Ilaria Messina

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NASCITA DELLA CULTURA DI MASSA IN ARTE – GLI
INTELLETTUALI E LA “NUOVA SOCIETA’ ”
Ilaria Messina
DESCRIZIONE
Viviamo nell’era del consumismo, della televisione, di internet; mai prima
di oggi è stato così facile tenersi informati, accedere ad ogni
informazione. I mezzi di comunicazione di massa sono in continuo
sviluppo e sembrano regolare la nostra società e la nostra conoscenza.
Come si è giunti a tutto questo? Che influenza hanno i nuovi mezzi di
comunicazione di massa sulla nostra cultura? Questo scritto si propone di
rispondere a queste domande attraverso la parola degli intellettuali del
nostro tempo (e non).
Scaletta:
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GENERALITA’: concetto di cultura di massa
Sviluppo della società e della cultura di massa
MARCUSE: futuro della società di massa
Industria culturale e cultura di massa
Gli intellettuali e la società di massa
Arti visive e società dei consumi
Cultura come bene di consumo di massa
La televisione e la riproduzione degli stereotipi
Banksy
Haring
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La cultura di massa è la cultura popolare prodotta dalle tecniche industriali di
produzione di massa, venduta al pubblico di massa dei consumatori al fine di
ottenere un profitto. Questa nozione di cultura di massa ha dunque un carattere
descrittivo e valutativo: da un lato descrive le caratteristiche che la cultura assume
nel momento in cui emerge un nuovo ordine della società, la cultura di massa,
dall’altro la considera negativamente come cultura degradata rispetto a un modello
ideale di cultura elevata e propria dei ceti intellettuali. La necessità di distinguere tra
cultura alta o d’elite e cultura popolare o folk, nasce dalla separazione tra società del
passato e società attuale. Nella società preindustriale, a una cultura alta, identificata
soprattutto nell’arte, patrimonio esclusivo di un’elite sociale, si affianca una cultura
che ha le sue radici nella vita quotidiana, costituita da consumi e tradizioni locali,
integrata all’interno di una comunità, cui riconosce i valori e la gerarchia. Il
passaggio alla società industriale di massa, inteso come apparato omogeneo in cui i
singoli tendono a scomparire rispetto al gruppo, che iniziò a prendere forma tra la
fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, quando con la rivoluzione francese, la
cosiddetta “massa”, entrò con forza nella scena politica. Da questo momento in poi
il popolo visse in prima persona, a differenza delle epoche precedenti, ogni
mutamento politico e sociale della propria nazione. Dunque nel ‘900 si è avuta la
completa realizzazione della società di massa, la quale è stata dipinta, a seconda dei
punti di vista, sia ottimisticamente come frutto della democratizzazione e della
diffusione del benessere, sia con accenti di angosciata preoccupazione come
simbolo dell’appiattimento generale e minaccia per le libertà individuali. Tratto
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caratteristico della società di massa è la frequenza e la facilità con cui si sviluppano i
rapporti umani, rapporti che tuttavia hanno spesso un carattere anonimo e
impersonale. Dunque un’altra caratteristica di questo tipo di società è l’assenza di
opinione da parte del singolo: l’opinione pubblica è fusa con quella del singolo, che
non è in grado di svilupparne una propria e si adatta a quella corrente, e tale
omogeneizzazione del pensiero avviene soprattutto in campo culturale. Infatti tale
società ha prodotto dei mezzi di comunicazione ed informazione che hanno
dimostrato di essere difensori, ma anche controllori, della libertà di pensiero e del
pluralismo: i mass media. I mass media hanno dimostrato di saper influire
pesantemente sulle coscienze umane, sugli usi e costumi della società e questa
influenza appartiene al presente come al passato e probabilmente al futuro. C’è da
porsi però, sul futuro della società di massa, un importante quesito che è suggerito
dal ripensamento critico proposto da Marcuse delle strutture su cui tale società ha
costruito i propri successi ed i propri valori: “I mass media, dopo aver assorbito
pienamente la ribellione ed il rifiuto della società di massa, riusciranno a stimolare le
coscienze umane promuovendo una discussione si critica, ma anche costruttiva
riguardo le sfide che si prospettano per la società democratica occidentale su
ambiente, energia e la deriva fondamentalista? La società di massa occidentale
riuscirà a compiere il suo massimo sviluppo divenendo globale?”. Se si prende in
considerazione la teoria dell’evoluzione ciclica di Polibio, di certo i mass media
rappresentano oggi una variabile di non poco conto, ma cosa rappresentano?
