dell'Europa quell'influenza che i loro predecessori
avevano esercitata nel sedicesimo. I Borboni non avevano loro
mostrata giammai la medesima deferenza che i monarchi
spagnuoli. Pure dovevano i papi risguardarsi per lo meno come
sovrani ne' loro stati, ed in potere in tale qualità di amministrare
liberamente la giustizia nella propria capitale. Lodovico XIV
parve disposto a contrastare ad Alessandro VII tale prerogativa,
mantenendo, sotto nome di franchigia, la protezione che il suo
ambasciatore accordava agli abitanti di tutto un quartiere di
Roma, contro la giustizia papale. La disputa intorno alle
franchigie, cominciata nel 1660 e rinnovata nel 1662, spinse agli
estremi i Corsici della guardia del papa, i quali, dopo essere stati
malmenati dai servitori dell'ambasciata francese, vennero in
corpo ad insultare ed attaccare il duca di Crequì, ambasciatore di
Francia. Per vendicarlo, Lodovico XIV rinviò il nunzio
pontificio, occupò Avignone ed il contado Venosino, ed
apparecchiò un'armata per attaccare Alessandro VII nella sua
stessa capitale. In pari tempo chiese con alterigia una pubblica
soddisfazione; e l'ottenne col trattato di Pisa del 12 febbrajo del
1664, avendo il papa ed i suoi nipoti accondisceso alle più
umilianti condizioni279.
La disputa delle franchigie si rinnovò con maggiore acerbità
sotto Innocenzo XI. Avendo egli ottenuto dagli altri ambasciatori
d'Europa l'abolizione delle loro franchigie, volle approfittare della
morte del duca d'Etrès, accaduta in Roma il 30 gennajo del 1687,
per abolire, prima che il re gli desse un successore, quelle di cui
aveva goduto come ambasciatore di Francia: Lodovico XIV non
volle acconsentirvi, e destinò ambasciatore presso la corte di
Roma il marchese di Lavardino, colà mandandolo con una
guardia di ottocento spadaccini per minacciare il papa perfino
279
Hist. de la dipl. Française cinq. période, l. I, t. III, p. 301-314. - Muratori
ad an. 1666, 1664. - Limiers Hist. de Louis XIV, l. V, t. II, p. 38. - Galluzzi
Storia del gran ducato, l. VII, c. VIII, t. VI, p. 308.
nella sua capitale. Costoro si afforzarono nel palazzo di Francia; e
difesero le franchigie dell'ambasciatore francese colle armi, non
solo villanamente mancando al rispetto dovuto dal re al capo
della sua chiesa, ma perfino ai riguardi che il più potente monarca
avrebbe dovuto mostrare verso il più piccolo sovrano. L'affare
delle franchigie non ebbe fine che nel 1693 sotto il papato
d'Innocenzo XII, nella quale epoca Lodovico fu contento di
desistere da un preteso diritto che manteneva l'anarchia, e
favoreggiava il delitto negli stati del capo della cattolica
religione280.
Gli stati della Savoja e del Piemonte furono successivamente
governati, in questo secolo, da cinque duchi, tre de' quali si resero
illustri pel loro singolare ingegno. Pure questa casa, che nel
susseguente secolo doveva acquistare tanta preponderanza in
Italia, a stento potè in questo conservare quello stato di potenza
cui era giunta ne' primi anni del medesimo. Se i suoi confini si
mantennero press'a poco gli stessi, se le sue fortezze crebbero di
numero e d'importanza, i suoi sudditi vennero crudelmente ruinati
dalle guerre che si trattarono continuamente nel loro paese.
Carlo Emmanuele I, che in sul cominciare del secolo, regnava
già da venti anni in Torino, e che morì soltanto il 26 di luglio del
1630, alle qualità che formano il grande capitano univa i talenti
del sommo politico, ond'era risguardato come il più illustre
principe d'Italia; ma la sua insaziabile ambizione, gl'intrighi, la
mala fede dovevano finalmente inimicarlo con tutti i suoi vicini.
Aveva a vicenda cercato di occupare Ginevra, l'isola di Cipro,
Genova ed il Monferrato; ma non si era ristretto a muovere guerra
soltanto a piccoli stati, aveva pure alternativamente attaccate la
Francia e la Spagna, ed attirate nei suoi stati le armate di quelle
280
Hist. de la diplom. Franç., cinqu. période, l. V, t. IV, p. 94-106. - Limiers
Hist. de Louis XIV, t. II, l. X, p. 469. - Muratori ad an. 1687, t. XI, p. 374 e
segu. - Galluzzi storia del gran ducato, l. VIII, c. V, t. VII, p. 108.
grandi potenze; onde quando egli venne a morte, le sue migliori
città si trovavano in potere de' suoi vicini281.
Vittorio Amedeo, figliuolo di Carlo Emmanuele I, che aveva
sposata Cristina di Francia, figlia d'Enrico IV, non fu meno
valoroso, nè meno accorto di suo padre; ma più leale nella sua
politica, e più costante nelle sue amicizie, non si attaccò che alla
Francia. Ne' sette anni di continua guerra ch'egli sostenne,
durante il breve suo regno, contro gli Spagnuoli, padroni del
Milanese, non potè ricuperare che una parte di ciò che aveva
perduto suo padre. La sua morte accaduta il 7 ottobre del 1637,
riuscì fatale alla casa di Savoja; la sua vedova Cristina fu
dichiarata tutrice de' figli, il maggiore de' quali, Francesco
Giacinto, morì il 4 d'ottobre del 1638, ed il secondo, Carlo
Emmanuele II, non aveva che quattro anni quando successe alla
corona. Ma due fratelli di Vittorio Amedeo, il cardinale Maurizio
ed il principe Tommaso, fondatore del ramo di Savoja Carignano,
vedevano con estremo rincrescimento la reggenza in mano di una
donna forestiera, che a parer loro non conosceva i veri interessi,
nè la politica della loro casa. Contrastarono a Cristina l'autorità, e
gli stati di Savoja trovaronsi avviluppati in lunghe guerre civili,
per le quali Cristina implorò i soccorsi della Francia, ed i cognati
di lei quelli della Spagna. Questi alleati posero a carissimo prezzo
i loro sussidj: Cristina provò tutto l'orgoglio ed il despotismo del
cardinale di Richelieu, i principi non soffrirono meno per la mala
fede degli Spagnuoli, ed i popoli per lo spazio di oltre vent'anni
furono tormentati dai Francesi e dagli Spagnuoli282.
Carlo Emmanuele II, anche dopo uscito di tutela, non illustrò
in verun modo il suo regno; e dopo la sua morte, accaduta il 12
281
Istorie memorabili de' nostri tempi di Ales. Zilio, p. I, l. I; Ivi, l. X, p. III, l.
III. - Guichenon Hist. généal. de la Maison de Savoje, p. 345-444. - Muratori
ad ann. - Le Vassor Hist. de Louis XIII, t. IV, l. XXVIII, p. 364.
282
: Gal. Gualdo Priorato, p. II, l. V, p. 131, e segu. - Muratori ad ann. Guichenon Hist. généal. de la Maison de Savoje, t. III, p. 5, 46, 54. - La storia
di Guichenon termina nel 1660 verso la metà del regno di Carlo Emmanuele II.
- Le Vassor Hist. de Louis XIII, t. IX, l. XLII e XLIII.
giugno del 1675, i suoi stati sperimentarono nuovamente le
disgrazie di un'altra minorità. Suo figlio Vittorio Amedeo aveva
allora soltanto nove anni: ad ogni modo la reggenza della madre
di lui, Giovanna Maria di Nemours, non fu così torbida come
quella di Cristina. Vittorio Amedeo II, quando entrò negli affari,
diede prove di somma abilità. Il 4 giugno del 1690 si associò alla
lega della Spagna, dell'Inghilterra e dell'Olanda per contenere
l'ambizione di Lodovico XIV. Abbandonò questo partito il 29
d'agosto del 1696 per entrare nell'alleanza del re di Francia; ed in
tale circostanza si mostrò più pieghevole ed accorto che leale:
cogli stessi artificj destramente adoperandosi tra rivali di lui più
potenti assai, innalzò nel susseguente secolo la sua casa ad un più
elevato grado, che prima non teneva, tra quelle de' principi
d'Europa283.
La Toscana, che ne' precedenti secoli ebbe così gran parte
nella storia d'Italia, si fece appena osservare nel diciassettesimo.
Il gran duca Ferdinando I regnava tuttavia in Firenze nel principio
del secolo, che morì il 7 febbrajo del 1609. Dagli antichi Medici
egli aveva ereditato quella considerazione pel commercio che gli
altri principi italiani non sapevano apprezzare; cercò d'inspirare ai
Toscani il gusto delle spedizioni marittime, cui non sono
naturalmente inclinati; cambiò la fortezza di Livorno in città,
abbellì il suo porto con magnifici lavori, e gli accordò quelle
esenzioni che vi richiamarono quasi tutto il commercio di
cabotaggio del Mediterraneo284. Nello stesso tempo incoraggiò i
cavalieri dell'ordine di santo Stefano ad armare in corso contro i
Barbareschi. Nel 1607 sei galere tentarono di sorprendere
Famagosta, e saccheggiarono Ippona nel susseguente anno285.
Cosimo II, figlio e successore di Ferdinando I, si mostrò ancora
283
Limiers Histoire de Louis XIV, l. X, p. 523; l. XI, t. II. - Muratori Ann. ad
ann.
284
I primi fondamenti della nuova città di Livorno erano stati gettati dal gran
duca Francesco I, il 28 marzo del 1577, ma in appresso da lui trascurati.
Galluzzi stor. del gran ducato, l. IV, c. II, p. 208, t. III.
285
Ivi, l. V, c. XI, t. V, p. 82. - Murat. Annali ad ann.
più zelante del padre per la gloria della marina toscana; e sebbene
la sua mal ferma salute e la povertà dell'ingegno non gli
consentissero di parteciparvi personalmente, niuno fu di lui più
appassionato per la gloria militare. Nel breve suo regno di dodici
anni l'ordine di santo Stefano, in sull'esempio di quello di Malta,
intraprese ogni anno qualche spedizione contro i Barbareschi286;
ma Cosimo II morì il 28 febbrajo del 1621; e Ferdinando II, suo
figliuolo, essendo ancora fanciullo, tennero la reggenza la madre
e l'ava287.
Il lungo regno di Ferdinando II, che morì soltanto il 23 maggio
del 1670, portò tutto intero il carattere delle donne che lo avevano
educato; fu dolce, pacifico debole. Questo principe fu buono e
non privo di talenti; ma un languore mortale si stendeva su tutte
le parti dell'amministrazione; e sotto il suo regno ebbe
cominciamento quell'universale apatia, che successe all'antica
attività de' Toscani. Per altro la corte di Ferdinando II venne
illustrata da uno zelo glorioso per le scienze naturali: le
proteggeva caldamente suo fratello il cardinale Leopoldo de'
Medici; e sotto i di lui auspicj nel 1657 fu fondata l'accademia del
Cimento, la quale fece le sue più belle sperienze a spese de'
Medici288.
Cosimo III, che del 1670 successe a suo padre Ferdinando II,
aveva ricevuto da sua madre Vittoria della Rovere uno spirito
minuzioso e diffidente, un ridicolo fasto, un eccessivo bigottismo.
Aveva egli sposata Margarita Luigia d'Orleans, cui il suo
carattere lo rendette in breve odioso oltre ogni credere. Le loro
contese, la ritirata della gran duchessa alla corte di Lodovico
XIV, le di lei imprudenze, e la costanza del marito di lei a
perseguitarla, sono le sole cose di cui parlano gli annali della
286
Gabriello Chiabrera Savonese, celebrò colle sue odi i trionfi delle galere
toscane, come Pindaro i vincitori de' giuochi olimpici; e se non raggiunse il
suo immenso esemplare, fu almeno dopo Orazio, il suo più illustre imitatore.
N. d. T.
287
Galluzzi stor. del gran ducato, l. VI, c. I al c. V, t. V, p. 157.
288
Galluzzi, l. VII, c. VII, t. VI, p. 283. - Muratori Annali ad ann.
Toscana fino alla fine del secolo. Intanto Cosimo III prodigava i
suoi tesori nel comperare a caro prezzo nuovi convertiti, e
nell'abbellire le Chiese; e la corte e la nazione, strascinate
dall'esempio del principe, si abituavano all'ipocrisia ed alla
dissimulazione289.
I ducati di Parma e di Piacenza furono nel XVII secolo
governati da quattro principi della casa Farnese, de' quali niuno
seppe meritarsi l'amore de' suoi popoli, o il rispetto della
posterità. Rannuccio I, che nel 1592 era succeduto a suo padre
Alessandro, non aveva ereditata alcuna delle grandi qualità di
questo eroe. Gli è vero che aveva sotto i di lui ordini dato prove
di valore nelle guerre di Fiandra; ma il suo carattere era cupo,
severo, avaro, diffidente: non voleva regnare che per mezzo del
terrore, e questo terrore declinò bentosto in un accanito odio. Egli
accusò la nobiltà d'avere contro di lui tramata una congiura, ed il
19 maggio del 1612, dopo un segreto processo, fece decapitare
molti nobili, appiccare un maggior numero di plebei, e confiscare
tutti i loro beni. Niuno in Italia si persuase della delinquenza de'
giustiziati. Il duca di Toscana, cui Rannuccio aveva mandata
copia del processo, manifestò apertamente la sua incredulità,
rimandandogli un processo egualmente in così buona forma
contro l'ambasciatore di Parma, come colpevole d'un omicidio in
Livorno, mentre era a tutti noto che l'ambasciatore mai non era
stato in quella città. Il duca di Mantova, che risguardava suo
padre come accusato di avere avuto parte nella congiura, fu in
procinto di dichiarare la guerra a quello di Parma per lavare
quest'ingiusto sospetto290. Rannuccio I aveva da principio
chiamato a succedergli suo figlio naturale Ottavio; ma in seguito
avendo avuto figliuoli legittimi, si aombrò del bastardo, e lo
chiuse in un'orrida prigione, ove lo lasciò miseramente perire.
Rannuccio morì in sul cominciare di marzo del 1622; e perchè il
289
Galluzzi Stor. del gran ducato, l. VIII, c. I al VII, t. VII.
Muratori Ann. ad ann. 1612. - Galluzzi, l. VI, c. II, t. IV, p. 203. - Le Vassor
Hist. de Louis XIII, l. III, p. 341, t. I.
290
suo figliuolo primogenito era sordo e muto, gli successe Odoardo
Farnese II291.
Odoardo Farnese era, più che eloquente, satirico, mordace, e
presontuoso oltre misura. Voleva tutto fare da sè, e voleva dai
suoi ministri ubbidienza e non consiglj. Sopra tutto credevasi nato
per la guerra, e destinato a far rivivere i maravigliosi talenti di suo
avo Alessandro. Pure l'eccessiva sua corpulenza, che in appresso
trasmise ai suoi figliuoli, e che riuscì fatale a casa Farnese,
doveva dargli poca attitudine ad ogni faticoso esercizio. Nel 1635
fece alleanza coi Francesi contro gli Spagnuoli, e questa prima
guerra di Odoardo, terminata nel 1637, diede poco risalto ai
talenti ch'egli supponeva di avere, ed espose i suoi stati a
gravissimi danni. La sua seconda guerra coi Barberini, dal 1641
al 1644, che si era tirata in su le braccia a cagione della sua
irregolarità nel pagare le usure de' grandiosi suoi debiti, fece
ancora più apertamente conoscere la sua imprudenza e la sua
poca abilità. Morì il 12 di settembre del 1646, liberando i suoi
sudditi dalla fatica che cagiona l'attività quando non è sostenuta
dai talenti, e dal pericolo in cui gli strascinava continuamente un
principe mediocre che voleva parere uomo grande292.
Il di lui erede, Rannuccio II, non aveva la ferocia di Rannuccio
I, nè la presunzione di Odoardo; ma non perciò i Parmigiani
furono più felici; perchè dall'indolenza e dalla debolezza del loro
padrone si trovarono abbandonati alla prepotenza d'indegni
favoriti. Uno di costoro, il marchese Godefroi, primo ministro di
Rannuccio II, e ch'era stato suo precettore di lingua francese, nel
1649 lo trasse in una guerra colla corte di Roma, che fece perdere
alla casa Farnese gli stati di Castro e di Ronciglione. Godefroi
aveva fatto assassinare il vescovo di Castro; ed Innocenzo X,
facendo cadere la vendetta di tale attentato sopra gl'innocenti,
fece atterrare Castro, non lasciando sussistere tra le ruine di
291
Muratori Annali, ad ann. 1622.
Muratori Ann. ad ann. 1646, t. XI, p. 214. - Gal. Gualdo, p. IV, l. III, p. 88.
- Galluzzi, l. VI, c. X, t. VI, p. 75; l. VII, c. V, p. 237.
292
quella città che una colonna con un'iscrizione293. In appresso
Rannuccio II fece decapitare il suo ministro e confiscarne le
sostanze; ma senz'essere perciò in istato di governare da sè
medesimo, e senza che i suoi sudditi raccogliessero verun
beneficio da questo cambiamento, perchè nuove sanguisughe
avevano preso il posto delle antiche. Rannuccio II morì soltanto
l'undici dicembre del 1694, quando poteva di già prevedere la
vicina estinzione della sua casa. Suo figlio primogenito Odoardo
era morto prima di lui, il 5 settembre del 1693, soffocato da
soverchia pinguedine, lasciando una figlia, Elisabetta, che fu poi
regina di Spagna. Gli altri due figliuoli di Rannuccio II,
Francesco ed Antonio, regnarono uno dopo l'altro, ma l'eccessiva
loro corpulenza dava motivo di credere che non avrebbero
prole294.
Fra le famiglie sovrane dell'Italia la casa d'Este fu quella che
nel diciassettesimo secolo produsse maggior numero di principi
amati dai loro popoli; ma i suoi dominj, ridotti ai piccoli stati di
Modena e di Reggio, più non le davano quell'importanza che
aveva avuto nel precedente secolo. Cesare, che per la sua
debolezza aveva perduto il ducato di Ferrara, morì soltanto l'11
dicembre del 1628. Suo figlio primogenito, Alfonso III, non
regnò che circa sei mesi. Quest'uomo, temuto pel suo violento e
sanguinario carattere, fu così scosso dalla morte di sua moglie,
che abbandonò la sovranità il 24 di luglio del 1629, e ritirossi in
un convento del Tirolo, ove si fece cappuccino295.
Francesco I, che successe a suo padre Alfonso, si acquistò la
riputazione di essere uno de' migliori capitani d'Italia, e de'
migliori amministratori. In principio del suo regno aveva sposati
gl'interessi della monarchia spagnuola, e per essa nel 1635 fece la
guerra al duca di Parma, Odoardo Farnese, suo cognato. Per
compensarlo di tali servigj nel 1636 l'imperatore gli concesse il
293
Muratori Annali ad ann. - Galluzzi, l. VII, c. V, t. VI, p. 237.
Muratori Ann. ad ann. 1694.
295
Muratori Ann. ad ann. 1629.
294
piccolo principato di Correggio, che venne incorporato a' suoi
stati296.
Del 1647 Francesco I passò al partito della Francia, e fece
sposare a suo figlio Laura Martinozzi, nipote del cardinale
Mazarino, che gli recò in dote grandissime ricchezze; ed egli fu
nominato allora generalissimo delle armi francesi in Italia. Fu più
volte vittorioso degli Spagnuoli; ma senza che ciò compensasse a'
suoi sudditi i guasti cui trovaronsi esposti. Questo principe morì il
14 di ottobre del 1658 in conseguenza d'una malattia contratta
nell'assedio di Mortara297.
Alfonso IV, che successe a Francesco suo padre, e che morì il
16 luglio del 1662, non fece verun atto degno di ricordanza,
tranne il particolare trattato di pace fatto cogli Spagnuoli l'11
marzo del 1659. Il figlio di lui, Francesco II, che fu per una metà
del suo regno sotto la reggenza di sua madre, e per l'altra
volontariamente subordinato all'autorità di don Cesare, suo
fratello naturale, morì il dì 6 settembre del 1694, senza lasciare
memoria alcuna del suo debole governo; e Rinaldo, in allora
cardinale e secondo figlio di Francesco I, successe a suo nipote.
Le disgrazie che gli si apparecchiavano nella guerra della
successione della Spagna non ebbero cominciamento che col
susseguente secolo298.
La casa di Gonzaga, sovrana nel diciassettesimo secolo dei due
ducati di Mantova e del Monferrato, accese pel proprio interesse
molte guerre che guastarono l'Italia, senza che un solo dei suoi
capi siasi meritato nelle sue calamità la stima o la compassione.
Vincenzo I, Francesco IV, Ferdinando e Vincenzo II, che
occuparono successivamente il trono fino alla morte dell'ultimo,
accaduta il 26 dicembre del 1627, furono uomini affatto perduti
ne' piaceri e nella dissolutezza, che diedero ai loro sudditi
l'esempio d'ogni genere di scandali, e gli oppressero colle più
296
Muratori Ann. ad ann. 1636. - Batt. Nani stor. Ven., l. X, p. 521 ec.
Muratori Ann. ad an. 1657. - Antichità Estensi.
298
Muratori Ann. d'Italia. - Ant. Esten.
297
onerose imposte, ora per soddisfare al loro gusto di prodigalità ed
al loro fasto, ora per collocare con ruinose doti sul trono
imperiale principesse della casa Gonzaga. Vincenzo II morì senza
figliuoli, ed il ramo de' Gonzaga, duchi di Nevers, stabilito in
Francia, ed in allora rappresentato da Carlo, nipote del duca
Federico II, ch'era morto nel 1540, venne chiamato alla
successione di Mantova. Quella del Monferrato era un feudo
femminino, e doveva passare a Maria, figlia di Francesco IV e di
una principessa di Savoja. Ma la stessa notte in cui morì
Vincenzo II, Carlo duca di Rethel, figlio di Carlo duca di Nevers,
ch'era venuto a Mantova per raccogliere l'eredità di suo cugino, di
cui prevedeva il vicino fine, sposò Maria, erede del Monferrato;
di modo che l'intera eredità dell'ultimo duca passò nel ramo di
Nevers299.
Questa successione di un principe francese nel centro
dell'Italia offese in pari tempo il duca di Savoja Carlo
Emmanuele, che non era stato interpellato intorno al matrimonio
di sua nipote, e l'imperatore Ferdinando II, da cui non aveva il
nuovo duca aspettata l'investitura. Il ducato di Mantova fu invaso
da quelle stesse armate imperiali accostumate al saccheggio ed
alla ferocia nella lunga guerra contro i protestanti che allora
desolava la Germania, e che in appresso fu poi intitolata la guerra
de' trent'anni. Mantova fu sorpresa il 18 di luglio del 1630 dal
conte di Collalto, Altringer e Gallas, e saccheggiata con orribile
crudeltà300. Le calamità del Monferrato, sebbene meno
appariscenti, furono più lunghe e più dolorose. Fino alla pace dei
Pirenei nel 1659, il Monferrato fu costantemente il teatro delle
battaglie delle grandi potenze, ed a vicenda saccheggiato dai
299
Muratori ann. d'Italia ad ann. 1626-1627. - Istor. memor. d'Alessandro
Ziliolo, p. III, l. III, p. 83 e segu. - Ist. della repubblica Veneta di Batt. Nani, l.
VII, p. 445 e segu. - Le Vassor, Hist. de Louis XIII, t. V, l. XXIV, p. 699.
300
Alessandro Ziliolo, p. III, l. III, p. 119. - Gio. Batt. Nani, l. VII, p. 407. Schiller, Geschichte des Dreissigjährigen Krieges. - Le Vassor Hist. de Louis
XIII, t. VI, l. XXVII, p. 243; l. XXVIII, p. 382. - Vettorio Siri Memor. recondite,
t. VI, p. 742 e segu.; t. VII, p. 123 e seguenti.
Francesi, dagli Spagnuoli, dai Savojardi e dai Tedeschi, diviso da
ogni trattato fra i diversi principi, e quasi abbandonato dai suoi
duchi che sentivano l'impossibilità di difenderlo301.
Il 25 settembre del 1637, Carlo II era succeduto a suo padre
Carlo I, e Ferdinando Carlo successe il 15 di settembre del 1665 a
suo padre Carlo II, senza che la sorte degli abitanti del
Monferrato si rendesse migliore. L'ultimo di questi principi, più
dissoluto, più insensibile al disonore, più non curante delle
disgrazie de' suoi sudditi che non lo erano stati i suoi
predecessori, vendette nel 1681 Casale, la capitale del
Monferrato, a Lodovico XIV, per andare a dissipar nei piaceri del
carnevale di Venezia il danaro, che mai non bastava alle sue
stravaganze. I suoi sudditi di Mantova gemevano sotto il peso di
enormi tasse, e quelli del Monferrato si trovavano esposti alle
estorsioni de' militari, mentre egli s'aggirava mascherato nelle
sale da ballo e ne' postriboli, e non arrossiva di far conoscere i
suoi vergognosi piaceri ad un popolo straniero che non aveva
bisogno di dissimulare il suo disprezzo, e ad un senato che
vietava ai nobili di Venezia perfino d'intrattenersi con lui302.
La casa sovrana dei duchi d'Urbino si spense in principio del
XVII secolo. Il vecchio duca Francesco Maria della Rovere, che
regnava fin dal 1574, avendo veduto nel 1623 morire vittima
delle sue dissolutezze l'unico suo figlio il principe Federico,
acconsentì ad abdicare nel 1626 la sua sovranità a favore della
Chiesa. Sua nipote, Vittoria della Rovere, maritata con
Ferdinando II dei Medici, non portò a Ferdinando in eredità che i
beni patrimoniali di sua famiglia. Il ducato d'Urbino, riunito alla
diretta della santa sede, perdette la sua opulenza, la sua
popolazione e tutti i vantaggi che gli aveva saputo procurare la
più gentile corte d'Italia; ed il vecchio duca, che morì soltanto nel
301
Ales. Ziliolo Ist. memor., p. III, l. III. - Gio. Batt. Nani, l. VII e segu. Murat. Ann. d'Italia.
302
Muratori Ann. d'Italia ad an. 1681, t. XI, p. 354. - Limiers Hist. de Louis
XIV, l. IX, t. II, p. 399.
1636, ebbe tempo di vedere il decadimento dei paesi che tanto
tempo avevano prosperato sotto il dominio della sua famiglia303.
Il governo di Lucca, vedendo di non potersi mantenere che nel
silenzio, e col farsi dimenticare dalle potenze che avevano in
mano i destini dell'Europa, aveva vietato di pubblicare veruna
storia nazionale; perciò la repubblica di Lucca non lasciò di sè in
questo secolo verun'altra memoria che quella di due piccole
guerre contro il duca di Modena nella Garfagnana, cominciate
senza motivi nel 1602 e nel 1613, e terminate senza gloria
coll'intervento della Spagna304.
Nel corso di questo secolo la repubblica di Genova si lasciò
strascinare dall'influenza della corte spagnuola in due guerre col
duca di Savoja, nel 1624 e 1672. Non era appena terminata la
prima, che l'ambasciatore di Savoja risvegliò le sopite fazioni
della nobiltà e dell'ordine popolare, e nel 1628 trasse Giulio
Cesare Vachero, ricco mercante dell'ordine popolare, in una
congiura ordita per rovesciare la costituzione305.
Dopo l'atto di mediazione del 1576, la repubblica di Genova
erasi conservata divisa in due fazioni. Comprendeva la prima
circa cento settanta famiglie registrate nel libro d'oro, e che
avevano il diritto di sedere in consiglio. Parte di queste
appartenevano all'antica nobiltà; altre erano state di fresco
aggregate all'aristocrazia; e tra queste erano scoppiate le ultime
dissensioni calmate dall'atto di mediazione. Ma un secondo
ordine nella repubblica era composto delle famiglie non inscritte,
tra le quali contavansene allora più di quattrocento cinquanta che
possedevano non meno di cinquanta mila fino ai settecento mila
scudi, ed erano decorate di prelature, di feudi, di commende e di
titoli di contee e di marchesati. Le prime, rese orgogliose dal
privilegio di possedere esclusivamente la sovranità, affettavano
303
Muratori Ann. ad ann. - Galluzzi Stor. di Toscana, l. VI, c. VI, t. V, p. 298 e
segu.
304
Muratori Ann. d'Italia.
305
Ales. Ziliolo, p. III, l. IV, p. 178. - Ann. di Genova di Fil. Casoni, t. V, l. II,
p. 61.
sommo disprezzo verso le altre, che pure si credevano non da
meno di loro. L'atto di mediazione aveva bensì ordinato che ogni
anno s'inscrivessero dieci famiglie nuove nel libro d'oro, cioè
sette della capitale e tre delle città delle due riviere; ma questa
legge veniva quasi sempre delusa, oppure il senato, quand'era
forzato a procedere alla scelta, o non ammetteva che celibatarj e
persone fuori di speranza d'avere successione, onde non
accrescere il numero delle famiglie dominanti, o finalmente
soltanto famiglie affatto povere, affinchè queste rimanessero più
dipendenti dall'oligarchia306.
Era appunto l'insolenza de' più poveri cittadini inscritti nel
libro d'oro, che più vivamente offendeva i ricchi mercanti ed i
signori feudatarj esclusi dal governo. Giulio Cesare Vachero,
sebbene mercante, aveva adottate le costumanze che di que' tempi
risguardavansi come proprie de' gentiluomini: camminava sempre
armato ed in abito militare, ed era circondato da sicarj, che spesso
adoperava per vendicarsi con assassinj. Parecchi saluti più volte a
lui ricusati da persone del governo, parecchi moti, sogghigni
derisorj, ed insulti sofferti da sua moglie erano di già stati puniti
collo spargimento di molto sangue; ma nuove offese accrescendo
sempre il suo risentimento, egli associò alle sue vendette
moltissimi ricchi cittadini esclusi dal libro d'oro; moltiplicò il
numero de' suoi sicarj; diffuse grandi somme di danaro tra il
popolo onde averlo ubbidiente, senza avere bisogno di
partecipargli il suo progetto, e risolse di attaccare il palazzo il
giorno primo di aprile del 1628, di forzare la guardia tedesca, di
gettare giù dai balconi i senatori, di uccidere tutti i cittadini
registrati nel libro d'oro, e di riformare la repubblica, della quale
egli sarebbe dichiarato doge, sotto la protezione del duca di
Savoja. La trama fu scoperta il 30 di marzo da un capitano
piemontese cui il Vachero aveva palesato il segreto. La maggior
parte de' congiurati ebbe tempo di fuggire; ma vennero arrestati il
306
Aless. Ziliolo Ist. memor., p. III, l. IV, p. 187. - Fil. Casoni Ann. della
repub. di Genova, t. V, l. III, p. 136.
Vachero ed altri cinque o sei, i quali tutti, dopo una processura
che rendeva aperto il loro delitto, furono giustiziati malgrado le
rimostranze del duca di Savoja, che si levò affatto la maschera, si
dichiarò capo della congiura, e minacciò la repubblica di
rappresaglie307.
Un'altra volta la repubblica di Genova richiamò sopra di sè gli
sguardi dell'Europa pel barbaro trattamento fattole da Lodovico
XIV, il 18 di maggio del 1684, quando questo monarca, senza
poter rinfacciare ai Genovesi verun atto d'ostilità, veruna prova di
cattiva volontà, niun altro torto finalmente, fuorchè quello d'avere
impedito il contrabbando del sale nel proprio territorio, ed armate
quattro galere per la propria difesa, mandò in faccia alla città una
squadra comandata dal marchese di Seignelay. In tre giorni vi
fece piovere quattordici mila bombe; distrusse la metà de' suoi
magnifici edificj, ed all'ultimo chiese che lo stesso doge si
portasse a Versailles per iscusarsi degl'immaginarj torti della
repubblica308.
La repubblica di Venezia rialzossi in questo secolo con nuovo
vigore dallo spossamento cui pareva dovesse soggiacere nel
precedente secolo; e sola osò mostrarsi premurosa della difesa
dell'italiana indipendenza. Abbiamo di già osservato con quanta
costanza rispinse gli attacchi di Paolo V, e conservò i diritti della
sua sovranità malgrado gl'interdetti e le scomuniche di Roma. In
principio del secolo, nel 1601 e 1615, difese collo stesso vigore la
sua sovranità sull'Adriatico contro le piraterie 309 degli Uscocchi di
Signa, sebbene questi popoli schiavoni, protetti dall'arciduca
Ferdinando di Stiria, potessero strascinarla in una guerra con tutta
la potente casa d'Austria310.
307
Aless. Ziliolo, p. III, l. IV, p. 188-199. - Casoni Ann., l. III, p. 140.
Muratori Ann. ad ann. - Limiers Hist. de Louis XIV, l. IX, t. II, p. 423. Hist. de la diplom. Françoise, l. IV, p. 83. - Filip. Casoni Ann. di Genova, t.
VI, l. VIII, p. 214. Questi annali di Genova terminano coll'anno 1700, 6 volumi
in 8 Gen. 1800.
309
Nell'originale "piratterie". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
308
I Veneziani, tratti dalle ostilità loro col papa e colla casa
d'Austria, si avvicinarono al partito protestante, poichè di
quest'epoca l'Europa era piuttosto divisa dalla religione che dalla
politica. Infatti nel 1617 contrassero alleanza cogli Olandesi,
mentre che il duca di Savoja loro alleato si assicurò de' soccorsi
del maresciallo di Lesdiguieres, capo de' protestanti del mezzodì
della Francia. Queste due potenze furono le prime in Italia che
osarono cercare appoggio tra gli eretici. Perciò, quando scoppiò la
guerra dei trent'anni, i protestanti di Germania si affidarono ai
soccorsi di queste due potenze. Il conte di Thurn, Bethlem Gabor,
il conte di Mansfeld e Ragotzi ricevettero più volte dal senato
danaro e munizioni, senza che questi venisse giammai ad aperte
ostilità colla casa d'Austria311.
I duchi d'Ossuna e di Toledo, orgogliosi vicerè spagnuoli che
allora governavano il regno di Napoli ed il ducato di Milano con
una quasi assoluta indipendenza, risguardarono la repubblica
di Venezia come una nemica che si doveva distruggere.
Impiegarono alternativamente contro di lei la forza aperta ed i
tradimenti, e d'accordo col marchese di Bedmar, ambasciatore di
Spagna a Venezia, ordirono nel 1618 una congiura, che pareva
piuttosto diretta all'intera ruina della città, che alla sovversione
del suo governo: i principali colpevoli furono puniti, ma il senato,
temendo il risentimento della corte di Spagna, non osò rendere
pubbliche queste processure, o apertamente accusare i veri
instigatori de' congiurati312.
Conoscendo tuttociò che temere dovevano dall'ambizione e
dalla nimicizia della casa d'Austria, i Veneziani si aombrarono
vedendo nel 1619 gli Spagnuoli tentare di assicurarsi una
310
Aless. Ziliolo Ist. memor., p. II, l. I, p. 1. - Laugier Hist. de Venise, t. X, l.
XXXIX, p. 331, e t. X, l. XLI, p. 38.
311
Schiller, Dreissigjährige Krieg, B. I.
312
Gio. Batt. Nani Ist. Ven., l. III, p. 156. - Le Vassor, Hist. de Louis XIII, t. III,
l. XII, p. 193. - L'abbé de saint Réal Hist. de conjurat. de Bedmar. - Vettor
Sandi stor. civ., p. III, l. XI, c. XI, § II, p. 995. - Vett. Siri Mem. recondite, t.
IV, p. 447 e segu. - Laugier Hist. de Venise, l. XLI, p. 107.
comunicazione colla Germania per via delle fortezze che
fabbricavano nella Valtellina, sotto colore di proteggere i cattolici
di quella provincia contro i Grigioni protestanti, loro sovrani. I
Veneziani si collegarono coi Grigioni; sollecitarono l'intervento
della Francia, e persuasero il cardinale di Richelieu a secondarli.
La pace che fissò la sorte della Valtellina si conchiuse il 6 marzo
del 1626; ma per la lentezza e per gli artificj degli Spagnuoli, i
Grigioni non riebbero il possedimento della sovranità di quella
provincia che nel 1637, guarentendo il mantenimento della
cattolica religione313.
Nella seconda metà del XVII secolo i Veneziani dovettero
portare le loro forze in altro luogo; e l'improvviso attentato de'
Turchi contro l'isola di Candia, ch'ebbe luogo il 23 giugno del
1645, li ravvicinò di nuovo alla casa d'Austria, colla quale ebbero
allora comuni interessi314. La guerra che di quei tempi ebbe
cominciamento tra i Veneziani ed il sultano Ibrahim fu la più
lunga e la più ruinosa che la repubblica avesse mai sostenuta
contro l'impero Ottomano: durò venticinque anni, e fu illustrata
da gloriose vittorie navali. Due fra l'altre ne furono riportate ai
Dardanelli, una il 21 giugno del 1655 da Francesco Morosini,
l'altra il 26 di giugno del 1656 da Lorenzo Marcelli. Ma a dispetto
de' miracolosi sforzi di valore, e malgrado i loro vantaggi, che
sarebbero stati decisivi con un nemico meno potente, i Veneziani
non poterono fare in modo che il gran Visir non assediasse la
stessa città di Candia il 22 di maggio del 1667. Quest'assedio fu
sostenuto con indicibile valore dai Cristiani, che furono soccorsi
da quasi tutti i principi dell'Occidente. Prodigiosa fu la mortalità
da ambedue le parti; la peste saccheggiò il campo musulmano;
ogni opera avanzata, ogni rivellino, ogni bastione fu difeso finchè
trovossi ridotto in un mucchio di ruine. Il duca di Beaufort vi
313
Gio. Batt. Nani, l. IV, p. 170, 203 e segu. - Aless. Zilioli Hist. memor., p. II,
l. VII, p. 173. - Le Vassor Hist. de Louis XIII, l. XXIII, p. 367. - Vett. Siri Mem.
recondite, t. VI, p. 92 e segu. - Laugier Hist. de Venise, t. XI, l. XLII, p. 139.
314
Gual. Priorato Ist., p. III, l. X, p. 392. - Laugier Hist. de Venise, t. XI, l.
XLIX, p. 332.
perdette la vita; il duca di Navailles abbandonò la difesa della
città, e s'imbarcò con tutti i Francesi malgrado le caldissime
istanze di Francesco Morosini, che credeva di potersi ancora
difendere. All'ultimo Candia fu costretta a capitolare il 6 di
settembre del 1669. La repubblica rinunciò al dominio dell'isola
di Creta, e conservò gli altri suoi possedimenti in Levante315.
Ma i Veneziani mal sapevano accomodarsi alla perdita di
Candia; tenevano aperti gli occhi, onde approfittare della prima
opportunità per rifarsi sull'impero Ottomano; e credettero di
averla trovata in tempo della guerra che la Porta dichiarò
all'Austria nel 1682. Il 5 marzo del 1684, colla mediazione di
papa Innocenzo XI, i Veneziani si allearono coll'imperatore
Leopoldo e con Giovanni Sobieschi, re di Polonia. Diedero il
comando delle loro truppe a Francesco Morosini, che si era
acquistata tanta gloria nella guerra di Candia, e con un singolare
tratto di confidenza, di cui la loro repubblica aveva dati rarissimi
esempj, gli lasciarono il comando degli eserciti anche dopo averlo
nominato doge. I loro sforzi furono coronati da luminosi successi;
e questa seconda guerra, che durò quindici anni, riparò ai disastri
della precedente. Nel 1684 i Veneziani conquistarono Santa
Maura, nel 1686 e 1687 occuparono tutta la Morea, ed a queste
conquiste aggiunsero nel 1694 quella dell'isola di Scio, che
perdettero nel susseguente anno. Al generale Svezzese conte di
Konigsmark, che aveva preso servigio sotto le bandiere della
repubblica, si dovette il principale merito di queste vittorie. Ma
perchè Venezia si esauriva colla lunghezza di questa guerra,
dessa accettò con piacere la tregua di Carlowitz del 26 di gennajo
del 1699, che le lasciava il possedimento della Morea, dell'isola
315
Muratori Ann. d'It. ad ann. 1669. - Limiers Hist. de Louis XIV, t. II, l. VI, p.
109. - Gir. Brusoni Ist. dell'ultima guerra tra Venez. e Turchi in Candia 16441671, 1 vol. in 4.°. - Laugier Hist. de Venise, t. XII, l. XLV, p. 103. - Vett.
Sandi Ist. civ. Veneta, p. III, l. XII, c. III, p. 1045.
d'Egina, di Santa Maura, e di molte altre fortezze conquistate in
Dalmazia316.
CAPITOLO CXXV.
Ultime rivoluzioni degli antichi stati dell'Italia dopo l'apertura
della guerra per la successione di Spagna fino all'epoca della
rivoluzione francese.
1701=1789.
Da oltre un secolo e mezzo l'Italia aveva piegato il collo sotto
il giogo straniero; la libertà era stata distrutta nelle repubbliche,
l'indipendenza de' principi negli stati assoluti, ovunque la
guaranzia sociale de' cittadini. Sotto il peso di questa calamità
qualunque orgoglio nazionale dovette spegnersi nel petto
degl'Italiani, cessare dovette qualunque virtù pubblica, e
gl'Italiani vedendo di più non poter aspirare alla gloria, si
abbandonarono alla mollezza ed al vizio. Più non sursero ingegni
che si preservassero dai difetti della debolezza, cioè dalla
dissimulazione e dalla doppiezza; le lettere si corruppero colla
pubblica morale, e l'ingegno non tardò a soggiacere alla sorte
delle virtù. Il gusto de' così detti seicentisti non fu meno
depravato della politica de' loro coetanei. I Marini e gli Achillini
nella poesia, il Bernino nelle arti, ebbero una riputazione analoga
a quella dei Concini, dei Mazarini, delle Catarina e Maria dei
Medici nel governo e nell'intrigo; e la terra ridotta in servitù più
non produsse che frutta viziate.
L'Italia fu ruinata dalla guerra nella prima metà del
diciottesimo secolo, presso a poco come nella prima metà del
316
Muratori Ann. d'Ital. ad ann. 1699. - Limiers Hist. de Louis XIV, l. XIII, t.
