giovanni pascoli

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GIOVANNI PASCOLI
Non cultu nisi lugubri Pomponia vitam
Non animo vixit nisi maesto
(Pomponia Graecina 1,2)
[Pomponia visse la vita senz’altra veste che il lutto,
senz’altro sentimento che la tristezza]
Il pensiero
Pascoli vive appieno la duplice crisi che caratterizza la cultura di fine Ottocento: quella della
cultura positivistica e della incondizionata fiducia nella scienza e quella dell’intellettuale tradizionale che
stenta a trovare un posto ed una funzione di fronte ai nuovi problemi posti dall’industrializzazione, dalla
lotta di classe e dallo stesso mutato concetto di cultura.
La sua formazione intellettuale è scolastica e tradizionale, all’insegna del realismo classicistico
carducciano, ma è anche contrassegnata da alcuni avvenimenti traumatici come l’assassinio, rimasto
impunito, del padre o l’esperienza giovanile del carcere. Per questi motivi ad altri ancora, Pascoli assume
un atteggiamento di sfiducia nei confronti del mondo e della vita: il suo universo è dominato dal mistero
e dal dolore. Il mistero nasce dalla convinzione che il senso della vita costituisce per l’uomo un enigma
cui né la religione, né la scienza, né la filosofia offrono una risposta, che possa fungere da orientamento,
ritenuta dal poeta soddisfacente. Questo vuoto di senso genera quel disagio e quell’angoscia in cui
l’essere umano sprofonda quando non trova spiegazione, ma soprattutto giudizio e risposta ad un dolore
o ad un’offesa subiti da parte di un altro, lasciando così luogo al costituirsi di un trauma, cioè,
propriamente, una fissazione del pensiero ad un avvenimento doloroso, fissazione che determina il
persistere del dolore stesso.
Pascoli è un uomo che si sente solo in un universo di altri uomini che percepisce come
genericamente ostili o minacciosi, tentazione e tendenza tipica di chi non sia riuscito ad elaborare un
lutto o l’allontanarsi della persona amata o una grave delusione. Solo riparao contro questo male sempre
incombente sono le pareti domestiche: la famiglia gli appare come la sola dimensione sociale in cui siano
possibili l’amore, la solidarietà, la mutua assistenza in caso di bisogno.
La famiglia come rifugio del Pascoli non è però, si badi bene, quella in cui si diviene padri e madri
e figli, ma quella in cui si è fratello e sorella, non la famiglia insomma che si può formare incontrando un
altro ma sempre e solo quella, come si usa dire, d’origine (egli vivrà infatti con la sorella Maria la
maggior parte della sua vita), dove vige la solidarietà fraterna. La sua esaltazione della famiglia
corrisponde allora ad una sorta di moto regressivo segnato dalla nostalgia dell’età perduta dell’infanzia,
che rappresenta agli occhi dell’adulto, innanzitutto un’età in cui non si è oppressi dalla domanda di senso
di cui si è detto). Da qui scaturisce il cosiddetto triangolo NIDO-CASA-CULLA che sta al centro del
mondo simbolico pascoliano.
Si è detto che in Pascoli (come in genere in tutta l’arte decadente) vi è una netta sfiducia nei
confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo. Sfiducia non significa però negazione; se è vero infatti
che le forme tradizionali di conoscenza sono ritenute fallaci o inutili (scienza, filosofia, ecc.), ne esiste
però una che, se non consente una conoscenza strutturata, permetterebbe però contatti intermittenti,
saltuari, fugaci con la verità: si tratta dell’intuizione. Poiché tale facoltà si manifesta al meglio
nell’ambito dell’arte, (e ciò in ragione del fatto che nell’arte ad essa è lasciato uno spazio e riconosiuto
un valore, un’importanza di cui non gode presso la filosofia e la scienza) questa rappresenta allora una
vera esperienza teoretica, cioè conoscitiva, sebbene condizionata dall’intermittenza. I frutti
dell’intuizione sono immagini isolate come squarci di luce improvvisi, apparentemente assoluti, privi di
relazione con i contenuti della coscienza.