Riusciranno ad essere garanti dello status sociale raggiunto o, come per altro già
avvenuto con la propaganda fascista e nazista, ricadranno nelle mani di pochi? Forse
la società ha debellato alcuni di quei germi degenerativi che Polibio attribuì ad ogni
forma di regime politico. La diffusione della cultura e della tecnologia hanno
contribuito alla formazione della pubblica opinione, anche se non possono essere
esenti dall’influenzarla. Sta nascendo dunque un nuovo potere, quello che già da
tempo è definito il quarto potere: l’informazione. Il dibattito sulla cultura inizia negli
anni Venti, con l’avvento del cinema e della radio, con la nascita del fascismo, ed
emerge negli anni Cinquanta, quando si afferma una vera e propria “industria della
cultura” volta alla produzione e al consumo di massa. Si riscontrano grandi
somiglianze tra la nozione di cultura di massa e quella di semicultura proposta in
Germania dalla scuola di Francoforte, i cui principali protagonisti, trasferendosi negli
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Stati Uniti, contribuirono con le loro idee al formarsi del grande dibattito americano
degli anni Cinquanta. Alcuni protagonisti di questa scuola hanno analizzato e
criticato l’industria culturale, il sistema dei media veniva concepito come una vera e
propria industria dove i prodotti erano standardizzati e omologati al consumo di
massa. La nozione di “industria culturale” nacque come espressione polemica dal
titolo di un saggio di Harkheimer-Adorno contenuti in Dialettica dell’illuminismo, nel
secondo dopoguerra. Sempre più si va affermando una cultura definita “seriale”, dal
fatto che essa viene diffusa e commercializzata da grandi apparati tecnicoorganizzativi, che adottano procedure “di serie” , non dissimili da quelle
caratteristiche della grande industria. E’ un fenomeno apparentemente paradossale,
se si pensa che proprio la concezione moderna della cultura è fondata sull’ideale
dell’originalità. La polemica va nei confronti del processo di degradazione cui la
cosiddetta alta cultura si sottopone entrando nei circuiti della comunicazione di
massa, diventando un prodotto come gli altri, il cui valore tende inevitabilmente al
basso e alle leggi del mercato. Con l’espressione “industria culturale” si designa
dunque un’organizzazione produttiva e distributiva di un particolare tipo di cultura ,
detta “cultura di massa”, sviluppatisi nella società industriale. Caratteristiche della
cultura di massa sono l’eclettismo, la semplicità del linguaggio, la semplificazione
degli argomenti proposti, l’universalizzazione dei temi. Tutto ciò contribuisce a
formare un livello medio di pubblico e di cultura. Il pubblico della cultura di massa è
per lo più passivo e non brilla per spirito critico. Da qui ne consegue un’accettazione
passiva, acritica e consuetudinaria delle idee e delle norme di comportamento della
maggioranza. L’individuo adotta così il tipo di personalità che gli viene offerto dai
modelli culturali. Nella nuova società di massa era possibile immettere sul mercato
merci di tipo culturale prodotte in serie sulla base di politiche imprenditoriali
sostanzialmente non dissimili da quelle di ogni altro settore economico. I romanzi a
puntate pubblicati a fine Ottocento negli Stati Uniti e in Europa furono alcuni dei
primi esempi di quella “cultura seriale” che si sarebbe diffusa negli anni Venti e
Trenta, suscitando lo sdegno di molti intellettuali preoccupati per la mercificazione e
standardizzazione della cultura. Ormai distanti dall’idea romantica dell’artista come
creatore isolato di opere uniche, nell’era della riproducibilità dell’arte le nuove
tecnologie e i mezzi di comunicazione di massa potevano permettere a equipe di
professionisti di prevedere i gusti del pubblico. Prodotti cinematografici, i telefilm a
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puntate, ogni interminabile telenovela, gli albi di fumetti a scadenza mensile e gli
stessi prodotti multimediali sono infatti il risultato di pratiche imprenditoriali basate
su programmazioni e indagini di mercato volti alla commercializzazione di prodotti
fruibili ed economicamente redditizi. Le società occidentali contemporanee sono
spesso state definite società del consumo di massa, intendendo con ciò che gran
parte della vita dei loro membri ruota intorno all'acquisto e consumo di merci
relativamente standardizzate e a larga diffusione. Per definire questa situazione,
sono state usate formule retoriche estreme e opposte: da un lato, si stigmatizza il
cosiddetto consumismo associandolo a materialismo, superficialità, edonismo,
insoddisfazione, massificazione, cattivo gusto, e persino devianza e malattia;
dall'altro, un coro di voci celebra le merci e i consumi come opportunità di
realizzazione e felicità per tutti. La retorica anticonsumistica è stata particolarmente
influente negli anni del boom economico del secondo dopoguerra, in Italia e in
Europa, perché attraverso le nuove merci di massa - dai contenitori di plastica alle
lavastoviglie, dai fotoromanzi ai motocicli - si mettevano in discussione le
tradizionali distinzioni sociali di classe, si consolidavano nuove identità di genere e si
dava uno scossone alle dinamiche intergenerazionali. In modo uguale e contrario, in
quegli stessi anni i messaggi pubblicitari sottolineavano il contenuto di felicità,
realizzazione e liberazione della cultura di consumo: le nuove merci venivano
presentate come opportunità di cavalcare il progresso, di liberarsi dalle costrizioni
della vita contadina, di accedere a un più alto livello di civiltà, a nuovi modi di essere
donna o di vivere la gioventù.Tale altalena valutativa è divenuta l'oggetto di
meritate critiche soprattutto da parte dell'antropologia, della storia e della
sociologia del consumo, ambiti di ricerca specialistici che si sono consolidati a partire
dagli anni Ottanta del Novecento studiando i modi concreti in cui le merci vengono
consumate nella vita ordinaria (Acknowledging consumpion, 1995; Appadurai 1996;
Sassatelli 2004).
