STUDIO/1
Vanni Codeluppi
Educazione e Cultura
DEL CONSUMO
I
La cultura del consumo si espande
in continuazione su territori sociali sempre nuovi. Non si accontenta soltanto di aumentare di intensità nel
suo ambito specifico - quello dell’acquisto dei beni - ma si estende anche a tutti
quegli spazi della società in cui in precedenza non era presente. Così moltiplica
le dimensioni e il numero dei luoghi dove
acquistare i prodotti (supermercati, ipermercati, centri commerciali, discount,
negozi specializzati, ecc.), ma allo stesso
tempo tende progressivamente ad occupare molti luoghi che sinora erano estranei ad essa (alberghi, ristoranti, aeroporti, cinema, ecc.).
A fianco di ciò, la cultura del consumo
invade in maniera crescente anche
ambiti di tipo culturale - naturalmente
con i relativi luoghi fisici - che nelle
società capitalistiche occidentali erano in
passato estranei ad essa: educazione,
arte, politica, sport, salute, ecc. Per i
sociologi, infatti, era chiaro da tempo che
le società moderne, per potersi sviluppare, avevano avuto bisogno di «differenziarsi», cioè di istituire una serie di ambi-
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ti sociali (la politica, l’educazione, il diritto, ecc.) ciascuno dei quali era delegato a
svolgere una specifica funzione ed era
tenuto nettamente separato dagli altri.
Ora, invece, siamo di fronte ad un processo di collassamento generalizzato in
cui i confini tra i diversi ambiti si disgregano progressivamente. Siamo cioè
sempre più di fronte ad un’unica rete
planetaria in cui tutti i soggetti operano
congiuntamente.
Se tutto ciò è potuto avvenire è soprattutto a causa della forza manifestata in
ogni spazio sociale dalla cultura del consumo, cioè a causa di quell’irresistibile
fascino che le merci sono in grado di
esercitare. Sembra che sia operante una
sorta di «legge del consumo» che regola il
funzionamento dell’intera società. Una
legge che impone in maniera crescente a
tutti gli individui di comportarsi da consumatori in qualsiasi ambito sociale essi
si trovino.
Probabilmente ciò sta avvenendo perché
per gli individui che vivono in società
complesse come le attuali ci sono delle
crescenti difficoltà a definirsi sul piano
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sociale impiegando le elementari variabili
sociologiche di tipo tradizionale (sesso,
età, reddito, ecc.). Soltanto infatti con il
contributo delle merci e delle loro marche
gli individui possono collocarsi socialmente in maniera efficace. Possono, cioè,
costruirsi un’identità sociale impiegando
materiali provenienti dalla comunicazione delle merci. Spesso, portando direttamente queste ultime sul proprio corpo,
come nel caso dei capi di abbigliamento
che recano in bella evidenza il marchio
dell’azienda produttrice, e trasformandosi così in una sorta di vetrina in movimento. La pubblicità, infatti, propone all’individuo delle identità precostituite, collocandole all’interno di un certo contesto
sociale e legandole ad uno
IN UNA
stato
CONDIZIONE DI specifico
d’animo
ma
IPERCONSUMO soprattutto ad
COME L’ATTUALE, una particolare
merce e alla
È DIFFICILE PER I sua marca.
GENITORI, CHE È noto da
tempo come
COMPERANO
tutto ciò non
SEMPRE PIÙ BENI sia in realtà che
un’illusione,
PER SE STESSI,
perché le idenPRESENTARSI A
tità costruite in
tal modo dagli
MANI VUOTE
individui sono
DAVANTI AI FIGLI necessariamente delle costruzioni temporanee. L’impiego di merci instabili, per l’incessante obbligo dei mercati di rinnovarsi,
non può infatti che produrre delle identità
altrettanto instabili. Eppure, nonostante
tutto, il consumatore è attratto dal gioco di
costruzione della sua identità attraverso le
merci, dalla libertà apparentemente infinita di scegliere i prodotti che gli vengono
offerti.
