International RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVII NUOVA SERIE - N. 79 – GENNAIO-APRILE 2013 1 Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. General Editor/Direttore responsabile Giovanni Invitto ([email protected]) Steering Comittee/Comitato direttivo Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile) Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina. 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Sede 2 Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce – tel.0832.294627; fax 0832.294626. E-mail: [email protected]. Amministrazione e pubblicità Piero Manni s.r.l., Via Umberto I, 51 73016 San Cesario di Lecce – Tel. 0832.205577. Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. 3 Questa rivista è sui siti: http: //www.segniecomprensione.it e http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione; e ha dei rimandi al Dipartimento di Studi Umanistici e al Siba con i link: dipfil.unile.it/seostart/page/home.rivista_online/seo-stop/index.php? e sibaese.unisalento.it/index.php/segnicompr NOTE PER GLI AUTORI I contributi scientifici possono essere scritti in una delle seguenti lingue: italiano, francese, inglese e saranno pubblicati nella lingua in cui perverranno. L’articolo deve riportare, prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito. Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle di 30.000 battute, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note” non si dovranno superare le 10.000 battute, spazi e note inclusi, con le medesime caratteristiche dei Saggi. I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: segniecomprensione@ libero.it. I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo, e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. 4 INDICE Saggi 7 Dino Cofrancesco PERCHÉ IN ITALIA É MANCATA UNA RELIGIONE CIVILE. COMMENTANDO IL SAGGIO DI MARCELLO VENEZIANI «DIO, PATRIA E FAMIGLIA DOPO IL DECLINO» 37 Maurizio Candiotto MODALITIES OF THE SUBLIME MODAL CATEGORIES BETWEEN REASON, UNDERSTANDING, AND SENSIBILITY 46 Carmine Luigi Ferraro P. LAIN ENTRALGO E LA LETTERATURA RIFLESSIVA: LA ESPERA Y LA ESPERANZA 90 Roberta Sofi JAN PATOCKA: LA FENOMENOLOGIA ASOGGETTIVA Note 103 Alessandra Peluso ALBERT CAMUS E JEAN-PAUL SARTRE SENSO DELLA MISURA E MEDITERRANEITÀ 119 Cristina Manzo IL RESPIRO DEL BOSCO È IL RESPIRO DELLA VITA. L’UOMO ALBERO NELLA SOCIETÀ. DA THOREAU A FERRAROTTI 5 Resoconti 133 Ilaria Malagrinò STORIA E "STORIE" DELLA FILOSOFIA. A PROPOSITO DI UN RECENTE VOLUME 143 Cristina Manzo LA PERCEZIONE DI SÉ ATTRAVERSO LA STRUTTURA DEL COMPORTAMENTO 161 Antonio Stanca DI UN’UGUAGLIANZA FINITA 165 Pubblicazioni ricevute 6 PERCHÉ IN ITALIA É MANCATA UNA RELIGIONE CIVILE. COMMENTANDO IL SAGGIO DI MARCELLO VENEZIANI «DIO, PATRIA E FAMIGLIA DOPO IL DECLINO» di Dino Cofrancesco Il saggio di Marcello Veneziani, Dio, Patria e famiglia è uno di quei testi ai quali si è costretti ad interessarsi, in quanto da esso emana lo ‘stato di coscienza’ della nostra epoca. Siamo di fronte ad un’epoca che manca di punti di riferimento e di certezze, fosse anche quella del nulla, ed è proprio questo ciò che l’autore rimpiange. Contrariamente alle apparenze, infatti, il nulla è suscettibile di dare il proprio contenuto ad una conoscenza che sarà poi in grado di emanciparsene, a vantaggio dell’intera civilizzazione. In altri termini, essere sicuri che non c’è nulla, piuttosto che non essere sicuri di nulla. Né tradizioni, né valori poiché sono negati, gli uni dopo gli altri, senza venire per questo sostituiti da nuovi valori. Tuttavia, il fatto che l’uomo li neghi non significa che egli non abbia bisogno di radici. Forse questo è tutto il paradosso dell’uomo moderno: distruggere senza essere capace di ricostruire, distaccarsi dalle tradizioni senza poter totalmente rinunciare al suo bisogno di essere attaccato a qualcosa – un Dio, una patria, una famiglia, quali garanzie indispensabili per sentirsi appartenere al mondo anziché essere un semplice passeggero; in una parola, per avere un’identità. Ma quale Dio? Quale patria? Quale famiglia? Quale è, oramai, il contenuto di tali concetti? Senza umanità, la religione non è più che fanatismo; la famiglia, valore assoluto, diventa una cellula di ripiego contro un mondo in declino; la patria, considerata come una divinità, non è più che idolatria, giustificando così degli ideali libertari tuttavia incapaci di creare valori nuovi sotto il segno della comunità, aggravando il senso della perdita di un’identità nazionale e testimoniando, soprattutto, una ‘perdita’, quella di un ‘centro’, cioè di un Dio, di una patria, di una famiglia, suscettibili di essere condivisi pur vissuti, individualmente, in libertà, senza i quali non è possibile sfuggire all’horror vacui. L’essai de Marcello Veneziani, Dio, Patria e famiglia est un de ces textes auxquels l’on est obligé de s’intéresser en tant qu’il s’en dégage l’ « état de conscience » de notre époque. Une époque en mal de repères et de certitudes, serait-ce celle du néant, ce que déplore l’auteur. Contrairement aux apparences, en effet, le néant est susceptible de donner son contenu à une connaissance capable ensuite de s’en émanciper, au profit de la civilisation entière. En d’autres termes, être sûr qu’il n’y a rien, plutôt que n’être sûr de rien. Ni traditions, ni valeurs, puisqu’elles sont niées, les unes après les autres, sans pourtant être remplacées par de nouvelles. Et pourtant, ce n’est pas parce qu’il est nié que notre besoin de racines, d’attaches, est devenu moins fort. Peut-être est-ce là tout le paradoxe de l’homme moderne : détruire sans être capable de reconstruire, se détacher des traditions sans pouvoir SAGGI Abstract 7 totalement renoncer à son besoin d’être rattaché à quelque chose – un Dieu, une patrie, une famille, des garanties incontournables pour se sentir appartenir à au monde au lieu d’être un simple passager ; en un mot, pour avoir une identité. Mais quel Dieu ? Quelle patrie ? Quelle famille ? Quel est désormais le contenu de ces concepts ? Sans humanité, la religion n’est plus que fanatisme. La famille, érigée en valeur absolue, devient une cellule de repli contre un monde en déclin, la patrie considérée comme une divinité n’est plus qu’idolâtrie, justifiant des idéaux libertaires pourtant incapables de créer des valeurs nouvelles sous le signe de la communauté, aggravant le fléau de la perte d’une identité nationale et témoignant, surtout, d’une « perte », celle d’un « centre » auquel se rattacher et s’identifier ensemble. C’est seulement en retrouvant ce centre, un Dieu, une patrie et une famille susceptible d’être partagés tout en étant vécus, individuellement, dans la liberté, qu’on pourra, pourtant, échapper à l’horror vacui. Marcello Veneziani’s essay, Dio, Patria e famiglia is one of those type of texts you are forced to take an interest in, as the 'state of consciousness' of our time comes from it. We are living in an time which has neither reference points nor guarantees, a time made of nothing, which the Author deplores. As a matter of fact, in spite of its appearances, the nothing is susceptible to give its contents to a knowledge which will be able to get rid of it hereafter to the benefit of the whole civilization. In other words, to be sure that there is nothing, rather than to be sure of nothing. Neither traditions nor values because they are denied, one after the other, without being replaced by new ones. However, the fact that the man denies them does not mean that our need of roots has become less strong. Maybe this is the whole paradox of the modern man: to destroy without being able to reconstruct, to move away from the traditions without totally give up to his need to be attached to something - God, home, family, some guarantees which are necessary to make him feel like he belongs to the world instead of being a simple passenger; in one simple word, to have an identity. But which God? Which Home? Which Family? What is, now, the content of these concepts? Without Humanity, Religion has become nothing more than Fanaticism. Family, established as an absolute value, has become a makeshift cell against a world in decline; Home, considered a Divinity, is nothing more than Idolatry which justify libertarian ideals, nevertheless unable to create new values under the sign of the community, and worsening the feeling of loss of a national identity, and above all witnessing a 'loss', the loss of a 'center' to which to cling to and empathize together. Only finding again this center, God, Home, and Family which could be shared as they have been lived individually in freedom, it would be possible to escape the horror vacui. Ci sono libri con i quali si è costretti a fare i conti giacché, se ne condividano o meno le tesi, registrano fedelmente, come pochissimi altri, lo «stato di coscienza» dell’epoca in cui ci tocca vivere. È il caso del nuovo saggio di Marcello Veneziani, Dio, 8 Patria e Famiglia dopo il declino (Mondadori, 2012), un saggio che, come gli altri del prolifico pubblicista pugliese, può far storcere il naso sia agli addetti ai lavori accademici, che vedranno nella sua cultura filosofica l’ombra del dilettantismo e del non approfondimento teorico, sia agli «intellettuali militanti», se ancora ce ne sono, scandalizzati dalla riproposta di temi classici del pensiero reazionario e conservatore. Sulle competenze storico-filosofiche di Veneziani - le sue letture mi sembrano vaste e tutt’altro che superficiali - non mi pronuncio e, d’altra parte, pur avendo scritto molto, Veneziani, a quel che mi risulta, non ha mai presentato una domanda a un concorso a cattedra; quello che mi sento di dire, in piena coscienza, è che il libro Dio, Patria e Famiglia dopo il declino pone all’uomo contemporaneo - e in particolare all’italiano di questi tristissimi tempi- questioni cruciali, relative all’etica, alla politica, alla religione, che non si possono liquidare con l’aria di sufficienza di chi se ne occupa, nelle aule scolastiche e nei laboratori delle scienze sociali, solo per dovere professionale o per guadagnarsi lo stipendio o (ed è il caso più frequente) per «far politica» con altri mezzi. Come tutti i «pensatori della tradizione», Veneziani analizza con spietatezza la modernità e le sue illusioni e rivolge agli immemori e a quanti vivono la vita senza prenderla affatto sul serio domande tanto ineludibili quanto imbarazzanti. Avverto subito che, forse perché segnato dall’illuminismo empiristico angloscozzese - quello francese, nel bene e nel male, era altra cosa trovo metafisiche le tesi che vengono dedotte dalle analisi storiche e filosofiche svolte nel libro e che, in quanto metafisiche, mi sembrano il rovescio delle Weltanschauungen della vulgata progressista che vi vengono demistificate, spesso - va riconosciuto - in maniera brillante e convincente. Mi spiego meglio: il dramma dell’uomo, dopo la «‘caduta»’ seguita al peccato originale (un dogma che i credenti farebbero bene a non archiviare tra le metafore pedagogiche divenute ormai inservibili nell’età della ragione), consiste nell’incertezza ontologica in cui sono immerse tutte le cose, da quelle naturali a quelle che vengono costruite e distrutte nel corso della storia millenaria dei 9 figli di Adamo. Nei periodi di crisi, nel passaggio da un orizzonte di vita a un altro, quell’incertezza diventa angosciosa: non ci sono più autorità terrene o divine a indicare il cammino, a prescrivere norme di condotta, si ha la sensazione di procedere lungo un tunnel senza vie d’uscita. In questi frangenti, alle visioni del mondo stabili e conchiuse, dove tutto era ordine e senso - si ricordino i versi del Canto I del Paradiso dantesco: Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l'universo a Dio fa simigliante./ Qui veggion l'alte creature l'orma/ de l'etterno valore, il qual è fine/ al quale è fatta la toccata norma./ Ne l'ordine ch'io dico sono accline/ tutte nature, per diverse sorti,/ più al principio loro e men vicine;/ onde si muovono a diversi porti/per lo gran mar de l'essere, e ciascuna/ con istinto a lei dato che la porta - succedono quadri desolati della condizione umana: non è il Paradiso ad attenderci ma le bocche spalancate dell’Inferno ovvero il «nulla eterno» evocato da Ugo Foscolo nel sonetto Alla sera. Può sembrare strano ma anche la certezza del nulla ha qualcosa di consolatorio e può aiutare, in qualche modo, a vivere (o, se si preferisce, a morire). Le filosofie della crisi non ci fanno sentire in un paesaggio incognito, ma in una città maledetta di cui conosciamo fin troppo bene vie e piazze: i luoghi sono orrendi ma li dominiamo col pensiero e, abbandonando questa valle di lacrime, andiamo incontro verso la liberazione. In realtà, non dominiamo proprio niente: nelle porcilaie possiamo non accorgerci delle perle che vi sono state gettate mentre nei luoghi della più alta spiritualità possiamo assistere a rappresentazioni teatrali che ci sembrano cariche di sostanza spirituale mentre sono soltanto villaggi Potemkin costruiti da anime moribonde. Insomma non sappiamo, affatto, da dove può venire (se verrà) la salvezza, né da dove possono venire le insidie che minacciano la vita nostra e degli altri. Per questo è consigliabile rinunciare ai voli (immaginari) nell’etere celeste come alle discese agli Inferi: rimaniamo coi piedi sulla terra, chiedendoci sempre, con Montaigne, que sais-je? e accontentandoci di congetture e di nessi causali riguardanti fenomeni irrimediabilmente circoscritti. Ciò non significa la rinuncia a «pensare alla grande», a identificare bisogni «essenziali» e valori 10 che fanno parte del nostro dna antropologico ma dismettere la pretesa che quei bisogni e quei valori s’incarnino in istituti posti al riparo dal continuo, implacabile, rimescolamento delle carte operato dal Tempo. Porsi sul terreno dell’empiria significa prendere atto della «realtà effettuale», con le sue luci e le sue ombre, assumere l’esistente come qualcosa che va compreso e non, programmaticamente, mutato perché «cattivo», non sottrarsi alle spinte al cambiamento, guardandosi bene, però, dallo stravolgere i connotati dell’ambiente materiale e spirituale che si vuole cambiare. Per dirla in poche, semplici, parole, l’uomo è insieme radici e progetto, è tradizione e innovazione, è l’albero che sfida i secoli ma anche la cesoia d’acciaio che spezza le catene. La tragedia dell’illuminismo - che si perpetua non soltanto nei filoni libertari del nostro tempo ma, altresì, nelle ideologie ufficiali dei partiti e dei governi - sta nell’incomprensione, se non nella cancellazione, delle radici: l’uomo è l’essere libero, responsabile e pensante, che deve emanciparsi da tutti i legami non scelti, dalle condizioni esistenziali in cui lo ha messo la sorte, deve considerarsi faber fortunae suae. Sennonché l’uomo non è soltanto raison, è anche comunità e destino. E qui i filosofi della tradizione colgono nel segno ed è difficile dar torto a Veneziani quando scrive, citando Giovanni Gentile: In fondo all’Io c’è il Noi e nella nostra interiorità abita un mondo comune. Non possiamo tradurre questo connaturato legame sociale con la semplice considerazione di essere abitanti e cittadini del mondo; siamo prima di tutto figli e poi genitori, legati alla dimensione famigliare, via via allargando per cerchi concentrici dai legami naturali e culturali, affettivi ed elettivi, per affinità e prossimità di luogo, di lingua, di lavoro, di fede, fino ad ambiti più vasti. È innaturale pensare il contrario, come ritengono i cosmopoliti, capovolgere la scala e partire dall’universo; è astratto amare l’umanità se non si parte da chi ti è davvero prossimo. È contro la nostra sensibilità, la nostra vita, la realtà. Siamo esseri in relazione, identità aperte e comunicanti, c’è una trama di energie che ci collega al mondo. Ciò non scalfisce l’esigenza di solitudine, il riconoscimento delle irripetibili individualità, la libertà personale di decidere. In interiore homine habitat communitas. 11 Resta vero, però, che l’anelito alla libertà, a rimuovere i vincoli dei costumi e delle tradizioni,a costruirci un’esistenza a nostra misura, è altrettanto forte e insopprimibile del bisogno di radici e che, almeno in Occidente, da quell’anelito sono nate le grandi civiltà, l’Atene dell’Accademia e del Peripato, che fa a pezzi la paidèia omerica e aristocratica, la Firenze dell’Umanesimo e del Rinascimento, che ripropone in veste cristiana il protagoreo anthropos metron panton chrematon ,«l'uomo è la misura di tutte le cose», la Parigi dei lumi che fissa le premesse teoriche dei diritti dell’uomo e del cittadino, e l’Edimburgo degli empiristi, che nella «ragionevolezza» coniuga Montaigne con Galileo. Prigionieri del tetro carcere del Passato, gli esseri umani sarebbero restati allo stadio della tribù, non avrebbero mai costruito la polis, l’impero romano, lo stato nazionale. Comunità e società - intesa, quest’ultima, come luogo d’incontro di individui liberi ed emancipati - sono i «trascendentali» della civiltà ovvero le categorie fondanti senza le quali sarebbe impossibile pensare e realizzare una convivenza libera e sicura. Ma una volta riconosciuto che la sinistra (erede dei Lumi) tende ad abbattere gli alberi della tradizione e che la destra (depositaria dei Valori trasmessi dal «mondo di ieri») misconosce l’insopprimibile bisogno di «far da sé», di peregrinare nell’esistenza assumendosi la responsabilità del proprio agire autonomo, il diritto di dire no e affrontare le conseguenze del rifiuto - il successo o lo scacco -, rimane il problema di come far convivere il Dr. Jekyll (della tradizione) e il Mister Hyde (dell’innovazione). Ed è qui, su questo punto cruciale, che diventa saggio rinunciare alle folgoranti visioni utopiche e/o apocalittiche e ci si deve rassegnare, crocianamente, a compiere, nel breve passaggio in questo mondo, la nostra umile parte di operai della storia (con la esse minuscola), lasciando all’immaginazione di quest’ultima la fatica di tener unite le due parti del visconte dimezzato. Scriveva Croce: «Il moto della storia ha due estremi astratti e inattuabili, il radicale e integro rivoluzionarismo e il radicale e integro conservatorismo, ma nella sua concretezza e realtà corre sempre nel mezzo». Solo che a farlo scorrere nel mezzo è un insieme complesso di fattori -culturali, economici, politici, religiosi - che 12 rinviano non a una «scienza del governo» ma a un’ «arte del governo», il cui successo è spesso opera del caso, come dimostra un paese come l’Inghilterra che ha fondato le sue istituzioni liberali non sugli individui «atomi razionali», che avevano in mente i rivoluzionari francesi, ma su persone in carne e ossa, su comunità storiche viventi, su classi, chiese, associazioni determinate a rimanere se stesse, inalterate nel tempo, ma costrette poi, dall’imperativo stesso della sopravvivenza, ad aprirsi al nuovo, a cooptare attori sociali prima esclusi e a servirsene per puntellare un edificio politico in continua necessità di manutenzione. Veneziani, nel suo linguaggio scintillante che a volte par quello della filosofia che si riveste di poesia e altre volte quello della poesia che si fa intuizione filosofica del Vero, spiega assai bene la natura e la funzione della religione, della patria, della famiglia (a quest’ultima dedica le pagine, forse, più belle del libro): Ma cosa sono, cosa erano, Dio, patria e famiglia? Erano e sono gli argini di sicurezza per fronteggiare la paura di perdersi, di soffrire e di morire. Erano la triplice unità di misura per vivere. Dio, patria e famiglia sono i custodi della Casa dentro cui abita l’uomo. Dio è il tetto, la patria è il pavimento, la famiglia è il focolare. Dio ci collega con il cielo e ci protegge dal cielo, la patria ci collega col mondo e ci protegge dal mondo, la famiglia ci collega ai bisogni e ci protegge dai bisogni. E conclude: « Dio, patria e famiglia appaiono oggi come vincoli e limitazioni, ma per lungo tempo furono argini di sicurezza per vivere la vita e superare le sue tragedie sapendo di poter confidare in loro. Insieme, come le tre Parche, filarono il nostro destino». I liberali farebbero bene a meditare su questa tesi giacché raramente, nel «secolo breve», hanno affrontato il tema del rapporto tra «comunità politica» e diritti civili. Non lo avevano affrontato neppure i liberali del «secolo lungo», l’Ottocento (un secolo che si apre nel 1789 e si chiude nel 1914) ma unicamente perché c’erano per loro dimensioni del politico scontate, che, come tutte le cose scontate, non potevano costituire oggetto di riflessione. Quando si leggono certe pagine di Alexis de Tocqueville - ad es. sull’Algeria o sui rapporti tra Francia e Inghilterra - o di John Stuart Mill - vedi le considerazioni sul 13 principio di nazionalità o sull’espansione oceanica della Gran Bretagna - si ha quasi l’impressione di trovarsi dinanzi a ideologi protonazionalisti (è il motivo per cui di quelle pagine si occupano solo gli studiosi che non ne possono più dell’esaltazione scolastica e obbligatoria di quei giganti del pensiero liberale), ma è un’impressione superficiale. In realtà, sia per l’aristocratico normanno che per l’intellettuale londinese, i diritti di libertà avevano senso all’interno di una comunità politica già data, erano abiti istituzionali da far indossare a individui concreti, con i loro costumi, la loro lingua, le loro tradizioni plasmati da una storia millenaria. Il liberalismo non era il verbo che si fa carne e, in quanto tale, «fa» gli Inglesi e (come avrebbe voluto Tocqueville) i francesi, ma era uno «stile di vita», per così dire, inteso a rendere più «civili» i rapporti sociali e politici all’interno di una «famiglia»,esistente da tempo immemorabile, che, grazie ad esso, sarebbe diventata più prospera e coesa. Non è un caso che, nella società del superficiale universalismo buonista, questa dimensione non sia sfuggita a uno dei pochi studiosi (col nostro Giuseppe Bedeschi) che si siano cimentati in una storia del liberalismo, in una prospettiva teorica e metodologica liberale, Pierre Manent. Mi riferisco al libro In difesa della nazione. Riflessioni sulla democrazia in Europa (trad. it., Rubbettino 2008) che, in una cultura dominata da sterili dibattiti sulla giustizia come equità a fondamento della ragione pubblica, è passato quasi inosservato - almeno in Italia, va precisato, giacché negli Stati Uniti il tema del rapporto tra liberalism e nationalism è dibattuto in centinaia di saggi da noi sistematicamente ignorati. In quell’aureo saggio, si leggono frasi come queste: «L’eguaglianza di diritti e l’eguaglianza di fronte alla legge hanno senso, e d’altra parte sono possibili, solo tra cittadini di una comunità già esistente e organizzata secondo un regime democratico»; « l'umanesimo che pretenda di staccarsi del tutto da ogni responsabilità verso un popolo specifico o da una prospettiva chiara sul bene umano è vano e vuoto»; o ancora: Una forma politica – la nazione, la polis – non è un abito leggero che si può usare e mettere da parte a piacimento rimanendo quel che si è. Essa è quel Tutto nel quale ogni elemento della nostra vita si riunisce 14 e acquista un senso. Se la nostra nazione scomparisse all’improvviso, e se ciò che essa mantiene unito si disperdesse, ognuno di noi diverrebbe istantaneamente un mostro per se stesso. Quelli che si ritengono i più emancipati dalla loro nazione vivono ancora fortemente della sua fecondità. Se dovessi riassumere il vero limite del saggio di Veneziani, direi che esso non sta nell’averci ricordato che senza Dio, senza la patria, senza la famiglia non si costruisce nulla di durevole - contrariamente a quel che pensa l’universalismo libertario per il quale l’apologia di quei tre termini suona come apologia del trono e dell’altare - ma nell’aver tenuto separati, la Tradizione, da un lato, e i Lumi, dall’altro, pur nel riconoscimento e in questo Veneziani si distingue decisamente dai tradizionalisti alla Gustave Thibon, il filosofo-contadino amico di Simone Weil delle buone ragioni dell’una 8l.a Tradizione e degli altri (i Lumi). Per lui, quel riconoscimento, al quale è approdata una destra problematica e pensosa come la sua - a sinistra non s’è mai visto e difficilmente si vedrà. «Sinistra e destra - scrive in una pagina tanto malinconica quanto spiritosa che ricorda le riflessioni di Augusto Del Noce sull’età della secolarizzazione - morirono insieme dopo una lunga agonia. Ma agli orfani della sinistra fu riconosciuta la pensione, la riconvertibilità e il credito culturale; gli orfani della destra ebbero invece il vituperio e lo sfratto esecutivo dalla casa paterna, dichiarata inagibile. A loro si nega pensiero ed esistenza, salvo abiura e integrazione nel nichilismo come braccio obbediente del libero mercato». Dio, Patria e Famiglia dopo il declino è stato scritto proprio per ricordare agli «smemorati di Collegno», quali sono divenuti i nostri connazionali, quel che si è perso e quel che si acquistato con il tramonto di quegli «idola». Il bilancio, però, è neutrale solo in apparenza, come può vedersi in questo brano in cui si parla della fine della famiglia: Al posto della famiglia c’è soprattutto la solitudine dell’Io; il singolo è misura di tutte le cose; il resto è passeggero, variabile dipendente del soggetto. Alle origini c’è il rigetto dei legami ereditati, non scelti ma assegnati dalla sorte o pietrificati da suggelli indissolubili. Ma al posto della famiglia c’è stata anche una grande conquista: la liberazione della donna come soggetto indipendente. Non ci sarebbe stata la sua 15 ascesa senza quel declino: abbiamo pagato l’emancipazione femminile con la decadenza della famiglia (non è la sola ragione, per carità). Sarebbe falso negare l’una nel nome dell’altra. Grande conquista, grave perdita. Ciascuno poi valuti se il baratto è stato vantaggioso o meno. Non critico Veneziani per questa sua poco credibile «obiettività» - conservatori e progressisti non possono uscire dai loro gusci: si ritroverebbero come tartarughe prive di carapace ma per aver diviso, nel pensiero, quel che è unito nella realtà storica. Dio, Patria e Famiglia rinviano a bisogni essenziali e ineludibili - anche se, lo ripeto fino alla noia, il radicalismo illuminista non li ritiene tali - ma quale Dio? Quale Patria? Quale Famiglia? Siamo sicuri che la diversa configurazione assunta, nei secoli, da quei simboli «venerandi» non si debba al fatto che, nella natura più intima di ciascuno di essi, finisce per penetrare «l’altro da sé», insinuando misure umane e razionali per cui la «comunità di destino» si vede costretta a confrontarsi con la «società del perché? e del cosa significa (ti estì)» e a rassegnarsi a un «ibrido» sociale, in cui è difficile distinguere tradizione e innovazione, appartenenza e ragione? Per dirla con parole chiare etiam Turcis, cosa fa sì che Moloch, il crudele Dio dei Cananei, la cui sede di culto era la Geenna, diventi il Dio cristiano che «atterra e suscita, che affanna e che consola»? È pensabile la religione cristiana senza il «logos» al quale si riferì Papa Ratzinger nel discorso di Ratisbona? E le dispute medievali tra agostiniani-platonicifrancescani, da una parte, e domenicani-tomisti-aristotelici, dall’altra, non sono gli incunabili del razionalismo moderno e non hanno nulla a che vedere con l’alba dell’età della secolarizzazione? In questo malinconico mondo sublunare è tutto mescolato ed è proprio tale mescolanza a indurci a non avventurarci in ricostruzioni troppo impegnative del passato e del presente dell’uomo. Del resto, sempre rimanendo nell’ambito della religione, lo stesso Veneziani, in giusta polemica con Gustavo Zagrebelsky, ricorda l’importanza, per le società anglosassoni della religione civile. 16 Una società libera e matura ha bisogno di una fonte comune e super partes da cui attingere principi, fondamenti comuni e valori non negoziabili. Quella fonte, diversamente nominata, non può essere che una tradizione riconosciuta come religione civile. La religione civile va distinta tanto dall’integralismo e dalla teocrazia quanto dalle religioni secolari, che pretendono di sostituire le religioni trasferendo i paradisi e gli inferni in terra. La religione civile non è Dio che entra in politica né la Rivoluzione, il Partito, la Razza, la Classe, lo Stato, la Storia che surrogano Dio. La religione civile fonda il legame sociale su tradizioni, eventi, costumi, miti, principi, valori, sensibilità che precedono la sfera politica e trascendono quella amministrativa. Per Zagrebelsky la religio civilis è nemica della democrazia perché non nasce dalla libertà ma la precede; dunque è autoritaria e teocratica. Ma il massimo fautore della religione civile fu Machiavelli, tutt’altro che un devoto clericale, e il suo riferimento era ai padri del mondo classico, precristiano. Già, ma almeno nel Nord America, è pensabile la «religione civile» come benedizione della comunità politica se questa non incorpora un «destino» che è fatto anche di libertates antiche, di diritti individuali inalienabili, di «fucile e Bibbia», di quel rapporto diretto tra il credente e il suo Signore che fonda, in definitiva, l’autonomia della coscienza? La «religione civile» parla di Dio ma non è certo lo stesso Dio del Visconte Louis de Bonald e perché non lo è? Non lo è perché nella prima sono entrati elementi «spuri» (per un tradizionalista), sono entrate cose come la libertà e la dignità degli individui uti singuli, conciliabili certo col senso della trascendenza - che, per il credente, ne sarebbe la garanzia più sicura, in quanto sottratta al relativismo etico e alle tentazioni nichilistiche - ma certo imparentate con i valori dell’89. Come Dio è un metallo che non si trova mai allo stato puro - e proprio per questo è una delle basi delle civiltà umane - così la patria non è dissociabile da elementi che non fanno parte del «destino». Qui, forse, è l’aspetto più problematico del discorso di Veneziani che, nel momento in cui mette in luce la realtà imprescindibile di certi bisogni, sembra poco attento alle modalità con le quali vengono soddisfatti, nella lunga storia dell’umanità occidentale. La patria è la mia casa, la mia lingua, il mio paesaggio, il luogo delle origini, la terra dei padri e delle madri e di tutto ciò che è nostrano, a cominciare dalle persone. Un bene essenziale, puro, senza offesa verso 17 altri, che suscita amore senza scatenare odio e possesso, che ti fa sentire non occasionale passeggero di questo mondo, ma abitante di una terra e proveniente da una storia. Un amore che non preclude altri amori per luoghi elettivi ma quel luogo lo avverti come speciale, originario, famigliare. Sbucciate l’amor patrio di ciò che non è essenziale, vivo e meritevole di vita, anziché gettarlo per intero, come frutto avvelenato o inacidito. Puntate diritto al cuore della patria e vedete quel che resta. […] Al posto della patria fisica e spirituale, di terra e corpo, c’è la patria web dell’etere tra provvisorie comunità, contatti fluttuanti senza carne né confini. Labili consorterie, occasionali convergenze, compagnie virtuali. Non patrie ma fratrie di naviganti. Al di là dell’immancabile pathos, si possono pure condividere queste tesi che, oltretutto, evidenziano l’inconsistenza etica e culturale del «patriottismo costituzionale»: Il problema, però, non è quello di prendere atto di un generico - ma non per questo meno reale - bisogno di «radici», bensì l’altro di capire, nel caso italiano, perché, ad esempio, la Puglia (o altro luogo) non basta e avanza per appagare quel bisogno di cui parla Veneziani. Perché, a un certo punto, il luogo «dove ti senti a casa, dove i cinque sensi percepiscono il mondo come familiare», gli odori, i sapori, le canzoni, le parlate della tua gente, si allarga al punto da ricomprendere regioni il cui dialetto (pardon, la cui lingua: non voglio peccare contro il «politicamente corretto»), se sei nato a Imperia, è per te meno comprensibile del francese? Che cosa fa sì che, nel tuo cuore e nella tua mente, irrompa, per usare l’espressione di Benedict Anderson, la «comunità immaginata», l’Italia del libro Cuore (1886) - un libro fondamentale a torto guardato con sufficienza da cattolici, marxisti e laico-razionalisti - in cui le montagne della Sila e quelle del Piemonte diventano un luogo dell’anima sia per lo scolaro torinese che per quello calabrese? Ce lo spiega Pierre Manent nel saggio citato: Lo Stato-nazione fu per l'Europa moderna ciò che la polis fu per la Grecia antica: quel che produce l'unità della vita, e dunque l'universo di senso, generando la cosa comune. Nonostante eccellenti lavori storici, il paragone tra le due forme politiche conserva ancora insegnamenti che sarebbe importante portare alla luce. Quel che si può dire in ogni caso, è che la polis e lo Stato-nazione sono le due sole forme politiche che sono state in grado di realizzare, almeno nella 18 loro fase democratica, l'unione profonda tra incivilimento e libertà. Vi furono grandi imperi civilizzati i quali, anche nei loro giorni migliori, ignorarono la libertà. La vita delle tribù, più generalmente la vita «primitiva», comporta una forma molto chiara di libertà, ma ignora il fascino e le grazie della civiltà. Vorrei ora prendere in considerazione la forma dello Stato-nazione, lasciando da parte, a malincuore, la questione della polis. La familiarità nutre il disprezzo. In ogni caso, non sappiamo più apprezzare quel che è stato compiuto dallo Statonazione europeo nel suo sviluppo storico. Si è trattato di un'impresa straordinariamente audace, che ha richiesto una mobilitazione, inedita per la sua intensità e soprattutto per la sua durata e la varietà dei suoi toni, di risorse dell'anima non soltanto da parte dei capi e degli ispiratori ma anche di tutti i cittadini. Si è trattato di estendere la vita civica, il «vivere libero», fino ad allora, nel migliore dei casi, privilegio di un piccolo numero d'individui, a innumerevoli associazioni di uomini. Si è trattato di governare enormi assemblee di uomini lasciandoli liberi. L’Italia, quale la pensarono i padri del Risorgimento, fu appunto «l'unione profonda tra incivilimento e libertà», fra la tribù e l’Umanità: fu «il liberalismo in un solo paese», non in quanto ritenuto privilegio di una sola etnia culturale ma in quanto pensato realisticamente come valore perseguibile solo in presenza di risorse culturali, politiche, economiche in grado di sostenerlo. Per garantire seriamente i diritti civili, infatti, occorre uno Stato forte, capace di far rispettare l’ordine e la legge, occorre una comunità storica, seppur politicamente ancora disunita, caratterizzata da una fitta rete di rapporti di scambio e da una lingua parlata e compresa da tutti. Giustamente, dal loro punto di vista, i tradizionalisti italiani - letti da Veneziani con filiale devozione - vedevano nel Risorgimento l’ombra sanguinaria dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Il Risorgimento era anche questo, era la nostra rivoluzione sia pure più vicina allo spirito di Filadelfia che a quello di Parigi, come ben vide Alessandro Manzoni nell’opera incompiuta, scritta negli anni 1862-1864, Saggio sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Quel che si proponevano i Minghetti, di De Sanctis, i Mazzini era la «nazionalizzazione» di un immenso patrimonio di arte e di storia, di bellezze naturali, di cui avrebbero dovuto beneficiare i popoli di un vastissimo territorio esteso dal Monte Rosa a Pantelleria. Sull’orgoglio dell’appartenenza doveva fondarsi un riscatto civile e politico, atto a trasformare «un volgo disperso che nome 19 non ha» in una comunità di cittadini, fieri dei loro diritti e protesi verso il futuro. «Libertà», come acquisizione di rispetto, di dignità, di autonomia per sudditi diventati, finalmente, cittadini e «proprietà» come custodia e garanzia di una «particolarità» che ci distingueva da altri popoli e rappresentava il «materiale» prezioso sul quale costruire l’edificio civile che ci avrebbe ricongiunto all’Europa vivente. Di qui l’oggettiva - ma positiva - ambiguità ontologica degli artefici dello Stato nazionale: erano «nazionalisti» ante litteram? erano portatori di idealità universali, maturate nel secolo dei lumi? Erano entrambe le cose, anche se non erano nazionalisti nel senso di Enrico Corradini e non erano universalisti nel senso di Luigi Ferrajoli e dei filosofi politici e sociologi «antagonisti» o semplicemente «patrioti del mondo» come Edgar Morin. Solo che la natura mista della nuova comunità politica che sostituirono alla vecchia Staaterei italica era quella di ogni grande realizzazione umana e, con ciò, si ritorna al punto dell’impossibile separazione, nel corpo vivente della storia, di tradizione e innovazione. In un brano non poco significativo del suo libro, Veneziani scrive: «Se si è sicuri della propria identità, è possibile anche integrare gli stranieri, da un verso accogliendo la loro identità e dall’altro favorendo la loro integrazione. Ma perché questo avvenga è necessario che ci sia una forte identità di base, larga e sentita. A questo paese è mancata una religione civile, ovvero un sentire comune fondato sulla propria tradizione civile e religiosa, sulla propria storia e sul valore delle esperienze tramandate; il sentire religioso ha sempre fatto a pugni con la lealtà istituzionale». Le riflessioni di Veneziani colgono spesso nel segno ma, altrettanto spesso, nascondono, l’altra faccia della luna. La relativa estraneità, spesso trasformata in aperta ostilità, dell’universo cattolico al processo unitario - un’estraneità motivata, va riconosciuto, dalla preoccupazione per un pontefice privo di sovranità temporale e quindi riducibile a cappellano di corte - è, senza dubbio, uno dei drammi della storia d’Italia, contrariamente a quel che pensa una superficiale storiografia laica, di cui Risorgimento laico di Massimo Teodori (ed. Rubbettino) è esempio da manuale. Ed è un dramma non certo per la 20 contrapposizione di una superstizione condivisa dalla maggioranza del popolo delle parrocchie al generoso disegno riformatore dei patrioti - come credono appunto i laicisti - ma per il mancato supporto della religione-bisogno fondamentale dell’uomo, indipendentemente dalle forme che essa assume - a un’impresa civile iscritta nel progetto moderno. Sulla linea, del resto, delle varie chiese e sette inglesi che prepararono la stagione delle grandi riforme, sensibilizzarono i sudditi di S.M. Britannica alla questione sociale, contribuirono a infondere nel patriottismo un senso dell’onore e della responsabilità che richiamava la missione che nell’Eneide Virgilio assegnava alla città eterna: «Tu regere imperio populos, Romane, memento: hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos» («di reggere col tuo impero i popoli, o Romano, ricorda: queste saranno le tue arti, e alla pace d'imporre una regola,risparmiare gli arresi e sgominare i superbi»): non a caso Rule Britannia (1740) era seguito da God save the King (1743): Dio, appunto. Ma come poteva realizzarsi qualcosa di simile in Italia dove «il sentire religioso» trovava la sua codificazione nel Sillabo di Pio IX che, tra gli errori del mondo moderno, annoverava quello riportato al XV paragrafo: «È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera»? Come si poteva venire a patti con un potere spirituale che, a prendere alla lettera i suoi anatemi, avrebbe indotto a riguardare gli Stati Uniti come il regno del demonio, giacché proprio su quell’«errore» gli americani fondavano le loro libertà civili e politiche? Al quindicesimo «errore» elencato da Pio IX avrebbe replicato Marco Minghetti nel libro - sempre meno letto e pour cause dai cattolici, soprattutto teocon—Stato e chiesa (1878): «vi ha nella religione qualche cosa di così personale, intimo, e profondo che si ribella ad ogni costringimento esterno, e quando vi cede, egli è che lo spirito vivificatone vi è dileguato, e ne resta solo la parte, per così dire, meccanica e di abitudine» da cui nasceva la domanda «il suddividersi delle sette religiose è poi un male assoluto? Ovvero non rappresenta i molteplici aspetti della verità 21 religiosa dirimpetto alla diversità infinita che si riscontra nell’umana natura?». Spirito profondamente religioso, Minghetti vedeva nella fede un bisogno ineliminabile, declinato, però, in un senso inequivocabilmente individualistico: Imperocché a chi ponga mente ai fatti della coscienza e a quelli della storia apparisce chiara e ferma, sotto varie forme, una tendenza del pensiero verso l'infinito, ed una irrequieta brama che non trova posa nelle cose transitorie e relative e vuol salire all'assoluto. E sarebbe uno smentire la coscienza e la storia il negare che l'uomo si pone tre quesiti terribili, e si affanna a chiederne la soluzione. Questi si presentano egualmente all'intelletto del pastore vagante nell'Asia, e del pensatore educato nella moderna scuola, e ne crucciano l'animo con eguale ansia: donde vengo? perché mi trovo in questo mondo? e dove andrò dopo la vita presente? Ora posto che la scienza si dichiari incompetente a risolvere tali problemi, non può negare la esistenza loro come problemi e perciò come fatti interni, e di conseguenza gli è mestieri di riconoscere nella coscienza umana un elemento indistruttibile che è la base delle credenze religiose, avvegnaché esse sole volgano a darvi soddisfazione. Se nell’area cattolica maggioritaria fossero prevalsi gli «stili di pensiero» dei Marco Minghetti, dei Bettino Ricasoli, dei Raffaello Lambruschini, dei Gino Capponi, dei Ruggero Bonghi non sarebbe mancata, con ogni probabilità, all’Italia una «religione civile» e gli aspersori che, negli anni trenta del Novecento, avrebbero benedetto le truppe in partenza per l’ultima, assurda, conquista coloniale, meno di cent’anni prima benedissero il ricongiungimento delle sparse membra della penisola in uno stato unitario, costituzionale e, seppur carente sotto il profilo liberale, suscettibile di miglioramento - a differenza degli stati pontificio e borbonico. Il cattolicesimo liberale fu la grande occasione perduta della «religione civile» nel nostro paese. Esso, tra l’altro, esprimeva le sue ragioni con accenti che sembravano davvero riconciliare «due secoli l’un contro l’altro armato». Per convincersene basta leggere - tra i tanti documenti teorici del tempo - l’articolo di Raffaello Lambruschini, Diffidenze di parte del clero verso la libertà, apparso su «La Patria» di Firenze il 21 novembre 1847: Ragioniamo dunque. La libertà può essere certamente abusata. I disordini generati dalla licenza sono spaventosi. Ma se per questi 22 eccessi, che tutti i buoni detestano e deplorano, dovesse aborrirsi e proscriversi la libertà; non si dovrebbe ugualmente, e forse più, aborrire e proscrivere l'autorità, per l'abuso che di quella può farsi, che se ne è fatto, che se ne fa tuttavia? Se si potessero numerare e descrivere tutte le crudeltà, le stragi, le persecuzioni consigliate e operate da' tiranni sitibondi di sangue, i quali tormentando, scannando, fucilando, si sono vantati e si vantano di sostenere l'autorità regia, di difendere la religione, di beneficare i popoli, di salvar loro l'anima; se queste nefande scelleratezze si ponessero a confronto, si pesassero insieme con le scelleraggini commesse da popoli abbandonati a libertà sfrenata; quali prevarrebbero in numero, in durata, in enormità? E il prelato genovese concludeva: Siamo dunque di buona fede: gli eccessi della libertà, non provano contro di lei nulla di più, provano forse meno, di quel che provino contro l'autorità le sue insensatezze e la sua ferocia. Una conseguenza se ne deve inferire; ed è che libertà ed autorità non si possono disgiungere; ma si hanno a stringere e contemperare insieme, come due forze reggitrici del mondo morale. E una seconda conseguenza ne va dedotta; la quale i difensori tenaci dell'autorità devono molto considerare: ed è, che se temono schiettamente le smodatezze della licenza, non devono opporsi alla libertà. Combattere la libertà, è irritarla: volerla incatenare è darle una forza da gigante, e una forza sovvertitrice. La libertà non vuol servire, ma vuole obbedire: non soffre il piede dell'autorità sul collo, ma ne riceve la mano che la conduca e la sostenga. Iddio le ha fatte sorelle: qualunque di loro pretenda signoreggiare sull'altra, fa dell'oppressa una tiranna. Era il manifesto della «nuova alleanza» non più fra il trono e l’altare, ma fra la libertà degli individui e dei popoli, che anelano a liberarsi dalle catene dei tiranni (religiosi e secolari) e l’Autorità intesa dantescamente come la trinità della «divina potestate», della «somma sapïenza» e del «primo amore»--che, in una visione religiosa dell’esistenza, quella libertà garantisce, regola e modera. Perplessità analoghe a quelle suscitate dall’analisi del declino di Dio e della patria nascono dalla lettura delle pagine dedicate alla famiglia (pagine, peraltro, talora struggenti e sotto il profilo letterario molto belle) che, da un lato, viene descritta, nel suo appannarsi nel cuore dei contemporanei, con tratti fin troppo realistici e, dall’altro, ottiene un’indulgenza, non sempre meritata, in base al ragionamento che centomila casi di crudeltà consumate tra le mura domestiche non possono cancellare i milioni di casi in 23 cui quelle mura hanno custodito e protetto la vita. Il che è anche vero ma non elimina il problema: la civiltà avanza nella misura in cui si restringe la violenza potenziale delle istituzioni pur necessarie alla convivenza umana e se, in esse, qualcosa talora va male, non è un buon motivo per non metterci mano. Scrive Veneziani: Il paradosso della famiglia: è la comunità originaria più devastata in Occidente ma è l’unica struttura portante intorno a cui ruota la vita pubblica e privata e la principale mediazione tra l’individuo e la società. La sua catastrofe non impedisce la sua strenua sopravvivenza come rifugio del singolo, luogo in cui siamo messi a nudo e siamo più autentici; dove i bisogni, gli affetti, le prime relazioni col mondo e le più intime espressioni di vita trovano il loro alveo naturale, psicologico e rituale. La famiglia ha smesso per molti di essere valore, ma non smette di essere fatto, universalmente; e chi ha perso quel baricentro nella vita lo vive in memoria, in raffronto, anche polemico; comunque non riesce a cancellare la sua originaria dipendenza. Non c’è emancipazione che non sia punteggiata dal suo riaffiorare, influenzando non soltanto la sfera emotiva. Ma non solo: il racconto – nei film, nei libri, ovunque – per farsi coinvolgente si fa intimistico, autobiografico e famigliare, nel ricordo di padri, madri, figli. È l’unica letteratura che emoziona, dopo la crisi del racconto pubblico, storico o ideologico. Ci sono cordoni ombelicali che non si recidono ma mutano stato, facendosi invisibili, perdendo in fisicità ma acquistando in tenacia. Possiamo essere ormai fuori dalla famiglia in ogni senso; ma la famiglia non è fuori da noi. Sono considerazioni che è difficile non condividere ma, ancora una volta, ci si chiede: quale famiglia? Certo non la famiglia di Suor Virginia Maria, al secolo Marianna de Leyva y Marino, meglio nota come la Monaca di Monza, della cui tragedia nulla sapremmo se non l’avesse rievocata un cattolico liberale, «autor d'un romanzetto ove si tratta di promessi sposi», per citare il geniale Giuseppe Giusti e il suo famoso Sant’Ambrogio? Ma neppure la famiglia del «nostro vecchio Sud», con le anziane zie rimaste zitelle, che si spegnevano come candele, senza aver potuto studiare (se non un po’ di pianoforte), senza aver conosciuto le «sante gioie del matrimonio», ridotte a tener i collegamenti tra il luogo natio di avi e genitori e i nipoti sparsi nel 24 mondo, ai quali comunicavano nascite e decessi di cugini spesso visti una sola volta in modo da farsi vivi, almeno con un telegramma di auguri o di condoglianze. Le legislazioni moderne hanno azzerato l’arbitrio del «padre padrone», hanno tutelato i diritti di figlie e di figli, hanno sottratto le madri al destino di «schiave domestiche». Lo «spirito dell’89», sono d’accordo, è debordato in nome di un’astratta eguaglianza e di una libertà concessa a soggetti non ancora ‘maturi’ ma i guasti del permissivismo dilagante non cancellano i sottili sadismi e i meccanismi di potere all’interno della famiglia tradizionale. Che conosceva momenti di elevata eticità e di intensa affettività quando l’idillio comunitario era totale ma le norme della società circostante - fossero quelle della polis o dello stato nazionale - erano fatte rispettare e anzi, al suo interno, ci si poteva preparare ad essere bravi cittadini, giusta i consigli che Enrico Bottini riceveva dal padre nel ricordato capolavoro di Edmondo De Amicis. Quando si raggiungeva l’equilibrio tra affetti e norme («comunità» e «società»), tornando a casa con una punizione inflitta dall’insegnante, si sapeva bene che sarebbe mancata la solidarietà dei genitori giacché essi, per principio, prendevano le parti del professore o del preside, ritenendo questi ultimi, in virtù del loro ufficio, del tutto disinteressati e quindi impossibilitati a commettere ingiustizie. (Nella società permissiva contemporanea, al contrario, la tolleranza per i comportamenti dei figli maleducati diventa intolleranza per i malpagati insegnanti che li cacciano dall’aula se disturbano durante le lezioni e non mostrano alcun rispetto per quanti danno l’anima per insegnare loro qualcosa. A casa non verranno più accolti con cipiglio severo e con le classiche parole: «non si va a suola, per scaldare i banchi!»). La famiglia degna di rimpianto è quella che difendeva, sì, il «noi», il nido comunitario, che garantiva un amore senza condizioni -nella consapevolezza malinconica, come dice il padre di Titta (Armando Brancia), nel felliniano Amarcord (1973), che quello che un padre fa per cento figli, cento figli non fanno per un padre - ma, insieme, acculturava, insegnava a volare con gli altri, a rispettare le regole della convivenza civile. 