III, p. 32. - Laugier Hist. de Venise, t. XII, l. XLVI, p. 139-228.
sedicesimo. Erano i medesimi popoli, Francesi, Spagnuoli e
Tedeschi, che se ne contrastavano il possedimento; ma la loro
maniera di combattere era di già diventata meno crudele, e
lasciava ai popoli più lunghi intervalli di riposo. Essi volevano
disporre delle province italiane, secondo che loro meglio
conveniva, o a seconda de' pretesi diritti di famiglia, senza avere
verun riguardo agl'interessi de' popoli, ai loro diritti, ai loro
desiderj: ma il risultamento de' loro sforzi fu precisamente il
contrario di quello che avevano avuto le guerre del sedicesimo
secolo. Queste avevano ridotti i più nobili principati d'Italia in
province di estere monarchie; le guerre del secolo diciottesimo
loro restituirono sovrani nazionali. Desse crearono ai più esposti
confini una nuova potenza capace di difendere l'Italia; e fissarono
un giusto equilibrio tra i suoi vicini.
La pace d'Aquisgrana del 18 ottobre 1748 avrebbe ristabilita
l'indipendenza dell'Italia, se potesse sussistere indipendenza senza
libertà e senza spirito nazionale. Sagge e giuste erano le basi di
questa pace per quanto si poteva sperarlo da un congresso in cui i
popoli non avevano rappresentanza; perciò l'Italia ci presenta in
questo secolo una grande esperienza politica, i di cui risultati
sono degni di osservazione. L'Europa, dopo di avere in certo qual
modo distrutta una grande nazione, sente il male che ha fatto a sè
medesima, privandola dell'esistenza. Le quattro guerre di un
mezzo secolo terminarono con altrettanti trattati, che rialzarono
sempre più l'indipendenza italiana. Non avvi cosa che gli stranieri
non facciano per gl'Italiani, fuorchè quella di rendere loro la vita.
Alle guerre succedono quarant'anni di pace, e sono questi
quarant'anni di mollezza, di debolezza, di dipendenza; di modo
che con questo esperimento i diplomatici dovrebbero convincersi,
che non si ristabilisce l'equilibrio d'Europa, quando non si
oppongono che forze morte a forze vive; e che non si guarentisce
l'indipendenza di una nazione, quando non si chiama quella
medesima nazione a difendere il proprio interesse e che non le si
dà nè onore, nè energia per mantenersi.
Con quattro successive guerre si cambiò l'equilibrio d'Italia sul
principio del diciottesimo secolo, ed i quattro trattati che le
terminarono, stabilirono nuove dinastie, che poco più poco meno
presero il luogo delle antiche.
La guerra della successione di Spagna dal 1701 al 1718 si era
cominciata da quasi tutte le potenze d'Europa contro la casa di
Borbone per contrastare a questa l'eredità di Carlo II, ultimo
monarca del ramo austriaco di Spagna. Lodovico XIV aveva
preteso di raccoglierla tutt'intera pel secondo de' suoi nipoti, cui
aveva di già posto in possesso dei quattro grandi stati che Carlo V
aveva lasciati in Italia ai suoi discendenti, Milano, Napoli, la
Sicilia e la Sardegna. Ma le forze dell'Europa unite contro di lui,
dopo avere lungamente guastate le province, ch'egli pretendeva
difendere, una dopo l'altra gliele ritolsero. La defezione del duca
di Savoja, che nel 1703 passò al partito de' suoi nemici, contribuì
più di tutto a fargli perdere l'Italia. Il 13 marzo del 1707 i
Francesi furono forzati ad evacuare la Lombardia; il 7 di luglio
dello stesso anno perdettero il regno di Napoli; e la Sardegna fu
tolta alla casa di Borbone alla metà d'agosto del 1708. Di tutta
l'eredità della casa d'Austria in Italia Filippo V più non aveva che
la sola Sicilia, la quale poi cedette col trattato di pace; di modo
che i trattati d'Utrecht dell'11 aprile del 1713 e di Rastad del 6
marzo 1714, che terminarono la guerra della successione di
Spagna, disposero di tutti i paesi che Carlo Quinto aveva riuniti
alla monarchia Spagnuola, e coi quali aveva renduto dipendente
da quella monarchia il resto dell'Italia317.
Il Milanese, il regno di Napoli e la Sardegna furono ceduti alla
casa d'Austria tedesca, che inoltre acquistò in Italia il Mantovano,
confiscato a pregiudizio dell'ultimo Gonzaga. Queste province
passavano da monarca straniero a monarca straniero, e
l'indipendenza italiana invece di guadagnare a questi
cambiamenti, forse perdeva, perchè il nuovo monarca era più
317
Muratori Ann. d'It. ad ann. - Limiers Hist. de Louis XIV, t. III, l. XIII al l.
XVIII. - Giannoni Istor. civile, l. LX, c. IV, p. 655. È il fine di questa storia.
vicino. Ma da un altro canto il sovrano più militare dell'Italia
acquistò province che davano maggiore consistenza a' suoi stati, e
lo mettevano più a portata di farsi rispettare in avvenire. Il
Monferrato venne aggiunto al Piemonte con alcuni piccoli
distretti staccati dalla Francia, e nello stesso tempo il regno di
Sicilia fu accordato a Vittorio Amedeo II, di modo che l'Italia
contò nuovamente in quest'epoca un re tra i suoi principi318.
Il cardinale Alberoni, che dispoticamente governava la Spagna
a nome di Filippo V, sempre schiavo di un favorito, non poteva
darsi pace che pel trattato d'Utrecht la Spagna avesse perduto quel
dominio d'Italia che aveva conservato quasi due secoli. Colle
forze rendute alla Spagna da quattro anni di pace e da
un'amministrazione alquanto meno oppressiva, volle tentare di
ricuperare in Italia la perduta influenza. Facendo adottare al
gabinetto borbonico di Madrid la politica del gabinetto austriaco,
cui era succeduto, principiò con un tradimento. In mezzo alla
pace, un'armata spagnuola sbarcata in Sardegna il 22 d'agosto del
1717 occupò quell'isola cacciandone gli Austriaci. Lo stesso fece
nella Sicilia a danno de' Piemontesi nel susseguente anno, dopo
avere egualmente ingannata la corte di Torino. Questa guerra
ricevette il suo nome dalla quadruplice alleanza formata per
frenare la Spagna. La Francia in allora governata dal reggente
duca d'Orleans, geloso del re di Spagna, e l'Inghilterra e l'Olanda
si unirono all'imperatore per difendere l'Italia contro l'ambizione
del cardinale Alberoni. Questa guerra fece spargere poco sangue,
e cagionò pochi guasti. La vicina estinzione delle case Medici e
Farnese, alle quali più non rimaneva speranza di successione,
dava alle potenze mediatrici il modo di prendere compensi nel
continente dell'Italia, essendo loro piaciuto di risguardare come
vacanti, per l'estinzione delle sovrane famiglie, gli stati di Parma
e di Toscana. La corte di Spagna fu soddisfatta nel suo desiderio
318
Muratori Ann. d'Italia ad an. 1713. - Limiers Hist. de Louis XIV, l. XIX, p.
525 e segu. - Hist. de la diplomat. franç. cinquième période, t. IV, l. VII, p.
322.
d'aggrandimento, quando il 17 febbrajo del 1720 accedendo essa
alla quadruplice alleanza, le fu promessa invece delle isole di
Sicilia e di Sardegna, ch'essa aveva conquistate, la successione
de' Medici e dei Farnesi per don Carlo, figlio di Filippo V e di
Elisabetta Farnese, cui quest'ambiziosa madre cercava di formare
uno stabilimento indipendente da suo fratello primogenito. Fu
egualmente soddisfatta l'ambizione di casa d'Austria, perchè
riprese a Vittorio Amedeo la Sicilia, popolata di 1,300,000
abitanti, e gli diede invece la Sardegna che non ne contava che
423,000. I piccoli principi ed i popoli furono i soli sagrificati.
Pure travedevasi tuttavia un pensiere dell'indipendenza italiana
nella formazione di una nuova sovranità pel principe di Spagna
che veniva a stabilirsi in Italia, invece di aggiugnere gli stati che
gli si davano all'una o all'altra delle grandi monarchie che
s'arrogavano il diritto di disporre della sorte de' popoli
indipendenti319.
La terza guerra che variò l'equilibrio d'Italia in questo secolo
fu egualmente breve ed accompagnata da pochi guasti. Per
rispetto alla sua origine non sarebbesi dovuto credere che potesse
esserne il teatro l'Italia, essendosi questa eccitata nel 1733 per la
contrastata elezione di un re di Polonia. Ad ogni modo perchè i re
di Francia di Spagna e di Sardegna entrarono nella stessa lega
contro l'Austria, questa sperimentò i pericoli annessi ai lontani
possedimenti presso un popolo di costumi e di lingua diverso, che
invece di sagrificarsi per difendere il suo padrone, fa di già molto
quando non si prevale dell'occasione per ribellarsi e scuotere il
giogo. La casa d'Austria fu spogliata di tutti i suoi stati in Italia; i
Francesi uniti ai Piemontesi conquistarono il Milanese; gli
Spagnuoli i regni di Napoli e di Sicilia; di modo che l'Austria
dovette accomodarsi alle svantaggiose condizioni che le vennero
319
Muratori Ann. d'It. ad ann. - Hist. de la Diplom. fran., l. IV, p. 465-483,
sixième période, L. I. - Lacretelle Hist. de France pendant le XVIII siècle, t. I,
l. II, p. 280.
imposte dai preliminarj sottoscritti a Vienna il 3 ottobre del 1735,
e riconfermati col trattato di Vienna del 18 novembre del 1738320.
Questa terza pace restituì alle due Sicilie l'indipendenza che
avevano perduta da più secoli. Il regno di Napoli era passato sotto
il dominio di un'estera potenza fino dal 1501, e quello della
Sicilia fino dal 1409. Più di sei milioni di sudditi italiani furono
di nuovo assoggettati ad un sovrano nato da un'italiana, educato
alcun tempo in Italia, e destinato a fissarvi la sua residenza e
quella de' suoi figliuoli. Questi due regni parevano riunire tuttociò
che danno la forza e la ricchezza, grossa popolazione, delizioso
clima, prodotti di ogni genere, facile navigazione e confini di
facile difesa. La stessa pace dilatò i confini del re Sardo; furono
staccati dal Milanese Novara e Tortona coi loro territorj per
essere uniti al Piemonte. Dall'altro canto il rimanente dello stato
milanese e del ducato di Mantova furono restituiti alla casa
d'Austria; ed in compenso di quanto questa aveva perduto, il
trattato di Vienna le accordò pure il ducato di Parma, che doveva
essere di nuovo unito a quello di Milano, ed il gran ducato di
Toscana che doveva formare un principato indipendente per
Francesco duca di Lorena, sposo di Maria Teresa e futuro
imperatore321.
Ma il trattato di Vienna non procurò all'Italia che un breve
riposo. Il ramo tedesco della casa d'Austria si spense
nell'imperatore Carlo VI il 20 ottobre del 1740, pochi anni dopo il
ramo spagnuolo. Invano aveva questo monarca cercato di
assicurare la successione dei suoi stati a sua figlia Maria Teresa;
gli stessi sovrani che avevano guarentita la prammatica sanzione
(così Carlo VI intitolò la legge pubblicata nel 1713, colla quale
chiamava le figlie alla successione de' suoi stati), presero le armi
320
Muratori Ann. d'It. ad ann. - Will. Coxe Hist. de la Mais. d'Autr. (trad.) c.
XC e XCI, t. IV, p. 432 e segu. - Lacretelle dixhuitième siècle, t. II, l. VI, p.
175, 180.
321
Muratori Ann. d'It. ad ann. 1735, 1738. - Hist. de la Diplomatie française,
t. V, p. 80, sixième période, l. III. - Galluzzi Ist. di Toscana, t. VIII, p. 195, l.
IX, c. IX.
dopo la sua morte, per contrastarne l'eredità a sua figlia. I tre rami
della casa di Borbone di Francia, di Spagna e di Napoli si
associarono al re di Sardegna per attaccare la casa d'Austria in
Italia. La lotta fu lunga ed accanita; e di principal danno all'Italia
fu lo essersi il re Sardo staccato in settembre del 1743 dalla lega
della casa borbonica per unirsi a Maria Teresa, che gl'Inglesi
avevano preso a difendere. Quasi tutta l'Italia trovossi esposta ai
guasti delle armate, ed i paesi neutri, lo stato della chiesa in
particolare, contrastati fra i combattenti, non soffrirono forse
meno di quelli delle potenze belligeranti. Finalmente, dopo sette
anni di guerra e di disgrazie, gli articoli preliminari sottoscritti ad
Aquisgrana il 30 aprile del 1748 e seguiti da un definitivo trattato
di pace del 18 ottobre dello stesso anno rendettero la pace
all'Italia, e stabilirono le relazioni dei suoi diversi stati. I ducati di
Milano e di Mantova furono i soli stati d'Italia conservati sotto il
dominio di estera potenza, perchè restituiti alla casa d'Austria; ma
ne vennero staccati alcuni distretti a favore del re di Sardegna. I
ducati di Parma e di Piacenza, che i precedenti trattati avevano
uniti al Milanese, furono staccati un'altra volta per farne una
sovranità indipendente a favore di un quarto ramo della casa di
Borbone, di don Filippo, fratello del re di Spagna e del re di
Napoli. Il gran ducato di Toscana fu restituito all'imperatore, ma
per essere ceduto al suo secondogenito, onde formare la sovranità
di un secondo ramo della sua casa. Il duca di Modena e la
repubblica di Genova, che si erano alleati ai Borboni, furono
rimessi in tutti i loro possedimenti, e l'indipendenza dell'Italia fu
intera, per quanto potevano darla i re che regolavano la di lei
sorte322.
Ma l'Italia, dopo la pace di Aquisgrana, non acquistò maggiore
potenza politica di quella che avesse per lo innanzi, nè potè più
322
Muratori Ann. d'Ital. ad an. Terminano a quest'epoca, o piuttosto all'anno
1749. - Histoire diplomat. franç., t. V, p. 385 e segu. sixième période, l. V. Will. Coxe Hist. de la Maison d'Autriche, c. CVIII, t. V, (trad.) p. 170. Lacretelle, t. II, l. VIII, p. 412.
che farsi per lo innanzi rispettare o temere dai suoi vicini; essa
non trovò i suoi abitanti apparecchiati a difendere un nuovo
ordine politico che loro non procacciava nè gloria nè felicità; e
sebbene essa superasse quasi tutti i popoli del continente in
popolazione ed in ricchezze, mai non ottenne di lunga mano il
rispetto che aveva ottenuto al suo piccolo popolo il sovrano delle
arenose marche del Brandeburgo. Il restante della storia generale
d'Italia, dopo la pace di Aquisgrana, più non offre avvenimenti;
gli scrittori periodici, che si credevano obbligati a dare le notizie
dell'Italia nei loro giornali, per lo spazio di quarant'anni non
intrattennero il pubblico che intorno a dispute teologiche, ad
alcuni nuovi regolamenti fatti da' principi di loro motu proprio e
senza consultare i loro popoli, di feste, di matrimonj, di funerali e
di viaggi de' sovrani. Quegli avvenimenti ch'ebbero qualche
influenza sui susseguenti tempi, si presenteranno opportunamente
nella rapida occhiata storica de' varj stati dell'Italia.
Fino dal 12 giugno del 1675 la Savoja ed il Piemonte erano
governati da Vittorio Amedeo II, che per altro non oltrepassava i
trentaquattr'anni in principio del decimottavo secolo. Nel 1697 e
1701 aveva maritate le due sue figliuole ai due nipoti di Lodovico
XIV, il duca di Borgogna ed il duca d'Angiò, poscia re di Spagna;
ed aveva preso in principio della guerra della successione di
Spagna il comando delle armate francesi e spagnuole in Italia, col
titolo di generalissimo. Ma più che il paterno affetto era in lui
potente l'ambizione; e nel 1696 egli aveva di già mostrato di non
essere troppo scrupoloso osservatore delle sue promesse. Credeva
di non avere più sicuro mezzo d'ingrandire i suoi stati, che quello
di accordare la sua alleanza al migliore offerente; e se il Milanese
veniva una volta in mano della casa di Borbone, poca speranza gli
restava di fare nuove conquiste. L'imperatore e le potenze
marittime gli fecero segretamente vantaggiose condizioni, ch'egli
accettò in luglio del 1703. Il duca di Vandome, che aveva sotto i
suoi ordini nel Mantovano un corpo di truppe piemontesi, avuto
sentore dell'accaduto, le fece disarmare il 29 di settembre, ed il
giorno 3 dicembre dello stesso anno Lodovico XIV dichiarò la
guerra a Vittorio Amedeo323.
Il duca di Savoja aveva preferiti alleati potenti, ma lontani, a
quelli che lo circondavano da ogni banda, e ch'erano tuttavia
abbastanza forti per punirlo crudelmente della sua diserzione. I
suoi stati furono nello stesso tempo invasi su tutti i punti dalle
armate francesi e spagnuole: tutta la Savoja fu conquistata; e
Vercelli, Susa, la Brunetta, Ivrea, Aosta, Bardi, Verrua, Civasco,
Crescentino e Nizza, furono successivamente occupate nel 1704 e
1705 dai duchi di Vendome 324 e della Feuillade; la stessa capitale,
Torino, fu assediata nel 1706; onde il duca quasi spogliato di tutti
i suoi stati, fu forzato a cercare in Genova un asilo alla sua
famiglia, mentre ch'egli si chiudeva in Cuneo. In tale circostanza
andò debitore della sua salvezza ad un eroe della sua casa, il
principe Eugenio di Savoja, in allora generale dell'imperatore, e
nipote di quel Tommaso Francesco di Savoja, principe di
Carignano, che verso la metà del XVII secolo aveva così
lungamente travagliata la reggenza di sua cognata, la duchessa
Cristina. Il principe Eugenio ruppe sotto Torino, il 7 settembre
1706, le linee delle armate del duca d'Orleans, della Feuillade e di
Marsin, e fece levare l'assedio. La Francia perdette in
quell'incontro venti mila uomini, ed il duca di Savoja ricuperò,
oltre tutto quello che aveva perduto, il Monferrato, Alessandria,
Valenza e la Lumellina, che gli alleati gli avevano promesso in
premio della sua adesione325.
L'unione del Monferrato al Piemonte variava l'esistenza di
questa potenza; i confini de' due stati erano talmente intralciati,
che la loro inimicizia faceva perdere ogni maniera di buona
amministrazione all'uno ed all'altro in tempo di pace, e di difesa
323
: Murat. Ann. d'It. ad an. 1703, t. XII, p. 21. - Limiers, Hist. de Louis XIV, l.
XIV, t. III, p. 124. - Lahode Hist. de Louis XIV, l. LVI, t. V, p. 373. - Will. Coxe
Hist. de la Maison d'Autriche, c. LXIX, t. IV, p. 93.
324
Nell'originale "Vandome". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
325
Muratori ann. 1706. - Limiers, Hist. de Louis XIV, t. III, l. XV, p. 205. Will. Coxe, Hist. d'Autriche, t. IV, c. LXXIII, p. 160.
in tempo di guerra. La piccola provincia del Vigevanasco era pure
stata promessa al duca di Savoja; ma dacchè gli Austriaci ebbero
ricuperato il Milanese, più non vollero privarsi di veruna parte di
questo stato. Cotale disparere fu cagione di qualche
raffreddamento tra Vittorio Amedeo e l'imperatore Giuseppe, e
ritrasse il primo dal prendere una parte attiva nella guerra fino
alla conchiusione della pace d'Utrecht, nel 1713, che assicurò le
precedenti conquiste della casa di Savoja, e vi aggiunse la
Sicilia326.
Il viaggio che Vittorio Amedeo fece in Sicilia con tutta la sua
corte per farvisi coronare, e la permanenza di un anno in Palermo,
esaurirono le finanze del Piemonte quasi quanto la guerra che
aveva di fresco terminata. Quando giunse in quest'isola entrò in
ostilità d'altra natura con papa Clemente XI, onde mantenere le
prerogative della corona contro l'autorità della santa sede: diversi
ministri del re furono scomunicati e molte città poste sotto
l'interdetto; mentre che Vittorio Amedeo bandì dalla Sicilia più di
quattrocento ecclesiastici, che tenevano contro di lui le parti del
papa: queste religiose turbolenze riempirono il breve regno di
Vittorio Amedeo in Sicilia327. Mentre Vittorio Amedeo confidava
interamente nell'alleanza di Filippo V, re di Spagna, Palermo
venne improvvisamente attaccato il 30 giugno del 1718
dall'armata spagnuola, e fu costretto a capitolare. Il vicerè di
Vittorio Amedeo difese Siracusa, Messina, Trapani e Melazzo;
ma tutto faceva credere che i Piemontesi non potrebbero
mantenervisi lungo tempo; il re era troppo lontano e troppo
debole per mandare sufficienti soccorsi; e il 2 agosto dello stesso
anno, il quadruplice trattato d'alleanza, negoziato a Londra
dall'abate Dubois, offrì a Vittorio Amedeo, in vece di protezione,
il cambio sommamente svantaggioso della Sardegna per la
Sicilia, cui non pertanto Vittorio dovette soscriversi il 18 ottobre
del 1718. Allora, rinunciando alle sue pretese sulla Sicilia, che
326
327
Muratori An. d'It. 1708, t. XII, p. 56.
Ivi, 1715.
gl'imperiali contrastavano agli Spagnuoli, e prendendo il titolo di
re di Sardegna, sebbene non vi possedesse un palmo di terreno,
Vittorio Amedeo II consacrò l'anno 1719 a sottomettere
all'autorità reale, in Piemonte i suoi proprj feudatarj, abolendone i
privilegj e confiscandone le regalie. Quando finalmente Filippo V
ebbe acceduto alla quadruplice alleanza, rimise, in agosto del
1720, il possesso della Sardegna ad un inviato dell'imperatore,
che la consegnò immediatamente alle truppe di Vittorio
Amedeo328.
La Sardegna non dava al suo re che un vano titolo: ma
l'acquisto del Monferrato, dell'Alessandrino, della Lumellina
aveva procurata al Piemonte una tale consistenza che mai non
aveva avuto prima del regno di Vittorio Amedeo II. Questo
principe, che può essere risguardato come il fondatore della sua
monarchia, consacrò gli ultimi dieci anni del suo regno ad
accrescere le fortificazioni delle sue città e le sue forze militari, a
formare valenti ingegneri, finalmente a ravvicinare i suoi sudditi
agli oltremontani per mezzo di un'educazione più proporzionata
ai progressi dei lumi in tutta l'Europa: fino all'età sua il Piemonte
non aveva quasi preso nessuna parte alla gloria letteraria
dell'Italia: rialzando il sentimento dell'onore nazionale ne'
Piemontesi, Vittorio Amedeo sviluppò tra di loro distinti ingegni;
riparò nello stesso tempo i disastri dell'agricoltura, del commercio
e delle manifatture; semplificò l'amministrazione della giustizia
ne' tribunali; e si occupò con pari attività che intelligenza a
chiudere tutte le piaghe dello stato. Dopo avere lungamente
richiamati gli sguardi dell'Europa sulla luminosa carriera ch'egli
aveva percorsa, Vittorio Amedeo, giunto all'età di 64 anni, fece, il
3 settembre del 1730, maravigliare tutti coll'abdicazione della
corona a favore di suo figlio Carlo Emmanuele III, allora in età di
trent'anni. Per altro i suoi sudditi, che avevano più sofferto pella
sua inquieta attività, e pel suo despotismo, che non approfittato
328
Muratori Ann. d'It. ad an. 1718. - Lacretelle, Hist. du XVIII siècle, t. I, l. II,
p. 193, 208.
delle sue riforme, di cui non raccoglievano ancora i frutti, non
dissimularono la gioja che loro cagionava quest'avvenimento.
Vittorio Amedeo aveva fatto fondamento nella riconoscenza e nel
rispetto di suo figlio; ma le relazioni de' principi fra di loro non
sono quelle del sangue; la diffidenza ed il sospetto gli assediano,
l'affetto non ha veruna parte nella loro educazione, la
riconoscenza viene soffocata nel cuor loro dall'adulazione, e la
voce della coscienza pervertita dai consiglj de' cortigiani. Vittorio
Amedeo II fu per ordine di suo figlio arrestato la notte del 28 al
29 di settembre del 1731, colle più ributtanti circostanze: nella
sua prigionia ed in tempo dell'ultima sua malattia, non potè
ottenere colle più calde preghiere, che suo figlio andasse a
trovarlo; e finalmente morì il 31 ottobre del 1732 nel castello di
Moncalieri, ove era rinchiuso, distante tre miglia da Torino329.
Carlo Emmanuele III non tralignò dai principi suoi
predecessori, nè per la sua abilità nelle cose della politica, della
guerra e dell'amministrazione, nè per l'instabilità delle sue
alleanze, che, come quelle dei suoi antenati, furono sempre
vendute al migliore offerente. Nella guerra dell'elezione del re di
Polonia, egli sorprese gli Austriaci, cui il suo primo ministro, il
marchese d'Ormea, avea date in iscritto le più formali
assicurazioni ch'egli non si era alleato alla casa di Borbone; in
breve tempo conquistò tutto il Milanese, e ne fu ricompensato nel
trattato di pace colla cessione di Novara e di Tortona coi loro
territorj330.
Nella guerra della successione dell'Austria, il re di Sardegna
offrì da prima la sua alleanza alla casa di Borbone; ma la corte di
Spagna, che pretendeva di ricuperare il Milanese già da
venticinque anni staccato da quella monarchia, non esibì a Carlo
329
Muratori Ann. d'It. ad ann. 1731. - Will. Coxe Hist. de la Maison
d'Autriche, ch. LXXXIX, t. IV, p. 422. - Lacretelle, Hist. du XVIII siècle, t. II, l.
VI, p. 114.
330
Hist. de la Diplomatie Franç., t. V, p. 80, sixième période, l. III. - Will.
Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. XC, t. IV, p. 438. - Lacretelle, Hist., t.
II, p. 175.
Emmanuele per comperare la sua alleanza che piccolissimi
distretti di quel ducato, che probabilmente avrebbe ancora
rivendicati quando la vittoria avesse coronate le sue armi. Allora
il re di Sardegna fece un trattato 331 provvisionale con Maria
Teresa per la difesa del Milanese, cui riservavasi però di potere
rinunciare, dandone avviso alla regina un mese prima. Questo
trattato fu soscritto il primo febbrajo del 1742 332, ed obbligò Carlo
Emmanuele ad entrare in guerra cogli Spagnuoli, i quali, sotto il
comando dell'infante di Spagna, don Filippo, invasero tutta la
Savoja, mentre che i Piemontesi uniti agli Austriaci sconfissero
gli Spagnuoli nella Lombardia oltrepadana. Ma non perciò il re di
Sardegna interrompeva le sue negoziazioni colla casa di Borbone,
cui la sua alleanza avrebbe dato in mano il Milanese; ma egli
poneva a cotale alleanza un altissimo prezzo. Diede a questi
negoziati abbastanza pubblicità affinchè la corte di Vienna, e più
ancora il suo alleato Giorgio II, sentissero la necessità di
guadagnarlo al loro partito. Infatti, il 13 settembre del 1743,
conchiusero con lui un trattato sottoscritto a Worms, col quale gli
si promettevano Piacenza, Vigevano e l'alto Novarese, e per
confini a Levante la Nura, il Ticino ed il lago Maggiore333.
Dopo quest'alleanza Carlo Emmanuele agì vigorosamente
contro i Francesi e contro gli Spagnuoli; ma mentre li
combatteva, non lasciava di negoziare per tornare al loro partito:
v'ebbero perfino de' preliminari sottoscritti a Torino, il 26
dicembre del 1745, tra la Francia e la Sardegna, le di cui
condizioni avrebbero consolidata la potenza della casa di Savoja,
ed assicurata l'indipendenza degli stati d'Italia. Si aboliva perfino
il nome del santo romano impero, cagione di tante vessazioni pei
pretesi stati feudali, e si escludevano i Francesi, gli Spagnuoli ed i
Tedeschi da ogni possedimento nella penisola. Ma la diffidenza
331
Nell'originale "trattatto". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
William Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. CII, t. V, p. 72.
333
Murat. Ann. ad an. 1742, 1743. - Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche,
t. V, ch. CIV, p. 103.
332
del re sardo, gl'indugj della corte di Spagna, e la rapida discesa in
Italia di un'armata della regina d'Ungheria fecero rompere queste
negoziazioni. Allora Carlo Emmanuele, unendosi di nuovo agli
Austriaci, si mantenne costante nella loro alleanza fino alla pace
d'Aquisgrana, che press'a poco gli accordò i vantaggi acquistati
col trattato di Worms, tranne Piacenza, cui dovette rinunciare334.
L'ultima parte del regno di Carlo Emmanuele fino alla morte
che lo sorprese il 20 gennajo del 1773, ed il regno di Vittorio
Amedeo III, che gli successe, furono sempre pacifici; e perchè in
un paese in cui non si permette al popolo d'immischiarsi nelle
cose del governo e della politica, i tempi di pace non offrono allo
storico verun avvenimento, può risguardarsi la storia del
Piemonte come affatto nulla in tutto questo periodo. Il governo
non avrebbe tollerato che se ne conservasse qualche memoria, e
veruno scrittore volle infatti esporsi a dispiacergli, narrando ciò
che la suprema autorità seppelliva in un profondo segreto.
Il ducato di Milano, che durante la guerra della successione di
Spagna, passò sotto il dominio di casa d'Austria, ebbe la sventura
di essere saccheggiato in ogni guerra da tutte le potenze
belligeranti, e smembrato in tutti i trattati di pace. La capitale
perdette assai in popolazione ed in ricchezze, quando molte delle
sue migliori province vennero sottratte al suo dominio e date al re
di Sardegna. Le campagne in tempo della guerra non soffrirono
meno della capitale; ma la loro prosperità venne più rapidamente
repristinata, sia a cagione della maravigliosa loro fertilità, sia
perchè il governo austriaco fu assai più giusto e più ragionevole
che non quello degli Spagnuoli. In particolare la casa di Lorena si
fece conoscere superiore all'antica casa d'Austria, e
l'amministrazione del conte di Firmian (1759-1782) lasciò una
grata memoria. Era omai questa la sorte dell'Italia di ricevere
dall'estero i lumi ch'ella aveva sì lungamente sparsi in addietro; e
334
Muratori Ann. d'It. ad ann. 1748. - Hist. de la Diplom. Franç., t. V, p. 402,
sixième période, l. V. - Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch.
CVIII, p. 170.
le province, governate da stranieri monarchi, approfittavano dei
progressi nelle scienze politiche, che i nazionali non avevano per
anco fatti. Giuseppe II intraprese con zelo e con buona fede, ma
spesso con troppo precipizio, le riforme oramai diventate
necessarie. La pubblica opinione era tuttavia così traviata
dall'ignoranza dei diritti del principato, che condannava quasi
tutto ciò che questo sovrano faceva pel vantaggio del paese. Non
perciò i suoi sforzi riuscirono del tutto vani; le lettere, i lumi ed
alcune virtù pubbliche cominciarono a rigermogliare in
Lombardia, e fu questa la provincia che fece più d'ogni altra
sperare il risorgimento di una nazione italiana.
In principio del secolo i Gonzaga perdettero il ducato di
Mantova, che da Giuseppe II venne assoggettato a quello di
Milano, in compenso di ciò che aveva perduto dalla banda del
Piemonte. L'imprudente Ferdinando Carlo Gonzaga si era lasciato
vincere dal danaro sul principio della guerra della successione di
Spagna, ed aveva acconsentito a ricevere in Mantova guarnigione
francese, in conformità del trattato ch'egli soscrisse a Venezia il
24 febbrajo del 1701335. Con ciò, non solo richiamò la guerra ne'
suoi stati, mentre egli nelle dissolutezze di Venezia cercava di
scordare le sventure de' suoi sudditi, ma inoltre diede un pretesto
all'imperatore di porlo al bando dell'impero. In fatti, avendo i
Francesi, in virtù della convenzione di Milano del 13 maggio
1707, evacuata la Lombardia, Mantova e tutto il suo ducato
vennero occupati dagl'imperiali; fu dichiarato il duca colpevole di
fellonìa, ed i suoi feudi riuniti alla diretta dell'impero; poco dopo
Ferdinando Carlo morì in Padova il 5 di luglio del 1708 senza
prole. Rimaneva di questa famiglia un ramo cadetto, quello dei
duchi di Guastalla e di Sabbionetta, principi di Bozzolo, formato
da Federico di Gonzaga, illustre generale del sedicesimo secolo.
Ma invano questi richiamarono la successione d'uno stato che
335
Muratori Ann. d'Italia, 1701. - Limiers, Hist. de Louis XIV, l. XIII, p. 69. Le Vassor, Hist. de Louis XIII, t. VI, l. XXVI, p. 98. - Will. Coxe, Hist. de la
Maison d'Autriche, ch. LXXV, t. IV, p. 211.
loro apparteneva per le leggi dell'impero, e che rimase confiscato.
Anche questa linea si spense in Giuseppe Maria Gonzaga che
morì il 15 d'agosto del 1746, e la pace di Aquisgrana aggiunse i
piccoli stati di lui a quelli di Parma e di Piacenza336.
Ne' primi anni del diciottesimo secolo i ducati di Parma e di
Piacenza erano governati da Francesco Farnese, succeduto a
Rannuccio II, suo padre, l'undici dicembre del 1694. Fino dalla
sua più fresca giovinezza trovavasi oppresso da una straordinaria
grassezza, diventata ereditaria nella sua famiglia; inoltre
balbettava, ed a questi esteriori difetti rispondeva la debolezza del
suo spirito, onde aveva contratto un estremo timore di mostrarsi
in pubblico, e tenevasi a tutti celato. Durante la guerra della
successione di Spagna, ricevette guarnigioni pontificie, onde far
rispettare la sua neutralità e quella della Chiesa di cui
riconoscevasi feudatario. A fronte di ciò i Tedeschi violarono più
volte il suo territorio. Non avendo avuti figliuoli da Dorotea di
Neuburgo, vedova di suo maggior fratello, ch'egli aveva sposata
il 16 settembre del 1714, maritò Elisabetta Farnese, figlia di suo
fratello, a Filippo V, re di Spagna. Sebbene le femmine non
fossero chiamate all'eredità de' feudi della Chiesa, fu però
Elisabetta che trasmise alla casa di Borbone quelle pretese sui
ducati di Parma e di Piacenza, che fecero dare quei ducati al
secondo de' di lei figli337.
Francesco Farnese mai non aveva voluto dare a suo fratello
Antonio una sufficiente entrata per potersi ammogliare; altronde
Antonio non aveva che un anno meno del duca, ed aveva la stessa
mostruosa corpulenza, lo che faceva risguardare come di già
spenta la casa Farnese, quando nel 1720 il trattato della
quadruplice alleanza impose leggi alla Spagna, per terminare la
guerra eccitata dal cardinale Alberoni. L'eredità di Parma e quella
della Toscana furono assegnate ad un figlio di Elisabetta Farnese
e di Filippo V, che non fosse re di Spagna; i ducati di Parma e di
336
337
Muratori Ann. d'Ital. ad ann. 1708. - Ivi, 1746.
Muratori Ann. d'Italia, 1714.
Piacenza vennero dichiarati feudi imperiali, malgrado le
rimostranze di Clemente XI, e fu convenuto che per la guarenzia
di questa eventuale successione sarebbero, durante la vita degli
ultimi principi Farnesi, occupati da guarnigioni svizzere. Questi
accomodamenti furono inoltre raffermati dal trattato fatto il 30
aprile del 1725 tra l'Austria e la Spagna338.
L'infante don Carlo, cui erano destinati questi principati
italiani, non recossi nella penisola che dopo la morte del duca di
Parma, Francesco, accaduta il 26 di febbrajo del 1727. Suo
fratello, don Antonio, allora in età di quarantotto anni, si affrettò
di cercarsi una consorte per conservare ancora, se era possibile, la
casa Farnese; ed in febbrajo del 1728 sposò Enrichetta d'Este,
terza figlia del duca di Modena. Il papa Benedetto XIII e
l'imperatore Carlo VI gli prescrissero nello stesso tempo di
ricevere dalla Chiesa e dall'impero l'investitura dei suoi ducati;
ma, temendo di compromettersi con sovrani tanto di lui più
potenti, e per non dare la preferenza a veruno di loro, egli ricusò
l'uno e l'altro. In tali circostanze la Francia, l'Inghilterra e la
Spagna convennero, in forza di un trattato sottoscritto in Siviglia
il 9 novembre del 1729, che sei mila Spagnuoli verrebbero
destinati a formare le guarnigioni di Livorno, Porto Ferrajo,
Parma e Piacenza, onde guarentire la successione a don Carlo.
Tale sostituzione delle truppe spagnuole alle svizzere spiacque
all'imperatore, il quale rifiutò di accettare il trattato di Siviglia, e
fece passare trenta mila uomini in Lombardia, per opporsi
all'introduzione delle guarnigioni spagnuole339.
I duchi di Parma e di Toscana, che vedevano, mentre ancora
erano vivi, e malgrado loro, altri liberamente disporre della
propria eredità, non temevano meno le truppe estere, che,
occupando i loro stati, vorrebbero dar loro la legge, di quello che
338
Muratori Ann. d'Italia, 1720-1725. - Galluzzi Ist. di Tosc., l. IX, c. III, p.
345, t. VII.
339
Muratori Ann. d'Italia ad an. 1729. - Hist. de la Diplom. franç., sixième
période, l. III. - Galluzzi Storia del gran ducato, l. IX, c. VI., t. VIII, p. 66.
temessero la guerra che l'imperatore mostravasi apparecchiato ad
intraprendere per tenerle lontane. Il loro regno si andò
consumando in tristi negoziazioni, le quali tutte avevano per
oggetto l'epoca della loro morte, creduta assai vicina, sebbene
fossero ambidue pieni di vita e non ancora usciti dalla virilità.
Però le truppe spagnuole non erano per anco sbarcate in Italia,
quando Antonio, ultimo duca della casa Farnese, morì il giorno
20 gennajo del 1731. Ne' pochi anni del suo regno costui
risguardò le finanze de' suoi stati come un'entrata vitalizia;
sagrificò le generazioni che dovevano seguirlo a' suoi piaceri del
momento, non limitando in verun modo le sue prodigalità, sia che
si trattasse di appagare i suoi gusti, o di guadagnare la
riconoscenza degli adulatori e dei favoriti che lo circondavano340.
La duchessa Enrichetta, vedova dell'ultimo duca di Parma,
credevasi incinta, e non riconobbe d'essersi ingannata che in
settembre dello stesso anno, nella quale epoca lasciò Parma per
tornare a Modena. Tale incertezza diede tempo alle altre potenze
di convenire intorno alle rispettive pretese. Nel giorno 23 di
gennajo del 1731, il generale imperiale aveva preso possesso di
Parma e di Piacenza, veramente per conto dell'infante di Spagna,
ma con truppe tedesche: un commissario pontificio, che in allora
si trovava a Parma, protestò solennemente il giorno 24 contro un
tale atto di possesso, contrario al supremo dominio della Chiesa.
Una nuova convenzione, sottoscritta il 22 luglio del 1731, tra
l'imperatore, il re di Sardegna e l'Inghilterra, riconfermò le
convenzioni della quadruplice alleanza. L'infante don Carlo non
arrivò a Livorno che il 27 di dicembre seguìto dalle truppe
spagnuole, che dovevano per lui occupare i suoi nuovi stati. Dopo
essersi trattenuto parecchj mesi in Toscana presso il gran duca
Giovan Gastone de' Medici, che in certo qual modo veniva
obbligato ad adottarlo ed a riconoscerlo quale suo presuntivo
340
Muratori Ann. d'Italia ad an. 1731. - Galluzzi Ist. della Toscana, l. IX, c.
VII, t. VIII, p. 116. - Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. LXXXVIII,
t. IV, p. 410.
erede, don Carlo entrò trionfalmente in Parma il 9 di settembre
del 1732341.
L'imperatore Carlo VI aveva dato per tutori a don Carlo la di
lui ava materna, la duchessa Dorotea, vedova di Odoardo, poi di
Francesco Farnese, ed il gran duca di Toscana; ma nel
susseguente anno la casa di Borbone, avendo attaccata quella
d'Austria, don Carlo, che il 20 di gennajo del 1733 era giunto a
diciassette anni, dichiarossi egli stesso maggiore, ed in pari tempo
prese il comando dell'esercito spagnuolo in Italia. Siccome dal
canto suo il duca di Savoja, Carlo Emmanuele III, si era posto
alla testa delle truppe francesi, ed avea fatta rapidamente la
conquista del Milanese, così don Carlo, che più non era in
Lombardia necessario, in principio di gennajo del 1734 prese
colle truppe spagnuole la strada di Napoli, onde tentare la
conquista di quel regno. Sperando allora di cambiare i due piccoli
ducati di Parma e di Piacenza con una vasta monarchia, e più non
supponendo di entrare nell'eredità a lui destinata da tanti anni,
don Carlo spogliò i palazzi Farnesi de' loro più ricchi effetti, per
portarli seco. Il duca di Montemar, che dirigeva le sue operazioni,
il 27 di maggio sconfisse presso Bitonto la piccola armata
imperiale, la sola che avesse osato di resistergli, perciocchè fin
dal 9 aprile la capitale aveva aperte le sue porte agli Spagnuoli: e
prima che terminasse la campagna, i due regni di Napoli e di
Sicilia furono totalmente assoggettati a don Carlo342.
Sebbene questo principe, allorchè partiva da Parma, avesse
mostrato di rinunciare a quella sovranità, la facile conquista del
regno di Napoli risvegliarono la sua ambizione e quella di suo
padre. Si lusingarono di ricuperare tutto ciò che la pace d'Utrecht
aveva tolto in Italia alla corona di Spagna; e nel 1735 il duca di
Montemar si rimise in cammino alla volta della Lombardia per
341
Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1731, 1732. - Galluzzi Stor. di Toscana, l.
IX, c. VII, t. VIII, p. 115.
342
Murat. Ann. d'Italia ad ann. 1734. - Galluzzi Storia di Toscana, l. IX, c. IX,
t. VIII, p. 179. - Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. XC, t. IV, p. 447.
intraprendervi nuove conquiste. Ma il cardinale di Fleurì era omai
stanco di servire all'ambizione spagnuola; il 3 di ottobre fece
sottoscrivere in Vienna i preliminarj della pace coll'imperatore;
ed ordinò al duca di Noailles di non dare più ajuto al generale
spagnuolo; onde il duca di Montemar, stretto improvvisamente
dai Tedeschi, si vide forzato a ritirarsi precipitosamente a traverso
alla Toscana alla volta del regno di Napoli343.