Come comunicare però questo genere di esperienza? Quale linguaggio usare per esprimere le
intuizioni, le visioni, ciò che si manifesta come un lampo di luce per un istante? Certamente non il
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liguaggio descrittivo che tenti di darne un’accurata spiegazione. No, l’esperienza dell’intuizione è troppo
intima e coinvolge a tal punto sensi, fantasie ed emozioni individuali da non poter essere descritta senza
sembrar ridotta a poca cosa (è ciò che può accadere di provare quando si tenta di comunicare ad altri un
intenso affetto che stiamo provando: se chi ascolta lo ha anch’esso provato, allora intenderà per
analogia, altrimenti è tempo perso – come già ben sapevano i poeti stilnovisti, Dante e Petrarca).
Ma l’illuminazione intuitiva, come la visione mistica e il sogno, sono esperienze conoscitive in
quanto incrinano o spezzano il legame tradizionale (quello che ci si aspetta, cui si è abituati) tra la parola
o l’immagine e il suo significato (comune, fisso, vocabolaristico) aprendo uno squarcio improvviso sul
proprio essere, rivelando attraverso associazioni e analogie insolite un senso non comune. Questo è il
linguaggio simbolico, un lin guaggio in cui le parole non hanno più, o non soltanto, il significato che siamo
normalmente abituati ad attribuire loro ma rimandano ad altri sensi attraverso legami analogici più o
meno facilmente ricostruibili o decifrabili, sensi comunque tutti fortemente connotati dall’esperienza
individuale.
Pascoli perciò come qualunque altro poeta simbolista (e non solo simbolista) si costruisce, per
così dire, una sorta di personalissimo dizionario e parlando del suo pensiero vi è chi ritiene più adeguato
parlare di costellazione simbolica, o universo simbolico, cioè di un raggruppamento di simboli in qualche
modo collegati tra loro per similarità od opposizione e di nuclei tematici piuttosto che di un vero e
proprio sistema di concetti logicamente conseguenti.
Al centro dell’universo simbolico pascoliano allora troviamo una linea Nido – Casa – Culla , che
dal lato Nido-Casa esprime l’analogia ricercata tra realtà umana e realtà animale-naturale: l’esistenza
del mondo animale-naturale ha un andamento ciclico, ripetitivo, ma soprattutto non appare segnata dalle
questioni che invece l’essere pensante, l’uomo, si pone. La vita naturale sembra allora consentire di
sfuggire all’angoscia suscitata dalle domande irrisolte intorno a ciò che appare come l’enigmatico senso
della vita (e quindi del dolore e della morte, poiché tali domande non se le pone mai l’uomo quando è
felice e appagato) e può essere quindi presa a modello nelle proprie fantasie (“Ah potessi essere come
un …..”).
Il nido, già nella sua forma, rappresenta una ripartizione simbolica dello spazio: quella interna,
protetta, sicura, calda, accogliente e dove non si è soli; quella esterna insicura, minacciosa, aggressiva
(ci si può persino rimanere ammazzati, come è accaduto al padre) e dove si è soli. Nido e casa sono la
sede della famiglia e, per eccellenza, dei piccoli e quindi rinviano alla culla come simbolo dell’età infantile
(e spazio quant’altri mai chiuso, fatta eccezione per il ventre materno, e quindi protetto dai pericoli
esterni). Poiché, come si è detto, Pascoli intende per famiglia quella in cui si è figli, la costellazione
simbolica Nido-Casa-Culla evoca ed invoca quel tempo della vita, beato e, apparentemente agli occhi
dell’adulto, spensierato, in cui il padre assicura il sostentamento materiale e la madre consolazione ed
affetto.
Cantare la famiglia e l’infanzia corrisponde dunque anche ad una dichiarazione di sfiducia, ma
spesso anche timore e paura, e ricusazione nei confronti del mondo, della vita e degli uomini, e al
tendere a chiudersi gelosamente nel proprio ambito, considerato protetto. Lasciare la casa equivale ad
abbandonare (il legame associativo è rafforzato dalla potenza della memoria dell’avvenimento uscitamorte-abbandono del padre) e tradimento (il poeta fu sconvolto da una profonda crisi in occasione delle
nozze della sorella Ida).
