NASCITA DELLA CULTURA DI MASSA IN ARTE – GLI INTELLETTUALI E LA “NUOVA SOCIETA’ ” Ilaria Messina DESCRIZIONE Viviamo nell’era del consumismo, della televisione, di internet; mai prima di oggi è stato così facile tenersi informati, accedere ad ogni informazione. I mezzi di comunicazione di massa sono in continuo sviluppo e sembrano regolare la nostra società e la nostra conoscenza. Come si è giunti a tutto questo? Che influenza hanno i nuovi mezzi di comunicazione di massa sulla nostra cultura? Questo scritto si propone di rispondere a queste domande attraverso la parola degli intellettuali del nostro tempo (e non). Scaletta: GENERALITA’: concetto di cultura di massa Sviluppo della società e della cultura di massa MARCUSE: futuro della società di massa Industria culturale e cultura di massa Gli intellettuali e la società di massa Arti visive e società dei consumi Cultura come bene di consumo di massa La televisione e la riproduzione degli stereotipi Banksy Haring 1 La cultura di massa è la cultura popolare prodotta dalle tecniche industriali di produzione di massa, venduta al pubblico di massa dei consumatori al fine di ottenere un profitto. Questa nozione di cultura di massa ha dunque un carattere descrittivo e valutativo: da un lato descrive le caratteristiche che la cultura assume nel momento in cui emerge un nuovo ordine della società, la cultura di massa, dall’altro la considera negativamente come cultura degradata rispetto a un modello ideale di cultura elevata e propria dei ceti intellettuali. La necessità di distinguere tra cultura alta o d’elite e cultura popolare o folk, nasce dalla separazione tra società del passato e società attuale. Nella società preindustriale, a una cultura alta, identificata soprattutto nell’arte, patrimonio esclusivo di un’elite sociale, si affianca una cultura che ha le sue radici nella vita quotidiana, costituita da consumi e tradizioni locali, integrata all’interno di una comunità, cui riconosce i valori e la gerarchia. Il passaggio alla società industriale di massa, inteso come apparato omogeneo in cui i singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo, che iniziò a prendere forma tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, quando con la rivoluzione francese, la cosiddetta “massa”, entrò con forza nella scena politica. Da questo momento in poi il popolo visse in prima persona, a differenza delle epoche precedenti, ogni mutamento politico e sociale della propria nazione. Dunque nel ‘900 si è avuta la completa realizzazione della società di massa, la quale è stata dipinta, a seconda dei punti di vista, sia ottimisticamente come frutto della democratizzazione e della diffusione del benessere, sia con accenti di angosciata preoccupazione come simbolo dell’appiattimento generale e minaccia per le libertà individuali. Tratto 2 caratteristico della società di massa è la frequenza e la facilità con cui si sviluppano i rapporti umani, rapporti che tuttavia hanno spesso un carattere anonimo e impersonale. Dunque un’altra caratteristica di questo tipo di società è l’assenza di opinione da parte del singolo: l’opinione pubblica è fusa con quella del singolo, che non è in grado di svilupparne una propria e si adatta a quella corrente, e tale omogeneizzazione del pensiero avviene soprattutto in campo culturale. Infatti tale società ha prodotto dei mezzi di comunicazione ed informazione che hanno dimostrato di essere difensori, ma anche controllori, della libertà di pensiero e del pluralismo: i mass media. I mass media hanno dimostrato di saper influire pesantemente sulle coscienze umane, sugli usi e costumi della società e questa influenza appartiene al presente come al passato e probabilmente al futuro. C’è da porsi però, sul futuro della società di massa, un importante quesito che è suggerito dal ripensamento critico proposto da Marcuse delle strutture su cui tale società ha costruito i propri successi ed i propri valori: “I mass media, dopo aver assorbito pienamente la ribellione ed il rifiuto della società di massa, riusciranno a stimolare le coscienze umane promuovendo una discussione si critica, ma anche costruttiva riguardo le sfide che si prospettano per la società democratica occidentale su ambiente, energia e la deriva fondamentalista? La società di massa occidentale riuscirà a compiere il suo massimo sviluppo divenendo globale?”