25 È il rapporto con la libertà, ovvero col bisogno di emancipazione e di autonomia altrettanto iscritto nell’umano quanto il bisogno di radicamento, a segnare la sorte di Dio, Patria, Famiglia. Veneziani, invece, sembra pensare che tutto il malum mundi venga da una scissione interna di quella triade, dalla perdita di armonia derivante dalla pretesa di ciascun elemento di fare da sé, di rinunciare agli altri o a uno dei due. In qualche passo del libro, sembra che si tratti di una ybris antica: «Prima che il rigetto in blocco di Dio, patria e famiglia come frutto di una stessa visione organica, vi è la separazione conflittuale tra questi mondi, più varie subordinate, compresa la conventio ad excludendum verso ciascuna: Dio e patria escludendo la famiglia, per i seguaci di Platone; Dio e famiglia escludendo la patria, per i seguaci delle religioni che vedono la patria come idolatria ideologica o naturalistica; Patria e famiglia escludendo Dio per i conservatori laici che reputano Dio intruso nella sfera pubblica e civile». In altre pagine, invece, si introduce un quarto termine, l’umanità, che non si capisce bene, tuttavia, perché non debba, in qualche modo, ricomprendersi in Dio, che, per i seguaci delle grandi religioni universali monoteistiche, è il creatore del cielo e della terra e quindi del suo abitatore in cui Egli si è compiaciuto. Scrive, infatti, Veneziani: «La religione separata dall’umanità diventa fanatismo, la famiglia eretta a valore assoluto diventa familismo a scapito del mondo, la patria elevata a divinità diventa idolatria nazionalista. Contemperandosi a vicenda, si previene la loro degenerazione. Ogni reductio ad unum diventa prima o poi reductio ad nihilum. Azzerando il contesto, si azzera anche il testo; e non c’è due senza tre. L’uno assoluto e isolato, anche se divino, diventa il cavallo di Troia del Nulla. Il deserto ingoia l’Unico; il monismo cannibalizza tutto ciò che è intorno a sé; e poi si suicida». Sennonché la «religione separata dall’umanità» è una delle infinite species di religione, quella politeistica, per i quali «uomini» sono soltanto gli appartenenti alla «tribù»: almeno in Occidente, la religione non si è mai separata dall’umanità riguardata come res publica christiana da proteggere e da difendere, al di là delle frontiere politiche, dagli eretici, dagli atei, dai rinnegati, dai ribelli che non accettano il primato di Pietro o da 26 quelli che obbediscono ciecamente alle direttive papiste. Anche se in assoluta minoranza, la stessa setta si è sempre percepita come compendio dell’intera umanità redenta dal peccato d’orgoglio, come popolo eletto incaricato di salvare il mondo. In realtà, i tre simboli comunitari - Dio, Patria, Famiglia non evitano la «degenerazione» «contemperandosi a vicenda», come pensa Veneziani, ma aprendosi alla libertà, alle esigenze dell’individualità «moderna» che fa proprio il motto kantiano «sapere aude!» e che vuol muoversi nel mondo senza esserne impedita da lacci e vincoli familiari, patriottici, religiosi. Veneziani ha ragione quando obietta a chi ricorda le vittime dei soffocanti legami comunitari che i roghi e le torture dell’Inquisizione trovano un riscontro, non meno crudele, nella ghigliottina francese e nei «campi di lavoro» siberiani intesi a rigenerare l’umanità traviata. Al «quantum potuit religio!» di Lucrezio, in effetti, si può sempre contrapporre, idealmente, nel precipitare dei secoli, l’amara esclamazione di Madame Roland «Oh libertà quanti crimini in tuo nome!». Qui, però, non si tratta di stabilire graduatorie di efferatezza o di ricorrere a spiegazioni rassicuranti dei delitti compiuti nel nostro campo - per citare qualche topos argomentativo: in un caso,la violenza politica giacobina o sovietica non viene spiegata come un portato dell’ideologia illuministica o del materialismo storico, ma come il residuo di costumi premoderni e di superstizioni antiche di cui i rivoluzionari, «amici del genere umano», non riuscirono a liberarsi del tutto; nell’altro, si sostiene che le crudeltà di cui si sono macchiati i sacerdoti di Cristo non sono iscritte nei Vangeli o nei testi dei Dottori della Chiesa ma nella fragilità e nella corruzione della natura lapsa che non risparmiano neppure gli uomini che hanno dedicato la vita al servizio divino. Si tratta, invece, di prendere atto che, al di là delle loro mutevoli e contraddittorie manifestazioni nello spazio e nel tempo, la passione della libertà e il bisogno di radici sono egualmente forti e insopprimibili nell’animo umano e se calpestare l’anelito all’emancipazione degli individui dai lacci avvolgenti della famiglia, del paese, della chiesa conduce alla popperiana «società chiusa», voler azzerare nell’umanità il legame con la trascendenza 27 orizzontale - la proiezione di sé oltre il proprio «particulare», la dedizione incondizionata alla famiglia e alla patria - e con la trascendenza verticale - il legame totalizzante con Dio e l’attesa del suo Regno - conduce a quell’inferno sulla terra descritto nell’indimenticabile film di John Ford La croce di fuoco (The Fugitive) del 1947, liberamente ispirato al romanzo Il potere e la gloria di Graham Greene(1940). Gli osservatori delle vicende umane che si sono formati sui grandi testi della filosofia della crisi o della decadenza (ma crisi e decadenza non sono la stessa cosa), ravvisano nella dialettica comunità/società, tradizione/innovazione, destino/ragione l’indebolimento del primo termine e in tale indebolimento prossimo all’estinzione - intravedono la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era votata alla catastrofe. E indubbiamente le loro sconsolate analisi possono venir comprese e condivise anche da quanti hanno alle spalle letture o militanze politiche molto diverse. Specialmente in paesi come l’Italia, che sembrano «navi senza nocchiero in gran tempesta», dove non solo le autorità tradizionali appaiono, per dirla con una straordinaria metafora di Robert Musil, uccelli impagliati su alberi di cartone ma il senso stesso dell’identità nazionale è divenuto evanescente sicché ci si chiede, sempre più spesso, perché si continui a stare insieme e se l’unione di realtà regionali e culturali tanto diverse non sia stata un’avventura finita male. E tuttavia su questi «stati d’animo» pur giustificati non si ricostruisce nessuna solida teoria che ci aiuti davvero a capire la realtà in cui ci tocca vivere. Siamo attori - con diversi ruoli, ad alcuni di noi è stata assegnata la parte del protagonista ad altri quella di semplici comparse - sul grande palcoscenico della storia e, in quanto attori, non possiamo essere insieme spettatori e giudici. Certi fenomeni - mode, trend intellettuali, nuove credenze collettive più o meno inconsce - ci colpiscono e talvolta dolorosamente giacché ci fanno sentire parte di un mondo in estinzione ma non possiamo prevedere come e se i due bisogni fondamentali discussi in queste pagine - il radicamento comunitario e l’emancipazione individualistica - troveranno nuove forme espressive e nuovi istituti. È troppo facile dire: senza Dio, patria, 28 famiglia, l’individualità precipita nel vuoto del nichilismo, come, d’altronde, è troppo facile dire: se l’individualità viene compressa e soffocata dai legami comunitari Dio, patria e famiglia diventano tetre prigioni dalle quali ci libereranno solo la morte e il suicidio. Il problema che si pone allo studioso che, con grande fatica, cerca di porsi a una certa distanza critica dagli eventi che gli sfilano davanti, è quello di spiegare le ragioni per le quali proprio quelle determinate forme storiche - sorte dai bisogni di Dio, della patria, della famiglia - che ci sono note e familiari non hanno più funzionato sicché ci si ritrova con una libertà anemica e anomica (laicistica, si potrebbe dire) - perché priva di contenuti comunitari -, da una parte, e con i fantasmi di una comunità cieca - perché non più animata da individualità vitali e assetate di «autonomia» dall’altra. C’è una pagina del libro di Veneziani che vale la pena citare per esteso in quanto compendia, come poche altre, la filosofia politica che lo ispira. È la pagina dedicata alla crisi dell’autorità : E se il deficit maggiore nella società del nostro tempo fosse l’Autorità? Se l’amor patrio, come del resto Dio padre e la famiglia patriarcale, ruotano intorno alla figura autorevole del padre, riferimento e guida, la sua mancanza si traduce, soprattutto in ambito civile, come perdita di autorità. Impronunciabile parola ormai da troppi decenni, ci assoggettiamo senza critiche solo ai comandi impersonali del mercato, della borsa, della tecnica, del progresso. O accettiamo poteri e strapoteri in loro servizio, ma guai a sentir parlare di autorità. L’autorità sconta un discredito stagionato. Nel dopoguerra perché odorava ancora di fascismo e di antidemocrazia. Nel Sessantotto perché era la bestia nera della liberazione giovanile, femminile, proletaria. Nei socialismi, sovietici e liberali, perché considerata da ambedue nemica giurata dell’egualitarismo. Nelle società liberali e permissive perché vista come l’antagonista funesto della libertà. La principale carenza dei populismi liberali del nostro tempo non è la deriva autoritaria, come spesso si è ripetuto, ma, al contrario, l’assenza di un principio di autorità e di autorevolezza, la ricerca di compiacere i cittadini, allentando le regole e assecondandoli, rinunciando in partenza a correlare educazione e libertà. / Se la modernità sorge sulla fratellanza, l’uguaglianza e la libertà, l’autorità fu ritenuta uno sfregio a tutte e tre; perché l’autorità non è fraterna, semmai paterna, o al più materna; non indica uguaglianza, semmai promuove differenza e gerarchia; e non è considerata amica della libertà ma il suo inevitabile rovescio. Oppressiva in pubblico, 29 repressiva in privato, l’autorità è stata l’innominabile belva della nostra epoca. Per riammettere una sua vaga parente, si è preferito ribattezzarla in Italia col più rassicurante termine di authority, anglo-americano, tollerata perché «di servizio», a tutela delle regole. O dissimulata nell’invocazione diffusa di leadership. E invece l’autorità ci manca. Nei Pensieri sulla democrazia in Europa (1846), Giuseppe Mazzini aveva scritto che «Il mondo ha sete in oggi, checché per altri si dica, di autorità». Per Veneziani, quella sete sembra essersi dileguata ma la scomparsa del suo oggetto dall’orizzonte umano ci confina nella waste Land di T. S. Eliot. Ma se l’autorità è divenuta sospetta, un fardello pesante che ci si vuole scrollare di dosso, ciò non dipenderà anche dal fatto che i suoi detentori, in Italia e altrove, non si sono mostrati all’altezza del loro compito? In un’Inghilterra, dove pure non sono poche le crepe dell’edificio politico e del sistema sociale, chi mette in questione l’autorità di Elisabetta II? La dignità, la compostezza, lo stile umano di Giorgio VI sono stati trasmessi alla figlia - che non a caso recentemente ha potuto toccare con mano l’affetto e la devozione dei suoi sudditi - e quei tratti rendono il simbolo della più alta autorità politica delle Isole britanniche al riparo da ogni delegittimazione. Nel novembre del 2008, lo sconfitto senatore John Sidney McCain pronunciò un memorabile discorso di ringraziamento ai suoi sostenitori. «Io e il senatore Obama - disse tra l’altro abbiamo avuto divergenze e ci siamo confrontati su di esse, e lui ha prevalso. Indubbiamente, molte di quelle divergenze rimangono. Sono tempi difficili per il nostro paese, e io questa notte mi impegno con lui a fare tutto quanto sarà in mio potere per aiutarlo a guidarci attraverso le tante sfide che dobbiamo affrontare. Esorto tutti gli americani che mi hanno sostenuto a unirsi a me non soltanto per fargli le congratulazioni per la sua vittoria, ma per offrire al nostro presidente la nostra disponibilità e i nostri sforzi più convinti per trovare dei modi per marciare uniti, per trovare i necessari compromessi, per superare le nostre divergenze e per contribuire a riportare la prosperità, a difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e a lasciare ai nostri figli e nipoti un paese più forte, un paese migliore di quello che noi abbiamo ricevuto». Al di là dell’apprezzamento per queste nobili 30 parole e della commozione suscitata dal ricordo di Booker Washington, il primo ‘negro’ che cenò alla Casa Bianca con un Presidente degli Stati Uniti (era il grande Theodore Roosvelt) fummo in molti ad avere la sensazione che in America, l’autorità, l’autorità delle istituzioni, esiste, ed è una realtà che ha lo spessore dell’acciaio che cola dagli altiforni di Detroit. «L’autorità sconta un discredito stagionato», annota Veneziani. È indubbio, per quel che riguarda il nostro paese, ma occorre pur chiedersi il perché. La patria fascista, che per anni aveva riscosso il consenso degli italiani stanchi di conati rivoluzionari senza senso e senza futuro - ce lo ha ricordato Roberto Vivarelli nel suo recente, coraggioso e provocatorio, saggio, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, (ed. Il Mulino) - non ci ha dato le leggi razziali e la tragica alleanza col regime totalitario più spietato del XX secolo (spietato non tanto per il numero, pur raccapricciante, delle vittime della sua folle ideologia quanto per le motivazioni biologiche e razziali che ne costituivano il fondamento)? Se l’autorità di una pur benemerita dinastia (nelle celebrazioni del centenario pressoché ignorata) alla quale si deve l’unità italiana, è miseramente caduta in pezzi, la ragione non sta nella complicità col fascismo? E se il nemico giurato di quest’ultimo, l’antifascismo, può vantare un’autorità morale solo nei discorsi ufficiali e nella retorica resistenziale, ciò non si deve alle vicende rievocate da Giampaolo Pansa nei suoi libri «revisionistici»? Il settarismo azionista - che ha incarnato l’antifascismo eterno persino più di quello social comunista - non ha contribuito a un discredito che investe egualmente destra e sinistra? Oggi il nostro «mito di fondazione», il Risorgimento, non fa più palpitare i cuori: la political culture espressa da forze politiche votate dalla maggioranza degli italiani, all’inseguimento dei voti clericali, riabilita Pio IX, ripropone la tesi della «conquista regia» e della colonizzazione piemontese del Sud, lamenta la presunta estraneità dei cattolici al processo unitario (presunta, sì, giacché se è vero che le masse specialmente rurali furono caratterizzate da un’alienazione politica nei confronti dello stato sorto nel 1861, alimentata dalle parrocchie, è non meno vero che non ci sarebbe 31 stato il Risorgimento senza il sostegno attivo e convinto delle «classi medie» e aristocratiche, soprattutto urbane, che nella stragrande maggioranza erano cattoliche alla maniera di Massimo d’Azeglio non di Monaldo Leopardi). D’altronde, la difesa del Risorgimento da parte di un’area ideologica da sempre estranea ai suoi valori - a quest’area appartenevano quanti, nel 1919, irridevano ai combattenti della quarta guerra d’indipendenza - non ha certo contribuito a farci ritrovare l’orgoglio dell’appartenenza. Nel sessantotto, l’autorità, rileva Veneziani, «era la bestia nera della liberazione giovanile, femminile, proletaria» e certo averne travolto i simulacri ancora rimasti, a mio avviso, ha creato un ambiente più invivibile di quello che aveva determinato la «ribellione giovanile»: l’Università, almeno per quanto riguarda le Facoltà umanistiche, non esiste più, la famiglia si è spappolata, il mondo politico, a destra e a sinistra, si è riempito di «professionisti» che fanno venire in mente il caustico Leo Longanesi che, vedendo dal loggione dei giornalisti i deputati della Prima Legislatura, aveva sospirato: «E pensare che un giorno ce li dovremo persino rimpiangere!». Quel giorno è venuto e ci ritroviamo qui costretti a riconoscere che, al confronto con i leader della D.C., del P.C.I., dei partiti laici minori, dello stesso M.S.I., questi di oggi sembrano gli imperatori della decadenza rispetto a quelli dell’età di Traiano e dei suoi immediati successori. Ciò riconosciuto, era forse così immotivata la «rivolta giovanile»? Se Dio, patria, famiglia «pesavano troppo», se ci si sentiva prigionieri di «regole» fuori stagione - e il discorso vale in special modo per la condizione femminile -, era per colpa del «nichilismo» dissolutore di ogni autorità costituita? Se il «nuovo» fa oggi rimpiangere il «vecchio», forse per questo dobbiamo credere che non c’erano buone ragioni per una richiesta generazionale di «svecchiamento» dei costumi, della cultura, delle istituzioni? Edmund Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790) si chiedeva perché non si fosse riusciti a restaurare, in modo saggio e prudente, l’edificio già esistente e fosse prevalso, invece, il partito di quanti volevano far tabula rasa della Francia e del suo passato. Noi dovremmo domandarci perché il sessantotto ove si eccettui la ricordata emancipazione della donna che, 32 indubbiamente, ha segnato una svolta di civiltà non sottovalutabile, anche se, con ogni probabilità, si sarebbe verificata egualmente senza la «rivoluzione culturale» all’italiana, pur se con maggiore lentezza - ci abbia lasciato solo rovine e, tutt’al più, una libertà libertaria prossima al libertinaggio e alla «perdita del centro». Insomma se qualcosa è andato storto, si ha il dovere di dirlo (e dispiace che a dirlo sia solo il pensiero della destra) ma si ha, altresì, il dovere di comprendere perché s’è messo in moto il processo innovatore e perché, da più parti, non si era soddisfatti dell’esistente. Nel discorso di Veneziani, però, il punto più debole, a mio parere, è il mancato approfondimento della genesi e della natura del liberalismo. Come molti filosofi tradizionalisti e conservatori, egli vede la libertà liberale come «svuotamento», sovranità assoluta di un individuo che, in campo morale, religioso, politico etc., si è «liberato» di vincoli, regole, obblighi eteronomi -ovvero imposti da un esterno sempre più delegittimato - e gode della conquistata emancipazione come Icaro nelle prime fasi del suo volo fatale. In realtà, la libertà liberale non è «disimpegno» ma «impegno» scelto con convinzione, seguendo i dettami della coscienza, disposizione a vivere e a collaborare con gli altri - una disposizione che può essere dettata non solo dall’intelletto astratto (la «raison») ma, altresì, da moti del cuore, da affinità elettive, da inclinazioni profonde che appartengono solo al singolo, nella sua irriducibile «particolarità». Non dimentichiamo che il secolo del liberalismo è l’Ottocento ovvero l’età del romanticismo e del grande romanzo borghese e che, in Francia, a fare da battistrada letterari alla nuova sensibilità sono due liberali doc, Benjamin Constant l’autore dell’Adolphe (1816) - e M.me de Staël - l’autrice De l’Allemagne (1810). Veneziani sembra rendersene conto allorché, tirando le somme della sua densa riflessione sul «dopo declino», accantona per un momento il suo pessimismo e azzarda un modo possibile che ci risparmi il destino degli «ultimi giorni di Pompei» e che riassume nella formula ossomorica della «società comunitaria». Scrive: 33 Nelle società organiche – scrive - Dio patria e famiglia erano considerati principi naturali e la precettazione autoritaria ricadeva su cui se ne chiamava fuori ed era considerato empio, traditore o contro-natura. Nelle società moderna fondate sulla libertà dei singoli e il relativismo delle scelte, ciascuno può vivere come ritiene, avere un suo dio, una sua patria, una sua famiglia, o non averne affatto, senza attenersi a un canone prescritto. Le prime offrivano sicurezza e coesione a prezzo della libertà e dei diritti individuali. Le seconde, viceversa, riconoscono libertà e diritti individuali a prezzo della dissoluzione e del cinismo. La scommessa futura, per non naufragare nel nichilismo senza arretrare nel dispotismo, sarà fondare una terza società che definiamo comunitaria dove nella sfera privata è garantita a ciascuno la libertà di scelta e di vita in relazione a Dio, patria e famiglia; ma nella sfera pubblica si riconosce un orizzonte comune, venuto dalla tradizione di un popolo, dalla sua storia e dalla sua esperienza di vita, verso cui orientare la comunità, pur nel rispetto delle singole libertà di aderirvi o meno. Sforzo immane e delicato, fondato sull’equilibrio - difficile ma necessario - tra responsabilità personale e l’educazione comunitaria. Ma non c’è altra soluzione per evitare nichilismo e fanatismo, horror vacui e cupio dissolvi. È non poco indicativa l’espressione usata da Veneziani: «precettazione autoritaria» giacché essa identifica, in maniera scultorea, proprio ciò contro cui insorge l’homo liberalis: la conformità a codici e a «valori comuni» imposta dal braccio secolare dell’autorità spirituale - chi viene allontanato dai sacramenti o scomunicato, per essersi fatta un’immagine non ortodossa di Dio, del creato, dei doveri e dei diritti iscritti nella nostra natura, può perdere quanto gli appartiene, a cominciare dalla vita, non può più contare sulla collaborazione sociale, gli è sottratta la patria potestà. Sennonché alla «precettazione autoritaria» dell’epoca sacrale Veneziani contrappone un’antitesi irreale, il nesso, registrato nell’epoca della secolarizzazione, fra riconoscimento delle libertà e dei diritti individuali, da un lato, e la china pericolosa che porta alla «dissoluzione» e al «cinismo». L’autorità (tradizionale) protegge così tanto che finisce per soffocare, la «libertà dei moderni» emancipa così tanto da togliere il terreno sotto i piedi: la prima è il pieno che non concede spazio al movimento, la seconda è il vuoto che fa precipitare nel nulla. Ma le cose stanno davvero così? O non è forse vero che le stagioni più belle della storia dell’uomo occidentale sono quelle in cui si sono incontrati il Cielo e la Terra, in cui la Tradizione ha arato il campo 34 perché vi fiorissero le libertà - l’esempio classico delle tredici colonie che insorgono in nome delle libertà al plurale riconosciute da sempre ai popoli di lingua inglese, ivi compreso il principio «no taxation without representation» - e l’allargamento dei diritti civili e politici è stato visto come la conseguenza naturale del patriottismo - se si è «fratelli d’Italia», «enfants de la patrie», dignità e libertà vanno riconosciute a tutti. È in quelle stagioni che si è realizzata de facto quella «terza via» che, nel discorso di Veneziani, assume i tratti di un’improbabile utopia o, meglio, di un nuovo, problematico, «mito di rifondazione»: è allora che, «nella sfera privata», è stata «garantita a ciascuno la libertà di scelta e di vita in relazione a Dio, patria e famiglia, nella sfera pubblica» ci si è riconosciuti in «un orizzonte comune, venuto dalla tradizione di un popolo, dalla sua storia e dalla sua esperienza di vita» e verso quell’orizzonte si è orientata «la comunità, pur nel rispetto delle singole libertà di aderirvi o meno». Non ricorda tutto questo l’America visitata e descritta da Alexis de Tocqueville? Come i «clercs» di tutti i tempi, Veneziani sembra affidare l’improbabile salvezza alla Parola, a una sorta di resipiscenza culturale, a un’inversione di tendenza che susciti una (contro)riforma morale e intellettuale degli italiani (e degli europei). È la solita sopravvalutazione delle «risorse simboliche» che già troviamo in un proto-intellettuale militante come Paolo Sarpi allorché scriveva: «La materia de’ libri par cosa di poco momento, perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano eserciti armati». Tale sopravvalutazione può venir ritorta contro quanti considerano il «potere spirituale» una mera sovrastruttura e si rifiutano, pertanto, di vedere in esso una variabile autonoma nell’incessante conflitto dei valori e degli interessi che agita il mondo umano (in primis,naturalmente, v. il materialismo storico che riduce a «ideologia» ogni tipo di filosofia) ma cade in una diversa unilateralità nella misura in cui sembra non tener conto né degli assetti di potere internazionali - è la domanda, cruciale: «chi porta le armi e decide, sia pure indirettamente, il destino dei 35 popoli?» né della ripartizione e del controllo delle risorse economiche, fattori che incidono non poco sugli stati della mente, sulle visioni del mondo, sull’autostima delle nazioni. Il «radicamento» che può indurre l’essere sudditi di una potenza navale, come l’Inghilterra del Settecento e dell’Ottocento, regina degli Oceani, è diverso da quello che può essere sentito da un paese che aveva aspirato a entrare nel concerto delle Grandi Potenze, dove si assegnano le aree di influenza, e si è, invece, ritrovato tra le macerie di una guerra così inutile rovinosa per il fisico e per il morale dei cittadini da indurre a pensare che la nascita dello ‘stato nazionale’ non sia stato un ‘buon affare’. Il radicamento ipotizzabile in una comunità politica alla quale non mancano le risorse naturali, lo spirito industriale, la capacità di innovazione tecnologica, la disponibilità di mercati sempre più ampi per i suoi prodotti è diverso da quello che può essere suscitato ad arte - ricostruendo diversamente,nelle aule scolastiche e nei palinsesti mass-mediatici, le vicende del passato -, in popoli impoveriti, incapaci di far sopravvivere quel poco o molto di Welfare State che erano riusciti a installare, umiliati dall’abbassamento di un tenore di vita che sembrava raggiunto per sempre. Una comunità reale e vitale non sorge dal fiat di un «pensiero nuovo», da una diversa angolazione da cui guardare il mondo, dalla correzione di giudizi distorti su questo o quel periodo storico ma è il precipitato di un insieme complesso di fattori che al presente non sono ancora né prevedibili nè visibili. Quel che è certo, e qui Veneziani coglie nel segno, è che una political culture caratterizzata dal mancato accordo sui principi che stanno a fondamento del confronto tra i partiti e le classi non potrà mai diventare la civic culture di una nazione coesa, pur nella diversità delle sue componenti,e decisa a marciare unita nelle tempeste politiche ed economiche che, periodicamente, si abbattono sull’estremo promontorio dell’Asia. Questo testo è stato scritto per il Liber Amicorum di Domenico Coccopalmerio, a cura di Gian Luigi Cecchini. 36 To Lia (and her cat), Paola, Julia, Gregor, Fabrice, Silvana, Gaetano, Teresa de España, Haruki from Japan, Linda (schon lang weg), friends in Berlin MODALITIES OF THE SUBLIME MODAL CATEGORIES BETWEEN REASON, UNDERSTANDING, AND SENSIBILITY di Maurizio Candiotto Abstract Kant distingue il sublime in «matematico» e «dinamico»: il primo è esperito grazie alla sproporzione quantitativa tra l’osservatore e l’osservato, il secondo grazie alle forze smisurate dispiegate dalla natura. Fra le kantiane categorie «dinamiche» rientrano però anche i concetti modali; ora, esiste di fatto un sublime che si lascia pensare per mezzo di essi. Se ne può fare esperienza per vie puramente intellettuali (senza pregiudizio per eventuali operazioni artistiche volte a trasporre questa esperienza sul piano sensibile), leggendo taluni testi della tradizione filosofica – il Parmenide di Platone, la Scienza della logica di Hegel, il Tractatus di Wittgenstein – in cui necessità e possibilità giocano un ruolo ambivalente: mettere in scacco l’intelletto da un lato, elevarlo a una comprensione superiore dall’altro – alla ragione. Kant distingue le sublime « mathématique » du sublime « dynamique » : on fait l’expérience du premier en vertu de a disproportion quantitative entre l’observateur et ce qui se passe devant (ou autour) de lui, alors que le deuxième se laisse expérimenter en présence de forces immenses déployées par la nature. Les concepts modaux, cependant, font eux aussi partie des catégories « dynamiques » kantiennes ; or, il existe en fait un sublime qui se laisse penser précisément par ceux-ci. On peut en faire l’expérience par des voies purement intellectuelles (sans préjudice pour des mises en œuvre artistiques visant à la transposer sur le plan de la sensibilité), notamment en lisant certains textes de la tradition philosophique – tels le Parménide de Platon, la Science de la logique de Hegel, le Tractatus de Wittgenstein – où nécessité et possibilité jouent un rôle ambivalent : mettre l’entendement en échec d’un côté, l`élever à une compréhension supérieure de l’autre – soit, à la raison. Kant distinguishes between the «mathematical» and the «dynamical» Sublime: the former is experienced by the disproportion in size between the viewer and what is given to her sight, the latter by unlimited forces deployed by nature. However, Kant’s «dynamical» categories include modal notions also; in facts, there exists a Sublime that is essentially marked by them, too. One can experience it by purely 37 intellectual means (without prejudice for any artistic attempt to transpose it into a visual or otherwise sensible field), namely by reading some philosophical texts – such as Plato’s Parmenides, Hegel’s Science of Logic, Wittgenstein’s Tractatus – where possibility and necessity play an ambivalent role: to checkmate understanding on the one hand, and to raise it to a superior comprehension on the other, namely to reason Sublime is, according to Kant, what has the effect of intimidating the viewer inasmuch she is a sensible being, while at the same time elating her as an intelligible one. Kant divides the Sublime in Mathematical and Dynamical, according to the ‘means’ by which this effect is brought about: impressively big dimensions of what is offered to the sight or overwhelmingly huge forces at work, respectively. In the first case, the viewer directly feels her own smallness due to the fact that she cannot capture what she is confronted with in one comprehensive grasp of perception; in the second case, what is felt is rather one’s own extreme weakness by contrast with the indomitable force of nature. In both cases, however, the feeling of one’s own impotence and insignificance as a sensible being has the counter-effect of exalting one’s own awareness of being an intelligible being, along with the pride and the hopes that this carries with it. Dynamic Categories Claiming for Equality Thus, the Sublime deserves the label ‘mathematical’ when it is tied to dimensions, so to the categories of extensive quantity, ‘dynamical’ when tied to force, so to one category of relation (namely, causality). But: why should the dynamic Sublime be limited to the categories of relation only? May the modal categories not claim for an equal status? If so, they must appeal to some experience that is both one of the Sublime and intimately marked by possibility and necessity – so intimately as to allow these categories to play a role in giving birth to the Sublime itself, and not merely – as Kant himself allows for – in accounting for judgments on its moral. So, let’s ask ourselves whether one can experience anything which prompts her 38 to call it sublime, while the experience itself is shaped by modal categories. Many of us did in fact experience a somehow sublime intimidation under the performance of necessity and possibility as they feature in some capital philosophical texts; first of all, in Plato’s Parmenides. The reader, when facing its second part, is likely to feel overwhelmed by the force of necessity. At each hypothesis, we are led to explore one more possibility of thought, a way of the understanding (namely, to understand the One); however, we are baffled each time by an aporetic conclusion. By the force of necessity, namely of cogent arguing, each possibility turns into (an aporetic) impossibility; which is itself necessity, given the well-known interdefinability between possibility and necessity via negation. Necessity, therefore, is not only what directs each of our steps along the way, but is also what the conclusion of the entire dialogue (and of each hypothesis in it) is like – namely, a cogent impossibility. Does this deserve the name of sublime? If so, it is for sure a piece of the wanted modal Sublime; I daresay it is in facts sublime, too. It is, however, a Sublime conveyed by an intellectual experience – one of performing a reasoning; better: of following one carrying us away – rather than by a sensible experience, as is the case with the Sublime Kant talks about. Is therefore the so conveyed Sublime itself intellectual? Does an intellectual Sublime as distinguished from the sensible one exist – or else do these predicates only pertain to the different ways to experience it? I tend to opt for the second answer, namely to talk of modal Sublime tout court and of an intellectual experience of it. However, if the modal Sublime turned out to be possibly known only by an intellectual experience, the above distinction would be likely to be idle. At any rate: if the modal Sublime we have so encountered is itself intellectual, it is also, and more profoundly, a piece of rational Sublime. The understanding (as a faculty of concepts and judgments) is the hero rather of the first part of the dialogue, where it is confronted with its own difficulties (cf. Parmenides’ objections to Socrates’ theory of ideas) in a quite straightforward way, namely, in its own way, properly. In the second part of the 39 dialogue, on the other hand, it is rather reason as a faculty of inferences aiming at a totality that plays the game. The totality aimed at is one of conditions and conclusions, up to a knowledge of nothing less than the One. Here conclusions are drawn from hypotheses which are, at the very least, incompatible with each other. The difficulty of composing them coherently, of thinking all of them in one, is the result of a coherent reasoning. Thereby, we experience both our possibility of cogently thinking and our cogent impossibility to conceive of the result. But we are nonetheless led to grasp that impossibility as our own, as a necessary result of our reasoning, of our capability to explore the possible (at each hypothesis); as a baffling one, and, though, attained by steps of ours, made while being aware of what we were doing. Thus, in one sense, we do understand our result. This does ease – without erasing – the frustration we are experiencing. It is not, however, as sensible beings that we feel oppressed, but rather in our very intellectual performances. It is the intellectual rather than the sensible limitation that is overcome: the reader both feels trapped in untenable conclusions and rises above her own incapability to grasp them in their necessity since the intimate possibilities of her thinking. Thus, understanding stares at reason. Understanding is exalted by being shown how its own coherence can lead it beyond itself, although not out of its own impasse. Far before paraconsistent logic attempted to educate us to tolerate some contradictions, Plato offers us an experience of paraconsistency. Whereas Socrates’ theory of ideas was hit by Parmenides’ objections, now the intellect dwells in its own impasse. Aporia is here ambivalent, just like Achilles’ spear, which could both wound and heal. Many philosophers – Plotinus, Nicholas of Cusa, most of all Hegel – will subsequently take the rise of understanding to a superior comprehension through its own aporias very seriously. They will manage to make its dwelling within them into a step further – which is not, however, an exit toward a noncontradictory stay, for contradiction somehow does remain: it now dwells within the result. Hegel will call this reason – which now turns out to be a faculty for totality (as in Kant) that is also one for containing 40 (without killing) contradictions. Aufhebung is Hegel’s specific manner to walk the pathway of aporia, to rise by means of the latter – with its necessity – to the dimension of intelligibility. Does each step of Aufhebung offer the opportunity to experience, in a further fashion, the modal Sublime? Back to Sensibility Up to this point, the modal Sublime has been spanning between reason and understanding. And sensibility? Does it have no access to the extreme tip of the dynamical Sublime, namely the modal one? This is questionable: after all, many artists do strive to show us some unforeseen possibilities for perception – which are possibilities for perception, i.e. in the sensible domain. Do they lead further – in some cases at least – to the intelligible? This, however, would only result in an experience of the modal Sublime if the disclosure of the new possibility went along with an impossibility – a quite distressing one. To this effect, I just recall the final scene of Peter Weir’s The Truman Show, when Truman touches with his hand... the (cardboard) horizon of his entire life. And opens it to step forth. But let’s step back to the door from where one can see new possibilities for perception while feeling constrained by an impossibility. Will one then look toward an intelligible realm, or better: through the intelligible dimension of the world? Now, intelligence itself has been construed in terms of an – unattainable, ever displacing – horizon strictly tied with the one of sensible experience (Husserl, Merleau-Ponty; cf. also Kant’s Was heißt: sich im Denken orientieren?). Here, however, the question is whether the relation between sensibility and intelligence as dimensions of experience provides an access to the intelligible dimension of the world. If so, this would qualify as a sensible experience of the modal Sublime, provided it would take place by means of, or at least go along with, the experience of an impossibility of ours. 41 Here further investigation and excursion within the arts is needed. I only sketch some clues: it is question of an open path but somehow impossible to walk along – and though, it is open to me. It is some impossibility of my perception that I grasp, an impossibility pertaining to me as a sensible being; thereby, I become aware of it as an impossibility of mine, as the open door I am staying in and looking from. Toward an intelligible dimension of the world? I leave this issue open. However, thanks to the artist who showed me the (obstructed) way, the door to it is now open, to me. Perhaps more; is it, just like the Door of the Law, open for me? So, is there hope, much hope – for God, but not for us? If art is sublime, it is because it opens the door. In order to stay in it, then, there is no need for any guardian. Appendix. Qualifying a Quantum of Sublime A Midsummer Daydream And at the instant he knew, he ceased to know (Jack London) When quantity is in play, it is typically, extensive quantity; however, there is still room for a Sublime tied to the effects of a seemingly infinite intensity. Recall that Duns Scot, in order to convey the idea of the Summum Ens, had recourse to the highest degree of a quality (namely, whiteness), i.e. to an infinite intensive quantity; could not the latter be sublime? Its power is likely to be so annihilating for our senses as to suggest a step beyond the very domain of sensibility; if the limit of a sensible intensity cannot be born by the sight, if the highest degree of, say, whiteness is blinding, it seems thereby to hint at the equally and even more unbearable highest degree of being – the one whereby even Moses could not look into... God’s face. (According to Rilke, angels 42 themselves ought to be careful: «Gott sah mich an; er blendete...»). Not to mention a whiteness that goes in the very opposite direction: think of Moby Dick... Appendix II. How to Make Intelligible a Sensible World Prolegomena to Any Future Pictures at a Tractarian Exhibition If the limit of a sensible intensity cannot be born by the sight, what exactly does it hints thereby at? Either at a realm beyond the sensible one – in a Kantian way; or else at the very limit of this realm, if we think the world as one, nothing lying beyond it, properly. This may pave the way to a rather Wittgensteinian approach to the Sublime. Here what is intelligible is not a second world, but rather the only world inasmuch as is comprehended as one, from within it, by virtue of its very showing itself – as one, and as existing. Which is what the first and the second hypothesis of Parmenides undertake to say. The intelligibility of the world, then, consists in its showing itself; and symbols do also participate of just this kind of intelligibility, by playing a role in the self-showing of the world. Facts in the world consist of (sensible?) objects and can be said by means signs that are themselves complexes of such objects, while their form on the one hand, and on the other hand the unity and existence of the world can only show themselves; but sensible signs only become symbols (themselves facts) because they are related to the world, because they say and show something about it, thereby housing the self-monstration of the world itself. Each sensible sign becomes a symbol by showing the way (it says that) things are, i.e. how the world is; that the world is, as one and once for all, shows itself throughout each sign becoming a symbol, by accompanying their showing how things are. To have a meaning (vs. merely existing as a sensible piece of ink on paper, or wave in the air) is just to say and show something of the world. By showing the form they share with the facts, they cooperate to the self-showing of the world, thereby acquiring, in turn, an 43 intelligible status. Here ‘intelligible’ means, without equivocality, both ‘meaningful’ and ‘intrinsically related to the intellect’, i.e. given essentially in intellectual terms – although of course symbols are always instantiated by sensible signs; as the world is itself one, intelligible and made out of sensible objects at the same time. Kant also talks often in terms of a one-world conception of being (in the Critique of Judgment, in particular, see his frequent talk of a «noumenal substrate» of phenomena) such that the intelligible domain is conceived rather as an order of the world (the one allowing for a Kingdom of Ends) rather than as a second world. However, in Kant the relationship between this noumenal substrate and (its) phenomena remains unclear. In Wittgenstein’s Tractatus, on the other hand, this is exactly what is highlighted: the world is intelligible inasmuch as it shows itself while consisting of sensible (so Hintikka) objects to be said (named); symbols are intelligible facts saying (stating) facts by showing their own form and by means of objects (signs) which they do not name nor mention anyway, but rather put in use. So, provided the mystical is omnipresent, namely ceaselessly, if tacitly, present at any token of speech; could it be experienced as sublime? Could the experience of it turn into one whereby it unfolds as, specifically, sublime? As a reader of the Tractatus, I dare answer simply yes. Sublime is, in fact, what a reader of the very words of Wittgenstein’s experiences, what the mystical experienced by reading the Tractatus is like. With its final gesture of throwing back the ladder used to climb up, it makes intelligence culminate along with the impotence of ordinary, intellectual symbols implemented in sensible signs to say. Thus, the Sublime can be experienced just by reading Wittgenstein’s lines, quite apart from any – if any – further mise en scène in a sensible domain. In facts, I do not know whether any artist has yet elicited some sort of intimidating and elating experience from the Tractatus as a ground-text but by means of a sensible material (say, in an exhibition) other than words printed in a book. (Berlin, mid-July 2012) 44 P. S. In order to convey a vague idea of what a transposition of the modal Sublime into a perceptual (say, visual) domain might be like, a poem by Octavio Paz may be of some help: Paisaje Landscape Los insectos atareados, los caballos color de sol, los burros color de nube, las nubes, rocas enormes que no pesan, los montes como cielos desplomados, la manada de árboles bebiendo en el arroyo, todos están ahí, dichosos en su estar, frente a nosotros que no estamos, comidos por la rabia, por el odio, por el amor comidos, por la muerte. Insects bustling, Sun-coloured horses, Cloud-coloured donkeys, Clouds, huge weightless rocks, Mountains like heavens tumbled down, A herd of trees drinking in the brook, They all stay there, happy in their staying, Before us who do not, Eaten by anger, by hate, By love eaten, by death. Thanks to Robert R. Clewis (Gwynedd-Mercy College, Pennsylvania) for both his remarks and the reference to Moby Dick's whiteness; for the linguistic revision, both to him and to Julia, from Hamburg in Berlin (plus Mariana, natively speaking Spanish and English from Argentina onward). One last little help is owed to Theodora l’Anglo-Saxonne in Geneva. 