In aprile del susseguente anno le guarnigioni spagnuole, che
occupavano Parma e Piacenza, evacuarono quelle due città, seco
trasportando le biblioteche e la galleria dei Farnesi, tutti i quadri,
tutti i mobili e tutti gli effetti preziosi de' palazzi saccheggiati; di
modo che al dolore di perdere la propria indipendenza i popoli
aggiunsero quello di vedersi spogliati di tutti gli ornamenti delle
loro città. Allora i ministri spagnuoli, a nome di don Carlo,
dichiararono i sudditi di Parma e di Piacenza sciolti dal loro
giuramento di fedeltà, e subito partirono senza consegnare quegli
stati agli Austriaci: ma non si furono appena ritirati che il
principe di Lobkowitz ne prese il possesso, il giorno 3 di maggio
del 1736, a nome dell'imperatore344.
Parma e Piacenza non rimasero lungamente unite al ducato di
Milano, perciocchè cinque anni dopo tale cessione, si estinse la
casa d'Austria; ed il re di Spagna vantando diritti sull'eredità di
Carlo VI, il duca di Montemar sbarcò il giorno 9 dicembre del
1741 ad Orbitello con un esercito spagnuolo destinato a fare in
Italia nuovi acquisti. La regina di Spagna, Elisabetta Farnese,
aveva un altro figlio, chiamato don Filippo, nato il cinque di
marzo del 1720. Quest'ambiziosa principessa, che continuamente
lagnavasi di avere perduta l'eredità della propria famiglia, risolse
di formare a suo figlio uno stato in Italia. Lo pose alla testa di
un'armata spagnuola adunata nel 1742 ai confini della Provenza,
la quale, sebbene occupasse subito la Savoja, non potè che dopo
343
Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1734. - Galluzzi, Storia della Toscana, l. IX,
c. IX, p. 198. - Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. XCI, p. 465.
344
Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1736. - Galluzzi Stor., l. IX, c. X.
lungo tempo penetrare in Italia. Il re di Napoli era stato costretto
dall'ammiraglio Matheus a dichiararsi neutrale il 19 agosto del
1742, onde non vedere bombardata la sua capitale. Il duca di
Modena, che aveva abbracciato il partito francese, era stato
cacciato dai suoi stati: ed i ducati di Parma e di Piacenza erano
caduti in mano dei Tedeschi; onde soltanto in settembre del 1745
l'infante don Filippo potè entrare negli stati che pretendeva di sua
ragione345.
Appena cominciava don Filippo ad avere in Lombardia la
fortuna propizia, che la corte di Spagna pensò a formargli uno
stato, non più delle sole città di Parma e di Piacenza, ma di tutto il
Milanese. Era entrato in Milano il 16 di dicembre del 1745,
quando la pace parziale fatta dal re di Prussia con Maria Teresa
permise a questa sovrana di portare la maggior parte delle sue
forze in Italia; allora don Filippo fu costretto ad abbandonare
Milano il 19 di marzo, e tutti i Francesi e gli Spagnuoli furono
scacciati dalla Lombardia prima che terminasse la campagna del
1746346.
Nella stessa campagna aveva don Filippo perduto il suo
principale appoggio in Filippo V, suo padre, morto il 9 di luglio
del 1746. Ferdinando VI, figlio di Filippo V, del primo letto,
succedutogli alla corona di Spagna, non prendeva un troppo vivo
interesse allo stabilimento de' figliuoli di sua matrigna. Perciò la
corte di Spagna fu contenta di ottenere, col trattato di Aquisgrana,
i due ducati di Parma e di Piacenza, che tornarono a ricuperare
l'indipendenza il 18 ottobre del 1748, ed ebbero qualche
ingrandimento coll'unione fattavi del piccolo ducato di
Guastalla347.
345
Muratori Ann. d'Italia, 1741 e seg. - Coxe, ch. CVI, t. V, p. 137.
Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1746. - Oeuvres posthum. de Frédéric II
Hist. de mon temps, ch. X-XIV, t. II, p. 77. - Coxe, Hist. de la Maison
d'Autriche, ch. CVII, t. V, p. 153.
347
Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1748. - Hist. de la Diplom. Franç. sixième
période, l. V, t. V, p. 417. - Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, ch. CVIII, t. V,
p. 177.
346
La guerra della successione d'Austria aveva in certo qual modo
interessata tutta l'Europa alla trasmissione dell'eredità dei Farnesi
ad un ramo dei Borboni. Ma dopo quest'avvenimento gli stati di
Parma e di Piacenza ricaddero nell'oscurità sotto il regno
dell'infante don Filippo, che morì il 18 luglio del 1765, e sotto
quello di suo figlio e successore don Ferdinando. Per altro il
gusto di don Filippo per le lettere e per la filosofia, la protezione
da lui accordata agli scrittori francesi, la scelta fatta per educare
suo figlio dell'abate di Condillac, furono cagione che
s'introducessero in Lombardia nuove idee, con un certo
sentimento di libertà civile e religiosa, che dal governo spagnuolo
era stato per lo innanzi severamente proscritto. Le città di Parma
e di Piacenza, che nei precedenti secoli avevano avuta così
piccola parte alla gloria letteraria dell'Italia, parvero animate da
nuova vita, e vi fiorirono molti uomini illustri.
Nella prima metà del diciottesimo secolo i ducati di Modena e
di Reggio non furono meno sventurati di quelli di Parma e di
Piacenza. Rinaldo d'Este, che regnava in Modena fino dal 1694,
abbracciò il partito imperiale nella guerra della successione di
Spagna. Perciò tutti i suoi stati furono invasi dai Francesi, ed egli
medesimo fu costretto a ripararsi in Bologna fino al 1707, in cui
la Lombardia venne evacuata dalle armate dei Borboni. La pace
d'Utrecht gli ratificò il possedimento di tutto ciò che aveva prima
della guerra, e vi aggiunse nel 1718 il piccolo ducato della
Mirandola, comperato dall'imperatore, che lo aveva confiscato a
pregiudizio di Francesco Pico, ultimo principe di questa famiglia.
Rinaldo, conservandosi fedele allo stesso partito, fu per la
seconda volta costretto a ripararsi in Bologna nella guerra del
1734, mentre che i suoi stati vennero occupati dai Francesi e dagli
Spagnuoli. Finalmente rientrò nella sua capitale il 24 di maggio
del 1736, ove morì diciassette mesi dopo, il 26 di ottobre del
1737, in età di ottantadue anni348.
348
Murat. Ann. d'Italia ad an. 1737.
Il duca Rinaldo, che era stato cardinale, che non aveva deposto
l'abito ecclesiastico che in età di quarant'anni, e ch'era giunto
ormai ad avanzata vecchiaja in tempo dell'ultima guerra in cui
erasi trovato suo malgrado avviluppato, non prendeva veruna
parte nelle operazioni militari. Suo figlio Francesco III, che gli
successe, era stato militarmente educato, ed aveva gusto per le
cose della guerra. Prima di salire sul paterno trono aveva fatta una
campagna contro i Turchi; ricercò l'alleanza della casa di
Borbone nella guerra della successione dell'Austria, e fu
nominato generalissimo delle armate francesi e spagnuole, che in
Italia militavano contro Maria Teresa. Egli diede con ciò motivo
agli Austriaci di invadere i suoi stati, di guastarli e d'opprimerli
colle contribuzioni, mentre ch'egli conduceva il suo esercito nello
stato pontificio, ove si mantenne lungamente; indi venne nella
riviera di Genova, in Provenza ed in Savoja, dov'ebbe comune
fortuna coll'infante don Filippo. Fu rimesso finalmente ne' suoi
stati nel 1748 dal trattato di Aquisgrana; ma li trovò ruinati dalle
truppe austriache e piemontesi, che gli avevano occupati più anni,
ed egli aggiunse ancora alla loro miseria col peso di nuove
imposte e col cattivo sistema delle sue finanze. Morì di ottantadue
anni il 23 febbrajo del 1780. La fama dei due più eruditi italiani,
Muratori349 e Tiraboschi, suoi sudditi e suoi pensionati, sparse
qualche gloria sul suo regno.
Era ne' destini dei ducati di Modena e di Reggio di essere
governati da vecchi principi. Ercole III, figliuolo di Francesco III,
era ammogliato da circa quarant'anni quando successe a suo
padre. Aveva sposata in settembre del 1741 Maria Teresa Cibo,
unica figlia ed erede di Alderano Cibo, ultimo duca di Massa e di
Carrara, ed aveva per tal modo fatto entrare nella sua famiglia un
quarto ducato, oltre quelli di Modena, di Reggio e della
Mirandola350. Il ducato di Massa e Carrara era uno de' molti
349
Nell'originale "Muraratori"
Ercole d'Este non possedette mai il ducato di Massa. Dopo la morte della
consorte, che viveva separata dal marito in Reggio, questo ducato passò in
350
piccoli feudi imperiali posseduti dai marchesi Malaspina tra la
Liguria, la Lombardia e la Toscana. Due secoli e mezzo prima era
passato, per mezzo di una femmina, sotto il titolo di marchesato,
a Franceschetto Cibo, figlio d'Innocenzo VIII; era stato eretto in
ducato nel 1664; e di nuovo passò per una donna alla casa
d'Este351. Diventato duca in età avanzata, Ercole III fu accusato,
ancora più de' suoi due predecessori, di avarizia, vizio che spesso
si rimprovera alla vecchiaja. Egli accumulò un tesoro, che invece
di servire alla sua difesa nell'istante del bisogno, accrebbe il suo
pericolo, eccitando la cupidigia dei suoi nemici. Il 14 ottobre del
1771 maritò l'unica sua figlia coll'arciduca Ferdinando d'Austria;
e questa principessa è rimasta l'unica rappresentante de' principi
d'Este, in addietro sovrani di Ferrara, Modena e Reggio; dei
Malaspina e dei Cibo, signori di Massa e di Carrara; dei Pichi,
sovrani della Mirandola, e dei Pii, sovrani di Carpi e di
Correggio; perciocchè tutte le case sovrane d'Italia sembravano
percosse dallo stesso destino, e la stessa casa d'Este era pure
vicina a spegnersi, allorchè perdette i suoi stati nelle guerre della
rivoluzione.
Si erano vedute spegnersi in Napoli le case dei Durazzo,
d'Angiò e d'Arragona; a Milano quelle de' Visconti e degli
Sforza; quella de' Paleologhi nel Monferrato; dei Montefeltro e
della Rovere in Urbino; dei Gonzaga a Mantova, Guastalla e
Sabionetta; dei Farnesi in Parma e Piacenza; e l'Italia vide pure
spegnersi nel diciottesimo secolo, prima delle case Cibo e d'Este,
la casa dei Medici, che, erede di una gloria acquistata da
rimotissimi antenati, era illustre a motivo dei grandi cittadini di
Firenze da lei prodotti, non per i suoi gran duchi.
Cosimo III regnava in Firenze fin dal 1670, ed anche salendo
sul trono la sua vita era amareggiata dalle sue contese con
dominio dell'unica sua figlia Maria Beatrice, moglie dell'arciduca Ferdinando
d'Austria, che lo possiede anche al presente. N. d. T.
351
Muratori Ann. d'Italia ad ann. 1741. - Viani Storia e monete di Massa, c.
XIV, p. 59.
Margarita d'Orleans, sua sposa, cui era diventato insoffribile a
cagione de' suoi sospetti e della sua domestica tirannide: ma egli
dall'altro canto non aveva avuto a soffrir meno pelle stravaganze
di questa principessa francese, e pel disprezzo ch'essa gli
mostrava. Egli stesso, disgraziato nel suo interno, pareva che non
potesse interessarsi in un matrimonio senza renderlo altresì
disgraziato ed infecondo. Il suo maggior figliuolo, Ferdinando,
che morì prima di lui, il 30 di ottobre del 1713, sebbene di già in
età di cinquant'anni non aveva avuto prole da Violante Beatrice di
Baviera sposata nel 1688: e sua figlia, Anna Maria Luigia, che nel
1691 aveva sposato Giovanni Guglielmo, elettore palatino, fu
pure infeconda. Il suo secondo figliuolo, Giovan Gastone non
ebbe pure figli dalla principessa di Sassonia Lavemburg, sposata
nel 1697352; onde per non vedere spenta la sua famiglia entro
pochi anni, Cosimo III persuase, all'ultimo, nel 1709, suo fratello
Francesco Maria, di già in età di cinquant'anni, a deporre la sacra
porpora, ed a sposare Eleonora di Gonzaga, figlia del duca di
Guastalla; ma nè questo matrimonio fu più fecondo degli altri.
Ferdinando e Francesco Maria morirono prima di Cosimo III;
Giovan Gastone, separato dalla moglie, e pieno d'infermità, non
poteva più nutrire speranze di prole; e Cosimo vedeva con amaro
dolore le principali potenze dell'Europa disporre, mentre ancor
viveva egli e suo figlio, della sua eredità. Riclamò invano a
favore dei diritti della repubblica fiorentina, di cui i suoi antenati
non erano stati che semplici rappresentanti, ed alla quale doveva
perciò ritornare la sovranità dopo estinta la linea dei Medici 353.
Tentò pure di farne passare l'eredità alla figliuola, quella che più
amava di tutti i suoi figli; volle almeno decidere egli stesso tra i
pretendenti alla corona di Toscana; ma i diplomatici europei, non
valutando più i suoi diritti che quelli del suo popolo, non
degnaronsi pure di ascoltarlo nel disporre de' suoi stati.
352
Galluzzi Stor. di Toscana, l. VIII, c. IV, p. 101, t. VII; Ivi, c. V, p. 125; Ivi, l.
IX, c. I, p. 305.
353
Galluzzi Storia del gran ducato, l. VIII, c. IX ad an. 1710, t. VII.
Finalmente egli morì il 31 d'ottobre del 1723 dopo avere sofferte
le più amare mortificazioni, ed avere avuti tanti dispiaceri quanti
erano stati i mali che aveva fatti soffrire al suo popolo354.
Giovan Gastone, che successe a Cosimo III, era stato lo scopo
delle persecuzioni degl'ipocriti che infestavano la corte di suo
padre; egli non aveva mai trovato nel suo palazzo, che noja,
suggezione e tristezza. Tosto che si vide liberato dall'oppressione
in cui aveva vissuto fino ai cinquantadue anni, cercò col
circondarsi di buffoni e di persone non ad altro intese che a
tenerlo allegro, di dimenticare come meglio poteva, e le sue
infermità che lo ritenevano frequentemente a letto, e la divisione
della sua eredità, di cui facevasi tanto rumore in Europa. Giovan
Gastone era un buon uomo, ma non sapeva leggere nell'avvenire;
non pensava alla miseria de' suoi sudditi, che mai non vedeva, e
non poneva limiti alle sue prodigalità, affinchè tutti coloro che lo
avvicinavano si ritirassero con volto soddisfatto. Le finanze
furono dilapidate, l'amministrazione cadde tra le mani de'
serventi, e di gente affatto spregievole. Finalmente egli morì di
sessantasei anni, il 9 di luglio del 1737, lasciando a' suoi
successori il troppo difficile incarico di rimediare ai mali della
Toscana355.
Francesco, duca di Lorena, sposo di Maria Teresa, cui era stata
data la Toscana, venne, in gennajo del 1738, a visitare i suoi
nuovi stati; ma vi si trattenne poco tempo. Il principe di Craon,
Marco di Beauvau, suo mentore, era stato destinato a ricevere il
giuramento dai nuovi sudditi di Francesco, e governò la Toscana
coll'autorità di un vicerè. Fu ajutato nella sua amministrazione dal
conte di Richecourt, il più illustre ministro del nuovo gran duca,
che nel 1745 ottenne il titolo d'imperatore. Occuparonsi l'uno e
l'altro della riforma delle leggi della Toscana, del miglioramento
delle finanze, e della più regolare ed imparziale amministrazione
della giustizia.
354
355
Galluzzi Stor. del gran ducato, l. IX, c. IV, p. 22, t. VIII.
Galluzzi Stor. di Tosc., l. IX, c. X, p. 210.
La vedova dell'elettore palatino, sorella di Giovan Gastone,
ch'era tornata alla corte di suo padre nel 1717, e che aveva sopra
di lui esercitata grandissima influenza, sopravvisse anche al
fratello che non l'amava, e che non era da lei amato. Questa
principessa, il 31 ottobre del 1737, si lasciò persuadere a
rinunciare alla casa di Lorena tutta l'eredità mobile ed immobile
della casa de' Medici, contro una pensione vitalizia di quaranta
mila scudi fiorentini. Il gran duca Francesco le accordò il titolo di
reggente, le diede delle guardie al palazzo e tutte le apparenze
d'una corte. Ella morì finalmente in Firenze il 18 di febbrajo del
1743 in età di settantasei anni, ma in lei non si spense affatto la
casa de' Medici; se ne conservò tuttavia un ramo, discendente da
uno degli antenati di Cosimo, il padre della patria; ma perchè non
era stato contemplato dal decreto di Carlo V, non si trattò
giammai di chiamarlo alla successione della corona ducale356.
L'imperatore Francesco I, che in Toscana portava il nome di
Francesco II, morì a Vienna il 18 di agosto del 1765. Mentre che
il suo primo figliuolo, Giuseppe II, gli succedeva negli stati
dell'Austria, il secondo, Pietro Leopoldo, allora in età di diciotto
anni, fu dichiarato gran duca di Toscana, e venne a prendere
possesso del suo principato l'undici di settembre del 1765.
Veruno stato d'Italia non ebbe mai più grandi obblighi al suo
sovrano, quanto la Toscana a Pietro Leopoldo. Questi,
continuamente occupato a riformare tutti gli abusi introdottisi nel
lungo spazio di oltre dugent'anni di una difettosa
amministrazione, semplificò le leggi civili, addolcì le criminali,
diede la libertà al commercio, disseccò intere provincie,
dividendone la proprietà fra industri coltivatori, che caricò di una
leggiere contribuzione: ed in tal modo raddoppiò i prodotti
dell'agricoltura, e rendette ai suoi sudditi quell'attività e
quell'industria che avevano da tanto tempo perdute. Tentò altresì
di correggere la corruzione de' costumi, e di comprimere gli
eccessi della superstizione; ma non devesi dissimulare che
356
Galluzzi Stor. del gran ducato, l. IX, c. X ed ultimo, p. 250.
talvolta stancheggiò i suoi sudditi con una troppo inquisitoriale
vigilanza, e che scontrò una violenta357 opposizione alle sue
riforme ecclesiastiche per parte del concilio provinciale che
adunò il 23 aprile del 1787. I pregiudizj del clero ed i vizj del
popolo si collegarono contro un principe forse troppo attivo nel
suo desiderio di fare il bene; e quando la morte di Giuseppe II
chiamò Leopoldo a cedere il gran ducato al secondo de' suoi
figliuoli, per prendere la corona imperiale, il popolo toscano non
mostrossi abbastanza riconoscente verso un principe così grande.
I due regni di Napoli e di Sicilia, ai quali la guerra
dell'elezione di Polonia aveva nel 1738 restituito un monarca
indipendente, ebbero motivo di lodarsi delle opinioni e
dell'energia che loro recava una straniera nazione. I popoli
lungamente corrotti dal dispotismo cadono finalmente in un
letargico sonno, dal quale più non si possono risvegliare colle
sole loro forze, se non si arrecano loro nuove idee da straniere
contrade, se non si pongono loro avanti agli occhi nuovi esempi,
e se una mescolanza di diversi elementi non risveglia nel loro
seno un vivificante fermento. Tre figliuoli di Filippo V,
Ferdinando VI in Ispagna, Carlo VII a Napoli e Filippo a Parma,
risvegliarono, introducendovi una corte francese, libri,
instituzioni e pensare francesi, l'attività da gran tempo sopita dei
popoli meridionali ch'essi governavano in Ispagna ed in Italia.
Parve che i figli di Filippo V nulla ritenessero della timida
superstizione del padre, nè degli artificiosi intrighi della madre.
Mostrarono nella loro amministrazione il desiderio del bene,
indipendenza di spirito, ed anche idee liberali.
Don Carlo, che si fece chiamare Carlo VII di Napoli, Carlo V
di Sicilia, e che all'ultimo fu Carlo III di Spagna, giovò molto ai
due primi regni negli undici anni che li governò dopo la pace
d'Aquisgrana. Pure il suo lavoro era appena cominciato, e sarebbe
stato d'uopo che fosse stato lungo tempo continuato dietro i
medesimi principj, per produrre una durevole riforma in un paese
357
Nell'originale "violente". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
in cui doveva mutarsi ogni cosa. Carlo poteva appena lusingarsi
che il suo successore fosse a portata di tener dietro alle sue viste:
sommamente desolante era lo stato in cui egli vedeva la sua
famiglia, la quale pareva tocca nelle facoltà intellettuali da un
vizio ereditario. Filippo V, suo padre, aveva passata gran parte
della sua vita in una sospettosa malinconia, che gli rendeva
odiosa la compagnia degli uomini, e che in un privato avrebbe
avuto il nome di follia358. Ferdinando, suo fratello, signoreggiato
da sua moglie, principessa portoghese, dopo la di lei morte,
accaduta il 27 agosto del 1758, erasi ridotto in uno stato ancora
più deplorabile, alternando furiosi accessi di frenesia con alcuni
istanti di cupa disperazione, cui davasi il nome di lucidi intervalli.
Questo delirio durò quasi un anno, dopo il quale Ferdinando morì
il 10 agosto del 1759; e perchè non lasciava figliuoli, Carlo passò
dal trono di Napoli a quello di Spagna. Il suo maggiore figliuolo,
Filippo Antonio, allora di dodici anni, era a tale stato d'imbecillità
ridotto, che fu necessario privarlo della corona; ed in vece di lui
Carlo fece riconoscere per principe delle Asturie il secondo, in età
di undici anni, che fu poi Carlo IV di Spagna; e dichiarò il terzo,
che aveva 9 anni, re delle due Sicilie, ed è Ferdinando IV,
attualmente regnante. Durante la sua minorità, ed anche molto
tempo dopo il suo termine legale, Carlo III mantenne una
decisiva influenza sui consiglj delle due Sicilie359.
In verun secolo ebbe la Chiesa romana sulla cattedra di san
Pietro uomini più distinti per moralità, per rettitudine di spirito,
talvolta per talenti amministrativi ed anche per liberali opinioni.
Con tutto ciò questi papi, degni di tanto rispetto e di tanta stima,
non hanno potuto fare argine allo spaventoso e sempre più rapido
decadimento dello stato della Chiesa, nè porgere rimedio ai vizj
di un governo fondato sul principio di affidare tutti i rami
358
Saint Simon, Mém. secrets de la Régence, liv. IV, ch. I, t. VII, Oeuvres, p.
178.
359
Hist. de la Diplom. Franç., 7 période, l. II, t. VI, p. 270.
dell'amministrazione a coloro che ben conoscono la teologia e
poco gli affari.
Clemente XI (Gian Francesco Albani), che regnò dal 24
novembre 1700, fino al 9 di marzo del 1721, fu, quasi suo
malgrado, l'autore delle persecuzioni dirette in Francia contro i
Giansenisti. La famosa costituzione Unigenitus, a lui estorta
dall'intrigo, compromise la sua autorità, e fu il grand'affare
politico del suo regno. La guerra della successione di Spagna
trattavasi ai confini de' suoi stati; e mentre che dalla sua
debolezza egli veniva forzato a riconoscere quello dei due emuli
di cui aveva più ragione di temere, ambidue gli rimproveravano
ciò che accordava all'altro, ed il castigo cadeva sopra i suoi
sudditi360.
Il cardinale Michel Angelo Conti, che fu creato papa il 28 di
maggio del 1721, sotto il nome d'Innocenzo XIII, non ebbe un
regno abbastanza lungo per lasciare una circostanziata memoria
della sua amministrazione, non essendo quasi altro di lui noto che
l'obbligo impostogli di nominare cardinale l'abate Dubois, e la
riabilitazione del cardinale Alberoni, contro al quale il suo
predecessore aveva fatta cominciare una legale processura361.
Innocenzo XIII morì il 7 di marzo del 1724; ed il cardinale
Vincenzo Maria Orsini, che gli fu dato per successore, il 29 di
maggio del 1724, prese il nome di Benedetto XIII. Di già
sommamente indebolito dalla sua troppo avanzata età, egli non
fece nulla di conforme alle sue pie e pacifiche intenzioni; la
privata sua condotta fu costantemente piena di dolcezza, di
umiltà, di carità; volle sinceramente mettere un termine alle
persecuzioni del giansenismo, ma le sue bolle produssero un
affatto contrario effetto. La sua amministrazione fu in Roma
macchiata dalle concussioni e dalla avarizia del cardinale Coscia
di Benevento, cui aveva accordata una cieca confidenza; e ne
risultò una mancanza di circa cento venti mila scudi romani nelle
360
361
Muratori ad an. 1713. - Bolla Unigenitus, an. 1721.
Muratori ad an. 1721.
entrate della camera apostolica, la quale fu forza coprire con
nuovi prestiti, accrescendo in tal modo la massa di già enorme de'
precedenti debiti. Benedetto XIII morì il 21 febbrajo del 1730, e
nello stesso istante scoppiò in Roma una sollevazione. Il popolo
voleva colle proprie mani vendicarsi del cardinale Coscia e di
tutti i ministri subalterni da lui chiamati da Benevento, accusati
d'avere venduta la giustizia, gl'impieghi e le grazie ecclesiastiche.
Le grida del pubblico costrinsero il successore di Benedetto XIII
a fare il processo del cardinale Coscia ed a chiuderlo in castel
sant'Angelo362.
Successore di Benedetto XIII fu Lorenzo Corsini, fiorentino;
che fu eletto il 12 luglio del 1730, e che prese il nome di
Clemente XII. Aveva, quando fu eletto, settantott'anni, e visse
altri dieci anni; perciocchè tale è la malvagia sorte degli stati
romani, che il supremo potere si trovi sempre affidato ad un
uomo che deve imparare l'arte difficilissima del sovrano, in
quell'età in cui converrebbe piuttosto ritirarsi da tutti gli affari.
Clemente XII trovavasi in difficilissime circostanze: verun
monarca, nemmeno dei paesi che parevano tuttavia oppressi dal
giogo della superstizione, più non conservava verso la santa sede
quello spirito di sommissione, di cui si erano fatti un dovere i loro
predecessori. La corte di Portogallo era entrata colla corte di
Roma in tali contese di etichetta, che prendevano un serio
carattere; quella di Torino aveva aggiunti al dominio della corona
molti feudi ecclesiastici; quella di Francia faceva bloccare la
contea di Avignone per contestazioni di contrabbando; e le corti
di Vienna e di Madrid disponevano dei ducati di Parma e di
Piacenza, come se fossero stati feudi dell'impero, mentre che da
circa dugent'anni erano riconosciuti per feudi della Chiesa.
Sebbene Clemente XII di leggieri si potesse avvedere del
cambiamento dello spirito del secolo, non sapeva risolversi a
362
Muratori ad an. 1722, 1729, 1730.
rinunciare ad alcuni dei diritti esercitati dai suoi predecessori, e
tutto il suo regno si passò in penose dispute363.
Dopo i preliminari di pace, sottoscritti in sul finire del 1735,
tra la Francia e l'Austria, senza che avesse voluto soscriverli
anche la Spagna, il conte di Kevenhuller strinse l'armata
spagnuola del duca di Montemar, che andava ritirandosi verso il
regno di Napoli. Il generale austriaco entrò nelle tre legazioni con
trenta mila austriaci, lasciando che vivessero a discrezione presso
gli sventurati abitanti del Bolognese, del Ferrarese e della
Romagna; mentre che gli Spagnuoli ed i Napolitani non
risparmiavano Velletri e la stessa Roma; di modo che lo stato
della Chiesa, senz'avere violata la neutralità, sperimentò sotto
Clemente XII quasi tutti i disastri della guerra364.
Nell'ultimo anno del papato di Clemente XII il cardinale
Alberoni, nominato suo legato in Romagna, tentò di unire alla
santa sede la piccola repubblica di san Marino, troppo debole e
troppo povera per tentare prima di tale epoca l'ambizione di
chicchefosse. Il governo di quella terra aveva degenerato in
oligarchia, e l'Alberoni aveva preteso che i malcontenti, che
formavano il grosso della popolazione, desiderassero di
assoggettarsi al dominio della santa sede; bastarono al cardinale
dugento soldati, ajutati dai birri della Romagna, per impadronirsi
verso la metà di ottobre del 1739 di tutto lo stato di san Marino.
Ma furono portate al papa le rimostranze degli abitanti; e il papa
ebbe l'integrità di riconoscere, che aveva con soverchio precipizio
dato l'assenso al suo legato: ordinò che gli abitanti di san Marino
fossero invitati ad emettere liberamente il loro voto, e quando li
vide unanimamente domandare la loro indipendenza, li fece
riporre in libertà. Questo pontefice sopravvisse pochi giorni a così
onorevole azione; da lungo tempo era forzato a starsi in letto, ed
aveva perduta la vista quando morì il 6 febbrajo del 1740365.
363
364
Muratori ad an. 1733.
Muratori ad an. 1735.
Clemente XII ebbe per successore Benedetto XIV, già
Prospero Lambertini, il più virtuoso, il più dotto, il più amabile
dei Romani pontefici. Era nato il 13 marzo del 1675, e fu eletto il
17 agosto del 1740. Benedetto XIV seppe il primo rinunciare
dignitosamente alle pretese della corte romana, uniformandosi
allo spirito del secolo, senza scuotere violentemente la propria
Chiesa; assopì le controversie giansenistiche; ottenne il rispetto e
la considerazione de' principi e dei popoli protestanti, e dei
filosofi di tutte le nazioni e di tutte le sette 366; ma i sovrani
cattolici violarono crudelmente la neutralità da lui professata, e
distrussero la tranquillità de' suoi stati: egli aveva ultimate nel
primo anno del suo regno tutte le controversie eccitate da' suoi
predecessori colle corti di Spagna, di Portogallo, delle due Sicilie
e di Sardegna; quando nello stesso anno la guerra per la
successione dell'Austria accrebbe le difficoltà ed i pericoli dello
stato della Chiesa. Il duca di Montemar, generale spagnuolo, fu il
primo a violare la neutralità del papa, entrando in febbrajo del
1742 nel territorio di san Pietro coll'armata sbarcata ad Orbitello,
e che andava ad unirsi in Romagna a quella del duca di CastroPignano, generale dei Napolitani. La loro presenza attirò negli
stati della Chiesa l'esercito austriaco e piemontese, che si
avanzava per venire a battaglia; dopo tale epoca, e finchè durò
questa guerra, lo stato della Chiesa fu continuamente attraversato,
e spesso guastato dalle due armate. La battaglia di Velletri,
dell'undici agosto del 1744, tra il principe di Lobkowitz, il re di
Napoli ed il duca di Modena, fu assai più fatale a quest'infelice
città che all'una od all'altra armata, che pure vi sparsero molto
sangue367. Dopo la pace di Aquisgrana, Benedetto XIV ottenne
365
Muratori ad an, 1739. - Melchior Delfico Stor. di San-Marino, c. VIII, p.
222.
366
Lacretelle, Hist. de France au dix-huitième siècle, t. III, l. X, p. 205.
367
Muratori ad an. 1744. - Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch. CV, p.
119. Intorno a questa guerra merita di essere letta la Storia di Castruccio
Buonamici: De rebus prope Velitram gestis, forse dall'autore non veduta. N. d.
T.
qualche indennizzazione pei mali sofferti da' suoi sudditi; ma
troppo mancava perchè fosse bastante compenso ai sofferti danni.
La saviezza e l'economia del papa riuscirono loro assai più
vantaggiose, perciocchè colmarono il vuoto delle finanze,
minorarono il debito, e cominciarono a ristabilire il commercio e
l'agricoltura. La morte che lo rapì il 3 maggio del 1758, non gli
permise di fare tutto il bene che desiderava.
Carlo Rezzonico, veneziano, successe il 6 di luglio del 1758 a
Benedetto XIV, e prese il nome di Clemente XIII. Mostrò dal
canto suo molto zelo per la riforma de' costumi, per la difesa della
fede e per la correzione del clero; ma non aveva di lunga mano nè
l'ingegno, nè l'accorgimento, nè la moderazione, nè la fermezza
del suo predecessore. Fu strascinato in passi contraddittorj e
talora imprudenti, per provvedere alla carestia che tribolò i suoi
stati dal 1764 al 1766; volle sostenere le vecchie pretese della
santa sede sul ducato di Parma, e per tale motivo si disgustò nel
1768 colla casa di Borbone; sicchè la Francia occupò Avignone,
Napoli e Benevento, e la Spagna minacciò di trattenere le entrate
della Chiesa. La soppressione dell'ordine dei Gesuiti, caldamente
chiesta dalle medesime corti, gettò il Rezzonico in più gravi
imbarazzi: colse l'istante in cui la loro società era stata proscritta
in Portogallo ed in Francia, per raffermare tutti i loro privilegj
colla bolla Apostolicam e per fare il più magnifico panegirico de'
loro servigj e de' loro talenti. La malintelligenza tra il papa e
quelle corti andava vestendo il più inquietante carattere, allorchè
Clemente XIII morì quasi improvvisamente nella notte del 3 di
febbrajo del 1769.
Fu dato per successore al Rezzonico un degno emulo del
Lambertini nella persona di Lorenzo Ganganelli, che prese il
nome di Clemente XIV. Egli seppe calmare con una costante
saggezza, con un profondo segreto, con un'estrema moderazione
tutte le contese eccitate dal suo predecessore: ricuperò Avignone
e Benevento; soppresse nel giovedì santo la lettura della bolla in
Cœna Domini, che aveva risvegliate le lagnanze della Spagna;
fece lentamente ed imparzialmente esaminare le accuse portate
contro i Gesuiti; ed il 21 di luglio del 1773 pubblicò finalmente il
breve che aboliva il loro ordine. Lasciò un nobile monumento del
suo amore per le arti nella fondazione del museo del
Campidoglio, che fu chiamato Pio-Clementino, perchè si
aggiunse al suo nome quello del suo successore. Morì il 22 di
settembre del 1774 in conseguenza di una assai lunga malattia,
che l'odio, che in allora si portava ai Gesuiti, fece attribuire a
lento veleno da loro apparecchiato.
Pio VI, che gli successe il quindici di febbrajo del 1775, a sè
non richiamò l'attenzione dell'Europa, prima dei tempi della
rivoluzione, che pel suo viaggio fatto in Germania nel 1782, ad
oggetto d'impedire le troppo precipitose riforme di Giuseppe II368.
L'esterna influenza dei papi aveva infinitamente declinato, onde
Pio VI volse le sue cure all'interna amministrazione de' suoi stati.
Verun paese era tanto a dietro nelle cognizioni di economia
politica. Le campagne di Roma, in altre età così ricche e così
popolate, erano trasmutate in un vasto deserto. I pastori della
Maremma ed i contadini della Sabina e dell'Abbruzzo, più
accostumati ai ladronecci che all'agricoltura, erravano sempre
armati, conducendo le loro mandre a cavallo, e colla lancia alla
mano, quali selvagge popolazioni in seno dell'Italia. Pio VI si
adoperò con molto zelo a ristaurare l'agricoltura, ma senza
conoscere i veri principj dell'amministrazione; onde con molto
dispendio e molto lavoro, altro quasi non fece che accrescere il
male. Egli fece eseguire magnifiche opere a traverso alle paludi
pontine per diseccarle; ma in appresso accordò a suo nipote, il
duca Braschi, il terreno ricuperato, di cui formò una sola
proprietà indivisibile, sebbene fosse tanto vasto da potersi
piuttosto risguardare come una provincia che come un podere.
Così grave fallo fece mancare in quella terra i capitali, la
popolazione e l'industria; e le paludi pontine, a malgrado de'
tesori versati da Pio VI, si rimasero come prima insalubri e
368
Will. Coxe, Hist. de la Maison d'Autriche, t. V, ch. CXXIV, p. 447.
deserte. Lo stesso duca Braschi ottenne pure varj monopolj sul
commercio de' grani, che ruinarono sempre più l'agricoltura, ed
accrebbero la miseria dei poveri. Ogni nuovo pontificato giova a
fare maggiormente conoscere l'imprudenza di accordare negli
ultimi suoi giorni la sovranità ad un uomo, che ha sempre fatto
professione di rinunciare al mondo.
Le repubbliche d'Italia continuarono in questo secolo a tenersi
in una profonda oscurità ed immobilità, quasi avessero temuto,
che, richiamando sopra di loro gli sguardi delle altre potenze, il
solo nome di libertà, loro caro per antiche memorie piuttosto che
per presenti godimenti, non le rendesse sospette ai re, e che
mentre si andavano sempre facendo nuove divisioni di stati, non
si prendesse a risguardarle come beni vacanti di cui, per non
avere esse padroni, si poteva liberamente disporre. Venezia ricusò
d'immischiarsi nella guerra della successione di Spagna: armò le
sue città e le sue fortezze, ed accrebbe le truppe di linea per farsi
rispettare dai suoi vicini: non perciò ottenne di sottrarsi a tutte le
vessazioni delle potenze belligeranti; ma nè violazioni del
territorio, nè veruna ingiustizia, la spinse ad uscire dall'adottata
neutralità.
Nell'attenersi a questo sistema la repubblica di Venezia
mostrava se non altro vigore ed antiveggenza, mentre non
vedevasi che corruzione, negligenza e peculato ne' suoi
possedimenti d'oltremare. I sudditi greci della repubblica erano in
modo travagliati dalle ingiustizie de' governatori veneziani e dai
monopolj dei mercanti, che preferivano il giogo dei Turchi. Il
danaro erogato dal tesoro pubblico pel mantenimento delle
fortezze, delle guarnigioni, e per gli approviggionamenti delle
munizioni, era dai comandanti delle piazze e da quelli delle
truppe estorto a privato loro profitto, sicchè il regno della Morea,
che la repubblica possedeva nel cuore dell'impero ottomano,
veniva lasciato senza verun mezzo di difesa. Achmet III ebbe
avviso di questa inconcepibile negligenza, ignorata dal senato
veneto; apparecchiò un formidabile armamento di terra e di mare,
e rompendo, senz'esserne provocato, la tregua di Carlowitz, passò
l'istmo di Corinto il 20 giugno del 1714, ed in un mese occupò
tutta la Morea369. Le varie fortezze che nella precedente guerra
erano state conquistate con dispendio di tanto tempo, di tanti
tesori, di tanto sangue, fecero pochissima o niuna resistenza. Nel
susseguente anno i Turchi attaccarono altresì Corfù; ed in
Venezia omai disperavasi di potere contro di loro difendere
quell'isola e quella città, quando essi medesimi si ritirarono
spontaneamente dietro la notizia avuta della sconfitta della loro
armata presso Petervaradino. Vero è che la flotta veneziana
sostenne l'antica sua riputazione nelle battaglie che diede ai
Turchi con indeciso vantaggio in maggio ed in luglio del 1717.
La tregua per ventiquattro anni, conchiusa in Passarowitz il 27
giugno del 1718 colla mediazione dell'Inghilterra e dell'Olanda 370,
consumò il sagrificio della Morea, e fissò definitivamente i
confini dei Veneziani coi Turchi. Dopo quest'epoca la repubblica
trovò la maniera di sottrarsi interamente alla storia, e di non
lasciare veruna memoria della propria esistenza371.
La repubblica di Lucca ebbe ancora più piccola parte negli
avvenimenti del secolo. Nella prima metà del mentovato secolo
fu più volte ruinata dal passaggio delle truppe, e senz'essere in
guerra ne sostenne i mali. Quando tutte le parti deposero le armi
nel 1748, essa ricuperò l'integrità de' suoi confini; ma mentre
andava crescendo la popolazione delle sue campagne e forse oltre
misura, e che la divisione delle proprietà in troppo piccoli poderi,
dopo avere portata l'industria rurale alla più alta perfezione,
riduceva i contadini a valutare pochissimo il loro lavoro ed a
vivere in una troppo costante ristrettezza, la città perdeva le sue
manifatture, il suo commercio, la sua industria. I cittadini, troppo
ravvicinati al piccolo corpo della nobiltà, trovavansi altresì troppo
369
Laugier, Hist. de Venise, t. XII, l. XLVII, p. 283.
Laugier, Hist. de Venise, t. XII, l. XLVII, p. 330.
371
La storia di Laugier termina col 1750. l. XLVIII, t. 12, ediz. del 1768. - La
storia civile di Vittore Sandi comprende in tre volumi in 4.° gli avvenimenti
del 1700 al 1767, ma si dura fatica a leggerla.
370
umiliati dalla loro esclusione da tutti gli impieghi, e più non
conservando verun affetto per la loro patria, avevano perduto con
questo sentimento quell'attività e quell'energia di cui avrebbero
avuto bisogno per battere una privata carriera e sollevarsi alla
fortuna.
La repubblica di Genova, caduta parimenti sotto il giogo
d'un'oligarchia, rendutasi odiosa al rimanente del popolo, non
pareva fatta per figurare davvantaggio in questo secolo. Nel 1713
i Genovesi acquistarono dall'imperatore pel prezzo di un milione
e dugento mila scudi il marchesato di Finale, feudo in addietro
posseduto dalla casa di Carretto372. Ma essi trattavano con tanta
ingiustizia e durezza i loro sudditi, che questi nuovi vassalli
passarono con estrema ripugnanza sotto il loro dominio. Con
altrettanta ingiustizia che fallace politica avevano essi lungo
tempo oppressa la Corsica; onde quest'isola, più estesa e più
fertile che tutto il rimanente del loro territorio, erasi conservata
quasi barbara tra le loro mani, mentre che sotto una buona
amministrazione avrebbe potuto infinitamente accrescere le
ricchezze e la potenza del loro stato. Le vessazioni de' Genovesi
fecero, nel 1730, scoppiare in Corsica una ribellione, che la
repubblica volle invano comprimere colle armi, coi supplicj e
talvolta ancora con atti di perfidia. Fu questo un tarlo che
consumò le sue finanze e le sue forze per più della metà del
secolo. Fino dal 1737 i Genovesi avevano invocato l'ajuto della
Francia per soggiogare i Corsi ribelli. Impegnaronsi per tal modo
in una lunga serie di trattati di sussidj con quella corona, con che
accrebbero sempre più i loro debiti, senza fare verun
avanzamento verso la conquista di quest'isola, i di cui abitanti
mostravano tutti le stesso orrore pel loro giogo. Finalmente il 15
di maggio del 1768 risolsero di sottoscrivere col signore di
Choiseul un ultimo trattato, col quale cedevano al re di Francia
372
Nell'originale "Carreto". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
l'isola di Corsica in pagamento di tutte le somme che questi loro
aveva sovvenute per sottometterla373.
Ma in mezzo alla sua debolezza ed al suo decadimento, si vide
la repubblica di Genova inaspettatamente risplendere, quando nel
1746 cacciò dal suo seno gli Austriaci di già padroni delle sue
porte, e ricuperò la sua libertà con un atto di disperato eroismo.