Con gli ormai classici lavori di M. Douglas (Douglas, Isherwood 1979) e P. Bourdieu
(1979) l'antropologia ha messo a fuoco le dinamiche di distinzione e appartenenza
sociale di cui i consumi sono espressione, sottolineando che, in quanto parte della
cultura materiale, anche le merci più standardizzate entrano in quel gioco
classificatorio mediante il quale gusti e disgusti, alleanze e antagonismi, gerarchie e
analogie vengono via via riprodotti. Pur dovendo fare i conti con un'industria
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culturale e un sistema pubblicitario che indubbiamente suggerisce stili di vita
preconfezionati, le pratiche di consumo si configurano essenzialmente come azioni
orientate all'espressione e al consolidamento di legami sociali specifici,
all'affermazione di ciò che si ritiene di buon gusto o corretto in relazione alla vita
ordinaria o all'espressione e al riconoscimento di un'immagine autonoma di sé.
Anche le merci più standardizzate hanno in effetti bisogno di essere inserite in
contesti d'uso che spesso ne determinano il senso e i significati. In linea con il lavoro
di M. De Certeau (1984), l'antropologo inglese D. Miller (1987) ha rilevato il ruolo
attivo del consumatore e la sua capacità di appropriarsi della cultura materiale in
modi a volte sovversivi. Enfatizzando i mondi di significato che gli attori sociali sono
capaci di creare mediante gli oggetti di consumo, inclusi quelli di massa, la tradizione
antropologica nel suo complesso si oppone quindi all'idea, magistralmente
formulata dalla tradizione critica (per es., M. Horkheimer e Th.W. Adorno), che il
consumo si configuri come l'antitesi della 'cultura' intesa come espressione più alta
dell'essere umano.
Quest'ultima posizione è stata ripresa dal sociologo americano G. Ritzer (1993), che,
constatando la diffusione globale dei modelli di consumo occidentali, offre una
lettura critica del consumo di massa in chiave di globalizzazione. Considerando
istituzioni globali, come le catene di fast food o merci fortemente standardizzate ed
espressione dell'imperialismo statunitense come la Coca-Cola, Ritzer ha sostenuto
che la cultura di consumo contemporanea è inevitabilmente di massa e ha un
effetto disumanizzante. McDonald's, la catena di ristoranti economici e veloci che
ormai è presente in 115 Paesi in tutto il mondo, viene assunta come caso
paradigmatico di un processo di mcdonaldizzazione che investe molte altre aziende.