45 P. LAÍN ENTRALGO E LA LETTERATURA RIFLESSIVA: LA ESPERA Y LA ESPERANZA di Carmine Luigi Ferraro Abstract L’autore analizza l’opera La espera y la esperanza (1956) dello spagnolo Pedro Lain Entralgo (1908-2001) allievo di J. Ortega y Gasset e X. Zubiri. La speranza è per Entralgo una caratteristica fondamentale dell'ontologia umana: essa è uno degli abiti che definiscono e costituiscono l'esistenza umana. Cinque sono gli interrogativi intorno ai quali ruota l’opera di Entralgo (1. Cosa hanno sperato gli uomini lungo la storia? 2. Come gli uomini hanno sperato ciò che in verità sperarono? 3. Come gli uomini hanno inteso la loro stessa speranza e la speranza umana in generale? 4. Come la speranza è concepita dall'uomo di oggi? 5. Cos'è in se stessa la speranza umana?) e ai quali è possibile rispondere attraverso una prospettiva storicofilologica che permette di evidenziare la novità che il concetto della speranza cristiana introduce nella storia. I motivi per cui il cristiano si sente condotto a sperare sono l’indubitabile fedeltà di Dio alle sue promesse e la bontà suprema della realtà sperata. Dio, quindi, è la somma verità ed è per questo che crediamo in ciò che promette. Tuttavia è la fede ad essere sempre il presupposto di ciò che si spera; infatti è la fede che convince il cristiano della realtà di ciò che si spera e della possibilità di raggiungerlo al termine della propria vita. L'auteur analyse l’œuvre La espera y la esperanza (1956) de l’espagnol Pedro Lain Entralgo (1908-2001) élève de J. Ortega y Gasset et X. Zubiri. L'espoir est pour Entralgo une caractéristique fondamentale de l'ontologie humaine: c'est l'une des robes qui définissent et qui constituent l'existence humaine. Le travail d’ Entralgo tourne autour de cinq questions (1. Que les êtres humains ont-ils espéré à travers l'histoire? 2. Comment les hommes ont-ils espéré ce que, en vérité, ils ont espéré? 3. Comme les hommes ont-ils conçu leur propre espérance et l'espérance humaine en général? 4. Comment l'espérance est-elle conçue aujourd'hui par l'homme? 5. Quelle est l'espérance humaine?). On peut répondre à ces questions en utilisant une perspective historico-philologique qui permette de détecter la nouveauté que le concept d'espérance chrétienne introduit dans l'histoire. Les raisons pour lesquelles le chrétien se sent conduit à espérer sont l'indéniable fidélité de Dieu à ses promesses et la bonté suprême de la réalité espérée. Dieu, alors, est la vérité ultime et c'est pourquoi nous croyons en ce qu'il promet. Cependant, c'est toujours la foi qui le présupposé de ce que nous espérons, car c’ est la foi qui convainc le chrétien de la réalité de ce qu'il espère et de la possibilité de l'atteindre à la fin de sa vie. 46 The author analyzes the opera La espera y la esperanza (1956) by the Spanish author Pedro Lain Entralgo (1908-2001), one of J. Ortega y Gasset’s and X. Zubiri’s students. For Entralgo, hope is a fundamental characteristic of human ontology: it is one of the habits which determine and form human existence. Entralgo’s work focuses on five questions (1. What did men hope throughout history? 2. How did men hope what they really hoped? 3. How did men understand their own hope and human hope in general? 4. How is hope conceived by nowadays man? 5. What is human hope in itself?) that we can answer through a historical-philological perspective which can draw attention to the change introduced in history by the Christian concept of hope. The reasons why a Christian feels that he has to hope are the undeniable loyalty of God towards his promises and the supreme goodness of the reality we hope. God, then, is the highest truth and that is why we believe in what he promises. However, it is the faith the requirement of what we hope for; it is the faith indeed which convinces Christians of the reality of what we hope for and the possibility of reaching it at the end of our life. Lungo il percorso che lo ha condotto alla elaborazione della sua Antropologia medica, Pedro Lain Entralgo (1908-2001) trovatosi di fronte all'annosa e ricorrente domanda sull'europeità della Spagna iniziata con la generación del 98, cerca di essere nella propria opera più europeo degli europei. Egli cerca cioè di lavorare con il massimo rigore scientifico, uscire dal tema della Spagna, per occuparsi di temi universali. Per far questo, si avvale della teoria della ragione storica, elaborata da J. Ortega y Gasset, suo principale maestro oltre a X. Zubiri. La ragione storica è fondamentalmente la descrizione della struttura della realtà (naturale, sociale, culturale, storica), assistendo alla nascita della stessa. Ed infatti, Lain Entralgo 1 nell'opera che analizzeremo: La espera y la esperanza (1956) .- al pari di altre-, divide il testo in una parte storica (come si è vissuta la speranza nella tradizione occidentale) o diacronica; ed una parte teorica (la sua costruzione di una teoria sulla speranza) o sincronica. Ora, nella sua Introduzione, l'autore cerca in primo luogo di definire qual'è, cos'è il sentimento della speranza, la profondità e 47 l'universalità del suo impianto nel cuore dell'uomo (p. 313), giacchè la speranza si configura da subito come uno degli abiti che definiscono e costituiscono l'esistenza umana; tanto più che la realtà della nostra esistenza è temporanea ed imprescindibile. Non c'è attesa senza speranza. Ed allora la speranza è una caratteristica fondamentale dell'ontologia umana, che può essere indagata attraverso l'Antropologia, quale centro e sintesi di quelle discipline che costituiscono -secondo Kant- la risposta alle quattro domande cardinali per l'uomo. Ossia: 1. Cosa posso sperare? (Metafisica); 2. Cosa devo sapere? (Morale); 3. Cosa mi è lecito sperare? (Religione); 4. Cos'è l'uomo? (Antropologia). In questo modo, si esplicita il carattere costitutivo che la speranza ha nella realtà dell'uomo secondo Kant, per il quale un uomo senza speranza sarebbe un assurdo metafisico, come lo sarebbe un uomo senza intelligenza o senza attività. Ora, per uno studio sulla speranza che sia ad un tempo storico e sistematico, Lain ritiene che si debbano trattare alcuni punti fondamentali, che costituiscono la base della sua metodologia: 1. Cosa hanno sperato gli uomini lungo la storia; 2. Come gli uomini hanno sperato ciò che in verità sperarono; 3. Come gli uomini hanno inteso la loro stessa speranza e la speranza umana in generale; 4. Come la speranza è concepita dall'uomo di oggi; 5. Cos'è in se stessa la speranza umana? Stabilita questa metodologia, occorre una prospettiva storico-filologica per lo studio della costituzione dell'idea cristiana della speranza. In questo contesto, essa si definisce in antitesi con una vita costituita da un'ansia spirituale non soddisfatta, 'in attesa' di essere consolata con la venuta del Regno di Dio, con la presenza di Cristo fra i suoi fedeli fino al termine dei tempi. Questa antitesi fondamentale nell'idea cristiana della speranza, che Lain non esita a definire piuttosto come 'necessità', ha dato vita, nel corso della storia, ad una elaborazione di una 'teoria della 2 speranza' . La prospettiva storico-filologica aiuta Lain ad evidenziare qual'è la novità che nella storia introduce il concetto della speranza cristiana. Infatti per il greco classico, 'elpis' aveva un significato opposto: speranza, attesa ma più nel senso della preoccupazione, 48 del timore, come si può anche vedere nel mito del vaso di Pandora. Alla sua apertura, escono tutti i mali che affliggono l'uomo: il dolore, l'infermità, la morte; all'interno ci resta solo 'elpis', la speranza quale consolazione dei mortali, che, tuttavia, per essere efficace, deve essere cieca. E' così che sperare assume un significato ambivalente: consolazione nel dolore, ma anche grande possibilità d'insuccesso visto che la speranza è cieca. Nel primo caso viene connotata da attributi come: buona, allegra, dorata; nel secondo caso, come: incerta, indesiderabile, pericolosa, compagna del pericolo. Per cercare di superare tale ambivalenza, i greci adottarono: la mantica, quale previsione razionale e il credente affidamento al mistero. Ma, ancora una volta: la previsione fisiologica dell'avvenire poteva render certo e sicuro il futuro dell'uomo. La risposta è ancora negativa ed Eraclito, in particolare, affermava che per l'uomo è necessario rivolgersi a motivi e fondamenti superiori alla propria ragione, nell'atto di sperare. Ma un'altra causa della connotazione fondamentalmente negativa della speranza, sta nella concezione greca del tempo. Per il pensiero greco, cosmologico e naturalista, il tempo viene concepito secondo l'idea astronomica del cielo, per cui la durata delle cose sarebbe circolazione, eterno ritorno. Tale concezione, di fatto, impedì la formazione di una nozione sufficientemente profonda del nuovo e conseguentemente s'impose una visione pessimista e peggiorativa del corso temporale. Per questo, nella cultura greca, si concepisce l'origine e non l'originalità, la genesi e non la novità, la fine e non l'ultimo periodo della vita, secondo quanto affermato da Aristotele. Mentre Platone, da parte sua, ritiene che solo ciò che è appena costruito è sano e forte, per cui la legge che presiede il corso delle istituzioni politiche è destinato alla decadenza. Insomma, nel corso della sua storia, «l'uomo ellenico afferma Lain- solo potè aspirarare a una vita nec spe nec metu, 3 senza speranza e senza paura» . Di fronte alla 'temuta' speranza dei greci e poi dei romani, Lain sottolinea la febbrile speranza degli israeliti che, da sempre, costituì uno dei suoi nervi più intimi ed efficaci. Ed allora, se per i Greci il cosmo è un organismo perfetto che si disfa nel suo ritmico cammino verso la fine dei tempi; per gli israeliti è invece una voce 49 che canta con la creatura umana la gloria di Dio e la speranza della pienezza. Oltre all’opposizione storia naturale (greci)/storia personale (ebrei), Laín ne individua un’altra che si caratterizza in modo preponderantemente filologico: la concezione della verità e della parola nelle due culture. Se per il greco, verità è: alétheia, scoperta, un atto di evidenza intellettuale, per cui la parola viene ad essere l’espressione, la dichiarazione di una verità evidente all’intelligenza. Per l’ebreo, la verità è qualcosa in cui si può confidare; non la visione intellettuale del presente, ma la confidenza nel compimento del futuro e di ciò che è promesso. Per questo, la parola non è espressione, dichiarazione, bensì spirito creatore e promessa di ciò che sarà. Da qui discende anche la concezione della Parola di Dio: creatrice del mondo e fondatrice dell’alleanza. Se in Grecia, quindi, esiste il sophós, il saggio che dichiara ciò che è; in Israele c’è il profeta, il nabi, che annuncia ciò 4 che sarà . Diversa ancora la visione paolina della speranza, cui sottostà, come per le altre occasioni, una diversa concezione del tempo. Quella di San Paolo si esprime in cinque concetti fondamentali: 1) la pienezza che in questo caso è: maturità spirituale, o meglio un certo livello di perfezione metafisica; in Cristo, infatti, abita ogni pienezza. Per cui, il tempo è un cammino verso la perfezione, costellato da: 2) opportunità o occasioni corrispondenti alle manifestazioni storiche di Dio, la cui massima espressione è l’incarnazione del Verbo. 3) L’unicità che caratterizza ciascuna delle manifestazioni storiche di Dio. 4) la novità che Cristo ha introdotto nel tempo umano consiste: da un punto di vista storico, nell’equiparazione fra giudei e gentili; da un punto di vista essenziale, nella rottura della servitù del peccato e della morte, che vengono abolite dal battesimo e dalla resurrezione futura, oggetto della nostra speranza, grazie alla vittoria di Cristo sulla morte. 5) Il secolo: se il secolo presente è composto dall’Antico Testamento (tempo della legge) e dal Nuovo (tempo della fede), si aspetta un secolo futuro interminabile che si avrà 5 grazie alla fine dei secoli . Ora, se questo è lo schema paolino della concezione della storia: cosa spera e cosa deve sperare il cristiano? Secondo S. 50 Paolo ci sono due ordini di realtà che costituiscono l’oggetto materiale della speranza. Da una parte, una realtà escatologica: il compimento della fine del mondo e dell’uomo, la seconda venuta di Cristo, la redenzione del corpo, la vita eterna… Dall’altra, una realtà materiale: l’occasione per visitare i crisitiani di Roma, la perseveranza dei fedeli di Corinto, la glorificazione del corpo di Cristo, il diritto a ricevere alimenti dagli evangelizzati. Questa seconda forma di speranza, ossia quella del raggiungimento di beni visibili e terreni, vengono spiegati secondo la “formula”: in spe contra spem. Ossia: il cristiano che deve sperare la seconda venuta di Cristo, la resurrezione del proprio corpo e la gloria eterna, non può fare a meno di quei beni che la realtà terrena dell’uomo necessita ed esige. Ma, se questo è l’oggetto della speranza paolina, qual è invece il soggetto? È tutto l’uomo, con tutta la sua anima e tutto il suo corpo. Naturalmente non è solo l’uomo ad essere coinvolto nella speranza, ma tutte le creature che insieme a lui, in quanto esseri, si muovono verso la possibile perfezione terminale, la libertà della gloria; una perfezione alla quale l’uomo può arrivare direttamente, mentre il mondo non umano potrà conseguire attraverso i figli di Dio. Quali sono i motivi per cui il cristiano si sente condotto a sperare, ossia qual è l’oggetto formale, per il quale si spera? Laín individua due attributi fondamentali di tale oggetto: 1) l’indubitabile fedeltà di Dio alle sue promesse; 2) la bontà suprema della realtà sperata. Dio, quindi, è la somma verità ed è per questo che crediamo in ciò che promette. Possiamo quindi riscontrare la latenza dell’idea ellenica e di quella ebraica della verità, nella visione paolina della speranza; essa si colora inoltre del carattere della lucidità, perché si basa su fatti umanamente comprovabili, ma anche dell’affidarsi, della fiducia, visto che non si ferma al mero calcolo di fatti umanamente prevedibili. Allo stesso modo, se senza la fiducia, la speranza sarebbe solo calcolo; senza la lucidità sarebbe mera illusione. Altre caratteristiche della speranza sono: la pazienza (chi sopporta limiti e dolore erriverà alla meta consolatrice e sperata), la sicurezza (= la speranza non confonde), l’allegria e la pace (= Dio riempie di allegria e pace). Cos’è allora la 51 speranza cristiana? È una virtù teologale, secondo la teologia. Tuttavia, S. Paolo non usa tale definizione; infatti quando dichiara i nomi di quelle che per noi sono le virtù teologali, le chiama: queste tre cose (fede, speranza, carità). Ora, siccome S. Paolo usa il termine speranza in due sensi: oggettivo (= le cose che si sperano) e soggettivo (= l’atto di sperare), ecco che, secondo Laín, per S. Paolo: «la speranza cristiana è una fiducia abituale dell’uomo nella fedeltà di Dio alle sue promesse. Spera cristianamente, quindi, chi confida nel fatto che Dio compirà ciò che dall’inizio della Storia ha 6 promesso al genere umano» . Tuttavia è la fede ad essere sempre il presupposto di ciò che si spera; infatti è la fede che convince il cristiano della realtà di ciò che si spera e della possibilità di raggiungerlo al termine della propria vita. Allo stesso modo, la carità dell’uomo in cammino è carità nel tempo, amore per realtà che esisteranno e che lui non sa come finiranno per essere. Insomma, S. Paolo è definito da Laín come la «luce nel mistero, ma anche cammino verso una nuova luce. La sua aurorale visione della speranza cristiana insegna molte e molto profonde cose sull’umano sperare; ma, insieme, pone una larga serie di problemi alla mente del teologo e 7 dell’antropologo» . Problemi che vanno dalla relazione fra promessa-speranza-predestinazione, all’articolazione fra speranza naturale e speranza cristiana; dalla relazione fra speranza soteriologica e metafisica della creazione e la speranza cristiana, 8 all’essenza dell’atto dello sperare . In S. Paolo, quindi, il simbolo della speranza è l’ancora, che sta a significare il raggiungimento di una certa sicurezza nell’esistenza terrena. Da questo punto di vista, una teoria della speranza cristiana, secondo Laín, dovrebbe contenere almeno tre punti: 1) il rapporto speranza/predestinazione; 2) antropologia della speranza cristiana; 3) il rapporto speranza/storia. Punti che si possono ritrovare nella riflessione di S. Agostino, il quale risponde al primo punto con la sua dottrina sulla predestinazione umana, secondo cui si salvano gli eletti fra i chiamati. Ma come S. Agostino contempla ed intende lo sperare umano? In primo luogo, tramite la connessione fra memoria e speranza; infatti: 52 La memoria è il testimone psicologico della nostra temporalità e della nostra totalità […]: la memoria mi permette di vivere il passato nel presente, i progetti e le speranze del futuro. Ex memoria spes. La memoria e la speranza, questa fondata su quella, si trovano essenzialmente connesse fra loro: l’una e l’altra sono, anzitutto, modi di espressione dell’essenziale temporalità dell’esistenza terrena dell’uomo.9 La memoria agostiniana assume quindi anche una connotazione esistenziale, ontologica. Infatti, S. Agostino parte dalla dottrina platonica della reminiscenza, secondo cui le verità che apprendo, esistevano già in me prima di apprenderle, per cui apprendere sarebbe in realtà riconoscere, scoprire ciò che è già in me; per esaminare la propria memoria e scoprire se in quella vi è ciò che ama, quando ama Dio. Rispetto tuttavia a questo interrogativo ontologico, si vede costretto ad ammettere che la memoria umana non basta per trovare Dio; riguardo a ciò, infatti, occorre trascendere il mondo dei propri ricordi. In questo modo, per chi sottoscrive la dottrina platonica della reminiscenza, ma ritiene poi rispetto a Dio che occorra trascendere la memoria, si apre un’aporia che S. Agostino supera attraverso la ricerca della vita felice, dietro la quale c’è Dio. Tutti gli uomini infatti ricercano una vita felice, la cui prima conoscenza è nella memoria: essa, in tal modo, passa ad essere da visione psicologica, a visione metafisica. Infatti ora le vestigia della vita felice non deriva più dalla mia esperienza, ma risulta radicata nel mio stesso essere ed appartiene alla mia memoria quale testimone della mia realtà totale. Siamo di fronte ad un platonismo intellettuale, che anziché porre il termine della propria avventura nel mito, scopre il mistero della propria relazione con Dio. Agostino non è, secondo Laín, un platonico cristianizzato, bensì un cristiano platonizzante: è questa la sua originalità storica. Tutti gli uomini tendono alla felicità, e più o meno coscientemente hanno dentro se stessi la vita beata. Il desiderio di felicità può diventare speranza quando l'uomo percepisce, lucidamente o meno, di possedere la vita beata: tale speranza di felicità arriverà a convertirsi in felicità reale e compiuta quando il sospetto arriva ad essere piena e chiara visione… Sperare la felicità, vivere unitariamente e simultaneamente l’attesa e la reminiscenza 53 metafisica di una esistenza beata, è, secondo ciò, una possibilità sempre aperta all’essere concreto e terreno dell’uomo.10 S. Agostino riesce così ad unire memoria e speranza, non più sotto l'ordine psicologico, ma nell'ordine della realtà ontologica, dato che entrambi posseggono un medesimo presupposto metafisico che appartiene alla costituzione stessa della realtà 11 dell'uomo . Il ricordo della storia umana influisce sull'esercizio della speranza? S. Agostino parte da una tesi fondamentale: la radicale storicità dell'uomo cristiano; tuttavia l'esistenza del cristiano ha il suo fondamento ultimo nell'eternità, non nel tempo. Ma allora, il cristiano deve essere indifferente al proprio destino storico? No, perché la Storia è insieme il transito progressivo del genere umano, dall'origine alla fine, e la melodia delle diverse manifestazioni di Dio nell'esistenza successiva delle sue due creature: l'universo e l'umanità. La visione cristiana della Storia che ha la sua canonizzazione con S. Agostino, comporta una rottura con la concezione ciclica del tempo, a favore di alcune idee fondamentali: creazione, redenzione, progresso, giudizio finale, 12 provvidenza e libertà . Se S. Paolo rimprovera ai gentili di non possedere la speranza, intesa come virtù teologale: ciò significa che c’è differenza fra la speranza naturale dell’infedele e quella soprannaturale del cristiano? A questo proposito, S. Agostino attraverso la contrapposizione fra civitas terrena e civitas Dei conferma l’incompatibilità fra le due diverse modalità della speranza sopra indicate. Diversamente, S. Tommaso sostiene che l’uomo, poiché è ordinato verso la vita eterna, spera da Dio non solo il soccorso per i benefici spirituali, ma anche per le necessità temporali. Egli distingue tre modi della speranza nella vita terrena dell’uomo. Spes come: 1) passione irascibile; 2) presupposto della virtù cardinale della forza; 3) virtù teologale. A partire da questa distinzione, S. Tommaso afferma il carattere soprannaturale che connota la virtù dello sperare in Dio. Essendo un umanista cristiano, sussume la natura nella grazia potendo così legare: le passioni (la passione irascibile), le virtù naturali (virtù cardinale della forza) e le virtù teologali dell’uomo (virtù teologale della 54 speranza). Per arrivare a ciò, S. Tommaso dimostra la relazione analogica esistente fra la speranza come passione e la speranza come virtù, essendo entrambe l’attiva aspirazione verso un bene futuro, arduo e possibile; condividono la parte appetitiva dell’anima; richiedono l’aiuto di una virtù aliena; contraddistinguono l’esistenza temporale, riassumendo la fiducia e la paura, si relazionano con l’amore e la credenza; mentre hanno il loro 13 opposto nella disperazione . Grazie poi alla dottrina tomista della forza, la passione di sperare, umanizzata e resa nobile grazie alla magnanimità acquisita e quella infusa, arriva ad essere un 14 momento costitutivo della speranza teologale . In quanto sentita da un animale dotato di ragione –afferma Laín-, la passione naturale della speranza chiede apertamente o segretamente il suo coronamento attraverso una virtù teologale; in quanto esercitata da un uomo in via, la virtù soprannaturale necessita ineludibilmente il suo appoggio nel movimento di un appetito sensitivo, e per ciò certi stati psicofisici possono portare alla disperazione teologale. Con ciò rimanevano assunte in un’antropologia cristiana l’elpís e la spes dei gentili.15 Se S. Agostino scopre l’essenziale connessione fra memoria e speranza, per cui nel fondo metafisico della memoria si trova la possibilità ed il fondamento della speranza –da qui che l’incontro con Dio si ottiene trascendendo la memoria-: che relazione esiste fra memoria e speranza nel senso della realtà umana e fra esse e l’unione dell’uomo con Dio? A tali domande Laín ritiene che abbia risposto S. Giovanni della Croce, il quale sviluppa una considerazione mistica della relazione: memoria/speranza. Essa si sviluppa secondo due direttrici: 1) l’anima che spera sempre la propria deificazione. Qualcosa di cui è pienamente cosciente solo il mistico, che si sforza di conseguire l’unione con Dio durante l’esistenza terrena. La presenza metafisica o essenziale di Dio nell’anima deve farsi causa prima e fondamento costante della realtà dell’uomo e convertirsi soprannaturalmente in motivo e ricreazione della propria vita personale e successiva. Per ciò occorre disinteressarsi di tutto ciò che non sia Dio ed a partire da ciò l’anima esiste esclusivamente attenta a ciò che spera: la presenza affettiva di Dio nell’integrità 55 della sua essenza e sue potenze. Deificata nella propria sostanza, l’anima avverte che il sapere di Dio diventa sapore di Dio; per cui mossa divinamente nelle sue potenze, esse non operano in virtù degli stimoli del mondo, bensì secondo la spinta intima, diretta ed efficace dello Spirito Santo. 2) La memoria in stato di perfetta unione, per la quale non si producono più le sospensioni dell’attività memorativa. In questo stato infatti l’anima vive il tempo, ricorda e spera, ma in modo inedito. Ricorda soprattutto mossa dallo Spirito Santo, per cui ricorda Dio e ricorda in Dio; così come spera Dio e spera in Dio. La memoria insomma è fondata nella speranza, ossia: ricordare è sperare. La vivente ed operatrice installazione dell’esistenza –conclude Laín- nel fondamento metafisico e soprannaturale del proprio sempre, permette che si stabilisca una connessione molto più profonda e visibile fra la speranza ed il ricordo. La temporeità dell’esistenza umana, presupposto reale della memoria e della speranza, resta costantemente riferita al suo centro sopratemporaneo e si realizza in una vita terrena senza shock, quasi senza inquietudine. L’esistenza psicofisica dell’uomo viene ad essere un misterioso e ben accordato connubio successivo fra il tempo e l’eternità… . A forza di annichilare i propri ricordi, San Juan de la Cruz trova che la propria speranza è capace di dare vita nuova alla propria memoria.16 Nella storia moderna, Laín individua diversi tipi di speranza che seguono sostanzialmente l’idea cristiana della stessa. Così in Dante vede il campione della: 1) speranza escatologica, visto che la Divina Commedia è una raffigurazione poetica dell’escatologia 17 cristiana: inferno, purgatorio, paradiso . 2) Speranza terrena che mostra una linea centrale e due attitudini estreme: ordinare verso il fine ultimo dell’uomo tutti i fini temporali dell’uomo; ma anche: riduzione della speranza terrena ad un minimo (negazione ascetica del mondo), o retta esaltazione della magnanimità acquisita (ricreazione umana della realtà), cui si è attenuto il cattolicesimo 18 dei secoli moderni (= Montaigne. Bossuet…) . 3) Teoria della speranza, nell’ambito della quale Laín trova nei cattolici moderni tre novità, dovute alla situazione moderna dell’esistenza umana: a) speranza teologale apportata dal nominalismo del Basso Medioevo ed il naturalismo del Rinascimento, con la crescente stima 56 dell’individualità e le possibilità della natura umana. b) Cambio dell’idea di Dio che indica il nominalismo con la susseguente maturazione del pensiero moderno. L’amore di speranza: è interessato o disinteressato? Quando il cristiano ama Dio con puro amore di speranza e non con amore di carità, lo ama per la ricompensa che spera da Dio, o per ciò che Dio è e merita? c) Aspetto storico della speranza cristiana, ossia: le relazioni fra 19 l’umana libertà, il corso della Storia e la provvidenza divina . Ma la speranza è una chiave di lettura importante anche nella Riforma protestante; tant’è che Aranguren afferma che il luteranesimo non è dato dalla concupiscenza, ma dalla disperazione: sentimento predominante nell’anima di Lutero ed a partire dal quale si è costituito anche il suo modo di vivere ed intendere il Cristianesimo. Ciò è dovuto sostanzialmente a due motivi: 1) circostanza storica: favorevole alla disperazione spirituale per l’incertezza di un’epoca nuova; 2) disperazione psicologica, perché Lutero sin da piccolo visse tormentato da paure, scrupoli ed angustie religiose, che lo portarono a concepire Dio come un essere infinitamente arbitrario e tremendo. Unica consolazione rispetto a tutto ciò: la fede giustificante, ossia l’intima e vissuta convinzione che la fede, intesa come pura confidenza o fiducia in Dio, può, senza opere, giustificare il cristiano. La fede quindi si riduce in mera fiducia e più che credere la verità di Dio, il luterano confida nella buona volontà di Dio che lo salverà per quella confidenza con cui si abbandona alla onnipotenza divina. Tuttavia, tale confidenza non annulla la disperazione, le cui cause perdurano intatte e che impediscono, dal punto di vista della teologia cattolica, definire questa come una forma di speranza. Infatti, se il luterano definisce speranza: una confidenza insieme sicura, inattiva e disperata, che nasconde la disperazione; per il cattolico, la speranza è una confidenza insicura, ma operativa e lietificante, capace di allegria, a partire dal suo stesso fondamento metafisico, la realtà personale dell’uomo che spera. Lutero inoltre distingue e separa nettamente nell’uomo individuale il cristiano dal cittadino, l’intimità dalla vita esterna e civile… . Alla concezione luterana della vita nel mondo si aggiunse il modo calvinista d’intendere la morale. Infatti Calvino centra la 57 sua riflessione su una ferrea idea della predestinazione; mentre per ciò che riguarda la vita terrena dell’uomo, con tenace ed acuta vigilanza scopre i segni dell’eterna predestinazione di ogni individuo al bene ed al male. Calvino parte dal testo della Genesi nel quale si dice che il Signore assistette Giosuè, e tutto quanto questi faceva gli veniva bene; e prendendo alla lettera questo testo, sostenne che segno della beatitudine eterna era da considerare la buona riuscita nei commerci del mondo. Il che indusse fra i fedeli una forte preoccupazione nel conseguirli; per cui, per il calvinista, la speranza terrena ha come suo oggetto primario il trionfo sociale, mezzo di salvezza. Adotta inoltre la forma di una previsione del futuro superlativamente razionale ed 20 esforzada . Nel protestantesimo attuale si possono distinguere fondamentalmente due linee di riflessione su ciò che è la speranza: 1) un ritorno alla scoperta della disperazione come sentimento religioso fondamentale; una sorta di: Torniamo a Lutero!. Su questa linea si pongono autori come: K. Barth, E. Brunner, F. Gogarten; nella dialettica della loro teologia si riscontra non già un dialogo diretto ed intimo con Dio, bensì un disperato intento di affermare la reale simultaneità spirituale di due serie di termini contraddittori: disperazione/speranza, grazia/peccato, fede/ragione. Dio diventa per l’uomo l’assolutamente Altro, l’Inaccessibile; per cui, davanti ad una simile relazione, cos’è la speranza? È tutto, perché la fede è comunque confidenza in Dio, quantunque disperata, nell’incontro salvatore con Lui dopo la morte; ma è anche nada perché l’anima umana vede e non può lasciar di vedere l’assurdità delle promesse divine. Ed allora, sperare cristianamente è solo l’atto di consegnarsi al futuro con una salvatrice confidenza che nasce dalla disperazione. La speranza cristiana, per Brunner, non consiste nel prolungamento soprannaturale della vita dopo la morte, ma nel vincere la morte, nella resurrezione dei morti, nella vita divina opposta a quella 21 umana che è morte . 2) La ricerca di una visione demitologizzata della speranza, che passa attraverso la demitoligizzazione del Nuovo Testamento in autori come: a) Bultmann, secondo cui per rendere accettabile la verità cristiana del Nuovo Testamento in un 58 contesto dominato dalla visione scientifica del mondo, non è ammissibile ad esempio una divisione dell’universo in tre livelli (terra, inferni, cielo). Per cui, del Nuovo Testamento conserva senz’altro solo lo Scandalo della Croce, ossia l’efficacia genuinamente religiosa del messaggio evangelico. Ed allora, cosa si spera? Si spera il Giorno del Signore che nel Nuovo Testamento è diversamente descritto da S. Paolo (resurrezione dei morti con nuova venuta di Gesù e l’elevazione al cielo dei giusti ancora viventi) e da S. Giovanni (per il quale c’è il transito dei giusti subito dopo la morte). Ma anche queste sarebbero costruzioni mitologiche che non reggono davanti ad un razionalista moderno. Insomma, in Bultmann si ricerca inutilmente di conciliare la pleitesía del Nuovo Testamento con le nuove esigenze del pensiero scientifico e con quelle filosofiche ed inoltre si riscontra la negazione della possibilità di creare una teologia dell’esistenza gloriosa, fedele al contenuto dello stesso Testamento. Cos’è allora la speranza? La speranza cristiana –afferma Laín- non sa ora cosa sperare: la vita speranzosa è in tal caso il risoluto ed animoso camminare dell’uomo verso un modo di esistere –la vita in patria- del quale sa e nulla può sapere. Vivere umanamente e cristianamente sarebbe essere per la morte ed essere-in-Dio… per opera di Cristo.22 Davanti a tutto ciò, senza una metafisica, una teologia ed una dogmatica, Laín ritiene che la comprensione esistenziale e 23 l’ermeneutica storica si riducono a qualcosa di molto soggettivo . È nell’occuparsi della speranza nei secoli XVII e XVIII, ossia quando si diffonde la secolarizzazione, che, secondo me, Laín apre una discussione che ha profondi risvolti, anche etici, di tutta attualità. La secolarizzazione si diffonde anche per un’enfatica proclamazione della dignità umana da parte dell’Umanesimo, portatrice di una tesi positiva ed ottimista circa il potere dell’uomo: senza l’ausilio di una virtù altra, e con la sua sola virtù, la creatura umana è capace d’ordinare in modo ragionevole e soddisfacente ciò che riguarda la sua vita terrena e molto di ciò che riguarda la 59 propria vita ultraterrena. L’estremo pessimismo antropologico della Riforma, non si oppose a tale processo ed anzi finì –insieme ai cattolici (Cartesio, Bacone, Pascal, Leibniz)- per affermare l’autonomia dell’uomo nel reggere la propria vita su cui fino ad allora c’era stato timore. In questo modo, il canto alla dignità umana si trasforma in chiara e risolta pretesa di esclusività, di monopolio. Ora, se la speranza umana è la speranza di una pienezza, cosa possono sperare coloro che secolarizzano la propria vita? Per questo, occorre considerare che i secolarizzati del XVIII secolo non negano Dio, ma lo considerano come un ente astratto, impersonale e lontano, che dopo la creazione del mondo, si limita solo a contemplarlo senza intervenire (= deismo). Con tale Dio, l’uomo dell’Illuminismo intratterrà una doppia e contrapposta relazione: 1) da una parte, lo terrà lontano dalla propria ragione; 2) dall’altra, cercherà d’identificarsi con lui, negando l’esistenza di un peccato originale e divinizzando l’attività della natura umana. Dalla conciliazione con Dio, alla deificazione della creatura umana, tutto dipende dall’uomo. Se il cristiano, presecolarizzazione, crede che la creazione, e quindi la Storia, è sottomessa ad un disegno divino che l’uomo può in qualche modo scrutare (Provvidenza), pur restando la Storia retta dall’esterno (Filosofia della Storia). Per il secolarizzato invece, il corso della Storia ha in se stesso il proprio senso; da qui che si parla di legge storica, in contrapposizione alla Provvidenza. Un processo simile riguarda anche l’idea di Redenzione: Cristo, con la sua passione e morte, ha redento gli uomini dal peccato. La Redenzione non ha cancellato il peccato dalla Terra, ma ha permesso che se ne potesse ottenere il perdono definitivo. Gli illuministi non possono certo negare l’evidenza del male e l’ingiustizia nella vita dell’uomo; ma nemmeno possono credere al peccato originale, né accettare una redenzione soprannaturale del genere umano. Semmai affermano la redenzione naturale, o storica e sostituiscono Cristo con l’uomo in genere, o con la collettività umana: l’unica a rivelarsi come qualcosa di grande ed a mostrarci la sua origine divina. La società, in questo modo, diventa causa e rimedio dei mali dell’uomo. 60 Il cosmopolitismo diventa risultato della secolarizzazione del concetto cristiano di corpus mysticum. Da tutto ciò, come cambia il concetto della speranza cristiana con la secolarizzazione? La speranza ha il suo oggetto nella consumazione escatologica del Regno di Dio: verso di essa tende –afferma Laín- per un cristiano, la sua individuale speranza e la speranza collettiva dell’Umanità intera, da Adamo fino all’ultimo uomo. Da un punto di vista spirituale e soteriologico, la storia universale è il progresso del genere umano verso la seconda e definitiva pienezza dei tempi… Attraverso cadute e fallimenti, l’Umanità guadagnerà una progressiva maturità spirituale per affrontare il passo supremo e ultimo della Parusia ed il Giudizio.24 È così chiaramente espressa la trasposizione del futuro escatologico al futuro storico: il progressismo, la fede nel progresso, è il termine a cui arriva la secolarizzazione della speranza cristiana nel mondo moderno. (p. 486). Il progressismo, da parte sua, non fu un’idea, ma una credenza, secondo l’opportuna distinzione posta da Ortega fra le due realtà. Infatti, più che essere una speculazione di ideologi, si presenta come religione del progresso, che cerca di abbracciare tutti i campi della realtà dell’uomo: la morale, l’intelligenza, la convivenza…, che non potevano non ricevere gli immensi benefici del progresso. Grazie ad essi sarebbero sparite le malattie dalla faccia della terra, e la vita dell’uomo arrivata ad età anagrafiche sempre maggiori, fino a paventare la possibilità di superare quell’agente che più limita l’uomo: la morte. La speranza di questo tipo di fede ha una struttura tutta centrata nel fisiocentrismo dell’Illuminismo; ossia la fede nelle virtualità della Natura. È quindi una speranza esclusivamente terrena che tende al raggiungimento di una perfezione suprema. E ciò Laín ritiene sia valido sia per quanti credono nella futura pienezza dell’uomo (o stato finale del progresso umano); sia per chi sostituisce il raggiungimento dell’infinitud cui l’uomo aspira e che il cristianesimo promette, con l’interminabilità del movimento perfettivo della Storia, proponendo quindi la dottrina del progresso indefinito. Per ciò, Laín afferma: 61 tutto ciò che spera il progressista appartiene a questo mondo ed è ineludibilmente sottomesso al tempo. Ma lui non spera per se stesso in quanto individuo; lui spera, oltre la sua morte, la perfezione della natura umana, sia questa perfezione uno stato terminale, o il retto, felice ed indefinito esercizio migliorativo delle virtualità di questa natura, e ciò imprime alla propria speranza un carattere escatologico e sacrale. Con la secolarizzazione dell’idea cristiana della vita, il saeculum del futuro si sacralizza, ricopre una dignità assoluta: nessun progressista tralasciò di considerare sacra la sua speranza e non pochi si inginocchiarono davanti ad una nuova dea, la Posterità.25 All’aspetto del fisiocentrismo ed alla mondanità, quale ulteriore caratteristica della fede progressista, si deve aggiungere la necessità; per cui tale è la perfezione progressiva della natura umana, prodotto secolarizzato della crescita spirituale dell’umanità; mentre ciò che prima veniva indicato come disegno della Provvidenza, con la secolarizzazione diventa legge naturale, una regola necessaria nel buon ordine dell’universo. Altra caratteristica della speranza progressista è: la totalità; si passa cioè dalla antropologia cristiana nella quale il presupposto delle azioni umane è la persona (ciò che l’uomo è), contrapposta alla natura (ciò per cui l’uomo è), all’antropologia fisiocentrica dell’Illuminismo in cui è la natura umana generica il presupposto, per ogni uomo, della sua natura umana individuale. È la secolarizzazione dell’omnia in omnibus di S. Paolo. Quinta ed ultima caratteristica è: la comunitarietà, che rende impersonale la speranza progressista, perché si spera il bene del genere umano. Si passa cioè dalla speranza di una convivenza amichevole con i santi nella gloria celeste di fray Luis de Granada, alla speranza storicizzata di Herder che sogna una vita futura frequentando tutti i saggi ed i buoni affannatisi per l’Umanità. Qualcosa che la Storia già ci offre, se pensiamo alle opere di Platone, Socrate, Marco Aurelio… Siamo cioè davanti ad una concezione della storiografia come dialogo con gli uomini del passato, oltre che ad un concetto della Storia come scienza. Insomma, conclude Laín, tutte le caratteristiche della speranza cristiana vengono trasposte al saeculum nella speranza progressista, con tutti gli interrogativi che possono sorgere in merito: all’effettiva soddisfazione dell’anima umana nel momento in 62 cui si spera soltanto sulla propria natura; al fatto che la speranza in una futura felicità mondana, possa dare un fondamento 26 soddisfacente per il presente . Ora, a partire almeno dall’Illuminismo, ogni riferimento alla dignità dell’uomo, con validità pubblica e civile, si fa all’interno di un marco di legislazione positiva e laica: Costituzioni politiche, dichiarazioni di diritti… Per esempio, la Costituzione spagnola del 1978 afferma all’art. 10: “La dignidad de la persona, los derechos inviolables que le son inherentes…, son fundamento del orden político y de la paz social”. Nella Costituzione italiana non abbiamo un riferimento esplicito alla dignità umana, ma vengono indicati dei diritti inviolabili dell’uomo, come individuo e come parte di una società nella quale svolge la propria personalità (articolo2); oltre all’eguaglianza di fronte alla legge, per la quale viene bandita qualsiasi possibile discriminazione potendosi così svolgere pienamente la persona umana, partecipando all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (articolo 3). Questi diritti hanno il fine nel loro fondamento ultimo: la dignità umana. La recente Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2000), stabilisce nel Capo I: l’inviolabilità della dignità umana (come declaratoria generale). Essa si articola in: 1. diritto alla vita come esclusione dalla condanna a morte. 2. Diritto all’integrità della persona (fisica e psichica) che in medicina e biologia prevede: a) consenso libero ed informato della persona, secondo legge; b) divieto di pratiche eugenetiche (selezione delle persone); c) divieto di far lucro del corpo umano; d) divieto di donazione riproduttiva degli esseri umani. 3. Proibizione della tortura o pene e trattamenti umani degradanti. 4. Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato, che prevede anche la proibizione della tratta degli esseri umani. Dalle evidenze portate fin qui, sembrerebbe che dignità è un concetto astratto, attraverso il quale si riconosce qualcosa da proteggere da parte dei poteri pubblici e fra essi c’è sicuramente la vita. 63 Ma cosa s’intende per dignità? Nei casi elencati (ma se ne potrebbero fare altri) non lo si dice con chiarezza. Il suo significato si risolve in tautologia all’interno dei termini del testo. Il suo valore, come i diritti susseguenti, non sembrano sostantivi ma condizionati all’ordine politico e la pace sociale, ad esempio. Condizionati quindi ad una qualità: un rango ontologico inferiore a quello sostantivo. Non si considera la dignità come un’essenza originaria, ma condizionata dai diritti che alla persona derivano dall’ordine politico e sociale. Probabilmente, l’abbandono da parte del pensiero debole (che non è solo cosa di quest’epoca) di concetti non già religiosi, ma classici della filosofia spiega una tale caduta nel soggettivismo, nel relativismo, nel volontarismo, nel sociologismo… in cui pare immerso oggi il nostro mondo. A partire da queste considerazioni, andrebbe sicuramente ripensato il concetto di dignità di fronte alla morte, perché non sembra possa sostenersi senz’altro l’inizio e la fine della vita nella mera volontà generale, in diritti generalisti, o nell’ordine politico e nella pace sociale. Almeno per chi desidera pensare con radicalità, non sembrano convincenti queste argomentazioni. Ma tornando a Laín, ed alla speranza secolarizzata, egli individua tre tappe nella formazione storica della speranza secolare: 1) l’inizio di un disegno di una visione progressista della storia secolare, sovrapposta alla concezione cristiana della storia religiosa dell’Umanità, cui principale fautore è Cartesio. Questi interpreta la speranza come: passione della natura umana; sentimento storico; virtù cristiana vissuta nell’intimità. 2) Secolarizzazione dell’esistenza storica dell’uomo, nella quale il deismo ed il progressismo secolarizzati costituiscono i punti di riferimento della vita spirituale europea. Esponente massimo di questa tappa, iniziata da Fontanelle, è Condorcet (progressismo illuminato). Il progressismo storico dell’Umanità è così sicuro da poter essere previsto come qualsiasi altro fenomeno naturale. La Storia viene quindi interpretata come crescita della natura umana; per cui il suo corso deve essere diviso in relazione alle conoscenze scientifiche maturate, non secondo gli avvenimenti politici o religiosi. La speranza è nel progresso e nella sopravvivenza 64 indefinita dell’individuo umano. 3) Lo sforzo kantiano di unire il cosmopolita ed il soggetto morale nella struttura dell’essere umano. Kant con i suoi scritti cerca, rispondendo alla speranza del suo secolo, di insegnare all’uomo del futuro ciò che la mente umana può sapere, ciò che la condotta umana deve essere, ciò che l’uomo è e come deve essere educato per il retto uso della ragione. Da questo punto di vista, la speranza è il modo d’essere dell’uomo che la pone davanti alla felicità ed il mondo morale. In tal modo, il progressismo diventa evoluzione necessaria verso uno stadio finale ed assoluto dello Spirito, dell’Umanità, o della Vita, come si può vedere in autori come: Hegel e Marx principalmente. In Marx, per esempio, sotto la trama dei suoi concetti economici e sociologici, c’è una fedele ed ultimata secolarizzazione della visione giudeocristiana della Storia. Il peccato originale dell’uomo viene individuato nello sfruttamento; il che porta ad essere il proletario, vittima principale dello sfruttamento, il nuovo popolo eletto e redentore, perché grazie al suo sforzo rivoluzionario, consentirà all’Umanità di entrare in una nuova tappa della propria esistenza: il cammino verso un secolo futuro di felicità e libertà definitive e totali. Marx quindi reintroduce il concetto di caduta e di 27 redenzione restati sconosciuti al XVIII secolo . Per meglio far risaltare il significato della speranza, Laín ritiene opportuno opporlo a quello di disperazione. Come definire la disperazione? come la negazione radicale ed assoluta della speranza, o come il sentimento di non sapere o non poter sperare ciò che di suo l’uomo può sperare, a mo’ della vecchia teologia? Ossia: l’uomo può non sperare? Laín cerca di rispondere a questa domanda esaminando l’opera di Giacomo Leopardi, ritenuto da molti come l’archetipo della disperazione del secolo XIX. Laín esamina Leopardi da un doppio punto di vista: 1) l’autore dello Zibaldone, i Pensieri, le Operette morali, che è il Leopardi moralista e considera la vita umana dal punto di vista della felicità, la verità ed il bene a cui quella aspira, non si stanca di proclamare la necessità della speranza, l’essenziale ed ineludibile pertinenza dello sperare alla costituzione stessa dell’esistenza umana. Come all’uomo gli è consustanziale pensare, così gli è consustanziale sperare; giacchè la speranza è vita e stimolo di vita e per ciò è 65 anche infinita. Anzi, da questo punto di vista, la speranza è meglio del sapere, giacchè contiene un quid indefinito che la realtà (= sapere) non può contenere. Da ciò si può ricavare che la speranza dell’uomo fa sempre riferimento a due termini autoimplicantesi: la realtà sperimentabile, di fronte a progetti riducibili a saperi propriamente detti; la trans-realtà indefinita ed inconcepibile, consistente nella possibilità di essere infinitamente felice. Da qui anche una duplicità nella produzione leopardiana: a) opposizione sapere/sperare, scienza/speranza; b) tensione fra la necessità di un certo sapere per sperare e l’azione letale della scienza sulla speranza. 2) L’autore dei Canti, ossia il Leopardi che esprime liricamente la sua intimità, che invece proclama la disperazione. Questa viene cioè vissuta come posizione soggettiva, tanto che Leopardi distingue fra: speranza di natura, quella di cui è dotato l’uomo come essere vivente e per la quale non può disperare; speranza di ragione, propria dell’essere spirituale e pensante per il quale la disperazione è possibile, perché la sua mente scopre che la speranza viene distrutta dalla verità (= tragedia dell’esistenza umana). Tuttavia, anche nella disperazione, non si estingue la speranza, perché quella non esisterebbe senza questa, né l’uomo potrebbe disperare se non sperasse. La disperazione del Leopardi è quindi solo causa di fatti biografici: l’infermità, il tedio e la perdita della fede religiosa, già all’età di 21 anni. Di tale speranza che persiste, abbiamo anche traccia nel: Diaologo di un Venditore d’almanacchi e di un Passegere, nella quale chiaramente si esprime una preferenza per la vita futura, nei confronti della quale 28 anche Leopardi afferma: Speriamo . Altro poeta indagato da Laín è Baudelaire e la sua opera: I fiori del male, nella quale mostra di essere un uomo moderno al culmine della propria avventura storica. Ossia è l’uomo che si è sentito Dio e nel confronto con la realtà limitante ed opprimente ha visto decadere la propria speranza infinita, che si è fatta disperazione. Il suo spirito moderno è quindi costellato da un soggettivismo idealista e pragmatico e dalla visione nominalista della Divinità. Baudelaire è completamente incastonato nel Romanticismo per la sua inestinguibile sete d’Infinito ed il suo senso del dolore. Elementi che faranno di lui un Dio-Satana fallito, 66 cavilloso ed estetizzante; nonostante ciò, la speranza non smise 29 mai di essere caratteristica principale della sua anima . Fra la pretesa impossibile di un’esistenza satanico-divina ed il ritorno alla speranza del cristianesimo, s’interpongono altre tre possibili vie: l’evasione, il progetto di un ritorno all’origine, la rassegnazione disingannata, animosa e tragica. Da questo punto di vista, Laín ritiene che –inteso come accadimento della storia generale, il Modernismo non fu altro che un tentativo di evasione dell’anima di fronte all’angustia; così come l’ucronia (la considerazione di ciò che sarebbe successo se…) di Renouvier, o la filosofia di Bergson e Dilthey, sono l’immaginazione o il progetto di un ritorno all’origine della storia moderna, e perfino della storia d’Europa. Oltre a questi due aspetti, la rassegnazione ascetica. Infatti, durante il secolo XIX, uomini come Hegel, Comte, Leopardi… credettero di essere Dio in potenza; ma interrogativi come: e se l’uomo non fosse altro che un mero uomo? e se l’esistenza umana, finita e temporanea, non avesse altro destino se non quello di fare se stessa nella biografia e nella Storia?, sollevati dall’esistenzialismo e dallo storicismo, producono la crisi del nostro tempo e, quindi, una decisione rassegnata. Ciò perché la Storia ha saputo dimostrare a tutti la radicale inanità della speranza progressista. Ora, come sostiene Ortega, c’è crisi storica quando fallisce il sistema di credenze su cui si fondava l’esistenza dell’uomo. Tuttavia Laín non crede che l’uomo sia solo credenza, bensì che la sua vita si fondi su tre abitudini (Zubiri): credenza, speranza e dilezione, cui l’uomo in modo diretto, o indiretto, in modo conscio o inconscio si rifà. Per cui la crisi nasce quando si smette di credere sufficientemente alla natura umana ed a credere che la Storia conduce progressivamente ed inesorabilmente alla felicità terrena universale. Per questo motivo, si è passati ad amare le finzioni (l’arte astratta, le macchine automatiche), diverse e distanti da ciò che nel corso del XIX secolo era considerato come naturale. Ed ecco allora che l’uomo oggi non sa cosa ama realmente e la sua esistenza è disorientata. Ciò permette –secondo Laín- di dividere in tre gruppi quelle che sono le disposizioni dell’uomo di fronte alla speranza: 67 1. Negazione della crisi contemporanea ed affermazione della forma secolarizzata della speranza: quella scientifica e tecnica del positivismo comtiano; oppure quella rivoluzionaria e sociale del marxismo; o quella di coloro che vogliono arrivare a sintesi dei due modelli precedenti. 2. Chi vive ed esprime la crisi, contro i negatori, riscoprendo così il tema della speranza e della disperazione nel corso del XX secolo. 3. Riscoperta del cristianesimo e della sua concezione della speranza, sia dal punto di vista soprannaturale, sia da quello 30 delle cosiddette realtà terrestri . Chi inverte implacabilmente e sistematicamente le tesi tradizionali sulla speranza è: Martin Heidegger. Se, infatti, tutto il pensiero tradizionale fino ad Hegel afferma che il futuro autentico consiste nella speranza, perché è l’unico a porre l’esistenza davanti all’immortalità, alla pienezza dell’essere. Secondo Heidegger, al contrario, il futuro è autentico solo quando apre lo sguardo dell’esistenza verso la morte, la possibilità di non esistere, il nulla. È autentica solo l’angustiosa apertura dell’esistenza verso la possibilità di non essere. Magnanimità è la conversione dall’angustia in audacia creatrice; ossia: la grandezza di chi sa vivere e creare appoggiando il proprio piede sul nulla. Laín si chiede allora se è possibile vivere un’esistenza senza dare spazio, senza contemplare la speranza, e considerando l’essere 31 esclusivamente finito . Anche se più difficile da ricostruire vista l’assenza di una riflessione sistematica sulla speranza, di sicuro interessante è la concezione di Gabriel Marcel sull’argomento. Nelle diverse opere del filosofo francese, dalle quali è possibile ricavarne il suo concetto, si può rilevare sicuramente una prevalenza di un’intuizione ontologica, descrittiva o metafisica del proprio esistere, quale realizzazione individuale e concreta dell’esistere umano in genere. Ed ecco allora che Marcel individua un’opposizione tematica fra l’io sono e l’io ho; infatti l’avere è la mia relazione con qualcosa che, in un modo o in un altro, è esterno a me, come nel caso del mio stesso corpo. Siccome poi ciò che si possiede ci divora, da ciò non è escluso il mio corpo. In 68 contrapposizione al possesso, all’io ho, vi è l’essere, l’io sono: costitutivamente aperto, disponibile, anche quando sembra chiudersi in se stesso. Essere ed avere non sono tuttavia determinazioni irriducibili della realtà; infatti l’avere s’incorpora all’essere per opera dell’amore. Alla contrapposizione essere/avere, ne corrisponde un’altra: problema/mistero. Se il primo è qualcosa che trovo davanti a me e che posso delimitare e ridurre; il secondo è qualcosa in cui io stesso mi trovo coinvolto. Il mistero è la sfera nella quale ciò che sta davanti a me e ciò che sta in me perde la sua distinzione iniziale. Altro concetto fondamentale è quello d’incarnazione che parte da un io esisto: ossia la coscienza di me nel mio corpo. Da questa coscienza si deduce che l’esistenza è un’esistenza incarnata. A partire da questi presupposti vediamo qual è la fenomenologia della speranza in Marcel. Innanzitutto ciò che la speranza non è: non è desiderio (qualcosa di concreto e determinato, rispetto alla trascendenza degli oggetti particolari cui si riferisce); non è ottimismo (la superficialità del “tutto si aggiusterà”, contro l’implicazione personale nel processo che la determina); non è vitalità (perché la speranza sopravvive alla rovina dell’organismo). Gli elementi che invece si oppongono alla speranza sono: l’inesperancia come angoscia inconcreta, indeterminata e pre-riflessiva di sentirsi consegnato al tempo; disperare è capitolare davanti al fatum imposto dal giudizio e quindi disfarsi davanti all’inevitabile. Contrariamente a tutto ciò, chi spera è caratterizzato da: cattiveria, comunità, pazienza e disponibilità. Cattiveria è il sentimento dell’impossibilità di accedere con mezzi propri ad una pienezza vissuta, ora del sentire, ora del pensare (cattivo può essere un ammalato, un prigioniero, un artista…). La speranza è su ciò che non si ha e si può avere e siccome chi spera vive in una comunità, non esiste vera speranza senza amore personale: Io spero in te e per noi. Per ciò che riguarda invece l’oggetto della speranza, esso si caratterizza per: trascendenza, incalcolabilità ed indipendenza dello sperato rispetto alle possibilità di chi spera. A partire da questi elementi, qual è la situazione storica della speranza secondo Marcel? Secondo Marcel, il XX secolo è 69 stato programmaticamente refrattario al vero sperare, rispetto al quale sono finiti col prevalere: la sfiducia e l’ottimismo; qualcosa che ha procurato un’attenzione frenetica per la felicità e la sicurezza del vivere terreno ed ha indotto all’ignoranza verso l’esistenza ultraterrena, a negare il mistero della morte, finendo col distruggere la vita umana. Dal punto di vista ontologico, l’essere che sperimenta in se stesso la cattiveria e la privazione implicita nell’Io spero è di per sé deficiente e spera nella sua perfezione. Per chi è deficiente e speranzoso, la realtà è inesauribile, infinita e responsiva. Grazie alla creatività che sentiamo in essa, la realtà risponde alla deficienza che avvertiamo in noi, così come la nostra speranza risponde alla propria creatività. La speranza è, cioè, una risposta dell’essere. Per il solo fatto di sperare –afferma Laín-, chi spera scopre nel fondo stesso della realtà la omnimoda esistenza di un Tu assoluto, con il quale la sua stessa esistenza mantiene una stretta relazione colloquiale. Un Tu di cui non si può disperare, ma del quale si può rinnegare.32 Ossia: si può tornare a disperare. Da qui che la speranza si riferisce all’essere e non all’avere; è un mistero e non un problema, quantunque l’uomo non possa fare a meno di avere (corpo, facoltà, vizi…). Una vita speranzosa è, infatti, una vita creatrice, aperta alla novità, non già classificata, costituita: il che sarebbe disperante. Quale allora la dinamica dello sperare nella realtà concreta dell’esistenza umana? Per capire ciò, bisogna considerare il fatto che colui che spera è un uomo nella prova. Ed allora, cosa deve fare l’uomo per far fronte alla prova? Ci sono due possibilità: la retroazione (cessione alla tentazione di ritrarsi in se stesso, come se il futuro non possa che essere solo ripetizione) e la creazione (capacità di sviluppare un’attività personale dell’esistenza sperante in relazione alla realtà in cui si spera). Da questo punto di vista, l’Io spero in te, in quel Tu assoluto è il laccio vivente e la garanzia della mia relazione con il tu empirico e particolare della mia speranza. Ora, una reazione speranzosa alla prova esige coraggio e sacrificio; occorre affrontare la prova affermando e negando 70 insieme. È come un soldato in battaglia che deve insieme riconoscere l’esistenza del rischio di morire, ma di agire come se 33 questo rischio non esistesse . A questo punto inizia l’esame della formazione di una teoria della speranza, passando attraverso alcuni autori, di diversa estrazione professionale. Abbiamo infatti Minkowski, uno psichiatra per il quale la speranza ha il suo fondamento nell’idea bergsoniana del tempo; per cui, la speranza ci offre un intenso piacere perché ci permette di guardare all’avvenire sotto una molteplicità di forme, tutte possibili. A partire da ciò, la nostra esperienza del tempo avrebbe due forme: il tempo razionale dell’orologio e quello vissuto o intuito in cui ci si rivela immediatamente il corso della nostra stessa vita, il divenire. Tale divenire viene però convertito in avvenire dall’uomo, perché mosso dalla spontaneità vivente e creatrice del suo primario impulso personale. Tutto ciò determina un futuro che viene vissuto sotto due diverse forme: un futuro previsto o saputo ed un futuro vissuto, da una parte; dall’altra genera tre stadi successivi nella vita. 1) La vita si confronta con l’immediato sotto forma d’attività ed attesa; 2) tende verso il mediato attraverso il desiderio e la speranza; 3) ha la meta nell’assoluto per mezzo della preghiera e l’atto etico. La prospettiva dell’avvenire trova così alcance y majestad, fino a fondersi nell’irrebassabile regione del mistero. A questo punto, sul piano dell’avvenire immediato, all’attività si oppone l’attesa; ma non è l’attesa quantificabile del viaggiatore che attende il treno, bensì la ritrazione della vita su se stessa, davanti a ciò che il divenire più immediato possa portarle. Dal punto di vista del desiderio e della speranza: se il primo va oltre l’attività e la ribassa in tutti i sensi, perché la sua meta è sempre oltre l’immediato e può estendersi anche oltre la morte (si desidera sempre che succeda qualcosa dopo la nostra morte). La speranza, da parte sua, va oltre l’attesa e si dirige verso un avvenire lontano, più ampio e pieno di promesse. Chi attende con speranza, si allontana dal doloroso contatto immediato con l’ambiente e presagisce…; cosicchè la speranza non una una prolungazione lineare dell’attesa, ma un fenomeno vitale qualitativamente diverso da essa.34 71 Desiderio e speranza sono fra loro diversi. Se il primo ha in sé l’attività; la speranza ci libera da ogni ansiosa attesa, per trovarsi in più intima connessione con l’io. La speranza, quindi, anche rispetto all’intimità va in maggior profondità rispetto all’attesa; infatti chi spera vive più dentro di sé rispetto a chi 35 aspetta . Bollnow parte invece da un testo della seconda parte del Faust di Goethe, nel quale la speranza e la paura sono definiti come i due peggiori nemici dell’uomo, per l’influenza dell’ideale stoico della atarassia (=uccidere la preoccupazione del futuro e quindi i due aspetti in cui tale preoccupazione si manifesta: paura e speranza). La speranza viene così considerata come un’illusione pericolosa; confidare in essa, una necessità. Se quindi, da una parte, la speranza non può essere rifiutata; dall’altra, non cessa di essere ingannatrice: questa la considerazione della speranza, indotta dalla teoria dei sentimenti dei secoli XVII e XVIII. A partire da ciò, Laín evidenzia come Bollnow introduca delle distinzioni che la mente deve fare; ossia: 1) speranza come radicale indole dell’animo speranzoso, la speranza universale, che non ha un oggetto intuitivamente rappresentabile e non può condurre alla delusione; e le speranze concrete, cui l’uomo tende nel suo vivere, che hanno un oggetto intuibile e deludono di frequente. 2) L’attesa concreta, o aspettativa, che si riferisce ad avvenimenti che possono essere fausti o infausti e riguarda l’immediato; la speranza propriamente detta che, invece, contempla solo eventi fausti e che lascia libertà interiore ed ha un oggetto più indeterminato. 3) Il tempo dell’aspettativa che è un tempo chiuso, perché si compie escludendo l’orizzonte del futuro; il tempo della speranza che è, al contrario, un tempo aperto contenendo una molteplicità di possibilità aperte, imprevedibili. Ora, se nella vita umana, alla speranza si oppone apparentemente la paura, l’angustia e la disperazione; in realtà, la speranza occupa un posto più profondo ed originario nell’esistenza reale. Per cui quella si configura come la struttura fondamentale che sostiene quest’ultima. Tuttavia, visto che in Bollnow occupa un ruolo importante la temporalità dell’esistenza, e che secondo 72 Heidegger la temporalità si concretizza nella cura; in opposizione a ciò, il nostro autore sostiene che anche rispetto a quest’ultimo, la speranza è una determinazione più radicale e profonda della vita 36 umana. Da qui la necessità di revisionare l’esistenzialismo . Dal punto di vista medico, Brednow affronta il problema della speranza cercando una spiegazione a quanto sostenuto dal clinico Joh. Chr. Reil: i malati incurabili perdono la vita, mai la speranza. Nel cercare di spiegare come ciò sia possibile, Brednow (biologo e patologo) elabora una personale visione dello sperare umano che parte dalla distinzione introdotta da Fr. Kraus (patologo) fra: persona profonda che avrebbe la sua sede anatomica nelle strutture paleoencefaliche ed è costituita da impulsi, istinti ed affetti della nostra vita; la persona corticale, somaticamente corrispondente al neoencefalo, integrata dall’attività intellettuale e volontaria. A partire da ciò, cosa sarà la speranza? Se nella prima forma, la speranza è una tendenza vitale e primaria, non diretta ad un oggetto determinato e sussistente durante la vita; da qui partono impulsi che tendono a definire l’indifferenziato, dirigendosi verso fini concreti. Quest’ultima è l’opera della persona corticale. Volendo allora rispondere alla domanda sulla possibilità che l’uomo possa vivere senza speranza, si deve rispondere: fino a quando possiede l’impulso vitale della speranza, l’uomo vive. Naturalmente, le avversità della vita, necessità, malattie… possono alterare il dominio biologico ed estinguere la speranza vitale. Ma un uomo, può morire senza speranza? L’esperienza medica, porta Brednow a fare una distinzione fra: i giovani gravemente ammalati, animati da una poderosa speranza vitale e senza riflessioni angustiose; gli adulti e gli anziani che, coscienti del loro orizzonte di vita, si appoggiano su una speranza vitale più debole e stanca. Da questo punto parte H. Plügge per indagare, dal punto di vista clinico, come si manifesta il principio metafisico che nell’uomo presidia e fonda l’affermazione della vita e dell’essere. Una di queste manifestazioni è proprio la speranza, nell’ambito della quale, a partire da esperienze cliniche con due pazienti morte di cancro, Plügge distingue fra la speranza degli incurabili, dalla speranza quotidiana. Questa si caratterizza per essere orientata 73 verso qualcosa di mondano, esteriore, contingente, implicando un certo grado d’illusione e quindi di azzardo e delusione. Dalla rovina di questa forma di speranza nasce la speranza genuina che tende verso l’indeterminato, qualcosa che riguarda l’ammalato e concerne il suo futuro. Una speranza che non riguarda solo i suoi dolori, i problemi fisici…., bensì qualcosa di più ampio e profondo in cui tutto si sussume; una trasformazione che implica il passaggio verso un livello più alto: La nuova speranza permette di sorpassare l’anteriore riferimento della vita all’io, crea nuovi doveri e vincoli e procura una libertà ed un’autonomia interne insospettabili prima dello sprofondamento fisico del malato.37 Ora, questa forma di speranza non è rivolta solo al futuro – come evidenzia Laín- ma comprende il presente, attraverso la sua caratteristica fondamentale: la pazienza. Inoltre non riferendosi ad un oggetto determinato, non è neppure soggetta all’inganno. Insomma: la speranza… è una determinazione fondamentale ed entitativa della persona. Mentre qualcuno vive, vive grazie alla speranza. Qualcuno, non solo il cristiano.38 E qui risulta evidente la differenza fra la speranza genuina e la virtù cristiana della speranza, che è certa ed inaccessibile alla disperazione, perché speranza della resurrezione soprannaturale 39 dell’essere umano . Quali, a questo punto, le risposte spirituali all’attuale crisi della speranza? In ambito cattolico, possiamo evidenziare tre punti fondamentali: 1) una rinnovata esposizione della dottrina tradizionale della speranza cristiana. Si è assistito cioè al passaggio da una visione che considerava l’individuo quale soggetto principe dell’oggetto della speranza (il possesso della visione beatifica di Dio), alla considerazione della società, dell’universalità degli uomini quale soggetto della speranza. Essa diventa quindi un tesoro che può essere condiviso nella comunità. 2) Sviluppo vitale e teologico della stima del mondo, per cui chi 74 vuole e sa far proprio il perenne modo di esistere in Christo contemplerà e vivrà le realtà terrene, naturali o artificiali, come enti dotati di senso dell’economia della creazione e della salvezza. 3) Crescente attitudine alla comprensione dell’avversario per poter 40 vivere il cristianesimo come chiave di tutta la Storia . Laín non trascura di considerare anche la concezione filosofico-culturale della speranza nella Spagna del XX secolo, esaminando alcuni intellettuali. Primo fra essi: Miguel de Unamuno, figura emblematica della Spagna, visto che arriva anzitutto alla totale disperazione per vivere una doppia impossibilità: la sua ragione non arriva a fare della verità consolazione ed il suo sentimento è incapace di fare della consolazione una verità. Questo perché la sua ragione filosofica non attribuisce un senso all’inquietudine dell’uomo sull’immortalità della propria anima e la persistenza della sua coscienza dopo la morte; d’altra parte, il suo forte sentimento vitale, il suo anelito alla sopravvivenza e l’irrassegnabilità all’annichilimento della morte, non sanno come rendere ragionevole e vero il contenuto del suo sentire. Ad ogni modo, la sua angosciosa disperazione non conduce Unamuno al suicidio, o alla rassegnazione, ma a combattere per una nuova vita; convertendo, in tal modo, la disperazione in fonte di creazione vitale. In tal modo egli ci fornisce una personale interpretazione all’affermazione di S. Paolo, secondo cui la speranza crea ciò che il possesso uccide. Tutto ciò fa sì che Laín indichi quale caratteristica fondamentale di 41 Unamuno quella della disperazione speranzosa . In Antonio Machado, al contrario, Laín indica quale oggetto della speranza: Dio e la morte, a causa anche delle sue vicissitudini personale (la morte della moglie anzitempo). Parlare con Dio, vedere Dio, ricevere la totale e plenaria compagnia di Dio. Dio è –scrive Laín- per il solitario Antonio Machado […], la somma ed unica realtà in cui possono trovare soddisfazione senza cenere la speranza e l’impazienza dell’uomo.42 Tuttavia è solo attraverso il sogno fugace che l’autore riesce a sentire nel cuore la presenza vivificante di Dio; mentre 75 nella veglia, la sua resta sempre una ricerca incerta e penosa di 43 Dio che finisce per farsi: invenzione di Dio . Nell’opera di Ortega y Gasset, Laín evidenzia prima di tutto i diversi modi in cui l’autore ha interpretato se stesso: cacciatore e navigante. Come cacciatore l’uomo si sforza di catturare la preda perseguita; mentre come navigante cerca di raggiungere il porto desiderato. In entrambi i casi, vi è sottesa la ricerca di scrutare l’avvenire. A partire da ciò, Ortega ritiene che la vita è per lo più felice, per cui il valore della stessa si ritrova nella vita stessa. La vita è tuttavia anche deficienza ed affanno. Una verità limitata è contenuta in ogni presente del vivere umano ed è parte integrante della totale verità divina, per cui Ortega ritiene che l’uomo è costitutivamente orientato a cercare un’istanza superiore. Ortega ammette quindi che la vita umana poggia metafisicamente su una realtà trascendente alla stessa, che costituisce anche il fondamento postumo della propria felicità e verità, oltre che il termine definitivo di riferimento dei propri desideri e progetti. Tale fondamento viene definito da Ortega: Dios a la vista, il cui significato Laín esplicita con qeste parole: la felicità vera, l’occasionale coincidenza fra ciò che vogliamo essere e ciò che effettivamente siamo, è fugace tangenza con l’eternità, felice intuizione di un possibile modo di vivere nel quale l’uomo eternizzato, coincida per sempre con il meglio di se stesso.44 Insomma, la speranza di Ortega è quella di una nuova rivelazione per l’uomo, nella quale si mostri una realtà 45 trascendente le teorie dell’uomo: la vita . Volendo analizzare la situazione della speranza nella Spagna contemporanea, Laín torna ad analizzare –fra le altre- le figure di: M. de Unamuno ed A. Machado, appartenenti alla Spagna della generación del 98; una situazione religiosa, storica ed una stima del vivere intimista che rivolge attenzione al sogno ed alla sopravvivenza più che agli accadimenti quotidiani della carne. Tutto ciò impedisce un’affermazione sicura ed ottimista della speranza, quantunque non siano mai arrivati all’assoluta disperazione, volendo sempre sperare. Per contrasto, Ruben Darío 76 afferma la speranza della vita e di fronte alla vita, per la diversa 46 situazione storica in cui visse . Completata la ricostruzione storico-culturale del concetto di speranza, completata cioè la parte diacronica dell’opera, Laín nella quinta parte cerca di costruire, in modo sincronico, un’antropologia della speranza. Essendo l’antropologia un discorso sull’uomo, Laín si sofferma anzitutto su tre idee dell’uomo: 1) la definizione ellenica di animale razionale; 2) la definizione nietzscheana di animale che può promettere; 3) la definizione conduttista, secondo cui l’uomo è una modalità peculiare di condotta. Tutte queste idee dell’uomo hanno come fondamento comune la condizione zoica dell’essere umano, oltre alla sua condizione cosmica, secondo cui l’uomo è frammento individuale dell’Universo; ciò lo rende, in qualche modo, divino. Tenuto conto di queste tre idee dell’uomo, Laín ritiene che in uno studio dell’attività umana dello sperare risponderà: nel primo caso, il modo in cui l’animale razionale si rivolge al futuro. A questo proposito, essendo l’uomo un frammento del cosmo, deve e può sperare ciò che il cosmo gli permette. Come parte del cosmo, l’oggetto principale che ha influito da sempre sulla speranza umana è stata l’idea della fine del mondo. Essendo parte del mondo, il suo futuro non può che interessarci e coinvolgerci. Sicurezza della perdurazione dell’universo e timore per una fine del mondo sono i due poli di un problema che l’uomo ha sempre affrontato, con diversa prevalenza dell’uno o dell’altro, a seconda delle diverse circostanze storiche e/o personali. Ora, all’interno di quello che possiamo definire come futuro mondiale, si possono individuare almeno tre futuri regionali di realtà cosmiche e terrestri: 1) quello minerale che possiede sempre un futuro indeterminato, che non è solo esterno, ma costitutiva. La materia è infatti in se stessa un’attività indeterminabile e tuttavia al suo interno possono individuarsi delle isole cosmiche per le quali il futuro è determinato: gli esseri viventi. 2) Quello della realtà vivente (animale o vegetale) che è un futuro determinato, ordinato da cinque tappe fondamentali: nascita, crescita, riproduzione, declinazione e morte. Il futuro quindi di ogni essere vivente è determinato dalla sua situazione presente nel corso del suo invariabile ciclo vitale. 77 In cosa però si distingue il ciclo vegetale da quello animale? Se la pianta esiste passivamente e qualora non riceve il nutrimento necessario dal terreno è destinata a soccombere; l’animale è caratterizzato da altri cicli vitali subordinati: veglia, sonno, cattura e sazietà, l’aggressione e la fuga, il riposo ed il gioco, la malattia e la cura. Attraverso questi cicli subordinati, l’animale compie il suo ciclo vitale basico che lo porta verso la morte individuale, ma alla perpetuazione della specie tramite la riproduzione; in tal modo, realizza anche pienamente la sua animalità. Ossia, proprio la sua protensione verso il futuro: una caratteristica che scaturisce già nella prima infanzia, prima ancora che compaia il riferimento retrospettivo verso il passato (= ricordo). Tale protensione nell’animale oscilla fra i due stadi vitali: la veglia, in cui si trova al massimo livello; il sonno, in cui è ad un livello minimo. Entrambi sono modi dell’attesa animale, durante la quale esso: cattura, gioca, si rifugia, inventa… Quale la struttura comune a tutti questi modi concreti di sperare? Laín individua, a tal proposito, due concetti biologici utili: 1) il concetto di circolo figurale di von Weizsächer, ossia la peculiare connessione dinamica della relazione sensitiva fra l’individuo animale ed il suo ambiente; 2) la formalizzazione di X. Zubiri, ossia la capacità d’includere in contesti figurali diversi ogni elemento che compone il campo percettivo. Maggiore è la perfezione del processo di formalizzazione, più l’animale riesce ad utilizzare i diversi oggetti che percepisce per fini diversi. Questo genera naturalmente libertà ed intelligenza astrattiva e generalizzatrice, diverse in tutti i livelli della vita animale, anche negli antropoidi. Dell’animale è quindi l’attesa, non la speranza, giacchè essa è caratterizzata da una struttura fisiologica diversa, non posseduta biologicamente dall’animale. Ora, nell’uomo la biologia dell’attesa si caratterizza come forma più complessa di quella animale da punto di vista quantitativo, non qualitativo. L’uomo è capace di rinunce alle soddisfazioni istintive che l’ambiente propone ed il corpo richiede. Insomma, l’uomo è capace di un’attesa radicalmente sopraistintiva, perché la sua capacità di maneggiar, osservare… 78 l’ambiente è indefinitamente ampio, ed altrettanto ampie sono le sue possibilità d’intervento su di esso, come pure l’infinità di eventi diversi che si possono attendere in ogni situazione. La differenza biologica si deve quindi al fatto che mentre l’attesa dell’animale è sempre adattata all’ambiente, secondo la dinamica della vita istintiva; nell’uomo, invece, il suo organismo – ed in particolare il suo sistema nervoso- esige un’attitudine diversa di fronte al futuro: il progetto, ossia la condizione in cui il cervello umano pone l’uomo nella situazione di dover pensare. Ciò converte l’attesa in speranza. Naturalmente non si deve pensare che tali attività biologiche siano qualcosa di soggiacente alla vita spirituale, visto che nell’uomo fra attività biologica e mentale c’è un legame di reciprocità. In poche parole, nell’uomo la speranza è attesa e non vi è attesa che non si faccia speranza. E così anche: esistendo una fisiologia della speranza, vi è anche una patologia, ossia una relazione fra lo stato del corpo e la capacità di sperare. Esempio chiaro di ciò sono le biografie di alcuni grandi autori come Leopardi e Nietzsche, il cui stato fisico impediva la personale disposizione alla speranza. Da ciò si deduce la stretta relazione fra la fisicità e 47 la spiritualità dell’uomo, l’unione esistente fra corpo ed anima . Ora, se vivere umanamente nel mondo, ossia: se vivere è sperare, allora vivere è progettare, ed il progettare porta con sé un domandare, una curiosità sulla propria possibilità d’essere e voler essere. La domanda, il chiedere intorno alla mia possibilità d’essere, porta con sé implicita la possibilità, la minaccia del non essere ciò che io pretendevo o aspiravo ad essere. Ciò vuol dire che il domandare apre la mente umana alla prospettiva della propria determinazione esistenziale, dell’essere finito; si scopre in tal modo la possibilità del non essere. Ma questa possibilità –si chiede Laín- equivale al nulla assoluto? In ogni tipo di domanda che l’uomo pone vi è anche una sua congettura previa sul proprio futuro; nel senso che, nel momento in cui la risposta verrà prodotta: 1) sarà una risposta adeguata alla domanda; 2) chi la pone sarà ancora se stesso quando la risposta verrà data. Tutto ciò lo si può congetturare con 79 sufficiente sicurezza in base all’esperienza ed al sapere; per cui, se da una parte la domanda apre la mente umana alla possibilità del non essere, per altra svela le credenze su cui si poggia 48 l’esistenza interrogante . Cos’è la credenza? Se per W. James è il senso della realtà, è cioè un elemento costitutivo e radicale della vita umana; Ortega, al contrario, contrappone le idee alle credenze. Con ciò riesce a dimostrare che queste ultime hanno una primaria importanza nella costituzione del fondamento dell’esistenza umana, visto che rappresentano le idee che siamo non le idee che abbiamo; viviamo, quindi, nelle idee, e non ci troviamo con esse. L’animo umano è quindi portato alla credenza; ad essa si oppone il dubbio. Esso, tuttavia, non è un non credere; bensì un credere che ci conduce ad una realtà ambigua, nella quale combattono due credenze antagoniche. Ed allora, James come Ortega affermano la sostanziale credenza dell’uomo; anche quando l’uomo sembra non credere, realmente e che nuove credenze si sono sostituite alle vecchie, o queste ultime si sono depurate per espulsione dalle credenze superflue. Ed allora, se la mia domanda mi apre all’essere, ma anche al non essere; la credenza e la confidenza mi pongono nell’aspettativa di essere e mi rivelano l’apertura all’ambito dell’essere della realtà. Quindi la credenza è la «porta di accesso –afferma Laínalla realtà ed all’essere [che apre] la mente dell’uomo alle idee di 49 eternità ed infinito» . Accade però che se la domanda mi apre all’essere, come alla possibilità di non essere: quest’ultima viene veicolata da una vera sfiducia, di dubbio che porta insita in sé. La risposta, insomma, può anche tradursi in un non essere; quel non essere 50 insito nello stesso fatto della mia esistenza . Ma la domanda è in relazione anche con la creazione. Dal punto di vista antropologico infatti: una domanda può essere paragonabile all’esplosione di una saetta. La saetta sarebbe ciò 51 che domandiamo: nuove possibilità d’essere . «In quanto conato di creazione, la domanda apre l’esistenza umana, non solo a ciò che è, termine formale dell’atto 80 creatore, ed a ciò che c’è, materia delle quasi-creazioni umane, ma 52 anche a ciò che fa che ci sia» . 53 Ossia la domanda apre anche alla comunità . Se quindi la struttura dell’attesa umana è qualcosa che coinvolge la realtà e l’essere dell’uomo nel suo progettarsi, proiettarsi verso il futuro, nel suo domandarsi circa esso, implicando quindi un aspetto eminentemente antropologico; qual è invece la struttura della speranza umana? Se nell’attesa si manifesta qualcosa di insito alla natura umana: la sua temporalità, la sua finitezza; per altro verso, l’uomo non può sperare senza fare qualcosa, senza un operare simaticamente o psichicamente. In quanto essere vivente, ad ogni modo, l’uomo non può non sperare, perché di ciò è fatto il suo abito costitutivo. Un abito che si esprime come attività empirica nel corso della vita, nella quale l’appetitus diventa passio. Chi spera si muove, agisce –afferma Laín- perché l’uomo non può essere un vegetale, e la sua speranza non arriva mai a convertirsi in passiva e muta aspettativa. Nemmeno nel sogno… Dormendo o in stato di veglia, vivere è per l’uomo sperare, e sperare è muoversi appassionatamente, agire verso il futuro lungo la linea melodica delle diverse passioni nelle quali si realizzano il proprio essere e la propria vita.54 Nello sperare l’uomo agisce e crea dunque, ma la sua creazione non potrà mai essere creatio ex nihilo subiecti. Sarà invece sicuramente ricreazione, elaborazione originale di qualcosa di ricevuto ed in qualche modo elaborato. Conclude Laίn: Sia o no arduo l’impegno […], il conseguimento dell’attesa umana e, pertanto, il termine dell’operazione ricreatrice a cui tale conseguimento conduce, sono sempre entificazioni della realtà, lavoro ontopoetico.55 Siccome l’attitudine dello sperare suppone una consegna dell’esistenza di chi spera, Laín distingue diversi gradi di tale consegna, che può essere: inane, ossia superficiale, tipica di chi cerca solo di passare il tempo; circospettivo, ossia di chi cerca di raggiungere un desiderio, il conseguimento di un bene o di evitare un dolore, cercando quindi di possedere ciò che si spera e, di conseguenza, si cercherà di preservare la propria vita, la propria 81 salute fisica affinché tutto ciò che può sopravvenire non impedisca il godimento terreno del raggiunto oggetto della speranza. La speranza autentica e radicale è invece quella che corrisponde al grado più profondo della consegna, perché è quella che conduce al compimento di una vocazione personale, mettendo in conto la possibilità del fallimento e della morte personale. Vive quindi personalmente chi cerca di realizzare la propria vocazione, mentre muore chi vi rinuncia. Afferma l’autore: La vocazione è l’alveo proprio della creazione umana e la forma espressa della sua essenziale gratuità: per questo la sentiamo come una chiamata che dal profondo del nostro essere ci spinge a fare qualcosa con originalità, a creare»56. Quest’atto creativo che cerca di conoscere la propria vocazione personale, il proprio essere, con ciò trasformandosi in volontà di essere sempre (ciò secondo l’accezione greca del termine, per cui la contemplazione oscura dell’essere delle cose, rotta dall’intelligenza di esse, passa alla contemplazione di ciò che è, procurando un passaggio alla dimensione temporale del sempre, dato che l’essere è ciò che sempre è) fa sì che nell’uomo la speranza assuma un valore trascendente alla morte. Ed allora: siccome la speranza si fonda su un dono gratuito (= la vocazione personale a farsi uomo) ed è sempre interrogazione confidente o confidenza interrogante, ecco che suppone il dialogo metafisico e trans verbale con un Tu assoluto. In altri termini, Laín afferma che la speranza umana è genuina quando è religiosa. Le tappe quindi che portano al passaggio dall’attesa alla speranza umana sono le seguenti: l’attesa come abito entitativo della prima natura umana, diventa speranza, ossia abito della seconda natura, quando: l’uomo confida con maggiore o minore fermezza nella consecuzione di ciò verso cui l’attesa in primo luogo si muove: continuare ad essere. La speranza, a sua volta, arriva ad essere genuina, autentica o radicale quando quel continuare ad essere esige in modo risoluto e lucido l’espressione a cui naturalmente tende: essere sempre. Se l’uomo si consegna alla conquista di quell’essere sempre con magnanimità e forza… la speranza si costituisce come virtù naturale. ed in quanto il possesso e l’esercizio di questa virtù riconoscono ed accettano la sua 82 costitutiva relegazione al fondamento della propria esistenza e di tutta la realtà –più precisamente: in quanto l’uomo… spera nella Divinità-, lo sperare arriva alla condizione di virtù naturale religiosa.57 Ora, per chi vive cristianamente, la speranza è in attesa di 58 essere sempre e di essere in Dio secondo le promesse di Cristo . Conclusioni Con questa sua opera, insieme ad altre come: Sobre la amistad, Teoría y realidad del otro, Laín muove un ulteriore passo nella costruzione di quella che sarà la sua opera fondamentale Antropología médica para clínicos (1984). Anche in La espera y la esperanza è possibile ritrovare una ricostruzione di come nella storia sia stata concepita l’attesa e la speranza (dagli ebrei ai filosofi, letterati, fisiologi… contemporanei, passando attraverso la fondamentale esperienza cristiana), utilizzando quindi un metodo diacronico. Considerando cioè l’insieme dei fatti ed elementi dal punto di vista della loro evoluzione nel tempo. E tuttavia, non essendo la sua un’opera meramente storiografica, ma un’opera prospettica, che tende a formulare una teoria moderna sull’argomento, egli apre la considerazione della storia, all’osservazione di altri elementi scientifici (psicologia, fisiologia, biologia…), oltre che alla costituzione metafisica dell’uomo: vera molla che consente il passaggio dalla semplice attesa, alla speranza. Utilizza, in questo modo, un metodo sincronico, che tende ad osservare i fatti e gli elementi indipendentemente dalla loro evoluzione storica. La sua diventa, quindi, una comprensione della cultura (storia, psicologia, fisiologia…) come fatto collettivo, nel quale nasce ed è resa possibile la speranza. Da qui anche la costruzione di un’ontologia della speranza, dato il suo essere connaturata psico-somaticamente all’uomo, nonostante o insieme all’angoscia, alla disperazione; legata alla fondamentale religiosità (= religazione) dell’essere umano: ossia a quell’apertura che la speranza consente all’esistenza umana e grazie alla quale si scopre che il fondamento ultimo della realtà non solo è fondamentale, bensì anche fondamentante (Zubiri). 