. Se si prende in considerazione la teoria dell’evoluzione ciclica di Polibio, di certo i mass media rappresentano oggi una variabile di non poco conto, ma cosa rappresentano? Riusciranno ad essere garanti dello status sociale raggiunto o, come per altro già avvenuto con la propaganda fascista e nazista, ricadranno nelle mani di pochi? Forse la società ha debellato alcuni di quei germi degenerativi che Polibio attribuì ad ogni forma di regime politico. La diffusione della cultura e della tecnologia hanno contribuito alla formazione della pubblica opinione, anche se non possono essere esenti dall’influenzarla. Sta nascendo dunque un nuovo potere, quello che già da tempo è definito il quarto potere: l’informazione. Il dibattito sulla cultura inizia negli anni Venti, con l’avvento del cinema e della radio, con la nascita del fascismo, ed emerge negli anni Cinquanta, quando si afferma una vera e propria “industria della cultura” volta alla produzione e al consumo di massa. Si riscontrano grandi somiglianze tra la nozione di cultura di massa e quella di semicultura proposta in Germania dalla scuola di Francoforte, i cui principali protagonisti, trasferendosi negli 3 Stati Uniti, contribuirono con le loro idee al formarsi del grande dibattito americano degli anni Cinquanta. Alcuni protagonisti di questa scuola hanno analizzato e criticato l’industria culturale, il sistema dei media veniva concepito come una vera e propria industria dove i prodotti erano standardizzati e omologati al consumo di massa. La nozione di “industria culturale” nacque come espressione polemica dal titolo di un saggio di Harkheimer-Adorno contenuti in Dialettica dell’illuminismo, nel secondo dopoguerra. Sempre più si va affermando una cultura definita “seriale”, dal fatto che essa viene diffusa e commercializzata da grandi apparati tecnicoorganizzativi, che adottano procedure “di serie” , non dissimili da quelle caratteristiche della grande industria. E’ un fenomeno apparentemente paradossale, se si pensa che proprio la concezione moderna della cultura è fondata sull’ideale dell’originalità. La polemica va nei confronti del processo di degradazione cui la cosiddetta alta cultura si sottopone entrando nei circuiti della comunicazione di massa, diventando un prodotto come gli altri, il cui valore tende inevitabilmente al basso e alle leggi del mercato. Con l’espressione “industria culturale” si designa dunque un’organizzazione produttiva e distributiva di un particolare tipo di cultura , detta “cultura di massa”, sviluppatisi nella società industriale. Caratteristiche della cultura di massa sono l’eclettismo, la semplicità del linguaggio, la semplificazione degli argomenti proposti, l’universalizzazione dei temi. Tutto ciò contribuisce a formare un livello medio di pubblico e di cultura. Il pubblico della cultura di massa è per lo più passivo e non brilla per spirito critico. Da qui ne consegue un’accettazione passiva, acritica e consuetudinaria delle idee e delle norme di comportamento della maggioranza. L’individuo adotta così il tipo di personalità che gli viene offerto dai modelli culturali. Nella nuova società di massa era possibile immettere sul mercato merci di tipo culturale prodotte in serie sulla base di politiche imprenditoriali sostanzialmente non dissimili da quelle di ogni altro settore economico. I romanzi a puntate pubblicati a fine Ottocento negli Stati Uniti e in Europa furono alcuni dei primi esempi di quella “cultura seriale” che si sarebbe diffusa negli anni Venti e Trenta, suscitando lo sdegno di molti intellettuali preoccupati per la mercificazione e standardizzazione della cultura. Ormai distanti dall’idea romantica dell’artista come creatore isolato di opere uniche, nell’era della riproducibilità dell’arte le nuove tecnologie e i mezzi di comunicazione di massa potevano permettere a equipe di professionisti di prevedere i gusti del pubblico. Prodotti cinematografici, i telefilm a 4 puntate, ogni interminabile telenovela, gli albi di fumetti a scadenza mensile e gli stessi prodotti multimediali sono infatti il risultato di pratiche imprenditoriali basate su programmazioni e indagini di mercato volti alla commercializzazione di prodotti fruibili ed economicamente redditizi. Le società occidentali contemporanee sono spesso state definite società del consumo di massa, intendendo con ciò che gran parte della vita dei loro membri ruota intorno all'acquisto e consumo di merci relativamente standardizzate e a larga diffusione. Per definire questa situazione, sono state usate formule retoriche estreme e opposte: da un lato, si stigmatizza il cosiddetto consumismo associandolo a materialismo, superficialità, edonismo, insoddisfazione, massificazione, cattivo gusto, e persino devianza e malattia; dall'altro, un coro di voci celebra le merci e i consumi come opportunità di realizzazione e felicità