Nella guerra contro Maria Teresa per la successione dell'Austria, i
Genovesi avevano unite le loro forze a quelle dei Borboni per
impedire al re Sardo di occupare il marchesato di Finale, sul
quale esso re pretendeva avere delle ragioni. Essi avevano divisi i
vantaggi della campagna del 1745; ma i rovesci di quella del
1746 li lasciarono esposti soli alla vendetta de' loro nemici. Dopo
la rotta avuta dagli alleati sotto Piacenza il 16 di giugno, l'infante
don Filippo, il duca di Modena, il marchese de Las Minas,
generale spagnuolo ed il generale francese, maresciallo di
Maillebois, si ritirarono tutti dalle pianure della Lombardia sopra
Genova, e di là per la riviera di Ponente continuarono a ritirarsi in
Provenza. Gli Austriaci, inseguendoli, arrivarono per la valle
della Polsevera sotto Genova, e si accamparono a san Pier
d'Arena, mentre che una flotta inglese, che si fece vedere nello
stesso tempo nel golfo, minacciava la città dalla banda del mare.
Le mura di Genova erano provvedute di formidabile artiglieria e
difese da una buona guarnigione; ma il senato, che conosceva il
giusto malcontento del popolo, non ardiva invitarlo a prendere le
armi; ed essendosi perduto di coraggio al primo pericolo, il
giorno 4 di settembre offrì di trattare, ed il 6 fece una
convenzione col marchese Botta Adorno, generale austriaco, in
forza della quale gli furono date in mano le porte della Lanterna e
di san Tomaso374.
Hist. de la Diplom. Franç. 7.e période, l. V, t. VII, p. 21. - Lacretelle, Hist.
du XIII.e siècle, t. IV, l. XII, p. 167.
374
Muratori ad an. 1746. - Coxe, Hist. ch. CVII, p. 155. - Lacretelle, Hist. du
XVIII.e siècle, l. VIII, t. II, p. 359.
373
Tosto che gli Austriaci si videro padroni della città, fecero
conoscere le nuove condizioni ch'essi arbitrariamente
aggiugnevano alla pace. Tutte le truppe della repubblica
dovevano essere prigioniere di guerra, tutte le armi e munizioni
venire consegnate agli Austriaci, e tutti i disertori essere restituiti;
per ultimo doveva essere pagata una contribuzione di 9 milioni di
fiorini dell'impero in tre termini, l'ultimo de' quali non
oltrepassava i 15 giorni. Il tesoro della banca di san Giorgio,
l'argenteria delle Chiese, quella de' particolari, ogni cosa si
requisì dal senato per soddisfare a così esorbitanti domande; ma
l'assoluta impossibilità di trovare tutto il richiesto danaro,
malgrado le continue minacce di esecuzione militare, di
saccheggio e d'incendio, persuase finalmente il generale austriaco
ad accordare qualche respiro. Non pertanto il senato non ardiva
pur di pensare a far resistenza; ma dalla più infima classe del
popolo partì la scintilla elettrica che riaccese la fiaccola della
libertà375.
Il giorno 5 dicembre del 1746 gli Austriaci conducevano per le
strade di Genova uno de' molti mortaj ch'essi avevano tratti
dall'arsenale della repubblica, per servirsene nella spedizione che
meditavano di fare in Provenza. La volta di un sotterraneo, che
stava sotto la strada, ruppe sotto il peso; il mortajo rimase
imbarazzato tra le ruine, e gli Austriaci col bastone in mano
vollero forzare il popolo di Genova a trarnelo con corde. La
pazienza di questo coraggioso popolo era stata spinta all'estremo:
un giovane prese un sasso e lo scagliò contro i soldati; fu questo
il segno d'una generale esplosione. Da ogni banda la plebe assalì
a sassate gli Austriaci, che furono bentosto presi da panico
terrore. Tutti i loro distaccamenti si trovavano isolati in auguste e
tortuose strade, che formavano come un laberinto da cui non
sapevano uscire. Smarrendosi ad ogni passo, più non sapevano nè
dare, nè ricevere ajuto. Intanto i sassi grandinavano sopra di loro
375
Muratori ad an. 1746. - Vett. Sandi Stor. Ven., t. II, l. IV, p. 153. Lacretelle, Hist. de France pendant le XVIII. e siècle, t. II, l. VIII, p. 364.
dai tetti e dalle finestre, e gli schiacciavano nelle strade, senza
ch'essi sapessero contro chi vendicarsi; perciocchè le massiccie
mura de' palazzi, ne' quali non entra pressochè niuna materia
combustibile, presentavano loro altrettante fortezze, che
avrebbero richiesti regolari assedj. I generali, partecipi del terrore
de' soldati, lasciaronsi respingere fino fuori della città, ed
offrirono poi di venire a patti376.
Il doge, il senato e tutto l'ordine della nobiltà, non avevano per
anco presa veruna parte nell'insurrezione; per lo contrario
cercavano di acquietare una sollevazione, di cui temevano di
essere essi soli le vittime. Ma tosto che gli Austriaci furono fuori
di città, gl'insorgenti s'impadronirono degli arsenali, e vi
trovarono armi e munizioni; onde guarnirono le mura di
artiglierie in modo da signoreggiare il campo austriaco, e si
presentarono in così terribile aspetto, che il marchese Botta, che
aveva perduti in città i suoi magazzini, il 10 di dicembre si avviò
per la Bocchetta alla volta della Lombardia. Non fu che dopo
passato questo primo pericolo che il senato e la nobiltà si unirono
ai valorosi insorgenti; allora si affrettarono di chiedere ajuti alla
Francia ed alla Spagna; ed infatti il duca di Boufflers loro
condusse circa quattro mila uomini il 30 aprile del 1747, e
ragguardevoli somme furono pure loro spedite dalla Francia. Il
duca di Richelieu successe in appresso al duca di Boufflers; e le
due leghe, fralle quali era divisa l'Europa, cominciarono a battersi
ad armi eguali nella riviera di Genova fino al susseguente anno,
nel quale la repubblica venne compresa nel trattato di pace di
Aquisgrana, e ricuperò i suoi antichi confini in tutta la loro
integrità377.
La sollevazione di Genova è il solo avvenimento del
diciottesimo378 secolo che appartenga realmente alla nazione
376
Muratori ad an. 1746. - Coxe, Hist., ch. CVII, p. 156. - Oeuvres post. du roi
de Prusse, Hist. de la guerre de sept ans, ch. II, t. III, p. 34.
377
Muratori ad an. 1747, p. 413. - Lacretelle, l. VIII, p. 366.
378
Nell'originale "tredicesimo". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
italiana. È il solo che ci mostri il popolo penetrato del suo antico
onore, sensibile ai ricevuti oltraggi, e determinato alla difesa de'
suoi diritti; il solo in cui un'azione pericolosa sia la conseguenza
di un generoso sentimento e non del calcolo. La salvezza di
Genova non si dovette nè alla costanza de' suoi nobili, nè alla
saviezza del suo governo, nè alla fedeltà degli alleati, ma
all'intrepido coraggio ed al patriottismo disinteressato di una
classe d'uomini pei quali nulla ha fatto la società, e ch'è tanto più
sensibile alla gloria nazionale in quanto che non può aspirare a
veruna gloria personale.
Ma gli altri avvenimenti che abbiamo toccati in questo secolo
non possono meritare il nome di storia italiana. L'intera nazione
era esclusa da tutte le risoluzioni politiche e da tutte le azioni.
Divisa fra stranieri sovrani che possedevano province nel di lei
seno, e tra sovrani, figli di stranieri, che si erano stabiliti nei suoi
paesi; indifferente alle contese dei Borboni di Parma, dei Borboni
di Napoli e di Sicilia e dei Borboni padroni della Corsica; degli
Austriaci di Milano e di Mantova, e dei Lorenesi di Toscana, ella
non trovavasi presente alle loro battaglie che per soffrire;
ubbidiva ai padroni senza riconoscerli per suoi capi naturali; non
era legata all'autorità monarchica da veruna illusione, nè da
ereditario affetto, nè da entusiasmo. Si assoggettava, perchè era
più prudente cosa il cedere che non il resistere, e perchè in un
ordine politico che abbia spenti tutti gli affetti, la sola prudenza
conserva il diritto di farsi ascoltare; poco pensava ai suoi generali
interessi, perchè non vi ravvisava che cose tristi ed umilianti;
prendeva piccolissima parte agli avvenimenti di cui era il teatro;
ed in tutta la storia italiana del secolo trovasi a stento un nome
italiano. In quel modo che le risoluzioni prendevansi ne' gabinetti
degli stranieri, erano ancora dagli stranieri eseguite sul campo di
battaglia. Gli storici che le riferiscono, in mezzo ai riguardi che
loro inspirava il timore dei potenti, non lasciano travedere che il
sentimento di una vaga curiosità. E veramente non si può sentire
nè entusiasmo, nè parzialità, quando non si ha patria; e l'Italiano,
nel mentre che le sue campagne andavano ad essere allagate di
sangue, non sapeva cui dovesse desiderare la vittoria, se non
cercava che il bene del suo paese.
La potenza dell'uomo risiede nelle forze morali, e non nelle
fisiche. Dallo spirito e non dal corpo vengono i mezzi di
resistenza e di conquista; perciocchè trovansi nello spirito la
volontà, il coraggio, l'ubbidienza, la pazienza, la rassegnazione al
sagrificio. Lo stesso despotismo non può far a meno di certe forze
morali; ma egli le teme e non le impiega che con economia;
mentre per lo contrario la libertà le adopera tutte. Per mantenere il
primo, conviene che l'uomo sia meno uomo che si possa: per
consolidare la seconda, conviene trovare nell'uomo tutto quanto
può dare l'umana natura. Il despota crederà lungo tempo di avere
accresciute le forze della nazione concentrandole tutte in sè,
perchè avendo così soppresse tutte le resistenze può impiegare
tutto il rimanente vigore nell'esecuzione delle sole sue volontà;
ma quando verrà chiamato a misurarsi con un popolo, le di cui
forze morali tutte siansi sviluppate, conoscerà bentosto la propria
impotenza. L'Italia, in sul declinare del diciottesimo secolo, aveva
ancora soldati, ricchezze, una numerosa popolazione, una fiorente
agricoltura, commercio e manifatture che presentavano tuttavia
grandi mezzi, uomini versati nelle scienze, altri naturalmente atti
ad acquistarle in breve tempo; ma le mancavano il sentimento e la
vita, e quando scoppiò la rivoluzione francese, non fuvvi alcuno
in Europa che non vedesse che l'Italia non aveva nè la volontà, nè
la forza di difendere la sua indipendenza, e che una nazione che
più non aveva patria, non poteva resistere nè per garantire sè
stessa, nè per la sicurezza de' suoi vicini.
CAPITOLO CXXVI.
Intorno alla libertà degl'Italiani nei tempi delle loro repubbliche.
Basta paragonare l'Italia quale era nel quindicesimo secolo,
all'Italia quale diventò del diciottesimo, per accertarsi che
gl'Italiani avevano in quello spazio di tempo perduto il più
prezioso dei beni sociali. Non era altrimenti una teoria vana e
fatta soltanto per lusingare l'immaginazione quella libertà per la
quale essi combatterono con tanta costanza, che non si videro
tolta senza immenso rincrescimento e cordoglio, e che tentarono
più volte di ricuperare a rischio anche di esporre la loro patria alle
più violenti convulsioni. Palpabili erano gli effetti di questa
libertà, ed hanno coperta la terra di tali monumenti che
conservansi ancora nella presente età; aveva questa svolti
nell'intera massa della nazione l'ingegno, il gusto, l'industria e
tutti i godimenti di una somma prosperità; il popolo che la
conservò lungamente, era composto d'individui ad un tempo più
felici e più illuminati; desso erasi egualmente avvicinato ai due
fini che si propongono i più saggi filosofi e l'uomo volgare; cioè,
aveva fatto molto cammino verso la perfezione e la felicità.
Fra tutti gli oggetti che trattengono i nostri sguardi nell'Italia,
non ve n'ha un solo il quale non contribuisca a provare ed i
sorprendenti progressi fatti dagl'Italiani in tutte le arti della
civilizzazione prima del quindicesimo secolo, ed il loro
decadimento dopo quest'epoca. Veruna nazione eresse più
magnifici templi nelle città, ne' villaggi e perfino ne' deserti. Si
giugne dall'estremità dell'Europa per ammirarli; ma quando si
confrontano col povero gregge che ora si aduna sotto la loro volta
per esercitarvi un culto, ognuno è forzato di chiedersi dove si
troverebbero adesso le necessarie ricchezze per fabbricarli?
Di dieci in dieci miglia trovansi nelle pianure della Lombardia,
o ne' colli della Toscana e della Romagna, e perfino nelle adesso
deserte campagne del patrimonio di san Pietro, delle città
pomposamente fabbricate, nelle quali molti palagi mezzo rovinati
ci dicono che da secoli più non furono ristaurati: tutto ciò che è
durevole conserva il carattere dell'opulenza e dell'antica eleganza,
e tutto ciò che è passaggiero è perito senza venire più rifatto.
Rimangono i portici, le colonne, gli architravi; ma i legni
marciscono, rotti sono i cristalli, e levati i piombi dai tetti. Da
Novara fino a Terracina, ci dimandiamo tristamente, in ogni città,
dove sia la popolazione che poteva avere bisogno di tante case,
dove il commercio che poteva riempire tanti magazzini, dove le
ricche famiglie che potevano alloggiare in tanti palazzi, dove
finalmente il lusso dei vivi che deve prendere il luogo di quello
degli estinti, de' quali rimangono ovunque i monumenti.
Molta parte delle terre viene anche adesso coltivata nella più
industre come nella più dispendiosa maniera; senza mai esaurire
il terreno, l'agricoltura vuole ogni anno nuovi frutti, e gli ottiene
più abbondanti che in qualunque altra contrada. Un giudizioso
avvicendamento di ricolte apparecchia e purga i campi prima di
coglierne i succhi nutritivi per le piante cereali, e sempre li va
migliorando senza mai lasciarli riposare. Ma questo
avvicendamento di raccolti fu inventato e sostituito all'antico
sistema dai contadini italiani che in allora erano una razza di
uomini intelligente ed osservatrice, mentre che in tutto il
rimanente dell'Europa i contadini di quell'epoca erano abbrutiti
dalla schiavitù ed incapaci di scoprire i vizj delle antiche
consuetudini, e di correggerle.
L'intera Lombardia è tagliata da canali che, suddividendosi
all'infinito, tutta la ricuoprono a guisa di una rete; essi
distribuiscono sui campi le acque apportatrici della fertilità, e
sono disposti a riceverle di nuovo, dando loro un pronto scolo,
quando quest'acque cessano di essere salutari. Una ragguardevole
parte della Toscana è divisa in regolari terrapieni, che trattengono
la terra sul fianco delle colline sempre battute da burrascose
piogge, dando così il modo di coprire di castagneti, di viti, di
ulivi, di ficaje, ripidi declivi che, lasciati quali naturalmente sono,
non presenterebbero che nudi sassi. Ma in quel tempo in cui
gl'Italiani destinavano a rendere fertili le loro campagne un
capitale, che poteva bastare per l'acquisto di una superficie assai
più vasta, le altre nazioni ad altro ancora non pensavano che a
spogliare la terra di tutto ciò che poteva produrre; ed i Francesi
cercavano perfino di rendere ignominioso l'impiego del capitale
destinato alla coltura delle terre, coll'assoggettarlo all'umiliante
imposta della taglia.
Finalmente, sia che si osservi tutta intera l'Italia, o si esamini
la natura del suolo, o le opere dell'uomo, o l'uomo medesimo,
sempre si crede essere nel paese degli estinti, vedendo nello
stesso tempo la debolezza dell'attuale generazione, e la possanza
di quelle che la precedettero. Non sono certo gli uomini che si
vedono, che avrebbero potuto fare le cose che ci stanno sotto gli
occhi; furono fatte nell'epoca di una vita che sentiamo essere
terminata; perciocchè nell'istante in cui questa nazione perdette
ciò ch'ella chiamava la sua libertà, perdette nel medesimo tempo
tutta la sua creatrice potenza.
Pure quando ci chiediamo in che mai consistesse una cotale
libertà, che produsse così grandi cose e che lasciò di sè così
amaro desiderio, non troviamo veruna soddisfaciente risposta nè
tra le nozioni che ne avevano que' medesimi che la possedettero,
nè nelle leggi che la sostenevano, nè nelle costumanze ch'ebbero
da lei origine. Rimaniamo soprattutto convinti esservi un errore
capitale nella lingua; che ciò che noi diciamo libertà, non è ciò
che dagl'Italiani era così chiamato; e che l'intero scopo dell'ordine
sociale si presentava loro sotto un punto di vista affatto diverso
da quello che noi lo vediamo.
Forse abbastanza non riflettiamo che le nuove teorie intorno
alla libertà sono di moderna invenzione; che i nostri filosofi,
cercando di sapere in che consista, sonosi proposto uno scopo
affatto diverso da quello cui miravano gli antichi; che la libertà
de' Greci o de' Romani, degli Svizzeri o de' Tedeschi, come pure
quella degl'Italiani, non era altrimenti la libertà degl'Inglesi; che
per ultimo fino al diciassettesimo secolo la libertà del cittadino fu
sempre risguardata come una partecipazione alla sovranità del
suo paese; e che non è che l'esempio della costituzione britannica,
che c'insegnò a considerare la libertà come una protezione del
riposo, della felicità e della domestica indipendenza. Ciò che noi
desideriamo prima di tutto, non risguardavasi dai nostri antenati
che come un vantaggio accessorio e di second'ordine; e ciò che
vollero i nostri antenati, non viene da noi risguardato che quale
mezzo più o meno imperfetto di ottenere o di conservare quanto
desideriamo noi medesimi. Però l'uno e l'altro scopo
dell'associazione politica viene egualmente indicato col nome di
libertà. Quando si volle distinguerli, e che si chiamò libertà civile
quella facoltà affatto passiva, quella guarenzia contro l'abuso del
potere, in qualunque mano si trovi, cui aspirano i moderni, e che
si riservò il nome di libertà politica alla facoltà attiva, alla
partecipazione di tutti al potere esercitato sopra di tutti,
all'associazione dell'uomo libero alla sovranità, non si è
bastantemente schivata la confusione; perchè i vocaboli che si
adoprano non contrastano abbastanza l'uno coll'altro. Ambidue,
tranne la sola diversità della loro origine greca e latina,
significano egualmente, che è propria al cittadino; ma non
dovrebbe dirsi cittadino se non quello che gode della libertà
attiva, ed è partecipe della sovranità; mentre che, senza essere
cittadino, ogni uomo ha diritto egualmente alla libertà passiva,
ossia alla protezione contro ogni abuso del potere.
Per una specie d'istinto gl'Italiani si erano attaccati alla libertà
politica; ma non erano pervenuti a definirla con precisione.
Questa era agli occhi loro una prerogativa esclusiva del governo
repubblicano; e con tal nome indicavano soltanto il governo dei
più, per distinguerlo da quello di un solo. Quest'ultimo, il
principato assoluto, sembrava loro sempre incompatibile colla
libertà; il primo, governo dei più, pareva loro che sempre
meritasse il nome di governo libero, sia che questa sovranità
appartenesse a tutti i cittadini, come a Firenze, sia ad una sola
classe, come a Venezia; e ciò senza avere riguardo all'esercizio di
un'arbitraria autorità dei magistrati sopra i sudditi, che, dietro i
presenti nostri principj, potrebbero farci considerare l'uno e l'altro
come tirannico.
Non conoscendo gl'Italiani che la libertà politica, e non
essendosi eglino formata una precisa idea della libertà civile, non
dobbiamo maravigliarci che accordassero il nome di governo
libero a quello che non poneva verun confine all'estensione dei
poteri esercitati a nome della nazione. I cittadini, esposti a
qualsivoglia arbitraria misura, non perciò si riputavano meno
liberi, poichè l'atto arbitrario che ad alcuno recava danno era
l'opera di un magistrato, che ognuno poteva risguardare quale suo
mandatario. Ma al primo aspetto sembra contrario ai medesimi
principj da loro adottati, il chiamare libero quel governo in cui
veniva esercitata un'illimitata autorità da una sola classe della
nazione, senza che gli altri potessero aver parte in quella
sovranità di cui si erano impadroniti pochi cittadini. Ben può
concepirsi come Firenze loro sembrasse libera anche quando il
gonfaloniere, i priori, i podestà delegati dal popolo, facevano il
più violento379 uso del momentaneo potere deposto nelle loro
mani; ma non vediamo in che mai consistesse la libertà di
Venezia, dove dal consiglio de' dieci, che rappresentava soltanto
la nobiltà, esercitavasi un così arbitrario potere.
Per altro questa confusione d'idee non è propria solamente
degl'Italiani; dessa trovasi in tutte le antiche e moderne
repubbliche. Le aristocrazie ed oligarchie greche, tedesche ed
italiane, invocarono tutte egualmente il nome della libertà, e tutte
pretesero di averla conservata qualunque volta non si
assoggettarono al potere di un solo. Infatti, lasciando da un canto
la libertà civile ossia libertà passiva, poteva dirsi con verità che
sempre esisteva una libertà nello stato, quando un'intera classe era
partecipe della sovranità; ma in allora non era la nazione che
fosse libera, unicamente bensì quelle famiglie ch'erano
proprietarie della libertà.
379
Nell'originale "violente". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
Presso gli antichi, che avevano conservati gli schiavi anche
nelle più libere repubbliche, non erasi cercata l'origine dei diritti
dell'uomo nella stessa dignità della specie umana, nè si era
convenuto che ogni pubblica instituzione dovesse mirare alla
felicità di tutti. I diritti umani parvero loro fondati sopra leggi
positive, e non sulla legge naturale. Vedevano in ogni paese
uomini ingenui e schiavi; e questo fatto, che ammisero senza
disamina, non parve loro più ripugnante nelle loro città che nelle
loro famiglie. La libertà diventò per loro un bene ereditario, come
le altre sostanze; e quest'eredità potev'essere trasmessa soltanto ad
un ristretto numero di famiglie in mezzo ad una grossa
popolazione, siccome a Sparta ne' tempi della lega Achea, e a
Lucca nel diciottesimo secolo: non pertanto si continuò a
chiamare libero lo stato in cui le famiglie proprietarie della libertà
non erano esse medesime diventate proprietà di un altro
individuo, e dove conservavano fra di loro la sovranità sopra di sè
medesime: se queste medesime famiglie avevano poi sudditi nello
stato e schiavi nelle case, questa sudditanza di una parte della
popolazione estranea alla città, nè variava, nè costituiva la natura
del governo. Cotale stato era pur sempre una repubblica.
Ma la schiavitù domestica più non esisteva nelle repubbliche
italiane, e questa sola differenza le pone a molta distanza da
quelle dell'antichità. Dall'abolizione della schiavitù domestica ne
risultarono un maggiore rispetto per la libertà dell'uomo, una più
estesa felicità in tutte le classi, maggiore industria, maggiore
attività, maggiori potenze produttrici ed in conseguenza maggiori
ricchezze. Le repubbliche, quando appena cominciavano a
prendere questo titolo, e non si consideravano ancora che come
comunità libere, sotto la protezione dell'imperatore, cominciarono
colla liberazione degli schiavi; il grosso della loro popolazione
consisteva in uomini che avevano di fresco spezzate essi
medesimi le loro catene, e che aprirono quasi sempre un asilo
entro le loro mura ai servi che fuggivano dalle terre dei signori
loro vicini. In tal modo ebbe principio l'abolizione della schiavitù,
cui la religione e la filosofia si gloriarono poscia di avere operato;
ma che dal solo personale interesse fu eseguito.
Questa progressiva abolizione della schiavitù, che si estese
dalle città alle campagne, è un avvenimento troppo importante
nella storia della libertà italiana, per non richiamare per qualche
tempo la nostra attenzione. Sotto il regno degl'imperatori romani,
i liberi agricoltori erano assolutamente scomparsi dal suolo
dell'Italia; i ricchi proprietarj, che in un solo possedimento
riunivano talvolta intere province, di cui la repubblica romana,
dopo parecchj anni di guerra, aveva trionfato ne' suoi più bei
giorni, facevano coltivare le loro terre da numerose gregge di
schiavi. I campi più non avevano case isolate, nè villaggi, nè
capanne, e di già avevano l'aspetto che presenta adesso l'Agro
romano, egualmente deserto, egualmente diviso in poderi di dieci
in dodici miglia d'estensione: soltanto facevano le veci di quelle
armate di lavoratori che scendono oggi dalle montagne della
Sabina, infiniti sventurati che la sola forza obbligava al lavoro
senza speranza di veruna ricompensa.
I barbari, invadendo l'Italia, ne fecero in breve tempo
scomparire tutta la popolazione, perchè gli schiavi erano la preda
che loro meglio si conveniva, siccome quella che più
vantaggiosamente potevano vendere, e trasportare altrove con
minore imbarazzo. Gli schiavi, sempre solleciti di mutare
condizione, seguivano volentieri i loro nuovi padroni, dai quali
speravano di essere più dolcemente trattati; pure d'ordinario
perivano ne' lunghi viaggi a traverso ai boschi della Germania e
della Scizia, come mill'anni dopo si videro perire i non meno
numerosi schiavi che i Turchi predavano in tutte le province
dell'Adriatico, e dei quali non si è conservata la razza. I
proprietarj, come i nobili romani dell'età presente, cercarono,
dopo tale epoca, non già a moltiplicare i prodotti delle loro terre,
ma a diminuirne le spese; e calcolarono, come si fa pure
presentemente, che per quanto fosse grande la diminuzione del
prodotto lordo dell'agricoltura per mancanza di popolazione, non
perciò veniva minore la rendita netta delle loro terre.
Finalmente i barbari, invece di guastare le province
dell'impero, vi si stanziarono stabilmente. È noto che in allora
ogni capitano, ogni soldato del settentrione, venne ad alloggiarsi
presso un proprietario romano, sforzandolo a dividere con lui le
sue terre ed i raccolti. Tutti gli antichi schiavi che rimasero in
Italia, non cambiarono la loro condizione; ma i liberi agricoltori,
obbligati a risguardare come loro padrone il Tedesco o lo Scita
che dicevasi loro ospite, furono costretti a darsi essi medesimi al
lavoro. Oltre la parte incolta di terreno che questi nuovi abitanti si
fecero cedere in tutta loro proprietà per tenervi le loro mandre,
vollero pure essere a parte del ricolto de' campi, degli uliveti,
delle vigne: ed allora indubitatamente ebbe principio quel sistema
di coltivazione a metà frutto, che mantiensi tutt'ora in quasi tutta
l'Italia, e che tanto contribuì a perfezionare l'agricoltura ed a
rendere migliore la condizione de' suoi contadini.
Quando il lavoro degli uomini liberi si trovò in concorrenza
con quello degli schiavi, la sua superiorità fu troppo chiara per
non far sì che il barbaro padrone lo preferisse a quello degli
schiavi. Il castaldo, quasi sempre disceso da qualche antico
proprietario romano, viveva, egli e la sua famiglia, colla metà del
prodotto di quella terra che era stata un giorno possedimento dei
suoi antenati; mentre lo schiavo, che dovevasi assai bene
alimentare, quantunque la sua inerzia e la negligenza scemassero
le sue forze produttrici, consumava i due terzi dei frutti da lui
raccolti. Allora il Barbaro cominciò ad accordare la libertà, ed
una parte del deserto di cui si era renduto padrone, al suo schiavo,
perchè ne formasse un nuovo podere. Il signore delle terre ebbe
sempre più motivo di vie meglio convincersi che non
manterrebbe giammai i suoi schiavi a così buon patto come il suo
gastaldo, e che non otterrebbe da loro giammai altrettanto lavoro,
perchè l'interesse attivo ed industrioso è migliore economo d'assai
che la forza: così ogni giorno, coll'incremento delle generazioni,
un maggior numero di schiavi ebbe nelle campagne la libertà.
Senza che la legge avesse veruna parte nell'abolizione della
schiavitù, senza che il vergognoso commercio degli uomini fosse
proibito, la schiavitù cessò in ogni luogo. Ne' secoli inciviliti, e
fino alla fine del sedicesimo, si dividero tuttavia degli schiavi
nelle più ricche case, ma più non se ne trovavano nelle campagne.
I soldati, abusando della loro vittoria, vendettero talvolta al
migliore offerente tutti gli abitanti di una città presa d'assalto; e
tale fu la sorte che l'armata di Francesco Sforza fece subire del
1447 alla sventurata città di Piacenza. I papi, cedendo alla
sterminata loro collera, condannarono ancora più frequentemente
tutti i sudditi di uno stato nemico ad essere ridotti in ischiavitù,
autorizzando a venderli chiunque se ne impadronisse. In tal modo
vennero condannati tutti i vassalli dei Colonna da Bonifacio VIII;
tutti i Fiorentini da Sisto IV, tutti i Bolognesi nel 1506, ed i
Veneziani nel 1509, da Giulio II. Ma coloro che comperavano
questi schiavi, trovavano subito più utile il dar loro la libertà per
una qualche somma di danaro, che non il mantenerli pel poco
lavoro che farebbero per conto loro. In veruna descrizione di città
o di villaggi vedonsi in queste varie epoche indizj di schiavitù;
soltanto il fanatismo potè conservarne gli ultimi avanzi in Italia a
dispetto del personale interesse. I prigionieri di guerra mori e
turchi incatenansi nelle galere, in odio della loro religione, e la
schiavitù loro dura anche al presente, sebbene costino allo stato
più che gli uomini liberi.
Il fanatismo tentò pure più volte in altri paesi di far rinascere la
schiavitù; e riconoscere dobbiamo dai missionarj portoghesi, che
circa la metà del quindicesimo secolo, diressero le prime
spedizioni sulla costa occidentale dell'Africa, quella schiavitù de'
Negri alle Antille, che forma l'obbrobrio dell'età presente. Il
fanatismo fece condannare in Ispagna ed in Portogallo, nel
sedicesimo e diciassettesimo secolo, molte centinaje di Giudei e
di Mori ad essere ridotti in ischiavitù. Pure l'interesse personale,
assai più potente che lo zelo di un clero persecutore, ridonò
costantemente la libertà a coloro che la Chiesa condannava alle
catene. Nell'età presente la schiavitù non si mantiene in tutta
l'Europa orientale dalla Russia fino all'Ungheria, che a motivo
che i proprietarj delle terre non hanno saputo approfittare del
lavoro degli uomini liberi; e perchè in cambio di dividere con
loro i frutti della terra, gli sforzarono a dar loro la metà del
tempo; onde nei giorni di ogni settimana che sono di diritto del
padrone ungaro o boemo, l'uomo libero non lavora con maggiore
zelo, attività o intelligenza, di quello che farebbe lo schiavo.
Quando, in tempi a noi più vicini, i filosofi volsero di nuovo i
loro sguardi alla costituzione della società, non ebbero sotto gli
occhi oggetti eguali a quelli che colpivano i filosofi dell'antica
Grecia. Da un canto il lavoro manuale più non era fatto dagli
schiavi, dall'altro canto quasi tutti i paesi ridotti a civiltà erano
governati da monarchi. Noi confondiamo quasi sempre la natura
delle presenti instituzioni colla natura stessa delle cose: gli antichi
non avevano potuto comprendere come si sarebbe potuto fare da
meno degli schiavi; i moderni come si possa stare senza re. I
politici del XVIII secolo si occuparono meno di ciò che in realtà
era la società umana, che di ciò che avrebbe dovuto essere.
Ebbero minore rispetto per diritti stabiliti, perchè in nessun luogo
ne trovarono che fossero incontrastabili; ma rispettarono
maggiormente il carattere dell'uomo; essi accomodarono le loro
teorie all'interesse dell'autorità sotto la quale vivevano, e
fissarono il principio che ogni governo era stabilito per la felicità
dei popoli a lui soggetti, sebbene i principi avessero fin allora
creduto di non avere altro interesse ed altro dovere, che quello
della propria conservazione, o di ciò che chiamavano loro gloria.
Essendo la libertà degli antichi una proprietà del cittadino, non
era essenziale di esaminare fino a qual segno contribuiva alla
felicità, come non si esamina, per conservare a ciascheduno la sua
eredità, se le ricchezze formano, o no, la felicità dell'uomo
saggio. Ma la libertà dei moderni venendo considerata come il
mezzo pel quale i governi giungono allo scopo per cui furono
instituiti, cioè la comune felicità, fu necessario di esaminare, onde
stabilire il diritto dei popoli ad essere liberi, in qual modo la
libertà formi la felicità, o fino a quale grado vi contribuisca.
L'uno e l'altro raziocinio380 è egualmente logico, ma ciascuno
parte da diversi principj. Quello degli antichi è forse il primo
nell'ordine delle idee; essi considerarono l'origine delle società, e
si chiesero donde veniva il potere che vedevano stabilito; allora
loro parve soltanto libero quell'uomo, che non fosse subordinato
che a quel potere che aveva formato o contribuito a formare egli
stesso. Così la linea che separava il cittadino dal suddito era
patentemente segnata, e non poteva ammettere verun dubbio. La
libertà de' moderni dev'essere valutata sopra molto più dilicate
differenze. Per determinarne i confini, conviene esaminare fino a
qual punto convenga agli uomini uniti in società di essere
governati, o pure a qual prezzo loro convenga di acquistare la
protezione della forza pubblica contro i loro interni ed esterni
nemici; in appresso fino a qual punto ognuna delle umane facoltà
abbia bisogno di essere contenuta pel comune vantaggio;
finalmente in quale caso torni meglio diminuire in parte la forza
di tutti, piuttosto che ristringere di soverchio la felicità o la
sicurezza individuale.
Quest'esame guidò a riconoscere che lo scopo dell'unione degli
uomini essendo quello di assicurare la vicendevole protezione
delle loro persone, del loro onore, delle loro proprietà, dei loro
morali sentimenti, quel governo che si farebbe giuoco della vita,
della fortuna e dell'onore degl'individui, offendendo i sentimenti
di giustizia, di umanità e di pubblica decenza, mancherebbe
assolutamente al suo scopo, e dovrebbe risguardarsi come una
tirannide, sebbene fosse anche stato stabilito dall'universale
volontà.
In appresso si riconobbe, che l'uomo non aveva domandato al
proprio governo di proteggerlo contro di sè medesimo, ma
380
Nell'originale "raziosicino". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
soltanto contro gli altri; dal che si è conchiuso che l'esercizio di
qualunque facoltà, che non abbia azione sugli altri, non è
dipendente dal governo. Su questa regola è fondata la libertà del
pensiere e quella della coscienza; mentre che avvi tirannide,
qualunque volta il governo procede a punire altra cosa che gli atti
esteriori, o che in loro cerca le tracce del malcontento, e della
malevolenza, per vendicarsi di queste opinioni.
Finalmente si è conosciuto che il male che risulterebbe per
tutti dalla repressione di certe azioni che possono diventare
nocive, sarebbe ancora maggiore del male che potrebb'essere
prodotto da queste azioni. Perciò si risguardò come tirannico quel
governo che proibisce di parlare, di scrivere, di stampare 381; che
gastiga con troppo sospettosa vigilanza certi falli, certi vizj, che
non si potrebbero comprimere senza un'inquisizione
insopportabile per tutti. E si è conchiuso che un governo è tanto
più libero, quanto è sentita meno la sua azione; che è libero, non
solo perchè non gastiga che ciò che è vietato dalla legge, ma
ancora perchè la legge non proibisce tuttociò che potrebbe
proibire.
Dopo avere in tal modo definita questa libertà puramente
difensiva, questa libertà affatto negativa, cui deve tendere ogni
buon governo, si cercò di darle per guarenzia i diritti politici de'
cittadini. Allora cominciarono a considerarsi, non più come
principio essi medesimi della libertà, ma soltanto come sue
salvaguardie. I moderni collocarono nel primo grado tra questi
diritti politici la libertà della stampa propriamente detta, ossia il
diritto di provocare la pubblica attenzione intorno agli affari dello
stato, con iscritture pubblicate senza precedente licenza del
governo; la libertà della disputa nelle adunanze politiche; per
ultimo il diritto di petizione, o sia il ricorso aperto ad ogni
oppresso fino alla sovrana autorità, interpellata da cittadini
381
La quistione intorno alla libertà della stampa fu ampiamente discussa in
ogni paese, e si vorrebbe che non fosse per anco bastantemente illustrata. N. d.
T.
associati a tale oggetto sotto gli occhi di tutto il pubblico. Queste
varie prerogative non formano parte della libertà civile, ma
piuttosto sono le armi poste in mano al popolo per difenderla.
Dopo avere conosciuto quanto l'idea che fino all'ultimo secolo
formavansi della libertà i nostri antenati è diversa da quella che
noi ci formiamo adesso, avremo minor cagione di fare le
maraviglie, vedendo che in tutte le repubbliche dell'antichità, in
tutte quelle della Svizzera e della Germania, in tutte quelle
finalmente dell'Italia, intorno alle quali versammo così lungo
tempo, non fossero guarentiti i diritti di cui abbiamo fin ora
sviluppata l'origine.
Le repubbliche italiane non avevano pensato a proteggere la
vita, l'onore, o la proprietà de' cittadini con una legislazione, o
con una forma di processura migliori di quelle ch'erano in vigore
negli stati più dispotici. I magistrati, i tribunali e le leggi
avrebbero avuto bisogno d'una totale riforma, per guarentire la
libertà civile, e la felicità delle persone loro commesse. Oggi è
dimostrato che compromettesi la libertà, quando gli
amministratori si trasformano in giudici, armandoli dell'autorità
di castigare que' medesimi ch'essi incontrarono come antagonisti
nelle politiche contese. Perciocchè il magistrato, chiamato
frequentemente dalla sua carica a sostenere le parti di un capo di
partito, ed a sposarne le passioni, viene investito del diritto di
giudicare la parte avversaria, cioè quegli uomini che nella causa
del popolo vollero mettere argine alle sue usurpazioni, ed opporsi
alle sue ingiuste misure. Le repubbliche italiane non erano cadute
affatto in quest'errore comune a tutte le altre. Il potere giudiziario
vi si trovava abitualmente separato dall'amministrativo: la
signoria, che si rifaceva ogni due mesi a sorte, scegliendosi tra i
cittadini attivi, era incaricata della generale direzione degli affari,
mentre alcuni giudici forestieri, assistiti da legisti pure forestieri,
amministravano la giustizia civile e criminale. Ma perchè questa
divisione del potere civile e giudiziario non lasciasse verun titolo
di timore, avrebbe dovuto essere perfetta; sarebbe stato d'uopo
che i magistrati fossero sempre obbligati di rimettere ai tribunali
coloro che gli avevano offesi, e che in qualunque caso non
fossero seduti essi medesimi in giudizio. Per lo contrario nelle
repubbliche italiane, non escluse le meglio ordinate, si vide più
volte la signoria momentaneamente riprendere il potere
giudiziario, e mandare alla tortura o al patibolo coloro che
avevano di fresco attentato alla sua autorità.
Non solamente i giudici non disponevano soli della vita,
dell'onore, e delle sostanze de' cittadini; ma non erano pure
costituiti in maniera di dare una bastante guarenzia delle loro
parzialità o della loro umanità. Richiedeva la legge che fossero
forestieri, perchè non isposassero nella repubblica verun partito;
che non rimanessero molti anni in carica, onde non adottassero le
passioni de' cittadini; finalmente che uscendo d'impiego
andassero soggetti ad un sindacato intorno alla loro
amministrazione, onde si guardassero dal lasciarsi corrompere coi
regali. Ma la legge non aveva separato il giudizio del diritto da
quello del fatto; non aveva chiamati i semplici cittadini, come
presso i Romani e presso gl'Inglesi, a sentenziare sulla vita de'
loro concittadini: non aveva posto ogni uomo sotto la guarenzia
dell'interesse de' suoi eguali, nè avanti l'esecuzione di una
sentenza capitale aveva richiesto il concorso di un tribunale
popolare, che essenzialmente unisse la misericordia al rigore.
Non esisteva veruna legge penale che moderasse le sentenze de'
giudici, o che preventivamente illuminasse gl'imputati intorno
alla loro sorte. Non era nè meno vietato ai podestà di ascoltare le
voci della passione o della collera; e perchè giudicavano quasi
sempre soli, non erano obbligati di esporre ai loro collega le
circostanze della causa, a trattarla ad alta voce, a dare i motivi
delle loro sentenze. I motivi e le ragioni che le avevano dettate
chiudevansi nel più profondo di tutti i segreti, quello di un uomo
colla sua propria coscienza.
La processura dava ancora minore guarenzia che la
costituzione del tribunale, segreta era l'istruzione, ed il prevenuto,
privo di consiglio nella sua prigione e di avvocato per difendersi,
veniva abbandonato a tutte le conseguenze della sua debolezza,
de' suoi terrori, della sua ignoranza, o della sua incapacità. La
spaventosa processura cominciava colla tortura; e la legge non
poneva verun limite ai tormenti co' quali potevasi stringere un
accusato, come non aveva determinato quale indizj si
richiedessero per esporlo a così barbara prova. Non pertanto le
confessioni strappategli di bocca dall'atrocità de' dolori, venivano
ritenute quali sufficienti prove contro di lui, e contro i supposti
suoi complici. Finalmente la legge permetteva supplicj non meno
spaventosi che quelli delle monarchie, e l'umanità veniva offesa
non meno dalle esecuzioni che dalle processure.
In tal modo adunque, anche in tempo ordinario, la società non
guarentiva l'onore, la vita, o le sostanze degli individui, co' suoi
magistrati, co' suoi giudici, colle sue leggi. Ma nelle rivoluzioni,
pur troppo frequenti, l'abuso di una pretesa giustizia diventava
ancora più molesto. Allora i capi di un partito, facendosi investire
di una illimitata autorità, sotto il nome di balìa, gastigavano in
massa, senza informazione, senza processura, senza giudizio, tutti
i membri del contrario partito, coll'esilio, colla confisca de' beni,
spesso con capitale supplicio.
Non avevano gl'Italiani pensato giammai che lo stesso scopo
della formazione della società prescrivesse confini alla sovrana
autorità; essi non avevano veduto, che gli uomini non hanno
potuto assoggettargli che le loro relazioni degli uni verso gli altri;
ed essi avevano permesso ai governi di penetrare nell'interno dei
loro pensieri, per dirigerne le opinioni e punirne i sentimenti.