83 La speranza è quindi anche inerente all’uomo, una caratteristica grazie alla quale riesce a progettare e realizzare il proprio essere, diventando così anche necessaria al suo stesso essere; ed inerenza e necessità sono due altre caratteristiche di un’ontologia. La speranza è l’espressione, possiamo dire, dell’appropriazione del mio essere e della realtà delle cose che mi circondano, che avviene grazie alla continua azione di stimolo, di pro-vocazione forzosa che la realtà svolge nei miei confronti, costringendomi a farmi persona. Persona è allora chi si impossessa della realtà, ossia delle possibilità che quella offre, attualizzandola. Ora, nella concezione dell’uomo di X. Zubiri – ampiamente seguita da Laín Entralgo- si distingue un dinamismo della mismidad (ove per dinamismo s’intende proprio l’impossessamento delle possibilità e quindi la creazione di una personalità), da un dinamismo della suidad. La prima forma di dinamismo è propria dell’animale, il quale mantiene la propria identità, nelle continue modifiche del suo dinamismo, pur non essendo mai lo stesso. Nell’uomo, invece, abbiamo il dinamismo della suidad: una forma più ricca e profonda, perché l’uomo è un soggetto dotato di storia. A partire da essa, l’uomo elabora preliminarmente un progetto, quindi un momento dinamico anteriore all’impossessamento delle cose: Ogni possibilità consiste nell’avviamento di un progetto. Orbene, nel progetto appunto si trova qualcosa che non è reale, che è irreale… Così in questo dinamismo l’uomo è reale facendo il giro dell’irrealtà nella configurazione della propria personalità… Questo dinamismo consiste nella realizzazione di un elenco di possibilità. L’uomo si è appropriato di una possibilità ed è rimasto posseduto dalla medesima.59 Possiamo ricavare un criterio della speranza nello studio condotto da Pedro Laín Entralgo? Abbiamo sicuramente appreso da Laín ed è sicuramente esperienza ontologica di ognuno di noi, che la speranza è un abito che definisce e costituisce l’esistenza umana. L’esistenza umana si svolge in una circostanza determinata, diversa per ciascun individuo (fisica, economica, biografica…); diversa quindi sarà necessariamente anche il tipo di speranza che ognuno di noi potrà nutrire. Cosa posso e cosa devo 84 sperare, sono domande che resteranno sempre legate a questa circostanza iniziale e nel corso della sua trattazione, Laín ci ha esposto il caso di Nietzsche e Leopardi, quale duplice testimonianza: disperazione, a causa della loro costituzione fisica; speranza nonostante tutto, a causa della loro fondante costituzione umana. Alle domande sopra riportate, i due autori non possono che rispondere: poco o nulla sul piano della vita individuale, da qui la disperazione. Questo atteggiamento negativo sul piano individuale, si è però tradotto positivamente dal punto di vista personale. Abbiamo visto, infatti, che persona è chi si impossessa della realtà e delle possibilità offerteci, attualizzandole. Il loro aver preso coscienza del loro essere ha fatto sì che essi guardassero non esclusivamente a sé, bensì all’umanità di cui erano e restano parte. Ciò gli ha portati a dover sperare, considerando il percorso che l’umanità deve fare verso la felicità, la verità, il bene cui da sempre aspira. In questo modo, han saputo passare dalla propria realtà sperimentabile, dalla condizione soggettiva, ad una transrealtà, quella della personalità, consistente nella possibilità per l’umanità di essere infinitamente felice. Così si son anche aperti ad un tempo diverso da quello strettamente soggettivo e determinato; sono approdati ad un tempo aperto ad una molteplicità di possibilità imprevedibili. La disperazione soggettiva è diventata fonte di creazione vitale per l’umanità. Nei due autori è quindi riscontrabile una progettualità nonostante la loro condizione: ossia un voler essere che va oltre la certezza del proprio orizzonte vitale. Questo li avrebbe portati presto a non essere più, oltre che a non essere come gli altri; l’impossibilità di vivere emozioni, esperienze….come avrebbero voluto. Ma sperare non è possedere; è piuttosto ricerca dell’avvenire, di un oggetto concreto, è ricerca di una qualità che va oltre se stessi, più che di una quantità che riguarda solo se stessi. Ed all’avvenire si giunge per l’essenziale e fondamentale valore della vita che porta comunque con sé deficienza ed affanno. Tutto ciò influisce non solo in una prospettiva antropologica, ma sicuramente anche medica. 85 Pensiamo ad una persona il cui destino è segnato da una malattia incurabile, o ad una persona gravemente segnata nella sua autonomia da un evento clinico grave. Pensiamo quanto sia importante nel loro stato vitale, nel quale è facile riscontrare la parte patologica della speranza: la disperazione, condurre queste persone alla scoperta di nuove possibilità e quindi di condurli ad appropriarsi di esse, di progettare nuovamente qualunque sia la loro prospettiva vitale; di continuare a sperare, perché senza di essa avrebbero una morte biografica prematura rispetto a quella biologica. Beata spes! Una speranza contro che si rende tanto più necessaria quando vediamo sempre più corto il nostro orizzonte vitale e verso la quale ci deve indurre anche il medico, l’uomo che è dietro e nello scienziato che cura il corpo, ma anche l’anima del paziente. Dote molto rara questa oggi, perché assistiamo più spesso ad un trattamento spersonalizzante del paziente: questi è un semplice numero, più che essere una persona. In questo modo, numero lo diventano anche i medici, incapaci di offrire la propria umanità e la propria personalità. Incapaci di seguire fino in fondo il progetto da loro scelto, optano per la loro stessa spersonalizzazione. Da qui la necessità di uno studio antropologico, ossia culturale e metafisico dell’uomo, con la sua mutevole condizione esistenziale. Ora, nella vita dell’uomo e nella condizione di malattia in particolare, un ruolo decisivo è svolto dalla fede religiosa: chi crede che la vita terrena sia un breve passaggio, chi crede nell’insegnamento di Cristo, in una vita eterna, di là dalla vita terrena, ha la possibilità di fare un salto nell’irrealtà, di fare quel giro di cui ci parla Zubiri, per configurare questa sua nuova realtà – quella della malattia- con una personalità sorridente: il sorriso della speranza, dell’umanità confidente in un Tu assoluto, dell’uomo che si è appropriato del proprio essere e della possibilità d’essere sempre, nella propria come nell’altrui memoria, nell’altrui vita: Ho yes siempre todavía (A. Machado). Questa la forma di speranza radicale e genuina; quella di chi si consegna radicalmente al proprio progetto, al proprio essere. Beata spes, contra spem! 86 Ed allora, perché il medico stabilisca una corretta relazione con l’ammalato, occorre che si stabilisca un rapporto di cameratismo, come per due compagni di viaggio che affrontano un cammino fatto d’inquietudine. Per questo il medico deve, per rispondere alla richiesta d’aiuto del paziente, sentire qualcosa con l’altro (Scheler), deve cioè compartire, condividere, entrare in simpatia con l’altro, giacché per curare non occorre solo la conoscenza scientifico-fisiologica, bensì anche la conoscenza psichica dell’altro. Il paziente non è un oggetto fisico, ma una persona che, in quanto tale, è un essere credente, sperante ed amante e verso la quale il medico deve agire con uguale fede, speranza e tre specie d’amore: eros (l’amore che ascende verso l’ideale), agápe (l’amore effusivo) e filía (l’amore fraterno). Questo significa sovrapporre ai principi scientifici, la realtà del malato, ossia la sua biografia, la sua memoria. La memoria consente all’essere umano di rivivere il passato nel presente, di ricostruire in un attimo la sua esistenza arrivando alla considerazione del valore assoluto della vita, nella quale ha pur incontrato non pochi ostacoli, non poche delusioni, mille inquietudini, tante deviazioni. Ognuna di esse, pur nella negatività del momento, fa sì che il ricordo sia oggetto di un sorriso vitale, segno del valore della vita vissuta/riscoperta anche e nonostante la negatività che proprio per essere stata vissuta si è potuta trasformare in una positività più generale: quella della propria esistenza. Inevitabile quindi per un medico accedere alla biografia dell’ammalato, alla sua memoria. Oggi, chissà, è forse la medicina antroposofica quella che presta maggior attenzione a questi aspetti nella cura del paziente. Medico e familiari, con il loro rispettivo amore, possono aiutare l’ammalato ad appropriarsi della propria malattia, possono aiutarlo a co-creare delle nuove possibilità: un modo di vivere produttivo con una malattia incurabile, secondo una terapia che è creazione cooperativa di una speranza: passaggio dalla deficienza alla pienezza, dall’imperfezione alla perfezione. Insomma, Laín ritiene che il criterio per la nascita della speranza in un ammalato, si trova nell’amicizia fra medico e 87 paziente. Come abbiamo avuto modo di affrontare in altro scritto 60 su un’opera di Laín Entralgo: Sobre la amistad , tale amicizia viene definita come: benevolenza e beneficenza, ossia una forma di amicizia che involucra il desiderio di salute dell’ammalato, per cui non ci deve essere nessuna parola negativa nella conversazione del medico. Altri due aspetti sono: la beneficenza e la beneficenza nella doppia dimensione della confidenza e della fiducia. Ogni atto è accompagnato in Laín dagli affetti creatori e sono tutti sentimenti che devono caratterizzare la personalità del medico a prescindere dal contatto immediato con l’ammalato. Da qui l’importanza del dialogo e della parola come arti catartica che 61 può condurre ancora a sperare, a creare . 1 P. LAÍN ENTRALGO, La espera y la esperanza. Historia y teoria del esperar humano, in Obras Selectas, Petronio, Madrid 1965, pp. 308-879. 2 Ivi, pp. 314-318. 3 Ivi, p. 320. 4 Ivi, pp. 327-331. 5 Ivi, pp. 331-335. 6 Ivi, p. 343. 7 Ivi, p. 346. 8 Ivi, pp. 331-347. 9 Ivi, p. 335. 10 Ivi, p. 359. 11 Ivi, pp. 348-363. 12 Ivi, pp. 364-379. 13 Ivi, pp. 382-392 e 400-406. 14 Ivi, pp. 392-400. 15 Ivi, pp. 308-407, in part. p. 407. 16 Ivi, pp. 408-424, in part. p. 424. 17 Ivi, pp. 434-443. 18 Ivi, pp. 443-452. 19 Ivi, pp. 453-456. 20 Ivi, pp. 457-468. 21 Ivi, pp. 469-472. 22 Ivi, p. 477. 23 Ivi, pp. 469-478. 24 Ivi, p. 485. 25 Ivi, pp.488-489. 26 Ivi, pp. 480-495. 27 Ivi, pp. 495-522. 28 Ivi, pp. 527-542. 29 Ivi, pp. 543-562. 30 Ivi, pp. 563-569. 88 31 Ivi, pp. 571-584. Ivi, p. 595. 33 Ivi, Ipp. 584-598. 34 Ivi, p. 619. 35 Ivi, pp. 616-622. 36 Ivi, pp. 626-630. 37 Ivi, p. 634 38 Ivi, p. 635. 39 Ivi, pp. 630-636. 40 Ivi, pp. 637-656. 41 Ivi, pp. 666-701. 42 Ivi, p. 713. 43 Ivi, pp. 702-716. 44 Ivi, p. 734. 45 Ivi, pp. 717-734. 46 Ivi, pp. 735-746. 47 Ivi, pp. 751-781. 48 Ivi, pp. 782-791. 49 Ivi, p. 800. 50 Ivi, pp. 792-801. 51 Ivi, pp. 801-809. 52 Ivi, p. 812. 53 Ivi, pp. 809-813. 54 Ivi, p. 821. 55 Ivi, p. p. 823. 56 Ivi, p. 828. 57 Ivi, p. 877. 58 Ivi, pp. 821-879. 59 X. ZUBIRI, Estructura dinámica de la realidad, Madrid 1989, pp. questi argomenti cfr anche: F. Sanguinetti, Dinamismo filosofico Morlacchi, Perugia 2000, pp. 161-167. 60 C. L. FERRARO, “Sobre la amistad” di Pedro Laín Entralgo, pubblicazione su: www.storiadelmondo.com, n. 168. 61 Su questi temi, cfr. N. ORRINGER, La aventura de curar, Cfrculo Barcellona 1997. 32 89 237-238. Su di X. Zubiri, in corso di de Lectores, JAN PATOČKA: LA FENOMENOLOGIA ASOGGETTIVA di Roberta Sofi Abstract Questo saggio affronta la questione della soggettività nel pensiero dell’ultimo allievo di Husserl, il fenomenologo Jan Patočka, in relazione ai concetti di “mondo della vita”, “movimento” ed “epoché”. Benché la riflessione di Patočka proceda in accordo con le analisi husserliane, il filosofo abbandona il piano della fenomenologia trascendentale e teorizza una versione “eretica” della stessa. Il nuovo approccio filosofico, denominato “fenomenologia asoggettiva” costituisce il più importante tentativo di rinnovare la ricerca fenomenologica la quale non elimina il ruolo del soggetto nella sfera fenomenale, ma suggerisce di pensare ad una concezione forte e aperta della soggettività che scopre la totalità dell’apparire. Cet article se propose d’affronter la question de la subjectivité dans la pensée du dernier élève de Husserl, le phénoménologue Jan Patočka, et thématise notamment le « monde de la vie », le « mouvement » et l’« épochè ». La réflexion de Patočka, tout en procédant dans le sillon de l’analyse husserlienne, quitte le plan de la phénoménologie transcendantale et en théorise une version « hérétique ». La nouvelle approche philosophique, appelée « phénoménologie asubjective », constitue la tentative la plus considérable de renouveler la recherche phénoménologique autour de la question de la subjectivité : le rôle du sujet dans la sphère phénoménale n’est pas supprimé, mais on suggère une conception dynamique de la subjectivité qui découvre la totalité de l’apparaître grâce au mouvement de manifestation du monde où le sujet opère et agit. This paper deals with the question of subjectivity in the thought of Husserl’s later disciple, the Czech phenomenologist Jan Patočka, in its connection to the concepts of “life-world”, “movement” and “epoché”. Although Patočka’s reflection is developed in continuity with and under the influence of Husserlian analyses, he moves beyond Husserl’s transcendental phenomenology and theorizes a “heretical” version of it. The new philosophical approach, called “a-subjective phenomenology”, represents his most relevant attempt to renew phenomenological research. It doesn’t eliminate the role of the subject in the phenomenal sphere, but supports the reflection on a strong and open subjectivity able to manifest being. 90 La questione della soggettività, intesa come sostrato unificante di tutte le differenti pratiche umane, ha da sempre imposto, per la sua fecondità, una rivisitazione delle posizioni acquisite, generando nuovi e urgenti interrogativi. L’elaborazione di un’ontologia della soggettività rappresenta una delle articolazioni essenziali della filosofia moderna che vede il suo apogeo nell’ ego cogito cartesiano. Descartes delinea infatti i tratti di un soggetto razionale, detentore del sapere e principio di verità del pensiero che troverà successivamente in Kant e in Hegel la sua massima 1 espressione . Tale concezione costitutiva della soggettività sarà progressivamente sottoposta ad una profonda revisione critica da parte di alcuni filosofi che rileggono l’elaborazione tradizionale del soggetto alla luce delle condizioni che ne determinano la logica della sua finitezza essenziale (la storia, la società, l’economia, la sessualità,...). Da Nietzsche a Freud, fino a Foucault, la soggettività non garantisce più la certezza assoluta della conoscenza ma appare piuttosto come il termine problematico di una riflessione destinata ad alimentare a lungo il dibattito filosofico. Il pensiero contemporaneo ha gradualmente messo in discussione il primato del cogito, scorgendo la crisi di un soggetto che inizia a mostrare le sue crepe e debolezze, per affermare la “concretezza” dell’esistenza. Michel Foucault ha elaborato una genealogia della soggettività che ha rintracciato l’origine “recente” dell’uomo come soggetto e oggetto dei dispositivi di sapere-potere. Dopo aver dedicato la propria attività allo studio “archeologico” delle istituzioni di esclusione del soggetto, quali la clinica e le carceri, la riflessione di Foucault si è indirizzata verso l’analisi della soggettività secondo la prospettiva delle tecniche del sé, ovvero mediante l’idea di nuove possibili modalità di costituzione degli individui e della collettività. Lungo questo percorso Foucault ha segnalato che il soggetto, “invenzione recente”, può emergere dalle sue determinazioni, pur essendo un mero prodotto dei meccanismi di potere, adottando una prospettiva critica su se 2 stesso e sul mondo . In altri termini la soggettività, così ripensata, da un lato mostra la ricchezza della possibilità dell’esperienza e dall’altro la propria dipendenza da un “fuori” che la plasma e la 91 subordina all’esteriorità delle pratiche cui è sottoposta. A conclusioni diverse è giunta invece la ricerca fenomenologica che ha affrontato la cruciale questione della soggettività nel suo rapporto con il fenomeno. Nella versione fondativa husserliana la fenomenologia, servendosi dei concetti di intenzionalità, coscienza ed epoché supera la certezza cartesiana di un cogito solipsistico per scoprire la vita, popolata da una coscienza localizzata nella Lebenswelt, ovvero la dimensione soggettiva della percezione, della conoscenza, dell’etica e di tutte le questioni legate all’esistenza. Ritengo interessante, all’interno di questo dibattito aperto, il contributo fenomenologico offerto dal filosofo ceco Jan Patočka. Mediante un lavoro di analisi, interpretazione e integrazione della proposta filosofica di Husserl, Patočka formula una versione “eretica” della fenomenologia, la cosiddetta “fenomenologia asoggettiva” che si muove nella prospettiva del completamento dell’opera del maestro. La denominazione del nuovo approccio alla questione della soggettività è radicale e pone immediatamente alcuni interrogativi: cosa si intende per “asoggettivo”? Si elimina il ruolo del soggetto o, al contrario, il soggetto rappresenta un ente sui generis? Cercheremo di rispondere a questi interrogativi nei paragrafi seguenti ma anticipiamo fin da subito che il nucleo centrale della fenomenologia asoggettiva patočkiana ruota intorno ad una soggettività attiva che può essere compresa solo a partire da una concezione dinamica dell’esistenza, attraverso il movimento di manifestazione del mondo in cui il soggetto opera e agisce. Mondo della vita e soggettività 3 La meditazione sul mondo è l’orizzonte che sostiene la riflessione fenomenologica di Patočka in un dialogo e confronto incessante con il problema del mondo della vita condotto da Husserl nella stesura della Crisi delle scienze europee e consente di rilanciare il discorso sulla soggettività. Il filosofo ceco rilegge in quest’opera il cammino che la filosofia deve compiere per spiegare il rapporto tra il soggetto e mondo, passando attraverso la 92 coscienza di sé cartesiana, la logica hegeliana, la filosofia kantiana e giungendo a parlare di fenomenologia, ovvero lo studio del modo in cui ogni singola cosa appare a noi, si scopre e si mostra per quello che è. Patočka riconosce ad Husserl il merito di aver scoperto la sfera fenomenale, ovvero la sfera di ciò che si mostra nel suo apparire e, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Descartes, condivide il suo tentativo di evidenziarla e di 4 assicurarla da un punto di vista metodologico . La fenomenologia non ha per oggetto la realtà bensì l’apparizione di tutto ciò che appare e l’elemento che accomuna la riflessione di Patočka al pensiero del maestro concerne proprio il suo compito precipuo: la 5 ricerca delle condizioni di possibilità dell’apparire in quanto tale . Tuttavia il filosofo ceco rintraccia nella Crisi delle scienze europee una questione teoretica aperta, determinata dall’affermazione dell’attività costitutiva dell’ego trascendentale come fonte ultima per la validità dei contenuti del «mondo della vita». In tale interpretazione Patočka coglie il pericolo che Husserl aveva cercato di evitare: il raddoppiamento dell’oggettivazione e il conseguente oblio di quel fondamento esistenziale della scienza che il filosofo tedesco voleva recuperare attraverso la riabilitazione 6 della Lebenswelt . La strada indicata da Patočka è invece quella della regressione al mondo della vita, di un ritorno all’origine di ogni intuizione ed evidenza per cogliere il fondamento del processo universale di oggettivazione. Il mondo della vita è infatti il contenitore di vissuti e situazioni soggettive che si scontra con il tentativo di matematizzazione della natura, atto a tradurre ogni correlato della ricezione sensibile in una struttura geometrica 7 indubitabile . Tale opera di certificazione e trascrizione della Lebenswelt in caratteri geometrici determina la conversione in fenomeno della realtà concreta, scandita dall’efficacia e dalla utilità come sue formule fondamentali. In altri termini la scienza risulta priva di appoggi sicuri e tutto ciò che prima aveva un senso reale e vitale viene accantonato, perde interesse. In altri termini, la Lebenswelt husserliana, nata per rendere conto del mondo della vita scandito dalle operazioni costitutive compiute dal soggetto, inteso nella sua esistenza umana consapevole delle proprie azioni e relazioni, 93 radicato nel sensibile, nella percezione, nella causalità effettiva e non astratta, nei vari condizionamenti, secondo varie motivazioni, sembra paradossalmente tramutarsi in una sorta di tacita celebrazione dell’oblio del mondo della vita. Da questo quadro emerge da un lato l’identificazione del soggetto con ciò che è oggettivo e contemporaneamente la consapevolezza della sua dimensione soggettiva in quanto il soggetto è esecutore delle pratiche e attività che, in ogni istante, si dirigono verso il mondo che si offre a noi nell’attività intenzionale. L’attività intenzionale soggiace così ad una costante evoluzione, tuttavia il mondo continua ad apparirci unitario, cambiando solo nei contenuti. Husserl, approfondendo il problema della coscienza intesa come coincidente con l’essere dell’uomo una volta purificata da tutti quei residui che la collocano tra gli oggetti del mondo, animata da meri rapporti causali, tenta di fondare una nuova idea di scientificità indagando il senso delle operazioni precategoriali che fondano il senso d’essere del mondo della vita. Il “trascendentale”, con la sua correlazione di soggettività operante e oggettività naturale, costituirà il terreno privilegiato di questa indagine sulla Lebenswelt e la fenomenologia husserliana si servirà dell’epoché, della sospensione di tutte le verità scientifiche obiettive, per attingere al rapporto tra coscienza e mondo. In altri termini, la coscienza diventa per Husserl un fenomeno puro che si mostra veramente per ciò che è, in grado di fornire un esame valutabile e scientificamente verificabile 8 dell’essenza dell’essere umano . Husserl procedeva verso la fenomenologia pura cercando nella soggettività un accesso adeguato alla sua idea di logica pura che la psicologia empirica dei suoi contemporanei non poteva garantire. L’epoché è in questo senso lo strumento che consente al maestro di accedere all’essere di ogni ente, qualunque sia il suo modo di essere e a Patočka di introdurre la sua proposta di fenomenologia asoggettiva. La svolta asoggettiva L’elaborazione della nuova versione asoggettiva di quella 9 che il filosofo ceco definisce la sua “filosofia fenomenologica” , nata per indagare i rapporti tra i fenomeni e gli enti reali, viene 94 10 sviluppata tra gli anni Sessanta e Settanta con la pubblicazione dei saggi Epoché e riduzione (1975), Il soggetttivismo della fenomenologia husserliana e la possibilità di una fenomenologia 11 asoggettiva (1970), Il soggetttivismo della fenomenologia 12 husserliana e l’esigenza di una fenomenologia asoggettiva , (1971). L’ “eresia” asoggettiva di Patočka costituisce una novità assoluta rispetto alle riflessioni precedenti e alle successive elaborazioni fenomenologiche intraprese dagli allievi di Husserl ed 13 Heidegger e si muove verso il soggettivo come elemento di comprensione, ma non di fondamento, dell’apparire come tale. La proposta dell’asoggettività, guadagnata mediante un ripensamento dell’epoché, si dirigerà oltre la sfera della coscienza trascendentale husserliana per risalire al fondo della manifestazione del mondo che non è più costituito dal soggetto ma piuttosto codeterminato da esso. Esaminiamo meglio la questione. La filosofia antica a partire da Platone si è interessata ai fenomeni ma, invece di affrontare la questione dell’apparire, secondo Patočka ha confuso l’oggetto della manifestazione con la 14 manifestazione stessa . Se il fenomeno fosse solo manifestazione ciò implicherebbe non solo la presenza degli oggetti, ma anche la loro apparizione, la loro manifestazione. Ma esiste un’apparizione che non appare a nessuno? Laddove entra in gioco l’umano non solo le cose sono ma si mostrano, pertanto il fenomeno è la manifestazione dell’oggetto, della cosa. Tuttavia, osserva Patočka, anche il fenomeno è un oggetto, non è solo ciò che si mostra. Allora qual è il rapporto tra il fenomeno e ciò che si mostra? Affinché qualcosa si manifesti è necessario che si manifesti a qualcuno, occorre il riferimento ad una soggettività. In altri termini non è possibile conoscere la manifestazione in quanto tale: il mostrarsi, il fenomeno rimangono sullo sfondo rispetto al fatto che per noi le cose sono. Tuttavia l’essenza stessa dell’uomo e la questione della sua specificità e delle sue possibilità sono legate al problema dell’apparire. Secondo Husserl la possibilità di cogliere il fenomeno come tale non può basarsi sul suo uso ma è necessario modificare 15 il nostro modo di relazionarci al mondo pertanto la sua ricerca fenomenologica verterà sulla modalità di apparire dell’oggetto, 95 ovvero sulla sfera dell’apparire che conferisce alle cose la possibilità di manifestarsi. In questa ricerca della modalità di datità dell’apparire degli oggetti, Husserl ritiene che gli atti intenzionali, ovvero i vissuti privi di realtà oggettiva, debbano appoggiarsi alla coscienza pura e trascendentale. In altri termini, nella soggettività husserliana non c’è più spazio per una sfera fenomenica ma 16 assistiamo alla riduzione all’immanenza pura : il mondo non è solo una somma di oggetti ma si identifica con la soggettività trascendentale. La fenomenologia come scienza del fenomeno si configura pertanto come una ricerca paziente all’interno dell’atteggiamento non oggettivo che non utilizza il fenomeno solo 17 per svelare le cose . La filosofia fenomenologica di Patočka, che non intende analizzare i fenomeni in quanto tali ma cerca di trarne alcune conseguenze metafisiche, si interroga sul rapporto tra il fenomeno e gli enti, ponendo una differenza, che per Patočka 18 consiste in una irriducibilità, tra l’apparire e ciò che appare . Si stratta di individuare una correlazione tra ciò che appare e l’apparire. Tale relazione costituirà il terreno fertile per l’elaborazione della fenomenologia asoggettiva che apre al mondo dell’apparire facendo del soggetto non un hypokéimenon che soggiace ad esso e ne è la causa ma come il referente al quale l’apparire appare e contemporaneamente come parte integrante del processo di apparizione, senza esserne però l’autore. In Husserl l’intenzionalità è diretta all’apparire come tale, verso la sfera fenomenale ma viene tracciata mediante termini che provengono dalla sfera del soggettivo: non c’è una messa in evidenza del campo fenomenale come tale ma c’è una riduzione 19 all’immanenza pura . La soggettività diventa per Husserl la fonte di tutto ciò che appare e tale impostazione risulta agli occhi di Patočka un ritorno a Descartes e alla certezza di sé della 20 coscienza . A questo punto per rintracciare la relazione tra ciò che appare e l’apparire senza cadere nel soggettivismo e senza eliminare il ruolo del soggetto, la radicalizzazione dell’epoché è la via maestra che conduce Patočka all’individuazione di quell’a priori senza il quale nessun ente pre-esistente potrebbe manifestarsi. Tale a priori non costituisce la causa di ciò che appare e, pur 96 accompagnando la nostra esperienza, non può essere ridotto all’esperienza stessa perché è assolutamente originario. A questo punto vorremmo porre una domanda: che cosa succederebbe se l’epochè non dovesse fermarsi davanti alla tesi del proprio sé, ma fosse intesa in senso del tutto universale? In un’epochè così concepita io non metto in dubbio l’indubitabile, il cogito che pone se stesso. Solamente, io non mi servo di questa tesi per così dire «automatica», non ne faccio alcun uso. Ma forse è solo ritirandomi da questa tesi che mi diventa davvero accessibile la tesi dell’io, nell’a priori che la rende possibile. Forse l’immediatezza della datità dell’io è un «pregiudizio», e l’esperienza di sé, proprio come l’esperienza della cosa, ha il suo apriori che rende possibile l’apparire dell’io. Husserl aveva concepito l’epoché come quell’atteggiamento volontario della soggettività atto a mettere tra parentesi il mondo naturale e le scienza per trovare un metodo che cogliesse il senso puro del rapporto del soggetto con il mondo fenomenico, senza includere la tesi del proprio sé. La radicalizzazione dell’epoché operata da Patočka comporta invece una messa tra parentesi della soggettività stessa, guadagnando così uno spostamento dell’ego, un “arretrare” del soggetto che, lungi dallo scomparire o dal fissarsi nel dubbio dell’esistenza di un cogito produce l’effetto di eliminare l’assolutismo della coscienza husserliana. In altri termini, la radicalizzazione dell’epoché ripensata da Patočka, richiede una sottrazione del sé che non va intesa come un’eliminazione del soggetto ma piuttosto come la scoperta, da parte della coscienza, della propria finitezza, il ritrovamento di quell’apriori che rende possibile la tesi dell’io e che mostra qualcosa che lo precede e lo fa essere soggetto. L’effetto di questa rinnovata interpretazione dell’epoché consente, da un lato di procedere fino all’origine stessa della manifestazione dell’essere - senza ricondurla ad un fondamento ontico quale la coscienza assoluta – e, dall’altro, disloca la soggettività rispetto alla necessità di un fondamento ultimo mentre solleva il problema della relazione tra il soggetto e il mondo. Si apre così una zona che è anteriore sia al soggetto che all’oggetto che appaiono e che pone il problema delle condizioni di possibilità 97 dell’apparire a partire da questo movimento di arretramento della soggettività. Patočka dunque, con la svolta asoggettiva, non elimina il ruolo del soggetto ma lo subordina all’esigenza della correlazione a priori in base alla quale solo rapportandosi al mondo egli può rapportarsi al proprio sé e condurre la propria esistenza. Tale relazione sarà guadagnata attraverso il concetto di spazio, di spazialità originaria strutturata attorno alla declinazione plurale io21 tu-quello e attraverso i concetti di movimento, corpo e mondo che in questa sede non possiamo affrontare. Il soggetto in questione decentra la sua posizione e in questo arretramento, in questo movimento il mondo si mostra, appare. In altri termini la soggettività è un momento del mondo dell’apparire, è «ciò a cui qualcosa appare» e la fenomenologia asoggettiva procede oltre il 22 soggetto, ricercando la struttura ultima dell’apparire . Una struttura che dell’apparire, deve cioè basarsi su se stessa, sulla propria autoreferenzialità. La stessa soggettività va pensata come qualcosa che appare, come ciò che fa parte di una struttura più profonda- il mondo come totalità, l’apparire- come una certa possibilità appena abbozzata e indicata in questa struttura. Con la proposta della fenomenologia asoggettiva Patočka non intende dimostrare che sia possibile un apparire che non appare a nessuno ma, in ogni caso, questo “qualcuno” non può esserne l’autore, né il portatore. Colui che se ne fa carico è invece la struttura dell’apparire e il referente di questa apparizione è un momento e una parte integrante di questa configurazione 23 puramente fondamentale . In questo senso la “a” di “a-soggettivo” pur designando un alfa privativo può essere interpretato, come farebbe presupporre la riflessione filosofica di Patočka con un 24 valore allativo . Il filosofo ceco ci ha condotto, infatti, nella direzione di una soggettività che si muove arretrando e in questo suo incedere all’indietro appare e contemporaneamente consente al mondo di apparire ai suoi occhi. Questa impostazione farebbe quindi pensare ad una soggettività che è allativa e non privativa perchè il suo movimento è generativo e svelativo a partire dal suo arretramento. Secondo questa lettura dell’asoggettività, la “a” che introduce e conferisce una determinata connotazione all’aggettivo 98 “soggettivo” non assegnerebbe in questo caso un valore negativo come previsto già nella declinazione greca del termine in cui prevale l’accezione dell’alfa privativo. La parola “asoggettivo” potrebbe a nostro avviso essere considerata non nei termini di un annullamento del soggetto, di una sua rimozione, ma di un nuovo movimento che precede, senza essere originario, il mondo e compartecipa alla sua manifestazione. La soggettività così ripensata nella sua forma di asoggettività, non ha infatti la funzione di costituire il mondo ma rappresenta un carattere della sfera fenomenica, ovvero il luogo in cui il mondo si mostra secondo 25 nuove modalità e prospettive . L’asoggetività segnala dunque l’elaborazione di una rinnovata soggettività che non fonda ma costruisce, non genera ma partecipa alla generazione e il cui statuto risulta essere la posta in gioco più alta della fenomenologia asoggettiva. Da un lato il fenomeno “soggetto” è un prodotto dell’apparire del mondo, dall’altro il soggetto si distingue dagli altri 26 enti perché l’apparizione si dà solo se rivolta ad un soggetto . La tematica del movimento del mondo è il tratto costitutivo di una soggettività profondamente dinamica che è chiamata a essere presente e a partecipare alla fenomenicità per creare sempre nuove possibilità d’essere. Patočka rilancia dunque l’immagine di un soggetto che è parte integrante e allo stesso tempo “specchio” del mondo: il soggetto fa apparire il mondo senza essere però il punto sorgivo di tale apparire e allo stesso tempo dipende da esso 27 in quanto ne fa parte . 1 Hegel ha in mente uno spirito soggettivo, «coscienza che si desta a se stessa» ai suoi albori, coscienza dell’individualità dell’uomo che, per essere veramente se stesso, deve negare se stesso come pura soggettività individuale e aprirsi agli altri, diventando spirito oggettivo e, infine un soggetto che conosce se stesso come luogo dell’unità di se stesso e dell’unità di sé con la sua essenza divina e infinita elevandosi come soggetto assoluto, un «pensiero che pensa se stesso», un soggetto nel quale Dio, attraverso tutte le forme della coscienza umana, diventa cosciente di sé, Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, parte terza, Filosofia dello spirito, Biblioteca Universale Laterza, 2002, cit., pp. 377-577. 2 L’uomo «è solo un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere e che sparirà quando sarà trovata una forma nuova», M. FOUCAULT, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, cit., pp. 413414. 99 3 La questione del “mondo” è fondamentale nell’indagine fenomenologica. Con l’elaborazione della riduzione trascendentale Husserl introduce il mondo inteso come intreccio intenzionale e luogo di esplicazione di ogni esperienza, orizzonte che rende possibile ogni sapere e azione umana, «il mondo che è per noi, che nel suo essere e nel suo essere-così è il nostro mondo, attinge il suo senso d’essere esclusivamente dalla nostra vita intenzionale». E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a cura di E. Paci, Il Saggiatore, Milano 2008, cit., p. 207. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al saggio di Vincenzo Costa, Mondo, azione e storia in Jan Patočka, in cui la nozione di mondo diventa cruciale per la comprensione dell’esistenza umana dal momento che ogni manifestazione del mondo è un disvelarsi dell’essere che interpella l’uomo in modi diversi, cit., V. COSTA, Mondo, azione e storia in Jan Patočka in V. MELCHIORRE, Forme di Mondo, Vita e Pensiero, Milano 2004, cit., pp. 257-286 4 Vincenzo Costa ha mostrato come l’analisi fenomenologica condotta da Husserl nelle Ricerche Logiche escluda l’idea di mondo in quanto la ricerca dell’evidenza si limita ai rapporti causali che spiegano i fenomeni facendo riferimento solo alle strutture fisico organiche. In questo senso, non essendoci un mondo non si dà coscienza, non si dà soggetto che si rapporti a se stesso, non si dà un io. Con l’introduzione della riduzione trascendentale l’unità dell’io e l’apparizione degli oggetti non è più legata a rapporti causali ma dischiude l’orizzonte del mondo, ovvero una totalità di relazioni di carattere fenomenologico, V. COSTA, La fenomenologia tra soggettività e mondo, Leitmotiv 3/2002. 5 Il nucleo centrale della riflessione fenomenologica di Patočka ruota intorno all’«essenza dell’apparire», J. PATOCKA, Papiers phénoménologiques, tr. fr. a cura di E. Abrams, Millon, Grenoble, 1995, cit., p. 176. 6 La fenomenologia trascendentale risponde al tentativo husserliano di superare lo sdoppiamento dell’obiettivismo e del soggettivismo, E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., pp. 51-127. 7 Ivi, cit., pp. 297-309. 8 Dopo aver “messo tra parentesi” l’intero mondo naturale e le relative teorie scientifiche, nel tentativo non di negarne la validità e verità ma, al contrario, di trovare un metodo che cogliesse il senso puro del rapporto del soggetto con il mondo fenomenico, Husserl scopre che «la coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi rimane come ʽresiduo fenomenologicoʼ, come una regione dell’essere per principio peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della fenomenologia», E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it. a cura di V. Costa, Einaudi, Torino, 2002 cit., pp. 76-77. 9 Il nome deriva dal titolo “Introduzione alla Filosofia Fenomenologica” del corso accademico tenuto da Patočka durante il suo ultimo anno di lavoro presso la Univerzita Karlova v Praze. Tuttavia, secondo Miroslav Petříček tale cambio di rotta non significa necessariamente una rinuncia al pensiero del maestro e, anche l’apertura alla più innovativa versione heideggeriana della fenomenologia non deve essere intesa come un allontanamento o semplicemente un superamento della posizione husserliana ma piuttosto come il tentativo di elaborare, estendendole, le due proposte fenomenologiche di Husserl e Heidegger, M. PETŘÍČEK, Jan Patočka: 100 Phenomenological Philosophy Today, in I. CHVATÍK – E. ABRAMS, Jan Patočka and the Heritage of Phenomenology. Centenary Papers, Springer, London New York 2011, cit., p. 4. 10 In particolare si rimanda a J. PATOČKA, Epoché e riduzione, tr. it. di A. Pantano, “Aut-aut”, 299-300, cit., pp. 142- 151; si rimanda anche a J. PATOČKA, Qu’est-ce que la phénoménologie? tr. fr. a cura di E. Abrams, Millon, Grenoble, 1988. 11 Il saggio è contenuto in J. PATOČKA, Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo. 12 Ibidem. 13 Rispetto alla proposta fenomenologica heideggeriana che in parte risolve, secondo Patočka, alcune difficoltà dell’approccio trascendentale husserliano, il filosofo ceco è ugualmente critico. Heidegger infatti avvia una completa riformulazione della fenomenologia incentrata sui presupposti ontologici che non sono stati indagati dalla fenomenologia husserliana ma, anche in questo caso, Patočka scorge un limite: l’assenza dell’analisi del tema dell’apparire come tale, J. PATOČKA, Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo corpo, cit., p. 262. 14 J. PATOČKA, Platone e l’Europa, cit., p. 176. 15 «Io metto quindi fuori circuito tutte le scienze che si riferiscono al mondo naturale e, per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi a obiettare alcunché, non faccio assolutamente nessun uso di ciò che esse considerano come valido», E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit., p. 72. 16 J. PATOČKA , Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo, cit. pp.285287. 17 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, cit. pp. 45-55. 18 Patočka ha ampiamente trattato la tematica della differenza, individuata nel concetto di chorismòs nel saggio Il Platonismo negativo. Qui il negativo non è un polo che si oppone a un positivo ma indica piuttosto la differenziazione ed eccedenza dell’apparire rispetto a ciò che appare, J. PATOČKA, Liberté et sacrifice. Ecrits politiques. tr. fr. a cura di E. Abrams, Millon, Grenoble, 1990. 19 A tal proposito Ullman precisa: «The appearance and importance of the reduction after the trascendental turn is a clear symptom of Husserl’s Cartesianism and of its metaphysical residues. For Patočka , this Cartesianism originates in Husserl’s confusion of subjectivity and phenomenality. At first, phenomenality was subjective solely in the narrow sense that all phenomena appear to me, in this given perspective, in this given aspect. It shifted, however, from this neutral position to a central one, and subjectivity became the source of all that appears», T. ULLMAN, Negative Platonism and the Appearance-Problem, in I. Chvatík – E. Abrams, Jan Patočka and the Heritage of Phenomenology. Centenary Papers, cit., p.76. 20 J. PATOČKA , Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo, Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona, 2009, cit., p. 345. 21 La soggettività viene compresa a partire dal movimento dell’essere in via di manifestazione aperto dal mondo, ovvero dalle possibilità di azione che ci interpellano destando una direzione di senso, V. COSTA, La fenomenologia tra soggettività e mondo, cit., pp. 269-270. 101 22 Alessandra Pantano utilizza l’espressione “dislocazione del sé” per indicare la via che conduce alla conoscenza dell’apparire. Essa non si percorre a partire dal soggetto ma, al contrario, «osservando la sfera fenomenica e ponendola quindi al centro di un nuovo sguardo fenomenologico, si può accedere al senso della figura della soggettività», A. PANTANO, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka, Mimesis, Milano 2011, cit., p. 123. 23 J. PATOČKA, Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo corpo, cit., pp. 279283. 24 Nella linguistica italiana l’«allativo» fa riferimento al caso grammaticale indicante il moto verso un luogo esterno. Dal latino allātus, pp. di afferre, ovvero «portare vicino», l’allativo è una formazione nominale tipica anche di alcune lingue uraloaltaiche che esprime un ravvicinamento senza penetrazione: per esempio, nell’ungherese kert-hez, «presso il giardino»; hajó-hoz, «presso la nave», P. SANTANGELO, Fondamenti di una scienza dell’origine del linguaggio e sua storia remota; con miscellanea storico-linguistica, University of California, 1953, voll. 1214. 25 Ivi, cit., p. 14. 26 Ivi, cit., p.124. 27 J. PATOČKA, Che cos’è la fenomenologia, cit., p. 304. 