L`utilizzo dei beta-bloccanti per la terapia della cardiomiopatia

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International Congress of
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May 19 – 21 2006
Rimini, Italy
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&
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May 29-31, 2009 - Rimini, Italy
Reprinted in IVIS with the permission of the Congress Organizers
53° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC
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L’utilizzo dei Beta-bloccanti per la terapia
della cardiomiopatia dilatativa
e dell’insufficienza mitralica nel cane
Mark A. Oyama
DVM, Dipl ACVIM-Cardiology, Philadelphia, USA
La miocardiopatia dilatativa (DCM) è la più comune affezione miocardica che colpisce il cane. Nelle razze come il
dobermann, l’alano, il boxer e l’Irish wolfhound, l’impatto
della malattia è notevole. La sopravvivenza prevista dopo
l’insorgenza dei segni clinici è estremamente breve, in media
di soli 5 mesi, nonostante la terapia con digitale, diuretici ed
inibitori dell’enzima angiotensina convertente (ACE). I betabloccanti offrono un modo nuovo per potenziare il trattamento di questa malattia. Nell’uomo, questi farmaci migliorano la frazione di eiezione più di qualsiasi altro tipo di terapia medica dell’insufficienza cardiaca. Il trattamento cronico con beta-bloccanti migliora la funzione sistolica, la tolleranza all’esercizio (in misura variabile) e la qualità della vita
(in misura variabile) ed aumenta la sopravvivenza. Non è
ancora stata pubblicata una valutazione mediante studi controllati con placebo dell’impiego di questi farmaci in cani
con DCM ad insorgenza spontanea. Il presente lavoro illustrerà i presupposti teorici dell’impiego dei beta-bloccanti
nella DCM e nella valvulopatia mitralica, i vari tipi di betabloccanti disponibili ed i risultati di una prova clinica recentemente condotta dall’autore per studiare l’uso del carvedilolo nei cani con DCM.
La caratteristica principale della DCM è la progressiva
perdita della funzione sistolica miocardica, per cui si potrebbe dedurre che gli agenti inotropi negativi come i beta-bloccanti possano essere utili. In realtà, per il trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia causata da una grave
DCM si utilizzano comunemente i beta-agonisti come la
dopamina e la dobutamina. Inoltre, man mano che la funzione cardiaca si deteriora, l’accentuazione dell’attività dei due
sistemi neurormonali, quello renina-angiotensina-aldosterone e quello nervoso simpatico, determina una forma di compensazione aumentando la contrattilità, espandendo il volume plasmatico e mantenendo la pressione sanguigna. Quindi, l’aumentata attività del sistema nervoso simpatico fornisce un supporto al cuore insufficiente e i trattamenti che
interferiscono in questa risposta sono una controindicazione.
Tuttavia, oggi è chiaro che quando viene attivato cronicamente, il sistema nervoso simpatico inizia ad indurre un danno cardiaco ed accelera la progressione della malattia. La
presenza cronica di elevati livelli di catecolamine circolanti
è causa di necrosi e apoptosi diretta dei gliociti, rende inefficiente l’utilizzazione del substrato metabolico e determina
anomalie dell’impiego del Ca2+ intracellulare da parte del
reticolo sarcoplasmatico. Per contribuire a proteggere da
questi effetti, il miocita si desensibilizza, riducendo la densità dei beta-recettori sulla sua superficie, nonché disaccop-
piando il complesso proteina G ed AMPc dal meccanismo
recettoriale. Come conseguenza, il cuore perde la propria
capacità di rispondere al supporto simpatico innato durante i
momenti di aumentata necessità (esercizio). Il presupposto
teorico che sta alla base dell’impiego dei beta-bloccanti è
quello di interrompere questo sistema, molto simile all’effetto degli ACE inibitori sul sistema renina-angiotensinaaldosterone. Come già ricordato, l’effetto del beta-bloccaggio dei pazienti umani con DCM comporta un miglioramento della funzione sistolica, della capacità di esercizio, della
qualità della vita e, più recentemente, della sopravvivenza.
Inoltre, è stato dimostrato che il beta-bloccaggio diminuisce
direttamente i livelli circolanti di noradrenalina, adrenalina e
renina. Gli obiettivi dello studio proposto coinvolgono la tollerabilità, la funzione sistolica, i livelli neurormonali e la
qualità della vita. Verrà brevemente discussa la letteratura
pertinente associata a questi 4 effetti.