Essa segnerebbe (alla pari della Ford, che agli inizi del Novecento inaugurò il
fordismo) una nuova stagione dell'organizzazione produttiva fondata
sull'articolazione di quattro principi: l'efficienza, la prevedibilità, la calcolabilità e il
controllo tramite la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine. Si
tratta di principi organizzativi burocratici che dovrebbero mettere le persone in
condizione di sapere cosa aspettarsi in ogni momento e luogo. Secondo Ritzer
(1999), infatti, i consumatori si adattano agli ambienti clonati dei McDonald's perché
non vogliono sorprese e anzi avrebbero bisogno di sapere che il Big Mac che
ordinano oggi sarà identico a quello che hanno mangiato ieri e a quello che
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mangeranno domani. Tali caratteristiche si sono diffuse ben oltre McDonald's e sono
riscontrabili anche in altre catene molto più esclusive (come l'Hard Rock Café) e non
necessariamente statunitensi (come Benetton). Ritzer sostiene inoltre che la
razionalizzazione dei mezzi di consumo conduce al loro 'disincanto': i sistemi ispirati
all'efficienza non consentono alcun elemento casuale, tentano sistematicamente di
eliminare tutto ciò che è magico o imprevedibile. Per continuare ad 'attrarre',
'controllare' e 'sfruttare' i consumatori viene messa a punto una forma
razionalizzata di re-incanto, quella forma di fantasia fredda e utilitaristica offerta dai
centri commerciali, che ormai si configurano come "cattedrali del consumo" sempre
piene di prodotti che "hanno tutti l'aria di essere grandi occasioni". La
razionalizzazione dei mezzi di consumo di massa, la tecnologia e la robotica
avrebbero quindi "sostituito i vecchi stregoni" socializzando pienamente i
consumatori a un mondo mcdonaldizzato, globale e prevedibile. Indipendentemente
dalle sorti di McDonald's, secondo Ritzer la mcdonaldizzazione continuerà a
diffondersi portata avanti da altre aziende. Nonostante la loro crescita, le piccole
imprese non rappresenterebbero dunque una minaccia seria e, con il tempo,
riuscirebbero a stento a sopravvivere. Anche la tendenza a rivalutare le tradizioni
locali sarebbe infatti ininfluente: i prodotti tradizionali e locali sarebbero destinati a
rimanere marginali o a venire assimilati dall'organizzazione razionale della
produzione diventando soltanto una debole sembianza standardizzata di ciò che
erano.
Lungi dal sostenere che il consumo sia espressione di piena libertà soggettiva, come
tendono a fare le analisi di stampo neoliberista (per es., G. Becker), per ottenere
un'immagine più equilibrata del consumo occorre comunque evitare di ricondurlo
semplicemente ai processi produttivi. La maggior parte degli studiosi dei fenomeni
di consumo contemporanei si è schierata contro la fallacia produttivistica,
sottolineando che, per quanto vincolate alle proprie necessità di efficienza e
guadagno, le organizzazioni razionalizzate di distribuzione delle merci globali
lasciano inevitabilmente ai consumatori la possibilità di sfuggire alle proprie maglie.
In altri termini, come sostiene De Certeau (1984), i consumatori si comportano come
bricoleurs, trovando il modo di utilizzare le merci e i loro significati in modi
personali, a volte sovversivi, muovendosi negli interstizi lasciati a loro disposizione
dalla cultura di consumo di massa. Secondo De Certeau, il consumo è una forma di
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produzione del valore che si contrappone, per natura e metodi, a quella propria dei
sistemi di produzione delle merci. Quest'ultima è totalitaria, razionalizzata e
spettacolare; il consumo invece è un "lavoro di straforo" con il quale i soggetti si
riappropriano di beni ufficialmente destinati ad altri usi. Anche Miller (1987) articola
una posizione simile, considerando il consumo come un processo relativamente
autonomo e plurale di autocostruzione culturale: non vi è un solo modo appropriato
di consumare e i diversi modi di consumare rispondono alla diversità delle reti sociali
locali che mantengono le proprie differenze opponendosi ai meccanismi di
produzione e distribuzione globali. Per la sua natura poliforme, sottolinea pertanto
Miller, il consumo può essere visto come il tentativo degli attori sociali di "distillare
la propria umanità" negando la logica della mercificazione, facendo diventare anche
l'oggetto più massificato qualcosa di unico, che non può essere né comprato né
ceduto. Persino nell'era del consumo di massa la cultura materiale è infatti un
processo che implica, in termini che Miller trae dalla teoria hegeliana
dell'oggettivazione, un movimento duale di esternalizzazione prima e di
internalizzazione poi. In tale ottica il consumo viene considerato come una forma di
"riassorbimento" o "appropriazione", ossia come il modo in cui un soggetto assimila
la propria cultura e la usa per sviluppare sé stesso come attore sociale. Ciò implica la
capacità di rendere simile a sé stessi un oggetto, così che merci identiche al
momento dell'acquisto possono essere successivamente inserite in contesti diversi
dai consumatori in un'infinita varietà di modi, generando diversità piuttosto che
promuovendo omogeneizzazione. L'appropriazione implica tuttavia anche un effetto
di ritorno, per cui il soggetto, mentre assorbe o appropria, espande e modifica sé
stesso. In quanto irriducibile a un percorso lineare e razionale di progettazione del
sé, tale processo di rinegoziazione dell'identità e dei bisogni è quindi in parte
influenzato dalle industrie della promozione con i loro tentativi di modificare e
guidare le percezioni e le scelte dei consumatori.
