Salv. Romano - Buona Fede (dir. priv.) 83KB 20/03/2011 03.15

Enciclopedia del diritto
Romano Salvatore
Buona fede (dir. priv.) [V, 1959]
Sommario:
1. Il tema nella dottrina recente.
2. Valutazioni critiche e indicazioni di criteri d'indagine. La normativa di correttezza.
3. Buona e mala fede in riferimento alla successione degli atti di un procedimento giuridico. Regole generali ed esame
della fase preliminare della formazione di un contratto .
4. Buona e mala fede nella fase di conclusione dei contratti e patti in genere.
5. (Segue): Regole particolari.
6. Buona e mala fede e interpretazione del negozio.
7. Buona e mala fede nella esecuzione del negozio.
8. Rapporti tra la conclusione e l'esecuzione di un negozio nella disciplina della buona e mala fede.
9. In particolare: la nozione di buona fede sotto il profilo del comportamento.
10. Buona fede e trascrizione.
11. Buona fede e simulazione.
12. Buona fede e acquisti «a non domino»: considerazioni generali.
13. (Segue): In particolare degli acquisti relativamente a beni mobili (e titoli di credito).
14. (Segue): Richiamo a collegamenti tra procedimenti negoziali diversi.
15. Buona fede e acquisti «a non domino» relativamente a beni immobili e mobili registrati.
16. Cenno di altri istituti e considerazioni conclusive.
1. Il tema nella dottrina recente.
Si è osservato che il codice civile vigente menziona la buona - o mala - fede circa settanta volte (1) :
nel corso dell'esposizione saranno richiamate e commentate solo le più importanti ipotesi legislative.
Come è noto, la dottrina di ogni tempo e di ogni luogo fa riferimento al significato pregiuridico della
buona o mala fede; questo riferimento comporta identificazione con stati etici quali l'onestà, la lealtà,
la fede nella parola data, coscienza o coscienziosità e simili, per ciò che concerne la buona fede,
mentre l'antitesi di questi atteggiamenti richiama l'idea della mala fede.
Più difficile, per contro, si presenta la prospettiva dei significati tecnici, e, in particolare, giuridici.
Occorre anzitutto tener conto della storia e della varietà degli ordinamenti giuridici positivi, e può
rilevarsi che il tentativo di costruzione sistematica ha sempre incontrato gravi difficoltà, tanto da
dover considerare controversa, in relazione a tutti gli ordinamenti considerati, la materia della buona
fede: questo rilievo vale, soprattutto, per il diritto romano, canonico, germanico (2) .
Le medesime difficoltà si presentano per il diritto positivo italiano e pressappoco negli stessi termini.
In realtà non sussiste, al riguardo, un solo problema, come ad esempio quello di definire la buona
fede in sé e per sé; ma, strettamente connessa è tutta un'altra serie di problemi che sono, poi, i più
importanti dal lato giuridico. Tali, ad esempio, quelli che riguardano i rapporti con la frode, il dolo,
l'errore per un verso; per un altro quelli che hanno riferimento a «fatti obiettivi» estranei alla buona
fede in sé, ma richiesti dalla legge nella disciplina delle singole ipotesi (3) ; si pensi, tra le tante, alle
ipotesi più comuni degli acquisti a non domino (art. 1153 ss. c.c.). È evidente allora la portata di un
tema che, prima ancora di apparire prospettabile nel quadro di un collegamento con tanti altri
disparati problemi, esigerebbe la sua posizione sopra un piano di dottrine generali che sovrasti a tutti
quei problemi collegati. Alla luce di questo rilievo può apparire valutabile più agevolmente
l'orientamento - che è antico e moderno - di stabilire quale sia il significato, o, meglio, i vari
significati, della buona o mala fede nel diritto (4) .
È frequente il ricorso alla nozione della buona fede come fatto giuridico, cioè fatto dell'ordine
naturale, valutato dal diritto (5) . Questo fatto è ipotizzabile come psicologico o intellettivo o
volitivo, e in altro modo ancora. Si osserva però che il legislatore non segue una linea uniforme: caso
per caso si atterrebbe ad un significato diverso, e ad una valutazione diversa, di una conoscenza o di
una ignoranza. Ad esempio, alcune norme considererebbero la buona fede come fatto intellettivo;
tali l'art. 251 c.c. (riconoscimento di figlio incestuoso da parte del genitore che ignora il vincolo con
l'altro); l'art. 535 comma 3, c.c. (definizione del possessore di buona fede di beni ereditari nel senso
di colui che acquista «ritenendo per errore» di essere erede); l'art. 1147 c.c. (possessore di buona fede
è colui che possiede «ignorando di ledere l'altrui diritto»): da notare che in questi due casi non giova
la buona fede se l'errore dipende da colpa grave, che è riferita al momento dell'acquisto del possesso;
l'art. 1479 c.c. (ipotesi di vendita di cosa altrui la cui alienità sia ignorata dal compratore, e disciplina
dell'azione di risoluzione accordata in tal caso).