per tutti. La retorica anticonsumistica è stata particolarmente influente negli anni del boom economico del secondo dopoguerra, in Italia e in Europa, perché attraverso le nuove merci di massa - dai contenitori di plastica alle lavastoviglie, dai fotoromanzi ai motocicli - si mettevano in discussione le tradizionali distinzioni sociali di classe, si consolidavano nuove identità di genere e si dava uno scossone alle dinamiche intergenerazionali. In modo uguale e contrario, in quegli stessi anni i messaggi pubblicitari sottolineavano il contenuto di felicità, realizzazione e liberazione della cultura di consumo: le nuove merci venivano presentate come opportunità di cavalcare il progresso, di liberarsi dalle costrizioni della vita contadina, di accedere a un più alto livello di civiltà, a nuovi modi di essere donna o di vivere la gioventù.Tale altalena valutativa è divenuta l'oggetto di meritate critiche soprattutto da parte dell'antropologia, della storia e della sociologia del consumo, ambiti di ricerca specialistici che si sono consolidati a partire dagli anni Ottanta del Novecento studiando i modi concreti in cui le merci vengono consumate nella vita ordinaria (Acknowledging consumpion, 1995; Appadurai 1996; Sassatelli 2004). Con gli ormai classici lavori di M. Douglas (Douglas, Isherwood 1979) e P. Bourdieu (1979) l'antropologia ha messo a fuoco le dinamiche di distinzione e appartenenza sociale di cui i consumi sono espressione, sottolineando che, in quanto parte della cultura materiale, anche le merci più standardizzate entrano in quel gioco classificatorio mediante il quale gusti e disgusti, alleanze e antagonismi, gerarchie e analogie vengono via via riprodotti. Pur dovendo fare i conti con un'industria 5 culturale e un sistema pubblicitario che indubbiamente suggerisce stili di vita preconfezionati, le pratiche di consumo si configurano essenzialmente come azioni orientate all'espressione e al consolidamento di legami sociali specifici, all'affermazione di ciò che si ritiene di buon gusto o corretto in relazione alla vita ordinaria o all'espressione e al riconoscimento di un'immagine autonoma di sé. Anche le merci più standardizzate hanno in effetti bisogno di essere inserite in contesti d'uso che spesso ne determinano il senso e i significati. In linea con il lavoro di M. De Certeau (1984), l'antropologo inglese D. Miller (1987) ha rilevato il ruolo attivo del consumatore e la sua capacità di appropriarsi della cultura materiale in modi a volte sovversivi. Enfatizzando i mondi di significato che gli attori sociali sono capaci di creare mediante gli oggetti di consumo, inclusi quelli di massa, la tradizione antropologica nel suo complesso si oppone quindi all'idea, magistralmente formulata dalla tradizione critica (per es., M. Horkheimer e Th.W. Adorno), che il consumo si configuri come l'antitesi della 'cultura' intesa come espressione più alta dell'essere umano. Quest'ultima posizione è stata ripresa dal sociologo americano G. Ritzer (1993), che, constatando la diffusione globale dei modelli di consumo occidentali, offre una lettura critica del consumo di massa in chiave di globalizzazione. Considerando istituzioni globali, come le catene di fast food o merci fortemente standardizzate ed espressione dell'imperialismo statunitense come la Coca-Cola, Ritzer ha sostenuto che la cultura di consumo contemporanea è inevitabilmente di massa e ha un effetto disumanizzante. McDonald's, la catena di ristoranti economici e veloci che ormai è presente in 115 Paesi in tutto il mondo, viene assunta come caso paradigmatico di un processo di mcdonaldizzazione che investe molte altre aziende. Essa segnerebbe (alla pari della Ford, che agli inizi del Novecento inaugurò il fordismo) una nuova stagione dell'organizzazione produttiva fondata sull'articolazione di quattro principi: l'efficienza, la prevedibilità, la calcolabilità e il controllo tramite la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine. Si tratta di principi organizzativi burocratici che dovrebbero mettere le persone in condizione di sapere cosa aspettarsi in ogni momento e luogo. Secondo Ritzer (1999), infatti, i consumatori si adattano agli ambienti clonati dei McDonald's perché non vogliono sorprese e anzi avrebbero bisogno di sapere che il Big Mac che ordinano oggi sarà identico a quello che hanno mangiato ieri e a quello che 6 mangeranno domani. Tali caratteristiche si sono diffuse ben oltre McDonald's e sono riscontrabili anche in altre catene molto più esclusive (come l'Hard Rock Café) e non necessariamente statunitensi (come Benetton). Ritzer sostiene inoltre