102 ALBERT CAMUS E JEAN-PAUL SARTRE. SENSO DELLA MISURA E MEDITERRANEITÀ di Alessandra Peluso Nel saggio, Camus descrive il senso del limite in maniera chiara nella figura del dottor Rieux de L’homme revoltè, come lo è nel Le mythe de Sisiphe. L’assurdo è un antidoto privilegiato contro ogni ebbrezza di onnipotenza, mentre in Sartre la presenza dell’altro comporta un limite alla nostra libertà. Ma la libertà, per Sartre, la si dimostra vivendo: non affonda radici in nessun luogo. Il filosofo algerino incarna i valori del limite, della misura e della libertà nel pensiero meridiano decantato nelle sue opere. Il Mediterraneo che potrebbe essere considerato uno spazio di salvezza per l’uomo. Dans l'essay, Camus decrive le sens du limi t en façon claire dans la figure du docteur Rieux de L'homme Revolte', comment lui est Dans Le mythe de Sisiphe. L'absurd est un antidote privilege' contre chaque forme de ebriete' de omnipotence, lorsque en Sartre la presence de l'autre comporte un limit a notre liberte'. Mais la liberte', pour Sartre, la se demontre en vivend: elle n' enfonce pas de racines en auquin lieu. Le philosophe algerien incarne les valeurs du limi t, de la mesure et de la liberte', dans le pensée meridien vante' dans ses oeuvres. La mediteranée qui pourrait etre considere' un espace de salut pour l'homme. In the essay, Camus describes clearly the sense of limit in the figure of Dr Rieux de L'homme Revolte', like he is in 'Le mythe de Sisiphe'. The absurd is a favoured antidote against every inebriation of omnipotence, whereas in Sartre the presence of another one means a limitation to our freedom. But freedom, for Sartre, it is shown, only living: it doesn't ground Its roots in nowhere. Algerian philosopher personifies limit, mesure and freedom values in the meridian thought extoled in his works. Mediterranean Who could be considered a savin space for man. Il tema del «pensiero meridiano» si è riaffacciato timidamente nel dibattito culturale negli ultimi decenni. Eppure ha avuto, nella storia del pensiero occidentale, dei fautori importanti. Ha scritto NOTE Abstract 103 Aniello Montano, relativamente alla sostanza della cultura filosofica contemporanea: «il Mediterraneo rappresenta nell’opera di Camus il punto di origine e il punto di arrivo. Già nelle opere giovanili il Mediterraneo era lo sfondo condizionante la vita dei suoi abitanti. I poveri algerini, ma anche i cittadini di tutti gli altri paesi rivieraschi, riuscivano ad essere sereni e pacatamente felici, o a mitigare le sofferenze dovute alle loro condizione, grazie al 1 Mediterraneo» . Diverso il discorso per Sartre, il cui nome viene normalmente accostato a quello dell’algerino. Infatti Albert Camus e Jean Paul Sartre sono accomunati nel pensiero filosofico esistenzialista, pur essendo entrambi non disposti ad accogliere etichette. Ambedue si trovano in un periodo in cui il mondo non vive una situazione pacifica né di benessere. Siamo negli anni delle guerre: conflitto e assolutismo sono le parole chiave. Camus proviene da una famiglia di origine modeste, ma non si sente affatto svantaggiato, tant’è che più tardi assegnerà all’esperienza della povertà la funzione di una vera scuola di vita. A tal proposito, infatti, scrive: «La povertà intanto non è mai stata una disgrazia per me: la luce vi spandeva le sue ricchezze. Persino le mie rivolte ne sono state illuminate. Quasi sempre, credo di poterlo dire senza barare, furono rivolte per tutti e perché la vita di tutti fosse elevata nella luce. Non è certo che il mio cuore fosse disposto per natura a questa sorta di amore. Ma le circostanze mi hanno aiutato. Per correggere una indifferenza naturale venni messo a mezza strada fra la miseria e il sole. La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi 2 insegnò che la storia non è tutto» . È un filosofo, un letterato, un artista, uno scrittore dallo stile cangiante: «Ho adottato la forma al soggetto all’argomento, 3 ecco tutto» . Ama l’arte come Sartre che considera l’opera d’arte un fine assoluto. Essa - dice Sartre, riportando una affermazione di Simone de Beauvoir - porta in sé la sua ragion d’essere, quella del 4 suo creatore e forse anche quella dell’intero universo . Sartre proviene da una famiglia borghese, impegnato nelle lotte politiche del suo tempo, protesta anche contro la guerra 104 d’Algeria. È alla continua ricerca, come Camus nel quale il dubbio diviene l’elemento portante della sua vita. L’ipotesi è di una messa a confronto, accomunati, a dispetto della terribile disputa di natura politica che li porterà a rompere definitivamente un rapporto di amicizia nato da giovani. Accade infatti, alla fine del 1946, che Camus nella serie di 5 articoli Ni victimes ni bourreaux apparsi su Combat , scrive: «era necessario cambiare la realtà, ma nell’opera di cambiamento, in un mondo immerso nell’omicidio, ci si doveva decidere a riflettere sull’assassinio e a scegliere tra coloro che accettano rigorosamente di essere assassini e quelli che si rifiutano con tutte le loro forze di esserlo». Alla tragica scomparsa di Camus, nel gennaio 1960, Sartre scrisse di getto per il France-Observateur un commosso ricordo: «Non andavamo d’accordo, io e lui: ma cos’è un disaccordo? Non è nulla, solo un altro modo di vivere senza 6 perdersi di vista nel piccolo mondo stretto che ci è dato» . Si tratta di un’ammenda interiore? O forse solo - come ha ben documentato 7 Olivier Todd nella sua ampia biografia Albert Camus, une vie (Gallimard, 1996) - la prima delle contraddizioni in cui andò ad arenarsi Sartre quando negli anni seguenti volle ricordare il suo rapporto con Camus. Camus purtroppo non è riuscito ad avere una giusta collocazione nel pensiero filosofico, letterario e artistico del ‘900. Nelle ultime pagine del L’homme révolté (1951) Camus tenta di fornire una soluzione al problema della rivolta nella storia e di riabilitarla come «valore fondatore d’umanità», contro le sue deviazioni, aprendo la strada ad un’etica della misura oltre l’idealismo morale e il realismo cinico: «Se la rivolta potesse fondare una filosofia, questa sarebbe [...] una filosofia dei limiti, 8 dell’ignoranza calcolata e del rischio» . Secondo Arnaud Corbic, filosofo e teologo francese, Camus, dedicandosi ad una rilettura critica della dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, pensa che la rivolta implichi l’idea del limite. Tale limite è posto all’oppressione dalla rivolta dello schiavo, ma è posto anche alla stessa rivolta quando lo schiavo scopre che tutti gli uomini hanno pari dignità e quindi riscopre, nel diritto degli altri alla rivolta, i limiti del proprio stesso 105 9 diritto . Emerge in parte la dialettica di Hegel, ma nel rapporto dialettico Hegel, invece, riconosce la lotta per il riconoscimento e, 10 quindi, l’inversione dialettica dei mali . La libertà si realizza col diritto. Nulla di più contrastante è, per Canus, dell’hegelismo al pensiero meridiano che, per il filosofo di Algeri, è il pensiero della misura, presente sin dalla filosofia greca. In tal senso scrive Montano: «La radice teorica primaria di questo estremo soggettivismo e del conseguente occultamento del senso del limite, Camus la individua nell’idealismo classico tedesco, in Hegel in modo particolare. Questo idealismo fa tutt’uno con il pensiero germanico, con l’ideologia tedesca considerata opposta alla 11 filosofia mediterranea» . Nell’affermazione e riconoscimento del proprio diritto, Camus riconosce il giusto limite nella rivolta, senza il quale si cadrebbe nel disordine, si cadrebbe nella ipotesi che ad un omicida tutto sia permesso. Mentre con Paul Ricoeur si può riconoscere nella misura una rivolta di secondo grado, una rivolta della rivolta contro il nichilismo. Tuttavia Camus invoca la misura come valore della mediazione e scrive: «Esistono dunque per l’uomo, un’azione e un 12 pensiero possibili a quel livello medio che gli è proprio» . È ciò che il filosofo chiama pensiero meridiano. L’idea di un pensiero meridiano è uno dei punti nei quali il 13 poliedrico intellettuale è profondamente influenzato da Nietzsche , 14 come sosterrà anche Franco Cassano . Ed è difficile - aggiunge Cassano - che lo stesso non si sia imbattuto nel fascino e nella profondità del pensiero nicceano, nel “grande meriggio”, nella riscoperta del sud come cura «dall’orribile chiaroscuro nordico, dallo spettrale guazzabuglio dei concetti e povertà di sangue dove il sole è assente». Chi ama il sud può invece trovare in esso come «una grande scuola di risanamento, rispetto a quel che v’è di più spirituale e di più sensuale, come un’incontenibile pienezza e trasfigurazione solare, dilatantesi sopra un’esistenza sovrana e 15 colma di fede in se stessa» . D’altro canto, Sartre, sulla dottrina della dialettica, afferma che è un sapere puro e irrigidito, incapace di autocorreggersi, 106 16 perché ormai trasformato in dogma . La dialettica non concepisce la ricerca e la cultura che diventa strumento critico nelle mani dell’uomo nei confronti del mondo. Simone de Beauvoir ricorda, nell’opera La force de l’âge, che Sartre «detestava le routines e le gerarchie, le carriere, avere regole da osservare e da imporre; [...] non avrebbe messo radici in nessun posto, non si sarebbe mai gravato di un possesso: non per 17 conservarsi oziosamente disponibili ma per sperimentare tutto» . Una volta sperimentato che l’uomo è un ente del mondo, come l’io di un altro, è l’essere la cui apparizione fa sì che esista un mondo. Ma il mondo non è l’esistenza, e quando l’uomo non ha più scopi, il mondo resta privo di senso. Questa tesi è espressa da Sartre in La 18 nausée , dove l’autore contrappone l’assurdo ai valori positivi della filosofia classica. Il concetto di assurdo diviene positivo quando l’uomo riconosce la sua libertà. Nel pensiero di Camus l’assurdo è psicologicamente un’esperienza di impotenza e umiliazione come in Sartre. Il suo gusto è irrimediabilmente amaro, suoi colori sono 19 di cenere o di sangue . È la finitudine umana sofferta e subìta. È il dolore che gli uomini attraversano nelle opere di Camus come Il mito di Sisifo, Lo straniero, La peste, dove si assiste ad una chiara immagine dell’assurdo rappresentata dalla sofferenza atroce e dalla morte dei bambini. Occorre dire che gli uomini di Camus, pur vivendo nell’assurdo, senza speranza, non sono disperati perché riconoscono il “peso della libertà”, l’unico vero inflessibile padrone dell’uomo. Nell’uomo di Camus, come nel singolo di Kierkegaard e nel superuomo di Nietzsche, si verifica quel processo di esasperazione dell’esperienza individualistica come nell’unico di Stirner o nell’eroe di Wagner, tant’è che Bobbio considera questo modo di concepire l’individuo come tipico della crisi 20 esistenzialistica . Tuttavia, secondo Camus, si tratta di recuperare non solo l’individuo, ma la specie, e quindi assumere l’ideale di 21 «superumanità» per assicurare la salvezza di tutti . Il senso del limite è chiaro nella figura del dottor Rieux de L’homme révolté, ma lo è ancor prima nel Le mythe de Sisiphe: 107 l’assurdo è un antidoto privilegiato contro ogni ebbrezza di onnipotenza, non si configura come una sconfitta. Sartre parimenti osserva che noi ci conosciamo nello sguardo dell’altro. L’altro, quindi, toglie la nostra libertà sino al limite dell’alienazione (diventare dell’altro), ma anche fonda la 22 nostra libertà come limite . E nella categoria del limite riluce nitidamente la libertà anche nel pensiero di Camus. Sartre valorizza la «condanna alla libertà» proprio radicalizzando la prospettiva etica. L’uomo è «condannato perché non si è creato da solo, ed è, nondimeno, libero perché, una volta 23 gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa» . C’è responsabilità, quindi, e una nuova morale della responsabilità che è quella del rispondere in prima persona di noi stessi e degli altri. Non esiste la Provvidenza nel pensiero sartriano né in quello di Camus. C’è la storia costruita dai soggetti e quella storia deve essere tessuta di valori. Dalla critique de la raison dialectique alla critique de la raison éthique. Le teologie filosofiche avevano inevitabilmente sottolineato il nesso tra libertà divina e bene. Descartes, Leibniz, Spinoza sono assunti da Sartre come precisi punti di riferimento. Nei Cahiers pour une morale, opera incompiuta ed apparsa postuma nel 1983, Sartre coglieva in Descartes un salto: «La libertà supplicata non è, come il Dio di Leibniz, sottomessa al Bene [...] ma, come quella di Descartes, 24 costituente il Bene» . Nell’esistenzialismo ateo, «che io rappresento», affermava Sartre, «c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: quest’essere è l’uomo, o, come dice Heidegger, la realtà 25 umana» . Non c’è uomo che non preceda la propria definizione; egualmente è per la natura, perché per il pensatore tedesco non c’è un Dio che concepisca, prima del loro essere, uomo e natura. Quindi il sé dell’uomo non può definirsi che a posteriori. Noi «ci siamo» come fatto originario e ingiustificabile. L’essenza viene dopo ed è costruzione e proiezione. Camus sembra identificare la Provvidenza con l’amore, riconosce l’amore come necessità per ogni individuo per godere del rispetto e della libertà. Egli, infatti, afferma che l’amore non può 108 essere vissuto se non nel modo radicale, cioè del disinteresse e della gratuità assicurati dall’assenza di ogni trascendenza in una 26 lotta senza speranza . E non a caso traspare questo sentimento che permea tutta l’opera di Camus, lungi dall’essere il risentimento o, peggio, il pessimismo, ma è senza dubbio l’amore: amore contemporaneamente profondo e incolmabile quanto lucido e realista; è l’amore di chi si rifiuta di mentire e, allo stesso tempo, di 27 darsi per vinto . Inoltre, recupera una serie di valori quali l’amicizia come virtù, la sincerità, il rifiuto di salvarsi da soli e il gusto di essere felici insieme agli altri, il rispetto della “natura umana” in tutti gli uomini. Questi valori che sembrano avvicinarlo, come afferma 28 Montano, a Maritain, Mounier e Péguy . Tuttavia, Camus si definisce anche il filosofo del diritto e del rovescio, del limite e della libertà, della misura e della dismisura, di queste contraddizioni che permangono nell’uomo e vengono riconosciute come positive. Camus stesso rappresenta tutto questo nel suo pensiero meridiano e raffigura tale antinomia nei due poli del continente europeo, nella loro vita e cultura: il nord, pervaso dall’ideologia storicistica di formazione tedesca, e il sud dallo spirito mediterraneo. Nel primo egli vede rappresentata la “dismisura”, nel secondo la “misura”, le quali si sono contrastate in un processo iniziatosi anticamente e durato fino ai nostri giorni. Nell’uomo mediterraneo, come compresenza e interazione degli opposti, intravede la sola via perché l’umanità recuperi il proprio vero essere e continui ad esistere. La misura, nata dalla rivolta, non può viversi né sperimentarsi se non mediante la rivolta. È il costante conflitto, perpetuamente suscitato e signoreggiato dall’intelligenza che non trionfa dall’impossibile né dall’abisso. Si adegua ad essi. Qualunque cosa facciamo - afferma Camus - la dismisura serberà sempre il suo posto entro il cuore dell’uomo, nel luogo della solitudine. Tutti portiamo in noi il nostro ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni. Ma il nostro compito non è quello di scatenarli attraverso il mondo; sta nel combatterli in noi e negli altri. La rivolta, la secolare volontà di non subire, ancor oggi è al principio di questo combattimento. Madre delle forme, sorgente di vita vera, ci 29 tiene sempre ritti nel moto informe e furioso della storia . 109 Rivolta e misura, misura e dimensione umana, dimensione umana e naturalità e solarità e mediterraneità. In sé e per sé l’uomo moderno, sulle tracce dell’antico, avrebbe dovuto cercare i mezzi per liberarsi ed unirsi ad un’umanità pur essa liberatasi. Questo doveva avvenire all’insegna di una rivolta illuminata da quella luce mediterranea, nella quale egli avrebbe ritrovato i suoi eterni ed inconfondibili contorni. Come agli albori l’antica umanità, così ora la moderna era chiamata a trarre dal Mediterraneo la sua origine, libertà ed unità nella diffusa coscienza della propria 30 “misura” . Quindi occorre un gioco di contemperamento del no con il sì da cui “emerge il concetto cardine di pensiero meridiano, vale a dire il concetto di misura. Concetto che Camus trova già perfettamente elaborato emesso a punto in non pochi pensatori 31 dell’antichità classica, attivi nei paesi del Mediterraneo” . È evidente l’ispirazione poetica nella descrizione del sud, del Mediterraneo che identifica con la sua Algeri, dove sostiene di aver vissuto a metà strada tra la miseria e il sole, nella quale sono le radici della rivolta e della misura: «La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto. Cambiare la vita, sì, ma non il 32 mondo di cui facevo la mia divinità» . Questa presenza del sole e della luce avrebbe regalato a Camus la “felice immunità” dal risentimento e dall’invidia, la bellezza generosa della natura lo ha per sempre liberato dalle patologie della mimesi. Il suo ideale positivo della vita lo si può intravedere anche in questo, dove i beni più importanti sono accessibili a tutti e non sono solo di qualcuno, allora qui è possibile 33 controllare l’invidia . Il sud di Camus è profondamente trasformato e sembra essersi liberato da una vergogna della povertà. Probabilmente è un idillio, è poesia, considerare la “povertà felice”, oppure poteva essere sperimentata solo in alcune zone privilegiate del sud in cui la terra incontra il mare. Pertanto, è proprio qui, nella consapevolezza della miseria, nella propria tradizione, nelle proprie radici che egli non rinnega, che si può comprendere la rivolta libertaria di Camus. Dal Mediterraneo rinasceva una razza, un’Europa, un'anima nuova, 110 che avrebbe dovuto rinnovare il mondo nella rinnovata coscienza della sua dimensione umana. Il male, dunque, persiste autonomamente nella sua essenza insensata e tumorale, sordo ai lamenti umani, cieco al sangue versato irreparabilmente. Camus insegna che nel cuore del reale, oltre e contro il male, ci sia l’uomo e la sua capacità di amare. Egli è l’unico responsabile del bene, l’unico essere che con la sua rivolta è capace di porre rimedio, quanto più possibile, ad una condizione intrinsecamente ingiusta e dolorosa. Sicché, anche nel buio più totale delle guerre e degli olocausti, deve sempre riemergere dal fondo degli animi abbattuti quel «sole invincibile» capace di scacciare le tenebre del male - siano esse connaturate al reale, siano esse prodotte dagli uomini stessi. Inoltre, Camus ribadisce che la libertà per essere tale non può essere senza limiti. «Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. [...]. La libertà esiste e ha un senso e un contenuto solo nella misura in cui viene limitata dalla libertà degli altri. Una libertà che comportasse solo dei diritti 34 non sarebbe una libertà, ma un’onnipotenza, una tirannia» . Sartre, come Camus, privilegia la libertà. Nell’opera L’Être et le Néant la libertà nei riguardi dell’altro è intesa come rapporto e come scelta. Abbagnano sottolinea che la libertà sartriana diventa essa stessa giustificazione di ogni scelta possibile, dato che “l’uomo non può scorgere, dentro e fuori di sé che mere possibilità, 35 ognuna delle quali implica una minaccia e un rischio” . 36 Anche Sartre ama il sud, e diviene un turista “engagé” come lo definisce Montano - dell’Italia. Il nostro Paese che appare come una sorta di paradigma positivo su cui realizzare le sue idee. Era stato colpito soprattutto dalla cultura, dalla duttilità ideologica degli intellettuali del tempo, dalle bellezze barocche, da città come Napoli, Venezia, Roma e dal barocco di Lecce e della Sicilia. Sartre lo si è definito un filosofo post-moderno, per la sua 37 diffidenza nei confronti delle totalizzazioni ; un portatore di una modernità nata dal “disincanto del moderno”, non da intendersi per 111 il modo di negare ogni pretesa universalistica e stabilizzante 38 dell’estetica, della storia, della politica e dell’etica . Sartre, riprendendo il concetto di libertà, evidenzia il suo fallimento, dal momento che la libertà è fondata sull’angoscia che attanaglia l’uomo nel vivere la sua esistenza come una libertà falsa, basata sul nulla. Infatti scrive: Questa libertà, che si rivela nell’angoscia, può caratterizzarsi con l’esistenza di quel niente che si insinua tra i motivi e l’atto. Non già perché sono libero, il mio atto sfugge alla determinazione dei motivi, ma, al contrario, il carattere inefficiente dei motivi è condizione della mia libertà. E se si domanda qual è questo niente che fonda la libertà, risponderemo che non si può descriverlo perché non è, ma si può almeno indicarne il senso, in quanto questo niente è stato per l’essere umano nei suoi rapporti con se stesso. Corrisponde alla necessità per il motivo di non apparire come motivo altro che come correlazione di una coscienza del motivo. In una parola, poiché rinunciamo all’ipotesi dei contenuti di coscienza, dobbiamo riconoscere che non vi sono motivi nella coscienza ma solo per la coscienza. E per il fatto stesso che il motivo non può sorgere come apparizione, si costituisce da sé come inefficace.39 Simone de Beauvoir afferma che «parlando con lui intravedeva nella teoria della contingenza la sua ricchezza» e 40 avrebbe avuto un’ottima intuizione dato il seguito delle sue opere . Sartre considera la storia come un movimento esplicantesi esclusivamente nella dimensione mondana e nella più assoluta contingenza. La storia, secondo Sartre, è assolutamente priva di una direzione necessaria e prevedibile e ha rivendicato all’individuo il ruolo di protagonista degli eventi storici, contro lo 41 Spirito di Hegel o le classi in lotta di Marx . La storia è libertà, è originariamente contingente, possibile, casuale. È creazione e di conseguenza ogni avvenire è 42 imprevedibile in rapporto ad ogni presente . Così, afferma Sartre, non è la dialettica a spiegare la Storia, ma è la Storia che si 43 rinchiude su ogni dialettica e l’assimila . Il vero principio motore della Storia che per Sartre appunto è l’alterità, è più ampio della 44 dialettica e la avvolge . Il concetto hegeliano di dialettica, come anche quello marxista, diventa l’obiettivo privilegiato della critica sartriana. Sartre, nonostante le critiche, dimostra ampio interesse verso le 112 posizioni di Hegel e Marx: ad Hegel riconosce il merito di aver compreso che la dialettica è prerogativa essenziale ed esclusiva della realtà umana, pur non avendo prestato attenzione agli “elementi passivi” della storia come il lavoro, mentre, per lui, Marx ha rivolto grande attenzione al lavoro, ma ha considerato la dialettica come un processo svolgentesi su un piano differente dalla coscienza. In sostanza, riprendendo il concetto di libertà e dell’individuo che è libero e si riconosce tale rispetto all’altro, occorre constatare l’analogia del concetto di limite tra Sartre e Camus che è ribadita proprio nell’agire di ogni individuo rispetto all’altro. Occorre una misura morale tutta umana - come si legge ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij - incentrata sulla difesa degli innocenti e sull’incremento della libertà dei singoli. Vero è che Sartre conduce l’individuo ad una situazione di “scacco” proprio perché libero, mentre Camus ne L’uomo in rivolta cerca di risolvere 45 questo assurdo con la solidarietà tra gli uomini . Come l’ultimo Sartre farà con il valore della fraternità. Le cose del mondo sono gratuite e un valore non è superiore ad un altro. Le cose sono prive di senso e fondamento, e le azioni degli uomini sono senza valore. La vita è un’avventura assurda, dove l’uomo si proietta di continuo al di là di se stesso, 46 come per voler diventare Dio . In un certo senso, Sartre sembra accettare l’assurdo e ciò che concerne la vita dell’individuo nell’assurdo, ciò che invece non fa Camus vedendo anche, come detto poc’anzi, in questa condizione una positività necessaria per l’uomo ad affermarsi e vivere. In Le mythe de Sisiphe si chiede il filosofo algerino “se la vita valga o no la pena di essere vissuta” e risponde con un quesito: «assodato che non si può uscire dal male, si tratta di sapere se è possibile o no trovare una soluzione che ci sottragga al nichilismo disperante e alla conseguente scelta del suicidio di 47 fronte all’assurdo della vita» . Camus risolve questo quesito con la “rivolta”. L’uomo in rivolta è l’uomo consapevole di «essere» solo 48 nello sforzo di dare un senso alla propria vita . Una volta scoperto che il mondo non è governato da una razionalità interna, né da una 113 divinità provvidente, l’uomo in rivolta dovrà riconoscere “che il mondo non persegue alcun fine” e che, pertanto, è inutile sia inveire contro di esso sia aspettarsi da esso una risposta al nostro bisogno di felicità. Al rifiuto del mondo o all’insana speranza e fiducia in esso bisogna sostituire “un’adesione intera ed esaltata a 49 questo mondo”, una decisiva volontà di essere ciò che si è . Ebbene l’individuo prende consapevolezza contro l’assurdo sull’uguaglianza dei destini e sviluppa una forte solidarietà. L’uomo in rivolta, animato da uno spirito di solidarietà, supera l’esperienza individuale, condividendone la sofferenza. E se Nietzsche attua la trasmutazione dei valori ritornando all’origine del pensiero occidentale, ai Presocratici, allo stesso modo fa Camus, riferendosi a quello che definisce il pensiero meridiano, acclamando la purezza del Mediterraneo, dei Greci in particolare, e adotta il concetto di misura perchè è soprattutto qui che vede realizzarsi la solidarietà tra gli esseri umani e l’accomunarsi dei destini. La metriotes, l’ideale della misura lo si trova già in Pitagora, e dopo nei versi di Orazio che decanta la medietas, ispirandosi ad Aristotele che propugnava la mesotes. Secondo il filosofo, il giusto mezzo è la via migliore da raggiungere per avere 50 una vita giusta, virtuosa e saggia . Il senso della misura diventa indispensabile anche per Camus. Il “giusto mezzo” permette di realizzare non solo il dominio delle proprie passioni, dei propri desideri, ma di stabilire dei rapporti corretti nella città. È la regola, la stessa che afferma il “buon nichilismo” rappresentato, appunto, nelle opere Le mythe de Sisiphe e L’homme révolté, dal Mediterraneo. Nel Mediterraneo, Camus vede una miniera di saggezza, capace di suggerire i modelli teorici e pratici, utili a far sperare e a fornire la possibilità di salvaguardare l’uomo e la vita come valori e rendere possibile la speranza nella felicità, per quanto Camus sia consapevole che la 51 speranza sia debole ma realizzabile . Nel limite o nel senso della misura è radicato un diritto inalienabile che appartiene ad ogni essere umano e che è la libertà. Quando Camus parla di libertà specifica contro ogni forma di assolutismo, si tratta di una libertà relativa, non assoluta, ossia 114 di una libertà che comporta nel limite dell’altro il diritto a rispettare l’altro e ad essere solidale e caritatevole. Se si ama se stessi, si ama anche l’altro e lo si rispetta comportandosi come faremmo con noi stessi, evitando il male. Questa considerazione sembra analoga ad una forma di imperativo kantiano o, meglio, cristiano, più consona al comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Dove infatti c’è l’affermazione della libertà assoluta c’è la negazione di ogni valore e dove c’è l’affermazione di un valore assoluto c’è la negazione di ogni libertà. Pertanto, Camus ribadisce la necessità della libertà e dell’onore senza i quali non si potrebbe vivere. La libertà è necessaria per lottare, per la rivolta, per affrontare la peste: in ogni condizione l’uomo deve essere libero e sarà felice di immergersi 52 nel cinico mare del vivere, nell’ondosa indifferenza del reale . Gilles Deleuze, nell’Épuisé, distingue due categorie che calzano alla perfezione parlando di Camus e di Sartre: lo stanco (potrebbe essere l’uomo dipinto da Camus) e l’esausto (potrebbe essere l’uomo dipinto da Sartre). Lo stanco, pur essendo stanco, ha delle possibilità che sono esigue, ma ci sono. L’esausto, invece, ha esaurito il possibile o, meglio, il possibile non è neppure più una categoria. Lo stanco fa fatica a realizzare, l’esausto non può 53 neppure più possibilizzare . Mentre, lo scrittore e filosofo francese, Michel Onfray scrive a proposito della personalità di Camus: «Camus è il libertario per eccellenza, un grande filosofo perchè non fu un prodotto dell’Università, ma un autodidatta. Camus incarna la tradizione del pensiero libero, indipendente, autonomo, padrone di sé, un uomo che non dipende dalla tribù, che non si costruisce guardandosi nello specchio della storia, che non deve niente a nessuno, che si è costruito da solo, senza i vantaggi degli ascensori tribali parigini, ma vivendo sotto l’occhio di un padre assente depositario dei valori della gente semplice e modesta: la 54 verità e l’equità che è giustizia» . In conclusione, si potrebbe in sostanza dire che il Mediterraneo ripensato da Camus è un’offerta, un opportunità per un’umanità in pieno naufragio in un oceano senza punti di 115 riferimento. Sono i valori del limite, della misura e della libertà incarnati nel suo pensiero meridiano che Camus vorrebbe vedere trionfare ed estendere a tutti e a tutto, per “procedere verso l’unità senza rinnegare le origini”. 1 A. MONTANO, Camus e il pensiero meridiano, in Sermo civilis. Note di etica pubblica tra storia e vita, Delta 3, Grottaminarda 2012, p. 269. 2 A. CAMUS, L’Envers et l’endroit. Noces. L’Été (1939-1953), Gallimard, Paris 1958, p. 6; A. Camus, Il rovescio e il diritto, in Saggi letterari (1939-1953) , tr. it. di S. Morando, Bompiani, Milano 1960, ed. aggiornata 2000, p. 9. 3 Ivi, p. 14. 4 Cfr. S. DE BEAUVOIR, La force de l’âge (1929), Gallimard, Paris 1960, p. 26 e s., ed. aggiornata 2002; S. De Beauvoir, L’età forte, tr. it. a cura di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1979, p. 10 e ss. 5 Cfr. A. CASTRONUOVO, Albert Camus. Il lessico della rivolta, Stampa Alternativa, Roma 2011. 6 ID., Un’episodio emblematico d’intolleranza intellettuale: Jean-Paul Sartre e il processo ad Albert Camus, «Bibliomanie, Ricerca umanistica e orientamento bibliografico», 29, aprile/giugno, 2012. 7 Ibidem.. 8 A. CAMUS, L’homme révolté (1951), Gallimard, Paris 1951, p. 32, ed aggiornata 2011; ID., L’uomo in rivolta, tr. it. L. Magrini, Bompiani, Milano 1960, p. 34. 9 Cfr. A. CORBIC, Albert Camus e Dietrich Bonhoeffer. Due visioni dell’uomo «senza Dio» a confronto, tr. it. a cura di U. Sartorio, Edizioni Messaggero, Padova 2011, p. 74. 10 Cfr. G.-W.-F. HEGEL, Wissenschaft der phänomenologie des geistes (1807), Gebhardt, München 1969; G.-W.-F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, tr. it. a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1995. 11 A. MONTANO, Camus e il pensiero meridiano, cit., p. 271. 12 A. CAMUS, L’homme révolté, cit., p. 359; A. Camus, L’uomo in rivolta, cit., p. 329. 13 Cfr. F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft (1882), Werke in dreï Bänden, München 1954; F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. a cura di G. Colli, F. Masini, Adelphi, Milano 1991, p. 170 e ss. 14 Cfr. F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1999. 15 Ivi, p. 94 e ss. 16 Cfr. J.-P. SARTRE, Critica della ragion dialettica (1960), tr. it. a cura di P. Caruso, I, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 206 e ss. 17 S. DE BEAUVOIR, La force de l'âge, cit., p. 17; S. De Beauvoir, L’età forte, cit., p. 20. 18 J.-P. SARTRE, La nausée (1932), Gallimard, Paris 1938, ed. aggiornata 2005, p. 246 e s; ID., La nausea, tr. it. a cura di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1965, ed aggiornata 2005, p. 140 e s. 116 19 Cfr. A. CAMUS, Le mythe de Sisiphe. Essai sur l’absurde (1942), Gallimard, Paris 1942, p. 73 e ss.; A. Camus, Il mito di Sisifo, tr. it. a cura di C. Rosso, A. Borelli, Bompiani, Milano 2011, p. XIV. 20 Cfr. N. BOBBIO, La filosofia del decadentismo, Chiantore, Torino 1944. 21 Cfr. A. MONTANO, Solitudine e solidarietà. Saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus, Bibliopolis, Napoli 2006, p. 15. 22 Cfr. G. INVITTO, Sartre. Dal “Gioco dell’essere” al lavoro ermeneutico, II ed., FrancoAngeli, Roma 2005, p. 63. 23 Ibidem. 24 J.-P. SARTRE, Cahiers pour une morale (1947-1948), a cura di A. Elkaïm-Sartre, Gallimard, Paris 1983, p. 226; ID, Quaderni per una morale, tr. it. a cura di F. Scanzio, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 401. 25 ID., L’Existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1960, p. 21; J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo (1946), tr. it. a cura di G. M. Re, Mursia, Milano 1971, ed. aggiornata 2010, p. 34. 26 Cfr. A. CAMUS, Taccuini: maggio 1935 -febbraio 1942, II, tr. it. E. Capriolo, Bompiani, Milano 1963, p. 65. 27 Cfr. G. GAETANI, Oltre il nichilismo: il «sole invincibile» di Albert Camus, «Rivista telematica di filosofia», in http://mondodomani.org/dialegesthai/, 12 agosto 2010. 28 Cfr. A. MONTANO, Solitudine e solidarietà. Saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus, cit., p. 15. 29 Cfr. A. STANCA, Camus: “l’uomo mediterraneo”, in Filosofare dialogando. Studi e testimonianze per Angelo Prontera, a cura di A. Calì, J. F. Durand, M. Forcina, P. I. Vergine, Milella, Lecce 2002, p. 617 e ss. 30 Cfr. Ibidem. 31 A. MONTANO, Camus e il pensiero meridiano, cit., p. 267. 32 A. CAMUS, L’Envers et l’endroit, cit., p. 70; A. Camus, Il rovescio e il diritto, cit., p. 77. 33 Cfr. F. CASSANO, Il pensiero meridiano, cit., p. 99. 34 A. CAMUS, L’avenir de la civilisation européenne (1955), Gallimard, Paris 2008; A. Camus, Il futuro della civiltà europea, tr. it. A. Bresolin, Castelvecchi, Roma 2012, p. 39. 35 N. ABBAGNANO, Esistenzialismo positivo, due saggi, Einaudi, Torino 1948, p. 33. 36 Cfr. A. MONTANO, Solitudine e solidarietà, cit., p. 87. 37 Cfr. W. L. MCBRIDE, Sartre e il postmodernismo, «Segni e comprensione», 16, 1992, p. 21 e ss. 38 Cfr. A. MONTANO, Il disincanto della modernità. Saggi su Sartre, La Città del Sole, Napoli 1994, p. 18 e ss. 39 J.-P. SARTRE, L'Être et le néant: Essai d'ontologie phénoménologique (1943), Gallimard, Paris 2004, p. 323; J.-P. Sartre, L’Essere e il nulla: saggio di ontologia fenomenologica, tr. it. G. Del Bo, a cura di F. Fergnani, M. Lazzari, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 69 e s. 40 Cfr. F. PAPI, L’ingresso di Sartre in Italia, in G. Invitto, Fenomenologia ed esistenzialismo in Italia, Adriatica Editrice Salentina, Lecce 1981, p. 116 e ss. 41 Cfr. A. MONTANO, Solitudine e solidarietà. Saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus, Bibliopolis, Napoli 2006, p. 22; si confronti in particolare G. Invitto, Sartre. Dal “gioco dell’essere” al lavoro ermeneutico, FrancoAngeli, Milano 2012. 117 42 Cfr. J.-P. SARTRE, Cahiers pour une morale, op. cit. Cfr. Ivi. 44 Cfr. Ivi. 45 Cfr. A. MONTANO, Solitudine e solidarietà, cit., p. 61. 46 J.-P. SARTRE, L'Être et le néant, cit., 323 e ss.; J.-P. Sartre, L’Essere e il nulla, cit., p. 70. 47 A. CAMUS, Il mito di Sisifo, cit., p. 39 e s. 48 Cfr. ID., L’homme révolté, cit., p. 25. 49 Cfr. Ibidem. 50 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I (A), 2-3, 1094 a-b, tr. it. a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, p. 4 e ss. 51 Cfr. A. MONTANO, Solitudine e solidarietà, cit., p. 62. 52 Cfr. A. CAMUS, Le mythe de Sisiphe, p. 65; A. Camus, Il mito di Sisifo, cit., p. XXI. 53 Cfr. G. DELEUZE, L’épuisé (1944), Ed. de Minuit, Paris 1992; G. Deleuze, L’esausto, tr. it. a cura di G. Bompiani, Cronopio, Napoli 2005. 54 M. ONFRAY, Intervista su Camus, Rivista «Magazine Littéraire», n. 520, giugno 2012. Si veda anche M. ONFRAY, L’ordre libertaire. La vie philosophique d’Albert Camus, Flammarion, Paris 2011. 43 118 IL RESPIRO DEL BOSCO È IL RESPIRO DELLA VITA, L’UOMO ALBERO NELLA SOCIETÀ. DA THOREAU A FERRAROTTI di Cristina Manzo Essere filosofi non significa soltanto avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa . […] Andai nei boschi perché volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita […] per non scoprire in punto di morte di non aver mai vissuto. Henry David Thoreau 119 Abstract La dottrina del bosco è antica quanto la storia dell’uomo. Nell'immaginario comune, ai diversi livelli della formazione culturale e della competenza letteraria, attorno all'immagine del bosco si coagula una serie di connotati e suggestioni tutto sommato simili e comuni, che spaziano fra un'idea positiva, quella di contesto ambientale rigoglioso, brulicante di vita e incontaminato, gradevole e riposante, e un'idea negativa, di luogo oscuro e misterioso, di entità impenetrabile, inquietante, ostile. Ma c’è anche chi, come Franco Ferrarotti, decano dei sociologi italiani, nonché professore emerito di sociologia, presso la facoltà La Sapienza di Roma, ha assegnato al bosco e al suo respiro, un posto significativo nell’esistenza umana, riconoscendogli il merito altissimo di alimentare la vita, e di essere vita. Così come Thoreau quando afferma che lo studioso che ha solamente armi letterarie è incompleto, che egli deve infatti “imparare” la lingua della natura, ma bisogna andare oltre la speculazione filosofica e dottrinale, Ferrarotti sostiene che l’uomo deve essere “pratico”, vivere la realtà della natura per comprenderla e comprendere se stesso, fino a desiderare come nel suo caso di poter rinascere albero, e assicurarsi così l’immortalità che è negata agli uomini. La doctrine de la forêt est aussi vieux que l'histoire humaine. Dans l'imaginaire populaire, les différents niveaux de la compétence culturelle et littéraire, autour de l'image de la forêt coagule un certain nombre de connotations et des suggestions tout en tous semblables et communs, se situant entre une idée positive, celle d'un environnement verdoyant, grouillant de vie et immaculée, calme et reposant, et une vue négative des sombres et mystérieuses entités, impénétrables, effrayant, hostiles. Mais il ya ceux qui, comme Franco Ferrarotti émérite, doyen des sociologues italiens, et professeur de sociologie à la faculté de Rome La Sapienza, affecté à la forêt et son souffle, une place centrale dans la vie humaine, tout en reconnaissant le bien-fondé élevée pour maintenir la vie, et la vie d'être. Comme Thoreau quand il dit que le seul universitaire armes littéraire qui est incomplet, en fait, qu'il doit "apprendre" le langage de la nature, mais nous devons aller au-delà de la spéculation philosophique et doctrinal Ferrarotti considère que l'homme doit être «pratique», vivre la réalité de la nature pour comprendre et comprendre luimême, à désirer dans son cas, d'être né arbre, et assurez-vous que l'immortalité qui est refusé à des hommes. The doctrine of the forest is as old as human history. In the popular imagination, the different levels of the cultural and literary competence, around the image of the forest coagulates a number of connotations and suggestions all in all similar and common, ranging between a positive idea, that of lush green environment, teeming with life and pristine, quiet and relaxing, and a negative view of the dark and mysterious, impenetrable entities, scary, hostile. But there are those who, like Franco Ferrarotti, dean of Italian sociologists, and professor emeritus of sociology at the Faculty of Rome La Sapienza, assigned to the forest and its breath, a central place in human life, recognizing the merit high to sustain life, and to be life. As Thoreau when he says that the only weapons literary scholar who is incomplete, in fact, that he must "learn" the language of nature, but we must go beyond philosophical speculation and doctrinal Ferrarotti holds that man must be "practical", live the reality of nature to understand and understand himself, to be desired in his case to be born tree, and make sure that the immortality which is denied to men. Premesse Vi è mai capitato di attardarvi in un bosco fino al crepuscolo? Di distendervi per terra al centro di una fitta radura di 120 alberi e alzare lo sguardo in alto, in cerca di uno spiraglio di luce che riesca ad attraversare il fitto fogliame? Di chiudere gli occhi e riaprirli dopo qualche secondo, senza avere più la netta percezione di dove vi troviate? Inalare il respiro del bosco a pieni polmoni, ascoltare i suoi rumori, osservare le ombre misteriose di tutta la vegetazione attorno a voi, e immedesimarvi così tanto da pensare di farne parte? Scambiare il fruscio del fogliame con un sussurro di parole, come un invito a restare lì mimetizzati nella natura? Fino a desiderare, magari, di rinascere albero…? Comincia così un libro bello e importante: Atman il respiro del bosco di Franco Ferrarotti, decano dei sociologi italiani, e professore emerito di sociologia presso l’università di Roma, la Sapienza, che fa del suo scritto un vero e proprio atto d’amore verso l’essenza del bosco che, nella sua vita, come vedremo, ha avuto un ruolo vitale. Egli scrive: Questo libro è dunque, in essenza, un atto d’amore e di gratitudine al bosco e al suo respiro. Dovessi rinascere, non mi spiacerebbe far parte del regno vegetale. So che fra l’umano e il vegetale-due specie viventi-si danno tuttora grandi, sostanziali differenze. Parenti ed amici mi hanno in proposito pazientemente erudito […] mi hanno a lungo istruito sulle differenze fra la circolazione del sangue nel corpo umano e la circolazione della linfa negli alberi. Non ho capito granché, ma li ringrazio tutti di cuore. […] Quello che credo di aver capito è che tagliare un ramo d’albero è come infliggere una ferita a un essere umano, che gli alberi parlano, chiacchierano fra loro, cantando e stormendo, vivono, nascono e muoiono come noi. Gli alberi sono nostri fratelli, o fratellastri, discreti, forse timidi ma, a modo loro, affettuosi. Vorrei tanto che morendo, la decomposizione del mio corpo facesse almeno a loro da concime1. Alcuni miti raccontano che gli uomini sono nati dagli alberi. Per la tradizione giudaico-cristiana gli alberi sono una rappresentazione dello spirito, nel paradiso terrestre vi era, infatti, l'albero della vita, fonte della conoscenza universale e della vita 2 eterna. Nell'Epopea di Ghilgamesch , il più antico poema di cui si abbia traccia, l'albero della vita dava i frutti per ottenere l'immortalità e quel frutto era chiamato "Il vecchio diventa di nuovo giovane"; ma di quell'albero si sono perdute le sembianze e anche le sementi. Alle foglie, ai rami, alle radici, alle fonti che sono intorno alle acque sotterranee sono legati i miti degli Dei e la vita degli uomini. Ai nomi degli alberi erano collegati i mesi lunari e le 121 stagioni. Plinio scriveva: "Non meno della effigie degli Dei, non meno dei simulacri d'oro e d'argento, si adoravano gli alberi maestosi delle foreste". Attorno agli alberi consacrati veniva eretto un recinto dove non tutti potevano entrare: spazio rinchiuso diventava sacro e il terreno intorno "luogo religioso". A volte il recinto veniva alzato e diventava tempio che al centro aveva l'albero. Inoltre gli alberi sono spesso legati alle vicende di dei e dee ai quali erano consacrati. Il leccio era sacro a Giove, il tasso a Ngetal e ad Ecate, il tiglio alla ninfa Filira, l'alloro a Dafne, senza dimenticare l'ambrosia, il nettare di cui si nutrivano gli dei dell'Olimpo. Platone, era solito dire che l’uomo è una pianta celeste. Non ci sarà vita senza alberi e boschi! Il panismo o sentimento panico della natura è una percezione molto profonda del mondo esterno (soprattutto se riferita a paesaggi naturali) che crea una fusione tra l'elemento naturale e quello più specificamente umano. È noto che il termine deriva dal nome Pan, dio greco dei boschi, ma, dal momento che presuppone una concezione panteista del divino, lo si può far derivare anche 3 dall'etimologia greca πάν (pàn), che significa "tutto" da cui probabilmente scaturisce la stessa terminologia del dio. Nel panismo l'Io si viene a mettere in secondo piano, immergendosi completamente nella natura, ma non nascondendosi del tutto in quanto, si possono esprimere i propri stati d'animo, attraverso oggetti naturali. Nella filosofia jüngeriana il bosco è il luogo metafisico di raccoglimento del ribelle, il quale si dissocia dalla società e le sfugge scegliendo appunto di "passare al bosco," il bosco, per l’appunto, dimora dell’essere nella quale l’io torni a vincere sulla massa, su un noi collettivo sempre più impersonale e spersonalizzante. Per Ernst Jünger è il passaggio fondamentale per la dimensione della lotta come preservazione e realizzazione interiore. E' un atto di libertà nella catastrofe. La grande esperienza 4 del bosco, sostiene Jünger nel suo Trattato del ribelle , è l'incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l'essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Porta verso quello strato sul quale poggia l'intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a 122 ogni comunità. È verso quell'essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui si irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c'è l'identità. Nel bosco è racchiusa la sostanza della storia, nell'incontro dell'uomo con se stesso, o meglio, con la propria divina potenza. Il bosco, dunque, non solo come dimensione metafisica di lotta politica e ma anche come dimensione rigenerante e purificatrice. Il bosco è l'idea-forza, nel senso soreliano del termine, è lo spazio dal quale l'uomo può sperare non solo di condurre la lotta, ma anche di vincere. Il bosco è segreto. Heimlich, segreto, è una di quelle parole della lingua tedesca che racchiudono in sé anche il proprio contrario. Segreto è l’intimo, ben protetto focolare, baluardo di sicurezza. Ma nello stesso tempo è anche ciò che è clandestino, assai prossimo in quest’accezione all’Unheimliche, l’inquietante, il perturbante. Quando ci imbattiamo in radici simili a questa, possiamo essere certi che vi risuona un’eco della grande antitesi e dell’equazione ancora più grande di vita e morte, alla cui soluzione si dedicano i misteri. In questa luce il bosco è la grande casa della morte, la sede del pericolo di annientamento. Il compito della guida spirituale è di condurvi per mano il discepolo per liberarlo dalla paura. Il bosco lo fa morire e risorgere simbolicamente. A un passo dall’annientamento c’è il trionfo. Chi ha inteso questo, sa innalzarsi al di sopra della violenza temporale. L’uomo impara che questa violenza non ha alcun potere su di lui, anzi è destinata unicamente a confermarlo nel suo valore supremo. Siamo nel 1845 quando Thoreau scrive Walden, ovvero 5 la vita nei boschi un’opera nella quale si può capire il tentativo dell’autore di trovare un punto di incontro tra l’uomo e la natura. L’uomo è artefice del proprio destino. Questo è il pensiero di Thoreau, che segue il movimento filosofico del trascendentalismo, ispirato dall’amico Ralph Waldo Emerson. Thoreau scrive questo saggio durante un soggiorno a Concord, nel Massachusetts, sulle sponde del lago Walden, dove per due anni, due mesi e due giorni, vive in prima persona una importante esperienza di vita, in una capanna di tronchi d’albero molto austera che si costruisce da 123 solo. L’esperienza della vita fra i boschi, a pieno contatto con la natura, porta l’autore a vivere una “solitudine gioiosa”, fatta di contemplazione estatica della natura, di lunghi periodi di tempo dedicati alla meditazione distaccata e serena, che gli permettevano di lasciarsi invadere dalla pace interiore. Per Thoreau quello che conta è il “necessario”: una tenda, un sacco a pelo, e la natura che lo circonda. Quello che si realizza attraverso questa interessante esperienza esistenziale è la “vera” realtà umana. Dove a parlare sono le voci della natura, e non il rumore della città; dove l’anima ritrova i suoi spazi, i suoi silenzi benefici, i suoi orizzonti vasti e puri. Tutto ciò si può realizzare solo vivendo lontano dal caos, dalle costrizioni di una vita di routine che si ripete all’infinito. L’anima ha bisogno di spazio. Lo spazio che solo la natura può offrirci. Il filosofo tenta di uscire da un proprio senso di solitudine che gli schemi di pensiero e la società hanno generato, attraverso una ricerca creativa, e lo fa seguendo un processo di estraniamento dal contesto sociale. In questo modo egli tende a valorizzare la dimensione interna, calandosi in una solitudine particolare. L’autore ci spinge a riflettere su come l’uomo riesca a comprendere ciò che aveva e a dargli significato solo quando arriva a perdere tutto. “solo quando abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stessi”. Possiamo pensare a Walden come a un posto magico in cui la nostra anima, o Psiche, viaggia liberamente. Tra le pagine di questo libro, in cui viene rappresentata la semplicità della vita fra i boschi, si scopre anche perché Thoreau è l'autore cui si ispireranno Gandhi e le controculture contemporanee, che lo rileggeranno e lo rielaboreranno, criticandolo sì, ma assumendolo come punto di partenza. L'uomo, secondo Thoreau, che non è in grado con i propri mezzi di conciliare spirito e materia, solo nel contatto con la natura può sperimentare una parvenza di unità ed imparare così a riprodurla e ciò perché nella natura c'è un elemento che coinvolge spirito e materia allo stesso modo, una sorta di sintesi tra i due opposti. Questa sintesi è rappresentata dal “selvatico”, dal contatto puro con la natura, che serve, secondo Thoreau per essere testimoni della trasgressione dei nostri stessi limiti. Una massiccia esposizione al “selvatico” riesce a rieducare l’individuo e a 124 riportarlo in grado di sentire la vita, che è un continuo fermento e brulichio di cuore e stomaco: se il cuore batte in ciascuno di noi ad un ritmo diverso, lo stomaco è più o meno lo stesso per tutti e rappresenta l’elemento in grado di annullare i rischi dell’individualismo. Atman, il respiro del bosco C'è un vecchio proverbio che dice: "Non si può guardare l'albero e vedere il bosco". Possiamo applicare quest'idea alla prospettiva sociologica. Il proverbio implica che un bosco è grande, troppo grande per essere visto tutto in una volta e, da vicino, possiamo solo vedere degli alberi. Possiamo vedere parte del bosco, ma questo non ci fa comprendere bene il bosco nella sua interezza Nella vita di tutti i giorni, entriamo in contatto con altre persone. Le possiamo vedere; possiamo solitamente parlare con loro. A volte possiamo toccarle, ma dobbiamo stare attenti al dove. Non possiamo vedere, né toccare una società, una comunità o una famiglia. Anche se prendessimo un aereo non potremmo vedere un bosco dall'alto, perché è un ecosistema e comprende tutti i rapporti tra il suolo, le piante, gli animali e l'aria in quel sistema. È molto più di un insieme di alberi. E così è anche una società. Non consiste di persone che possiamo vedere, ma di convinzioni e azioni, ed è un sistema; non c'è alcuna posizione fisica da cui poter guardare una società. Le famiglie e le comunità sono organizzazioni sociali e, perciò, un qualcosa di diverso dagli 6 individui al loro interno . L’uomo moderno è spesso infelice. Siamo spesso chiusi all’interno di schemi sociali che la società moderna ci impone. La parola Atman (in sanscrito si pronuncia come Atma) Ātman (devanāgarī ) è un termine di genere maschile, che indica l'"essenza" o il "soffio vitale". Viene tradotto anche col pronome personale riflessivo di terza persona Sé. Esso trae il 7 significato da varie radici an (respirare), at (andare) va (soffiare) , questa descrizione come "essenza" e "soffio che dà la vita" propria 125 del Ṛgveda viene interpretata come una unità, trascendente ed immanente al tempo stesso, di tutta la realtà cosmica, e in questo senso, un analogo del Brahman, la formula sacrificale che genera . e mantiene il Cosmo, ma significa anche l’Essenza Principale dell’uomo, il suo “Io” Superiore. In sostanza, l’Atman è la parte migliore, divina dell’organismo pluridimensionale di ognuno di noi. L’Atman è il Fuoco Brahmanico, col quale diventiamo tutt’uno, è l’energia Atmica della kundalini, il prezioso contenuto del “salvadanaio”, nel quale sono depositati gli accumuli di tutto ciò che di meglio siamo riusciti a mettere da parte durante tutte le incarnazioni precedenti. Risulta che in ogni nuova incarnazione non tutta l’anima si reincarna nel corpo, ma, prima di tutto, quella parte che deve essere corretta. La parte migliore, cioè, quello che ognuno di noi ha coltivato in sé sullo sfondo dell’emozione del vero amore finissimo, è messo da parte da Dio per conservarlo in questo “salvadanaio”. Eppure, la kundalini fa parte dell’organismo pluridimensionale dell’uomo e partecipa alla sua attività vitale. Quando giunge “la fine del mondo”, tutte le kundalini affluiscono nella coscienza del Creatore. Ma le anime che non hanno fatto in tempo ad unirsi con l’Atman, vengono distrutte fino allo stato di protopurusha. Ritorniamo al tema della trasformazione delle energie. I nostri corpi, essenzialmente, sono delle specie di fabbriche che trasformano le energie “materiali” nell’energia della coscienza. La qualità della coscienza che cresce dipende, prima di tutto, dalle emozioni in cui viviamo: fini o finissime oppure “grigie” o “nere”, grossolane. Quando, dopo un susseguirsi di incarnazioni l’uomo matura fino al grado, nel quale la sua attuale incarnazione potrebbe risultare finale, e quando sono eliminate tutte le imperfezioni nella parte incarnata della coscienza, arriva il momento di portare la kundalini al corpo, farla passare attraverso il corpo ed unire con esso la parte restante della coscienza individuale. Poi è necessario confluire, insieme ad essa, nel Paramatman (cioè, il Supremo Atman, l’oceano della consapevolezza primordiale universale del Creatore nella sua dimora). Così Atman, il respiro del bosco, altro non è che l’anima, l’essenza del bosco stesso, il suo alito vitale, che può essere paragonato esattamente al respiro di un uomo-albero, in cui scorre 126 la linfa vitale al posto del sangue, ma vive e respira esattamente, come noi, tanto che potremmo definirci come fratelli. In Atman Franco Ferrarotti si chiede se l’uomo della società industriale saprà mettersi in dialogo con la natura, con il paesaggio, riadattando per la scena contemporanea abitudini e sensibilità di un passato contadino, come antidoto alla tentazione di credersi un infallibile padrone. Ma la sua non è una domanda casuale, bensì, scaturita da tutta una storia, legata in un certo senso ad un bosco, la storia della sua vita. Egli è nato nel 1926. Quello stesso anno, Mussolini, dietro le pressioni della destra nazionalista, e per rassicurare ceti medi risparmiatori e dipendenti pubblici, importante segmento delle basi di massa del regime fascista, rivalutava fortemente la lira, portando il valore della sterlina a non più di novanta lire. Per molti proprietari terrieri e produttori agricoli, tra cui i Ferrarotti di Palazzolo Vercellese, fu la rovina economica, per gli effetti deflattivi e la contrazione delle esportazioni seguiti all’azzardata manovra. Con le Edizioni Empiria di Roma, Ferrarotti ha appena pubblicato due libri che intrecciano autobiografismo letterario e pagine di sociologia vissuta. L’ultimo è intitolato appunto L’anno della quota novanta e racconta la sua infanzia in Piemonte, quando i genitori, per farlo crescere meglio, lo mandarono a respirare aria buona dai bisnonni, in una grande casa circondata da un bosco. Un bambino nato nel 1926, che cresceva malaticcio dietro una zanzariera tra le risaie del Vercellese. Il “bambino” oggi ha 86 anni ed è tornato nel bosco, ci si è smarrito, ha vissuto un’ovidiana metamorfosi in albero e ce l’ha raccontata. In un breve proemio delle Metamorfosi Ovidio formula un suo ambizioso progetto: “narrare le mutatas formas in nuovi corpi” con un “carmen perpetuum” dall’origine del mondo, cioè dal caos primitivo, fino alla contemporaneità. Alla fine del poema il filosofo Pitagora enuncia la teoria della metempsicosi, il principio alla luce del quale leggere le tante metamorfosi: l’universo è altamente instabile, ed è attraversato da un irresistibile dinamismo che coinvolge le cose inanimate e gli esseri viventi. In questa realtà fluida e sfuggente gli uomini vivono un’esistenza incerta in balia del caso o del capriccio divino. 