Ciò risulta particolarmente evidente
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presso le giovani generazioni, più
influenzabili perché si trovano ancora in
una fase di costruzione della propria
identità personale. D’altronde, i genitori
hanno rinunciato da tempo al loro ruolo
educativo nei confronti dei comportamenti di consumo dei figli. Una ricerca
della società McNeal & Kids (Staglianò
2002) ha mostrato che negli Stati Uniti,
ma il fenomeno è senz’altro comune a
tutto l’Occidente, la paghetta media settimanale elargita dai genitori ai giovanissimi compresi tra i 9 e i 14 anni è passata
dai 6 dollari del 1992 ai 22,7 dollari del
2002, con un incremento quindi in dieci
anni del 278%. Evidentemente, i genitori
hanno sempre più bisogno di farsi perdonare dai figli per il fatto che sono molto
occupati dal lavoro e passano troppo
poco tempo con loro, ma hanno anche la
necessità di placare i propri sensi di colpa
per aver trascurato i figli. D’altronde, va
considerato che i genitori, per gli stessi
motivi, coprono di costosi regali i propri
figli. Anche perché, in una condizione di
iperconsumo come l’attuale, è difficile
per i genitori, che comperano sempre più
beni per se stessi, presentarsi a mani
vuote davanti ai figli. Il risultato, comunque, è che i bambini tendono sempre più
a considerare i soldi come una sorta di
diritto naturale, senza essere educati ad
apprendere l’importanza e il reale valore
del denaro.
Ma, se la famiglia rinuncia al proprio
ruolo educativo nei confronti del consumo, la scuola fa anche di peggio. Fa cioè
della vera e propria diseducazione.
Anche in questo caso gli Stati Uniti rappresentano da tempo l’avanguardia del
cambiamento. Qui nel 1999 le scuole del
distretto 11 di Colorado Springs, che
comprendono circa 32.000 studenti,
hanno firmato con la Coca-Cola un contratto decennale di 8,4 milioni di dollari
che consente alla multinazionale delle
bevande di avere l’esclusiva per la vendi-
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ta agli studenti dei suoi prodotti e di farsi
liberamente pubblicità negli istituti scolastici; in cambio, le scuole ricevono una
cifra fissa per ogni cassa di prodotto venduta (Malgaroli 1999). Pizza Hut, invece, fornisce alle scuole libri di testo in
quantità proporzionale alle pizze consumate nelle loro mense, mentre circa
2.000 scuole della costa occidentale degli
Stati Uniti si sono fatte convincere a prestare alcune sere all’anno i propri insegnanti per farli lavorare nei ristoranti di
McDonald’s. Gli insegnanti funzionano
come attrazione per gli studenti, che
affollano pertanto i ristoranti, e l’azienda
versa alle scuole il 20% dell’incasso delle
serate (Cicala 2003).
Contratti di sponsorizzazione di questo
tipo sono fortemente cresciuti negli ultimi anni negli Stati Uniti e si stima che ai
college fruttino annualmente circa 250
milioni di dollari (ibid.). Soltanto nella
contea di Broward, a nord di Miami,
sono già stati stipulati oltre 1.200 contratti di sponsorizzazione tra le scuole e
aziende come Coca-Cola, McDonald’s,
Little Cesar Pizza (Cottardo 2002, p.
128). Tutto si può dare in affitto alle
aziende affinché vi mettano la loro pubblicità: aule, corridoi, palestre, mense,
pulmini. Persino il tetto della scuola. E,
naturalmente, anche i libri di testo: «In
un manuale di matematica adottato ufficialmente in quindici stati ci sono i marchi di Burger King, McDonald’s, Disney
e Kellog’s» (Cicala 2003, p. 40).
Per le aziende il vantaggio è evidente:
stabilire un diretto rapporto con i consu-
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matori che considerano più interessanti,
ovvero i giovani studenti. Ma inevitabilmente tutto ciò non può che modificare
la natura dell’istruzione. Generalmente
le imprese sono attente a che ciò non
avvenga in maniera clamorosa, perché
sanno che potrebbe rivelarsi un boomerang e suscitare pericolose reazioni. Ci
sono stati, è vero, il caso di uno studente
della Georgia, Mike Cameron, addirittura sospeso da scuola per aver indossato
una maglietta della Pepsi durante una
promozione della Coca-Cola, o quello
della zuppa Campbell’s, accusata di aver
sponsorizzato una lezione di scienze per
dimostrare che una sua salsa era migliore di quelle concorrenti, ma in generale
le imprese impiegano delle strategie discrete di ingresso nelle scuole. Resta il
fatto che riescono comunque a trasmettere ai giovani delle informazioni sui propri prodotti che vengono vissute come
più valide di quelle pubblicitarie tradizionali, perché fanno parte della formazione ricevuta a scuola, cioè provengono
direttamente da una fonte autorevole
come l’istituzione scolastica.
Ma il caso più clamoroso di ingresso del
mondo del consumo nella scuola statunitense è quello di Channel One News,
rete televisiva via satellite che opera dal
1990 ed oggi è arrivata ad essere trasmessa in 12.000 scuole, per un’audience
complessiva di circa 8 milioni di giovani.