Per contro appare dubbio il mantenimento di uno stesso significato di buona fede in altre norme.
Per esempio nell'art. 1490 comma 2 c.c. (non ha effetto il patto di esonero da responsabilità per vizi
se il venditore sia in mala fede); nell'art. 1529 comma 2 c.c. (la regola per cui i rischi delle cose in
viaggio sono a carico del compratore non si applica se il venditore conosceva la perdita o l'avaria
delle merci al tempo del contratto); nell'art. 1579 c.c. (anche qui la malafede del locatore rende
inoperante il patto di esonero da responsabilità per vizi della cosa locata); nell'art. 1667 c.c. (il criterio
è analogo a quello dei casi precedenti: nell'appalto non cessa la garanzia per vizi dell'opera o
difformità dall'appalto, se i vizi e le difformità erano riconoscibili ma erano stati taciuti, in mala fede,
dall'appaltatore) (6) .
Queste norme non presentano soltanto il problema interpretativo in ordine al significato della mala
fede, in antitesi a buona fede, ma anche, e soprattutto, quello del collegamento con molte altre
norme a cominciare da quella dell'art. 1229 c.c. (limite del patto di esonero da responsabilità nella
colpa grave e nel dolo) e tutte le altre concernenti la invalidità nella conclusione dei negozi, e gli
inadempimenti. Tornando alla varietà dei significati delle espressioni che qui interessano, si trova una
norma in un certo senso anomala: l'art. 1366 c.c. (interpretazione dei contratti secondo buona fede);
si osserva (7) che qui la buona fede non è né un fatto psicologico, né norma di comportamento, ma
criterio «che interessa in tema di nessi tra fatti giuridici e vicende di rapporti giuridici» (8) . È però
dubbia la chiarezza di questo criterio che, vedremo meglio oltre, pone una norma interpretativa in
riferimento all'intenzione delle parti da valutarsi, a sua volta, nel quadro delle norme di
comportamento - di buona fede - che le parti stesse sono tenute a seguire. Tali norme - e qui appare
un ulteriore significato del termine - sono, tra le altre: l'art. 1337 c.c. (comportamento nelle trattative
secondo buona fede); l'art. 1349 comma 2 c.c. (determinazione dell'oggetto rimessa al terzo e
impugnativa in caso di prova della mala fede); l'art. 1358 c.c. (negozio condizionato e
comportamento di buona fede delle parti durante lo stato di pendenza); l'art. 1375 c.c. (esecuzione
del contratto secondo buona fede); l'art. 1460 comma 2 c.c. (principio dell'exceptio inadimpleti
contractus; legittimità del rifiuto di prestazione in caso di adempimento simultaneo ed illegittimità del
rifiuto contrario alla buona fede).
Arrivati a questo punto occorre chiedersi sotto quale profilo debba essere affrontato il tema della
buona fede, dato che, giuridicamente, l'aspetto di una definizione inevitabilmente implica tutte le
connessioni col sistema di cui si è fatto sopra cenno. Se si crede di poter prescindere da queste
connessioni può apparire facile limitarsi a registrare il significato della mala fede come conoscenza e
della buona fede come ignoranza, salvo a discutere, sull'una e l'altra, sotto il profilo del fatto
giuridico o sotto altro profilo (9) . Resta però il dubbio, ci sembra, fondato, che il tema posto in
questi termini non possa dirsi impostato nella sua vera consistenza tecnica. Questo rilievo implica la
nozione di criteri di impostazione completamente diversi da quelli correntemente seguiti nella
prospettiva del problema in esame.