che la razionalizzazione dei mezzi di consumo conduce al loro 'disincanto': i sistemi ispirati all'efficienza non consentono alcun elemento casuale, tentano sistematicamente di eliminare tutto ciò che è magico o imprevedibile. Per continuare ad 'attrarre', 'controllare' e 'sfruttare' i consumatori viene messa a punto una forma razionalizzata di re-incanto, quella forma di fantasia fredda e utilitaristica offerta dai centri commerciali, che ormai si configurano come "cattedrali del consumo" sempre piene di prodotti che "hanno tutti l'aria di essere grandi occasioni". La razionalizzazione dei mezzi di consumo di massa, la tecnologia e la robotica avrebbero quindi "sostituito i vecchi stregoni" socializzando pienamente i consumatori a un mondo mcdonaldizzato, globale e prevedibile. Indipendentemente dalle sorti di McDonald's, secondo Ritzer la mcdonaldizzazione continuerà a diffondersi portata avanti da altre aziende. Nonostante la loro crescita, le piccole imprese non rappresenterebbero dunque una minaccia seria e, con il tempo, riuscirebbero a stento a sopravvivere. Anche la tendenza a rivalutare le tradizioni locali sarebbe infatti ininfluente: i prodotti tradizionali e locali sarebbero destinati a rimanere marginali o a venire assimilati dall'organizzazione razionale della produzione diventando soltanto una debole sembianza standardizzata di ciò che erano. Lungi dal sostenere che il consumo sia espressione di piena libertà soggettiva, come tendono a fare le analisi di stampo neoliberista (per es., G. Becker), per ottenere un'immagine più equilibrata del consumo occorre comunque evitare di ricondurlo semplicemente ai processi produttivi. La maggior parte degli studiosi dei fenomeni di consumo contemporanei si è schierata contro la fallacia produttivistica, sottolineando che, per quanto vincolate alle proprie necessità di efficienza e guadagno, le organizzazioni razionalizzate di distribuzione delle merci globali lasciano inevitabilmente ai consumatori la possibilità di sfuggire alle proprie maglie. In altri termini, come sostiene De Certeau (1984), i consumatori si comportano come bricoleurs, trovando il modo di utilizzare le merci e i loro significati in modi personali, a volte sovversivi, muovendosi negli interstizi lasciati a loro disposizione dalla cultura di consumo di massa. Secondo De Certeau, il consumo è una forma di 7 produzione del valore che si contrappone, per natura e metodi, a quella propria dei sistemi di produzione delle merci. Quest'ultima è totalitaria, razionalizzata e spettacolare; il consumo invece è un "lavoro di straforo" con il quale i soggetti si riappropriano di beni ufficialmente destinati ad altri usi. Anche Miller (1987) articola una posizione simile, considerando il consumo come un processo relativamente autonomo e plurale di autocostruzione culturale: non vi è un solo modo appropriato di consumare e i diversi modi di consumare rispondono alla diversità delle reti sociali locali che mantengono le proprie differenze opponendosi ai meccanismi di produzione e distribuzione globali. Per la sua natura poliforme, sottolinea pertanto Miller, il consumo può essere visto come il tentativo degli attori sociali di "distillare la propria umanità" negando la logica della mercificazione, facendo diventare anche l'oggetto più massificato qualcosa di unico, che non può essere né comprato né ceduto. Persino nell'era del consumo di massa la cultura materiale è infatti un processo che implica, in termini che Miller trae dalla teoria hegeliana dell'oggettivazione, un movimento duale di esternalizzazione prima e di internalizzazione poi. In tale ottica il consumo viene considerato come una forma di "riassorbimento" o "appropriazione", ossia come il modo in cui un soggetto assimila la propria cultura e la usa per sviluppare sé stesso come attore sociale. Ciò implica la capacità di rendere simile a sé stessi un oggetto, così che merci identiche al momento dell'acquisto possono essere successivamente inserite in contesti diversi dai consumatori in un'infinita varietà di modi, generando diversità piuttosto che promuovendo omogeneizzazione. L'appropriazione implica tuttavia anche un effetto di ritorno, per cui il soggetto, mentre assorbe o appropria, espande e modifica sé stesso. In quanto irriducibile a un percorso lineare e razionale di progettazione del sé, tale processo di rinegoziazione dell'identità e dei bisogni è quindi in parte influenzato dalle industrie della promozione con i loro tentativi di modificare e guidare le percezioni e le scelte dei consumatori. Studi di carattere etnografico hanno dimostrato in effetti