Per dilatazione, come in una serie di circonferenze concentriche che perdono di intensità quanto
più crescono di raggio, dopo il nido, la culla e la casa troviamo il muro (o la siepe) dell’orto; poi il muro del
cimitero (raffigurato come limite ulterior che contiene simbolicamente anche l’orto e la casa) e infine i
confini della patria (aggiunta tardiva e che forse doveva giustificare gli atteggiamenti del Pascoli
contrari all’emigrazione e nazionalistici): si tratta in tutti i casi di margini, orli, limiti.
Accanto a questo nucleo tematico, che potremmo definire di vita (ma quanto correlato con un
lutto irrisolto!), emerge con forza anche – come nel Decadentismo in genere – quello della morte. È
facile comprendere, ripensando magari a Leopardi, che se la vita è segnata dalla sofferenza dovuta ad
eventi traumatici, il cui ricordo torna insistentemente a turbare la mente, e segnata dall’angoscia per
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lìincapacità di darsi una ragiome di questo patire, la morte dopotutto non può rapprensentare il peggiore
dei mali. Anzi, se la ciclicità dell’esistenza rappresenta una garanzia, essa è d’altra parte evidente
proprio nel perenne e ripetitivo succedersi di nascita e morte. Inoltre, se chi muore rimane vivo in una
creatura cui ha dato la vita o nella memoria altrui, chi vive può mantenere un legame strettissimo,
melanconico, come è il caso di Pascoli, con chi è morto.
Gli uccelli costituiscono i soggetti più ricorrenti della poesia di Myricae, dei Poemetti e dei Canti
di Castelvecchio. La cosa, di primo acchito, potrebbe sembrare del tutto normale, considerato che
l’ambientazione prediletta dal poeta è quella naturale, se non che essi sono la fauna esclusiva della
campagna pascoliana (non ci sono altri animali, neppure i più comuni e domestici, che cpure ci si
attenderebbe di trovare in un’ambiente georgico) e inoltre l’inventario ornitologico si riduce a ben
vedere, stando alle presenze ricorrenti, sostanzialmente alle rondini e agli uccelli notturni (civette, chiù,
pipistrelli): le presenze insistite, così come le insistite assenze, tradiscono esse stesse una
sovradeterminazione simbolica. Essi abitano le regioni del cielo, stanno cioè più in alto degli uomini, e il
loro verso viene spesso riprodotto attraverso le onomatopee, viene cioè trascritto come si trattasse di
messaggio oracolare. Il verso degli uccelli, privo di un significato prefissato, non è privo di senso però
per colui che, ascoltandolo, sia sospinto attraverso imprecisabili suggestioni e associazioni, tutte
squisitamente individuali, verso dolci o dolorosi ricordi, fantasie ricorrenti. Gli uccelli insomma parlano
di vita e di morte, appaiono soprattutto di notte o all’alba, in un’atmosfera che partecipa del sogno e
della realtà cosciente contemporaneamente.
Considerato che, per buona parte della storia umana, gli uccelli (ma gli angeli della tradizione
cristiana non sono anch’essi messaggeri e creature alate?) interpretati nel loro volo o indagati nelle
viscere, sono stati uno strumento di comunicazione tra gli dei e gli uomini, le creature con cui gli dei
rispondevano in forma oscura, simbolica appunto, alle domande degli uomini sulla loro vita; considerato
che in alcuni casi il legame associativo tra, ad esempio, la rondine e il padre morto è lampante, possiamo
supporre, con buona certezza, che gli uccelli nella poesia pascoliana rappresentino lo strumento di una
vagheggiata comunicazione fra il regno dei morti e il poeta.