2. Valutazioni critiche e indicazioni di criteri d'indagine. La normativa di correttezza.
L'esatto rilievo della varietà dei significati in cui può essere percepita da un codice la buona o mala
fede può indurre a ritenere che la portata delle indagini dirette ad individuarli non esuli dal campo
metagiuridico. La verità può essere che fino ad un certo punto offre un diretto interesse il «fatto»
buona fede e l'altro della mala fede. Quando, acutamente, si accoglie (10) una visione unitaria della
buona fede, «intesa in senso oggettivo, dell'agire sleale o scorretto in danno di altri» (11) sembra si
individui con esattezza il criterio di rilevanza giuridica di un comportamento in senso lato
(comprensivo quindi di dichiarazioni e di altri atti a contenuto psicologico). I cosiddetti fatti volitivi,
intellettivi, psicologici o altro in cui si sostanzierebbe la buona o mala fede, a prescindere dalle
innumerevoli controversie e dalla varietà delle concezioni nella storia del diritto, arrivano alla
considerazione della norma - statuale - già «filtrati» attraverso la considerazione di una altra
normativa i cui princìpi sono unitariamente concepibili e che può denominarsi normativa di
correttezza. Giova insistere sul rilievo che questa è richiamata in blocco dal codice (art. 1175 c.c.) in
relazione ai rapporti obbligatori. Ma è richiamata con vastità di accezioni nell'art. 2598 c.c. a
proposito degli atti che implicano concorrenza sleale e appaiono riassunte sotto i suoi princìpi tutte
le situazioni per cui si adoperano le espressioni di buona o mala fede in funzione degli aspetti
soggettivi inerenti all'accadimento dei fatti e allo svolgimento di atti e rapporti. Nelle «giuste cause»
nei «giusti motivi» nell'agire ignorando senza colpa, si hanno altrettante diramazioni dello stesso
concetto di normativa di correttezza. Ciò porta a considerare le formule legislative come estensibili,
oltre i casi esplicitamente disciplinati, ad ogni campo: non solo quindi tale normativa è tenuta
presente nella materia obbligatoria, ma ovunque si dirami un'oggettiva valutazione «dell'agire sleale o
scorretto» con o senza limiti di configurazione o di effetti. Quindi anche nei rapporti di famiglia,
successori, reali etc.
Questo punto richiede per altro dei chiarimenti cui sono però pregiudiziali altri chiarimenti sulla base
prescelta come punto di partenza, e cioè sulla normativa di correttezza (12) .
Non è certo recente la valutazione di essa, soprattutto nel campo del diritto pubblico: quivi la
nozione sembra orientata verso un significato di normativa non giuridica, ma giuridicamente
rilevante (13) . È stata altresì studiata la materia delle sanzioni giuridiche di norme non giuridiche
(14) : interessa rilevare che, secondo un'opinione, la colpa - intesa non solo come inosservanza di
norme giuridiche ma in riferimento a tutte le ipotesi in cui non si riscontrino, in un determinato
comportamento, la diligenza e la prudenza dell'uomo medio - sarebbe rilevante per lo più come
inosservanza di regole non giuridiche (15) .
Il solo accenno a questi profili sistematici indica la complessità di un vasto problema di teoria
generale che non è possibile affrontare in questa sede.
Dal punto di vista della teoria normativa del diritto non sembra dubbio che possa parlarsi di
normativa non giuridica riguardo a regole private che non abbiano seguito il processo di formazione
di una consuetudine, ed è certo che si può continuare a sostenere la stessa natura non giuridica anche
quando si è formata una consuetudine (16) .
Dal punto di vista di una dottrina diversa, quella pluralistica degli ordinamenti (o istituzionale), si
può concepire che l'intera questione possa essere posta diversamente nel diritto pubblico e nel
diritto privato. E precisamente nel senso che nel primo si possa individuare una normativa non
giuridica ma giuridicamente rilevante, e che ciò possa accadere proprio nei confronti della cosiddetta
normativa di correttezza, costituzionale o di altra natura. Ci sembra però dubbio che uno sviluppo di
questa dottrina nel settore del diritto privato non porti a diverse conclusioni: precisamente nel senso
di considerare pienamente giuridica un'ampia categoria di norme create negli ambienti privati,
naturalmente distinguendo queste norme a seconda del riconoscimento o meno che esse ricevano
dall'ordinamento statuale.