che il consumo non è né un atto puramente determinato dalla natura di massa delle merci o dal sistema promozionale, né un atto puramente razionale e strumentale che si basa sul calcolo autointeressato. Si tratta piuttosto di un atto creativo che può produrre qualcosa di autentico anche se si fonda su codici creati da industrie fortemente razionalizzate, un atto intimamente distintivo che serve per segnare e rinsaldare le relazioni sociali, 8 riprodurre differenze e gerarchie o, più raramente, sfidare le categorie culturali. Pertanto anche quando si fa la spesa in un supermercato per le esigenze di ogni giorno si mettono in campo una serie di significati complessi e di piccoli rituali che ne permettono la condivisione. Nella fattispecie, la spesa al supermercato sottolinea il legame che chi ne è responsabile (tipicamente una donna/madre) ha nei confronti degli altri membri del nucleo familiare o la sua relazione rispetto a ideali di famiglia, parentela, femminilità, genitorialità, e così via (Miller 1998). Il fare acquisti è ancora intimamente intrecciato a rapporti di genere diseguali: se uomini e donne fanno spesso la spesa al supermercato insieme, le modalità di negoziazione degli acquisti rafforzano marcate asimmetrie che si esprimono nel tentativo maschile di sanzionare le scelte e in quello femminile di anticipare i desideri. Proprio per questa necessità di orientarsi all'altro, sono più spesso le donne a trovare insensato lo shopping se sono sole o senza uno stabile orizzonte relazionale. D'altro canto, lo shopping fa tanto più scalpore come potenziale pratica distruttiva e degenerata (per es., la cleptomania) quanto più chi compra viene identificato con chi si suppone debba sacrificarsi, ossia la casalinga che vive per il bene della famiglia. L'immagine del consumo di massa offerta dalla nozione di mcdonaldizzazione tende a trascurare non soltanto i significati che i soggetti derivano dalle pratiche di consumo e le diverse capacità che vengono attribuite alla figura sociale del consumatore, ma anche l'evoluzione effettiva dei sistemi distributivi e la ricchezza di forme che la cultura di consumo contemporanea assume nei diversi contesti sociali e culturali in cui si realizza. Il sistema distributivo contemporaneo infatti sembra prendere due direzioni di sviluppo diverse che si rafforzano l'un l'altra: da un lato, la diffusione dei punti vendita e dei discounts con un'enfasi sul prezzo e la standardizzazione, dall'altro lato, l'avanzare di negozi o di catene di nicchia con una rinnovata enfasi sulla qualità e la varietà. Più in generale, a seconda dei luoghi e dei contesti in cui si realizzano e delle persone che li portano a termine, produzione e consumo si articolano per creare nuove realtà ed esperienze culturali mescolando tradizioni etniche, innovazione tecnologica e cultura burocratica d'impresa. Persino una serie di studi condotti sui McDonald's in Asia orientale rileva che non soltanto i menù sono stati alterati per venire incontro ai gusti locali, ma anche che i McDonald's si connotano meno come fast food e più come luoghi di incontro dove i giovani trascorrono interi pomeriggi chiacchierando e studiando (Watson 1997). Tali 9 osservazioni non pongono semplicemente davanti all'alternativa tra un consumatore assolutamente libero e uno mcdonaldizzato: rispondendo alle merci globali, utilizzandole e negoziandone la standardizzazione, i consumatori possono sia appoggiarsi alla cultura locale, e quindi alle differenze di potere e alle disuguaglianze a essa legate, sia far proprio quel tanto di universalismo che la cultura di massa sempre contiene per scardinare differenze e disuguaglianze sedimentate nelle loro tradizioni. Più in generale, tra consumo di massa e globalizzazione intercorre un rapporto complesso. La diffusione di catene e marche globali è soltanto uno dei molti aspetti della globalizzazione, un fenomeno che non si risolve in un'irrefrenabile dinamica economica, ma ha aspetti politici e culturali importanti e contesi. Innanzi tutto, così come esistono differenze marcate tra le culture di consumo dei Paesi sviluppati, è difficile sostenere che i Paesi in via di sviluppo semplicemente imiteranno i modelli di c. di m. occidentali, seguendone le orme, poiché esistono tradizioni culturali e politiche (nazionali, regionali, locali) che non soltanto resistono ma che riconfigurano anche attivamente gli usi e i significati delle merci globali facendole proprie (Howes 1996). In secondo luogo, occorre considerare che il processo di globalizzazione non è puramente una forma di americanizzazione camuffata. Esistono