LA POETICA
Già parlando del pensiero pascoliano si sono anticipati alcuni principi riguardanti la sua
concezione dell’arte e della poesia in particolare; non a caso, poiché in Pascoli, come in altri poeti
moderni del resto, la relazione tra la visione generale del mondo e quella particolare della poesia (che
pure è sempre forte per qualunque artista) si fa molto stretta, fin quasi all’identità. Occupandosi però
in senso stretto di poetica è inevitabile andare alla famosa e citatissima prosa del Fanciullino, uscita nel
1897 sulla rivista Il Marzocco, nella quale Pascoli teorizza la poesia come manifestazione di un altro
soggetto che è in noi, il fanciullino interiore appunto. Riprendendo un antico mito platonico (esposto nel
Fedone), il poeta afferma che, quando nasciamo siamo due fanciulli, non uno: il primo è quello interiore
destinato a non crescere mai e a rimanere sempre ingenuo ed innocente, il secondo è quello esteriore
che invece cresce e diviene successivamente bambino, ragazzo, giovane e adulto. All’inizio i due fanciulli
coincidono: corrono, giocano e si esprimono in un solo linguaggio;pi, man mano che si cresce, il primo fa
sentire sempre più raramente la sua voce, fino ad ammutolire del tutto, a morire perché costretto al
silenzio dall’altro.
Questo però vale per la maggior parte degli uomini: il poeta si distingue perché, quale che sia la
sua età anagrafica, mantiene vivo dentro di sé quel fancioullino, che è l’origine, la fonte d’ispirazione,
colui che detta la poesia. La poesia, dunque, è la registrazione degli stupori, delle meraviglie, degli
sgomenti del fanciullino interiore, fatta immediatamente (cioè, apparentemente, senza mediazioni o
filtri culturali e razionali). Ne deriva una concezione che presenta alcune analogie con quella degli
stilnovisti del Duecento: il poeta che ascolta e dà voce al fanciullino che ha in sé, richiama quello
stilnovista che, poetando, scriveva ciò che Amore gli spirava e dettava dentro.
L’interpretazione letterale di questa prosa e quella realistico impressionistica della poesia hanno
insieme contribuito a creare l’immagine diffusa e stereotipata di un Pascoli poeta della fanciullezza, sia
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nel senso che di quella età si farebbe cantore, sia in quello più popolare di poeta “facile”, che scrive cose
particolarmente tenere e quindi idonee all’educazione dei bambini e dei ragazzi.
In realtà, si può ritenere la prosa citata (Il fanciullino, 1897) come espressione della poetica pasco
liana, intendendola nel suo valore di rappresentazione della sua teoria dell’intuizione artistica. Si torna
così al concetto centrale di poesia come attività teoretica, cioè conoscitiva, in quanto intuitiva. Il
simbolo più appropriato di quest’arte poetica è il lampo, in effetti assai ricorrente nella poesia pasco
liana: il lampo è imprevedibile e con la sua luce abbagliante e brevissima squarcia l’oscurità della notte
(quasi sempre inquieta e tempestosa) e permette di cogliere tratti e oggetti immersi nel mistero delle
tenebre. Esprime quindi efficacemente sia la natura sia il risultato della creazione poetica. Il carattere
sperimentale della poesia pasco liana testimonia altresì l’esigenza di fondare un nuovo linguaggio idoneo a
comunicare rivelazioni.
Il Fanciullino: il poeta coincide con il fanciullino che è dentro di noi: anzi l’età veramente poetica
sarebbe quella infantile e nel ricordo dell’infanzia si esaurisce la poesia più autentica. Se è così, allora la
poesia non si inventa ma si scopre, perché essa si trova nelle cose stesse; ma per coglierla; ma per
coglierla bisogna avere gli occhi abbastanza puri (cioè liberi dai significati ormai cristallizzati che le
cose hanno in genere per gli adulti), come se si vedessero le cose per la prima volta. Ora, poiché tale
purezza di sguardo apparterrebbe al fanciullo in quanto egli osserva <<tutto con meraviglia, tutto come
per la prima volta>>, si tratterà allora di “ritornare” fanciulli o, più precisamente, secondo il poeta ridar
voce al fanciullino che è in ciascuno di noi, seppure latente perché zittito dalla coscienza nel diventare
adulti. Ciò che distingue il poeta dall’uomo comune è allora l capacità del primo di dare dapprima ascolto
a questa voce e poi a questa forma di poesia.