Le scuole aderenti hanno l’obbligo di trasmettere quotidianamente un notiziario
della durata di 12 minuti, 2 dei quali però
sono venduti alle aziende affinché possa-
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no trasmettere i loro messaggi pubblicitari. Quest’ultima è straordinariamente
efficace, non soltanto perché viene vista
provenire da una fonte autorevole come
la scuola, ma anche perché viene fruita
in condizioni di massima attenzione da
parte dei ragazzi, che sono costretti a
guardare il programma in classe. Si tratta dunque di condizioni ben lontane da
quelle di distrazione che caratterizzano
la fruizione domestica della pubblicità
televisiva. A scuola, inoltre, studenti e
insegnanti non hanno il telecomando per
cambiare canale. È ovvio pertanto che le
aziende siano disposte a versare molti
soldi a Channel One e alle scuole per
poter trasmettere le proprie pubblicità.
A fianco di questo, va considerato che
tutte le università statunitensi tendono
progressivamente ad adottare quella
strategia di integrazione tra educazione e
consumo mirante a soddisfare i desideri
degli studenti-consumatori che è stata
definita «McUniversità» (Ritzer 1996),
per sottolineare le somiglianze con l’analoga strategia seguita dalla catena di fast
food McDonald’s. D’altronde, «I centri
studenteschi di alcune università stanno
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assumendo sempre più un’aria da centro
commerciale» e diventa dunque una conseguenza inevitabile il fatto che, a loro
volta, «[…] i centri commerciali tendono
sempre più a includere sedi universitarie
distaccate […]» (Ritzer 2000, p. 158).
Anche in molti altri Paesi occidentali le
aziende stanno incominciando a praticare le stesse strategie. In Francia, ad
esempio, Coca-Cola ha fornito a 4.000
insegnanti di tecnologia un classificatore
riservato agli alunni che contiene anche
schede dedicate alla stessa multinazionale di Atlanta o sulla storia della distribuzione automatica, mentre aziende come
Kellogg’s o Leclerc invadono liberamente
le scuole con i kit pedagogici da esse
approntati (Attac Francia 2001).
La situazione disastrosa dal punto di
vista della sicurezza in cui versa attualmente la stragrande maggioranza degli
edifici scolastici e le sempre minori risorse riservate dallo Stato alla scuola pubblica fanno prevedere che anche in Italia
potrebbero presto concretizzarsi iniziative di questo tipo. I cambiamenti recentemente apportati o già progettati nella
scuola pubblica italiana sembrano infatti
ispirati da una filosofia che considera la cultura aziendale come il
mondo ideale cui riferirsi. Peraltro,
alcuni segnali si sono già visti. Di
recente Henkel ha organizzato
«Dixan per la scuola»: un’iniziativa
in cui i ragazzi portavano a scuola i
tagliandi presi dai detersivi, le scuole li applicavano su una schedina e
li mandavano all’azienda, la quale
ricambiava con un concorso in cui
si vincevano kit per la scuola e giochi (Cicala 2003). Mentadent invece, agganciandosi al programma
nazionale di prevenzione dentale
promosso dall’Associazione nazionale dei dentisti italiani, si è fatta
conoscere nelle classi di dieci istituti scolastici sparsi in tutta Italia,
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mentre Nike ha organizzato e sponsorizzato in diverse città dei tornei riservati
alle squadre scolastiche e McDonald’s ha
offerto dei buoni pasto ai migliori studenti
dell’Istituto professionale Pareto di Milano (Benvenuti 2002). Ma le attività del
gigante del fast food sono anche altre. Ad
esempio, nel periodo natalizio, ha fatto
distribuire nelle scuole elementari di Ferrara un volantino, autorizzato dal Provveditore e dal Comune, che invitava i
bambini a recarsi in Piazza Duomo per
la distribuzione gratuita di 1.500 pupazzetti, mentre in provincia di Catania giovani travestiti da Mc-pagliacci hanno
direttamente distribuito all’interno delle
scuole elementari tè, cappellini e bandierine con gli archi dorati (Anonimo 2000).