Tutte le repubbliche italiane eransi formate in seno alla cattolica
religione, e questa religione, assoggettando, col mezzo della
confessione, il pensiero al tribunale de' preti, gli spiriti si erano
abituati a risguardare il segreto delle coscienze come dipendente
dall'autorità. La persecuzione ed il castigo dell'eresia era una
necessaria conseguenza della sommissione delle repubbliche alla
Chiesa. Quella della magia era pure riservata ai preti; ed ammessa
una volta la funesta opinione dell'azione degli uomini sulle
potenze infernali, la magia dovette entrare nelle attribuzioni de'
tribunali, poichè risguardavasi con un mezzo con cui un uomo
poteva nuocere ai suoi simili. Ma non potevasi perseguitare
questo delitto, che si commette senza testimonj nell'oscurità della
notte, senza dar luogo alle più sospettose, più arbitrarie e più
tiranniche processure.
Del resto non era soltanto allorchè trattavasi di perseguitare
l'eresia o la magia, che i tribunali italiani credevano di avere
diritto di scendere nel cuore dell'uomo e di punirne i moti segreti,
ma si arrogavano il diritto di assoggettare alla pubblica vendetta
ogni sentimento di scontentezza o di odio contro il governo; ne
cercavano spesso gl'indizj in una parola, in un gesto, in un
sospetto; e nelle circostanze di rivoluzione furono vedute le
repubbliche adottare le usanze ed i principj de' principi assoluti, e
punire coi supplicj, non già gli atti esteriori, ma il nascosto
pensiero di cui erano l'indizio.
Se i governi italiani non si erano astenuti dal giudicare i
sentimenti ed i pensieri, che non dipendono in verun modo dalla
pubblica autorità, con più ragione non eransi fatto scrupolo di
armare una metà de' cittadini contro l'altra, d'incoraggiarne molti
ad esercitare l'infame mestiere di delatore, quando hanno con ciò
potuto sperare di reprimere abitudini viziose o nocive, che si
vorrebbero certamente sbandire da ogni ben regolata repubblica,
ma che non si potrebbero castigare senza assoggettare tutti i
cittadini ad una insopportabile inquisizione.
La bestemmia diventò uno de' principali oggetti della vigilanza
de' magistrati, e venne sottomessa a tutta la severità dei tribunali
stabiliti al solo oggetto di comprimerla. Soltanto in Ispagna ed in
Italia s'incontra questa viziosa abitudine, affatto sconosciuta
presso i popoli protestanti, e che non dobbiamo confondere con
quei rozzi giuramenti che il popolo in tutti i paesi frammischia ai
suoi discorsi. In tutti gli accessi di collera, i popoli meridionali se
la prendono cogli oggetti del loro culto, li minacciano, e li
caricano di parole ingiuriose alla stessa divinità, al Redentore o ai
Santi. Trovansi tracce di tale scandalosa abitudine nel linguaggio
e in alcuni modi proverbiali degli altri popoli, ma la volontà
d'insultare la divinità con questa specie d'attacco non si poteva
conservare che in un paese in cui la superstizione, sempre in
guerra coll'incredulità, ha rimpiccioliti tutti gli oggetti del culto, e
fattili scendere fino al livello degli uomini. La processura contro i
bestemmiatori occupò in ogni tempo i tribunali d'Italia. Pure
cotale delitto non lascia veruna traccia, e quegli stesso che lo ha
commesso, il più delle volte se ne dimentica, i testimonj sono
quasi sempre implicati nella contesa che vi diede motivo, ognuno
tosto o tardi cade nello stesso errore, e la inquisizione del
bestemmiatore, senza diminuirne l'abitudine, ha dato luogo alle
più inique ed arbitrarie processure.
Molti altri delitti di pure parole vennero considerati come
egualmente punibili; si videro più volte condannati a gravi pene,
coloro che avevano con qualche motto cercato di coprire di
ridicolo o di biasimo il governo, e coloro che nelle loro scritture
avevano manifestate opinioni riprovate, non solo in fatto di
religione e di politica, ma ancora in argomenti puramente
filosofici. Si vide ancora, ma soltanto in alcune circostanze, altre
viziose abitudini punite con severissime pene, le quali non
potevano colpire i delinquenti che in conseguenza di
un'inquisizione totalmente contraria ad ogni attuale idea di
libertà. Ne' tempi in cui era in Firenze dominante la fazione de'
piagnoni, si perseguitò il mal costume perfino nell'interno delle
famiglie con segrete denuncie, sebbene la pubblica decenza
ordinariamente soffra assai più da tali rivelazioni, che dall'abuso
che si lascia sussistere. Il giuoco nell'interno delle case private, il
lusso della mensa, degli abiti, degli equipaggi, furono risguardati
come oggetti di pertinenza delle leggi, e tutte le abitudini
dell'uomo privato vennero regolate con atti del sovrano potere.
Le varie prerogative che i popoli moderni considerarono quali
guarenzie della sicurezza e della libertà de' cittadini, mai non si
conobbero nelle repubbliche382 d'Italia. La nozione della libertà
della stampa non erasi nemmeno presentata ai loro legislatori.
Appena si trovano in tutta l'istoria dell'Italia due o tre esempi di
scritture pubblicate intorno alle cose del governo, ed i loro autori
avevano sempre avuta la precauzione di farle stampare in estero
stato; ma non pertanto qualunque volta si poterono arrestare o
l'autore o i distributori, questi furono sempre puniti con eccessiva
severità. Nè il partito dell'opposizione, nè il partito governante
non cercarono mai d'illuminare la pubblica opinione, e non si
supponeva che le deliberazioni intorno agli affari della patria
potessero uscire dalla sala de' suoi consigli. In contraccambio,
dobbiamo pur dirlo, gli storici delle repubbliche, che prima
dell'invenzione della stampa si appellavano non ai presenti tempi,
ma alla posterità, diedero prova nelle loro scritture di grande
coraggio e di rara imparzialità; e dal modo con cui in ogni
occasione giudicano i loro compatriotti e magistrati, sempre si
conosce la mano dell'uomo libero.
Il diritto di petizione non fu dagl'Italiani meglio conosciuto
che quello della stampa: essi non altro avevano fatto che
rimuovere dal proprio luogo l'assoluto potere, togliendolo dalle
mani di un solo per affidarlo a molti. Essi non pensavano punto a
limitarlo, e soprattutto a contenerlo per via della pubblica
opinione. Ogni cittadino poteva, per vero dire, portare riclami
all'autorità da cui immediatamente dipendeva; ma non poteva
giammai, con una petizione, tradurre quest'autorità avanti ad
un'altra incaricata di sindacarla; meno poi trasmutare il suo
privato affare in un affare di stato, unendosi ai suoi concittadini
per dare maggior peso alle proprie lagnanze. Nel primo caso
sarebbe stato ammonito, come se avesse voluto confondere tutte
le podestà e l'ordine stabilito; nel secondo sarebbe stato
severamente punito, come tendente alla ribellione.
Ma ciò che può sembrare strano, si è che la libertà stessa della
disputa ne' consigli non era altrimenti assicurata. Pure questa è la
382
Nell'originale "repubblice". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
sola cosa che possa garantire l'esercizio de' diritti della sovranità,
dei quali gli antichi repubblicani erano altrettanto gelosi, quanto
lo erano poco della sicurezza individuale.
I consiglj di una repubblica sono chiamati intorno ad ogni
affare a due distinte operazioni, cioè deliberare ed emettere il
voto; lo che risponde a quelle della disputa, poi del giudizio ne'
tribunali. Gl'Italiani avevano quasi totalmente trascurata la prima;
essi non davano nè guarenzia, nè solennità alla disputa; pareva
che non si prendessero cura che i consiglieri s'illuminassero gli
uni gli altri colle loro opinioni, e riducevano tutto lo studio loro a
rendere con un profondo segreto liberi i suffragi. Ne' consigli
parlavasi assai poco. Il primo magistrato ne faceva talvolta
l'apertura con un discorso di etichetta, che imparava a memoria, o
che leggeva; talvolta ancora qualche giovane oratore figuravasi
d'imitare gli antichi, pronunciando un ampolloso sermone, che
veniva piuttosto risguardato come un pezzo accademico, che
come un mezzo di persuadere; talvolta alla proposizione fatta dal
magistrato teneva dietro una tumultuaria conversazione in ogni
panca; ma d'ordinario si passava subito ai suffragi con un
profondo silenzio. A Firenze, ogni consigliere per dare il suo
voto, riceveva fave bianche e nere; a Venezia pallette di legno; e
le urne eran distribuite in modo che il votante poteva porvi la
mano, senza far conoscere in quale senso avesse votato. In
appresso si contavano i suffragj, la di cui semplice maggiorità
non bastava giammai per dare forza di legge ad una proposizione.
Il più delle volte, perchè si potesse, giusta l'espressione legale,
vincere il partito, rendevasi necessario di riunire i tre quarti de'
suffragj di cadauno de' diversi corpi che trovavansi adunati nella
stessa sala per emettere i voti separatamente; a Firenze, per modo
d'esempio, dei priori di buoni uomini, e dei gonfalonieri di
compagnia. Se in taluno di questi tre corpi il quarto soltanto dei
membri aveva poste nell'urna delle fave bianche, la legge veniva
rigettata.
Affinchè i consiglj siano veramente liberi, è necessario che la
minorità abbia tutta la libertà di far udire le sue ragioni, di
discutere ampiamente la sua causa, e di rappresentarla sotto tutti
gli aspetti; ma non è meno essenziale di far prendere tutte le
decisioni colla sola maggiorità de' suffragj, onde il piccolo
numero, tra consiglieri tutti eguali, e che hanno tutti la medesima
missione, non imponga al maggior numero. Gl'Italiani astanti non
avevano conosciuti questi due principj; avevano circondato da
tanti pericoli l'uso della parola, avevano giudicate con tanta
severità le aringhe che pronunciavansi innanzi ai consiglj,
avevano assoggettati gli oratori a così pesante risponsabilità, tanto
per mezzo di un pubblico biasimo, che per clamorosi gastighi, per
qualunque poco misurata frase fosse sfuggita di bocca all'oratore
nel calore della disputa, che niuno osava entrare in disamina: e
non si era coltivata la sola eloquenza popolare, quella di parlare
improvvisamente, perchè la minorità non aveva giammai
occasione di motivare la sua opposizione, di cercare di persuadere
i suoi avversarj, e di trattare apertamente la propria causa. Ma
mentre tutti opinavano con timore, una taciturna minorità
contrariava co' suoi segreti suffragj le operazioni del governo, e
faceva rigettare una proposizione, contro la quale niuno aveva
ardito di muovere obbiezioni.
Questa taciturna opposizione, eccitando un profondo
risentimento, fu spesso cagione della più scandalosa violazione
della libertà dei suffragj. A Firenze si vide più volte la signoria
far ricominciare replicatamente l'operazione dello scrutinio,
perchè non si era potuto vincere il partito. Fu veduta minacciare
coloro che darebbero la fava bianca, e fu pure veduta in qualche
circostanza far cadere sopra di loro le più acerbe pene. Ora di
qual uso potevano essere i consiglj, se i consiglieri non avevano
libertà? E quando una costituzione vuole che i suffragj riuniti de'
magistrati possano esprimere soli una volontà sovrana, qual è la
superiore autorità che possa prescrivere in quale senso debba
manifestarsi questa volontà? Così addiviene che un primo errore
nella legislazione ne produca degli altri; così dopo di avere
imprudentemente dato ne' consiglj alla minorità il potere di legare
la maggiorità, si fu poi costretto più volte a dovere permettere,
che l'assenso di questa minorità si ottenesse colla violenza.
Dopo di avere brevemente esaminati tutti i diritti che nell'età
presente ci sembrano i più preziosi, e dopo avere osservato che
sul conto loro le leggi protettrici non erano migliori nelle
repubbliche italiane che nelle monarchie, o che anzi erano
assolutamente le medesime, e permettevano che tutti questi diritti
fossero in certe occasioni compressi o annullati, si accresce la
nostra maraviglia nel contemplare i miracolosi effetti dello spirito
repubblicano; e ci andiamo ancora interpellando in qual cosa
consistesse adunque quella libertà, che poteva stare insieme alla
più crudele tirannia; quella libertà, che veniva difesa con così
eroici sforzi, la di cui privazione eccitava così amare lagrime, e
che i popoli non perdevano senza perdere ad un tempo la loro
prosperità, la loro gloria, i loro talenti e le loro virtù.
Ma d'uopo è ricordarsi che nelle repubbliche i medesimi
uomini si presentano sotto un doppio aspetto e con un doppio
carattere; prima come governati, poi come governanti. Oggi per
valutare la libertà, cerchiamo in che consista pei governati; fino al
nostro secolo per lo contrario si cercava in che consistesse pei
governanti; e questa attiva libertà, questa libertà tutta composta di
prerogative sovrane, che al primo colpo d'occhio sembra dover
contribuire molto meno che non la sicurezza individuale alla
prosperità dei cittadini, trovasi per lo contrario avere per essi un
incanto che nulla pareggia. Dessa è una bevanda inebriante, è il
nettare degli Dei: quando un mortale ha potuto gustarla un sola
volta, sdegna ogni umano nutrimento: ma inoltre trova in sè
medesimo nuove forze, ed una nuova virtù; la sua natura è del
tutto cambiata; e sedendo a quella mensa, egli sente che si
pareggia agl'immortali.
Alcuni fondamentali assiomi possono rappresentare tutto il
sistema della libertà degli antichi tempi; sono questi l'espressione
de' diritti politici della nazione considerata in corpo, e non di
quelli dei singoli individui nelle loro relazioni colla nazione.
Verun'altra repubblica non professò forse così apertamente, nè
più religiosamente osservò questi assiomi, quanto quelle d'Italia
ne' secoli di mezzo.
Ogni autorità esercitata sopra il popolo è emanata dal popolo.
Questo primo assioma de' popoli liberi era risguardato come
fondamentale in tutte le repubbliche italiane. La sovranità vi era
sempre rappresentata come appartenente al popolo o al comune; i
suoi capi temporarj non prendevano che il titolo di anziani,
signori, priori del popolo o del comune. Il governo non veniva
mai rinnovato senza invocare la sovranità del popolo: così a
Firenze era sempre in di lui nome che trasmettevasi, per mezzo
de' suffragj del parlamento, ad una nuova balìa un'autorità eguale
a quella di tutto il popolo fiorentino. Si dirà forse che questa non
era che una frase vuota di senso, e che i vocaboli non sono
privilegj; ma questi vocaboli non erano nè senza effetto, nè senza
conseguenze; inspiravano ad ogni cittadino un'alta opinione della
sua dignità; lo trattenevano, qualunque volta potev'essere tentato
di commettere una bassa o indecente azione; conciliavano al
cittadino nella privata sua condizione i riguardi ed anche il
rispetto di coloro che trovavansi momentaneamente constituiti in
dignità; perciocchè sapevano i capi del popolo, che tutta la loro
autorità procedeva da coloro che temporariamente ubbidivano, e
che ella ritornerebbe ai medesimi; per ultimo, questi stessi
vocaboli di sovranità del popolo, rendevano la patria cara a tutti i
suoi figli; ognuno sapeva che lo stato gli apparteneva in quel
modo ch'egli medesimo apparteneva allo stato; ognuno era pronto
a tutto arrischiare, per salvare la cosa più onorata e più preziosa
da lui posseduta, cioè la sua parte nella sovranità; ognuno
conosceva i doveri che gli erano imposti da così luminosa
prerogativa, da così sacro carattere; ognuno era disposto a
rendersene degno, anche, se bisognava, col sagrificio della vita.
L'autorità dei mandatarj del popolo ritorna al popolo dopo un
determinato tempo; niuno de' mandati del popolo è irrevocabile.
Questo secondo assioma dei repubblicani italiani loro sembrava,
più che ogni altra cosa, essere il fondamento della loro libertà, e
l'essenza delle loro repubbliche; perciò non ammisero giammai nè
autorità, nè magistrature ereditarie, tranne la prerogativa di
cittadino. Ed ancora quando queste repubbliche degenerarono più
tardi in aristocrazie o in istrettissime oligarchie, non fu per questo
abbandonato il principio fondamentale dell'amovibilità di tutte le
magistrature. Non furono già i diritti delegati dal popolo, che
vennero dati a vita, o renduti ereditarj, ma i diritti del popolo
medesimo che si trovarono concentrati in un ristrettissimo
numero di famiglie, dopo che si erano spente tutte le altre. La
nuova nobiltà non era che la rappresentazione degli antichi
popolani; e perciò che risguarda l'antica nobiltà, gl'Italiani, lungi
dal tenere questo titolo come un diritto esclusivo a governare, non
le perdonavano neppure l'impero ch'essa esercitava sull'opinione
in onta alle leggi; così spesso esclusero da ogni pubblico impiego
i grandi, renduti troppo formidabili dalle loro ricchezze e da' loro
clienti nelle campagne.
La repubblica di Venezia era la sola in cui si vedesse un
magistrato, anzi lo stesso capo dello stato, eletto a vita: e per
molti rispetti Venezia poteva considerarsi come una monarchia
elettiva; la sua costituzione, assai più antica che tutte le altre, ne
aveva fatto da principio un ducato; ma col lungo volgere de'
secoli si erano sempre andate diminuendo le prerogative del doge
per darle alla repubblica. Una sola volta si volle anche in Firenze
creare un gonfaloniere perpetuo; ma si era preventivamente
indicata l'autorità che potrebbe deporlo, ed effettivamente venne
deposto dopo dieci anni. In queste due repubbliche, siccome in
tutte le altre, la durata delle funzioni di tutti i magistrati era
temporaria.
Per altro coll'andare del tempo quasi tutte le repubbliche
italiane ebbero un capo discendente da una famiglia favorita da'
voti del popolo; ma la costituzione non riconosceva in questo
capo verun potere ereditario. La confidenza del popolo
trasmetteva al figlio di un Medici, di un Bentivoglio o di un
Baglioni, l'autorità esercitata da suo padre; ma tale autorità era
rivocabile tosto che cessava la confidenza del popolo; e verun
cittadino, per potente che si fosse, non era supposto avere diritti
indipendenti da quelli della repubblica.
Rispetto alle magistrature, non solo il mandato del popolo in
virtù del quale si esercivano, era rivocabile, ma era limitato da
brevissimo termine. La suprema autorità nello stato era poche
volte confidata per più di due mesi; in ragione della minore
importanza dell'impiego, se ne protraeva alquanto più la durata;
non pertanto, ad eccezione di Venezia, non eravi pubblica carica
che continuasse più di un anno.
L'esistenza di facoltà irrevocabili in una repubblica implica
una specie di contraddizione. Come può mai supporsi che il
popolo, dal quale emana l'autorità, dichiari a' suoi mandatarj che
gli autorizza a conservarla, sia che ne facciano abuso o no, sia che
giustifichino le speranze dei loro committenti, o sia che si
mostrino indegni della loro confidenza; sia che l'avanzamento
dell'età li renda più atti alle funzioni che esercitano, o sia che li
renda incapaci di adempirle? Quindi l'amovibilità di tutte le
cariche è in qualche modo la guarenzia della costante attività di
coloro che le occupano, e de' continui loro sforzi per rendersene
degni. Ma questo principio era probabilmente stato spinto troppo
in là nelle repubbliche italiane, ed i loro legislatori avevano
dimenticato, che, se importa assai che i magistrati non rimangano
troppo a lungo in carica, affinchè non diventino meno attivi,
importa egualmente che il loro regno non sia circoscritto a troppo
pochi giorni, affinchè lo stato non abbia a soffrire dal tirocinio
incessantemente ripetuto dei nuovi eletti.
Finalmente, chiunque esercita un'autorità emanata dal popolo
è risponsabile verso il popolo dell'uso che ne fa. Era
precisamente per dare a quest'ultima massima una più illimitata
applicazione, che si era circoscritta a così breve tempo la durata
di tutte le magistrature. In alcune affatto moderne costituzioni, si
è trovato il modo di far pesare la risponsabilità sui ministri, anche
in mezzo alle loro funzioni, senza attaccare l'autorità da cui
emana il loro potere. Nelle repubbliche, tranne il caso di
rivoluzione, la risponsabilità non viene esercitata sui magistrati,
che dopo la cessazione delle loro funzioni. Nell'uno e nell'altro
sistema, l'effetto è sempre il medesimo: lo stato non ha giammai
bisogno di affrettare il supplicio di alcuni grandi colpevoli; non
corre nessun rischio, aspettando ch'escano di carica; ma bensì ha
bisogno d'inspirare a tutti i depositarj del potere un timore
salutare; di far loro sentire che, per quanto grandi si figurino di
essere, per quanto sembrino indipendenti le loro funzioni,
giugnerà sempre l'istante in cui si troveranno deboli in faccia ad
altri più potenti di loro; in cui dovranno rendere conto della loro
gestione a chi avrà diritto di chiederlo, ed in cui non rimarrà
impunito verun abuso del potere, veruna violazione delle leggi o
della libertà del popolo, veruna malversazione.
La distinzione tra la responsabilità del ministero inglese, che si
esercita quando il ministro è ancora in funzione, e la
responsabilità repubblicana che non comincia che quando il
magistrato è tornato semplice cittadino, è più apparente che reale.
Non avvi alcun ministero inglese che non possa, col mezzo di arti
ben note, o almeno collo scioglimento del parlamento, ritardare
per un anno intero la prova della sua responsabilità. Ma nel corso
di un anno i primi magistrati della repubblica fiorentina avevano
sei volte deposto il bastone del comando, sei volte altri nuovi
signori, rientrati nel grado di semplici cittadini, si erano trovati
soggetti al giudizio di coloro che potevano chieder conto della
loro amministrazione.
Per vie meglio accertare la responsabilità di tutti gli uomini
rivestiti di qualche potere, tutte le costituzioni repubblicane
d'Italia avevano leggi analoghe al divieto ed al sindicato de'
Fiorentini. Il divieto era un forzato riposo cui erano ridotti i
magistrati quando uscivano di carica. Dovevano essi astenersi
dalle magistrature per lo meno tanto tempo, quanto era stato
quello delle loro funzioni, e spesso ancora per un tempo molto
più lungo: rientravano allora nell'eguaglianza repubblicana;
trovavansi allora soggetti, come tutti gli altri particolari,
all'impero delle leggi, all'autorità di coloro cui avevano
precedentemente comandato, all'azione dei tribunali, che loro
potevano chiedere conto della condotta che avevano tenuta. Il
sindicato era una disamina politica, che teneva dietro alla
cessazione dell'impiego di tutti coloro che avevano avuto parte in
un'amministrazione di danaro, o nell'autorità giudiziaria; per
costoro la responsabilità non era soltanto eventuale, ma
necessaria; dovevano purgarsi da ogni sospetto intorno alla
passata loro amministrazione, entro quel determinato numero di
giorni che seguiva immediatamente la cessazione delle loro
funzioni.
Tutto il sistema della libertà italiana può risguardarsi come
rappresentato da questi tre assiomi; e secondo lo spirito de' secoli
passati, se si applica ai vocaboli il loro primitivo significato, non
quello che si è loro dato ne' moderni tempi, le costituzioni che
sono fondate su questi tre principj erano realmente le più libere di
tutte. Infatti le repubbliche italiane erano più libere che tutte
quelle della Germania, che le città imperiali ed anseatiche, che i
Cantoni svizzeri, che le corporazioni delle Province unite, e forse
ancora più che le repubbliche dell'antichità. Sì le une che le altre
non si erano proposte lo scopo di proteggere i cittadini contro il
governo, ma di creare un governo, che compiutamente
rappresentasse il popolo, e che fosse in qualche maniera identico
con lui; sì le une come le altre dopo di averlo costituito, eransi
astenute con una cieca ed illimitata confidenza dal porre limiti
all'esercizio del suo potere.
Ma le costituzioni italiane facevano derivare tutti i poteri dal
popolo, e li facevano tutti risolvere nella sovranità del popolo,
ben più che quelle di origine tedesca. Conoscevano esse più
esplicitamente questa sovranità; esse stabilivano un'amovibilità di
tutti gl'impieghi più universale, ed una rotazione più rapida; ed
assicuravano assai meglio la responsabilità de' pubblici
funzionarj. La costituzione di Ginevra era forse la più perfetta, e
la più libera delle costituzioni svizzere: a Ginevra, i sindaci, primi
magistrati dello stato, duravano un anno, ma non erano che i
presidenti di un consiglio esecutivo eletto a vita; gli ordini da loro
dati si confondevano con quelli di questo consiglio, e il sindaco
non era chiamato a veruna responsabilità. Gli avvieri a Berna, i
borgomastri a Zurigo, i landamanni negli altri cantoni, trovavansi
nella medesima relazione tra un consiglio inamovibile ed il
popolo. Uscendo di carica dopo un anno, essi restavano sempre
membri di questo consiglio, che non solo aveva concorso a tutte
le loro misure, e perciò risguardavasi obbligato a difenderli, ma
che era inoltre depositario di tutta l'autorità giudiziaria dello stato,
che solo aveva il diritto di condannare il magistrato colpevole, e
che in favor suo e contro al popolo si trovava nello stesso tempo e
giudice e parte. Tutti i magistrati romani, lasciando le loro
funzioni, rientravano egualmente nel senato, e se dovevano
riconoscere un altro giudice fuori del senato, erano almeno
sempre protetti da questo corpo potente.
Per lo contrario un gonfaloniere ed un priore di Firenze, di
Lucca, di Siena, di Bologna, o di Perugia, non solo più non era in
carica dopo due mesi, ma dopo un anno più non trovava nella
repubblica un corpo che fosse ancora composto dei medesimi
individui che formavano il detto corpo al tempo della sua
amministrazione. Il collegio de' gonfalonieri, quello de' buoni
uomini, il consiglio comune, quello del popolo, tutto era stato
rinnovato; niuno di loro prendeva interesse pel magistrato tratto
in giudizio, niuno aveva avuto parte ne' di lui atti arbitrarj, e non
si adoperava per sottrarlo dalle mani della giustizia. Dopo spirate
le sue funzioni, il primo magistrato della repubblica più non era
in faccia alla legge che un semplice cittadino.
La responsabilità de' magistrati, la dignità de' cittadini,
l'emulazione di tutte le classi della nazione, devono essere
considerate come i veri principj della libertà italiana, e le vere
cagioni della prosperità degli stati repubblicani. Questo è ciò che
veramente li distingue dagli assoluti principati che esistevano
contemporaneamente in Italia; ed infatti se si esaminano i
necessarj risultamenti di questi principj, si vedrà che devono
produrre nelle repubbliche una gran massa di felicità e più ancora
una gran massa di virtù.
E prima, sebbene l'insieme delle garanzie, che noi
risguardiamo oggi come costituenti l'essenza della libertà, non
fosse stata ricercata dal legislatore, nè riclamata dal cittadino,
pure questa civile libertà, questa sicurezza di ogni individuo, non
può essere violata senza cagionare un male comune. Quindi ogni
magistrato, che sentivasi risponsabile di qualunque atto
d'oppressione, di severità, o d'ingiustizia, sentivasi trattenuto,
quando le sue passioni avrebbero potuto strascinarlo, da un
sentimento di timore che non era ragionato.
Il giudice forastiero non riceveva altra istruzione che quella
che gli era data negli assoluti principati; egli poteva a voglia sua
impiegare a Firenze, come a Milano o a Napoli, le più crudeli
torture per iscuoprire i delitti, i più spaventosi supplicj per punirli.
Ma a Firenze la sua autorità spirava dopo un anno, ed in allora la
sua condotta veniva esaminata da persone da lui indipendenti, che
non erano a lui legate da alcun partito, e che per lo contrario,
siccome quelle che battevano la carriera de' pubblici impieghi,
avevano bisogno del pubblico favore. Se esso giudice aveva
esercitate non necessarie crudeltà, se aveva contro di sè stesso
provocato l'odio del pubblico, non poteva in verun modo sottrarsi
al giudizio del sindicato.
I primi magistrati, senza essere i giudici abituali della
repubblica, potevano qualche volta occupare il potere giudiziario;
potevano esercitare un giudizio statario contro i loro nemici o
contro i loro emuli; potevano violentare gli stessi consiglj;
potevano punire non le sole azioni, ma le scritture, le parole, e
perfino i pensieri; ma dopo due mesi altri priori, scelti dal popolo
tra una grande moltitudine di eleggibili, dovevano essere rivestiti
di tutta quell'autorità che i primi avevano deposta. Questi nuovi
priori potevano essere gli amici, i parenti, i fratelli di coloro
ch'erano stati vessati, e potevano vendicarsi colle medesime armi.
La costituzione della repubblica ripeteva sempre ad ogni uomo in
carica questa massima del Vangelo: Non giudicate, e non sarete
giudicati.
Finalmente non era stabilito verun limite alla manìa de'
regolamenti: la legge poteva colpire il cittadino in una quantità di
particolari, che non dovrebbero essere di sua competenza; ma
tutti coloro che concorrevano a fare questa legge, non ignoravano
che altri e non essi avrebbero l'incarico di farla eseguire, e che
entro poche settimane, o tutt'al più entro pochi mesi, vi sarebbero
ancor essi subordinati come gli ultimi de' loro concittadini.
Quindi sebbene la civile libertà, quale l'intendiamo nella presente
età, non fosse nè conosciuta, nè definita, sebbene non avesse
alcuna delle guarenzie credute più necessarie, dessa era assai
meglio rispettata nelle repubbliche italiane che in verun altro stato
dell'Europa; ogni cittadino si credeva sicuro in vita del godimento
della sua sostanza e del suo onore; non temeva che arbitrarie
restrizioni fossero imposte alla sua industria; ogni sua facoltà
aveva un libero sfogo; tutte le vie che conducono alla fortuna
erano aperte alla sua attività, ai suoi talenti: e la fiducia nella
propria sicurezza si faceva maggiore, quando confrontava la
protezione che gli dava la repubblica col continuo stato di timore
e di dipendenza in cui vivevano i sudditi dei vicini principi.
Pure la forma repubblicana e quasi democratica del governo
contribuiva meno alla sicurezza del cittadino, che ai progressi
della sua virtù ed all'intero perfezionamento della sua anima.
Considerando la libertà come noi facciamo, pare che si faccia
consistere la felicità nel riposo; gli antichi la riponevano invece in
una costante attività; il desiderio del cittadino non era in allora
quello di dormire in pace in casa sua, ma di distinguersi con
singolari talenti sulla pubblica piazza, ne' consiglj, e nelle
magistrature, cui chiamavalo la sorte a vicenda; voleva
conseguire da sè medesimo tuttociò che la natura gli aveva
permesso di ottenere, compiere con un pubblico corso la sua
educazione come uomo fatto, e trasmettere a' suoi figli, come
eredità, la gloria che avrebbe acquistata.
Quest'emulazione, che non esiste nei governi dispotici, che ne'
moderni governi rappresentativi è l'appannaggio soltanto di un
piccolo numero di persone, nelle repubbliche italiane era comune
all'intera massa del popolo. La rapidità con cui si rinnovavano
tutte le magistrature, tutti i consiglj, chiamava a vicenda in
brevissimo spazio di tempo tutti i cittadini ad esercitare la propria
influenza sulla repubblica. Non eravi un solo individuo, il quale
per soddisfare ai doveri cui sarebbe bentosto chiamato, non
dovesse fissare la sua opinione sull'esterna politica di tutta
l'Europa, su quella che si confaceva alla sua patria, sulle finanze,
sull'amministrazione, sulla legislazione e la giustizia; non eravi
un solo individuo che non dovesse agire dietro questa propria
opinione, che non potesse essere chiamato a renderne ragione, e
che in appresso non si trovasse risponsabile di ciò che dessa gli
avrebbe fatto fare.
Se dobbiamo risguardare come il migliore de' governi quello
che procura a tutti i cittadini maggiori godimenti e felicità, sarà
giusto di tener conto del continuo divertimento di una nazione;
poichè, a non dubitarne, il governo che le procura
quest'aggradevole occupazione dello spirito, contribuisce assai
più alla sua felicità, che quello che le procurerebbe tutti i piaceri
fisici. Sotto questo punto di vista non si può dubitare che una
nazione, i di cui cittadini tutti hanno lo spirito sempre svegliato,
sempre occupato, e rinnovato da idee variate, profonde, ed
ingegnose, non trovi in questo solo esercizio un continuo piacere;
piacere che non potrebbero farle gustare nè le meccaniche
occupazioni cui sarebbero soltanto addette tutte le classi inferiori
se non fossero libere, nè i grossolani sollievi che le offrirebbero i
diletti de' sensi dopo il lavoro. Non eravi minore diversità tra i
piaceri cui poteva aspirare un cittadino fiorentino, e quelli cui
doveva limitarsi un gentiluomo napolitano, di quella che può
esservi tra i piaceri del filosofo o del letterato, e quelli
dell'operajo. La felicità e la sventura sono proprie di tutte le
umane condizioni, e forse la loro somma è abbastanza
egualmente compensata; ma la felicità dell'uomo che ha coltivato
il suo spirito ed il suo cuore e sviluppate tutte le sue facoltà, è più
conforme alla dignità della nostra natura, ed in pari tempo più
nobile e più dolce: e quando si è gustata una sola volta, più non si
vorrebbe farne cambio con quella che è frutto soltanto del riposo
e dei materiali piaceri.
Pure non è il divertimento, parte così essenziale della felicità,
non è la felicità medesima, che debbano essere lo scopo della
nostra vita, o quello del governo; ma sibbene il perfezionamento
dell'uomo. Spetta al governo il dare compimento alla destinazione
che l'umana natura ha ricevuta dalla provvidenza; e può credersi
che abbia conseguito il suo scopo, quel governo che quando ha
proporzionalmente sollevato un maggior numero di cittadini alla
più alta dignità morale di cui sia suscettibile l'umana natura. Ora,
nella storia del mondo intero, forse nulla ci dà l'idea di una
maggiore propagazione di lumi, di ragionevolezza, di cognizioni
politiche morali ed amministrative, di coraggio civile, di
prontezza e giustezza di spirito, quanto lo spettacolo che presenta
Firenze, quando, fra ottantamila abitanti che conteneva questa
città, due in tre mila cittadini occupavano con un rapido giro tutte
le principali cariche dello stato, e dirigevano il loro governo con
tanta saviezza, con tanta dignità, con tanta fermezza, che gli
davano, tra gli stati dell'Europa, un posto infinitamente superiore
alla misura della sua popolazione e delle sue ricchezze. La
signoria, rinnovata dalla sorte ogni due mesi, sopra una lista
composta di mercanti e di artigiani chiamati ad entrare sei volte
all'anno ne' segreti della politica, dava ai consiglj de' re ed ai
senati delle aristocrazie lezioni di prudenza e di giustizia, che
questi sarebbero stati felici di poter seguire.
Il più potente mezzo d'incoraggiare i progressi dello spirito, è
senza dubbio quello di far gustare i piaceri ch'essi procurano.
Niuno di coloro che potevano associare alle domestiche loro
occupazioni, ai loro meccanici lavori, le alte meditazioni che
richiede l'esercizio della sovranità, si privava di questo piacere:
perciò quanto la posterità di questi medesimi uomini è notabile
per la sua non curanza intorno a tutto ciò che trovasi fuori della
ristrettissima periferia de' suoi interessi del giorno, altrettanto i
repubblicani fiorentini erano animati da una insaziabile avidità
d'imparare. Non eravi veruna cognizione, per quanto lontana
fosse dal domestico loro stato, che non potesse trovare la sua
applicazione nella pratica del governo. Giammai l'oscurità della
loro condizione rendeva impossibile che la loro patria facesse uso
delle loro cognizioni; e se in allora facevasi manifesta la loro
ignoranza, essi venivano messi in ridicolo, o svergognati dai loro
concittadini.
Mentre che il punto d'onore ed il timore del biasimo gli
spingevano costantemente verso la scienza, verso la virtù, e verso
il morale sviluppo di tutte le loro facoltà; l'insieme della loro
esistenza era pubblico: e soltanto coll'acquistare la stima de' loro
concittadini, potevano altresì sperare di ottenerne i suffragj.
Qualunque volta si procedeva ad uno scrutinio generale e si
rinnovavano tutte le borse della signoria, non era un solo
cittadino nello stato la di cui pubblica o privata condotta, le di cui
virtù ed i politici talenti, le di cui maniere, la di cui capacità non
diventassero oggetto dell'osservazione di tutti. Una certa quale
censura era in allora esercitata dalla pubblica opinione sul
complesso della vita d'ogni membro dello stato; e non eravi alcun
uomo, nel quale il timore del biasimo o la speranza degli onori,
non risvegliassero que' virtuosi sentimenti, che senza questo
stimolo sarebbero facilmente rimasti assopiti nel fondo del suo
cuore.
Tale era il sistema dell'antica libertà, ed in particolare della
libertà italiana; sistema tanto diverso da quello adottato ai nostri
giorni, che appena coloro che tengono dietro al primo possono
intendere l'altro. Noi siamo oggi arrivati ad una dottrina più
filosofica intorno all'essenza del governo, a principj più
applicabili ad ogni specie di costituzione. Ma sebbene il sistema
degli antichi fosse affatto diverso dal nostro, sebbene non desse le
molte guarenzie che noi a tutta ragione risguardiamo come
essenziali alla sicurezza de' cittadini, conteneva però il germe di
più grandi cose, e doveva produrre degli uomini che i nostri
governi meglio costituiti forse non produrranno giammai. La
libertà degli antichi, siccome la loro filosofia, aveva per iscopo la
virtù; la libertà de' moderni, siccome la loro filosofia, non si
propone che la felicità.
La migliore lezione che possa ricavarsi dal confronto di questi
sistemi, sarebbe d'imparare a combinarli assieme. Invece di
escludersi a vicenda, essi sono fatti per darsi vicendevolmente la
mano. Una delle specie di libertà pare sempre essere la più breve
via e la più sicura per giugnere all'altra. Oramai il legislatore più
non deve perdere di vista la sicurezza de' cittadini, e le guarenzie
che i moderni hanno ridotte in sistema; ma deve altresì ricordarsi
che d'uopo è cercare il maggiore sviluppo morale. La sua opera
non è compiuta, quando è giunto a rendere il popolo solamente
tranquillo: e quando ancora questo popolo è contento, e felice,
può rimanere ciò nulla meno qualche cosa da farsi al legislatore,
perchè il suo assunto lo obbliga a terminare la morale educazione
dei cittadini. Moltiplicando i loro diritti, chiamandoli a parte della
sovranità, accrescendo il loro interessamento per la cosa pubblica,
loro insegnerà a conoscere i proprj doveri, ed instillerà loro in
pari tempo il desiderio e la facoltà di adempierli.
CAPITOLO CXXVII.
Quali sono le cause che mutarono il carattere degl'Italiani
dopo essere state ridotte in servitù le loro repubbliche.
Nel leggere la storia degl'Italiani del quindicesimo e
sedicesimo secolo, trovando ad ogni tratto nomi di famiglie, di
città, di villaggi tuttavia esistenti, trovando che il linguaggio non
è mutato, che la natura è ancora la medesima, rapportiamo
sempre, involontariamente e per così dire senz'avvedercene, ciò
che conosciamo de' moderni Italiani a quelli di cui studiamo le
azioni; suppliamo per mezzo del confronto a ciò che manca nel
quadro istorico, e ci persuadiamo di esserci formata un'idea tanto
più esatta de' tempi passati, quanto meglio conosciamo i tempi
attuali. Pure questo stesso confronto risveglia una certa quale
incredulità che costantemente accompagna il lettore; la di lui
diffidenza sta sempre in guardia contro tutte le narrazioni di cose
grandi ed eroiche, ed il severo giudizio che diedero le altre
nazioni intorno ai moderni Italiani, viene dal pregiudizio esteso
fino a coloro, ai quali deve l'Europa il rinnovamento della
civilizzazione383.
E per ispirare confidenza nelle antiche virtù, e per ottenere
indulgenza a favore dei deboli moderni, è conveniente e giusto di
mostrare per quali potenti cagioni si mutò il carattere
degl'Italiani; in qual modo dalla prima infanzia fino all'estrema
vecchiaja si fanno loro bevere corrompitori veleni; con quanta
cura venne distrutta la loro energia, la loro vivacità condannata
all'ozio, umiliata la loro fierezza, e corrotta la loro sincerità. Una
profonda compassione per una nazione così riccamente dotata
dalla natura, così crudelmente depravata dagli uomini, dev'essere
il risultato di quest'esame. Rimontando all'esterna cagione che
innestò in essa tutti questi difetti, si rimane facilmente convinto,
che non sono inerenti alla di lei natura; e si è più disposto a
saperle buon grado di tutte le qualità che tuttavia le rimangono, e
di tutte le virtù che potè sottrarre alla perniciosa influenza sotto la
quale viene educata. Fra quanti vizj noi osserveremo nelle
istituzioni della moderna Italia, non avvene un solo che non
faccia in certo modo l'apologia degl'Italiani.
383
Nell'originale "civilisazzione"
Il sole dell'Italia non è meno caldo, nè la terra meno fertile,
che per lo innanzi; le svariate viste degli Appennini sono
egualmente ridenti, i suoi fianchi egualmente sparsi di abbondanti
acque, egualmente coperti da una rigogliosa e magnifica
vegetazione. Tutti gli animali, indivisibili compagni dell'uomo,
conservano la pristina loro bellezza, e le loro abitudini; l'uomo
stesso, nascendo in questa terra tanto favorita dal cielo, riceve
ancora la stessa vivace e pronta immaginazione, la stessa
suscettibilità di passionate impressioni, la stessa attitudine di
spirito per colpir tutto, per imparar tutto nello stesso tempo. Pure
il solo uomo è mutato, perchè l'organizzazione sociale lo riceve
dalle mani della natura e lo modifica, la sua potenza lo investe
nello stesso tempo da ogni lato, e le quattro istituzioni che hanno
un'influenza più universalmente estesa, la religione, l'educazione,
la legislazione ed il punto d'onore, si combinano per agire
contemporaneamente sopra tutti gli abitanti.
Di tutte le forze morali cui l'uomo va soggetto, quella che può
fargli maggior bene o maggior male, è la religione. Tutte le
opinioni che si riferiscono ad interessi superiori a quelli di questo
mondo, tutte le credenze, tutte le sette esercitano sui sensi morali
e sul carattere umano una prodigiosa influenza. Niuna per altro
penetra più avanti nel cuore dell'uomo quanto la religione
cattolica, perchè niun'altra è così gagliardamente costituita, niuna
si è così compiutamente assoggettata la filosofia morale, niuna
ridusse in più stretta servitù le coscienze, niuna instituì, com'essa
fece, il tribunale della confessione, che riduce tutti i credenti nella
più assoluta dipendenza del suo clero, niuna ha ministri più
indipendenti da ogni spirito di famiglia, e perciò più intimamente
uniti dall'interesse e dallo spirito di corporazione.