D’altra parte il fanciullino indica simbolicamente un altro ordine di esperienza del reale, altro
rispetto a quello comunemente accettato come adulto e ragionevole, prima ancora che razionale. Il
fanciullino è <<quello che alla luce sogna [ossia sogna ad occhi aperti] o sembra di sognare ricordando
cose non vedute mai>>, che <<parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole e alle stelle>>: fa, in altre
parole, cose che, osservate in un adulto, susciterebbero quantomeno compatimento (l’adulto certe cose
non le fa più, anzi non le DEVE fare più, le deve abbandonare…). Il fanciullino <<scopre nelle cose le
somiglianze e relazioni più ingegnose (e in questo consiste in effetti il linguaggio simbolico o analogico);
<<piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione>> di adulti.
Il fanciullino rappresenta anche un mondo, quello infantile, che agli occhi dell’adulto appare privo
di conflitti: desiderare di recuperarlo in sé, significa allaora cullare l’idea di un luogo che si sottragga al
caos e alle contraddizioni della società contemporanea, una sorta di oasi di originale innocenza in cui non
giungano gli echi delle violenze e delle brutture della nostra vita, in cui si spengano i contrasti e le lotte,
in cui scompaiano d’incanto i nostri problemi, che sono anzitutto problemi di relazione con gli altri e col
mondo. In tal modo il Pascoli coglie un tratto reale della psicologia e della condizione dell’uomo moderno,
che virilmente frena questo desiderio considerandolo (giustamente, aggiungeremmo) un’illusione (che
come tale è l’indice di un sintomo), per impegnarsi invece nella, magari dura, vicenda quotidiana del
vivere, ma che resta forse sempre disposto a lasciarsi affascinare dall’idea che una tale condizione sia
esistita nella propria infanzia, nella quale è certamente vero che vi furono un padre e una madre che,
fatte le debite eccezioni, si occuparono di non farci mancare mai nulla, che tennero lontana da noi ogni
bruttura e violenza, che furono pronti a soddisfare ogni nostra necessità e non, ecc.
I simboli di questa condizione sono appunto nella letteratura decadente, e nella fattispecie in
quella di pascoliana, l’infanzia e la campagna (campagna natura  condizione naturale, originaria
dell’uomo), ora più ed ora meno esplicitamente contrapposte all’uomo adulto e alla città.
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTÀ IN PASCOLI
La costante presenza nella lirica pascoliana dell’ambiente naturale, realtà esterna al soggetto
(realtà soggetta allo sguardo), può far credere che ci si trovi di fronte ad una rappresentazione
oggettiva, descrittiva della realtà. In verità, basta leggere con attenzione alcune poesie, raffrontandole
magari con altrettante del Carducci, per accorgerci che non abbiamo a che fare con rappresentazioni
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oggettive: le norme tradizionali che imponevano ordine, regolarità, prospettiva, rispetto dei rapporti e
delle proprorzioni non sono rispettate, e allo sguardo composto che non trova dintorno se non ciò che si
attende di trovare, si sostituisce uno sguardo inquieto e irregolare, in cerca senza sapere cosa cercare,
che privilegia nella situazione i particolari senza una motivazione ed una logica evidenti. È assai difficile
infatti comprendere immediatamente quali siano i moventi di una scelta: di colpo appaiono in primo piano
oggetti e dati, senza una preparazione e senza una presentazione; l’infinitamente piccolo e
l’infinitamente grande, il filo di paglia e il sole, il sasso e gli astri, si presentano uno dopo l’altro, senza
gerarchie di valore o di significato o di importanza prestabilite. Il quadro si scompone negli elementi e
nei particolari che lo costituiscono e la poesia pascoliana appare quindi distante dalla regola classica
(consacrata dal Carducci), come anche dalle norme positiviste che prevedevano una composizione chiara
e distinta, oggettivamente scrupolosa e giustificata nell’elencazione degli oggetti.
Il fatto è che a Pascoli interessa sì la realtà delle cose, ma la sua parola poetica cerca di
scoprire ciò che sta al di là del fenomeno, dove la scienza si è fermata e si ferma, cerca di svelare il
mistero della vita: potremmo dire che cerca la verità delle cose, ma solo in quanto supposta dare
accesso alla verità della condizione umana. La poesia diviene insommauno strumento di conoscenza, con il
quale egli cerca di evocare la verità, intuirla, coglierla per un istante come accade per una visione, come
accade in un’esperienza mistica, contemplativa ( che, come sappiamo anche da Dante, è l’unica forma di
conoscenza che possa avere accesso alla verità ultima, la Verità).