Nel mondo, l’azienda che ha rivestito il
ruolo più importante nello stimolare al
consumo i bambini è stata però la
Disney. Perché a già partire dagli anni
Trenta del Novecento ha adottato una
politica di concessione di licenze che ha
portato i suoi personaggi, Topolino in
testa, ad avere un’enorme diffusione
sociale attraverso la riproduzione su
merci di ogni genere (Cross 1997) e perché oggi «[...] presenta i suoi film, parchi
a tema e prodotti per il divertimento
come oggetti di consumo, anziché come
sfere di partecipazione. L’arte a
Disneyland diventa uno spettacolo designato per creare nuovi mercati, mercificare i bambini e procurare nuovi veicoli
per commercializzare i suoi prodotti.
Film come Il re leone, Pocahontas, Il gobbo
di Notre Dame, Hercules e Mulan sono
impiegati per convertire J.C. Penney,
Toys’R’Us, McDonald’s e numerose
altre catene di vendita in negozi per vendere i prodotti Disney. Ma la vera attività commerciale di Disney è concentrata
nella catena distributiva di proprietà dell’azienda, che comprende i negozi
Disney Store, la rete televisiva Disney
Channel, le riviste della Disney e i parchi
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Disneyland e Walt Disney World»
(Giroux 1999, pp. 158-159). Ne è risultato che, ad esempio, Pocahontas e Il gobbo di
Notre Dame sono stati dei successi poco
significativi al botteghino, con un incasso
di circa 100 milioni di dollari ciascuno
negli Stati Uniti, ma hanno raccolto altri
500 milioni di dollari attraverso tutte le
altre fonti (McChesney 1998, p. 4).
La Disney stimola dunque da sempre i
bambini al consumo e il suo esempio è
seguito oggi da tante altre aziende (si
pensi, ad esempio, alle colossali operazioni
I BAMBINI
di marketing e
di merchandis- SPERIMENTANO
ing attivate con
l’uscita
delle
TROPPO
serie di film
Harry Potter e
PRESTO DELLE
Signore
degli
Tutte
ESPERIENZE
anelli).
queste aziende
ritengono che
ADULTE E
l’educazione
non debba più
VENGONO
essere confinata all’interno PRECOCEMENTE
delle scuole, ma
far parte del più SOCIALIZZATI AL
ampio ambito
della cultura di
CONSUMO
massa ed essere
necessariamente piacevole e
divertente. Pertanto, il loro operato ha
progressivamente eroso i confini tra educazione e entertainment, tra cultura pubblica e interessi commerciali. Ne è derivata una crescente sostituzione della cultura pubblica da parte della cultura commerciale, con il risultato che il consumismo sembra essere il solo tipo di cittadinanza offerto ai bambini. Per questi ultimi la libertà della democrazia coincide
così con la libertà di consumare tutto
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quello che desiderano.
Ciò ha comportato anche una riduzione
dei confini tra la condizione adulta e quella dei bambini, sempre più considerati dei
«piccoli adulti» o meglio dei «piccoli consumatori», come gli adulti sono unicamente considerati in quanto consumatori
e non più come cittadini. Si tratta di quel
fenomeno che Henry A. Giroux (1999)
ha chiamato «fine dell’innocenza» per
l’infanzia, mentre in precedenza Neil
Postman (1986), più radicalmente, ha
impiegato l’espressione «scomparsa dell’infanzia», per indicare che non c’è più
trasmissione di sapere tra le diverse generazioni, che apprendono simultaneamente dai media le stesse nozioni, con il risultato che i bambini sperimentano troppo
presto delle esperienze adulte e vengono
precocemente socializzati al consumo.
Bibliografia
Anonimo, E nelle scuole McDonald’s diventa Babbo
Natale, in «Il manifesto», 9 gennaio 2000.
Attac Francia, La scuola non è una merce. Ma in Francia (e in
Europa)…, in «Carta», a. III, n. 22, 6-12 dicembre 2001.
Benvenuti A., Griffe in cattedra, in “L’Espresso”, 11 aprile 2002.
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nelle scuole, in «Il Venerdì», n. 773, 10 gennaio 2003.
Cottardo G., Cottardo on advertising, Angeli, Milano, 2002.
Cross G., Kids’ Stuff: Toys and the Changing World of American
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Malgaroli F., Zitti ragazzi, c’è la pubblicità, in «Il manifesto», 10
novembre 1999.
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Postman N., La scomparsa dell’infanzia. Ecologia delle età della
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Ritzer G., McUniversity in the Postmodern Consumer Culture, in
«Quality in Higher Education», 2, 1996.
Ritzer G., La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti
dell’iperconsumismo, Il Mulino, Bologna, 2000.
Staglianò R., Superpaghetta ai bambini risarcimento di genitori
assenti, in «La Repubblica», 16 luglio 2002.
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