Studi di carattere etnografico hanno dimostrato in effetti che il consumo non è né
un atto puramente determinato dalla natura di massa delle merci o dal sistema
promozionale, né un atto puramente razionale e strumentale che si basa sul calcolo
autointeressato. Si tratta piuttosto di un atto creativo che può produrre qualcosa di
autentico anche se si fonda su codici creati da industrie fortemente razionalizzate,
un atto intimamente distintivo che serve per segnare e rinsaldare le relazioni sociali,
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riprodurre differenze e gerarchie o, più raramente, sfidare le categorie culturali.
Pertanto anche quando si fa la spesa in un supermercato per le esigenze di ogni
giorno si mettono in campo una serie di significati complessi e di piccoli rituali che
ne permettono la condivisione. Nella fattispecie, la spesa al supermercato sottolinea
il legame che chi ne è responsabile (tipicamente una donna/madre) ha nei confronti
degli altri membri del nucleo familiare o la sua relazione rispetto a ideali di famiglia,
parentela, femminilità, genitorialità, e così via (Miller 1998). Il fare acquisti è ancora
intimamente intrecciato a rapporti di genere diseguali: se uomini e donne fanno
spesso la spesa al supermercato insieme, le modalità di negoziazione degli acquisti
rafforzano marcate asimmetrie che si esprimono nel tentativo maschile di
sanzionare le scelte e in quello femminile di anticipare i desideri. Proprio per questa
necessità di orientarsi all'altro, sono più spesso le donne a trovare insensato
lo shopping se sono sole o senza uno stabile orizzonte relazionale. D'altro canto,
lo shopping fa tanto più scalpore come potenziale pratica distruttiva e degenerata
(per es., la cleptomania) quanto più chi compra viene identificato con chi si suppone
debba sacrificarsi, ossia la casalinga che vive per il bene della famiglia.
L'immagine del consumo di massa offerta dalla nozione di mcdonaldizzazione tende
a trascurare non soltanto i significati che i soggetti derivano dalle pratiche di
consumo e le diverse capacità che vengono attribuite alla figura sociale del
consumatore, ma anche l'evoluzione effettiva dei sistemi distributivi e la ricchezza di
forme che la cultura di consumo contemporanea assume nei diversi contesti sociali
e culturali in cui si realizza. Il sistema distributivo contemporaneo infatti sembra
prendere due direzioni di sviluppo diverse che si rafforzano l'un l'altra: da un lato, la
diffusione dei punti vendita e dei discounts con un'enfasi sul prezzo e la
standardizzazione, dall'altro lato, l'avanzare di negozi o di catene di nicchia con una
rinnovata enfasi sulla qualità e la varietà. Più in generale, a seconda dei luoghi e dei
contesti in cui si realizzano e delle persone che li portano a termine, produzione e
consumo si articolano per creare nuove realtà ed esperienze culturali mescolando
tradizioni etniche, innovazione tecnologica e cultura burocratica d'impresa. Persino
una serie di studi condotti sui McDonald's in Asia orientale rileva che non soltanto i
menù sono stati alterati per venire incontro ai gusti locali, ma anche che i
McDonald's si connotano meno come fast food e più come luoghi di incontro dove i
giovani trascorrono interi pomeriggi chiacchierando e studiando (Watson 1997). Tali
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osservazioni non pongono semplicemente davanti all'alternativa tra un consumatore
assolutamente libero e uno mcdonaldizzato: rispondendo alle merci globali,
utilizzandole e negoziandone la standardizzazione, i consumatori possono sia
appoggiarsi alla cultura locale, e quindi alle differenze di potere e alle disuguaglianze
a essa legate, sia far proprio quel tanto di universalismo che la cultura di massa
sempre contiene per scardinare differenze e disuguaglianze sedimentate nelle loro
tradizioni. Più in generale, tra consumo di massa e globalizzazione intercorre un
rapporto complesso. La diffusione di catene e marche globali è soltanto uno dei
molti aspetti della globalizzazione, un fenomeno che non si risolve in un'irrefrenabile
dinamica economica, ma ha aspetti politici e culturali importanti e contesi. Innanzi
tutto, così come esistono differenze marcate tra le culture di consumo dei Paesi
sviluppati, è difficile sostenere che i Paesi in via di sviluppo semplicemente
imiteranno i modelli di c. di m. occidentali, seguendone le orme, poiché esistono
tradizioni culturali e politiche (nazionali, regionali, locali) che non soltanto resistono
ma che riconfigurano anche attivamente gli usi e i significati delle merci globali
facendole proprie (Howes 1996). In secondo luogo, occorre considerare che il
processo di globalizzazione non è puramente una forma di americanizzazione
camuffata. Esistono indubbiamente una serie di marche che sono ormai vere e
proprie icone mondiali, ma non tutte sono di provenienza statunitense: accanto alle
americanissime Coca-Cola, Nike e McDonald's, si trovano infatti la finlandese Nokia,
la giapponese Toyota, la svedese Ikea, l'italiana Benetton ecc. A loro volta le forme
razionalizzate di produzione come i McDonald's non sono un'invenzione americana.
