Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel Orsù, dunque, omiciattolo, fuggi per un poco le tue occupazioni, nasconditi un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Abbandona ora le onerose cure e rimanda le tue laboriose dispersioni. Dedicati per un poco a Dio e riposati un po' in Lui. Entra nella camera della tua mente, escludine tutto all'infuori di Dio e di ciò che ti giova a cercarlo, e chiusa la porta cercaLo1. Con questa invocazione inizia uno degli scritti più importanti del medioevo cristiano, il Proslogion di Anselmo d'Aosta (1033-1109), nel quale è esposta per la prima volta una prova esclusivamente logica dell'esistenza di Dio. Posta in apertura di un capitolo significativamente intitolato Excitatio mentis ad contemplandum deum2, l'esortazione anselmiana è al tempo stesso una pressante sollecitazione a cercare Dio quale proprio ultimo rifugio esistenziale e un'indicazione del modo col quale è possibile effettuare tale ricerca: con la forza della nostra mente e la riflessione interiore. Ma per poter davvero contemplare Dio - aggiunge ancora Anselmo - non basta dedicargli qualche sporadico momento del nostro tempo, non è sufficiente meditare di tanto in tanto sulla sua natura, occorre abbandonarsi completamente a Lui dimenticando totalmente le terrene occupazioni, accantonando ogni nostro affanno e soprattutto estromettendo dall'intelletto tutti gli altri pensieri. Le parole di Anselmo accomunano nello slancio di conoscere Dio sia la contemplazione mistica sia l'indagine compiuta con la sola ragione e suscitano forse più di una perplessità nel nostro contesto culturale abituato a distinguere l'intuizione mistica dalla dimostrazione logica, la percezione immediata del trascendente dalla conoscenza razionale. In realtà, come vedremo meglio nel prosieguo, la tensione mistica e il ricorso alla razionalità pura sono tutt'altro che inconciliabili nella mente di chi si interroga sull'esistenza di un Ente supremo e vuole conseguire su questo argomento una certezza assoluta, una verità unica e incontrovertibile. Misticismo e logica vanno sicuramente distinti quali forme diverse di conoscenza, ma non contrapposti come due atteggiamenti estremi che si escludono a vicenda. L'esperienza mistica non si realizza certo attraverso ragionamenti logici, bensì tramite un'illuminazione interiore, un senso non mediato dell'assoluto che va decisamente oltre i normali strumenti della conoscenza umana costituiti dalle percezioni sensoriali e dalla ragione. Tuttavia, essendo i nostri pensieri o le nostre immagini mentali del mondo esterno spontaneamente ordinati in concetti, quest'ultimi risultano necessariamente presenti anche nell'estasi mistica, ma vi intervengono prevalentemente come idee da contemplare (ad iniziare ovviamente da quella di Dio) piuttosto che come giudizi o proposizioni razionali su cui fondare delle deduzioni logiche. Come ha scritto il filosofo neotomista Jacques Maritain (1882-1973), «nell'esperienza mistica i concetti sono presenti: ma tutti i concetti distinti tacciono e dormono [...]. Se l'esperienza mistica passa attraverso questi concetti, non vi passa come attraverso un mezzo formale di conoscere che misuri e regoli la conoscenza»3. Eppure la storia dei tentativi di provare l'esistenza di Dio a priori (ossia prescindendo dall'esperienza sensibile) che ci accingiamo a percorrere è costellata di uomini che dall'intuizione mistica dell'Assoluto hanno tratto ispirazione per dimostrare per via rigorosamente logica quello in cui credono per 1 Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel fede o che, al contrario, da una dimostrazione razionale sono passati a uno stato contemplativo. Il problema della possibilità di trovare una prova logica dell'esistenza di Dio non riguarda e non può riguardare soltanto il mistico e il credente interessati a rintracciare una conferma razionale delle loro convinzioni di fede, non è circoscritto all'ambito della teologia naturale, ma investe tutti coloro che con obiettività cercano una risposta alla questione del senso delle cose, che si domandano la ragione per cui esiste questo complesso ordine cosmico piuttosto che il nulla. La vita umana, in particolare, dipende dalla risposta alla domanda sulla realtà di Dio: che ne siamo o non ne siamo consapevoli, in base alla risposta che ciascuno di noi da a tale interrogativo cambia totalmente il significato della nostra esistenza. Se rispondiamo positivamente, allora il «senso del mondo» potrà dirsi fondato, ma andrà cercato «fuori di esso»4. Se non rispondiamo perché non ci sentiamo in grado di rispondere, allora vivremo nella perenne incertezza circa l'effettivo significato della nostra vita. Se infine rispondiamo negativamente, dovremo precostituirci un alibi per giustificare la nostra presenza nel cosmo; e a questo scopo non sarà certo sufficiente il puro caso, che può forse risultare una spiegazione accettata dalla scienza, ma mai una ragione per vivere e per morire serenamente. Anche l'ateo e l'agnostico, se sono degli onesti e non superficiali cercatori della verità, non possono non sentire il dovere di verificare attentamente ogni argomento a favore dell'esistenza di Dio che venga formulato tramite ragionamenti logici. È perciò corretto sostenere che ogni tentativo razionale di affermare o negare un Ente supremo rappresenta sempre e comunque una sfida alla quale nessun essere pensante può sottrarsi, se non per ignavia oppure per stoltezza o, peggio ancora, per colpevole indifferenza. L'idea di Dio nasce originariamente nell'ambito della credenza religiosa e da questa è poi passata alla filosofia. Se il mistico percepisce l'immagine di un Essere trascendente da contemplare estasiato, se l'uomo religioso crede per fede alla presenza di un'Entità superiore da cui tutto dipende, il filosofo assume invece il concetto di Dio quale artefice del mondo per interrogarsi sul suo fondamento razionale, fino a farne il principale problema filosofico. Si può non condividere la scelta di concepire il problema di Dio come l'argomento centrale della riflessione filosofica, ma non si può certo negare che tale questione è sicuramente quella maggiormente ricorrente nella storia della filosofia occidentale. Infatti, «l'esistenza di Dio è il problema dei problemi: esso costituisce la conclusione di tutta la filosofia [...]. Il problema di Dio è il problema essenziale dell'uomo essenziale, dal quale ogni altro problema dell'esistenza prende l'ultima chiarezza»5. In questo contesto le cosiddette prove dell'esistenza di Dio costituiscono il crocevia attraverso il quale sono transitati pressoché tutti i grandi pensatori, sia che le abbiano negate o confutate sia che le abbiano formulate o confermate. Secondo le ispirate parole di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), «le prove dell'esistenza di Dio traggono la loro origine dall'esigenza di soddisfare il pensiero, la ragione; [...] nelle prove è contenuta l'elevazione dello spirito umano verso Dio, e che questo esse devono esprimere col pensiero. L'elevazione stessa è del pensiero e nel regno del pensiero»6. Siamo dunque in presenza di un'impresa meramente razionale, di una questione eminentemente logica, e non potrebbe essere 2 Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel altrimenti, dal momento che l'oggetto dell'indagine (l'Ente divino) non ricade in alcun modo sotto l'esperienza sensoriale. Rispetto al problema di Dio, la via logico-dimostrativa è pertanto assolutamente obbligata, poiché nessuno può sperare di conseguire delle prove empiriche dirette della sua esistenza, nessuno può sperare di imbattersi in una conoscenza intersoggettiva del trascendente, ma può al massimo ambire o a una percezione soggettiva di tipo mistico o a delle dimostrazioni logiche. Con «dimostrazione logica» intendiamo una serie concatenata di proposizioni derivate coerentemente le une dalle altre, secondo un ordine nel quale siano ben riconoscibili delle premesse vere che implicano una conclusione necessariamente vera. Il valore della dimostrazione logica è generalmente riconosciuto tanto in filosofia quanto nella scienza, mentre assume addirittura un carattere fondante ed essenziale nella matematica. La scienza ricorre all'inferenza logica quando formula delle ipotesi o propone delle teorie e da esse deduce i possibili effetti ancora non osservati, come fece ad esempio Albert Einstein (1879-1955) quando, sulla scorta della sua teoria generale della relatività, predisse che un campo gravitazionale capace di