L'unità della fede, che non può essere che il risultamento di
un'assoluta servitù della ragione alla credenza, e che
conseguentemente non trovasi presso verun'altra religione in così
eminente grado come nella cattolica, obbliga tutti i membri di
questa chiesa a ricevere i medesimi dommi, ad assoggettarsi alle
stesse decisioni, ad uniformarsi a' medesimi insegnamenti. Non
pertanto l'influenza della religione cattolica non è eguale in tutt'i
tempi ed in tutti i luoghi; ella operò diversamente assai in Francia
ed in Germania, da quello che fece in Italia e nella Spagna; anche
la di lei influenza non fu pure sempre uniforme in questi ultimi
paesi; ella variò press'a poco all'epoca del regno di Carlo V, che
corrisponde, rispetto all'Italia, alla distruzione delle repubbliche
de' secoli di mezzo. Le osservazioni che saremo chiamati a fare
intorno alla religione dell'Italia, o della Spagna, ne' tre ultimi
secoli, non devonsi applicare a tutta la chiesa cattolica384.
Siamo qui ridotti ad accennare soltanto la rivoluzione che si
operò nella chiesa romana verso la metà del sedicesimo secolo:
perchè abbisognerebbero discussioni troppo lunghe ed estranee al
nostro soggetto, per farne tutta comprendere l'estensione. I papi
Paolo IV, Pio IV, Pio V, e Gregorio XIII, furono quelli che
operarono tale rivoluzione; il loro spirito persecutore cambiò del
tutto lo spirito della corte di Roma e quello della chiesa italiana; e
nello stesso tempo il concilio di Trento sostituì la più gagliarda e
più imponente organizzazione al legame spesso rilasciato che
univa i principi della Chiesa colla numerosa loro milizia. Fino a
quell'epoca, avevano i papi contratta una specie d'alleanza coi
popoli contro i sovrani; non avevano fatte conquiste che a danno
de' re; dovevano il loro innalzamento e tutti i loro mezzi di
resistenza al potere dello spirito opposto alla forza brutale, e più
ancora per politica che per gratitudine si erano creduti obbligati di
sviluppare questo potere dello spirito. Essi avevano fatto nascere,
essi dirigevano, e chiamavano in loro ajuto la pubblica opinione;
proteggevano le lettere e la filosofia, ed inoltre permettevano, con
una tal quale liberalità, a' filosofi ed a' poeti di deviare
384
Giudiziosamente l'imparziale storico previene il lettore di non dar colpa alla
Chiesa cattolica, cioè universale, di ciò che può rimarcare di riprensibile in
alcune parziali chiese, le quali, sebbene concorrano a formare quella chiesa,
che riconosciamo come santa nella sua unità, cattolicità ed apostolicità, non
possono però individualmente pretendere alla santità ed infallibilità della
dottrina. N. d. T.
dall'angusta linea dell'ortodossia; per ultimo fomentavano lo
spirito di libertà, e proteggevano le repubbliche. Ma quando una
metà della chiesa, seguendo le insegne della riforma, scosse il
loro giogo, e ritorse contro di loro que' lumi della filosofia ch'essi
avevano lasciato risplendere, allora un terrore profondo, incusso
loro da questo spirito medesimo di libertà che avevano
incoraggiato, da questa pubblica opinione che fuggiva loro di
mano e diventava possente di per sè sola, li determinò a cambiare
tutta la loro politica. Invece di mantenersi alla testa
dell'opposizione contro i monarchi, sentirono il bisogno di fare
causa comune con loro, onde contenere avversarj più formidabili
de' sovrani. Contrassero perciò la più stretta alleanza con questi, e
particolarmente con Filippo II, il più dispotico di tutti; e d'allora
in poi ad altro non pensarono che a comprimere le coscienze, ed a
ridurre in ischiavitù lo spirito umano: infatti gli posero un cotal
giogo, che gli uomini non avevano mai portato.
Si disse più volte ne' paesi protestanti, che la riforma era
riuscita utile anche alla Chiesa romana; nè quest'osservazione si
scosta affatto dal vero. In Francia, in Germania, ed in tutti i paesi
in cui le due comunioni trovansi in faccia l'una all'altra, l'esempio
e la rivalità del culto contribuiscono a renderle ambedue
migliori385. Cadauno evitò di dare all'altra occasione di redarguirla
o di accusarla; e l'alto clero della corte di Roma partecipò in
un'altra maniera a questa riforma. Una grandissima mutazione ne'
suoi costumi, un grande accrescimento di fervore nel suo zelo,
illustrarono il nuovo periodo che comincia col concilio di Trento.
Dopo quest'epoca, la corte romana cessò di essere una pietra di
scandalo. I papi ed i cardinali furono d'allora in poi sempre
sinceramente e costantemente animati dallo spirito della loro
religione. La loro autorità crebbe a dismisura ne' paesi da' quali
poterono tenere affatto lontana la riforma: ma la conseguenza di
385
Intendasi rispetto alla morale, perciocchè rispetto al domma le sette
accattoliche non possono in istretto senso migliorare, che abjurando gli errori
che le separano dalla vera Chiesa. N. d. T.
tale autorità, e dello zelo cui andava debitrice, non furono per
avventura apprezzate pel giusto loro valore.
Esiste a non dubitarne un'intima unione tra la religione e la
morale, ed ogni uomo dabbene dev'essere convinto che il più
nobile tributo che la creatura possa dare al Creatore, si è quello di
avvicinarsi a lui colle sue virtù. Però la filosofia morale è una
scienza assolutamente distinta dalla teologia386: ha le sue leggi
nella ragione e nella coscienza; porta con sè il proprio
convincimento, e dopo avere dato uno sviluppo allo spirito colla
indagine de' suoi principj, soddisfa il cuore colla scoperta di ciò
che è veramente bello, giusto e conveniente. La Chiesa si rese
padrona della morale, siccome di cosa di sua pertinenza; sostituì
l'autorità de' suoi decreti, e le decisioni de' padri a' lumi della
ragione e della coscienza, lo studio de' casisti a quello della
filosofia morale, e così mise in luogo del più nobile esercizio
dello spirito una servile abitudine.
La morale, del tutto snaturata tra le mani de' casisti, diventò
straniera non meno al cuore che alla ragione: perdette di vista i
mali che ogni nostro fallo poteva arrecare a qualche creatura, per
non avere altre leggi che le supposte volontà del Creatore; rigettò
la base che le aveva data la natura nel cuore di tutti gli uomini,
per formarsene una affatto arbitraria. La distinzione de' peccati
mortali da' veniali cancellò quella che trovavamo noi stessi nella
nostra coscienza tra le offese più gravi e le più perdonabili: e si
videro disposti gli uni a canto agli altri i delitti che ispirano il più
profondo orrore, co' falli che la nostra debolezza è appena capace
d'evitare.
I casisti presentarono all'esecrazione degli uomini, nel primo
ordine tra i più colpevoli, gli eretici, gli scismatici, i
bestemmiatori. Talvolta riuscirono a risvegliare contro di loro
l'odio il più violento, e quest'odio era più criminoso che l'errore
che lo aveva eccitato: altre volte non poterono trionfare della
386
T.
Anzi la vera e sana teologia non fa che rendere più perfetta la morale. N. d.
compassionevole ragione del popolo, il quale non iscorgeva in
questi grandi colpevoli che uomini strascinati dall'ignoranza,
dall'errore, o da irriflessa abitudine. Nell'un caso e nell'altro, il
salutare orrore che deve ispirare il delitto fu considerabilmente
diminuito; l'assassino, l'avvelenatore, il parricida, vennero
associati ad uomini che si conciliavano un involontario rispetto.
Le buone azioni degli eretici accostumarono a dubitare della virtù
medesima; la loro dannazione fece risguardare la riprovazione
come una sorta di fatalità; ed il numero de' colpevoli si andò
talmente moltiplicando, che l'innocenza parve quasi
impossibile387.
La dottrina della penitenza sovvertì vie maggiormente la
morale di già confusa dall'arbitraria distinzione de' peccati. Era
senza dubbio una consolante promessa quella del perdono del
cielo pel ritorno alla virtù, e quest'opinione è tanto conforme a'
bisogni ed alle debolezze dell'uomo, che formò parte di tutte le
religioni. Ma i casisti avevano snaturata questa dottrina,
imponendo precise forme alla penitenza, alla confessione ed
all'assoluzione388. Un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato
bastante per cancellare una lunga lista di delitti. La virtù, invece
di essere lo scopo costante di tutta la vita, più non fu che un conto
da liquidarsi in punto di morte. Più non vi fu un peccatore così
accecato dalle sue passioni, che non progettasse di dare, prima di
morire, alcuni giorni alla cura della sua salvezza, e che sedotto da
tale confidenza non rallentasse la briglia alle sue sregolate
inclinazioni. I casisti avevano oltrepassato il loro scopo col
fomentare tanta confidenza, ed invano predicarono poi contro il
ritardo della conversione: erano essi soli i creatori di questo
sregolamento dello spirito, sconosciuto agli antichi moralisti; si
387
Il lettore cattolico distinguerà il fatalismo dalle conseguenze de' giusti, ma
imperscrutabili decreti di Dio, che gratuitamente salva gli eletti, e giustamente
condanna i reprobi. N. d. T.
388
Contro le opinioni del nostro autore sul conto della confessione, il lettore
cattolico troverà in ottimi libri chiare ed ortodosse istruzioni, senza che il
traduttore debba entrare in lunghe disamine. N. d. T.
era presa l'abitudine di non considerare che la morte del
peccatore, e non la sua vita, e quest'abitudine diventò universale.
La funesta influenza di tale dottrina si rende in Italia
oltremodo sensibile, qualunque volta viene condotto al patibolo
qualche grande delinquente. La solennità del giudizio e la
certezza della pena colpiscono sempre il più ostinato di terrore,
poscia di pentimento. Veruno incendiario, veruno assassino,
veruno avvelenatore, viene tratto al patibolo senza avere fatta,
con profonda compunzione, una buona confessione, e senza fare
in seguito una buona morte: il confessore dichiara la sua vera
fede, dichiara che l'anima del penitente ha di già presa la via del
cielo; ed il popolo sciocco si contrasta a' piè del patibolo le
reliquie del nuovo santo, del nuovo martire, i di cui delitti
l'avevano forse per più anni compreso di spavento.
Nulla dirò dello scandaloso traffico delle indulgenze, e del
vergognoso prezzo che si pagava da' penitenti per ottenere
l'assoluzione del prete. Il concilio di Trento si prese il pensiero di
minorarne l'abuso; per altro anche presentemente il prete
riconosce il suo sostentamento da' peccati e da' terrori del popolo;
il peccatore moribondo versa con mano prodiga in messe ed in
rosarj il danaro spesse volte raccolto con iniqui mezzi; fa tacere a
prezzo d'oro la sua coscienza, e si forma agli occhi degli ignoranti
un concetto di pietà389. Ma si risguardarono le indulgenze gratuite,
quelle che in forza delle concessioni pontificie si ottenevano con
qualche esteriore atto di pietà, come meno abusive; ad ogni modo
non si saprebbe conciliarne l'esistenza con verun principio di
moralità. Quando vedonsi, per modo d'esempio, promessi
dugento giorni d'indulgenza per ogni bacio fatto alla croce posta
in mezzo al Coliseo, quando si vedono in tutte le chiese d'Italia
tante indulgenze plenarie che si guadagnano con tanta facilità,
come mai conciliare o la giustizia di Dio o la sua misericordia col
389
Questi abusi della credulità ingannata sono caldamente detestati dai cattolici
illuminati e dallo stesso Clero, cui non devono ascriversi le prevaricazioni e le
perfidie di pochi individui. N. d. T.
perdono accordato a così debole penitenza, o co' gastighi riservati
a colui che non trovasi a portata di guadagnarle per così facile
strada?
Il potere attribuito al pentimento, alle cerimonie religiose, alle
indulgenze, tutto si era riunito per persuadere al popolo, che
l'eterna salute o l'eterna dannazione dipendevano dall'assoluzione
del sacerdote; e fu forse questo il più funesto colpo dato alla
morale. L'accidente e non la virtù fu così chiamato a decidere
dell'eterna sorte dell'anima del moribondo. L'uomo della più
specchiata virtù, quello la di cui vita era stata la più pura, poteva
essere sorpreso da subita morte nell'istante in cui la collera, il
dolore, o la sorpresa, gli avevano strappato di bocca uno di que'
profani vocaboli, che l'abitudine ha renduti così comuni, ma che,
giusta le decisioni della Chiesa, non possono pronunciarsi senza
cadere in peccato mortale; allora eterna doveva essere la
dannazione di costui, perchè non si era trovato presente un
sacerdote per accettare la di lui penitenza ed aprirgli le porte del
paradiso. Il più scellerato di tutti gli uomini, coperto d'ogni
delitto, poteva per lo contrario provare uno di que' momentanei
ravvicinamenti alla virtù, che non sono sconosciuti a' cuori più
depravati; poteva fare una buona confessione, una buona
comunione, una buona morte, ed assicurarsi il paradiso.
Così la morale fu interamente pervertita, ed i lumi naturali,
quelli della ragione e della coscienza, che giovano a distinguere
l'uomo dabbene dal malvagio, furono costantemente contraddetti
dalle decisioni de' teologi, i quali dichiaravano dannato il primo,
che una funesta vicenda aveva precipitato in un irremissibile
errore, e beato l'altro, che, toccato dalla grazia, aveva offerto un
efficace pentimento390.
Nè la cosa si ristrinse entro questi confini: la Chiesa collocò i
suoi comandamenti a canto alla gran tavola delle virtù e de' vizj,
390
Intorno alla dottrina della predestinazione, leggasi il prezioso libro di
sant'Agostino de Correctione et Gratia, che rischiara tutte le opposizioni
fondate sull'umano raziocinio. N. d. T.
il di cui conoscimento fu stampato nel nostro cuore. Essa non gli
spalleggiò con una sanzione tanto formidabile quanto quelli della
divinità, e non fece dipendere dalla loro esecuzione l'eterna
salute; ma diede loro una forza che mai non ottennero le leggi
della morale. L'omicida, ancora tutto lordo dei sangue poco anzi
versato, mangia di magro divotamente anche nell'atto che sta
meditando un altro assassinio; la prostituta colloca presso al suo
letto un'immagine della Vergine, innanzi alla quale recita
divotamente il suo rosario; il sacerdote, convinto di avere giurato
il falso, non caderà giammai nell'inavvertenza di bere un
bicchiere d'acqua prima di dire la messa: perciocchè quanto più
un uomo vizioso fu severo osservatore de' precetti della Chiesa,
tanto più si sente nel suo cuore dispensato dall'osservanza di
quella celeste morale, cui sarebbe d'uopo sagrificare le sue
depravate inclinazioni.
Pure la vera morale non lasciò mai di essere l'argomento de'
sermoni della Chiesa; ma l'interesse sacerdotale corruppe nella
moderna Italia tutto quello che toccò. L'amore del prossimo è il
fondamento delle virtù sociali; il casista, riducendolo a precetto,
dichiarò che si peccava col dir male del prossimo; ma con ciò
venne a proibire a tutti il pronunciare quella giusta opinione che
deve separare la virtù dal vizio, e soffocò la voce della verità;
così, accostumando a far sì che i vocaboli non esprimano il
pensiero, altro non fece che accrescere la segreta diffidenza di
ogni uomo rispetto a tutti gli altri. La carità è la virtù per
eccellenza del Vangelo; ma il casista insegnò a dare al povero pel
vantaggio della propria anima, e non per soccorrere il suo simile;
rendette comune l'elemosine indistinte che incoraggiarono il vizio
e l'infingardaggine; ed all'ultimo deviò a beneficio del monaco
mendicante i principali fondi della pubblica carità. La sobrietà e
la continenza sono virtù domestiche che conservano le facoltà
degl'individui, e mantengono la pace delle famiglie: il casista vi
sostituì i cibi detti magri, i digiuni, le vigilie, i voti di virginità e
di castità, ed a lato a queste monacali virtù potevano radicarsi nel
cuore la gola e l'impudicizia. La modestia è la più amabile qualità
dell'uomo posto in qualche elevata carica; ma la modestia non
esclude un certo qual giusto orgoglio, che lo sostiene contro le
proprie debolezze, e lo consola nelle traversie; il casista vi sostituì
l'umiltà, la quale si associa al più insultante disprezzo delle altre
persone.
Tale è l'inesplicabile confusione entro la quale i dottori
dommatici gettarono la morale, e se ne resero esclusivamente
arbitri; così, assistiti dall'autorità civile ed ecclesiastica,
proscrissero ogn'indagine filosofica tendente a stabilire le regole
della probità sopra altre basi che le loro, ogni disamina di
principj, ogni richiamo all'umana ragione. E non contenti di
rendere la morale una particolare loro scienza, ne fecero un
segreto, depositandola interamente nelle mani de' confessori e de'
direttori delle coscienze. Lo scrupoloso cristiano deve, in Italia,
rinunciare alla più bella facoltà dell'uomo, quella di studiare e di
conoscere il proprio dovere; gli si raccomanda di scacciare ogni
pensiero che potesse fargli smarrire la via da loro additata, e
l'orgoglio umano capace di sedurlo; e qualunque volta s'abbatte in
qualche dubbiezza, qualunque volta si trova in qualche difficoltà,
deve ricorrere alla sua guida spirituale. Con ciò la prova delle
avversità, così propria ad innalzare l'uomo, lo rende sempre più
schiavo; e quegli ancora che fu veracemente e puramente
virtuoso, non saprebbe rendersi conto delle regole che si è egli
stesso imposte391.
Sarebbe quindi impossibile il dire quanto in Italia riuscisse
perniciosa alla morale l'istruzione religiosa392. Non avvi in Europa
verun altro popolo più costantemente addetto alle sue pratiche
religiose, e che vi sia più universalmente fedele; pure non ve n'ha
391
L'autore generalizza forse troppo questi principj; poichè, se non altro in
pratica, fu sempre permesso ai dotti l'esame delle verità non rivelate. N. d. A.
392
Cioè di quegl'ignoranti ecclesiastici abborriti anche dai dotti ed illuminati
teologhi, che alla semplice e santa morale del vangelo sostituirono
superstiziose pratiche ed insegnamenti che non possono, senza ingiustizia,
imputarsi alla chiesa. N. d. T.
alcuno che osservi meno i doveri e le virtù di questo
cristianesimo cui mostrasi tanto attaccato. Gl'Italiani imparano
non già ad ubbidire alla propria coscienza, ma a deluderla; tutti
pongono in salvo le loro passioni, col beneficio delle indulgenze,
con mentali riserve, con progetti di penitenza, e colla speranza di
una vicina assoluzione; e ben lungi che la probità vi sia guarentita
dal più caldo fervore religioso, quanto più un uomo si mostra
scrupoloso nelle sue pratiche di divozione, tanto più si deve a
ragione diffidare di lui.
Tra le forze morali che agiscono sopra la società l'educazione è
la seconda in potenza. Coloro ch'essa ha posti in su la via della
virtù possono ancora essere traviati nel corso della loro vita;
coloro che furono dall'educazione depravati, possono tuttavia
essere ricondotti sul sentiere della virtù e del dovere. Ma la
religione stende la sua influenza o benefica o funesta su tutto il
corso della vita; trova appoggio nell'immaginazione della
gioventù, nell'esaltata tenerezza di un sesso più debole, e ne'
terrori dell'età avanzata: segue l'uomo fino ne' suoi più reconditi
pensieri, e lo raggiugne anche quand'egli si è sottratto ad ogni
umano potere. Pure è così grande la reciproca influenza
dell'educazione sulla religione, e della religione sull'educazione,
che appena possono separarsi queste due informatrici cagioni de'
caratteri nazionali.
Infatti l'educazione mutossi in Italia, quando si mutò la
religione. Quando alcuni papi, guidati soltanto dal fanatismo,
vennero sostituiti a coloro che non avevano dato retta che
all'ambizione, l'educazione fu affidata a nuove mani. I due nuovi
ordini de' Gesuiti, e de' Scolopj, s'impadronirono di tutti i collegj;
e si vide tutt'ad un tratto e dovunque assolutamente cessare
quell'ammaestramento indipendente dato a migliaja di scolari da'
celebri filologi, i Guarini, gli Aurispa, i Filelfi, i Pomponio Leto
ec. Questa così numerosa classe di precettori, che diedero un così
rapido movimento allo studio della letteratura nel quindicesimo
secolo e nel principio del sedicesimo, non aveva forse seguita una
filosofia affatto scevra da errori, nè aveva avuti troppo liberali
opinioni; ma ciascheduno di loro era indipendente; ognuno era
spalleggiato dalla propria riputazione; la di lui scuola rivalizzava
con tutte le altre; ed egli cercava, spinto da gelosia verso i suoi
emuli, di scoprire o di abbracciare un nuovo sistema. Egli
adoperava tutta la forza del suo spirito, e tutte risvegliava le
facoltà de' suoi scolari, appellandosi sempre della sua parziale
dottrina all'esame ed al giudizio del pensiere, unica autorità che
potesse decidere tra professori tutti eguali. I monaci, che presero
il posto di questi uomini tanto attivi, vennero strettamente legati
ad una corporazione. Senza prendersi cura del buono o cattivo
esito delle loro scuole, che non poteva alterare il loro voto di
povertà, ed unicamente intenti a quello del loro ordine, tutto
riferivano alla disciplina che avevano ricevuta, tutto
assoggettavano all'autorità spirituale, in nome della quale
parlavano, denunciando il richiamo all'umana ragione come una
ribellione contro le loro dottrine immediatamente emanate dalla
divinità.
Nelle scuole di cotali nuovi istitutori cessò bentosto ogni
sforzo dello spirito. Permisero bensì a' loro discepoli di giugnere
a quelle cognizioni di già acquistate, ch'essi non giudicarono
pericolose; ma loro vietarono l'esercizio delle facoltà che
avrebbero potuto farne loro acquistare di nuove. Ogni filosofia
venne subordinata alla regnante teologia; e rispetto a tutti gli altri
sistemi, tutt'al più si presero da loro gli argomenti co' quali si
potevano confutare. Ogni morale venne assoggettata alle
decisioni della Chiesa e de' casisti, e più non si permise di
ricercare nel cuore que' principj che dall'autorità erano di già stati
giudicati. Ogni politica si modellò sull'interesse del governo
dominante, ed ogni elevato pensiero venne bandito da una scienza
che, invece di essere la più indipendente di tutte, diventò la più
servile.
Pure lo studio dell'antichità non fu sbandito dai collegj; ma
come poteva mai avere un reale allettamento per la gioventù?
Come mai giovare all'istruzione del cuore e della mente, dopo
essere stato spogliato d'ogni nobile sentimento? Qual valore
poteva darsi all'antica eloquenza, allorchè l'amore di libertà
veniva considerato come spirito di ribellione, e l'amore di patria
si condannava come un culto quasi idolatro? Quale impressione
poteva fare la poesia, mentre che la religione degli antichi
trovavasi costantemente opposta a quella de' moderni, siccome le
tenebre alla luce, o quando le sensazioni di un cuore appassionato
si spiegavano dai monaci ai fanciulli? Quale interesse risvegliare
poteva lo studio delle leggi, delle costumanze, delle abitudini
dell'antichità, quando non si confrontavano colle astratte nozioni
di una veramente libera legislazione, di una pura morale, di
abitudini che nascono dal perfezionamento dell'ordine sociale?
Quindi lo studio dell'antichità, siccome ogni altra scienza
monastica, diventò una scienza positiva, una scienza di fatti e di
autorità, in cui più non ebbero veruna parte nè la ragione, nè il
sentimento. S'insegnarono ottimamente ai fanciulli italiani le
eleganze della lingua del Lazio, vale a dire i vocaboli e le regole
dei vocaboli; ottimamente pure la prosodia, ossia le regole della
versificazione, sicchè sapessero fare versi latini, quali possono
farsi da chi possiede tutte le qualità proprie del poeta, tranne il
pensiero e la passione; venne loro insegnata la mitologia con
tanta accuratezza, da fare sovente arrossire quegli uomini
medesimi che credono d'avere avuta una classica educazione; ma
l'indipendenza del pensiero era talmente sbandita da ogni sistema
d'educazione, che non potevasi insegnar loro la rettorica o la
poetica, che dietro autorità universalmente ricevute, e formanti
quasi una nuova ortodossia; onde la stessa teorica della bella
letteratura non produsse in Italia verun'opera singolare 393.
Possiamo domandarci quale nuovo pensiere abbia acquistato un
giovane dopo un cotal corso di studj, come siansi sviluppati il suo
393
Queste idee dell'autore, alquanto astratte, o peccano d'oscurità, o sono
esagerate. Gratuita ad ogni modo può chiamarsi l'asserzione di non avere la
bella letteratura prodotta verun'opera singolare. N. d. T.
cuore e la sua mente, e se non gli sarebbe tornato lo stesso
vantaggio dallo studio delle antichità peruviane, come da quello
delle antichità greche o latine, insegnategli senza il modo di
sentirle.
Sotto un tale metodo d'ammaestramento alcuni uomini,
felicemente organizzati, svilupparono la loro memoria; e se
avevano inoltre ricevuto dalla Natura una feconda immaginazione
ed il delicato senso dell'armonia, poterono emergere poeti nel
nativo idioma, senza che i loro pedagoghi abbiano potuto
soffocare i loro talenti. Ma la parte infinitamente maggiore di loro
giacque in un'assoluta inerzia di spirito. Non solo un giovane
italiano non pensa, ma non sente neppure il bisogno di pensare;
ed il profondo suo ozio sarebbe un supplicio per un uomo de'
paesi settentrionali, sebbene fosse questi naturalmente e meno
attivo e meno impetuoso. Tale ozio fu dall'abitudine trasformato
in bisogno, e quasi in piacere 394. Si occupò tutta l'età della
fanciullezza in modo di non lasciare luogo all'esercizio della
facoltà di ragionare. I monaci che dirigono le occupazioni de'
giovinetti, tolsero tutto il fervore dalle loro preghiere, tutta
l'attenzione dagli studj, tutta l'intenzione da' loro piaceri, tutta
l'espansione dalle loro relazioni.
Gli esercizj di pietà occupano una non piccola parte delle ore
dello scolaro; ma basta che col suono della sua voce si faccia
macchinalmente conoscere presente. Le lunghe monotone
preghiere non possono fissare la sua attenzione; lo stesso
formolario, le mille volte ripetuto, più non parla nè alla sua
mente, nè al suo cuore. Mentre un breve esercizio di divozione
394
Sebbene alquanto copertamente, si viene dal nostro autore tacciando
gl'Italiani di non voler abbandonare il classicismo per seguire i settentrionali.
Più modesto del signor Schlegel e di madama de Stael ec., non osa far pompa
delle nuove dottrine del così detto romanticismo; ma ne sparge accortamente i
semi. Sì: gl'Italiani si gloriano di pensare come i classici greci e latini, e
d'imitarli; e penseranno ancora come i settentrionali e gli imiteranno, quando
questi sapranno produrre più perfette cose che finora non hanno prodotte. N. d.
T.
avrebbe avvisata la sua coscienza, i rosarj, ripetuti per fino tre
volte al giorno senza intenderli, lo avvezzano a separare
totalmente il suo pensiero dal suo linguaggio; e questo diventa un
esercizio di distrazione, se non lo è d'ipocrisia395.
Altre ore sono destinate allo studio delle lingue, della
mitologia, della prosodia, di alcune epoche della storia; ma si
chiama a ricevere queste lezioni la sola memoria, la memoria che
non è risvegliata dalle altre più nobili facoltà del nostro essere, la
memoria che per ubbidienza si carica d'un peso di cui non
conosce l'uso, e che non ravvisa altro scopo nello studio della sua
lezione che quello di recitarla. Lo scolaro non si presta che
languidamente a tale incumbenza: colui che forse dalla natura era
stato dotato della più dichiarata attitudine ad imparare, lascia
abbrutire questa facoltà che non viene mai occupata; colui che
sente nel suo cuore i semi del più nobile entusiasmo, non trova
cosa che serva a svilupparlo. Ambidue risguardano con un certo
quale disgusto i vocaboli e le sterili regole affastellate nella loro
memoria. Nell'istante in cui la sua educazione è terminata,
ognuno discaccia con piacere dal suo capo tutto ciò che vi aveva
ricevuto senza incorporarlo giammai al suo pensiere.
Vero è che nelle scuole e nei seminarj d'Italia viene accordato
qualche tempo al sollievo del corpo ed agli esercizj; ma
l'ubbidienza e la disciplina monastica tengono dietro allo scolaro
anche nel breve tempo che pretendesi di accordare ai suoi
divertimenti. Ogni giorno, nell'ora medesima, esce dal seminario
la lunga processione degli scolari: essi camminano a due a due,
vestiti di lunghe sottane: due preti li precedono, altri si trovano
frammischiati nelle file, altri stanno alla coda. Nè mai accelerano
il passo, nè mai lo rallentano; mai non raccolgono un fiore; mai
non osservano l'industria di un insetto; mai non esaminano la
conformazione di un sasso; mai non riunisconsi in gruppi per
395
Nel Collegio Romano, risguardato come il principale stabilimento
d'educazione del mondo cattolico, ogni scolaro deve ogni giorno ripetere, oltre
varie altre preghiere, cento sessanta volte l'Ave Maria.
giuocare, per disputare, per parlare con confidenza. L'autorità
monastica è sospettosa, avendo imparato a diffidare dell'uomo, ed
a non vedere nel presente secolo che corruzione. Nulla v'ha che al
pedagogo non dia cagione di timore o pei costumi del suo allievo,
o per la disciplina della sua scuola, o per la sua personale autorità.
I legami di amicizia tra i suoi discepoli diventano a' suoi occhi un
cominciamento di cospirazione, e si affretta di romperli; le
confidenze sarebbero lezioni di mal costume, e le rende
impossibili; lo spirito di corporazione degli scolari tenderebbe a
ristringere la sua autorità, ed egli l'attacca come una ribellione;
premia i delatori, e tutto accorda a colui che gli sagrifica il suo
compagno.
Infelice quella nazione che viene così educata! Cosa avrebbe
potuto imparare nelle sue scuole, fuorchè a diffidare del suo
simile, ad adulare, a mentire? Che altro le rimane di tutti i suoi
studj, se non se il disgusto di quanto imparò, e l'incapacità di
abbandonarsi a nuova applicazione? Il suo lavoro non potè in essa
produrre che l'inerzia del pensiere; la distribuzione delle pene e
delle ricompense dovette inspirarle l'ipocrisia; i suoi monaci,
tenendola lontana da ogni pericolo, ne indebolirono e snervarono
gli organi, rendendola diffidente di sè medesima e vile. Gli è un
conforto per la nazione italiana d'essere stata in circostanze di
provare coll'esperienza, che i vizj che le si rinfacciano non
derivano da lei, ma dalle sue instituzioni. Mentre che ella
sperimentava i funesti risultati dei sistemi stabiliti nel suo seno,
una straniera rivoluzione strascinò violentemente moltissimi suoi
giovani allievi nelle scuole degli oltramontani; ed in allora
bentosto sviluppando essi quell'attività della mente tenuta così
lungamente compressa, avidamente abbracciarono quella scienza
dalla quale si erano prima mostrati alieni, e gettarono lontano da
loro quella doppiezza, quella pieghevolezza, non da altro loro
insinuate che dalla disciplina cui erano stati prima assoggettati.
La stessa educazione dei militari campi, o quella
dell'amministrazione civile, basta talvolta a far cadere la crosta
formata da un'instituzione monastica; e l'Italia vede oggi con
orgoglio innalzarsi tra la sua gioventù uomini degni delle sue
antiche repubbliche, uomini che, cancellando la servile impronta
ond'erano stati segnati, conservarono tutto il genio nazionale.
Sono allievi formati dall'educazione monastica che la
legislazione italiana riceve all'uscire dalle scuole, per conformarli
al giogo e farne sudditi ubbidienti. I pensieri di questi allievi non
s'innalzarono giammai verso veruna specie d'astrazione; giammai
non si fecero a disaminare ciò che dev'essere, ma soltanto ciò che
è; mai non rintracciarono l'origine di qualsiasi autorità, essendosi
loro rappresentata ogni cosa, in questo mondo e fuori, come
fondata sull'autorità; e la loro mente si è fatta troppo infingarda
per potere giammai risalire alla sorgente di ciò che si sottomette a
credere. Guidati come ciechi nella loro educazione, e ciecamente
ubbidienti ai loro preti, trovaronsi disposti ad offrire la medesima
ubbidienza ai loro principi396. Non è già un eroico attaccamento,
verso alcune famiglie, che si è radicato in tale o tale altro popolo
d'Italia, come spesso si vide in altre monarchie, ma un'ubbidienza
indolente, e che non è fondata che nell'avversione della lotta e nel
costante desiderio del riposo. Ubbidienza a chi comanda, è una
massima proverbiale rappresentante un complesso di tutti i doveri
politici e di tutti i precetti della prudenza.
Quindi il dispotismo non ha bisogno di trasvestirsi; un sovrano
potere, un illimitato potere viene attribuito al principe; e non avvi
verun diritto, sia sacro quanto si voglia, che si creda intangibile
dalla sovrana possanza. Le leggi sono semplici emanazioni della
volontà del monarca, che non fu consigliato da altra persona; e
ciò viene indicato dal nome che portano di motu proprio. Le
sentenze civili e criminali possono essere riformate dai suoi
rescritti: egli sospende a favore di un individuo le processure de'
396
Nel supposto dell'autore, l'ubbidienza che gl'Italiani avrebbero prestata ai
loro principi non sarebbe stata libera, ma cieca e servile; e gl'illuminati sovrani
della presente età, richiedendo dai loro sudditi una ragionevole ubbidienza,
non vorranno abbandonarli più oltre al monachismo. N. d. T.
creditori; accorda ad un altro la restituzione in integrum dei diritti
perduti già dal medesimo in forza di preventiva prescrizione;
legittima un terzo che è bastardo per farlo succedere co' suoi
fratelli, o in pregiudizio de' suoi cugini; scioglie a favore di un
quarto i vincoli della primogenitura, perchè possa disporre, con
pregiudizio de' suoi figli, dei beni che loro sono sostituiti. I
privilegj delle corporazioni non lo trattengono più di quelli delle
private famiglie, e cambia a suo piacere e per privato fine le
costumanze delle città e le prerogative dei diversi ordini dello
stato397.
Nello stesso modo che tutto dipende dalla sola volontà del
principe, tutto si compie ancora dalla medesima, senza
discussione, senza pubblica deliberazione, senza che la nazione
venga in verun modo chiamata a parte di ciò che si vuole decidere
intorno ai suoi destini. La critica dei varj sistemi economici o
politici adottati dal governo, sarebbe un delitto; è pure vietato lo
scrivere la storia de' moderni tempi, perchè potrebbe tentare i
sudditi a giudicare di ciò che devono risguardare come al di sopra
del corto loro discernimento. Per ultimo le gazzette, che il
generale uso d'Europa costringe a tollerare, mai non contengono,
sotto la data d'Italia, che slanci del pubblico tripudio pel
passaggio di un principe, pel suo matrimonio, o pei natali de' suoi
figliuoli.
La giurisprudenza criminale è quella parte della legislazione
che ha più immediato contatto colla libertà de' cittadini; ed è
perciò quella che può più d'ogni altra alterarne il carattere. Ne'
paesi in cui la processura è tuttavia pubblica, ogni causa criminale
è una grande scuola di morale per gli uditori. L'uomo volgare, che
spesso ha bisogno di essere sostenuto contro le gagliarde
tentazioni che lo circondano, impara all'udienza, che anche il
delitto commesso nel segreto della notte, senza testimonj e con
tutte le precauzioni che può suggerire la prudenza della
397
I descritti abusi, forse praticati da qualche sovrano d'Italia, giovano a far
meglio sentire la retta e paterna amministrazione degli altri. N. d. A.
malvagità, viene non per tanto al chiaro, condottovi da una serie
d'imprevedute circostanze; che la confusa coscienza del colpevole
è la prima a tradirlo, e ch'egli non ha ottenuto alcun vantaggio da
que' delitti che credeva dovere tutti appagare i suoi desiderj.
Conosce che l'autorità che tiene aperti gli occhi sopra di lui è
benefica ed illuminata, e che non castiga il delitto che dopo
averlo conosciuto. Accompagna con tutto il suo cuore la
discussione, e mentre egli lotta a favore dell'innocenza, senza
rincrescimento abbandona il colpevole a tutto il rigore delle leggi.
Ma quando la processura si eseguisce segretamente, che non è
accompagnata da veruna discussione, da verun dibattimento che
chiami il pubblico a parte del giudizio, allora la sentenza capitale
non offre verun compenso alla società per la perdita de' suoi
membri. Tra coloro che assistono al supplicio, altri, compresi da
terrore, accusano il giudice d'ingiustizia e di crudeltà, e prendono
soltanto interesse per gli sventurati, dei quali non conoscono che i
patimenti; altri si ostinano ne' malvagi loro sentimenti,
persuadonsi che il condannato non soggiacque che per propria
imprudenza, e che, trovandosi essi nel caso suo, sarebbero più
fortunati, perchè più accorti. Tutti infine vanno d'accordo a non
trovare nella giustizia criminale che un potere persecutore, un
potere odioso; si uniscono per sottrarre egualmente tutti i
prevenuti alla di lei azione, e caricano di una specie d'infamia
tutti coloro che in qualsiasi modo contribuiscono al compimento
della processura.
Questa lega contro la giustizia criminale si è realmente
formata in tutta l'Italia a cagione del profondo segreto onde si
cuopre la processura; e tanto è radicata la prevenzione contro i
suoi ministri, che la stessa legge fu forzata ad adottarla. Gli
arcieri dei tribunali, i caporali ed i birri, sono dichiarati infami; ed
è facile il comprendere che gli uomini che acconsentono ad
abbracciare un mestiere infamato dal pubblico disprezzo e dal
disprezzo della stessa legge, si dispongono a meritare l'infamia
della loro condizione. Pure fra costoro si sceglie il bargello, che
chiamasi egli stesso loro capo, e nello stesso tempo eseguisce le
incumbenze di pubblico accusatore innanzi ai tribunali, e di
primo magistrato di polizia. L'infamia del suo primo mestiere lo
siegue in questa più ragguardevole carica. L'uomo probo si
vergogna di avere relazione di qualsiasi sorta col bargello, d'avere
da lui ricevuto qualche servigio: a fronte di ciò qualunque
cittadino sente continuamente che la sua riputazione, la sua
libertà, la sua vita, dipendono dalle segrete informazioni di
quest'ufficiale. Non avvi persona che possa dirsi sicura di non
essere arrestata nel cuore della notte nella sua propria casa,
legato, tradotto in lontano paese, in forza della sola autorità di
quest'uomo, che dà conto del suo operato al solo ministro di
polizia, o al presidente del buon governo398. L'Italia è
probabilmente il solo paese del mondo, in cui l'infamia legale,
invece di essere incompatibile col potere, sia una condizione
richiesta per esercitare una certa autorità.
Sarebbe così turpe cosa e vergognosa l'esporsi ad essere
paragonato ad un bargello, ad un birro, che un Italiano di
qualunque condizione, quando non abbia perduto ogni buon
nome, non concorrerà giammai a tradurre un delinquente nelle
mani della giustizia. Un impudente furto, uno spaventoso
omicidio, potrebbero eseguirsi in mezzo alla pubblica piazza, che
la folla, anzi che moversi ad arrestare il colpevole, si aprirebbe
per lasciargli adito alla fuga, e si richiuderebbe per trattenere i
birri che lo inseguissero. Il testimonio interrogato intorno ad un
delitto commesso sotto i suoi occhi si reputa offeso, perchè si
tenti di farlo parlare come un delatore. Così viva è la
compassione che eccita il prevenuto, così universale la diffidenza
della giustizia del giudice, che ben di rado i tribunali ardiscono
sprezzare questa generale opinione e pronunciare una sentenza
capitale. Ma ciò non torna a vantaggio dei prevenuti; questi
languiscono talvolta nelle prigioni molti anni, o sono rilegati in
398
Coloro che conoscono l'Italia non hanno bisogno che si vadano loro
indicando i pochi stati presi qui di mira dallo storico. N. d. T.
paesi di cattivo aere, dove la natura fa lentamente e
dolorosamente ciò che il giudice non ebbe il coraggio di fare; ma
l'esempio della pena che segue il delitto, è perduto affatto pel
pubblico.
In quasi tutta l'Italia il giudizio delle cause civili e criminali
trovasi abbandonato ad un solo giudice. Forse saranno andati
errati negli altri paesi, credendo di moltiplicare i lumi col
moltiplicare i giudici; ed egli è il vero che quanto più ristretto è il
numero de' giudici, tanto più ognuno di loro sente crescere la
propria responsabilità, e si fa debito di attentamente studiare
quella causa nella quale il solo suo suffragio può avere tanta
influenza; ma si snatura un tribunale ristringendolo ad un solo
uomo: più non gli si lascia il mezzo di separare i suoi privati
affetti, le sue passioni, i suoi pregiudizj, dalle opinioni che va
formando come uomo pubblico; si espongono le parti ad essere
danneggiate dal suo cattivo umore e dalla sua impazienza, e gli si
toglie il freno salutare che gl'impone la necessità d'esporre i suoi
motivi ai proprj colleghi per guadagnarli alla propria opinione. Il
cuore dell'uomo viene frequentemente agitato da movimenti
contrarj alla giustizia o alla morale, i quali contribuiscono alle sue
determinazioni senza ch'egli se ne accorga. Anche colui che li
sente ne conoscerebbe tutta la turpitudine, ed arrossirebbe di
assoggettarsi alla loro influenza, se fosse costretto a manifestarli.
Come mai un giudice si ridurrebbe a dire ad alta voce:
«Quest'uomo ha una fisonomia che mi spiace; questi è colui che
mi rispose insolentemente, e che mi negò il saluto; è quegli di cui
io aveva preveduta la cattiva riuscita; quegli di cui io aveva uditi
elogj tanto ridicoli ed inquietanti, e mi è ben caro che sia caduto
in errore?» Eppure questa gioja di vederlo colpevole è pur troppo
reale, e dispone a trovare tutte le prove bastanti per condannarlo.