Nel caso dei fast food, in particolare, il primo esempio di catena di ristorazione può
essere rinvenuto nella Germania di inizio Novecento dove i fratelli Aschinger
crearono un fiorente impero di ristoranti che servivano cibo a basso costo e pronto
da mangiare peraltro molto simile a quello della catena americana (Food
nations, 2002). Le diverse culture locali e nazionali costruiscono inoltre diverse e
particolari visioni degli Stati Uniti e dello stile di consumo americano, tanto che se
ciò che è americano o occidentale può apparire egemonico, i significati a esso
associati sono mutevoli e contesi.
Anziché porre esclusiva enfasi sull'omogeneità o sull'imperialismo culturale
americano, gli studi più importanti sulla cultura di consumo e la globalizzazione
hanno mostrato che la standardizzazione si abbina all'eterogeneità, alla
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mondializzazione, al localismo (Appadurai 1996). La globalizzazione è un processo
diseguale e sfaccettato che genera differenza tanto quanto produce omogeneità e
che traduce l'interconnessione economica globale in una localizzazione delle forme
culturali. Un noto studio sui consumi nella cultura caraibica ha mostrato, per es., che
gli abitanti di Trinidad hanno saputo modificare i significati e gli usi della Coca-Cola:
in questo contesto non si tratta tanto di un soft drink ma di una bevanda per le
serate di divertimento, da bere insieme al rum, il liquore locale per eccellenza
(Acknowledging consumpion, 1995. La cultura, inclusa quella di consumo, è una
pratica sociale che viene messa sempre in atto ma in modi inevitabilmente diseguali
dagli attori sociali, i quali, così facendo, superano alcune differenze e ne creano
altre. Poste di fronte ai processi di globalizzazione, le culture del consumo locali
offrono sia possibilità di riscatto e sviluppo sia occasioni per la riproduzione o la
creazione di esclusione e svantaggio. Se è anche e soprattutto attraverso i propri
consumi che le nazioni occidentali, e gli Stati Uniti in particolare, promuovono il
proprio modello di sviluppo dominante, è anche e soprattutto attraverso beni di
consumo di massa che le sensibilità locali producono resistenza; si pensi, per es., alle
versioni islamiche delle bambole per bambine, giochi di massa che adattano la
celebre Barbie alle regole della šari ̔a proponendola con un severo burqa sopra un
moderno vestitino rosa. Le culture del consumo possono quindi diventare forme,
persino fondamentaliste, di esplicita opposizione alla standardizzazione e alla
mcdonaldizzazione.
La resistenza dei consumatori nei confronti delle grandi imprese multinazionali e
della standardizzazione si esprime anche mediante movimenti dal basso che
organizzano il boicottaggio di particolari prodotti, petizioni e azioni di protesta
simbolica, nonché forme di acquisto solidale, responsabile ed ecocompatibile
(Micheletti 2003). In un clima culturale che tende a considerare i limiti della
globalizzazione, le grandi multinazionali sono oggetto di crescente attenzione critica.
All'interno di tali istanze si devono collocare le richieste dei consumatori che
rivendicano un maggiore rispetto per gli aspetti etici e politici della produzione su
larga scala e che alcuni teorici sociali (per es., U. Beck) hanno salutato come il
passaggio a una democrazia orientata ai consumatori. La rilevanza di tali fenomeni
non è da sottovalutare perché a volte basta una lieve flessione delle vendite per
indurre anche grandi multinazionali a modificare le proprie strategie o a darsi codici
di buona condotta per recuperare un'immagine positiva presso gli acquirenti finali:
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come è accaduto a Nike, criticata per l'utilizzo indiscriminato del lavoro minorile, o a
Nestlé, sotto accusa per la promozione del latte in polvere in Africa, dove le
condizioni igieniche ne sconsigliano l'uso. Nella logica di quello che ormai viene
definito consumo critico, produzione e consumo non sembrano separati,
presentandosi come due questioni politiche: la controparte dei lavoratori sfruttati è
costituita infatti dai consumatori che incontrano difficoltà a trovare prodotti genuini.