La somministrazione di beta-bloccanti ai pazienti con funzione miocardica compromessa non è priva di rischi. L’inizio
della terapia può determinare una riduzione acuta del supporto adrenergico inotropo e cronotropo, peggiorando così la
funzione miocardica. La somministrazione dei beta-bloccanti di solito richiede un periodo di messa a punto di 4-8 settimane durante le quali le dosi vengono gradualmente aumentate sino a livello terapeutico. Il dosaggo di partenza del carvedilolo corrisponde tipicamente al 12% di quello che si vuole ottenere. Durante questo periodo iniziale, il 7% dei pazienti umani dimostra di non tollerare il trattamento con questo
agente. In questi casi, di solito non è necessaria la sospensione completa del farmaco e il trattamento può continuare alla
massima dose tollerata. Un miglioramento della tolleranza si
può ottenere scegliendo un agente di terza generazione piuttosto che uno di prima o di seconda. Gli agenti di terza generazione possiedono proprietà vasoattive collaterali ed il carvedilolo mostra un lieve alfa-1 antagonismo, che esita in
vasodilatazione periferica. Questa attività contribuisce a
compensare il declino iniziale della funzione miocardica e
può essere la ragione della sua migliorata tollerabilità. Nonostante ciò, nei pazienti umani la fase di messa a punto del
dosaggio viene condotta con particolare attenzione a pressione sanguigna, sintomatologia e funzione renale. Si effettua
tipicamente un aumento della posologia alla settimana, raddoppiando progressivamente il dosaggio del farmaco. I
pazienti che mostrano effetti indesiderati di solito lo fanno
entro le prime due o tre correzioni della dose. È stato dimostrato che la terapia con beta-bloccanti migliora costantemente o previene il deterioramento della funzione sistolica e
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delle dimensioni ventricolari. Una recente metanalisi su 18
prove cliniche condotte in doppio cieco e controllate con placebo relative all’uso dei beta-bloccanti nella popolazione
umana ha preso in considerazione più di 55.000 pazienti con
DCM ed ha rivelato un incremento medio della frazione di
eiezione dal 23% al 31% (p < 10-9).1 I risultati della prova
CIBIS hanno rivelato che l’accorciamento frazionale aumentava in seguito al trattamento con un beta-bloccante, il bisoprololo.1 La frazione di eiezione e l’accorciamento frazionale sono le misure più comunemente utilizzate della funzione
sistolica, ma anche gli intervalli temporali della sistole
migliorano dopo il trattamento con beta-bloccanti. In associazione con il miglioramento funzionale, il trattamento esita
nella regressione del rimodellamento cardiaco patologico. I
risultati di pool da quattro prove differenti dimostrano che le
dimensioni telediastoliche e telesistoliche del ventricolo sinistro erano ridotte, rispettivamente, di un valore medio di 4,6
mm e 2,9 mm.2 Questi risultati dimostrano che l’impiego di
beta-bloccanti ha la capacità di far regredire il rimodellamento instaurato, un vantaggio non ottenuto con i farmaci standard utilizzati per l’insufficienza come i diuretici e la digitale. In parecchi studi i beta-bloccanti non sono riusciti a
migliorare la frazione di eiezione o le dimensioni ventricolari rispetto alle misurazioni basali, ma, in confronto ai controlli, ne hanno prevenuto il deterioramento. Questo effetto
può essere utile quanto un aumento assoluto dei valori.
Studi precedenti hanno rivelato risultati misti circa il livello di catecolamine circolanti dopo il trattamento con betabloccanti. Alcuni studi dimostrano che i livelli plasmatici
della noradrenalina diminuiscono ed altri non mostrano
alcuna variazione.3,4 Uno studio ha evidenziato la capacità di
prevenire l’aumento della noradrenalina che si è invece verificato nei controlli. La variabilità dei risultati può essere correlata al processo patologico sottostante. Woodley ha riscontrato che i livelli di noradrenalina diminuivano nei pazienti
con DCM idiopatica (simile alla malattia riscontrata nel
cane), ma non in quelli con DCM da arteropatia coronarica
ischemica. È anche interessante notare che persino negli studi in cui il livello di noradrenalina non si è modificato, la frequenza cardiaca era significativamente più bassa dopo il trattamento e costituiva un indicatore di efficace blocco recettoriale ed antagonismo adrenergico.
L’attività della renina plasmatica viene diminuita in seguito a somministrazione di beta-bloccante.5 Questo effetto viene attribuito all’inibizione dei beta1-recettori che influiscono
sul rilascio di renina dall’apparato iuxtaglomerulare del rene
o al miglioramento della perfusione renale. Gli effetti dan-
nosi del sistema renina-angiotensina-aldosterone sono ben
noti e comprendono la ritenzione idrica, la vasocostrizione
ed il rimodellamento ventricolare patologico. Tipicamente,
per prevenire l’ulteriore formazione di angiotensina II lungo
l’asse renina-angiotensina-aldosterone si utilizzano gli ACE
inibitori ed il valore della riduzione dell’attività plasmatica
della renina è stato messo in discussione; tuttavia, esistono
delle vie alternative per la conversione dell’angiotensina I in
angiotensina II e la riduzione dell’attività plasmatica può
contribuire a determinare una inibizione più completa di
questo sistema.
Durante il trattamento con beta-bloccanti il peptide natruiretico atriale (ANP) è elevato. Questi aumenti possono essere dovuti ad un calo della sua escrezione o ad una riduzione
degli effetti inibitori della stimolazione adrenergica sul suo
rilascio. Gli effetti fisiologici dell’ANP contrastano quelli
del sistema renina-angiotensina-aldosterone e del sistema
nervoso simpatico, e possono servire a spiegare alcuni degli
effetti salutari dei beta-bloccanti.
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Author’s Address for correspondence:
Mark A. Oyama
University of Pennsylvania
3850 Spruce St. Philadelphia, PA 19104
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