incurvare lo spazio avrebbe dovuto deflettere anche i raggi di luce. La matematica, in particolare, è una scienza basata su dimostrazioni rigorose a partire da assiomi ed ha costituito il modello di perfezione dimostrativa tanto per le scienze esatte quanto per buona parte del pensiero filosofico. La filosofia a sua volta, in quanto riflessione sui fondamenti e sul senso delle cose, applica alle conoscenze empiriche e agli stessi risultati conseguiti dalla scienza lo strumento della dimostrazione logica per individuare dei principi razionali universali. Essa, in altre parole, procede dal verificabile al dimostrabile, sottoponendo costantemente le sue conclusioni all'esame critico della ragione. Questo accade in primo luogo nella teologia razionale allorché, ad esempio, dall'esperienza che tutto quanto esiste ha una causa, si dimostra logicamente la necessità della presenza o di una causa prima incausata o di un essere che sia causa di se stesso (causa sui). Ai nostri fini è importante avere ben presente la differenza che intercorre tra «verità verificata» e «verità dimostrata» o «dimostrativa», tra ciò che si definisce «verificato» e ciò che invece si dice «dimostrato». Per farci capire la cosa migliore è ricorrere ad un semplice esempio. Ho ora tra le mani un libro di piccole dimensioni, un'edizione economica del Proslogion di Anselmo d'Aosta, e su di esso proferisco due affermazioni: 1) «Pesa un etto e cinquanta grammi»; 2) «È un testo teologico». Orbene, se voglio provare la verità dei miei due enunciati, devo seguire due procedimenti diversi: nel caso della prima affermazione mi devo dotare di una bilancia e pesare il libro; nel caso della secondo affermazione posso partire dal concetto di «testo teologico» a me noto e argomentare le ragioni per cui è applicabile al libro di cui sto parlando 7. Ebbene, con l'operazione di pesatura del mio libretto e la constatazione che il suo peso risulta effettivamente pari a centocinquanta grammi ho verificato la verità della prima proposizione; con l'argomentazione attraverso la quale faccio corrispondere l'idea di «testo teologico» al libro effettuo una dimostrazione della fondatezza del mio secondo enunciato. In altre parole, la «verità verificata» dipende sempre da una procedura empirica di accertamento (es. pesare un libro), mentre la «verità dimostrativa» discende da un ragionamento o inferenza a partire da asserti già reputati veri (es. il concetto di «testo teologico»). 3 Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel Sul validità scientifica della dimostrazione logica ben pochi nutrono dei dubbi; più controversa è viceversa la questione se per via dimostrativa si conseguono verità oggettive oppure verità soltanto possibili, se si dimostra cioè l'esistenza di oggetti reali oppure di enti potenziali o ipotetici. Uno dei campi principali nei quali si esercita la controversia intorno alla natura reale oppure soltanto formale delle dimostrazioni razionali è proprio quello delle prove logiche dell'esistenza di Dio. Chi infatti ne sostiene la validità è propenso a concludere a favore della tesi realistica, facendo dell'argomento ontologico una prova inoppugnabile dell'esistenza di Dio; chi per contro ne contesta il valore cognitivo è convinto che non si vada al di là di un mero esercizio logico-formale. Le prove logiche dell'esistenza di Dio nella storia del pensiero sono state definite in diversi modi, i principali dei quali sono: «prova ontologica», «argomento ontologico», «dimostrazione a priori». La definizione di «prova ontologica» o di «argomento ontologico» è stata utilizzata con grande risonanza dal filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) nella sua Critica della ragion pura, laddove appunto dimostra «l'impossibilità di una prova ontologica dell'esistenza di Dio»8. Oltre a ciò, Kant ricorre anche al termine di «ontoteologia» per riferirsi alla teologia trascendentale, ossia a quella forma di teologia filosofica «che presume di conoscere l'esistenza dell'Essere originario in virtù di semplici concetti, senza far ricorso ad alcuna esperienza»9. Nella scelta di tali denominazioni Kant è stato senza dubbio influenzato dalla metafisica di Christian von Wolff (1679-1754), che a quel tempo era uno dei filosofi più