Di fronte a questa massificazione della società, la reazione degli intellettuali fu
improntata in prevalenza alla preoccupazione. Fu minoritaria la posizione di chi vide
nella società di massa un elemento di progresso democratico, che dava spazio a ceti
tradizionalmente emarginati dalla vita sociale e politica. Prevalse invece l’idea che la
massificazione della politica, dei consumi e della cultura, fossero causa di una
crescente standardizzazione dei volori che metteva a rischio l’identità della persona.
Questo pessimismo, assieme ad una concezione aristocratica della società,
caratterizza l’opera del filosofo spagnolo Ortega Y Gasset (1883-1955), autore di un
testo significativo: La ribellione delle masse (1930). Lo sviluppo dell’industria, la
democrazia politica, la diffusione dell’istruzione e della comunicazione sociale hanno
consentito a larghe masse di accedere a costumi e stili di vita riservati in precedenza
ai ceti benestanti: in questi fenomeni, Ortega non vede però fattori di progresso, ma
segni di profonda decadenza, d’imbarbarimento. Nella società di massa si verifica, a
suo giudizio, un profondo e radicale mutamento: all’individuo ragionevole, sicuro di
sé, il tipico borghese, subentra “l’uomo massa”, incapace di regolarsi e giudicare in
modo maturo, facile preda di condizionamenti e sensibile al richiamo demagogico
dei totalitarismi. Spiegando l’affermarsi sociale delle masse con il fenomeno della
“massificazione”, anche se Ortega non lo chiama in questo modo, l’autore spagnolo
applica una connotazione negativa all’intero movimento sociale che ha portato la
massa a una presenza storica consapevole. Ortega lamenta soprattutto
l’annullamento della discriminante che separa minoranze e masse, una
discriminazione culturale e sociale. Nella storia precedente attività “speciali” come
quelle della politica, erano esercitate da minoranze qualificate, perché
necessitavano di qualità speciali e la massa non pretendeva di intervenire in essere
perché non le possedeva ancora. Ora invece Ortega parla di una “iperdemocrazia”:
la massa ha assunto il potere in ogni campo della società e fa diventare legge
qualsiasi impulso e necessità materiale che sente comune. Al sorgere della società di
massa è legata anche la nascita di un nuovo settore di ricerca, quello della
“psicologia della folla”, che studia i meccanismi che guidano i comportamenti
collettivi. Dalla fine dell’Ottocento infatti si assiste alla diffusione della massa negli
scioperi, nelle assemblee e nelle manifestazioni, ossia ad agglomerati di individui
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prima sconosciuti uniti nello stesso luogo per gli stessi motivi. Già nel 1895, il
medico e saggista francese di formazione positivista Gustave Le Bon (1841-1931)
pubblicò uno scritto intitolato La psicologia delle folle, dove dimostrò la percezione
della nuova realtà rappresentata dalla folla, con le sue potenzialità di trasformare la
vita sociale e politica, e cercò di analizzare le motivazioni del suo agire. Rilevava che
in certe situazioni la folla si distingue molto nettamente dalla somma degli individui
isolati; la personalità di ciascun individuo svanisce e si forma una “anima collettiva”,
dove certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti solo in essa. Le
folle vengono definite “poco inclini al ragionamento ma adattissime all’azione”,
perché spinte essenzialmente dall’istinto, da “moti casuali dell’eccitazione”, da
fenomeni inconsci difficili da scoprire. Sigmund Freud, in un saggio intitolato
Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), affrontò con gli strumenti della
psicoanalisi, il rapporto tra l’individuo e la “massa” e ricercò le motivazioni che
spingono il singolo aggregato in un gruppo a comportarsi diversamente da quanto
farebbe isolato. Contro la tesi di Le Bon, Freud nega che la psicologia della folla sia
qualitativamente diversa da quella individuale. Il comportamento collettivo della
folla è determinato dal rapporto di identificazione che si stabilisce tra i suoi
componenti che vengono ad assumere un’identità unica; tutti i componenti della
folla si identificano in un capo in cui vedono il proprio “Io ideale”, cioè quella
personalità che ciascuno vorrebbe essere. La massa è tenuta insieme da qualche
potenza che Freud individua nell’amore, “che tiene unite tutte le cose del mondo”.
Se nella massa il singolo rinuncia al proprio modo di essere personale e si lascia
suggestionare dagli altri, avviene perché vuole stare in armonia con gli altri.