127 La metamorfosi è una morte meno definitiva e dolorosa perché è anche inizio di una nuova esistenza, afferma Pitagora: niente mantiene la forma con cui appare e la natura, eterna innovatrice, crea sempre nuove figure dalle vecchie: nulla va perso nel vasto mondo, ma solo cambia e rinnova il proprio aspetto. “Si chiama nascita il cominciare ad essere qualcosa d’altro rispetto all’essere precedente; si chiama morte il cessare di essere quella cosa”.” Il mio animo mi spinge a narrare il mutare delle forme in nuovi corpi; o dei, ispirate la mia impresa,(ciò che io ho intrapreso) infatti voi avete mutato anche quello (vostre sono queste metamorfosi) e dalla prima origine del mondo conducete questo 8 mio carme ininterrotto fino ai miei giorni” . Il bosco è quel che è rimasto, della Partecipanza di Trino, reliquia di un’antichissima foresta planiziale. La Partecipanza si costituì nel 1275 come amministrazione collettiva della foresta da parte dei cittadini di Trino Vercellese, ma nel 2011, dopo più di sette secoli, la giunta regionale guidata da Roberto Cota, senza consultazioni, l’ha spogliata della sua autonomia. Se guardiamo la vita con lo sguardo del cosmo, non possiamo far altro che vederla come un cerchio perfetto, un ciclo che si compie, si torna esattamente da dove siamo venuti, «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!». Così, recita il versetto 2,19 della Genesi. Nel suo libro, Ferrarotti, parte dalle sue origini, legate proprio alla terra, quando ricorda il padre che come un rabbino in preghiera, con un cappello nero calato sulla fronte, lavorava nei campi. Poi per un problema burocratico, dopo tanti anni, trascorsi da quei ricordi egli viene chiamato a tornare in quei luoghi, proprio a causa del bosco. Quel bosco avuto in eredità dal 9 padre , condiviso con i fratelli, ma la cui spettante quota, reclama la sua attenzione e la sua responsabilità, I Ferrarotti, sono membri della Partecipanza da generazioni. Tutti a turno potano e tagliano regolarmente la legna. Il primo conservatore della partecipanza mi fa sapere che io sono l’unico partecipante che non partecipa, che non si fa vivo, da anni. […] Come posso io, giuridicamente proprietario pro-quota, rifiutare il mio apporto, trincerarmi dietro le trasferte didattiche e di ricerca all’estero? […] Non avevo più scuse. Dovevo tornare. Ma ancor prima di ogni iniziativa politica o 128 amministrativa, dovevo rendermi conto di persona dello stato del mio “quarteruolo.” Dovevo, in altre parole, entrare finalmente nel bosco, nella mia “selva oscura” nella mia selva “selvaggia e aspra e forte.” […] Finalmente dovevo ora affrontare il mio bosco, viverci dentro, decidere il da farsi, per opporsi al cieco arrogante arbitrio di una struttura burocratica, onnipotente e irresponsabile10. Ed è a questo punto, che Ferrarotti avverte il forte desiderio, che, dovendosi concludere il ciclo della vita, quando il momento arriverà, non sarebbe affatto dispiaciuto di diventare un tutt’uno con esso, cioè di ritornare alla terra da cui ha avuto origine, di diventarne concime per il suo bosco, quel bosco il cui respiro servì a rinforzare la sua salute quando era piccolo, gracile e malato, e a cui donando la sua stessa materia organica, gli parrebbe in fondo di ricambiare il favore. Sarebbe contento persino di poter rinascere albero, di essere un elemento di quella meravigliosa natura che lo ha generato, godendo così di un’immortalità che alla specie umana non è concessa. È stato forse un errore entrare nel bosco di buon mattino, un dolce mattino di primo settembre. La rugiada mi bagna le caviglie. Dalle foglie mi cadono sul collo e sulla lucida calvizie stille di pianto e di gioia, come fra parenti che si rivedono dopo una lunga separazione. Tutto sulle prime mi sembra facile e rido fra me e me del ribelle Waldgänger di Ernst Jünger. E mi pare incongrua l’altera solitudine di Henry David Thoreau nella sua baracca di legno sulla riva del laghetto Concord nel freddo bosco del New England. […] sono vittima consenziente di illusioni letterarie, […] è sogno e documento, magia e menzogna. Il bosco mi ha salvato la vita da piccolo con i suoi sbuffi freschi e la musica del vento sulla cima dei pioppi sottili, dei lecci anneriti e contorti, delle querce maestose. Mi aspetto dal bosco silenzio e solitudine11. Nel Festival della filosofia, tenutosi a Modena nel 2012, il tema era la “Natura”. La natura, a lungo trascurata, riguadagnava la ribalta e diventava oggetto di riflessione e d’azione anche per i grandi pensatori. Una natura non più solo oggetto di sfruttamento, ma in grado di soggettivizzarsi nel recupero di un rapporto equilibrato con l’uomo. In quell’occasione sociologi e filosofi hanno evidenziato l’urgenza di una coscienza umana in grado di creare un nuovo rapporto con l’ambiente, non più basato sul puro utilitarismo. 129 Ferrarotti, in Atman identifica la natura come una grande madre, sempre pronta ad accoglierci in una dimensione simbiotica, dove ognuno di noi diventa un figliol prodigo che, dopo il male procurato, ritorna agli affetti primordiali. Lo studioso, in una 12 intervista ha risposto ad alcune domande, sul tema della natura e del suo rapporto conl'uomo. Egli non presenta alternative al capitalismo e alla globalizzazione, ma invoca misure per evitarne la “bulimia”. Ed ecco una prima risposta ma di notevole impatto: il luogo. Luogo inteso come territorio, spazio che appartiene all’uomo e che l’uomo considera proprio fattore costitutivo. Cosa significa? L’identità di una popolazione, di una comunità non è solo cultura, tradizione, costumi: quel locale che si integra nel globale e non si contrappone. Il luogo come sede di valori condivisi e identitari, a cominciare dal paesaggio naturale e di quello che risulta dal lento operare dell’uomo. Il luogo che produce il proprio genius loci, la divinità ctonia che connota il carattere, la sensibilità e l’intelligenza dei suoi ospiti, ne giudica e ne sanziona il comportamento. La storia del Mediterraneo è piena di questi esempi. Si può parlare, anche in questo senso, di un’etica della natura intesa come paesaggio di boschi, giardini, campi, ville, vero e proprio linguaggio della terra. Si tratta di un paesaggio che l’uomo guarda e che a sua volta guarda l’uomo che lo sta guardando, creando una simbiosi che produce emozioni, valori, identità, cultura. Il paesaggio come sede irripetibile del miracolo della natura da una parte, del lavoro e dell’agire dell’uomo dall’altra. Ogni territorio ha la sua storia e ciò lo rende inimitabile, facendolo nel contempo essere parte del tutto, quell’unità del diverso e degli opposti che rimanda al pensiero greco. Franco Ferrarotti svolge questa nobile lezione come docente di indiscusso valore ma soprattutto come uomo che vive il proprio tempo e sente 13 il dovere di portare un contributo per un suo futuro migliore. La quercia madre intuisce, dal mio silenzio pensoso, l’angoscia dei ricordi. Sa che si tratta di ferite destinate a buttare sangue tutta la vita. Mi consola. Sussurra: «È stato detto: lascia che i morti seppelliscano i loro morti». Non so bene dove voglia andare a parare. Non avrei mai immaginato che una quercia potesse citare il Vangelo a proposito. Mi costringo a starmene zitto. Impresa tutt’altro che facile. In una vita 130 mediamente longeva ci sono riuscito solo un paio di volte. Credo di capire che la quercia-madre mi vedrebbe volentieri morire come uomo per rinascere come albero. Riprende infatti, con un tremito : «Ma che ci stai a fare nell’orda umana, proprio tu che ti sei sempre schierato, e con decisione, contro la logica dell’armento?... » La quercia-madre continua impietosa: «Guardati bene dentro, professore. Non hai vie d’uscita. Guarda con attenzione, professore emerito di poco merito, la tua vita passata. Guardala bene. Non siamo al giudizio finale, non siamo nella biblica valle di Giosafat. Non ancora. Ma guardala bene, la tua lunga vita. Sei al termine, ormai. Sei al capolinea. Guardala bene dunque e che ci trovi? Non fermarti ai riconoscimenti ufficiali, ai corsi universitari che hai tenuto in tutto il mondo. Sciocchezze. Non fermarti ai “premi della cultura, alle medaglie, ai riconoscimenti ufficiali, alle pergamene delle onoranze, così vicine alle onoranze funebri, alle altisonanti nomine ai vari livelli di cavalierato… Tu sei sempre rimasto, nonostante tutto un outsider. Per questo ti vogliamo bene ». All’improvviso tutto il bosco ha un fremito. «Vieni,[...]tu hai capito che la vera saggezza sta nel riconoscere che animali non umani, esseri umani, e tutto il vario e vivo mondo vegetale sono una grande fratellanza. Finalmente l’hai capito. Vieni. Sei uno di noi ». Così è cominciata, dopo quella umana, la mia storia di albero: tranquilla, silenziosa, autosufficiente e autoposseduta, contemplante. Respiro. Il silenzio s’allarga nella notte. Tutto tace. Il mondo non c’è più. Essere. Esserci nell’essere. Accettarsi pulviscolo nel cosmo14. Qui il sociologo e il filosofo coincidono. 1 F. FERRAROTTI, Atman. Il respiro del bosco, Empiria, Roma 2012, pp. 7-8. L'Epopea di Gilgamesh è un ciclo epico di ambientazione sumerica, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla, che risale a circa 4.500 anni fa, tra il 2600 a.C. e il 2500 a. C. 3 Si tratta in questo caso del genere neutro del vocabolo greco «πάς πάσα πάν». 4 E. JÜNGER, Il trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1990. 5 H. D. THOREAU, Walden ovvero vita nei boschi, Rizzoli, Milano 1988. 6 PH. BARTLE, La prospettiva sociologica, www.cec.vcn.bc.ca 7 Cfr. M. MONIER-W ILLIAMS,. Sanskrit-English Dictionary. Ma anche M. Stutley e J. Stutley. Dizionario dell'Induismo, Ubaldini, Roma 1980, p. 46. 8 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, contributi di I. CALVINO, a c. di P. Bernardini Marzolla Mondadori, Milano 2005, p.309. 2 131 9 Bosco delle Sorti della Partecipanza di Trino, sopravvissuto fino nostri giorni grazie ad un sistema di amministrazione collettiva e di utilizzo che risale ai secoli medioevali, il Bosco delle Sorti della Partecipanza (570 ha), è immagine del nostro territorio nei secoli passati: bosco di pianura, sorgenti naturali, dossi da superare, vie di attraversamento in terra battuta. "Zattera" verde nel cuore della risaia, è ciò che rimane di quella grande foresta estesa da Crescentino a Costanzana. Dal 1991 è Parco Naturale Regionale. La valenza storica dell'Area Protetta è valorizzata dall'ampia documentazione conservata presso la Partecipanza dei Boschi, che dal 1275, per donazione del marchese del Monferrato Guglielmo il Grande, è proprietaria pro indiviso della Selva. La Partecipanza è ora composta (agosto 2007) da 1272 soci. Fonti Bibliografiche: Archivio di Stato di Vercelli, Archivio Storico Partecipanza dei Boschi. 10 F. FERRAROTTI, op. cit., pp. 63, 70, 74. 11 Ivi, p. 177. 12 L’ intervista è Natura e sociologia: incontro con Franco Ferrarotti, a cura di Mariano Colla, Italy@Magazine, consultato il 27/12/2012 13 Cfr. A. BAGNATO, Il senso del luogo secondo Franco Ferrarotti, “L’albatros trimestrale culturale”, online, consultato il 27/12/2012. 13 F. FERRAROTTI, op. cit., pp.99-100,108. 13 La valle di Giosafat o valle di Giosafatte, di cui si parla nel testo, è una valle identificata oggi con una parte del Cedron che si trova esattamente tra il Monte del Tempio e il Monte degli Ulivi vicino a Gerusalemme, in Israele. Essa viene menzionata in Gioele 3,2. Nel passo si parla di un'adunata di tutte le nazioni e questo ha fatto pensare che si tratti in effetti del Giudizio universale. 132 Nuova e originale è la trama riflessiva che anima le ricerche contenute nel recentissimo volume Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, a cura del compianto Mario Alcaro. Obiettivo principale dei saggi ivi raccolti è quello di investigare e approfondire una tradizione filosofica che, ben lontana da ogni enfatizzazione regionalistica, viene valorizzata invece per essersi sempre mossa in sintonia con il grande sviluppo speculativo dell'Occidente. In effetti, mancava, fino ad oggi, un'opera di tal genere, che ricostruisse in una determinata area geografica, senza cedere a municipalismi e localismi, tanto le voci di grandi pensatori, da Gioacchino da Fiore a Telesio a Campanella a Salfi a Galluppi, quanto le voci di tanti pensatori erroneamente considerati "minori", solo perché non sufficientemente studiati o conosciuti. Del resto, lo stesso Alcaro osserva, nell'Introduzione, che «esiste una sorta di geografia mentale fatta di stili di pensiero, culture, modi di dire, tecniche e saperi che s'inscrivono nella carne del paesaggio e in cui il tempo e lo spazio, la storia e la geografia si modellano reciprocamente. Il recupero della componente geofilosofica limita, per di più, la pretesa di mitizzare il tempo storico, di rappresentare cioè una sorta di "philosophia perennis" che segue il suo corso nel tempo, senza alcun riferimento allo spazio». La prima sezione del volume - articolato in quattro parti intitolata Da Pitagora al Rinascimento, è aperta da uno scritto di Aniello Montano che, nel trattare La filosofia nella Calabria della Magna Grecia e dell’intenso fervore di Crotone con Pitagora e della Scuola italica con Alcmeone, Democede e Filolao, dà testimonianza della parte attiva svolta dalla Calabria nell’elaborazione della civiltà e cultura classica, ovvero dell’identità culturale italiana, europea e occidentale, caratterizzata RESOCONTI STORIA E "STORIE" DELLA FILOSOFIA A PROPOSITO DI UN RECENTE VOLUME di Ilaria Malagrinò 133 dall’apertura a tutte le problematiche relative all’uomo e alla vita associata, dall’esaltazione dell’iniziativa umana e dall’adozione di una procedura metodologica di tipo razionale. Segue un testo di Raffaele Perrelli dedicato alla figura di Cassiodoro, nella cui attività è possibile ravvisare due periodi: il primo si staglia sullo sfondo storico dell’affermazione della potenza bizantina ed è caratterizzato dall’intreccio ciceroniano tra vita activa e contemplazione e dal desiderio inappagato di creare un’unità gotico-romana, ricongiungendo la frattura tra mondo classico e mondo germanico; il secondo, invece, come testimonia puntualmente il Vivarium, è mosso dall’intento di salvare il patrimonio culturale dell’antichità attraverso la trasmissione dei testi classici e cristiani alle generazioni future. Filippo Burgarella, da parte sua, analizza La cultura bizantina in Calabria, provincia fra il VI e l’XI secolo dell’Impero Romano d’Oriente: essa, da una parte testimonia un vero e proprio processo di "bizantizzazione", confermato dalla diffusione sul territorio delle opere di San Gregorio di Nazianzo, di Basilio il Grande e Gregorio di Nissa, nonché di altre opere della tradizione ascetica e spirituale dell’Oriente mediterraneo; dall’altra, è caratterizzata dall'essere espressione della cosiddetta “civiltà del libro”. Il libro, infatti, alimento per la vita interiore del fedele ortodosso, è il principale veicolo di trasmissione culturale in un contesto religioso-intellettuale-educativo in cui al monaco amanuense spetta un ruolo fondamentale di conservazione, edizione e diffusione delle opere. Chiudono la prima sezione due saggi di Luca Parisoli, il primo dei quali è dedicato alla figura e al pensiero di Gioacchino da Fiore: si tratta di un’interpretazione che tende ad esaltare la “diversità” e la “novità” della riflessione del monaco calabrese rispetto agli altri pensatori cristiani dell’epoca. Gioacchino, infatti, non potendosi considerare per questo eterodosso, si discosta dall’approccio di Pietro Lombardo e dalla metodologia scolastica, offrendo un’interpretazione del testo sacro che si dispiega nella sfera politica. Nel secondo saggio del Parisoli, dedicato alla figura di Angelo Clareno, intento precipuo dell’Autore è palesare l’influenza geo-culturale mediterranea, greco-cristiana, 134 nell’interpretazione della spiritualità francescana, come testimoniato appunto dall’opera di Angelo Clareno: questi, nella sua Expositio Regulae, cita infatti autorità dedotte dalla patristica greca. Da questo punto di vista, pertanto, lecito sarebbe postulare l’esistenza di due anime del francescanesimo: una settentrionale e una meridionale, quest’ultima avrebbe trovato patria e terreno di diffusione propriamente sul suolo siciliano e calabrese. La seconda parte del volume, dedicata a Scienza e filosofia tra Cinquecento e Seicento, è introdotta da un saggio di Raffaele Cirino, il quale sapientemente mostra come l’impegno speculativo calabrese nei secoli XVI e XVII, sebbene nato dal dialogo e dal contatto con i canoni della coeva riflessione europea, sia nondimeno contraddistinto da una peculiarità di “matrice mediterranea”. Infatti, malgrado la situazione di arretratezza economico-culturale, generata dal persistere delle strutture feudali, dall’assenza di organismi universitari locali, dal ripetersi costante delle epidemie, dai terremoti e dalle incursioni straniere situazione questa che porta le giovani menti calabre a spingersi vero le sedi accademiche siciliane, napoletane ed europee - e sebbene non sia possibile rintracciare le linee di influenza di un pensatore su un altro e, quindi, non si possa propriamente parlare di Scuola, nondimeno è possibile ipotizzare l’esistenza di una “corrente” di pensiero calabrese tipica dell’epoca. Tale corrente troverebbe la sua nota caratteristica nell’elaborazione comune e, pur sempre, differenziata di un naturalismo filosofico-scientifico radicato nel territorio e nella condivisa consapevolezza di essere eredi dei pensatori della Magna Grecia. A riprova dell’esistenza di tale tradizione “comune”, l’Autore del saggio porta le testimonianze di vari intellettuali, ingiustamente relegati in secondo piano dalla storiografia, quali: Luigi Lilio o Giglio, ovvero di colui che ebbe il merito di risolvere il problema del Calendario Giuliano; Giovanni Antonio Pantusa; Tiberio Russiliano Sesto; questi, contrapponendosi agli scolastici a ai tomisti e prendendo le difese degli averroisti, delinea la sua visione filosofico-naturalistica di un mondo retto da norme intimamente e interamente naturali e pienamente conoscibile attraverso le leggi fisiche del movimento; ed ancora, Annibale Rosselli, autore di un commento minuzioso al 135 pensiero e agli scritti attribuiti ad Ermete Trismegisto, nell’intento di utilizzare le stesse dottrine ermetiche rinascimentali per promuovere la fede cattolica; Antonio Oliva, “maestro” nelle discipline di scienza medica; Elia Astorini, figlio fedele della modernità nella sua tendenza all’organizzazione unitaria del sapere e nell’interesse per la scienza sperimentale e per le verifiche empiriche condotte osservando scrupolosamente e rigorosamente ogni fenomeno fisico concreto; Gabriele Barrio, autore di un’opera di geografia storica, tendente a rivendicare la fecondità del rapporto Calabria-Magna Grecia, un'opera che cerca, al tempo stesso, di lumeggiare la stretta relazione intercorrente tra uomo e natura nell’interscambio armonico tra ambiente biologico e geologico; Paolo Antonio Foscarini, da parte sua, interessandosi di meteorologia e di astronomia, si mostra sostenitore di una vera e propria forma di scienza moderna, depurata da ogni credenza metafisica e magica, basata sull’empirica corrispondenza tra causa ed effetto; Tommaso Cornelio, infine, facilita l’ingresso della filosofia di Cartesio in Italiana, dandole, tuttavia, una caratterizzazione squisitamente meridionale, orientata a conciliare e a suggerire una mediazione tra astrazione matematica e concretezza fisica e facendo proprio l’ideale telesiano, secondo cui la natura va studiata e compresa a partire dai suoi stessi principi. La parola passa, quindi, al saggio di Roberto Bondì, rivolto alla chiarificazione dei rapporti tra Telesio e il telesianesimo, che trova in Campanella e Persio i suoi maggiori rappresentanti; nel contraddistinguersi per le forti venature neoplatoniche, la tradizione telesiana si allontana, in qualche modo, dall’originaria ispirazione naturalistica presenti nelle pagine del pensatore cosentino. Ancora alla figura e al pensiero di Campanella è dedicato lo scritto di Mario Alcaro, il quale, dopo aver rimarcato l’ampia produzione filosofica e scientifica calabra tra Cinquecento e Seicento, ne sottolinea l’originalità. Originalità ben esemplificata dal “naturalismo campanelliano”, in cui la natura non rappresenta soltanto la principale fonte di conoscenza, ma costituisce il modello cui improntare la condotta degli uomini e l’organizzazione sociopolitica. Una natura che, considerata alla stregua di un “animale perfetto” e pervasa in ogni sua parte di sensibilità e vita, si 136 allontana decisamente dall’immagine che ne dava in quel tempo la modernità, impegnata nel ridurla e nel piegarla al meccanicismo delle leggi di causa-effetto. Al genio di Gian Battista Amici è dedicato lo scritto di Franco Piperno, il quale sapientemente mette in mostra la grande statura intellettuale di questo “astronomo mancato” che ha avuto il merito di introdurre un’innovazione non soltanto disciplinare, ma addirittura metodologica, anticipando di oltre mezzo secolo l’opera di Galilei. Lo sforzo di G.B. Amici, infatti, si profonde tutto nel tentativo di unificare astrologia matematica e filosofia naturale e nel proporre tale plesso come unico criterio valido di verità, consolidato dalla descrizione fedele della realtà e dalla capacità di formulare previsioni verificabili. Ma, se esatta è l’indicazione metodologica, non altrettanto percorribile si rivela la strada che il pensatore indica, la quale, avendo la sua chiave di volta nell’ormai “superato” sistema aristotelico, finisce per legarlo a vetuste teorie del passato e lo rende miope al “nuovo” che, percorso integralmente, lo avrebbe spinto verso il futuro. Segue, quindi, un saggio di Emilio Sergio che chiude la sezione, informando dell’intensa attività intellettuale dell’Accademia Cosentina e dell’influenza che in essa ebbe il pensiero telesiano, testimoniata dalle opere di Doni, Quattromani e Marco Aurelio Severino. La terza parte, dedicata a La filosofia moderna e contemporanea, è anch’essa fortemente ricca di spunti riguardo alla vivacità del pensiero calabrese. Così, Fabrizio Lomonaco nel suo denso e articolato scritto offre un’immagine di Caloprese come “renatista di Scalea”, che assume certo fino in fondo la lezione cartesiana riguardante la presunta dualità della mente e del corpo, separati nella loro differenza ontologica, ma, nello stesso tempo, ne postula la possibile unione, come è testimoniata dall’attività della fantasia. Nell’alveo della scuola di Scalea si colloca anche l’attività speculativa di Gravina, il cui sforzo di chiarificazione della natura del diritto si appunta nel prius di una natura umana, investigata sulla scorta di un cartesianesimo mediato dalla lezione classico-umanistica e dalla filosofia platonica e neoplatonica. Nell'esprimere l’esigenza di una rielaborazione sistematica e razionale del diritto, il filosofo calabrese si colloca a pieno titolo 137 nella tradizione meridionale a lui contemporanea, vichianamente impegnata a teorizzare il diritto come sistema. La scientia iuris, teorizzata da Gravina, fa perno su un’originale antropologia incentrata sulla recta ratio, che, vincolando la validità del comando divino ai poteri della ragione, postula in tal modo l’esistenza di un principio universale di senso immanente alla realtà umana. La ricerca della “forma” e della materia del diritto avviene sul piano dei fatti storici, secondo una modalità d’indagine che pur, non rinunciando all’idea di una “ratio” superiore, propria dello ius, si distanzia dall’impostazione metafisico-teleologica della filosofia della storia di matrice agostiniana e si riallaccia alla tradizione cartesiana. Di segno diverso, invece, è l’orientamento di Spinelli, definito come “il più metafisico” dei cartesiani meridionali dell’epoca, per l’impegno da lui profuso nel riabilitare l’ontologica separazione tra res cogitans e res extensa. In tal senso, originale risultano la ripresa dell’Aristotele della Metafisica riletto e “riscattato” alla luce dell’idealismo platonico e la lettura di un Platone presentato come precursore della cartesiana separazione tra l’attività e unità della mente dalla passività e divisibilità del corpo. Certamente, non meno originale appare anche l’impegno di Antonio Serra, che le pagine di Fortunato M. Cacciatore presentano come il primo e più antico scrittore di scienza politicoeconomica. Sotto il segno della categoria dell’ineguaglianza compare, invece, il pensiero di Grimaldi; di esso Maurizio Martirano sottolinea, in particolare, il tema del contrasto tra idealità e realtà della storia. L’interesse etico-politico del pensatore calabrese non esita a contrapporsi alle teorie di Rousseau, di Pufendorf, di Wolff e di Hobbes, nell’intento di mostrare l’“artificiosità” dei vari sistemi metafisici e di portare l’attenzione sul “vero” uomo naturale, da lui ritenuto non diverso da quello che abbiamo sotto i nostri occhi. In tale quadro antropologico, dunque, l’ineguaglianza si presenta come un dato di fatto che, nascente dal bisogno, è un tratto tipico e stabile della natura socievole dell’uomo. Seguono due saggi di Romeo Bufalo, il primo dei quali è dedicato a Francesco Salfi, pensatore che, nel porsi nel punto di convergenza del vario e complesso panorama intellettuale del 138 Settecento, fornisce un’ideale sintesi tra i motivi offerti dalla cultura meridionale dell’epoca, variamente rappresentati dalla speculazione di Vico, Genovesi, Filangeri, Cuoco, Pagano, da una parte, con i temi centrali della filosofia illuministica di Locke, Voltaire, Hélvetius, dall'altra. Egli propone, così, un progetto di scienza dell’uomo fondata sulla scienza sperimentale, che, rimodulando la vichiana teoria del verum-factum, classifica i fatti riportandoli accuratamente a determinati aspetti della natura umana ed inquadrandoli nella categoria logica non della necessità, bensì della possibilità e della verosimiglianza. In un secondo contributo, invece, lo sforzo di Romeo Bufalo va in direzione di un’interpretazione che allontana il “coscienzialismo” di Pasquale Galluppi dal cogito cartesiano. e lo avvicina, invece, al “pensiero meridionale” del Settecento, contraddistinto per una tipica “impronta” empiristica e sperimentale. Il pensatore calabrese, infatti, intendendo il fatto primitivo della coscienza nei termini di percezione immediata dell’esistenza di me, soggetto conoscente, percezione considerata come verità indeducibile e sperimentale -, radica il pensiero nella vita sensibile dello spirito. In tal modo, il cogito cartesiano risulta, per così dire, rovesciato; ciò conferisce all’intera speculazione del Galluppi un’impostazione empiricofenomenica, consistente nel sostenere l’intelligibilità delle cose come presente già nella sfera percettivo-sensibile. Un posto di particolare rilievo nell’ambito della tradizione filosofica calabrese, come afferma Pio Colonnello nel suo saggio, spetta senz’altro anche a Francesco Fiorentino. Profondo conoscitore e indagatore del pensiero rinascimentale italiano, Fiorentino si interroga sul principio di legalità che presiederebbe ai fatti storici, distanziandosi, in tal modo, dalla posizione che sull’argomento andava assumendo la storiografia francese di tipo positivistico. Le scienze morali, infatti, per il pensatore calabrese che segue in questo la tradizione vichiana, non sono traducibili nei termini delle discipline naturali. Centrale nell’elaborazione del suo pensiero è anche la dottrina kantiana, di cui dà un’interpretazione particolare, che si differenzia decisamente da quella tedesca, mentre si incrocia con influssi provenienti dalla psicologia sperimentale ottocentesca, dalla fisiologia e dal pensiero di 139 Herbart, di Galluppi, di Helmotz e di Spencer. Altro esponente tipico del neokantismo italiano, nell’interpretazione fornita da Fortunato M. Cacciatore e da Santina Manieri, è Felice Tocco, la cui originalità è chiarita non soltanto dall’allontanamento dalla predominante impostazione neoidealistica, ma anche da una ripresa del criticismo, che converge con le istanze del positivismo critico, umanistico e metodologico del Villari nel proporre l'elaborazione di un metodo storiografico che fa del documento e del fatto umano l’elemento propulsore, limitante le pretese costruttive del soggetto conoscente. Se di originalità si parla, certo, non è possibile dimenticare la figura di Pasquale Rossi, il quale, inserendosi a pieno titolo nel dibattito culturale dell’Ottocento, facendo proprie le istanze del positivismo mediato attraverso la lezione marxiana e labrioliana del materialismo storico e assumendo come oggetto d'indagine privilegiata la folla, acquista un ruolo di rilievo nella comunità scientifica internazionale. Teorizzando l’intersezione di istanze di natura politica con quelle scientifiche, il pensatore calabrese, osserva Stefania Tarim, suggerisce una scienza dell’educazione di quel soggetto politico emerso chiaramente solo con la rivoluzione francese. Come a dire: una vera e propria prospettiva politica deve tendere a riscattare le masse subalterne, specialmente quelle della Calabria, di cui Rossi non esita ad elaborare una sottile critica e analisi storica, politica e sociale. Complessa anche la figura intellettuale di Felice Battaglia, che, formandosi alla duplice sorgente della giurisprudenza e della filosofia e passando dall’iniziale posizione idealistica e dalle simpatie per il gentiliano Stato etico, attraverso la mediazione dell’esistenzialismo, finisce per approdare - come osserva Pamela De Patto - sulle rive di un vero e proprio spiritualismo e col promuovere una rinnovata filosofia dei valori e un liberalismo etico. Non manca, inoltre, il riferimento all’importante figura di Antonio Padula, di cui il saggio di Domenico Scafoglio ha il merito di mettere puntualmente in rilievo l’afflato riformatore. Il filosofo di Acri, infatti, richiamandosi all’insegnamento degli economisti della scuola napoletana e al Genovesi, mobilita tutta la sua ricchezza intellettuale in favore di un rinnovamento della società calabrese, fornendo di quest’ultima 140 un’analisi meticolosa e, inaugurando così un tipo di etnografia, che di quella moderna ha già tutte le caratteristiche. Facendo propria la metodologia di Vico, egli incentra la sua proposta riformatrice sul concetto di persona. La rinascita religiosa, in particolare, dovrà farsi carico di una trasformazione dello Stato basata sui valori patriottici e liberali. Importante appare anche lo scritto di Luigi M. Lombardi Satriani che testimonia dell’alta tradizione di studi demoantropologici diffusasi sul suolo calabrese. Richiamandosi all’opera di Meligrana, Lombardi Satriani sottolinea l’originalità di approccio e di risultati raggiunti nel campo della demologia giuridica calabrese. All’analisi della particolare configurazione che la teorizzazione della morte assume nella tradizione contadina calabrese, è dedicato il saggio di Rocco Brianza, il quale, richiamandosi a Il ponte di San Giacomo di L. M. Lombradi Satriani e di M. Meligrana, sottolinea la presenza nel mondo contadino di una sorta di filosofia del sacro naturale o naturalismo sacro, che se ha la sua origine nei lasciti della filosofia antica, tuttavia si alimenta anche del pensiero di Telesio, Campanella e Bruno. Chiude la terza sezione del volume un saggio di Romeo Bufalo sulla significativa riflessione condotta da Carlo Diano, in pieno clima neoidealista, sul pensiero greco: essa tende a rimarcare come caratteristica della classicità l’unicità di forma ed evento, tipica propria di quel “pensiero mediterraneo” che riesce a collegare, senza confonderli, piano logico e piano estetico, particolare e universale. La quarta parte, riservata alla Cronaca degli orientamenti filosofici attuali, è aperta da un saggio di Giuseppe Cantarano, il quale sostiene la “calabresità” del noto esponente del pensiero debole Gianni Vattimo, coincidente con la riscoperta della speculazione filosofico-teologica di Gioacchino da Fiore. Interessante appare anche il contributo di Francesco Lesce sulla rinascita, a partire dagli anni Novanta, del pensiero "meridiano" nel Meridione d'Italia, contraddistinto come sforzo culturale, politico e civile tendente a liberare il Mezzogiorno dalla cosiddetta “questione” meridionale, col restituirle finalmente autonomia da quei modelli socio-culturali e politico-economici a cui la 141 modernizzazione lo avrebbe costretto, finendo col distruggerne le specificità simboliche. Facendo perno sulla tipicità geoculturale, tale pensiero si salda nel duplice percorso di valorizzazione delle identità locali e di autogoverno delle città, filtrato attraverso lo sguardo di un Sud che guarda il Sud: tale progetto vede nella ripresa dei valori tradizionali non una sorta di autodifesa, ma un modo di confrontarsi con l’altro, offrendo soluzioni identitarie. Il saggio di Luigi Rocca, poi, passando attraverso le figure di Mortati, Rodotà, Ripepe e Corradini, offre in pennellate veloci i principali orientamenti della riflessione filosofica contemporanea sul diritto e sulla politica. La sezione è chiusa dal saggio di Giuseppe Bornino e Santino Cundari, i quali riportando le posizioni di Valentini, Cotroneo, degli studi telesiani di De Franco, di Mastroianni, di Siciliani De Cumis e di altri ancora, informano sugli attuali Percorsi di storiografia filosofica in Calabria. Da quanto illustrato, appare chiaramente l’originalità del volume. Dando voce per lo più a personalità costrette ingiustamente all’oblio da una certa storiografia, perché considerate “minori”, questa Storia del pensiero filosofico in Calabria ha il merito di delineare nei suoi tratti essenziali, ma nondimeno pregnanti, una tradizione di pensiero indubbiamente viva e feconda. 142 LA PERCEZIONE DI SÉ ATTRAVERSO LA STRUTTURA DEL COMPORTAMENTO di Cristina Manzo È una buona cosa vederci come ci vedono gli altri. Potremmo fare tutti i tentativi che vogliamo, ma non riusciremo mai a conoscere appieno noi stessi, specialmente la nostra parte peggiore. Ciò può accadere soltanto se non siamo arrabbiati con i nostri critici, ma accettiamo senza offenderci qualsiasi loro affermazione. Mahatma Gandhi Viktor: Chi conosce chi? Tu conosci te stessa? Lena: Non del tutto, ma a volte mi sembra di conoscermi bene. Poi all'improvviso capita qualcosa, ti guardi da fuori e pensi: «Sei tu o non sei tu?». Ti succede mai? Viktor: Di continuo*. Ognuno di noi, almeno una volta, si sarà trovato a doversi chiedere: «Chi sono io? Sono davvero quello che penso di essere?» E soprattutto, «La visione che ho di me stesso, corrisponde a quella che gli altri hanno di me?» Interrogativi inderogabili che ci accompagnano all’esistenza, quando ci troviamo in situazioni imbarazzanti che sembrano prendere la piega dell’inganno o della malafede, quando siamo convinti che le nostre intenzioni siano state male interpretate, quando non riusciamo a percepire chi abbiamo di fronte. Sorge doveroso il nostro esame di coscienza: ”È colpa mia, è stato il mio atteggiamento a generare l’equivoco? Ho dato di me una falsa impressione? O inconsciamente ho solo lasciato trasparire la mia verità senza schermi? Cioè, io sono veramente così come vengo percepito, quando abbasso il muro delle mie difese, che erigo continuamente, solo in ossequio doveroso, alla società che lo richiede? Esiste un punto in cui è possibile che quello che noi siamo realmente, possa coincidere con la visione che l’altro ha del nostro sé? Quanto conta avere una corretta misura di sé nel nostro 143 relazionarci con il mondo, e nell’autorealizzazione della nostra esistenza?» Si potrebbe dire che sicuramente la misura di sé è fondamentale. Costruire un’esistenza su una falsa idea del nostro sé è in un certo senso come innalzare un grattacielo su delle fragili fondamenta che prima o poi sono destinate a crollare, e le cui conseguenze si allargheranno come onde concentriche, coinvolgendo inesorabilmente altri da noi. Bisogna però considerare, che il nostro vivere è una metamorfosi continua, l’essere che prosegue il suo cammino nel continuo divenire non può in alcun modo essere ancorato a una figura iconografica di sé e, in conseguenza di ciò, la percezione che ne è data non può restare immutata. Siamo sempre noi, anche quando le circostanze della vita e la nostra crescita interiore ci portano a cambiare, e con questi cambiamenti, cambia anche la soglia di percezione del nostro sé e quella dell’essere percepiti dagli altri, anzi cambia persino il nostro modo di percepire gli altri, e le cose che sono all’esterno del nostro sé, in base alla percezione che abbiamo di noi stessi. La misura di sé “L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in 1 quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono” . Con “uomo” (secondo l'interpretazione dell'asserzione fatta da Platone) Protagora intese il singolo individuo e con “cose” gli oggetti percepiti attraverso i sensi. Quindi, molto semplicemente, il sofista voleva dire che la realtà oggettiva appare differente in base agli individui che la interpretano: «quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché 2 uomo sei tu e uomo sono io». Nel libro La misura di sé tra virtù e malafede, Giovanni Invitto scrive: Si tratta di mettere in conto che il sé è in permanente divenire, perché la realtà, il contesto, gli eventi chiedono integrazioni, crescite, tagli. Allora abbiamo la consapevolezza del sé, di essere un sé». Ma cos’è il sé di cui ognuno di noi dovrebbe o vorrebbe avere misura? E con quali categorie 144 misurarlo? Ed è possibile questa misurazione che ci permetterebbe di evitare sopravvalutazioni o sottovalutazioni di quello che “siamo” o potremmo “essere?”3 La genesi del sé, nel processo sociale, è una condizione di controllo, il sé è un emergente che mantiene la coesione del gruppo. La volontà individuale viene armonizzata attraverso i mezzi di una realtà ben definita. Nella teoria sociale di Mead ci sono due dimensioni: l’interiorizzazione degli atteggiamenti degli altri verso se stessi e verso gli altri, e l’interiorizzazione degli atteggiamenti degli altri verso gli aspetti dell’attività sociale comune. Il sé fa riferimento ai progetti sociali e ai traguardi. È con i mezzi del processo di socializzazione che l’individuo è portato ad assumere gli atteggiamenti degli altri nel gruppo: e gli altri sono coinvolti con lui nelle sue attività sociali. Il sé è perciò uno dei più sottili ed efficaci strumenti di controllo sociale. Possiamo provare a immaginare il nostro sé suddiviso in tre parti: un sé che denota il senso che una persona ha di sé ed è unico, tranne che nelle patologie, un sé che è la totalità degli attributi di una persona incluse le credenze su sé stessi ed il sé che simboleggia il tipo di persona che siamo considerati dagli altri. Il secondo e il terzo sé possono essere molteplici, visto che «mentre nello spazio si può avere un unico sé, poiché esiste in un 4 solo corpo, nel tempo la persona può avere e ha molti sé» , considerato nondimeno che esistono vari sé chiamati in causa in occasioni diverse e nei dialoghi con persone diverse. Così pare inevitabile, come scrive nel suo libro Invitto, che dobbiamo necessariamente accettare il nostro sé come provvisorio, sapendo che nell’averne misura possiamo chiedergli 5 oggi, alcune cose, che domani potrebbero diventare altre . Tuttavia, il nostro sé dovrebbe coincidere con la nostra identità, e viviamo in un mondo che è saturo di singolarità tra le pluralità, che si dimenano in un equilibrio barcollante, alla continua ricerca di senso, dove diventa difficoltoso per l’uomo riuscire ad attribuire questa identità prima a se stesso e poi agli altri. In un mondo dove niente è come ci appare dobbiamo possedere una grande abilità per distinguere la nostra vera identità e divenirne padroni consapevoli. 