Elisir d`amore - Forte di Bard

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OPERA AL FORTE
2 Agosto 2008 – Forte di Bard – ore 21.00
Elisir d’amore
Melodramma buffo in due atti su libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
SINFONICA, Orchestra Sinfonica della Valle d’Aosta
Coro Lirico Orpheus
Gianluca Fasano, Maestro del coro
Assistente direttore, Stéphanie Praduroux
Scenografie, Patrizio Serra
Progetto luci, Domenico Brioschi
Costumi, Maria De Palma
Guido Maria Guida, Maestro Concertatore e Direttore
Regia di Domenico Brioschi
Personaggi e interpreti
Adina, ricca e capricciosa fittajuola
Nemorino, giovane semplice, innamorato di Adina
Dulcamara, medico ambulante
Belcore, sergente di guarnigione
Giannetta, villanella
Linda Campanella
Filippo Pina Castiglioni
Matteo Peirone
Evans Tonon
Anna Pirozzi
Presidenza del Consiglio della Valle d’Aosta
Associazione Forte di Bard
Fondazione Istituto Musicale della Valle d’Aosta
Camera di Commercio
NOTE AL PROGRAMMA
Bergamasco di spirito naturalmente aristocratico, Gaetano Donizetti (1797-1848) fu allevato alle
Lezioni Caritatevoli di musica e protetto dal suo maestro Simone Mayr, celebre compositore di
origini bavaresi che gli inculca la propria dottrina e poi lo spedisce a Bologna da Padre Mattei,
maestro fra gli altri anche di Rossini, a studiare il contrappunto e a costruirsi così la solidità di
strumentatore che lo contraddistingue. E’ personaggio disarmante: entusiasta, volitivo, impegnato
in un ritmo di produttività spasmodico, ma anche disinteressato, disorganizzato nelle precauzioni di
carriera al contrario di Bellini, generoso nei giudizi sui colleghi, socievole, estroverso con spazi di
malinconia e solitudine. Il mestiere di compositore d’opera lo fa vagabondare per città e teatri, la
celebrità conquistata lo porta a percorrere le tappe di un compositore europeo: da Venezia, Roma,
Napoli, Milano, e quindi Parigi e Vienna. Dovunque vada, ha la capacità di sintonizzarsi con il gusto
musicale del luogo, di intuire idee, forme, abitudini. Accresce continuamente i propri mezzi,
culturali e tecnici, rimanendo fedele e coerente ai propri caratteri, il che lo porta ad impiegare il
linguaggio dell’epoca, ma fortemente personalizzato e inconfondibile. La sua musica si plasma
diversamente e si arricchisce d’elementi napoletani o di pomposità romana, di moduli parigini del
grand-opéra, oppure cerca definizioni più impegnative e lombarde nel confronto con Bellini a
Milano. Prima Anna Bolena poi L’elisir d’amore, opera scritta a ritmo forsennato (in meno di 15
giorni) e la cui tematica, per ironia della sorte, ha diverse analogie con l’allucinata follia che lo
travolgerà in seguito.
Presentata a Milano il 12 maggio 1832 al Teatro della Cannobiana, L’elisir d’amore, opera comica
in due atti su libretto di Felice Romani, si differenzia dalle peculiarità del vecchio genere buffo
essenzialmente per tre motivi: un diffuso inserimento dell’elemento patetico (in particolare per il
personaggio di Nemorino), una narrazione scorrevole ed equilibrata, grazie alla successione
funzionale dei pezzi chiusi senza fratture stilistiche, ed infine una trattazione del materiale tematico
che distingue nettamente i quattro personaggi fra loro, evitando che essi si adagino sulle antiquate
tipizzazioni stereotipe per assumere una propria psicologia, il che lo si deve anche alla bravura del
Romani. La genesi dell’Elisir è frutto di una serie di fortuite coincidenze e peripezie: presi gli
accordi con il teatro e l’impresario Alessandro Lanari, in difficoltà per la mancata consegna dello
spartito da parte di un altro compositore, scelto il soggetto ( Le philtre di Eugene Scribe, già
musicato da Auber e andato in scena il 23 giugno 1831 all’Opéra di Parigi), al compositore non
restano che due settimane per scrivere l’opera. Tuttavia queste bastano per consegnare alla storia
della musica una delle creazioni più mirabili che mai siano state composte; una delle poche, tra
quelle del Maestro, che non ha dovuto aspettare gli entusiasmi della Donizetti-Renaissance per
imporre la propria presenza nel repertorio.