in voga e al quale si deve appunto l'introduzione del termine «ontologia» nella filosofia tramite il titolo latino di una sua opera del 1729: Philosophia prima sive Ontologia («Filosofia prima od Ontologia»)10. Sebbene le denominazioni di «argomento ontologico» e di «ontoteologia» siano ormai largamente acquisite dalla terminologia filosofica, va detto che esse sono contestate da tutti i medievalisti in quanto fondate su concetti sviluppati dalla filosofia moderna e sicuramente estranei alla cultura medioevale, che vide con Anselmo d'Aosta la prima compiuta formulazione della prova logica dell'esistenza di Dio11. La distinzione tra «prove a priori» (che procedono da puri concetti) e «prove a posteriori» (che dipendono dai dati empirici) è per contro prefigurata da Tommaso d'Aquino (1221-1274) nelle sue due opere più celebri (la Summa cantra Gentiles e la Summa Theologiae), anche se egli non ricorre espressamente a queste due definizioni, bensì a quelle di «demonstratio propter quid» (dimostrazione che procede dall'essenza o dalle cause) e «demonstratio quia» (dimostrazione che procede dagli effetti alle cause)12. Prima di Kant l'argomento ontologico era anche detto «prova a simultaneo» o «quasi a priori» perché non veniva ritenuto una dimostrazione a priori stricto sensu, bensì un ragionamento deduttivo che rispetto all'essenza di Dio procede da un concetto assolutamente «simultaneo», passa cioè immediatamente dall'idea di Dio alla sua reale esistenza. In altre parole, la nozione della natura di Dio e il concetto di Dio utilizzato nella prova ontologica stanno ontologicamente insieme, sono cioè correlati o simultanei (dal latino simul, «insieme») nel riferirsi alla stessa sostanza (Dio come essere perfettissimo), e risultano distinti soltanto dal punto di vista logico. La dimostrazione a simultaneo è di tipo analitico come l'argomento a priori e si fonda sul principio di identità («Ogni ente è sempre identico a se stesso»). I logici moderni, tuttavia, non distinguono la dimostrazione a priori da quella a simultaneo, poiché sotto 4 Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel l'aspetto logico-formale danno vita al medesimo schema dimostrativo, e noi riteniamo corretto seguire questo orientamento13. È opportuno precisare qui che con la nostra denominazione di «prove logiche» riferita esclusivamente agli argomenti a priori non vogliamo negare il carattere logico-dimostrativo degli altri procedimenti razionali a cui si è fatto ricorso nella storia della filosofia per dimostrare l'esistenza di Dio e chiamati normalmente «prove a posteriori». Come si è detto in precedenza, infatti, tutti i tentativi di provare razionalmente l'esistenza di Dio sono costituiti da argomentazioni logiche e assumono la forma di quello che per Aristotele (384-322 a.C.) era un «sillogismo apodittico», ovvero un ragionamento dimostrativo nel quale la verità della conclusione è necessariamente desunta da premesse già note e riconosciute come sicuramente vere14. A nostro giudizio, però, gli argomenti che meritano a pieno titolo il nome di «prove logiche» sono unicamente quelli che procedono da «verità logiche» (le tautologie del tipo «I padri sono uomini con prole») oppure da puri concetti a priori, prescindendo completamente da nozioni tratte a posteriori dall'esperienza sensibile. Soltanto nel caso degli argomenti a priori, del resto, ogni passaggio dimostrativo rimane all'interno della struttura logico-razionale (concetti, giudizi e inferenze) e si esplica esclusivamente attraverso l'analisi di un'idea non derivata dai dati empirici, ma già presente per qualche altro motivo nella nostra mente15. 