La poesia di Pascoli ha perciò i caratteri della visionarietà (si vedano a testimonianza Temporale
e Il lampo), in cui la realtà sembra sfumare nel sogno.
MYRICAE
Il titolo di Myricae (letteralmente: tamerici, piccoli arbusti) veniva dato nel 1891 ad un
volumetto che raccoglieva 22 componimenti apparsi in precedenza su diverse riviste. Era la prima
edizione di una raccolta che si andò progressivamente accrescendo nel corso degli anni (la seconda
edizione del 1892 comprendeva 72 componimenti; la terza del 1894 ne contava 116; nella quarta del 1897
si era giunti a 152) fino alla quinta edizione del 1900 che comprendeva 156 poesie.
La parola Myricae, presa come titolo, e il motto poi presente sul frontespizio – Arbusta iuvant
humilesque myricae – rapportano il discorso pascoliano a quello di Virgilio, al Virgilio della quarta ecloga,
che canta la rinascita dell’età dell’oro in seguito alla venuta del divino fanciullo, Augusto. Pascoli però,
nell’atto di citarlo, nega il discorso virgiliano. Il poeta latino,infatti, iniziava il suo canto pregando le
muse per alzare il tono e affrontare temi temi più impegnativi, dal momento che quelli bassi e quotidiani
(come quelli cantati nelle Georgiche) possono anche non piacere: <<Sicelides Musae, paulo maiora
canamus /non omnes arbusta iuvant humilesque myricae>> (O sicule Muse, cantiamo di fatti un poco più
grandi: non tutti aman gli arbusti e le modeste tamerici). Come si vede, Pascoli, estrapolando dal
contesto le parole di Virgilio, le ha private della negazione in modo tale da rovesciarne completamente il
senso: arbusti e tamerici piacciono a tutti e, sembra aggiungere, sono le sole cose che contano.
I tempi non vanno, come afferma Virgilio, per il meglio, anzi; e non importa la poesia impegnata,
quella da vate politico e sociale; sono importanti le myricae, le cose umili, modeste e la poesia che ad
esse si ispira. Il titolo anticipa allora due caratteristiche fondamentali della poesia contenutavi: il
carattere bucolico-rurale della rappresentazione di un mondo modesto e quotidiano e il pessimismo che
lo contrassegna.
La raccolta propone perlopiù composizioni brevi e brevissime (rapidi quadretti, sensazioni, scene
della memoria, ecc.) che si avvalgono di un’espressione semplice ma controllatissima che, pur muovendosi
nell’ambito della sintassi e della metrica tradizionali, non perde mai il carattere sperimentale e
innovatore. La tecnica della rappresentazione, come già si è detto altrove, sembra oggettiva e realistica,
ma alcune presenze insistenti ( a fronte di assolute assenze) rivelano un intento e valore simbolico, non
descrittivo.
Nella prefazione alla seconda edizione il Pascoli scriverà, ricordando i familiari: <<Non
soggiacquero essi al destino comune e non li sperse la natura coi suoi strali […] Li uccise tutti nel mio
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padre, la malvagità degli uomini, i quali finiscono la loro vittima non l’annullano […] Non si spense d’essi
con la vita il dolore: questo (oh, solo questo) rimane d’essi >>.
Testimonianza di grande rilievo è inoltre la prefazione-dedica che egli scrisse per l’edizione del
’94 e che riportiamo qui per intero.
Rimangano, rimangano questi canti su la tomba di mio padre!…Sono frulli d’uccelli,
stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono ad un camposanto. Di qualche
lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o
vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?
Uomo che leggi, furono uomini quelli che apersero quella tomba. E in quella finì tutta una
fiorente famiglia. E la tomba (ricordo un’usanza africana) non spicca nel deserto per i candidi
sassi della vendetta: è greggia, tetra, nera.