indubbiamente una serie di marche che sono ormai vere e proprie icone mondiali, ma non tutte sono di provenienza statunitense: accanto alle americanissime Coca-Cola, Nike e McDonald's, si trovano infatti la finlandese Nokia, la giapponese Toyota, la svedese Ikea, l'italiana Benetton ecc. A loro volta le forme razionalizzate di produzione come i McDonald's non sono un'invenzione americana. Nel caso dei fast food, in particolare, il primo esempio di catena di ristorazione può essere rinvenuto nella Germania di inizio Novecento dove i fratelli Aschinger crearono un fiorente impero di ristoranti che servivano cibo a basso costo e pronto da mangiare peraltro molto simile a quello della catena americana (Food nations, 2002). Le diverse culture locali e nazionali costruiscono inoltre diverse e particolari visioni degli Stati Uniti e dello stile di consumo americano, tanto che se ciò che è americano o occidentale può apparire egemonico, i significati a esso associati sono mutevoli e contesi. Anziché porre esclusiva enfasi sull'omogeneità o sull'imperialismo culturale americano, gli studi più importanti sulla cultura di consumo e la globalizzazione hanno mostrato che la standardizzazione si abbina all'eterogeneità, alla 10 mondializzazione, al localismo (Appadurai 1996). La globalizzazione è un processo diseguale e sfaccettato che genera differenza tanto quanto produce omogeneità e che traduce l'interconnessione economica globale in una localizzazione delle forme culturali. Un noto studio sui consumi nella cultura caraibica ha mostrato, per es., che gli abitanti di Trinidad hanno saputo modificare i significati e gli usi della Coca-Cola: in questo contesto non si tratta tanto di un soft drink ma di una bevanda per le serate di divertimento, da bere insieme al rum, il liquore locale per eccellenza (Acknowledging consumpion, 1995. La cultura, inclusa quella di consumo, è una pratica sociale che viene messa sempre in atto ma in modi inevitabilmente diseguali dagli attori sociali, i quali, così facendo, superano alcune differenze e ne creano altre. Poste di fronte ai processi di globalizzazione, le culture del consumo locali offrono sia possibilità di riscatto e sviluppo sia occasioni per la riproduzione o la creazione di esclusione e svantaggio. Se è anche e soprattutto attraverso i propri consumi che le nazioni occidentali, e gli Stati Uniti in particolare, promuovono il proprio modello di sviluppo dominante, è anche e soprattutto attraverso beni di consumo di massa che le sensibilità locali producono resistenza; si pensi, per es., alle versioni islamiche delle bambole per bambine, giochi di massa che adattano la celebre Barbie alle regole della šari ̔a proponendola con un severo burqa sopra un moderno vestitino rosa. Le culture del consumo possono quindi diventare forme, persino fondamentaliste, di esplicita opposizione alla standardizzazione e alla mcdonaldizzazione. La resistenza dei consumatori nei confronti delle grandi imprese multinazionali e della standardizzazione si esprime anche mediante movimenti dal basso che organizzano il boicottaggio di particolari prodotti, petizioni e azioni di protesta simbolica, nonché forme di acquisto solidale, responsabile ed ecocompatibile (Micheletti 2003). In un clima culturale che tende a considerare i limiti della globalizzazione, le grandi multinazionali sono oggetto di crescente attenzione critica. All'interno di tali istanze si devono collocare le richieste dei consumatori che rivendicano un maggiore rispetto per gli aspetti etici e politici della produzione su larga scala e che alcuni teorici sociali (per es., U. Beck) hanno salutato come il passaggio a una democrazia orientata ai consumatori. La rilevanza di tali fenomeni non è da sottovalutare perché a volte basta una lieve flessione delle vendite per indurre anche grandi multinazionali a modificare le proprie strategie o a darsi codici di buona condotta per recuperare un'immagine positiva presso gli acquirenti finali: 11 come è accaduto a Nike, criticata per l'utilizzo indiscriminato del lavoro minorile, o a Nestlé, sotto accusa per la promozione del latte in polvere in Africa, dove le condizioni igieniche ne sconsigliano l'uso. Nella logica di quello che ormai viene definito consumo critico, produzione e consumo non sembrano separati, presentandosi come due questioni politiche: la controparte dei lavoratori sfruttati è costituita infatti dai consumatori che incontrano difficoltà a trovare prodotti genuini. Di fronte a questa massificazione della società, la reazione degli intellettuali fu improntata in prevalenza alla preoccupazione. Fu