2. È necessario dimostrare l'esistenza di Dio? Nell'alveo del pensiero occidentale c'è chi ha ritenuto inutile qualsiasi tentativo di provare razionalmente l'esistenza di Dio, poiché questa risulterebbe di per sé evidente alla mente umana. Non ci riferiamo alla via mistica, che con l'estasi instaura un rapporto immediato col divino e il cui valore conoscitivo risulta esclusivamente soggettivo, ma ai pensatori che ritengono sussistere un percorso diretto e oggettivo dell'intelligenza verso la conoscenza di un Essere trascendente. Tale conoscenza sarebbe secondo loro del tutto intuitiva, avverrebbe cioè tanto senza la mediazione del ragionamento logico quanto senza l'apporto dell'esperienza sensibile, e si manifesterebbe attraverso una visione di Dio o tramite una relazione diretta del nostro intelletto con la mente divina. L'indirizzo di pensiero che teorizza la percezione immediata dell'Assoluto sulla base dell'assunto che non si può conoscere Dio se non tramite Dio stesso è stato chiamato «ontologismo»; e questo a seguito della denominazione scelta per il proprio sistema filosofico da uno dei suoi principali rappresentanti: il filosofo italiano Vincenzo Gioberti (1801-1852). Gioberti ricorre a tale termine proprio per evidenziare come l'Intelligibile non possa dipendere per essenza dalle percezioni sensoriali o essere dedotto da idee precostituite: «Definisco adunque - egli scrive - lo psicologismo un sistema che deduce l'intelligibile dal sensibile e l'ontologia dalla psicologia. Chiamerò ontologismo il sistema contrario»16. In breve, secondo Gioberti l'ontologismo parte direttamente da Dio, mentre lo psicologismo parte dall'uomo in un duplice modo: o dalle sue sensazioni o dalle sue idee. Oltre a Gioberti, sono stati considerati ontologisti il roveretano Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e 5 Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel il francese Nicolas Malebranche (1638-1715). Mentre la collocazione di Rosmini tra gli ontologisti può essere oggetto di controversia, appare invece indiscutibile l'ontologismo di Malebranche, a buon diritto considerato il principale esponente di questa dottrina teologico-filosofica. Secondo il filosofo francese, infatti, possedere nella mente l'idea innata di Dio significa ipso facto «vedere Dio»; e vedendo direttamente Dio, vediamo in Lui le idee di tutte le cose da noi conosciute. «Solo Dio è conosciuto per se stesso - afferma Malebranche nell'opera intitolata La ricerca della verità -, infatti [...] Egli solo può illuminare lo spirito con la propria sostanza. [...] Quindi è necessario dire che si conosce Dio per se stesso, anche se la conoscenza che se ne ha in questa vita è molto imperfetta; e che si conoscono le cose corporee attraverso le loro idee, cioè in Dio, perché solo Dio racchiude il mondo intelligibile dove si trovano le idee di tutte le cose»17. L'ontologismo, insomma, è un sistema filosofico che dando per acquisita l'esistenza nell'intelletto umano di idee universali, tra le quali appunto quella di Dio, conclude che tali idee non possono che trovare origine in un Ente trascendente, che noi percepiamo con assoluta evidenza in modo diretto ed esclusivo. L'idea stessa di Dio è la prima idea colta dalla nostra intelligenza e dalla sua luce il nostro spirito viene illuminato alla conoscenza dell'infinito e di tutte le altre verità. Il percorso di conoscenza di Dio dell'ontologismo si svolge pertanto completamente all'interno della nostra mente. Se la percezione di Dio fosse tanto evidente e intuitiva come pretende l'ontologismo, non sarebbe dunque necessario ricorrere alle prove a posteriori, anzi quest'ultime andrebbero considerate come totalmente inefficaci e fuorvianti, dal momento che «l'Infinito non può essere rappresentato né dall'anima, né dai suoi modi, né da nulla di finito; che l'Infinito si può vederlo solo in se stesso»18. In un simile contesto gli argomenti logici diventano invece superflui, o tutt'al più strumentali a una migliore comprensione dell'idea intuitiva dell'Essere perfettissimo e necessario. Non è pertanto casuale il fatto che pressoché tutti gli ontologisti abbiano accolto e rielaborato l'argomento ontologico, mentre hanno generalmente rifiutato le dimostrazioni a posteriori. Così è avvenuto ad esempio per Nicolas Malebranche, sul cui pensiero dovremo certamente soffermarci per esteso in seguito. Forse per questo motivo alcuni studiosi hanno ritenuto di vedere nell'argomento ontologico una variante dell'ontologismo, ma a noi non pare proprio che si possa trarre una tale conclusione: un conto è infatti una visione intuitiva di Dio e un altro conto la deduzione logica della sua esistenza da un concetto predefinito19. La dottrina ontologista, ad ogni modo, ha prestato e presta il fianco a numerose obiezioni che ne minano inesorabilmente le fondamenta, rendendola chiaramente inaccettabile. 6