Ad ogni modo il prevenuto deve ancora riputarsi felice,
quando il solo giudice innanzi al quale deve presentarsi, siede
regolarmente sul suo tribunale; ma qualunque volta l'accusatore
gode buona opinione presso il presidente del buon governo, o che
questi non vuole affatto perdere il colpevole, o che l'accusa verte
sopra falli non contemplati da veruna legge, o che trattasi di
punire opinioni o sentimenti sepolti nel segreto del cuore, oppure
che il ministero vuole spalleggiare la domestica autorità d'uno
sposo sopra la consorte o di un padre sopra i figli, il ministro
della polizia dà al vicario o al bargello l'ordine di formare il
processo per via economica. In questi processi, chiamati
economici o camerali, l'accusato non viene ammesso a difendersi,
non gli si partecipano nè l'imputazione, nè le prove addotte contro
di lui, e tutt'al più ha occasione d'indovinare il titolo dell'accusa
dal suo interrogatorio, se pure si dà il caso che venga interrogato.
La stessa sentenza contro di lui pronunciata, non dal giudice
istruttore, ma da quello della capitale, non è motivata: d'ordinario
questa non eccede la prigione in propria casa, o in un convento, la
rilegazione o l'esilio; per altro non pochi sciagurati vennero da
una sentenza camerale chiusi nel fondo di una torre, o rilegati in
paese malsano, per combattere colla febbre pestilenziale delle
Maremme; e ne' tempi di politiche turbolenze, si videro ordinati
in forma economica molti infamanti supplicj.
E per tal modo il salutare effetto che la giustizia doveva
operare sulla moralità del popolo fu interamente perduto in tutta
l'Italia, e produsse anzi sulla maggior parte un effetto affatto
contrario. Ogni suddito trema innanzi ad una autorità non
risponsabile delle sue azioni, che non va soggetta a veruna legge,
che, almeno per conto di alcuni suoi ministri, non lo è neppure a
quelle dell'onore; ognuno si crede sempre circondato da delatori e
da segrete spie, e non potendo mai trovare sicurezza nel
testimonio della propria coscienza, si vede forzato a diventare
abitualmente dissimulatore, cortigiano e vile. Il castigo non gli
sembra giammai una necessaria conseguenza del delitto; i
supplicj, non altrimenti che le malattie, diventano ai suoi occhi
colpi di un fatalismo che opprime l'umana natura; onde il timore
di subirli mai non lo distorna dal cammino del delitto; ed un
assassinio non lo priverà nè del pubblico favore, nè degli asili per
così lunga età offerti dalle chiese399, nè di quelli che offrono
anche a' dì nostri i vicini numerosi confini dei piccoli stati, ne'
quali è divisa l'Italia. Infatti, ad eccezione della Spagna, verun
altro paese non fu giammai macchiato da maggior numero di
assassinj quasi sempre impuniti.
A tutte queste cagioni d'immoralità, d'uopo è aggiugnervi le
abitudini di ferocia, date fino quasi ai presenti giorni dallo
spettacolo della tortura. Questo supplicio dei prevenuti, assai più
crudele che quello de' colpevoli, era sempre destinato all'esempio,
sebbene verun esempio sia forse più funesto che quello dei
tormenti di un uomo, contro il quale non si ha alcuna prova, e che
deve sempre presumersi innocente. Il governo pontificio
prendeva le convenienti misure a fine che, durante il carnevale, si
desse ogni mattina un colpo di corda ad un certo numero di
prevenuti, riservando tutte le pene capitali per lo spettacolo della
settimana grassa, che chiude questi allegri giorni. Questo terribile
cumulo di supplicj veniva appoggiato al desiderio di premunire il
popolo contro il pericolo delle passioni nel principio di cadauno
di que' giorni consacrati al tripudio; ed il popolo, sempre avido di
commozioni, non vi cercava che dei dolori fisici, che in appresso
andava a cercare nuovamente nei combattimenti dei tori sul molo
del sepolcro d'Augusto. Allora Roma moderna non poteva
invidiare le pugne de' gladiatori di Roma idolatra: che se l'arena
non era bagnata da tanto sangue, più crudeli invece e più lunghi
erano i patimenti che formavano lo spettacolo.
La morale influenza della civile legislazione non ha la forza
della criminale sopra coloro che sono colpiti dall'ultima; ma la
prima è più universale, siccome quella che tocca tutti gl'individui.
Tra i sudditi tutte le proprietà si distribuiscono secondo le
disposizioni delle leggi civili, e questa distribuzione fu mutata
nella circostanza della soppressione della libertà. I principi,
creandosi una nuova nobiltà, vollero rendere indipendente da
399
Malgrado il motu proprio, nello stato ecclesiastico, le chiese servono ancora
di rifugio agli assassini ed ai ladri.
ogni vicenda il patrimonio di quelle famiglie; a tale oggetto
incoraggiarono i padri a fondare per testamento perpetue
sostituzioni, primogeniture, commende, dando loro in tal
maniera, anche dopo la morte, un diritto sulle loro proprietà,
spogliandone le susseguenti generazioni, e riducendole a non
godere che il fedecommesso di un diritto limitato dall'autorità de'
loro antenati, e dall'aspettativa de' loro discendenti. Le più fatali
conseguenze non tardarono ad emergere da quest'innovazione
nella legislazione, che diseredava i vivi a favore degli estinti e de'
figliuoli che non erano ancora nati; furono queste tanto evidenti,
che nel diciottesimo secolo i più saggi principi cercarono di
abolire i fedecommessi favoreggiati dai loro predecessori. I
detentori de' terreni, più non considerandosi che come
usufruttuarj, parevano farsi un dovere di danneggiare un fondo di
cui non potevano disporre a voglia loro: la loro fortuna più non
essendo proporzionata all'estensione de' loro beni, uno stato
d'angustia e di miseria, piuttosto che uno stato di opulenza,
diventò ereditario colle grandi proprietà; i creditori, ingannati
dalle grosse rendite di cui godeva un grande proprietario,
trovavansi spogliati, quando esso proprietario moriva, del danaro
sovvenutogli. Tale ingiustizia incoraggiava i sovventori all'usura,
i sovvenuti alla mala fede, e complicò ed accrebbe all'infinito le
procedure tra gli uni e gli altri.
Frattanto l'intera nazione si era abituata ad avere prima d'ogni
altra cosa riguardo alla conservazione delle famiglie, e più non
v'ebbe alcun padre che nel suo testamento non sagrificasse tutte le
sue figlie ai maschi, tutti i minori al primogenito, e la propria
vedova alla sua prole. Tutte le domestiche relazioni si mutarono
con questa cattiva distribuzione delle proprietà. Fu distrutto il
filiale rispetto verso la madre, quando questa si trovò per la
propria sussistenza dipendente dal suo figlio: fu esiliata l'amicizia
tra i fratelli, perchè questa vuole l'eguaglianza, e non può
mantenersi tra un assoluto padrone e prezzolati adulatori.
Non solo i figli minori ebbero una parte minore d'assai di
quella dei primogeniti, ma il padre di famiglia si fece un
particolar dovere d'impedire ogni divisione della sua proprietà;
assicurando soltanto a' suoi più giovani figli la mensa in casa, o
come chiamasi dagl'Italiani il piatto, ed in conseguenza
condannandoli all'ozio ed alla viltà. Non può attivarsi verun ramo
d'industria senza un piccolo capitale; convien fare una qualche
spesa per apprendere qualsivoglia professione; non si possono
professare le lettere senz'avere impiegato un capitale in una
sempre dispendiosa educazione: non si può essere agricoltore
senza terreni, mercante senza fondi, fabbricatore senza avere gli
strumenti necessarj e le materie prime. La maggior parte de'
cadetti, esclusi in Italia a motivo della povertà loro da tutti
gl'impieghi, sono forzati a vivere sempre dipendenti e sempre
oziosi. E siccome le famiglie vi sono numerose, appunto perchè il
padre non è chiamato a provvedere alla sorte de' suoi figli; che un
solo fra sei fratelli prende moglie, e lascia tanti figliuoli quanti
ebbe fratelli; i quattro quinti della nazione sono dannati a non
avere veruna proprietà, verun interesse nella vita, veruna
speranza, e a non contribuire con verun lavoro alla prosperità dei
loro compatriotti. Una così numerosa classe di oziosi deve
necessariamente moltiplicare i vizj.
Le nazionali abitudini di giustizia furono ancora pervertite
dalla costante pratica del ricorso alla grazia nelle cause civili.
Sagrificando la legge una giustizia reale ad un'apparenza di
diritto, aveva di già renduto difficilissimo l'acquisto della
prescrizione; questa in molte cause non può allegarsi che dopo un
periodo centenario; e quand'ancora si è acquistato questo diritto, è
spesso in Italia annullata dal principe con lettere di grazia. È pure
necessario in Italia un numero di sentenze maggiore, che in ogni
altro paese, per dare ad una decisione la forza di cosa giudicata.
Ma, anche dopo l'acquisto di questa definitiva presunzione, il
principe accorda nuove lettere di grazia, perchè sia assoggettata a
nuovo giudizio quella cosa che più non dovrebbe essere
argomento di lite.
Per tutte queste cagioni la totalità de' diritti si andò rendendo
incerta; interminabili processure passarono ereditarie nelle
famiglie di generazione in generazione. A misura che trascorre il
tempo tra l'occasione di una processura e la sua decisione, le
prove si rendono sempre più difficili, le presunzioni si vanno
maggiormente equilibrando, ed ognuno, sostenendo il proprio
interesse, si crede meno esposto alla taccia di mala fede.
Dall'altro canto la lunghezza delle processure le moltiplica
maravigliosamente. In una città ove nascano dieci liti all'anno, se
ognuna venisse terminata entro sei mesi, come a Ginevra, non ve
ne sarebbero giammai più di cinque pendenti; ma se, una
compensando l'altra, non sono ultimate che in dieci anni, come
accade nella parte meglio governata d'Italia, ve ne saranno cento
tutte agitate nello stesso tempo: se appena sono terminate in
trent'anni, come nella maggior parte delle italiane province, ve ne
saranno trecento, e forse in maggior numero che non sono gli
abitanti che contiene la città. Infatti, in Italia, sono poche le
famiglie che non abbiano una o più liti; ed il carattere di
raggiratore o di uomo litigioso si è renduto troppo generale
perchè venga imputato a difetto.
Perciò può dirsi che nella moderna Italia la religione, invece di
spalleggiare la morale, ne corruppe i principj; che l'educazione,
lungi dallo sviluppare la facoltà della mente, le ha rendute più
ottuse; che la legislazione, in cambio di attaccare i cittadini alla
patria e di riunirli fra loro con fraterni nodi, li rese timidi e
diffidenti, dando loro l'egoismo per prudenza, la viltà per difesa.
Rimane inoltre una quarta causa, la quale stende la sua influenza
su tutte le umane società, e che con una forza minore delle tre
precedenti, talvolta tiene in bilico, talvolta seconda la loro azione,
e fa, sebbene imperfettamente, riparo al male prodotto dalle
viziose istituzioni: gli è questo il punto d'onore, la di cui potenza,
superiore alla volontà d'ogni individuo, ne altera le primitive
istituzioni, ne appoggia o ne contrasta la morale, e gli segna una
condotta uniforme, invece di abbandonarlo all'istantaneo impero
delle sue passioni.
La legislazione del punto d'onore racchiude in sè medesima un
non so che di liberale; non è altrimenti stabilita da una superiore
autorità, ma dal concorso d'opinioni e di volontà indipendenti:
onde allorchè gagliardamente si mantiene in un governo
monarchico, lo modifica, e non gli permette di declinare in un
perfetto despotismo. Dall'altro canto questa legislazione non è
mai fondata sopra i veri principj della morale, ed il numero delle
naturali inclinazioni che vengono da lei corrotte, vince il numero
di quelle che conserva o che rende più forti.
L'impero del punto d'onore rendesi appena sensibile nelle
repubbliche, perciocchè la pubblica opinione vi esercita una tale
potenza che va sempre modificando i più accreditati pregiudizj, e
vi giudica le persone non dietro astratte ed inflessibili regole, ma
dietro il complesso delle loro azioni. In una repubblica non si
distingue l'uomo virtuoso dall'uomo d'onore; nè questi due
caratteri erano pure distinti negli stati dell'antichità. Le prime
nozioni del punto d'onore furono portate negli stati meridionali
dalle conquiste de' popoli teutonici, ma si mescolarono cogli altri
elementi della pubblica opinione, e non formarono un eminente
carattere nella storia delle repubbliche italiane. L'introduzione in
Europa di alcune opinioni particolari degli Arabi, diede agli
Spagnuoli, che furono i primi che da loro le ricevettero, un punto
d'onore di diversa natura; il quale punto d'onore venne inseguito
adottato in tutti i paesi sui quali la monarchia spagnuola venne
stendendo la sua influenza.
La legislazione dell'onore arabo e castigliano fu dunque
importata in Italia, nel sedicesimo secolo, da quelle medesime
armi spagnuole, che distrussero quelle repubbliche intorno alle
quali ci siamo così lungamente intrattenuti. Ella vi si mantenne in
pieno vigore, finchè Carlo V ed i tre Filippi, di lui successori,
conservarono un assoluto dominio sopra le più belle province
d'Italia; s'indebolì negli ultimi anni del diciassettesimo secolo, e
cessò affatto nel diciottesimo: può dirsi che riuscì egualmente
contraria ai progressi dei lumi e della ragione colla sua durata e
colla sua caduta.
Il punto d'onore che gli Spagnuoli avevano ricevuto dagli
Arabi, sembra riferirsi a tre primarj fondamenti. Il primo consiste
in una esagerata delicatezza rispetto alla castità delle donne:
allorchè questa virtù rendesi leggermente in taluna di loro
sospetta, non soccumbe essa sola al disonore, ma la stessa
infamia copre egualmente il padre, il fratello, il marito. Il secondo
è una delicatezza non meno esagerata rispetto al valore degli
uomini, che, posto egualmente in luogo di tutte le altre virtù,
viene a compromettere tutta la famiglia in un solo individuo. Il
terzo è una specie di religione di vendetta, che non ammette
verun'altra riparazione per l'offeso che la morte dell'offensore.
L'introduzione di queste opinioni in Italia variò la condizione
delle donne, le quali perdettero l'onesta libertà di cui avevano
goduto ne' tempi delle repubbliche; ed i padri loro ed i mariti,
invece di confidare nella loro virtù e prudenza, più non credettero
di trovare sicurezza che tra inaccessibili mura; essi più non
dovevano temere per conto della loro sola debolezza; ma un
accidente che le esponesse agli occhi della gente, una parola mal
ponderata,
un'imprudente
conghiettura,
bastavano
a
compromettere l'onore della casa, e con ciò la vita e le sostanze di
tutti gl'individui che la componevano. Più non teneva aperti gli
occhi sopra di loro la gelosia dell'affetto, ma la gelosia assai più
sospettosa della vecchiaja, che le guardava in quel modo che
l'avaro tien cura del suo tesoro. Quanto più si andavano
accrescendo l'esteriori precauzioni, che si moltiplicavano le
vecchie custodi che mai non le perdevano di vista, le inferrate che
chiudevano le loro case, i veli che le nascondevano a tutti gli
sguardi, tanto più veniva trascurata l'educazione morale, che
avrebbe loro dati migliori e più virtuosi mezzi di difesa. La
sospettosa vigilanza de' loro custodi aveva liberate le loro
coscienze da ogni responsabilità. Quanto più grandi erano gli
sforzi che si andavano facendo per rendere loro impossibile ogni
estranea relazione, tanto più esse volgevano tutti i loro pensieri,
tutta l'accortezza del loro spirito verso la galanteria; e per tutto il
tempo che furono soggette alla più severa vigilanza, la loro
condotta non fu forse più pura che quando diventò di moda lo
stesso sregolamento.
Frattanto allorchè, in sul declinare del XVII secolo, si andò
rilasciando il punto d'onore spagnuolo, non si sostituì alla virtù
femminile verun'altra salvaguardia; non venendo le donne meglio
ammaestrate ne' loro doveri, esse non trovarono un più solido
appoggio ne' loro proprj sentimenti, e lo stesso buon gusto della
società loro non prescrisse veruna legge intorno alla decenza de'
loro discorsi e del loro contegno. Le giovanette, educate nei
conventi, vi ricevevano tali ammaestramenti, che per la severità
loro non erano praticabili. Loro si rappresentavano le sale della
danza e dello spettacolo, come luoghi ne' quali il demonio
esercita le più formidabili seduzioni; la curiosità di osservare un
uomo dal balcone veniva loro rappresentata poco meno criminosa
che l'attentato di aprirgli lo stesso balcone per riceverlo di notte
nel proprio appartamento. Il desiderio di piacere e gli eccessi
dell'amore furono loro posti innanzi sullo stesso livello. Lo sposo
che riceve una fanciulla quand'esce di convento, è forzato a
disfare l'opera della sua educazione; d'insegnarle che tutte quelle
cose che le furono dette doversi fuggire non sono peccati; che
tutto ciò che resta vietato alle religiose non lo è alle secolari.
Allora crollano tutti i principj di lei; la seduzione del mondo
comincia; le corrotte maniere della società le inspirano nuove
idee; l'esempio la seduce; lo sposo cui venne accompagnata non
fu da lei scelto, ed il più delle volte non veduto prima di sposarlo.
Se in appresso la pace domestica, la fedeltà conjugale, la dolce
confidenza, sono sbandite dalle famiglie, non debbonsi
condannare, ma compassionare le donne italiane; bisogna cercare
più in alto la sorgente del disordine, e convenire che l'educazione,
le leggi, i costumi, e non la natura le hanno fatte quello che sono.
Abbiamo osservato che nella più fiorente epoca delle
repubbliche italiane, il valore, lungi dall'essere apprezzato come
meritava a petto alle altre virtù, non otteneva neppure dalla
pubblica opinione la debita stima. I soldati altro in allora non
erano che mercenarj adoperati nell'eseguire gli ordini di altri
uomini, che in una più sublime carriera avevano conseguita una
più alta riputazione. Il magistrato, che brillava ne' consiglj colla
sua eloquenza, colla prudenza, colle risoluzioni, non si curava di
pareggiare il valore militare del soldato che prendeva al suo
soldo; dava all'opportunità prove di civile coraggio, spesso meno
frequente e più difficile; ma protestava senz'arrossire, che non si
credeva capace di combattere. La repubblica fiorentina ebbe a
soffrire più d'ogni altra per avere fatto così poco conto del valore;
conobbe per reiterate disgrazie, che niuna virtù non dev'essere
rifiutata da verun governo, e fu spesso tradita dai generali e dai
soldati da lei chiamati da altri paesi, perchè essa aveva trascurato
di formarne tra i proprj cittadini.
Ma le spaventose guerre del principio del sedicesimo secolo
richiamarono gl'Italiani alle armi, e dopo tale epoca professarono
questo nuovo mestiere con tanto maggiore impegno, in quanto
che si trovarono esclusi da tutti gli altri. In tutto il sedicesimo
secolo si assoldarono in folla sotto le bandiere spagnuole, mentre
altri reggimenti italiani erano levati per servizio della Francia, e
militavano gloriosamente nelle guerre civili di quel regno. In tutta
la seconda metà del sedicesimo secolo la fanteria italiana si
risguardò come perfettamente uguale alla spagnuola, e l'una e
l'altra occupavano il primo luogo tra le truppe delle più guerriere
nazioni d'Europa. Ambedue erano state formate dagli stessi
ufficiali, e andavano soggette agli stessi pregiudizj. Il punto
d'onore militare italiano non fu diverso da quello degli Spagnuoli.
Le due nazioni sentirono nello stesso modo le stesse offese, le
stesse provocazioni, i medesimi sospetti.
Ma la milizia spagnuola conservò l'intera sua riputazione in
tutto il diciassettesimo secolo, malgrado il decadimento della
monarchia; la milizia italiana perdette assai più presto tutto il suo
credito. I soldati non si arrolavano che di contro genio in eserciti
sempre mal pagati, sempre malcondotti, e che malgrado il loro
valore andavano esposti a continue sconfitte. Nelle province
suddite d'Italia, che i vicerè spagnuoli governavano con
diffidenza, tutto invitava la nobiltà al riposo ed alla mollezza, che
soli non eccitano gelosi sospetti. Gl'Italiani avevano mostrato che
potevano essere valorosi, ma non lo furono lungamente in così
svantaggiose circostanze; e quando deposero le armi, la pubblica
opinione più non li chiamò a difendere nuovamente la riputazione
del loro valore. Allora si vide, e ciò si vede anche presentemente,
uomini distintissimi per natali, pel grado che occupano, e per tutte
le circostanze che fanno supporre una liberale educazione,
confessare apertamente la loro pusillanimità. Parlano senza
vergognarsi della paura avuta; confessano che le loro mogli sono
più coraggiose di loro; nè il pronunciare queste parole costa
qualche cosa al loro amor proprio; nè cotesta confessione non
eccita le fischiate, nè procaccia400 loro l'universale disprezzo. Pure
se il coraggio è una virtù naturale all'uomo, la paura è altresì una
delle passioni della sua natura. Conviene che sia compressa,
domata dalla volontà, dall'educazione, dalla vergogna. Quando gli
si dà intera licenza, essa si rende signora dell'animo, lo guasta, ed
invilisce tutta intera la nazione. Si sarebbe potuto temere che tale
non fosse per essere la condizione della nazione italiana, e forse
ogni altra perdendo il suo punto d'onore avrebbe ancora con lui
perduta ogni energia, ma un'inaspettata esperienza ha
recentemente dimostrato che quegl'Italiani che avevano così
compiutamente dimenticato il coraggio, lo ricuperavano più
facilmente che ogn'altra nazione, tosto che veniva in loro
risvegliato il punto d'onore, e facevasi loro travedere una vera
gloria.
400
Nell'originale "procacci"
La sanzione di questa legislazione del punto d'onore, che gli
Spagnuoli portarono in Italia, nel sedicesimo secolo, fu la
necessità imposta ad ogni uomo d'onore di vendicarsi dell'offesa.
Senza alcun dubbio il bisogno della vendetta è fino ad un certo
punto un sentimento connaturale all'uomo; è composto da un
desiderio di giustizia, e da un movimento di collera; ed in questi
limiti si trova egualmente presso tutti i popoli, tanto antichi che
moderni. Ma il sistema di vendetta che gli Spagnuoli ricevettero
dagli Arabi e dai Mori, e che in appresso comunicarono a tutta
l'Europa, è tutt'altra cosa che questo naturale sentimento, ed è
basato sopra un'idea di dovere. Il Moro non si vendica perchè la
di lui collera sia ancora viva, ma perchè la sola vendetta può
allontanare dal suo capo il peso dell'infamia che l'opprime. Si
vendica perchè a creder suo non avvi che un'anima vile che possa
perdonare gli affronti, e conserva il suo rancore, perchè, se lo
sentisse spegnersi, crederebbe di avere col rancore perduta una
virtù.
Questo codice di vendetta fu presentato alle nazioni
settentrionali in quel tempo in cui i duelli giudiziarj erano stati di
fresco soppressi. Prese in certo qual modo il loro luogo, ed il
duello lavò le offese dell'onore con una sufficiente apparenza di
ragione; perciocchè la più mortale offesa essendo quella di porre
in dubbio il coraggio di un uomo, il valore con cui presentavasi a
singolare certame, era il mezzo più ovvio di dissipare questa
dubbiezza. Così videsi presso i Francesi, gl'Inglesi, i Tedeschi, la
primitiva idea della vendetta disgiungersi affatto dall'azione
medesima che n'era rappresentata come una conseguenza. Un
uomo d'onore si batte non già per vendicarsi, ma per tenersi in
possesso di quell'onore ch'era sua proprietà, e che sentivasi in
diritto di difendere.
Non fu già in tale maniera, che nel sedicesimo secolo fu
presentata dagli Spagnuoli agl'Italiani la processura degli affari
d'onore; nè così la concepirono i medesimi Italiani, a motivo delle
precedenti loro relazioni coi Mori. Gli uni e gli altri credettero di
ravvisare un'anima grande nella costanza di questi risentimenti.
Pareva loro che l'offeso avesse mostrata maggiore energia, quanto
più lungamente aveva conservato il suo rancore, manifestatolo
con un'esplosione meno preveduta, e cagionato più acerbo dolore
al suo offensore. Non chiedevasi già a colui che si vendicava una
prova di coraggio per ristabilire il suo onore, ma bensì una prova
d'un implacabile odio. E perciò agli occhi loro l'assassinio lavava
l'onore quanto il duello, il veleno quanto il ferro; e la perfidia
sembrava loro essere il maggiore trionfo della vendetta, perchè
l'offeso si era mostrato più compiutamente padrone di sè
medesimo.
Fino dai secoli di mezzo alcune province d'Italia eransi fatte
distinguere per l'atrocità de' loro odj, e delle loro ereditarie
vendette. Allegavansi principalmente Pistoja in Toscana, la
Romagna, tutto lo stato della Chiesa, e più ancora le isole di
Sicilia, di Sardegna e di Corsica, ove la mescolanza co' Mori, ed
in appresso cogli Spagnuoli aveva data maggiore consistenza a
questa barbara legislazione. Pure non fu che nel sedicesimo e nel
diciassettesimo secolo che si rese dominante in tutta l'Italia la
terribile dottrina che ingiugneva ad ogni uomo d'onore il dovere,
non di difendersi, ma di vendicarsi. E401 allora solamente si videro
moltiplicati que' sicarj che appigionavano i loro pugnali, e ridotta
a perfezione la formidabile scienza de' veleni. Allora personaggi
sommamente riputati nella diplomazia, nella Chiesa, nelle lettere,
osarono darsi vanto pubblicamente d'avere compiuta la loro
vendetta; allora finalmente più non risguardandosi il duello come
una sufficiente soddisfazione, due nemici non acconsentirono a
battersi che dopo avere l'offensore chiesto perdono all'offeso;
senza la quale preliminare riparazione, il veleno o il pugnale
potevano essi soli lavare l'onore oltraggiato.
Grazie al cielo questa infernale dottrina è presentemente
affatto dimenticata. Più non si troverebbe in tutta l'Italia un solo
assassino salariato, e se vengono ancora commessi orribili delitti,
401
Nell'originale "Il"
la pubblica opinione almeno più non gli ordina come un dovere.
Forse ancora la sanzione del duello è troppo trascurata, e si
mostra meno severità che non conviene verso coloro che, non
mostrando verun risentimento per le più gravi offese, danno
luogo a supporre non già che abbiano perdonato, ma che non
abbiano osato domandare soddisfazione402.
Frattanto il lungo regno di un pregiudizio così contrario ad
ogni morale ed al vero onore ebbe la più funesta influenza sulle
nazionali opinioni. L'assassinio, a dir vero, non è più un dovere,
ma non è neppure un disonore; è un'idea colla quale ognuno
trovasi continuamente famigliarizzato. L'Italiano lo risguarda
come una funesta conseguenza d'un impetuoso movimento di
collera, di gelosia, di vendetta; egli non sente nel suo cuore
l'irremovibile certezza che non sarà giammai strascinato a dare un
colpo di pugnale, perchè non fu mai avvezzato a risguardare
quest'azione con quell'orrore inesprimibile che inspira il pensiere
di un gravissimo delitto. Dessa è per lui ciò che il pensiero del
duello è per gli uomini scrupolosi delle altre nazioni. Dessa è un
gran peccato che la sua coscienza gli vieta di commettere; ma egli
sente che per simili falli ogni uomo è peccatore; e quando vede
de' sicarj esiliati dal loro paese, o condannati per commessi
assassinj a' pubblici lavori, non prova a riguardo loro che la
profonda compassione che suole eccitare una grande sventura,
non il terrore che deve cagionare un grave delitto.
Nello stato di società in cui trovasi l'Italiano ridotto, tale
sentimento diventa giusto, e con analogo sentimento dobbiamo
noi pure giudicarlo. Senza dubbio nell'Italiano del XVIII secolo
non ritrovasi nè il rappresentante de' Manlj e dei Gracchi, nè
quello de' Doria e degli Albrizzi. L'antica virtù non può nascere,
nè germogliare in una patria serva, lo spirito non si può
sviluppare quando viene allentato da mille ostacoli, ed il
402
Intorno al duello possono vedersi presso tutti i pubblicisti gli argomenti
addotti pro e contro. Rispetto agli stati che hanno leggi proibitive, la quistione
è pienamente decisa. N. d. T.
sentimento non può innalzarsi all'eroismo, quand'è soffocato nel
suo primo nascere. Ma dovremo incolpare lo stesso italiano dello
stato deplorabile in cui è caduto? Quando vediamo concorrere
tante e così potenti cagioni ad abbassarlo non deploreremo
piuttosto in lui l'avvilimento dell'umana dignità, e non sentiremo
che la sventura che lo colpì è la sventura che minaccia noi
medesimi, che minaccia ogni società, ogni nazione che si lascerà
caricare dalle stesse catene?
Ammireremo invece tuttociò che ancora rimane a questa
nazione, che pareva fatta per superare tutte le altre: quello spirito
così aperto e pronto cui non riesce difficile veruno studio, quando
venga intrapreso per uno scopo che lo possa infiammare; quella
flessibilità a tutte le nuove forme, che rende l'Italiano proprio alla
politica, alla guerra, a tuttociò che intraprende di più inusitato, per
mezzo della più rapida educazione; quell'immaginazione
creatrice, che gli conserva, dopo l'impero del mondo che ha
miseramente perduto, quello, forse più ricco, delle belle arti;
quella sociabilità, quelle dolci maniere, che in altri paesi non sono
conosciute che dalle persone di alta condizione, e che in Italia
sono proprie di tutte le classi; quella sobrietà che allontana il
basso popolo dalle orgie e dalle dissolutezze di Bacco in mezzo
alle sue feste ed a' suoi piaceri; quella superiorità dell'uomo della
natura, che si mostra tanto più degno di stima quanto fu meno
cambiato dall'educazione, di modo che il contadino italiano è
tanto superiore al cittadino, quanto lo è questi al gentiluomo;
finalmente quel maraviglioso potere della coscienza, che trionfa
delle più cattive instituzioni, della più fallace educazione, della
più bassa superstizione, del più depravato ordine politico, e che,
sostenendo l'uomo tra le più violenti tentazioni e le più deboli
barriere, diminuisce la frequenza de' delitti assai più che non
sarebbesi potuto anticipatamente calcolarlo. Senza dubbio questi
Italiani, cui abbiamo consacrato un così lungo studio, sono oggi
un popolo sventurato ed avvilito; ma che si ripongano in
circostanze ordinarie, che loro si consenta di percorrere le
vicende di tutte le altre nazioni, ed in allora si vedrà che non
hanno perduto il seme delle grandi cose, e che sono ancora degni
di misurarsi in quello stadio che hanno due volte percorso con
tanta gloria.
FINE DEL VOLUME XVI, ED ULTIMO.
TAVOLA CRONOLOGICA
DEL TOMO XVI.
CAPITOLO CXXI. Apparecchj de' Fiorentini per difendere la loro
libertà; sono assediati dal principe d'Orange. Imprese di
Francesco Ferrucci, commissario generale, nello stato
fiorentino; viene a battaglia col principe d'Orange, e nella
mischia periscono ambidue, capitolazione di Firenze. 15291530
1527
1528
1527
1528
1529
1529
La repubblica fiorentina difende la sua libertà, nel mentre
che il rimanente dell'Italia si sottomette al giogo
dell'Austria
I Fiorentini, che fino allora non avevano mai atteso a trattar
l'arme, le pigliano per difendere la propria libertà
dicembre. Organizzazione dei 300 cittadini della guardia
del palazzo
6 novembre. Organizzazione delle 16 compagnie della
guardia urbana
luglio. Richiamo delle bande dell'ordinanza del territorio
fiorentino
dicembre. Ercole d'Este nominato capitano generale degli
uomini d'arme
aprile. Sono terminate le fortificazioni di Firenze
Maggio. I dieci della guerra prendono Malatesta Baglioni
al loro soldo col titolo di governatore generale
Il gonfaloniere Capponi tenta di riconciliare la repubblica
col papa
Il Capponi chiama alle consultazioni o pratiche molti amici
de Medici
Diffidenza de' consiglj. Nominano essi medesimi la pratica
de' dieci della guerra
Corrispondenza segreta del Capponi con Clemente VII
16 aprile. Lettera sospetta diretta al Capponi trovata da uno
dei priori
17 aprile. Il Capponi è dimesso, e gli succede Francesco
Carducci
Il Capponi si giustifica dell'accusa di tradimento, e viene
assolto
I Fiorentini ricevono l'une dietro alle altre notizie
affliggentissime
Il Governo prende le necessarie disposizioni onde trovare
del denaro
La signoria ordina ai paesani di portare i loro raccolti nelle
fortezze
Settembre. Ercole d'Este, al quale è mandato l'ordine di
recarsi al suo posto, ricusa di ubbidire
Ambasceria de' Fiorentini all'imperatore in Genova
8 ottobre. Il Capponi muore udendo le relazioni
dell'ambasceria; due ambasciatori fuggono
Il papa incarica delle sue proprie vendette contro Firenze
quel medesimo principe d'Orange, che lo aveva tenuto
prigioniere in Roma
1529 fine di luglio. Il papa concede man forte ai soldati del
principe d'Orange, onde farsi pagare il rimanente delle
taglie dovute loro pel riscatto de' cittadini romani
Fine d'agosto. L'esercito del principe d'Orange si raduna a
Foligno
1 settembre. Presa e saccheggio di Spello sui confini del
Perugino
12 settembre. Baglioni, mediante un trattato, apre Perugia
al principe d'Orange, e conduce la sua infanteria ai
Fiorentini
14 settembre. Cortona si arrende al principe d'Orange, e i
Fiorentini evacuano Arezzo e tutto il Val d'Arno di
sopra
18 settembre. Arezzo pretende ritornare ad essere
repubblica sotto la protezione dell'imperatore
Francesco Guicciardini fugge, e si unisce agl'inimici della
sua patria
Alcuni ambasciatori spediti al papa, sono rimandati con
mal tratto
19 ottobre. Le case e i giardini sono tutti quanti atterrati
fino alla distanza di un miglio intorno a Firenze
14 ottobre. Il principe d'Orange pone il suo campo a Pian di
Ripoli sotto Firenze
Napoleone Orsini, abate di Farfa, al servizio de' Fiorentini
Cominciamento de' servigj e della riputazione di Francesco
Ferrucci
1529 novembre. Ferrucci riprende d'assalto Samminiato
10 novembre. Il principe d'Orange dà la scalata a Firenze
ed è respinto
11 dicembre. Stefano Colonna sorprende al loro posto
gl'imperiali della Sciarra
16 dicembre. Morte di Girolamo Moroni nel campo degli
assedianti
23 dicembre. I Fiorentini abbandonati dai Veneziani, che
sottoscrivono una particolar pace coll'imperatore
Fine di dicembre. Un altro esercito imperiale viene ad
accamparsi sulla sponda destra dell'Arno
Raffaele Girolami succede a Francesco Carducci
gonfaloniere
1530 Blocco di Firenze. Il principe d'Orange non tenta di fare
breccia nelle mura
Ercole Rangoni via ne conduce i gendarmi d'Ercole d'Este
26 gennajo. Malatesta Baglioni è nominato capitano
generale
Condotta subdola di Francesco I coi Fiorentini
Nuove condizioni offerte al papa, e da lui rigettate
Predicazioni in Firenze per animare alla difesa della libertà
Frequenti attacchi dei Fiorentini sulle linee nemiche
21 marzo. Sortita generale dei Fiorentini, e sanguinosa
zuffa intorno al cavaliere di Porta Romana
5 maggio. Sortita di Baglioni, che prende d'assalto il
convento di san Donato
1530 10 giugno. Stefano Colonna attacca il conte di Lodroni e il
quartiere dei Tedeschi alla diritta dell'Arno
Successi di Lorenzo Carnesecchi nella Romagna Toscana
I Fiorentini perdono la cittadella d'Arezzo, di Borgo san
Sepolcro e di Volterra
27 aprile. Francesco Ferrucci si parte da Empoli per
ricuperare Volterra
29 maggio. Empoli preso da Sarmiento e da don
Ferdinando di Gonzaga
27 aprile. Il Ferrucci riprende Volterra con grande
spargimento di sangue
Aprile, giugno. Il Ferrucci difende Volterra contro
Maramaldo e Sarmiento
17 giugno. Costringe gl'imperiali a levare l'assedio di
Volterra
Aduna un esercito per far levare l'assedio di Firenze
14 luglio. Parte da Volterra per Pisa
È trattenuto in Pisa dalla febbre
Piano del Ferrucci, per attaccare Roma, rigettato dalla
signoria
30 luglio. Il Ferrucci si parte da Pisa attraversando lo stato
Lucchese
2 agosto. Si avvicina col suo esercito a Gavinana nelle
montagne di Pistoja
Tradimento di Malatesta Bagliori, per cui il principe
d'Orange ha campo di opporsi al Ferrucci
1530 2 agosto. Il principe d'Orange ed il Ferrucci giungono
nello stesso tempo a Gavinana
Il principe d'Orange è ucciso
Gian Paolo Orsini è respinto da Vitelli, pel mentre che il
Ferrucci respinge Maramaldo fuori di Gavinana
Nuovo attacco sopra Gavinana. Il Ferrucci
è preso e ucciso da Maramaldo
4 agosto. Il gonfaloniere sollecita nuovamente il Baglioni
di attaccare gli imperiali
Il Baglioni ricusa apertamente di ubbidire al gonfaloniere
8 agosto. Il gonfaloniere vuole costringere colla forza il
Baglioni ad ubbidire, ma i cittadini lo abbandonano
Il Baglioni dà adito agl'imperiali nel bastione di Porta
Romana
La signoria costretta a porre in libertà i partigiani de'
Medici
La signoria tratta con Bartolomeo Valori, commissario
apostolico, e don Ferdinando di Gonzaga, generale
imperiale
12 agosto. Capitolazione di Fiorenza dietro promessa di
libertà e d'amnistia
20 agosto. Bartolomeo Valori nomina una balìa, dietro
l'autorità di un preteso parlamento
La signoria è dimessa, ed il popolo disarmato
Fine della storia di Jacopo Nardi; e la di lui indole
CAPITOLO CXXII. Violazione della capitolazione di Firenze;
persecuzione di tutti gli amici della libertà. Regno e morte
di Alessandro de' Medici; successione di Cosimo I al titolo
di duca di Firenze. Siena, oppressa dagli Spagnuoli,
abbraccia il partito francese; assedio ed ultima
capitolazione di questa città. 1530-1555
L'Italia dopo il 1530 ricade in quello stato di nullità in cui
era prima del decimosecondo secolo
1122-1530. Grandezza dell'Italia durante i quattro secoli della
sua libertà
L'indipendenza di alcuni piccoli stati, prima del dodicesimo
e dopo il quindicesimo secolo, non basta a far l'Italia
meritevole di particolare istoria in quelle due epoche
L'incoronamento degl'imperatori in Roma era un simbolo
dell'indipendenza italiana che fu soppressa nel 1530
Gli stati italiani, che dopo il 1530 vantavano ancora
indipendenza, non influivano per niente sul rimanente
dell'Europa
Ultimi capitoli consacrati alla decrepitezza della nazione
italiana
L'oppressione del partito della libertà in Siena ed in Firenze
richiede maggiori dettagli
1530 Balìa creata in Firenze in nome della sovranità del popolo
Ottobre. Seconda balìa di 150 membri creata dalla prima
Crudeli vendette del papa, eseguite dalla balìa, contro tutti i
partigiani della libertà
1530 Il papa, di mano in mano che conosce il suo potere più
stabile, va aumentando la sua severità e prolungando i
supplizj
I capi di parte ordinano supplizj in proprio nome, senza
valersi dell'autorità di nessun membro della casa de'
Medici
1531 5 luglio. Alessandro de' Medici entra in Firenze, e viene
da un rescritto dell'imperatore dichiarato capo della
repubblica
Progetti del Guicciardini per mettersi al coperto dell'odio
pubblico
1552 4 aprile. Commissione incaricata di mutare la costituzione
di Firenze
1534
1533
1534
1535
1535
1536
1537
27 aprile. Costituzione monarchica data a Firenze con due
consiglj Tirannide ed universale diffidenza di
Alessandro de' Medici
1 giugno. Pone le fondamenta di una fortezza per
dominare Firenze
Malcontento universale de' capi del partito dei Medici
27 ottobre. Catarina de' Medici sposa Enrico di Francia,
che fu poi Enrico II
25 settembre. Morte di Clemente VII. Alessandro rimane
circondato di nemici
Il cardinale de' Medici si mette alla testa dei nemici di
Alessandro
10 agosto. Ippolito, cardinale de' Medici, avvelenato da
Alessandro
Gli emigrati fiorentini portano le loro lagnanze contro
Alessandro dinanzi all'imperatore in Napoli
febbrajo. Carlo pronunzia un'amnistia a favore degli
emigrati, senza cambiare il governo
Gli emigrati la rigettano
28 febbrajo. Carlo marita sua figliuola con Alessandro, e
gli promette protezione
Lorenzino de' Medici si acquista il favore di Alessandro
con vergognosi servigj
Uccide il duca, ch'egli aveva ad arte condotto in casa sua
Non tenta di sollevare la città, dove non aveva partigiani
Parte alla volta di Bologna e di Venezia, prima che siasi
divulgato l'assassinio del duca
Il cardinale Cibo, ministro di Alessandro, nasconde la
disparizione del duca
7-8 gennajo. Trova il duca morto nell'appartamento di
Lorenzino
8 gennajo. Tutte le fortezze vengono occupate da
Alessandro Vitelli, comandante della guardia del duca
1537
1538
1547
1538
Il senato è sollecitato dal Guicciardini di nominare un
successore al duca
9 gennajo. Viene costretto dal terrore a eleggere duca
Cosimo de' Medici, lontano parente di Alessandro
Guicciardini credeva d'influenzare sull'animo di Cosimo,
che rigetta un cotal giogo
22 gennajo. I cardinali fiorentini entrano a Firenze per
modificarne il governo
1 febbrajo. Sono ingannati dal Medici e rimandati
28 febbrajo. La successione di Cosimo è confermata da una
bolla imperiale pubblicata in Firenze il 21 giugno
seguente
1-15 luglio. Esercito levato dagli emigrati fiorentini alla
Mirandola
15 luglio. Gli emigrati entrano in Toscana e s'innoltrano
fino a Montemurlo
31 luglio. I capi degli emigrati sono sorpresi da Alessandro
Vitelli nella fortezza di Montemurlo, e la truppa loro
viene dispersa
1 agosto. Filippo Strozzi e i suoi compagni fatti prigionieri
Cosimo riscatta dalle mani de' soldati i prigionieri, onde
metterli a morte
20 agosto. Supplizio dei principali emigrati, che sett'anni
prima avevano fondato il potere della casa de' Medici
Filippo Strozzi rimane un anno intero prigioniero di
Alessandro Vitelli
Filippo Strozzi si uccide in prigione, invocando chi lo
vendichi
Lorenzino de' Medici assassinato a Venezia dagli sbirri di
Cosimo I
Cosimo de' Medici allontana da Firenze il cardinale Cibo
e Alessandro Vitelli, che lo avevano innalzato sul trono
1538 I senatori, che aveano cooperato alla sua elezione, sono
tutti allontanati e muojono senza poter ritornare in grazia
di lui
1532 agosto. Clemente VII s'impadronisce d'Ancona a
tradimento, mette a morte i magistrati, e toglie alla città
tutti i suoi privilegj
1530 10 ottobre. Arezzo è sottomessa nuovamente ai Fiorentini,
ed è soppressa la nuova repubblica
La repubblica di Lucca compra a caro prezzo la protezione
dell'imperatore
1538 maggio. Alfonso Piccolomini, duca d'Amalfi, è fatto,
mediante la protezione dell'imperatore, capo della
repubblica di Siena
1541 Primi negoziati de' Sienesi coi Francesi, rivelati da
Cosimo I all'imperatore
Granvella, mandato a Siena, riduce questa repubblica più
dipendente dall'imperatore che non lo era per l'innanzi
1544 I porti dello stato sienese occupati dai fratelli Strozzi
coll'ajuto dei Francesi e dei Turchi
1545 4 marzo. Don Giovanni de Luna e la guarnigione
spagnuola cacciati fuori di Siena dal popolo ammutinato
1546 Congiura di Francesco Burlamacchi per ridonare la libertà
a tutte le repubbliche della Toscana
Il Burlamacchi, allora gonfaloniere di Lucca, è denunciato
da Cosimo I
1546 Viene dato in mano all'imperatore, e condannato a pena
capitale in Milano
1547 20 ottobre. Don Diego di Mendoza mandato a Siena
dall'imperatore
1548 4 novembre. Il Mendoza ne riforma il governo, e lo riduce
ad una intera dipendenza
Mendoza si accinge a fabbricare una fortezza in Siena
1552 I Sienesi dimandano ajuto alla Francia
Insurrezione contro gli Spagnuoli nel territorio di Siena
26 luglio. Gl'insorgenti sono accolti in Siena, e gli
Spagnuoli discacciati
11 agosto. Il duca di Termini introdotto in Siena con una
guarnigione francese
1553 gennajo. Don Pedro di Toledo viene in Toscana per
soggiogarvi i Sienesi, ma muore in capo a sei settimane
» 158
Prima guerra contro Siena, cui pon fine l'apparizione della
flotta turca sulle coste di Napoli
Giugno. Trattato di pace tra Cosimo I e i Sienesi
Cosimo I indotto a servire l'imperatore ad ogni costo, per
timore di Pietro Strozzi ch'era appoggiato dal favore del
re di Francia
1554 26 gennajo. Cosimo raguna le sue truppe, sotto gli ordini
del marchese di Malignano, a Poggibonzi
27 gennajo. Il Marignano prende per sorpresa un bastione
alla porta di Siena
1554 Il Marignano, non potendo penetrare nella città,
intraprende di bloccarla
Egli assedia successivamente le castella dello stato sienese,
e fa appiccare gli abitanti che si erano difesi
Fine di marzo. Rotta di una divisione dell'esercito del
Marignano a Chiusi
Ajuti spediti dai Fiorentini, domiciliati in Lione e in Roma,
all'esercito dello Strozzi, che attaccava Cosimo de'
Medici
11 giugno. Pietro Strozzi esce da Siena, passa sulla riva
sinistra dell'Arno, sottomette Val di Nievole, e rientra in
Siena dopo quindici giorni
Carestia in Siena e nei due eserciti
2 agosto. Rotta di Pietro Strozzi presso Lucignano
Difesa ostinata di Siena, diretta dal signore di Montluc
Fredda ferocia del Marignano, cagione dell'attuale
spopolazione dello stato di Siena
1555 gennajo. Preliminarj di pacificazione, e splendide
promesse fatte da Cosimo I ai Sienesi
2 aprile. Capitolazione di Siena, che mantiene la libertà
della repubblica
21 aprile. Gli emigrati sienesi si ritirano a Montalcino, e vi
si mantengono in repubblica fino al 3 aprile del 1559
La capitolazione di Siena è scandalosamente violata
1557 19 luglio. Cosimo I prende possesso di Siena e l'unisce ai
suoi stati
1527 Lo stato dei Presidj, staccato da quello di Siena, rimane
proprietà degli Spagnuoli
CAPITOLO CXXIII. Rivoluzioni di differenti stati d'Italia, dopo
la perdita dell'indipendenza italiana, fino alla fine del
sedicesimo secolo. 1531-1600.
