Lo scafandro e la farfalla

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Ternavasio Veronica
“Lo scafandro e la farfalla”
J.D.Bauby
"Ho appena scoperto che a parte il mio occhio ho altre due cose che non sono paralizzate: la mia
immaginazione e la mia memoria".
Così Jean-Dominique Bauby descrive la sua situazione in cui paralizzato dalla grave forma di ictus
che lo ha colpito si sente come imprigionato in uno scafandro ( il suo corpo). Il suo occhio che gli
permette di rimanere ancora in contatto con il mondo che alludendo al suo battere delle ciglia,
rappresenta la farfalla: con l'immaginazione, il desiderio e la possibilità di comunicare, il
protagonista esce dal suo corpo-scafandro, evade nel mondo dei sogni, dei ricordi. Jean-Dominique
Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d'ospedale. È il caporedattore di 'Elle' ,vittima di
un ictus devastante all’età di 43 anni, si ritrova intrappolato nel suo stesso corpo, da lui denominato
scafandro. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l'uso della parola oltre a quello
dell'occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo.
Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell'alfabeto ordinate secondo
un'apposita sequenza) potrà dire "sì" battendo una volta le ciglia oppure "no" battendole due volte.
Attorno a Jean-Do il mondo: un’ex-compagna ancora legata a lui, due bambini, una logopedista
particolarmente affettuosa, una silenziosa e premurosa copista. Attraverso i battiti delle ciglia di
Bauby, dimostra che c’è una via di fuga anche per una prigionia dalla quale apparentemente non
esiste evasione. Jean-Do trova così un nuovo scopo per la sua vita decidendo di raccontare la
propria esperienza, ripercorrendo le sue giornate, ricordando il passato, riflettendo sul suo futuro.
Viaggiare con la propria mente in luoghi lontani o in situazioni piacevoli che gli permettono di
provare piacere e di desiderare. Immaginerà così di viaggiare in posti sconosciuti, di fare l’amore in
riva al mare con la donna che ama, di mangiare del cibo succulento in un ristorante elegante e in
dolce compagnia, di baciare sulla bocca la fondatrice della clinica dove è ricoverato e che lui
immagina bellissima e vestita con un sontuoso abito dell’800. Il battito del suo occhio, che
assomiglia al battito d’ali di una farfalla, gli dà la possibilità di tirare fuori quello che grida dentro il
suo corpo. La farfalla contenuta all’interno dello scafandro, ossia il corpo inerte ed immobile, esce
fuori ad abbracciare la natura e le persone amate dal giornalista…“lo scafandro del corpo non
impedì alla farfalla dell’anima di uscire e comunicare”. L'occhio del protagonista diventa la soglia
che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la
farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l'orrore della
condizione e l'indomabile spinta all'espressione di sé. Si può osservare la descrizione di un corpo
che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa
strenua della vita né a favore dell'eutanasia.
Proprio in questo tirocinio sono a contatto con persone colpite da questa patologia quindi mi ritrovo
spesso a riflettere su quale sia il loro contatto con il mondo. Come infermieri dovremo essere in
grado quindi di permettere loro di fare volare questa farfalla entrando sempre in comunicazione con
loro e cercando quindi di scoprire chi ci sia all’interno dello scafandro. Per fare ciò dovremo essere
anche noi in grado di scavalcare il nostro scafandro. Sarà in quel momento che potremo effetuare
una presa in carico del nostro paziente comprendendo veramente cosa lui sa della sua malattia e
della sua condizione. Come obbiettivo quindi sarà quello di avere una cura totale prestata alla
persona affetta da una malattia non più responsiva alle terapie ottenendo la massima qualità della
vita possibile. La famiglia, che nel processo di cura rappresenta un elemento importante risulta
essere assente dimostrando una non accettazione della malattia del caro. Si definisce una non
accettazione di quello che la malattia si è portata via…il vero jean.
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