Ma l’uomo che da quel nero ha oscurato la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se
noi non la guastassimo a noi e agli altri. Bella sarebbe; anche nel pianto che fosse però rugiada di
sereno, non scroscio di tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di
contemplare si chiudono come a raccogliere e riporre nell’anima la visione, per sempre. Ma gli
uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male
volontario danno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spingerci
sembra che ci culli e ci addormenti. Oh! Lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Questa è la parola che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò
meglio col tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe esser di odio,
e è d’amore. (Livorno, marzo del 1894)
CANTI DI CASTELVECCHIO
I Canti di Castelvecchio rappresentano la continuazione dell’esperienza condotta nelle Myricae.
Tale continuità, oltre che dai temi, dalle caratteristiche stilistiche e metriche e da ragioni di
composizione, è sottolineata dallo stesso poeta che dedica questa raccolta alla memoria della madre e
appone sul frontespizio la stessa citazione virgiliana della raccolta precedente: <<Arbusta iuvant
humilesque myricae>>. La composizione di questa raccolta è stratificata come qauella di Myricae ed è
anche intrecciata cronologicamente con essa: un primo gruppo di sette poesie era infatti già composto
nel 1897 al tempo della quarta edizione della prima raccolta. Negli anni successivi, quindi, Pascoli
comporrà sia per l’una che per l’altra, e giungerà all’edizione definitiva dei Canti di Castelvecchio nel
1910: 66 poesie più un’appendice di altre 8 dedicata alla sorella.
I temi, come si diceva, sono piuttosto simili a quelli di Myricae: la vita agreste (il Castelvecchio
del titolo è Castelvecchio di Barga, presso Lucca, dove il poeta si è trasferito con la sorella Maria nel
1895, dopo la crisi seguita al matrimonio dell’altra sorella, Ida) il focolare domestico, i ricordi familiari,
la presenza consolatrice dei morti, uccelli, fiori, campane.
Anche stilisticamente le due raccolte si somigliano: se nelle Myricae si oscilla tra espressionismo
ed impressionismo e si sforza di cogliere e registrare ogni minimo sussulto dell’anima e dei sensi, nei
Canti di Castelvecchio il discorso acquista, attraverso una maggior padronanza della strumentazione
verbale, maggior efficacia e capacità penetrativa, nelle analogie, connessioni e parallelismi. Ricordando
in ogni caso quanto appena detto riguardo alla sovrapposizione cronologioco-compositiva fra le due
raccolte, si può affermare il poeta abbia indirizzato le nuove creazioni ora verso l’una (più acerba,
audace, occasionale), ora verso l’altra (più matura, meditata, approfondita).
Critici e lettori, del resto, pur dando maggior consenso ora all’una ora all’altra, a seconda dei
gusti personali, hanno comunque sempre considerato insieme le due raccolte, ritenendole il frutto più
originale e sentito della poesia di Pascoli e il suo contributo più significativo al simbolismo europeo.
Un passo di una lettera che il poeta scrisse nel 1899 ad un amico pittore, De Witt, ci fornisce
un’utile chiave di lettura per le due raccolte:
C’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e
nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c’è gran consolazione, la quale pure
non basta a liberarci dall’immutabile destino.
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L’ALTRO PASCOLI
Si è già detto della difficoltà di considerare le opere pascoliane secondo una linea di progressione
cronologica (le raccolte presentano una struttura aperta, per cui crescono e si stratificano di edizione
in edizione) e di evoluzione, dal momento che la loro produzione, a partire almeno dal 1894, si intreccia,
alterna e accavalla in una simultaneità di registri espressivi e stilistici. Nel decennio di più intensa
attività creativa (1890-1900) si possono rilevare tre linee creative che, pur accavallandosi e
intracciandosi, si possono individuare con sufficiente chiarezza.
1. quella già descritta delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, centrata sull’ambiente naturale,
di tono esistenziale ed autobiografico e caratterizzata da un linguaggio simbolico;
2. quella esemplificata dai Poemetti e basata su temi più costruiti e ideologici;
3. quella del classicismo tradizionale che giunge fino all’uso della lingua latina nei Carmina e al
preziosismo estetizzante-alessandrino nei Poemi conviviali.