5 agosto 1529-3 aprile 1559. Secondo periodo fra questi due
trattati. Lotta fra i medesimi rivali, senza speranza
pegl'Italiani di miglior fortuna
1559 3 aprile al 2 maggio 1598. Terzo periodo. Pace
nell'interno dell'Italia
Continua guerra straniera, alla quale la nazione era
indifferente
Oppressione dell'Italia sotto il regime militare Spagnuolo
1529-1600
Scorrerie de' briganti e de' Barbareschi per tutta
Italia
Compendioso racconto della rivoluzione di ogni governo
nel corso degli ultimi due periodi del sedicesimo secolo
1535-1553
Carlo III, duca di Savoja, spogliato de' suoi stati
dai Francesi, e sagrificato dagl'Imperiali
1553-1559
Emmanuele Filiberto, suo figliuolo, è privato dei
suoi stati
1562 Carlo IX gli ritorna le città che occupava in Piemonte
1580-1600
Crescente ingrandimento di Carlo Emmanuele; sue
conquiste nella Provenza e nel Delfinato, durante le guerre
civili di Francia
1588-1601
Contese intorno al marchesato di Saluzzo, che
resta alla Savoja
I quattro più grandi stati dell'Italia, il ducato di Milano, ed i
regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, sottomessi alla casa
d'Austria
1535 24 ottobre. Morte del duca di Milano, dopo un nuovo
tentativo per iscuotere il giogo dell'Austria
1535-1559
Difesa dello stato di Milano, contro gli attacchi de'
Francesi
Oppressione e rovina dei Milanesi sotto l'amministrazione
spagnuola
1563 Tentativi infruttuosi del duca di Sessa per istabilire in
Milano l'inquisizione spagnuola
Il regno di Napoli difeso contro i Francesi
1518-1546
Regno e potenza del secondo Barbarossa, re
d'Algeri, e suoi guasti sulle coste di Napoli, di Sicilia e di
Sardegna
1546-1600
Continuazione de' guasti de' Barbareschi
comandati da Dragut, Piali e Ulucciali
1539-1553
Amministrazione oppressiva di D. Pedro di Toledo
a Napoli
1547 D. Pedro tenta inutilmente di stabilire l'inquisizione in
Napoli
Oppressione de' Regni di Sicilia e di Sardegna
1565 Assedio e memorabile difesa di Malta, che salva la Sicilia
dall'invasione dei Musulmani
1530 Ad onta che si andassero allargando i confini dello stato
della chiesa, decresce nulladimeno la potenza dei papi
1534 12 ottobre.-1549 10 novembre. Regno ed ambizione di
Alessandro Farnese, papa col nome di Paolo III
Paolo III apparenta la casa Farnese con quelle d'Austria e di
Francia
Chiede l'investitura del ducato di Milano per suo figliuolo
Pier Luigi
1545 agosto. Dona a Pier Luigi Parma e Piacenza erigendoli in
ducati
1547 10 settembre. Pier Luigi assassinato dai nobili di Piacenza,
ed i suoi stati invasi dagl'Imperiali
» 203
1549 10 novembre. Paolo III muore, lasciando suo nipote Ottavio
spogliato di tutti i suoi stati
1550 22 febbrajo. Giulio III, successore di Paolo III, rende Parma
a Ottavio Farnese
1551 27 maggio. Il duca di Parma si mette sotto la protezione
della Francia; muove guerra all'imperatore, suo suocero
1556 15 settembre. Piacenza è resa al duca di Parma da Filippo II
1586 18 settembre.-1592 2 decembre. Regno d'Alessandro
Farnese, figlio e successore d'Ottavio, nel ducato di Parma
1549 9 febbrajo.-1555 29 marzo. Regno di Giulio III; quanto
Giulio III fosse portato pei piaceri
1555 23 maggio. Gian-Piero Caraffa, eletto papa col nome di
Paolo IV
Tutto il clero si riunisce per opporsi agli attacchi de'
riformatori
1545-1563
Il concilio di Trento cambia lo spirito della Chiesa
Desso riforma la disciplina del clero, ma aumenta il
fanatismo
Cambiamento totale nel carattere dei papi dopo il concilio
tridentino
1555-1559
18 agosto. Fanatismo persecutore di Paolo IV.
Inquisizione
1556 settembre-1557 14 settembre. Guerra di Paolo IV contro
Filippo II e il duca d'Alba
1569-1585
I regni di Pio IV, Pio V e Gregorio XIII, sono
ugualmente fanatici
1571 7 ottobre. Vittoria della flotta Cristiana sopra i Turchi a
Lepanto
1585 24 aprile.-1590 20 agosto. Talenti e dispotismo di Sisto V
1590-1605 Quattro pontefici regnano fino al fine del secolo
1563-1600 Persecuzioni de' papi contro i protestanti d'Italia
Alimentano le guerre civili, e le macchinazioni del
rimanente dell'Europa
Cattiva amministrazione degli stati del papa. Miseria,
carestia, peste e distruzione della popolazione
Si moltiplicano i masnadieri che formano eserciti
L'abitudine del ladroneccio corrompe i costumi nazionali e
presso i signori feudatarj e presso i paesani della Sabina
1534 31 ottobre. Morte di Alfonso I, duca di Ferrara, al quale
succede suo figliuolo Ercole II
1534-1559
3 ottobre. Regno d'Ercole II, suoi sforzi per
sottrarsi al giogo della Spagna
1559-1597
27 ottobre. Regno d'Alfonso II. Estinzione della
linea legittima della casa d'Este
Don Cesare, figliuolo di un figliuolo naturale di Alfonso I,
è accennato come successore di Alfonso II
1597 Clemente VII dichiara Ferrara unita alla santa sede
1598 13 gennajo. Trattato dietro il quale don Cesare abbandona
Ferrara alla santa sede, e si ritira a Modena e a Reggio
1538 1 ottobre. Morte di Francesco Maria della Rovere, duca
d'Urbino
1538-1574. Regno di Guid'Ubaldo. Oppressione del ducato
d'Urbino
1531-1533
30 aprile. Regno di Giovan-Giorgio, ultimo de'
Paleologhi, nel marchesato di Monferrato
1536 3 novembre. Federico II, duca di Mantova, riceve il
possesso del Monferrato. Regno e successori di lui
Carattere di Cosimo de' Medici, duca di Firenze
1560 Cosimo I crea l'ordine di santo Stefano, per distogliere i
Fiorentini dal commercio
1562 Assassinio di due figliuoli, e morte della moglie di
Cosimo I
1564 Cosimo I cede l'amministrazione a suo figliuolo Francesco
I, ma si riserba l'autorità suprema
1569 Pio V accorda a Cosimo I il titolo di gran duca di
Toscana, che Massimiliano II conferma al figliuolo di lui
il 2 novembre del 1575
1574 21 aprile. Morte di Cosimo I. Successione e indole di
Francesco I
1578 Francesco I fa assassinare o avvelenare tutti i suoi nemici
in Francia e in Inghilterra
1579 Matrimonio vergognoso di Francesco I con Bianca
Capello
1587 19 ottobre. Morte di Francesco I. Indole di Ferdinando suo
successore
Oligarchia Lucchese. I signori del Cerchiolino
1531-1532
Sollevazione repressa in Lucca delle classi
inferiori
1556 9 dicembre. Legge Martiniana, che circoscrive l'oligarchia
Lucchese
Malcontento in Genova a cagione dello stabilimento
dell'aristocrazia
Odio di Gian-Luigi del Fiesco contro Giannettino Doria,
nipote di Andrea
1547 2 gennajo. Cospirazione di Gian Luigi del Fiesco, che
muore appunto quando era per riescire il suo progetto
1560 25 novembre. Andrea Doria muore, dopo essersi
crudelmente vendicato dei Fieschi
1566 I genovesi perdono l'isola di Scio, e la Corsica si ribella
1548-1571
Due tentativi degli Spagnuoli per soggiogare
Genova
1576 17 marzo. Atto di mediazione che ristabilisce la pace tra
l'antica e nuova nobiltà di Genova
1537-1540
Guerra dei Turchi, in cui i Veneziani perdono
l'Arcipelago e il resto del Peloponeso
1570-1573
Seconda guerra de' Turchi, in cui i Veneziani
perdono l'isola di Cipro
Il genio letterario muore in Italia dopo la metà del
sedicesimo secolo
CAPITOLO CXXIV. Rivoluzione de' varj stati d'Italia nel corso
del diciassettesimo secolo. 1601-1700
La storia d'Italia si fa più sterile di mano in mano che più
s'avvicina ai tempi nostri
Il diciassettesimo secolo è un'epoca di morte politica e
letteraria
Un secolo può essere infelicissimo, anche quando le sue
disgrazie non possono essere argomento di storia, e non
lasciano di sè niuna rimembranza
Colpo portato al santo legame del matrimonio dalla moda
de' Cicisbei, cagione universale di calamità in Italia
Scopo politico di questa moda introdottasi nelle corti nel
diciassettesimo secolo
Abitudine del lavoro, onorato nelle repubbliche, a cui
sottentra un nobile ozio
Nel diciassettesimo secolo ognuno si gloria de' vizj che
altre volte cautamente avrebbe nascosti
Aumento del lusso in detrimento del commercio
Nuovi titoli che eccitano la vanità ed aguzzano le
mortificazioni
Stato desolante de' padri di famiglia
Le sostituzioni perpetue gli spogliavano delle loro proprietà
I privati mali di ciascun individuo strascinavano la nazione
ai piaceri de' sensi, che le apparecchiavano nuovi
patimenti
Il diciassettesimo secolo presenta minori calamità; e
maggiore umiliazione del sedicesimo
Divisione del XVII secolo tra Filippo III, dal 13 settembre
1596 al 31 marzo 1621; Filippo IV, morto il 7 settembre
1665, e Carlo II morto il 1 novembre 1700
I principi italiani non approfittano della decadenza della
monarchia Spagnuola per ritornare indipendenti
1621 7 novembre 1659. Lotta fra la Spagna e la Francia.
Carattere delle guerre dei due cardinali Richelieu e
Mazarino
1665-1700
Arroganza di Luigi XIV, meno sentita in Italia che
nel rimanente dell'Europa
Patimenti del ducato di Milano nel XVII secolo, senza
rimarchevoli avvenimenti
Silenzio della storia sulla Sardegna
Onerose contribuzioni del regno di Napoli
1665-1700
Accrescimento delle gabelle, contrario ai privilegj
del regno
1647 7 luglio. Sommossa eccitata dalla gabella de' frutti, diretta
da Masaniello
Fermento simultaneo di tutta l'Europa pella libertà
1647 Il duca d'Arcos, vicerè, compromette la nobiltà di Napoli
col popolo
16 luglio. Masaniello assassinato per ordine del duca
d'Arcos
21 agosto. Avendo il duca d'Arcos rivocate le sue
promesse, ricomincia la sedizione
5 ottobre. Il duca d'Arcos fa bombardare la città dopo la
pacificazione
7 ottobre. Gli Spagnuoli, discacciati dalla città, si ritirano
nelle fortezze
Il duca di Guisa, chiamato a Napoli, è dichiarato
generalissimo della repubblica
1648
1647
1674
1678
1695
1606
1607
1623
1641
1644
1662
1664
Il popolo non pensò che a traslocare l'autorità arbitraria
invece di distruggerla
I Napolitani ingannati dal duca di Guisa e da Gennaro
Annese
6 aprile. Gennaro Annese si rimette egli stesso a Napoli
nelle mani di Filippo IV, che lo fa poi morire
20 maggio. Sommossa di Palermo contro il marchese di
Los Velez
agosto. Sommossa di Messina cagionata dalla violazione
de' suoi privilegj
Ajuti mandati da Luigi XIV a Messina
agosto. I Francesi evacuano Messina precipitosamente
Misera sorte di 7000 Messinesi imbarcatisi co' Francesi
Crudeltà degli Spagnuoli che rientrano in Messina
I rifugiati di Messina espulsi dalla Francia e ridotti alla
disperazione
Rivoluzioni poco importanti dello stato della chiesa nel
XVII secolo
Contese di Paolo V colla repubblica di Venezia a motivo
delle immunità ecclesiastiche
17 aprile. La repubblica di Venezia è scomunicata e
interdetta
21 aprile. Riconciliazione tra Venezia e il papa di cui è
mediatore Enrico IV
6 agosto. Elezione di Urbano VIII; sua prodigalità verso i
Barberini, suoi nipoti
I Barberini cercano di togliere ai Farnesi i ducati di Castro
e Ronciglione
31 maggio. Pace tra i Barberini e i Farnesi, conchiusa
dopo una guerra ridicola
Dissapori di Luigi XIV con Alessandro VII a cagione
delle franchigie del suo ambasciatore
12 febbrajo. Trattato di Pisa, e soddisfazione data da
Alessandro VII a Luigi XIV
1687 30 gennajo. Nuovi tentativi d'Innocenzo XI per abolire le
franchigie. Viene insultato dal marchese di Lavardino
1687 La casa di Savoja dura fatica, nel diciassettesimo secolo, a
mantenersi in quello stato di grandezza cui era salita nel
sedicesimo
1600- 26 luglio 1630. Fine del regno di Carlo Emmanuele I: sua
ambizione
1630 - 7 ottobre 1637.
Regno di Vittorio Amedeo; suo
attaccamento alla Francia
1638 - 12 giugno 1675.
Reggenza di Cristina; guerre civili,
e regno di Carlo Emmanuele II
1675-1700
Principj di Vittorio Amedeo II; sua abilità e poca
buona fede
1600-1609
7 febbrajo. Fine del regno di Ferdinando I in
Toscana; fondazione di Livorno
1609-1621
28 febbrajo. Regno di Cosimo II; suo genio pella
marina
1621-1670
Regno di Ferdinando II; dolcezza, debolezza ed
apatia del governo
1670-1700
Principj di Cosimo III; diffidenza, fasto e
bigotteria di questo principe
1592-marzo 1622.
Regno di Rannuccio I a Parma; sua
tirannide
1622-1646
12 settembre. Regno di Odoardo Farnese; sua
presunzione e suo governo
1646-1694
11 dicembre. Regno di Rannuccio II, diretto da'
suoi favoriti
1597-1628
11 dicembre. Regno di Cesare d'Este in Modena
1629 24 luglio. Alfonso III, suo figliuolo, si fa cappuccino
1629-1658
14 ottobre. Regno e guerre di Francesco I pegli
Imperiali, poi pei Francesi
1658-1662
Regno di Alfonso IV
1662-1694
6 settembre. Regno di Francesco II
1600-1627
26 dicembre. Regni e dissolutezze di quattro
Gonzaga in Mantova
1627 Successione di Carlo Gonzaga, duca di Nevers. Suo
figliuolo sposa l'erede del Monferrato
1630 18 luglio. Sacco di Mantova, assediata dagl'Imperiali.
Calamità del Monferrato
1637-1665
15 settembre. Regno di Carlo II di Gonzaga
1665-1700
Regno, viltà e scostumatezza di Ferdinando Carlo
di Gonzaga
1574-1626
Regno di Francesco Maria della Rovere, duca
d'Urbino
La repubblica di Lucca non presenta in questo secolo
nessun avvenimento
1626 Due fazioni in Genova; quella delle famiglie inscritte e
che governavano, e quella delle famiglie escluse dal
governo
1628 30 marzo. Congiura di Vachero contro l'aristocrazia di
Genova
1684 18 maggio. Bombardamento di Genova per ordine di
Luigi XIV
1600-1619
Vigore della repubblica di Venezia; sua guerra
cogli Uscochi, sudditi dell'Austria
1617 Alleanza de' Veneziani cogli Olandesi; i Veneziani si
avvicinano ai protestanti
1618 Congiura del marchese di Bedmar contro Venezia
1619-1637
I Veneziani sostengono i diritti de' Grigioni nella
Valtellina
1645 25 giugno. I Turchi attaccano Candia. Guerra di 25 anni
1669 6 settembre. Capitolazione di Candia. Pace coi Turchi
1684-1699
Seconda guerra coi Turchi; conquista della Morea;
vittorie di Francesco Morosini e di Konigsmark; pace di
Carlowitz
CAPITOLO CXXV. Ultime rivoluzioni degli antichi stati
d'Italia, dopo l'apertura della guerra della successione di
Spagna fino all'epoca della rivoluzione francese. 17011789
Effetti della schiavitù dell'Italia sulla letteratura e i talenti
Le quattro guerre della prima metà del XVIII secolo
rendono una specie d'indipendenza all'Italia
Ma questa indipendenza non si può mantenere quando lo
spirito di vita è distrutto
1701-1713
Guerra della successione di Spagna
1713 11 aprile. Incremento che riceve la casa di Savoja col
trattato d'Utrecht
1717-1720
Guerra della quadruplice alleanza
1720 17 febbrajo. Pace colla Spagna. Successione eventuale di
Parma e di Toscana promessa a don Carlo
1733-1735
Guerra dell'elezione di Polonia
1738 18 novembre. Trattato di Vienna. Indipendenza del regno
delle due Sicilie
1741-1748
Guerra della successione d'Austria
1748 18 ottobre. Trattato di Aquisgrana: ducato di Parma dato
ad un Borbone
La Toscana promessa al duca di Lorena
Debolezza e nullità dell'Italia ad onta di quanto la pace di
Aquisgrana aveva operato pella sua indipendenza
1675-1730
Regno di Vittorio Amedeo II di Savoja
1703 luglio. Lascia i Borboni per unirsi all'Austria
1706 7 settembre. I Francesi sono sconfitti presso Torino dal
principe Eugenio
Riunione nel Monferrato al Piemonte; l'Austria non cede il
Vigevanasco
1714-1718
Vittorio Amedeo, re di Sicilia; le sue contese col
Clero
1718 18 ottobre. Consente al contraccambio della Sicilia colla
Sardegna
1720 agosto. Vittorio Amedeo entra in possesso della Sardegna
1720-1730
Attività e talenti di Vittorio Amedeo nella sua
amministrazione
1730 3 settembre. Abdicazione di Vittorio Amedeo a favore di
Carlo Emmanuele III
1731 28 settembre. Vittorio Amedeo è arrestato per ordine di
suo figlio
1735 3 ottobre. Carlo Emmanuele III acquista colla pace
Novara e Tortona
1742 1 febbrajo. Trattato d'alleanza della Savoja coll'Austria
pella difesa del Milanese
1743 13 settembre. Trattato di Worms tra i suddetti. Piacenza
promessa alla Savoja
Nello stesso tempo Carlo Emmanuele tratta colla casa di
Borbone
1773 20 gennajo. Morte di Carlo Emmanuele III. Vittorio
Amedeo III gli succede
1701-1748
Smembramento successivo del ducato di Milano
1765 18 agosto-1790 Migliore amministrazione della
Lombardia sotto Giuseppe II
1708 5 luglio. Morte di Ferdinando Carlo di Gonzaga. Il ducato
di Mantova confiscato e riunito alla Lombardia Austriaca
1746 15 agosto. Morte dell'ultimo Gonzaga di Guastalla; suoi
stati riuniti a quelli di Parma
1694-1727
26 febbrajo. Regno di Francesco Farnese a Parma
e Piacenza
1714 16 settembre. Matrimonio d'Elisabetta, nipote di
Francesco, con Filippo V di Spagna
1720 17 febbrajo. Successione di Parma assicurata ad un figlio
d'Elisabetta in forza della quadruplice alleanza
1727-1731
20 gennajo. Regno d'Antonio, ultimo de' Farnesi,
in Parma
1731 Enrichetta d'Este, vedova d'Antonio, dice di essere incinta e
resta a Parma fino a settembre
1732 9 settembre. Don Carlo, figliuolo primogenito d'Elisabetta
Farnese, entra in Parma
1733 Don Carlo si dichiara maggiore nell'età di diciott'anni, e
prende il comando dell'armata Spagnuola
1734 febbrajo. Intraprende la conquista del regno di Napoli,
sotto la direzione del duca di Montemar
I due regni di Napoli e di Sicilia conquistati da don Carlo
1736 3 maggio. Gli Austriaci entrano in Parma ed in Piacenza,
dopo che gli Spagnuoli ne hanno portati via tutti gli effetti
preziosi dei Farnesi
1742 Don Filippo, secondo figlio d'Elisabetta Farnese, pretende
al retaggio di Parma
1745 settembre. Don Filippo occupa Parma poi Milano
1718 18 ottobre. I ducati di Parma, Piacenza e Guastalla
assicurati a D. Filippo
1765 18 luglio. Morte di Filippo. Don Ferdinando gli succede
1694-1737
26 ottobre. Regno di Rinaldo d'Este a Modena e
Reggio
1718 Rinaldo compra il piccolo ducato della Mirandola,
confiscato sull'ultimo dei Pichi
1737-1780
23 febbrajo. Regno di Francesco III; parte che
prende alla guerra della successione d'Austria, come
generale de' Francesi
1780-1796
Regno d'Ercole III. Riunione de' ducati di Massa
Carrara e Modena in conseguenza del matrimonio di
questo principe con Teresa Cibo
Estinzione del maggior numero delle case sovrane d'Italia
1771 14 ottobre. Ultima figlia della casa d'Este, maritata con
Ferdinando d'Austria
1670-1723
31 ottobre. Regno in Toscana di Cosimo III de'
Medici
Matrimonj sterili di tre figliuoli di Cosimo, e di suo fratello
1723-1737
9 luglio. Regno di Giovanni Gastone, ultimo de'
Medici
1737-1765
18 agosto. Regno in Toscana di Francesco II, duca
di Lorena e imperatore
1743 18 febbrajo. Morte della principessa Palatina, sorella
dell'ultimo gran duca Medici
1765-1790
20 febbrajo. Regno di Pietro Leopoldo in Toscana
1738-1759
10 agosto. Regno di don Carlo, Carlo VII e V nelle
due Sicilie
Stato misero della famiglia di don Carlo, che passa al trono
di Spagna
1759-1799
Regno di Ferdinando IV a Napoli
1700-1721
19 marzo. Regno del papa Clemente XI (Giovanni
Francesco Albani)
1721-1724
7 marzo. Regno d'Innocenzo XIII (Michel Angelo
Conti)
1724-1730
21 febbrajo. Regno di Benedetto XIII (Vincenzo
Maria Orsini)
1730-1740
6 febbrajo. Regno di Clemente XII (Lorenzo
Corsini)
1735 Gli stati della Chiesa guastati dagli Spagnuoli e gli
Austriaci
1739 ottobre. Repubblica di san Marino sorpresa dal cardinale
Alberoni, e riunita alla santa sede; poi riposta in libertà da
Clemente XII
1740-1758
3 maggio. Regno di Benedetto XIV (Prospero
Lambertini)
1742-1748
Lo stato della Chiesa guastato durante la guerra
della successione d'Austria
1758-1769
3 febbrajo. Regno di Clemente XIII (Carlo
Rezzonico)
1769-1774
22 settembre. Regno di Clemente XIV (Lorenzo
Ganganelli)
1773 21 luglio. Clemente XIV sopprime l'ordine dei Gesuiti
1775-1779
29 agosto. Regno di Pio VI
Lavori infruttuosi di Pio VI nelle paludi pontine
1700-1713
La repubblica di Venezia non prende alcuna parte
alla guerra della successione di Spagna
1715-1718
La Morca conquistata sui Veneziani da Achmet III
1718 27 giugno. Tregua di Passarowitz, che regola i confini di
Venezia coi Turchi
1700-1789
La storia della repubblica di Lucca è nulla in
questo secolo
1713 La repubblica di Genova compra dall'imperatore il
marchesato di Finale
1730-1768
Guerre de' Genovesi colla Corsica ribellata, che
poi cedono alla Francia
1746 16 giugno. Sconfitta de' Borboni a Piacenza, che espone
Genova alle vendette degli Austriaci
6 settembre. Capitolazione di Genova al marchese Botta,
generale austriaco
Gli Austriaci violano la capitolazione, e riducono Genova
alla disperazione
5 dicembre. Sommossa del popolo genovese che discaccia
gli Austriaci dalla città
10 dicembre. Gli Austriaci ripassano la Bocchetta, e si
ritirano in Lombardia
1748 18 ottobre. La repubblica di Genova compresa nel trattato
d'Aquisgrana
La sommossa di Genova è il solo avvenimento veramente
istorico di questo secolo
1748 La nazione italiana, straniera ai suoi monarchi, non
prendeva nessuno interesse alla loro politica
Distruggendo le forze morali di una nazione, si distrugge la
nazione medesima
L'Italia, alla guerra della rivoluzione, non ha avuto nè la
volontà nè la forza di difendere la sua indipendenza
CAPITOLO CXXVI. Intorno alla libertà degl'Italiani nei tempi
delle loro repubbliche
Paragonando l'Italia quale era nel quindicesimo secolo
all'Italia quale diventò nel diciottesimo secolo, si
conosce la grande influenza della sua libertà
Grandezza dei templi esistenti, e miseria dei fedeli che ora
vi si raccolgono
Frequenza e magnificenza delle città che cadono in rovina
Rinnovamento di un dotto metodo di coltivazione, a
quell'epoca in cui da per tutto i paesani erano schiavi
Immenso capitale impiegato nello scavamento dei canali
della Lombardia, e nell'assodamento a foggia di
terrapieni del suolo della Toscana
L'Italia è la terra dei morti; l'attuale generazione non
avrebbe potuto far nulla di ciò ch'ella possiede
La libertà che diede tanta vita all'Italia, non era quella che
oggi cerchiamo
L'antica libertà era una partecipazione alla sovranità; la
moderna è una protezione della felicità e
dell'indipendenza; quella è attiva, questa passiva
Gl'Italiani chiamavano libero qualunque governo
Repubblicano
Nelle oligarchie le sole famiglie proprietarie della sovranità
godevano della libertà attiva; la libertà passiva non
esisteva per nessuno
Il mantenimento della schiavitù presso gli antichi, aveali
impediti di ricercare nella dignità dell'uomo l'origine
della libertà
L'abolizione della domestica schiavitù fece le repubbliche
italiane di molto superiore a quelle dell'antichità. In qual
modo questa si effettuò
Al tempo dell'impero romano, intere campagne quasi
deserte erano coltivate da mandre di schiavi
La maggior parte degli schiavi delle campagne furono
rapiti dai Barbari
I Barbari, stabilendosi in Italia, costrinsero gli uomini liberi
a lavorare. Invenzione della coltura a metà frutto a favor
loro
Danno bentosto la libertà ai loro schiavi, perchè il lavoro
del libero agricoltore rende loro assai maggior profitto
che non quello dei servi
La legge non abolisce la schiavitù, e i papi spesso la
rinnovarono; ma l'interesse personale l'ha sempre
distrutta
Il fanatismo religioso ha solo conservato i resti della
schiavitù
I filosofi hanno fondato le teorie moderne della libertà
sull'abolizione della schiavitù e la conservazione della
monarchia
La libertà degli antichi essendo un diritto, non si esaminava
se fosse necessaria alla felicità
I moderni hanno esaminato in che modo dalla libertà
dipenda anche la felicità; perchè, secondo loro, tutti gli
uomini hanno diritto ad uno stato di vita felice
Se il governo non protegge cotesta felicità nelle persone,
nell'onore, nelle proprietà, nei sentimenti morali di
ciascun individuo, qualunque sia l'origine di cotale
governo desso è tirannico
Il governo deve proteggere ciascun individuo contro gli
altri, non contro sè medesimo; e perciò l'azione del
governo non si deve estendere nè sui pensieri, nè sulla
coscienza
È un violare la libertà il perseguitare quelle colpe, le quali
non si possono castigare senza un'inquisizione peggiore
pella società che non la colpa medesima
La libertà della stampa, della pubblica difesa delle proprie
opinioni, della petizione, sono le guarenzie politiche di
questa libertà passiva
La libertà dei moderni non era guarentita nelle repubbliche
italiane
La processura criminale vi era viziata dai medesimi difetti
che negli stati dispotici
Divisione dei poteri esecutivi e giudiziarj spesso non
conosciuta
Insufficienti precauzioni per guarentire l'imparzialità dei
giudici
Istruzione secreta, tortura e supplizj atroci
Sentenze pronunziate dalle balìe con rivoluzionaria
Autorità
Gl'Italiani permettevano al governo di giudicare le opinioni
e i pensieri
L'eresia, la magia, il malcontento, sottomessi alla
giurisdizione dei tribunali
La persecuzione della bestemmia fu cagione di processure
vessatorie e quasi sempre ingiuste
Altri delitti di semplici parole castigati con eccessiva
severità
Processi pella conservazione dei costumi spesse volte più
scandalosi dello stesso disordine
La libertà della stampa incognita alle repubbliche Italiane
Il diritto di petizione similmente incognito
La libertà di sostenere le proprie opinioni nei consiglj non
era neppure protetta
La minorità legava la maggiorità con una muta opposizione
L'adesione della minorità spesso ottenuta colla violenza
In che cosa consistesse la libertà delle repubbliche Italiane
Gl'Italiani non erano liberi come governati ma come
governanti
Presso di loro ogni autorità esercitata sul popolo emanava
dal popolo
Dopo un determinato tempo, l'autorità dei mandatarj del
popolo ritornava al popolo; nessuno de' suoi mandati
non era irrevocabile
Eccezione; il doge di Venezia
Altre eccezioni; le famiglie che s'innalzavano alla tirannide
L'esistenza di poteri irrevocabili in una repubblica implica
contraddizione
Ogni depositario dell'autorità pubblica era risponsabile
verso il popolo
Nelle repubbliche, la risponsabilità non viene esercitata sui
magistrati che quando escono di carica
Questo inconveniente è nullo, quando le cariche durano
breve tempo
Divieto, riposo cui erano tenuti i magistrati che uscivano di
carica
Sindicato, inquisizione giuridica e necessaria sulla
amministrazione di alcuni magistrati allo spirare delle
loro funzioni
Superiorità delle costituzioni delle repubbliche italiane su
quelle delle altre repubbliche antiche
La risponsabilità assicurata colla simultanea amovibilità di
tutti i consiglj
La prosperità nazionale era dipendente dalla risponsabilità
dei magistrati, dalla dignità dei cittadini e
dall'emulazione di tutte le classi
Il timore della risponsabilità pone freno al potere
giudiziario
I magistrati temevano coloro che sarebbero per succeder
loro negl'impieghi
Quegli che avea fatto la legge ritornava ad essere semplice
cittadino, e un altro era incaricato di farla eseguire
La libertà italiana assai più contribuiva alla virtù che alla
felicità dei cittadini
Emulazione generale eccitata nel popolo dall'aspettazione
degl'impieghi
È giusto di avere in considerazione il divertimento di una
nazione, poich'esso fa parte della sua felicità; desso era
costante e nobile
Perfezionamento dell'uomo; scopo principale del governo
Insaziabile avidità d'imparare, che allora caratterizzava i
Fiorentini
Censura esercitata dalla pubblica opinione sulla condotta di
ciascuno
La libertà e la filosofia degli antichi avevano per iscopo la
virtù; la libertà e la filosofia de' moderni ha per iscopo la
felicità
È dovere del legislatore di conciliare le due libertà, e
sostenere l'una coll'altra
CAPITOLO CXXVII. Quali sono le cause che mutarono il
carattere degl'Italiani dopo essere state ridotte in servitù le
loro repubbliche
Egli è un errore comune lo attribuire agl'Italiani di una
volta il carattere degl'Italiani d'oggi
I vizj delle pubbliche instituzioni d'Italia fanno l'apologia
degl'Italiani
La religione, l'educazione, la legislazione, e il punto
d'onore hanno, ciascuna per la sua parte, contribuito ad
alterare il carattere nazionale
La religione, fra tutte le forze morali, è quella che può
operare il maggior bene e il maggior male
La religione cattolica non ha la medesima influenza nel
mezzogiorno come nel nord, nè ugualmente dopo come
prima del concilio tridentino
Rivoluzione che comincia nello spirito della Chiesa col
pontificalo di Paolo IV
Spaventati dalla riforma, i papi abbandonano la causa dei
popoli per quella dei re
La riformazione ha corretti i costumi e riscaldato lo zelo,
ma anche aumentato il potere del clero cattolico
La Chiesa, coll'impadronirsi della morale, ha sostituito lo
studio dei casisti a quello della nostra propria coscienza
I casisti hanno fatta la morale estranea al cuore ed alla
ragione
Il salutare orrore che debbe inspirare il delitto fu
considerevolmente diminuito da una erronea
classificazione dei peccati
La dottrina della penitenza e dell'assoluzione riduce il
dovere costante della vita di ogni buon cristiano ad un
conto da regolarsi all'articolo di morte
In Italia il castigo dei condannati li fa sempre parere martirj
agli occhi del popolo
Il concilio tridentino corregge, ma non distrugge il traffico
delle indulgenze
Le indulgenze gratuite non sono meno fatali alla morale
Il caso e non la virtù decise della sorte eterna dell'anima del
moribondo, secondo che egli potè o no confessarsi ed
essere assolto
I comandamenti della Chiesa furono posti invece di quelli
di Dio e della coscienza
Quanto più l'uomo divoto è regolare nelle sue pratiche di
pietà, tanto più si crede dispensato dall'esercitare la virtù
L'interesse sacerdotale ha corrotto tutte le virtù ch'egli ha
sottomesse alla legislazione dei casisti
Lo studio filosofico della morale è severamente Interdetto
La religione ha insegnato in Italia ad ingannare la propria
coscienza, e non ad ubbidirle
EDUCAZIONE: sua influenza intimamente legata a quella
della religione
Al sedicesimo secolo, l'educazione viene tolta ai filologhi
indipendenti, ed è confidata ai monaci
Emulazione e attività dello spirito dei primi; servile docilità
dei secondi
I frati escludono dalle scuole ogni contenzione di spirito
Lo studio dell'antichità è continuato nelle scuole, ma
separato da ogni sentimento e da ogni riflessione
Tra le mani dei frati lo studio dell'antichità diventa una
scienza di fatti e d'autorità
Inerzia assoluta dello spirito; risultato di questa Educazione
Le tautologie dell'orazioni sono un esercizio di distrazione
se non lo sono d'ipocrisia
La memoria sola chiamata alle lezioni, s'incarica con
ripugnanza della soma impostale
L'ubbidienza e la disciplina monastica impediscono lo
scolaro fin nelle sue ricreazioni
Disgrazia di una nazione educata a questo Modo
LEGISLAZIONE: essa è tutta quanta basata, come la religione
e l'educazione, sopra un'ubbidienza cieca ed implicita
Il potere dei principi è assoluto; le leggi, la giustizia, i
privilegj gli sono sottomessi
La legge emana dalla volontà del principe senza
discussione, nè deliberazione pubblica
L'istruzione pubblica dei processi è grande scuola di morale
pel popolo
In Italia, ove dessa instruzione è secreta, rende odiosa la
giustizia
In Italia tutti i ministri della giustizia sono dichiarati infami
Il loro capo, quantunque infame siccome loro, ha in mano
tutta l'autorità d'un magistrato
Tutto il pubblico è legato col malfattore contro la giustizia
Il giudizio delle cause lasciato ad un giudice solo; il che
libera i magistrati dal più salutare freno, quale quello di
far palesi tutti i loro motivi
Frequenza dei processi economici, nei quali il prevenuto
non conosce l'accusa, e non è ammesso a difendersi
La cattiva giustizia d'Italia suggerisce ad ognuno abitudini
di dissimulazione, di adulazione e di bassezza
Abitudini di ferocia inspirate al popolo dallo spettacolo
della tortura
Influenza morale della legislazione civile, che si estende su
tutti i cittadini
L'ordine di successione fu cangiato alla caduta della libertà,
coll'instituzione delle sostituzioni perpetue e dei favori
accordati alle primogeniture
La madre e i fratelli fatti dipendenti dei figliuoli maggiori,
il che sovverte tutti i sentimenti di natura
I figliuoli minori condannati all'ozio e alla bassezza, perchè
ridotti alla sola pensione alimentaria
Il ricorso alla grazia nelle cause civili guasta ogni nazionale
abitudine di giustizia
Infinita moltiplicazione dei processi, che toglie qualunque
vergogna al carattere di litigioso
IL PUNTO D'ONORE; complemento delle instituzioni nazionali
Il punto d'onore confondendosi nelle repubbliche
coll'opinione pubblica, vi si fa appena rimarcare
I Castigliani ricevettero dagli Arabi e portarono in Italia un
punto d'onore di un carattere diverso
Tre principj fondamentali del punto d'onore arabo e
castigliano
1.° Delicatezza esagerata sul punto della castità delle
donne, la quale toglie loro quell'onesta libertà di cui
avevano goduto nelle repubbliche
Induce a porre in non cale la morale educazione, che sola
può dare alle donne armi da difendersi
Cotale punto d'onore abbandonato alla fine del XVII
secolo, senza sostituirglisi niuna altra guarenzia della
virtù delle donne
Lo sposo è costretto di distruggere l'educazione monastica
di sua moglie
Lo sregolamento delle donne italiane è opera delle
instituzioni sociali
2.° Delicatezza esagerata sul punto del valore negli uomini.
Le repubbliche italiane erano state viziate dall'opposto
difetto
Le guerre del sedicesimo secolo richiamano gl'Italiani a
pigliare le armi, e destano nel loro cuore il punto d'onore
castigliano
Decadimento della milizia italiana nel XVII secolo; la
nobiltà ricade nella mollezza e nel riposo
Nel XVIII secolo gl'Italiani confessano senza arrossire il
loro difetto di coraggio
3.° Necessità imposta all'uomo d'onore di vendicare l'offesa
ricevuta
Le nazioni del nord si battono per difendere il loro onore,
non per vendicarsi
I Mori, i Castigliani e poi gl'Italiani vollero mostrare, non
già valore, ma forza d'animo e odio implacabile
Il veleno e il ferro adoperati per soddisfare l'onore
oltraggiato
Questo barbaro punto d'onore è abbandonato ne' presenti
tempi, ma ha lasciato una fatale indulgenza pella
perfidia
Indulgenza che meritano i vizj degl'Italiani, perchè sono
opera de' loro padroni
Virtù ingenite che sono rimaste agl'Italiani
Gl'Italiani non hanno perduto il seme delle grandi cose
FINE DELLA TAVOLA.