L’essenza della psiche collettiva dunque sono le relazioni d’amore. Un’altra critica è
quella di Vance Packard, che, creando la definizione di persuasori occulti, ha
denunciato il potere delle campagne pubblicitarie, in grado di deviare il potere
d’acquisto delle grandi masse verso i prodotti di chi se le potesse permettere. I
mezzi di comunicazione di massa hanno quindi allargato al popolo la fruizione di una
cultura cosmopolita e democratica, ma allo stesso tempo hanno aperto la strada al
totalitarismo e suscitano ancora interrogativi sulle possibilità dei grandi poteri
economici di plagiare le masse secondo i propri interessi. A tal proposito, Paolini, in
un suo articolo sul Corriere della Sera del 1973 scrive: “ La TV condiziona fortemente
l’osservatore a livello psichico tanto che cerca così di adeguarsi alle regole dettate
dalle trasmissioni televisive”, sottolineando la natura priva di valori di ciò che viene
trasmesso attraverso questo strumento di comunicazione che è la TV che porta
all’omologazione degli individui. Ad opporsi a questa ferma posizione è Umberto
Eco, illustre personaggio che contrasta la demonizzazione della televisione
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asserendo come in realtà la sua nascita ed il suo uso risultino essere positivi e utili
per la società favorendone l’acculturazione attraverso l’immagazzinamento di
informazioni che la televisione fornisce in grandi quantità. I detrattori della TV oggi
la considerano un mezzo di istupidimento, un luogo dove la cultura è rimpiazzata da
programmi cosiddetti “spazzatura”. Anche la pubblicità, che è aumentata
notevolmente di volume, è ultimamente molto volgare e fa ricorso spesso ad
immagini al limite del pudore e abbinate a doppi sensi di dubbio gusto. In questo
scenario spicca sicuramente la nuova pratica della “street art”, arte urbana,
appellativo affibbiatogli proprio dai mezzi di comunicazione di massa. Banksy è uno
dei maggiori esponenti della street art. Le sue opere sono spesso a sfondo satirico e
riguardano argomenti come la politica, la cultura e l’etica. Gli stencil di Banksy sono
caratterizzati da immagini singolari e umoristiche, a volte accompagnate da slogan.
Una delle caratteristiche che ha reso famoso Banksy è la sua abilità di entrare nei
musei più importanti del mondo e appendere le sue opere tra le altre già presenti;
spesso passano giorni prima che qualcuno si accorga dell’intrusione. I suoi temi
preferiti in questo caso sono dipinti in perfetto stile settecentesco, con l’aggiunta di
alcuni particolari completamente anacronistici (nobili del ‘700 con bombolette
spray, dame di corte con maschere antigas ecc.). L’artista ha realizzato in Italia, a
Napoli, uno stencil che rappresentava una reinterpretazione dell’estasi della Beata
Ludovica Albertoni del Bernini, raffigurata con in mano delle patatine e un panino,
simbolo del consumismo. Lo stencil è stato poi coperto da un altro grosso murale di
un writer di zona. Poco distante è visibile la cosiddetta Madonna con la pistola,
reinterpretazione di un’opera del barocco romano. Molto simile alla street art è la
“graffiti art”, o graffitismo, di cui ne è maestro indiscusso Haring, noto in tutto il
mondo per il suo stile personale ed estremamente riconoscibile. È nella Grande
Mela che elabora la sua filosofia: la “Popular Art”, un tipo di arte che deve essere
per tutti. Le opere di Haring sono lo specchio del suo essere artista a 360 gradi. I
soggetti delle sue opere sono quanto mai vari: figure antropomorfe, personaggi dei
cartoni animati e dei fumetti, fino ai famosi “radiant boy”, letteralmente bambini
raggianti, delle figure umanoidi che danzano, si abbracciano, si baciano e fanno
l’amore. Haring era fortemente convinto che l’arte dovesse essere accessibile a tutti
e , quindi, “per tutti”, così come era certo che l’arte fosse “vita”, e in effetti la sua,
pur fatta di eccessi ed esagerazioni, è stata consacrata all’arte. Haring è sinonimo di
bambino raggiante: i “radiant boys” danzano, si abbracciano, si baciano, si prensono
per mano, illuminati da intensi raggi solari, stilizzati nella loro struttura compositiva,
tornando all’arte rupestre, ricchi di significato critico e di denuncia verso
un’esistenza sofferta di un presente contemporaneo contraddittorio. Le sue opere
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non manco di ironico e sopraffino cinismo, dove appare sempre un barlume di
speranza e riscatto, pur assaporando l’intensità angosciante e frustrante della
miseria umana. Quelle di Haring sono performance contemporanee, destinate a
quella stessa massa che vedrà nel loro consumo un giusto ingresso in un panorama,
quale quello della produzione artistica, non più escludente, impermeabile alla
polarità della sua funzione.
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