145 La virtù nella misura di sé Forse, un aiuto in questo difficile percorso potrebbe provenire dalla virtù, che è sin dall’antichità considerata simbolo di medietà, come già sosteneva Aristotele. Ma cosa si intende esattamente per virtù? Qualcosa che è insito dentro di noi o che si impara crescendo? Se si impara crescendo, bisogna riconoscere che è insegnabile. La virtù [areté] è insegnabile [didactón]? Si produce con l’esercizio, o si possiede per natura? Per rispondere al problema è necessario scoprire qual è l’essenza della virtù. Nel Menone, dialogo platonico che si svolge tra Menone e Socrate, incentrato sul rapporto tra la virtù, che si giunge ad identificare con la conoscenza, e la teoria delle idee, vengono affrontati proprio questi due problemi: l'essenza della virtù e l'insegnabilità della virtù. Socrate definirà la virtù in modo ipotetico come una qualità posseduta dall’anima, e se essa è insegnabile dovrà essere scienza, perché solo la scienza è insegnabile. Tuttavia mentre appare chiaro che ci sono scolari che desiderano apprendere la virtù, (come lo stesso Menone) secondo Socrate non esistono maestri capaci di insegnarla. Le conclusioni sembrerebbero, che anche la virtù è una dimensione strettamente soggettiva, che dipende dalla dimensione interiore del nostro sé. Dunque: l’idea regolativa della misura di sé, si affida unicamente alla conoscenza che abbiamo di noi stessi. L'anima, che conosce le relazioni logico-matematiche, non è uno 6 strumento privato (òrganon ìdion), ma qualcosa che è, in quanto ente conoscente, intrinsecamente pubblico e interpersonale, perfino quando ha a che fare col pensiero di un pensatore solitario: “come un ignorante io cerco di spiegarti la cosa; ma insomma l'anima, quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la quale conversi (dialégesthai) con se medesima, 7 interrogando e rispondendo, affermando e negando.” Ma la cosiddetta anima ha ancora la capacità di conoscere se stessa e il 8 proprio soggetto? . Il conoscere se stessi può sembrare in opposizione al conoscere il mondo, ma le due conoscenze possono considerarsi due facce di una sola medaglia: la filosofia è slancio dell'uomo verso il conoscere e una conoscenza viva e 146 attuale non può prescindere dalla mente che conosce (e dai suoi condizionamenti). L'esortazione “conosci te stesso” è un motto greco (Γνῶθι σεαυτόν, gnôthi seautón), scritto sul tempio dall'Oracolo di Delfi e può ben riassumere l'insegnamento di Socrate, in quanto esortazione a trovare la verità dentro di sé anziché nel mondo delle apparenze. La locuzione latina corrispondente è Nosce te ipsum. La frase scritta sul tempio, tradotta recita: "Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l'universo e gli Dei". Accanto al “Conosci te stesso” era scritto “Niente di troppo” che, attestazione o invito che fosse, evidentemente era comunque collegato al se stesso. La seconda formula voleva dire il rifiuto di ogni eccesso, di ogni presunzione infondata, della 9 tracotanza. Il significato originario è incerto, deducendo da alcune formule a noi pervenute (nulla di troppo, ottima è la misura, non desiderare l'impossibile), sarebbe quello di voler ammonire a conoscere i propri limiti, «conosci chi sei e non presumere di essere di più»; sarebbe stata dunque una esortazione a non cadere negli eccessi a non offendere la divinità pretendendo di essere come un dio. Del resto tutta la tradizione antica mostra come l'ideale del saggio, colui che possiede la sophrosyne (la saggezza), sia quello della moderazione, cioè della misura. Un concetto simile si trova anche nel monito di Sant'Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi, 10 in interiore homine habitat veritas”. Il processo conoscitivo, sostiene infatti Agostino, non può che nascere all'inizio dalla sensazione, nella quale il corpo è passivo, ma poi interviene l'anima che giudica le cose sulla base di criteri che vanno oltre gli oggetti corporei. Si può notare come Agostino assimili quei concetti perfettissimi alle idee di Platone, ma, diversamente da quest'ultimo, egli le concepisce come i pensieri di Dio che noi intuiamo non in virtù della platonica reminiscenza, ma per illuminazione operata direttamente da Dio. L'intelletto umano trova la verità come oggetto ad esso superiore: la verità misura di tutte le cose, e lo stesso intelletto è “misurato” rispetto ad essa, al punto tale che in riferimento alla verità non si potrebbe neppure parlare propriamente di oggetto, bensì di soggetto. Per Platone, inoltre se in generale l’amore rende cieco l’uomo, in particolare l’uomo 147 mediocre è accecato dall’amore di sé, che lo rende incapace di distinguere il vero ed il giusto. L’uomo davvero grande è invece profondamente umile, disposto a riconoscere e ad ammirare la superiorità negli altri. Il sé nella comunicazione con l’altro Quando avremo imparato a conoscerci e a comunicare con intelligenza emotiva, saremo veramente padroni dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, delle nostre scelte, del nostro comportamento e della nostra vita. Saremo in grado di riconoscere e accettare i nostri limiti e i nostri punti di forza. Tutti concordano sull'importanza di un’efficace comunicazione come conditio sine qua non per creare relazioni sane e reciprocamente gratificanti. Nonostante ciò, comunicare bene diventa sempre più difficile. Basta guardare le innumerevoli situazioni di conflitto interpersonale che finiscono inevitabilmente nello sterile gioco a somma zero, che vede tutti perdenti, anche se qualcuno conserva l'illusione di aver vinto a spese dell'altro. La risposta al perché questo accada sembra essere che non siamo emotivamente intelligenti, manchiamo di quella forma sofisticata, ma indispensabile di intelligenza umana di livello superiore, che è appunto l'intelligenza emotiva, e così il nostro modo di comunicare risulta inefficace e inappropriato, qualche volta anche socialmente scorretto, e comunque disfunzionale, rispetto agli obiettivi in gioco. È proprio l'intelligenza emotiva a fare la differenza. Se si avesse maggiore consapevolezza di sé e del proprio stile di comunicazione, si eviterebbero tanti errori nel rapportarsi agli altri. È importante rendersi conto che quando si comunica solo con la testa razionalizzando sempre tutto, si arriva al confronto o alla discussione con un sé fragile, conflittuale, carico di ansia e paure e generalmente questo porta ad uno scontro tra due persone bloccate da emozioni angoscianti, che si sentiranno reciprocamente minacciate e insicure, e quindi più propense a stare sulla difensiva e a vedere l'altro come un nemico da affrontare e battere a tutti i costi, con il risultato di trasformare un costruttivo incontro dialogico, per effetto della dissonanza cognitiva, in una situazione di aspro conflitto che generalmente 148 diventa guerra psicologica ad oltranza. Chi perde l’etica della vita e non vive a livello psicospirituale, entra in un delirio di onnipotenza. Vuole essere potente proprio perché è un im-potente, un incapace. La parola è, per Merleau-Ponty, un corpo attraverso il quale appare un’intenzione. La parola non è un semplice automatismo al servizio del pensiero, ma ne è lo strumento di attualizzazione. Il pensiero si realizza veramente solo quando ha 11 trovato la propria espressione verbale. Con il dialogo non solo conosco l’altro, mi apro e mi dono verso di lui con una forte e generosa disponibilità d’animo, ma posso anche ritrovarmi in lui, avvicinato dalle stesse paure, dalle medesime riserve, in una iniziale forma di chiusura che, a suo modo, nasconde, paradossalmente, un insopprimibile bisogno di apertura. Si tratta di un percorso ermeneutico di vicendevole arricchimento, un’opera di mutuo e reciproco riconoscimento che mette in risalto certezze e presunte verità, in un gioco di personalità che si incontrano per mediare le prospettive e aspettative: “Comunicare con l’Altro vuol dire avviare un’attività di corpi e, in questo, è pure la parola. Anche il timore dell’artista, vedi il caso di Cézanne e quanto ne scrive Merleau-Ponty, è generato dalla risposta che si attende dallo sguardo dell’altro alla propria visione. Perché un quadro non può 12 né deve essere spiegato ma solo percepito.” . Con il dialogo, testimonianza per Socrate di una ricerca interiore e di un cammino verso la verità e la sapienza, si possono superare i limiti tratteggiati dall’Io individuale, il quale si renderà accogliente, disponibile, tollerante, pronto ad uscire da sé perché fiducioso nella reciprocità. In Sartre ed Heidegger la comunicazione, intesa come relazione con l'altro richiede il superamento di sé stessi, la rinuncia alle proprie caratteristiche esistenziali, alla propria individualità al fine di generare il “conflitto” reciproco e l'annullamento delle proprie coscienze individuali. In senso generalissimo parliamo di coscienza per indicare una certa capacità: la capacità ( propria dell’uomo) di cogliere la manifestazione dell’essere (ovvero della realtà) e di esprimerla in 13 giudizi. La coscienza è detta “morale” in quanto è anche capacità di cogliere il bene (l’essere come bene) e di valutarlo: la 149 valutazione del bene ontologico dà luogo a “giudizi di valore” (cioè 14 giudizi di apprezzamento sulla desiderabilità di qualcosa). La valutazione del bene morale dà luogo a “giudizi morali” 15. (cioè giudizi sulla qualità morale di comportamenti e azioni) In tedesco si distingue lessicalmente tra la coscienza nel senso generalissimo di consapevolezza (Bewusstsein) e la coscienza in senso specificamente morale (Gewissen). “Coscienza” è la traduzione del greco synéidesis (da syn+idéin) e del latino conscientia (da cum+scire): entrambe le parole esprimono un “convedere” o un “con-sapere”. Il termine greco compare nei testi pitagorici (Pitagora raccomandava ai suoi seguaci di fare ogni giorno, prima di alzarsi e prima di addormentarsi, l’“esame di 16 17 coscienza”), il termine latino compare in Seneca . Struttura del comportamento e percezione: io nel mondo Sul piano squisitamente filosofico, Merleau-Ponty radicalizza il rapporto tra coscienza e mondo e prende le distanze dalla prospettiva sartriana, ancora fondata sul dualismo cartesiano di res extensa e res cogitans. Infatti, com’è noto, la contrapposizione tra il per sé e l’in sé di cui parla Sartre, che concepisce il per sé quale puro non-essere e l’in sé quale puro essere, è identificabile con la rappresentazione dualistica del mondo fornitaci da Cartesio. Rappresentazione dualistica che di fatto culmina in una filosofia riflessiva del “soggetto puro” (cogito ergo sum) da cui deriverebbe l’intera esistenza. Soggetto e oggetto invece vengono a costituirsi, sin dalla “Struttura del comportamento” come rapporto di implicazione reciproca e non di fronteggiamento o contrapposizione. Qui, le analisi sulle strutture comportamentali condotte da Merleau-Ponty si rivelano essere una vistosa critica dei risultati della psicologia contemporanea, dal comportamentismo all’introspezionismo, alla psicologia della forma. Ma, se nella Struttura del comportamento il problema era quello di delineare, contro le concezioni della psicologia dominante, il rapporto tra l’organismo che percepisce e il suo ambiente, nella Fenomenologia della percezione il compito diventa più radicale. È in quest’opera, infatti, che il filosofo imprime una 150 svolta decisiva al suo itinerario di pensiero: la classica opposizione tra soggetto e oggetto, direttamente derivante dalla contrapposizione tra essenza ed esistenza si colloca dentro una nuova prospettiva, non più logica o psicologica, ma esistenziale. Il nostro essere-al-mondo svela come primaria la nostra esperienza percettiva che co-nasce all’intersezione del soggetto e dell’oggetto, dell’io e del mondo. Vengono così respinti sia il realismo sia il razionalismo. Il primo in quanto priva la percezione della facoltà di “inaugurare la conoscenza”, disgregandola in una miriade di sensazioni; esso risolve infatti l’atto di coscienza in una mera concatenazione di avvenimenti, ribaltandolo drasticamente nell’esteriorità delle cose e nascondendoci così gli orizzonti umani, culturali e naturali entro cui si svolge la nostra vita. In altri termini, riduce il percepito ad una somma di proprietà fisiche, degradando a illusione il mondo culturale - “mentre tale mondo è l’alimento della nostra esperienza” ed è quello in cui siamo immersi da sempre. E, in pari tempo, “sfigura anche il mondo naturale” riducendolo ad un insieme di stimoli e qualità. La percezione è, quindi, comunione, coesistenza, relazione vissuta e ambigua degli elementi soggettivi e oggettivi. Essa non è né uno stato o una qualità, né, tantomeno, la coscienza di uno stato o di una qualità. Bisogna dimostrare che il soggetto della percezione non è né un pensatore che annota una qualità né un ambito inerte che sarebbe colpito o modificato da essa, bensì una potenza che “co-nasce” ad un certo contesto di esistenza. Si capisce, in tal senso, perché il soggetto della percezione è - per Merleau-Ponty - anonimo. Scrive infatti il filosofo: ”se volessi tradurre esattamente l’esperienza percettiva, 18 dovrei dire che si percepisce in me e non che io percepisco” La percezione è dunque “anonima”, “fungente” e si installa “nel mondo del Si”. Questo “Si” percettivo prelude così a quella presenza inalienabile di me nel mondo e del mondo in me che è costitutiva dell’essere-al-mondo. Di qui la valenza ontologica che presto essa acquista nel discorso di Merleau-ponty. “Essere-almondo” significa essere in comunicazione interna con esso prima di qualsiasi atto riflessivo. Il corpo, nodo vivente di interiorità ed esteriorità, sopporta e realizza questa specie di permutazione o 151 scambio delle rispettive situazioni del soggettivo e dell’oggettivo. Esso è, insieme, senziente e sentito; è, dunque, rapporto di sé con sé e vincolo tra me e le cose. La percezione diviene così il filo conduttore che apre il nostro esserci all’alterità, divenendo così, geneticamente al di là di ogni riduzione idealistica o positivistica, il luogo originario entro cui accade il mondo. L’esigenza di mettere a fuoco il primato del momento percettivo, inteso come momento unitario del modo in cui l’uomo sente e vive, permea l’intera riflessione merleau-pontyana, volta ormai a radicalizzare, fuori da ogni pensiero metafisico, l’interrogativo filosofico fino a risalire alla questione originaria dell’Essere. L’opera prima di Merleau-Ponty, La structure du comportement, si chiudeva con questa domanda: “È possibile pensare la coscienza percettiva senza sopprimerla come modo originale, è possibile conservarne la specificità senza renderne impensabile il suo rapporto con la coscienza 19 intellettuale?” ” [...] La nostra esperienza è nostra, il che significa due cose: che non è misura d’ogni essere in sé immaginabile, e che tuttavia è coestensiva ad ogni essere di cui possiamo aver 20 nozione” L’individualità è la cifra della mia universalità: sono, in quanto soggetto, estensibile, se è vero che, in quanto esistente, sono coesistente; «la mia esperienza, appunto in quanto mia, 21 m’apre a ciò che non è me”. Ogni cogito non esprime, come voleva il cartesianesimo, la certezza di uno spirito pensante per se stesso, quanto piuttosto il fatto di esistere a condizione che esista un altro da sé. L’homo mensura non vuole più essere principio, paradigma, legge, ma, proprio sfuggendo a dogmatismi, si propone 22 come eco, come metro dall’andatura titubante. Bisogna rinunciare a cercare l’origine del senso in una coscienza costituente, dal momento che l’ego trascendentale non rinvia ad altro che ad una positività della costituzione e rappresenta una condizione privilegiata, nonché astratta. “Ora io chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò anche dal mio pensiero tutte le immagini delle cose corporee, o almeno, poiché ciò può farsi difficilmente, le reputerò vane e false; e così intratterrò solamente me stesso e considerando il mio interno, cercherò di rendermi a poco a poco 23 più noto e familiare a me stesso”. «l’interiore e l’esteriore sono 152 24 inseparabili. Il mondo è tutto dentro ed io sono tutto fuori di me». La struttura della percezione implica, in forma inderogabile, l’intenzionalità, che è sempre un protendersi oltre, verso il percepito. Non posso, in definitiva, rendermi familiare a me stesso se non attraverso le continue e obbligate pro tensioni, le incursioni verso ciò che erroneamente viene definito oggetto, e che in realtà descrive in maniera profonda la mia stessa soggettività. L’io e il noi sono temporali proprio nella misura in cui sono strutturalmente incompiuti e quindi funzionalizzati, e perciò costituiscono delle storie nel corso delle quali succedono delle cose e sopraggiungono degli eventi. L’io e il noi sono due fasi dello stesso processo, perché innanzitutto, condividono lo stesso fondo pre-individuale in 25 cui si costituisce l’orizzonte transindividuale. Siamo in presenza di un trascendentale totalmente radicato nell’orizzonte tellurico; l’opacità del cogito tacito fa appello ad una coscienza attraversata dalla contingenza, che si riconosce come indissolubilmente e irrevocabilmente relazionata al mondo in un mutuo rapporto. Laddove la totalizzante trasparenza del cogito cartesiano faceva leva solo su se stessa, l’opacità di quest’altro genere di cogito vuole, implica l’altro. Il punto è: com’è possibile pensare questo nuovo cogito al di fuori del linguaggio se è vero che, come lo stesso Merleau-Ponty afferma, non c’è pensiero fuor di parola? Nella traduzione da un cogito tacito ad uno parlante, qualcosa resta invischiato in un’ambiguità, qualcosa resta nell’inarticolato, così come avviene sempre, quando di traduzione si parla. La transizione vive di mancanza, che non va però letta come perdita: è vero che non vedo, ma è vero anche che intravedo. Il pensiero occidentale ha incastrato la meditazione ontologica tra due estremi: l’intuizione dell’essere e la ne intuizione del nulla. Entrambi questi atteggiamenti sono stati solidali: essi hanno trattato l’essere e il nulla come oggetto di pensiero, totalmente pieni, da un lato un essere pieno di essere, dall’altro un nulla vuoto del tutto; il negativismo assoluto non è che l’altra faccia di un positivismo assoluto. Il nulla invece non va pensato come buco, ma come quello spazio cavo costitutivo dell’essere; un nulla inteso come annientamento radicale è solo un nulla di principio, in una 153 pluralità di modi che ci impone di slabbrare costantemente i margini dei saperi. La coscienza e la malafede In che senso aver coscienza è un vedere-con (syn) o un sapere-con (cum)? Nel senso che la coscienza è la capacità, tipica di un soggetto razionale, di vedere qualcosa (qualunque cosa) sullo sfondo di qualcos’altro, cioè di un orizzonte che ha l’ampiezza dell’essere. Vedere qualcosa nell’ambito di tale orizzonte, comporta la possibilità di relativizzare quel qualcosa: problematizzarlo, paragonarlo ad altro. La coscienza, dunque, è un vedere, che è capace di vedere sempre più e sempre meglio; e quindi di ri-vedere (e anche, eventualmente, di ravvedersi sul già visto). Proprio perché è strutturale alla coscienza avere un orizzonte, non esiste una coscienza “chiusa”: la coscienza è, in quanto tale, aperta su un orizzonte senza limiti. Quando essa pretende di chiudersi, cioè di non vedere qualcosa che pure è in vista, allora è in “malafede”, cioè tradisce se stessa. La malafede è l’atteggiamento di chi fa finta di non sapere quello che in realtà sa. La coscienza è appunto in malafede, quando socchiude i propri occhi, ignora l’orizzonte in cui le cose le si offrono, e si lascia vincere dalle cose (in quanto non le relativizza più in riferimento all’orizzonte di cui pure è capace). La malafede è la scelta di non scegliere, ma di farsi scegliere dagli eventi e dalle loro circostanze passionali: essa è, insomma, la scelta occulta di agire in modo non 26 responsabile, bensì reattivo. Si può ben dire, allora, che quella tra responsabilità e reattività sia la scelta cui la coscienza è tenuta 27 in primo luogo. La coscienza in senso generalissimo ha presente l’orizzonte dell’essere come un orizzonte strutturato da alcuni elementari principi: tra tutti ricordiamo il “principio di non contraddizione”, secondo cui ogni realtà è se stessa, e non è l’altro 28 da sé. Analogamente la coscienza morale ha presente un orizzonte, quello del bene, che è a sua volta strutturato da un principio fondamentale: la legge morale. La tradizione filosofica, dall’età patristica in poi, distingue tra due aspetti della coscienza morale: uno intuitivo e uno applicativo. La coscienza morale è una 154 capacità che ha bisogno di condizioni opportune per passare dalla potenza all’atto. Il primo è l’approfondimento della capacità di riconoscere la legge morale; il secondo è la crescita della responsabilità. Il primo catalizzatore è senz’altro l’educazione che si riceve in famiglia: educazione che ci introduce, in prima battuta, 29 ad un ethos, cioè ad un contesto vissuto e condiviso di atteggiamenti e di rapporti morali. La coscienza procede ordinariamente formulando giudizi, e non seguendo impulsi. Ci sono comunque casi nei quali è talmente evidente il bene da fare o il male da evitare, che essa procede quasi intuitivamente. Si parla allora di “voce della coscienza”. Nella sua Apologia, Socrate parlava in proposito di una “voce” divina che, in alcuni casi, gli vietava certi comportamenti incompatibili con la sua dignità. Non sono mancate, nella storia della filosofia, voci che hanno preteso che la coscienza fosse qualcosa di assoluto e indipendente. Si tratta di una concezione che trova la sua espressione massima nell’idealismo romantico di J. A. Fichte, il quale afferma che «la coscienza non erra mai e non può mai errare», e, in quanto è «essa stessa giudice di ogni 30 convinzione, non conosce alcun giudice sopra di sé». A ben vedere, lo stesso Nietzsche è l’erede (tardo-romantico) di una simile posizione, quando descrive l’“oltre-uomo” come colui che riscrive le “tavole della legge” (cioè, come colui che reinventa per 31 sé, di volta in volta, la legge morale). Il maggior teorico della autonomia e della libertà della coscienza è stato Tommaso d’Aquino, che ne parla in riferimento, non solo alla legge positiva, ma anche alla Rivelazione. Da un lato, Tommaso riconosce che «è cattiva la volontà che non concorda con la ragione, anche quando questa è errante». Infatti, la volontà inevitabilmente si rapporta alla qualità morale di un possibile contenuto d’azione, «secondo il 32 modo in cui tale contenuto le è proposto dalla ragione» In altre parole, anche la verità rivelata deve passare attraverso l’inevitabile riconoscimento della coscienza, e non può dunque venire imposta coattivamente (se non in modo violento e velleitario). Riconoscere che la coscienza è un vedere nel quale non possiamo essere sostituiti (in quanto nessuno può vedere al posto di un altro), non vuol dire concepirla come sottratta a qualsiasi rapporto. Infatti, se è 155 vero che si vede da soli, è altrettanto vero che si può guardare e di fatto, sempre si guarda, insieme ad altri; altri che possono farci notare qualcosa che prima non vedevamo: l’educazione consiste appunto in questo processo. La coscienza che non intenda chiudersi nella malafede, deve rimanere aperta a guardare tutto quel che c’è da vedere; e quindi accettare anche di essere educata e istruita da altre voci, purché essa abbia buone ragioni per riconoscerle come autorevoli. Il sé come recita e malafede Come termine filosofico, Sartre ha utilizzato “malafede” (mauvaise foi) per definire i “concetti di malafede”, che sono quelle affermazioni che in una posizione esistenziale devono essere credute, contemporaneamente, sia vere che false. Chi abbraccia uno di questi concetti non sta ingannando altre persone, e nemmeno si può dire che commetta un errore logico; ma sta, in un certo senso, ingannando sé stesso. Il termine “malafede” è dunque utilizzato in un senso lontano dal suo significato comune. Sartre sceglie come oggetto di quest’analisi la malafede perché non è soltanto uno dei comportamenti in cui l’uomo prende atteggiamenti negativi, ma un comportamento, al tempo stesso, essenziale alla realtà umana, e tale che in esso la coscienza invece di dirigere la negazione verso l’esterno la rivolga verso se stessa. Ma cosa intende Sartre per malafede? Non la semplice menzogna. Quest’ultima infatti implica, da un lato la dualità dell’ingannatore e dell’ingannato, e dall’altro la completa coscienza da parte dell’ingannatore della completa verità che egli maschera. Se la malafede è menzogna a sé, colui che si pone in malafede 33 maschera la verità a se stesso. Come dice Invitto nel suo libro, infatti, “La malafede è un mentire a se stessi, la menzogna è mentire agli altri. Ma perché mentiamo a noi stessi? Perché non accettiamo la coscienza come Nulla, cioè soltanto come spazio di 34 attraversamento dei fenomeni. Eccolo che avanza: "Ha il gesto vivace e pronunciato, un po' troppo preciso, un po' troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po' troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi, esprimono un interesse un po' troppo pieno di 156 sollecitudine per il comando del cliente […]. Tutta la sua condotta sembra un gioco. Si sforza di concatenare i movimenti come se fossero degli ingranaggi che si comandano l' un l' altro, la mimica e perfino la voce paiono meccanismi; egli assume la prestezza e la 35 rapidità spietata delle cose. Gioca, si diverte." Sta giocando, naturalmente, ad essere cameriere. Non c'è bluff, il cameriere realizza la sua condizione di cameriere in perfetta sincerità. Una condizione che presuppone, come tutte le altre, una serie di atti, riflessioni e concetti, come, ad esempio, l’obbligo di alzarsi ad una certa ora, provvedere alle pulizie del locale, apparecchiare e sparecchiare i tavoli, i diritti alla retribuzione, alle mance, ecc..., anche se tutto questo, in un certo senso, rinvia al trascendente. Chiunque di noi, per esercitare il proprio particolare lavoro, deve per forza, sempre in quel certo senso recitare la particolare parte che questo richiede. Credo sia assolutamente ovvio. Ma è altrettanto ovvio che il cameriere in sé non è un cameriere (non come, ad esempio, un qualsiasi oggetto è quel dato oggetto: una penna, un bicchiere sono oggettivamente penna e bicchiere): egli sta rappresentando l' essere cameriere, e purtuttavia non sta mentendo quando sente d' esserlo. Ecco che egli si trova nella condizione d' essere ciò che non è. Noi non siamo alcuno dei nostri atti o comportamenti. "Il buon parlatore è colui che recita a parlare, perché non può essere parlante [...] Perpetuamente assente al mio corpo, ai miei atti, sono a dispetto di me stesso la 'divina essenza' di cui parla Valéry. Non posso dire né che sono qui, né che non ci sono, nel senso in cui si dice 'questa scatola di fiammiferi è sulla tavola'; sarebbe confondere il mio "essere-nelmondo” con un “essere-in mezzo-al mondo”[...] Da ogni parte 36 sfuggo all' essere e tuttavia sono." Con quale certezza, quindi, possiamo dirci sinceri? Esiste un' oggettiva possibilità di identificazione con la sincerità? Poniamo il caso che un uomo sia cattivo e se lo confessi. Egli, con l'atto della sincerità, contempla sé stesso nell' esercizio della sua “libertà di scegliere il male” ed in tale contemplazione la disarma, perché essa non è più nulla al di fuori dal piano del determinismo: confessandola egli le contrappone la sua libertà, il suo avvenire è potenzialmente vergine, tutto sarà possibile. Così 157 l’uomo cattivo sincero si costituisce come ciò che è per non esserlo. La sincerità ha dunque la stessa struttura essenziale della malafede. “Se la malafede è possibile, è perché essa è la minaccia immediata e permanente di ogni progetto dell' essere umano, è perché la coscienza nasconde nel suo essere un rischio permanente di malafede. E l' origine del rischio è che la coscienza, nel suo essere e contemporaneamente, è ciò che non è, e non è 37 ciò che è.” In conclusione di questo lavoro, Invitto sembra evidenziare che è una speranza puramente utopica, quella di poter stabilire che esista una corretta valutazione della misura di sé. Infatti, se anche volessimo considerare che lo sguardo degli altri possa anche essere il nostro specchio, esattamente come nella storia di Uno nessuno centomila di Pirandello, dipenderebbe esclusivamente dalla percezione di noi stessi poterci riconoscere nella visione che ci viene rimandata da tutto ciò che è altro da noi, con il rischio di avere anche seri problemi con la nostra stabilità psichica. Quindi ”Il sé è in interiore ma non è veritas: lasciamolo in noi come idea regolativa, come l’orizzonte che è linea illusoria, che non attingeremo mai, ma che comunque, nel momento in cui lo poniamo come linea ipotetica da perseguire, ci fa compiere davvero un “cammino in avanti,” ci fa progredire e accumulare 38 esperienze del nostro essere.” *Lunga felice vita (in russo Долгая счастливая жизнь, Dolgaya šastlivaya žizn) è un film del 1966 diretto da Gennadij Špalikov. 1 PLATONE, Teeteto, 152a (Protagora fr.1) 2 Ivi, 152a 3 G. INVITTO, La misura di sé tra virtù e malafede, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp.10-11. 4 R. HARRE, (1998). The Singular Self. London: SAGE; La singolarità del sé. Introduzione alla psicologia della persona, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 190. 5 G. INVITTO, La misura di sé tra virtù e malafede, cit., p. 14. 6 Platone, Teeteto,. cit., 85d. 7 Ivi, 189e-190d 8 G. INVITTO, La misura di sé tra virtù e malafede, cit., p. 22. 9 Ibidem. 10 AGOSTINO, De vera religione, XXXIX. 11 La conscience et l’acquisition du language in Merleau-Ponty à la Sorbonne. Résumé de cours 1949-1952, Cynara, Grenoble 1988, p. 39. 12 Invitto, op. cit., p. 91. 158 13 All’interno della manifestazione del reale, di cui siamo capaci, si dà anche il nostro io: si parlerà allora di “auto-coscienza” 14 Esempio di un giudizio di valore: “questo tuo scritto è valido, e merita di essere conosciuto”. 15 Esempio di giudizio di coscienza: “è bene che io vada a lavorare, anche se oggi non ne ho voglia” 16 Cfr. PORFIRIO, Vita Pythagorae, 40; Giamblico, De pythagorica vita, 356. 17 Nell’ambito della coscienza bisogna decidere come se si fosse davanti a tutto il popolo (cfr. Seneca, De vita beata, 20, 4), in modo da evitare poi di subire l’interiore flagello del rimorso (cfr. Epistula 97). Seneca raccomanda anche la pratica del quotidiano “esame di coscienza” (cfr. De ira, III, 34), col quale si dà voce in noi a Dio stesso: «Dio è vicino a te, è con te, dentro di te. Dico questo: uno spirito sacro ha sede dentro di noi, scrutatore e custode del nostro bene e del nostro male» (cfr. Ad Lucilium epistulae morales, IV, 12, 41). Analoghi accenti e raccomandazioni troviamo in altri autori stoici, come Marco Aurelio ed Epitteto. 18 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, Il Saggitore, Milano1965, cit. p. 292. 19 ID., La struttura del comportamento, Bompiani, Milano 1963, cit., p. 358. 20 ID., Senso e Non Senso, Garzanti, Milano 1962, cit., p. 116. 21 Ivi, p. 117. 22 Merleau-Ponty parla di andatura titubante a proposito della logica sottesa al linguaggio: «Occorre che la lingua sia, intorno ad ogni soggetto parlante, come uno strumento dotato dell’inerzia sua propria, delle sue esigenze delle sue costruzioni e della sua logica interna, e tuttavia resti sempre aperta alle loro iniziative (come d’altronde agli apporti bruti delle invasioni, delle mode e degli eventi storici), sempre suscettibile di quegli slittamenti di senso, di quegli equivoci e di quelle sostituzioni funzionali che conferiscono a questa logica come un’andatura titubante». Ivi, p. 111 23 R. DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, a cura di E.Garin, vol. II, Laterza, Bari 1997, p. 33. 24 M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, rinviando a detto agostiniano interiore homine habitat veritas, aveva scritto: «La verità non «abita» soltanto l’«uomo interiore» o meglio non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce», Il Saggiatore, Milano 1965, p. 19. 25 B. STIEGLER, Passare all’atto, Fazi, Roma 2005, cit., p. 11. 26 Sul tema della “malafede” ha scritto pagine rilevanti J.-P. SARTRE (cfr. L’essere e il nulla [1943], trad. it., Il Saggiatore, Milano 1997, pp. 84 ss.) 27 La “malafede” sa anche creare quel chiaroscuro che la coscienza consente che si crei intorno al bene da compiere, in modo che si deformi, ad opera delle passioni, l’evidenza di ciò che è da fare, e si dia via libera ad un agire non più giudicato, bensì reattivo. La malafede si ha, in concreto, quando si riconosce il bene da compiere, ma ad esso si oppongono delle obiezioni (dei “ma”, dei “però”) che non hanno fondamento in un diverso, più complesso, vedere, bensì in un non voler vedere quel che c’è da vedere. 28 Nella formula più semplice: A non è non-A 29 Il termine greco ethos corrisponde al latino mos, moris, e indica un modo stabile e articolato di comportamento: un “costume”. Da ethos deriva il termine “etica”; da mos deriva il termine “morale”. 159 30 Cfr. J. G. FICHTE, System der Sittenlehre, III, 15, in Werke, vol. 4, Berlin 1971, p. 174. 31 Cfr. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, (1885), Parte III. 32 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I IIae, q. 19, a. 5. D’altra parte, Tommaso precisa che la volontà che concorda con la ragione erronea, non è cattiva, solo se l’errore è dovuto ad una ignoranza assolutamente involontaria. Mentre, la volontà che concorda con la ragione erronea è cattiva, se l’errore di coscienza è dovuto ad una ignoranza evitabile, cioè «in qualche modo voluta, sia direttamente, sia indirettamente [ovvero per negligenza]». Dunque, nessuno è scusato se la sua coscienza è erronea circa qualcosa che egli è tenuto a sapere (cfr. ivi, I- IIae, q. 19, a. 6) 33 J. P. SARTRE, L’essere e il nulla, cit. p.109. 34 G. INVITTO, La misura di sé tra virtù e malafede, cit., p. 77. 35 J. P. SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p .95. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 109. 38 G. INVITTO, La misura di sé tra virtù e malafede, cit., p. 134. 160 DI UN’UGUAGLIANZA FINITA di Antonio Stanca Il lavoro più recente dello scrittore israeliano Amos Oz s’intitola Tra amici, è una raccolta di racconti che ritraggono la vita 1 che negli anni Cinquanta si svolgeva in un Kibbutz. Oz ha settantatré anni, è nato a Gerusalemme nel 1939. Dopo un’infanzia travagliata a causa del difficile rapporto tra i genitori e dopo il suicidio della madre è andato a vivere, da quando aveva quindici anni, nel Kibbutz di Hulda. Qui è rimasto per oltre trent’anni, si è sposato, ha avuto i suoi figli ed è uscito nel 1986 quando da tempo scriveva. Si stabilirà con la famiglia ad Arad dove ancora risiede mentre insegna Letteratura presso l’Università Ben Gurion del Negev. Durante gli anni Cinquanta Oz, com’era d’obbligo nel suo paese, è stato militare nelle Forze di Difesa Israeliane ed ha preso parte agli scontri armati che si sono verificati tra Israele e Siria, in seguito ha combattuto nella Guerra dei Sei Giorni e in quella del Kippur. Dopo ha ripreso gli studi e si è laureato in Letteratura e Filosofia presso l’Università di Gerusalemme. A ventidue anni ha cominciato a scrivere. La sua produzione diverrà sempre più ricca, scriverà racconti, romanzi, saggi, articoli per giornali e la sua notorietà sarà definitivamente stabilita dal romanzo autobiografico Una storia di amore e di tenebra del 2002. In esso lo scrittore ripercorrendo quanto era avvenuto nella sua famiglia ricostruisce la storia dello Stato d’Israele dalla fine del protettorato inglese ai tempi più recenti. In verità le condizioni del suo popolo, i continui contrasti con gli arabi, gli ambienti e le azioni dell’esercito, la vita nei Kibbutz saranno temi ricorrenti nella narrativa di Oz. Molti riconoscimenti questa gli procurerà dal 2004, quando conseguì i premi Catalunya e Sandro Onofri, ai nostri giorni quando è considerato uno dei probabili candidati al premio Nobel per la Letteratura. Vicino alle sue esperienze di vita e soprattutto alla realtà dei suoi luoghi mostra di voler rimanere l’Oz scrittore che è anche l’intellettuale concretamente impegnato nelle gravi situazioni, nella 161 politica del suo paese, nella ricerca di soluzioni per gli eterni problemi d’Israele. Spesso egli ha personalmente rappresentato le sue convinzioni politiche, si è direttamente confrontato con quanto avveniva al fine di raggiungere una condizione per tutti favorevole. Circa i rapporti con gli Arabi ha sempre perseguito la “soluzione dei due stati”, ha combattuto ogni posizione estremista in nome di una democratica. Ha fatto parte del movimento “Pace ora”, è stato un rappresentante di rilievo nel Partito Laburista, si è opposto alla Destra, ha lasciato i laburisti, è entrato in polemica con loro quando non ha più visto rispettate le regole che li avevano uniti. Ha svolto un’azione concreta, precisa a favore, a difesa dei diritti umani e sociali della sua gente. Di questa gente ha narrato Oz mostrandosi capace, nei romanzi e racconti, di andare oltre l’evidenza, di superare la realtà esterna, d’indagare nell’animo umano alla ricerca delle debolezze, delle inquietudini, delle insoddisfazioni che lo agitano pure a livello di una persona comune, di un semplice operaio, artigiano, di una sconosciuta donna di casa, moglie, madre, figlia. È questa la nota distintiva della sua scrittura, la rappresentazione di quell’interiorità, di quei bisogni dell’anima che rimangono insoddisfatti, di quelle azioni, di quei gesti che sono il segno di un travaglio mai risolto. Tra amici è un altro esempio di tale maniera dello scrittore. Qui si vive nel Kibbutz Yekhat intorno agli anni ’50 e in prima persona l’autore narra di questa vita, di alcuni suoi casi. ‹‹ E’ andata scalza vicino alla finestra aperta e ha pensato che quasi tutti hanno bisogno di più calore e più affetto di quanto gli altri sono capaci di dare, e che questo scarto tra richiesta e offerta non ci 2 sarà mai nessun comitato del kibbutz che riuscirà a colmarlo›› . E’ come se egli, attraverso i personaggi dei racconti, ripercorresse la sua lunga esperienza avvenuta nel Kibbutz di Hulda dal 1954 al 1986, come se volesse mostrare le tristi situazioni alle quali aveva assistito da ragazzo e tra le quali era cresciuto, vissuto fino all’età di quarantasette anni. E mediante le storie narrate vuole anche far sapere che molto era cambiato nel Kibbutz rispetto ai suoi inizi, che molte regole risultavano ormai inosservate, che l’uguaglianza, la parità erano diventate principi di altri tempi, che anche in quella 162 comunità si assisteva al fenomeno dell’avidità, dell’egoismo, dell’arricchimento perseguiti da pochi ai danni di molti. ‹‹ Adesso che la dirigenza del kibbutz era passata dalle mani dei pionieri fondatori a quelle di Yoav e dei suoi compagni, il kibbutz era condannato a scivolare lentamente verso l’imborghesimento. […] Fra venti, trent’anni, i kibbutz sarebbero diventati niente più di graziosi quartieri residenziali, i loro abitanti dei pasciuti padroni di 3 casa›› . Anche in un posto di uguali erano sopravvenute le gravi disuguaglianze sofferte nella moderna società dei consumi da parte di chi non partecipa alla corsa verso la ricchezza e rimane a vivere dell’idea, anche lì lo spirito era stato sopraffatto dalla materia e c’erano ormai vincitori e vinti. Di questi ultimi vuole scrivere Oz nel libro, dei loro problemi e a volte drammi vuole far sapere. Dirà, così, del maturo giardiniere che vive da scapolo e che ha ridotto la sua diligenza alla mania di diffondere le brutte notizie apprese da una radiolina, della povera Osnat che lavora nella lavanderia del Kibbutz e che, nonostante la giovane età e la bellezza, è stata lasciata dal marito per una donna che le era amica, dell’elettricista che ha perso la moglie, il figlio ed è chiamato ad assistere all’unione tra la figlia diciassettenne e il suo maturo e navigato insegnante, del sedicenne Moshe che frequenta la scuola del posto, è esposto per la sua timidezza allo scherno dei compagni, presta le sue ore di lavoro presso il pollaio. Ha il padre malato e, nonostante tutto, accetta di rimanere in quella condizione perché la considera unica, del falegname Roni che scopre sulla porta di casa il piccolo figlio sfinito in seguito ai maltrattamenti subiti dai coetanei nella casa dei bambini, del guardiano di notte che durante il suo servizio incontra la giovane e bella Nina che è fuggita da casa e non vuole più farvi ritorno perché continuamente offesa dal marito, della difficile situazione di Yotam, il ragazzo diviso tra l’idea di fuggire dal Kibbutz per recarsi in Italia dove uno zio gli permetterebbe di studiare e l’altra di attenersi alla volontà dell’Assemblea che prevede per i giovani il servizio militare e tre anni di lavoro prima di proseguire negli studi, del calzolaio malato di enfisema polmonare che non smette di fumare e muore nella speranza che l’esperanto diventi una lingua studiata in tutte le 163 scuole del mondo perché dovrebbe essere quella di tutti i popoli e portare alla fine di ogni contrasto tra loro. Sono alcuni esempi delle tante persone che nel contesto di un Kibbutz rimangono sconfitte nel loro spirito. Vicini, familiari a chi legge risultano con Oz questi casi perché egli scrive come se li avesse visti, vi avesse partecipato e perché chiara, facile, scorrevole è la sua lingua anche quando tratta di complicate vicende sentimentali, di oscuri problemi interiori, di pene dell’anima. Accanto ad un’umanità che soffre è sempre stato lo scrittore con le sue opere, di essa ha voluto essere il banditore. Oltre che saggista, giornalista, politico, uomo d’azione, molto importante è sembrato ad Oz essere scrittore dell’anima, dei drammi che questa sopporta e che senza la sua scrittura sarebbero rimasti sconosciuti. Con essa acquistano una voce che non è soltanto ebrea perché ovunque nel mondo si soffre oggi per le conseguenze comportate dal materialismo dei tempi moderni, ovunque c’è disagio per lo spirito e una scrittura che come quella di Oz si fa interprete di questo disagio supera i confini dei suoi luoghi, perviene ad una dimensione più estesa, vale per tutti. 1 In Italia è stato pubblicato a Giugno del 2012 dalla Feltrinelli, Milano, nella serie “I Narratori” con traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal (p. 131). 2 Ivi, p. 118. 3 Ivi, p. 121. 164 Pubblicazioni ricevute Volumi J.-R. ARMOGATHE, Histoire des idées religieuses et scientifiques dans l’Europe modern. Quarante and d’enseignement à l’École Pratique des Hautes Études, Brepols, Turnhout 2012, pp. 220; G. CAMPANINI, Mounier. Eredità e prospettive, Studium, Roma 2012, pp. 298; A. CAPUTO, M. BRACCO a c. di, Nietzsche e la poesia, Stilo, Bari 2012, pp. 224; A. CAPUTO, L’arte nonostante tutto. Ricerche sulla musica, la pittura e la poesia: tra estetica ed ermeneutica, CVS, Roma 201w2, pp. 174; R. CELADA BALLANTI, Filosofia e religione. Studi su K. Jaspers, Le Lettere, Firenze 2012, pp. 234; G. CERA, Il prima e il dopo delle cose, Edizioni di pagina, Cassano delle Murge 2012, pp. 98, C. CIANCIO, Percorsi della libertà, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 184; P. COLONNELLO e S. SANTASILIA, a curadi, Intercultura democrazia società. Per una socioetà educante, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 251; E e se abolissimo la filosofia? Il contributo della scienza alle nuove esigenze della filosofia, a c. di S. Arcoleo, Quintessenza, Novara 2012, pp. 316; P. DE GIORGI, La rinascita della Pizzica, Congedo, Galatina 2012, pp. 376; F. FERRAROTTI, Atman. Il respiro del bosco, Empirìa, Roma 2012, pp. 112; P. GUIDA, La rivista post-unitaria «Cornelia». Donne tra politica e scrittura, Angeli, Milano 2012, pp. 188; G. INVITTO, La misura di sé tra virtù e malafede. Lessici e materiali, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 158; G. INVITTO, Il diario e l’amica. L’esistenza come narrazione, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 208; N. LAVERMICOCCA, Puglia bizantina. Storia e cultura di una regione mediterranea (876-1071), Capone, Lecce 2012, pp. 168; M. MAISETTI, F. MAZZEI, G. CALDANA, L. LA STELLA a c. di, Pinocchio mito dell’umano, cinema e psicoanalisi, Milano 2012, pp. 96; A. MIGLIETTA, Via crucis Via Lucis, Basilica S. Maria de Finibusterrae, Editrice Salentina, Galatina 2012, pp. 76; A. MONTANO, Sermo civilis. Note di etica pubblica tra storia e vita, Delta 3, Grottaminarda 2012, pp. 300; R. NIGRO, Ascoltate, signore e signori. Ballate banditesche del Settecento 165 meridionale, Capone, Lecce 2012, pp. 196; R. RUCCO, Sensi per Versi, AlebBooks, Civitavecchia 2012, pp. 60; G. SACINO, A. ZUCCALA, La Fede è, pres. di R. Fischella, Elledieci, Leumann 2012, pp. 110; F. SPEDICATO ESPOSITO, L’avventura. Tappe di un viaggio dentro il Pensiero e l’Opera dei Maria Zambrano, Saggistica, Fondazione M. Luzi Editore, Roma 2012, pp. 212; STERN DANIEL, Storia della Rivoluzione del 1848, a c. di M. Forcina, G. Laterza e figli, Roma-Bari 2012, pp. LXXXVIII, 804; Periodici Itinerari, n. s., Lanciano, n. 2. 2012; Les Temps Modernes, a. 67, avril-juin 2012, n. 668, Franco Basaglia, une pensée en acte L’immaginazione, n. 271, 2012; Manni, San Cesario di Lecce; Il delfino e la mezzaluna, a. 1, n. 1; Fondazione Terra d’Otranto, Nardò; 166