L’ultima produzione pascoliana da Odi e inni (1906) alle Canzoni di Re Enzo (1909), dai Poemi italici
(1911) ai postumi Poemi del Risorgimento, esprime la velleità dell’autore di proporsi come poeta-vate, ed
è caratterizzata da un tono retorico e mostra una modesta attitudine del poeta a trattare tematiche
ideologiche, politiche e sociali.
LO STILE
Lo stile pascoliano può essere sintetizzato nelle seguenti caratteristiche, in riferimento soprattutto
alle due raccolte poetiche maggiori:
 nelle rappresentazioni di scene rurali o di paesaggi, il poeta tende a combinare esperienze
sensoriali diverse (suoni, luici, effetti di colore);
 prevalenza della paratassi o coordinazione
 uso frequente di costrutti ellittici con soppressione del verbo (sintassi nominale);
 uso di termini precisi, talora anche tecnici, nella ricerca di esattezza, ma anche e forse
soprattutto, decadentisticamente, scelti perché rari, preziosi, inusuali;
 Uso di parole umili, quotidiane e talora d’estrazione dialettale, talvolta anche straniere, se
rispondenti ad un preciso intento stilistico (suggerire, ad esempio, la parlata gergale italoamericana degli emigrati);
 Uso delle onomatopee, con cui i rumori e i versi degli animali vengono imitati invece che allusi;
 Parole che si ripetono con grande frequenza e si rivelano come parole-chiave del messaggio.
Ricapitolando, è possibile riassumere ciò che caratterizza la poesia pascoliana nel modo seguente,
umiltà di temi e toni accompagnata ad una ricchezza lessicale (non forbita o ricercata al modo di
D’Annunzio, però) che giunge sino alla sperimentazione linguistica, rinnovando il linguaggio poetico entro
strutture più tradizionali.
Il cosiddetto “sperimentalismo” pascoliano, cioè il mescolare in maniera inedita linguaggio aulico e
tecnico a linguaggio umile, comune costituisce una svolta importante nella tradizione italiana, sempre un
po’ stagnantemente classicheggiante, si avvicina, anche se non consapevolmente alle esperienze
simboliste europee e suggerisce tecniche e temi alla poesia del ‘900, a partire da quella pure
programmaticamente umile e raffinata al tempo stesso dei Crepuscolari.
Lessico
 Uso di termini precisi, persino tecnici, per indicare pianti ed animali (prunalbo, gattici…),
secondo una ricerca tipicamente simbolistica di termini rari e preziosi che conferiscano al testo
capacità di suggestioni evocative e foniche (viburni con un suono cupo suggerisce senso di
mistero)
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Uso di parole umili e quotidiane, o anche di origine dialettale che la tradizione letteraria ha
sempre escluso dalla lingua poetica. Emblematico è il caso di Italy, col suo intarsio di italiano,
dialetto garfagnino e italo-americano.
Strutture foniche e retoriche
 Allitterazione: Le tremule foglie dei pioppi / trascorre una gioia leggera (da La mia sera)
 Onomatopea o “armonia imitativa”: nei campi c’è un breve gre gre di ranelle
 Uso della rima interna per “armonia imitativa”: E cadenzato dalla gora viene / lo sciabordare
delle lavandare
 Uso della sinestesia e dell’analogia ( dai calici aperti si esala / l’odore di fragole rosse analogia
in forma di sinestesia fra sensazione visiva e olfattiva): la Chioccetta per l’aia azzurra / va col
suo pigolio di stelle (concatenazione analogica a partire da Chioccetta per costellazione delle
Pleiadi; da Gelsomino notturno)
Sintassi
 Netta preferenza per le strutture coordinanti, paratattiche.
 Frequente uso di sintassi nominale, ovvero frasi senza verbo: Siepi di melograno, fratte di
tamerice / il palpito lontano / d’una trebbiatrice, / l’Angelus argentino…. (da patria)
Metro e ritmo
 Uso della punteggiatura più inusuale: puntini sospensivi, interrogativi, esclamativi
 Frequente uso dell’enjambement
G. Contini: << Quando si usa il linguaggio normale vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa,
che si crede in un mondo certo (…). Le eccezioni alla norma significherebbero allora che il rapporto tra
l’io e il mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è più un rapporto tradizionale. E’ caduta quella
certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo
romanticismo>>.
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