minoritaria la posizione di chi vide nella società di massa un elemento di progresso democratico, che dava spazio a ceti tradizionalmente emarginati dalla vita sociale e politica. Prevalse invece l’idea che la massificazione della politica, dei consumi e della cultura, fossero causa di una crescente standardizzazione dei volori che metteva a rischio l’identità della persona. Questo pessimismo, assieme ad una concezione aristocratica della società, caratterizza l’opera del filosofo spagnolo Ortega Y Gasset (1883-1955), autore di un testo significativo: La ribellione delle masse (1930). Lo sviluppo dell’industria, la democrazia politica, la diffusione dell’istruzione e della comunicazione sociale hanno consentito a larghe masse di accedere a costumi e stili di vita riservati in precedenza ai ceti benestanti: in questi fenomeni, Ortega non vede però fattori di progresso, ma segni di profonda decadenza, d’imbarbarimento. Nella società di massa si verifica, a suo giudizio, un profondo e radicale mutamento: all’individuo ragionevole, sicuro di sé, il tipico borghese, subentra “l’uomo massa”, incapace di regolarsi e giudicare in modo maturo, facile preda di condizionamenti e sensibile al richiamo demagogico dei totalitarismi. Spiegando l’affermarsi sociale delle masse con il fenomeno della “massificazione”, anche se Ortega non lo chiama in questo modo, l’autore spagnolo applica una connotazione negativa all’intero movimento sociale che ha portato la massa a una presenza storica consapevole. Ortega lamenta soprattutto l’annullamento della discriminante che separa minoranze e masse, una discriminazione culturale e sociale. Nella storia precedente attività “speciali” come quelle della politica, erano esercitate da minoranze qualificate, perché necessitavano di qualità speciali e la massa non pretendeva di intervenire in essere perché non le possedeva ancora. Ora invece Ortega parla di una “iperdemocrazia”: la massa ha assunto il potere in ogni campo della società e fa diventare legge qualsiasi impulso e necessità materiale che sente comune. Al sorgere della società di massa è legata anche la nascita di un nuovo settore di ricerca, quello della “psicologia della folla”, che studia i meccanismi che guidano i comportamenti collettivi. Dalla fine dell’Ottocento infatti si assiste alla diffusione della massa negli scioperi, nelle assemblee e nelle manifestazioni, ossia ad agglomerati di individui 12 prima sconosciuti uniti nello stesso luogo per gli stessi motivi. Già nel 1895, il medico e saggista francese di formazione positivista Gustave Le Bon (1841-1931) pubblicò uno scritto intitolato La psicologia delle folle, dove dimostrò la percezione della nuova realtà rappresentata dalla folla, con le sue potenzialità di trasformare la vita sociale e politica, e cercò di analizzare le motivazioni del suo agire. Rilevava che in certe situazioni la folla si distingue molto nettamente dalla somma degli individui isolati; la personalità di ciascun individuo svanisce e si forma una “anima collettiva”, dove certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti solo in essa. Le folle vengono definite “poco inclini al ragionamento ma adattissime all’azione”, perché spinte essenzialmente dall’istinto, da “moti casuali dell’eccitazione”, da fenomeni inconsci difficili da scoprire. Sigmund Freud, in un saggio intitolato Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), affrontò con gli strumenti della psicoanalisi, il rapporto tra l’individuo e la “massa” e ricercò le motivazioni che spingono il singolo aggregato in un gruppo a comportarsi diversamente da quanto farebbe isolato. Contro la tesi di Le Bon, Freud nega che la psicologia della folla sia qualitativamente diversa da quella individuale. Il comportamento collettivo della folla è determinato dal rapporto di identificazione che si stabilisce tra i suoi componenti che vengono ad assumere un’identità unica; tutti i componenti della folla si identificano in un capo in cui vedono il proprio “Io ideale”, cioè quella personalità che ciascuno vorrebbe essere. La massa è tenuta insieme da qualche potenza che Freud individua nell’amore, “che tiene unite tutte le cose del mondo”. Se nella massa il singolo rinuncia al proprio modo di essere personale e si lascia suggestionare dagli altri, avviene perché vuole stare in armonia con gli altri. L’essenza della psiche collettiva dunque sono le relazioni d’amore. Un’altra critica è quella di Vance Packard, che, creando la definizione di persuasori occulti, ha denunciato il potere delle campagne pubblicitarie, in grado di deviare il potere d’acquisto delle grandi