Intanto Romani stende un libretto che si distingue per l’armoniosità della versificazione e per il
rigore drammaturgico, mediante il quale concentra l’azione sui quattro personaggi principali (il
quinto, Giannetta, è in certo qual modo assimilabile al coro) ove le situazioni di ciascuno sono
sapientemente legate a quelle dell’altro in una logica continua e consequenziale.
La trama è assai nota: Adina, la più bella, raffinata e capricciosa fanciulla del villaggio, respinge
l’amore del semplice e buon Nemorino. Sopraggiungono Dulcamara, un ciarlatano che propina
all’innamorato un magico elisir (altri non è che buon vino), e un aitante ufficiale, il sergente
Belcore, cui Adina si promette in sposa per ingelosire Nemorino. La vicenda si complica vieppiù,
ma alla fine si risolve felicemente con la riconciliazione dei due giovani e la chiassosa partenza di
Dulcamara. Fiaba campestre animata da militari e ciarlatani, l’Elisir mescola divertimento e
sincerità in un capolavoro universale, proietta sul palcoscenico e rende immaginari i contorni di un
italico paese delle meraviglie.
Donizetti crea un tipo di opera comica completamente nuovo rispetto a quanto circolava nei teatri
lirici del tempo. Alle atmosfere surreali in cui Rossini aveva fatto agire i suoi personaggi si
sostituiscono quelle più tangibili, meno rarefatte, più romanticamente vicine alla sensibilità degli
spettatori. Il che rappresentava una novità assai “rischiosa”, se si pensa che l’operazione spezzava
quegli equilibri miracolosi che reggevano le fila dell’opera rossiniana. Equilibri che, nonostante il
panorama cambiato, il compositore bergamasco riesce straordinariamente a reinventare,
ridefinendo gli elementi della commedia buffa del Settecento. La principale novità è che l’autore
vive in certo modo la vita dei suoi personaggi: se Rossini li osservava con bonaria ironia, Donizetti
divide il loro ingenuo divertimento, i turbamenti, le malinconie. La civettuola Adina, l’ingenuo
Nemorino, il gradasso Belcore, il ciarlatano Dulcamara sono colti quali personaggi nella cui umanità
si intrecciano idillio e pettegolezzo, graffi e sospiri, malizie e ingenuità. Un meccanismo perfetto
capace di tramutare il “vino bordò” e di restituirlo sotto lacrima”furtiva”: proprio la “piagnucolata” ,
a detta di Romani, della Furtiva lacrima, chiesta espressamente da Donizetti per utilizzare una
melodia rimasta nel cassetto, consente a Nemorino l’accesso ad un’altra sfera e da sempliciotto si
trasforma in un sognatore romantico: dominio incontrastato di una liricità intensa ed assoluta, la
nozione di comico si rivela qui angusta e i suoi effetti cessano di colpo.
Al Teatro della Cannobiana, terza sala milanese progettata come La Scala da Giuseppe Piermarini,
L’elisir segnò la prima unanime grande affermazione di Donizetti e lo strepitoso successo si rinnovò
per 32 sere consecutive, tante furono le repliche. Quanto alla compagnia di canto, le parole al
vetriolo di Emilia Romani Branca, moglie di Felice, riporterebbero (cosa peraltro assai dubbia) i
giudizi del Maestro: Sabine Heinefetter, Adina, è una “tedesca e cioè dura e rozza per l’orecchio
italiano”; Giovanni Battista Genero, Nemorino, è “un tenore che balbetta”; Giuseppe Frezzolini,
Dulcamara, “ ha la voce di un capretto”; infine il Belcore di Henri-Bernard Dabadie è “un basso
che val poco”.
In ogni caso fu un successo di cui il compositore fece fatica a capacitarsi come scrisse a Mayr solo
quattro giorni dopo: “La Gazzetta giudica de L’elisir d’amore e dice troppo bene, troppo bene,
troppo, credete a me…troppo!”.
Rossella Avanzini
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