masse verso i prodotti di chi se le potesse permettere. I mezzi di comunicazione di massa hanno quindi allargato al popolo la fruizione di una cultura cosmopolita e democratica, ma allo stesso tempo hanno aperto la strada al totalitarismo e suscitano ancora interrogativi sulle possibilità dei grandi poteri economici di plagiare le masse secondo i propri interessi. A tal proposito, Paolini, in un suo articolo sul Corriere della Sera del 1973 scrive: “ La TV condiziona fortemente l’osservatore a livello psichico tanto che cerca così di adeguarsi alle regole dettate dalle trasmissioni televisive”, sottolineando la natura priva di valori di ciò che viene trasmesso attraverso questo strumento di comunicazione che è la TV che porta all’omologazione degli individui. Ad opporsi a questa ferma posizione è Umberto Eco, illustre personaggio che contrasta la demonizzazione della televisione 13 asserendo come in realtà la sua nascita ed il suo uso risultino essere positivi e utili per la società favorendone l’acculturazione attraverso l’immagazzinamento di informazioni che la televisione fornisce in grandi quantità. I detrattori della TV oggi la considerano un mezzo di istupidimento, un luogo dove la cultura è rimpiazzata da programmi cosiddetti “spazzatura”. Anche la pubblicità, che è aumentata notevolmente di volume, è ultimamente molto volgare e fa ricorso spesso ad immagini al limite del pudore e abbinate a doppi sensi di dubbio gusto. In questo scenario spicca sicuramente la nuova pratica della “street art”, arte urbana, appellativo affibbiatogli proprio dai mezzi di comunicazione di massa. Banksy è uno dei maggiori esponenti della street art. Le sue opere sono spesso a sfondo satirico e riguardano argomenti come la politica, la cultura e l’etica. Gli stencil di Banksy sono caratterizzati da immagini singolari e umoristiche, a volte accompagnate da slogan. Una delle caratteristiche che ha reso famoso Banksy è la sua abilità di entrare nei musei più importanti del mondo e appendere le sue opere tra le altre già presenti; spesso passano giorni prima che qualcuno si accorga dell’intrusione. I suoi temi preferiti in questo caso sono dipinti in perfetto stile settecentesco, con l’aggiunta di alcuni particolari completamente anacronistici (nobili del ‘700 con bombolette spray, dame di corte con maschere antigas ecc.). L’artista ha realizzato in Italia, a Napoli, uno stencil che rappresentava una reinterpretazione dell’estasi della Beata Ludovica Albertoni del Bernini, raffigurata con in mano delle patatine e un panino, simbolo del consumismo. Lo stencil è stato poi coperto da un altro grosso murale di un writer di zona. Poco distante è visibile la cosiddetta Madonna con la pistola, reinterpretazione di un’opera del barocco romano. Molto simile alla street art è la “graffiti art”, o graffitismo, di cui ne è maestro indiscusso Haring, noto in tutto il mondo per il suo stile personale ed estremamente riconoscibile. È nella Grande Mela che elabora la sua filosofia: la “Popular Art”, un tipo di arte che deve essere per tutti. Le opere di Haring sono lo specchio del suo essere artista a 360 gradi. I soggetti delle sue opere sono quanto mai vari: figure antropomorfe, personaggi dei cartoni animati e dei fumetti, fino ai famosi “radiant boy”, letteralmente bambini raggianti, delle figure umanoidi che danzano, si abbracciano, si baciano e fanno l’amore. Haring era fortemente convinto che l’arte dovesse essere accessibile a tutti e , quindi, “per tutti”, così come era certo che l’arte fosse “vita”, e in effetti la sua, pur fatta di eccessi ed esagerazioni, è stata consacrata all’arte. Haring è sinonimo di bambino raggiante: i “radiant boys” danzano, si abbracciano, si baciano, si prensono per mano, illuminati da intensi raggi solari, stilizzati nella loro struttura compositiva, tornando all’arte rupestre, ricchi di significato critico e di denuncia verso un’esistenza sofferta di un presente contemporaneo contraddittorio. Le sue opere 14 non manco di ironico e sopraffino cinismo, dove appare sempre un barlume di speranza e riscatto, pur assaporando l’intensità angosciante e frustrante della miseria umana. Quelle di Haring sono performance contemporanee, destinate a quella stessa massa che vedrà nel loro consumo un giusto ingresso in un panorama, quale quello della produzione artistica, non più escludente, impermeabile alla polarità della sua funzione. BIBLIOGRAFIA P. Bourdieu, La distinction. Critique sociale du jugement, Paris 1979 (trad. it. Bologna 2001). M. Douglas, B. Isherwood, The world of goods. 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