Ora, non sembra dubbio che la normativa di correttezza è riconosciuta ed è giuridica non solo
nell'ordinamento privato, ma rilevante come tale per l'ordinamento pubblico (17) . Possono
sollevarsi innumerevoli interrogativi sugli ulteriori requisiti di questa normativa, sulla sua portata ed
eventuali distinzioni da altre normative private, sul carattere di ius non scriptum in tutto o
eventualmente in parte, sul criterio di valutazione, contingente o meno, del comportamento tenuto
in osservanza o in violazione di quella normativa e su molti altri aspetti. Appare però indubbio il
valore di un principio: la regola di correttezza esiste, è giuridica, è rilevante. E ne discendono
corollari di rilievo: le norme «di rilevanza» o di efficacia cioè, per intendersi, statuali, siano esse di
forma o di sostanza, regolano i requisiti degli atti; sono, di conseguenza, statiche anche quando
concernono precedenze di atti rispetto agli altri. Per contro, le regole del movimento - della
dinamica, cioè, dei rapporti - sono private, concernono i privati mentre trattano, concludono,
interpretano, eseguono, e si concentrano nella cosiddetta normativa di correttezza.
Questa normativa concerne non solo il modo di «prospettare» gli elementi in un rapporto, ma anche
quello di «accogliere» la presentazione che di quegli elementi faccia la controparte. Le prassi che si
formano al riguardo non sono soltanto individuali, ma ambientali (v., ad esempio, art. 2598 c.c. sui
«princìpi di correttezza professionale»), mutano col mutare del tempo e del luogo pur restando
fermo, in via di principio, il criterio della rilevanza per l'ordinamento statuale. Il fenomeno è molto
più diffuso di quanto comunemente si percepisca: basta pensare all'ordinamento familiare che
registra profondi mutamenti di regole interne sull'esercizio dei poteri, mentre l'ordinamento statuale
interviene dall'esterno in base ad un concetto di abuso, variabile a seconda del tempo o del luogo, a
seconda dell'evoluzione di quelle regole; un giudice di oggi considererebbe abuso di poteri l'imporre
al coniuge limitazioni che molti anni prima sarebbero apparse giustificate, e questo pur restando
immutata la norma di un codice. Questo dà così rilevanza al principio della normativa di correttezza,
disciplinandone poi, in tutta una serie di norme, applicazioni particolari.
Occorre non confondere - e formuliamo il rilievo in un senso che vedremo in seguito - questa
disciplina con quella della colpa o del dolo, con cui per altro la prima è collegata, perché si tratta di
piani diversi su cui sono chiamati ad operare concetti sostanzialmente omogenei. Il grave problema
sta, per l'appunto, nello stabilire in che consista questa diversità di piani: in altri termini un primo
punto di indagine riguarda il concetto, tuttora misterioso per i civilisti, del procedimento giuridico.
Sulla base di quanto sopra esposto, sembra più agevole intendere il metodo di indagine qui seguito.
Prendendo come punto di partenza la normativa di correttezza, di cui saranno indicati passim
ulteriori aspetti, sarà considerato il profilo della buona fede e, prevalentemente, della mala fede, il cui
concetto è atto a spiegare meglio la nozione della prima, nei comportamenti e non nella valutazione
autonoma di «stati» intellettivi, volitivi, psicologici alla loro volta costitutivi o impeditivi di effetti.
Questo comportamento è inteso in lato senso: dichiarazioni, negoziali e non negoziali, atti di vario
contenuto psicologico, azioni materiali, azioni ed eccezioni in senso sostanziale e processuale. Gli
aspetti psicologici o gnoseologici sono valutati internamente alla stessa struttura di un atto nei suoi
elementi di motivo e di intento che appaiono direttivi del modo di «rappresentare» presupposti,
contenuto, normativo o meno, e di raggiungere i risultati.
Crediamo essenziale fondarci sulla linea del procedimento giuridico nel senso di seguire la
successione degli atti di formazione e di esecuzione di un negozio e, comunque, lo svolgersi di un
rapporto dalla formazione della sua fonte fino al suo concludersi. Proprio per togliere più
indeterminatezza possibile alle regole generali, troppo vaste e generiche, sembra opportuno insistere
sull'orientamento verso un criterio analitico col quale si valutano gli atti singolarmente, e nel
concatenamento di quello precedente col successivo. La buona fede è essenzialmente regola di
condotta di un rapporto: la piena giuridicità di questo si ha solo nella piena giuridicità di tutta la
condotta di esso; la frattura in un punto implica la sanzione dell'ordinamento di efficacia, in via di
regola, nei riguardi dell'intiero iter.
Non sembra il caso di considerare le ipotesi legislativamente contemplate, né come tassative, né
come esemplificative: la normativa di correttezza è l'intiero sistema privato del lecito e dell'illecito e
come tale non sembra si possano segnargli dei confini. Nel corso del lavoro sarà preso in esame,
particolarmente, il campo dei rapporti obbligatori perché rispetto ad essi è più rilevante il riferimento
legislativo: ma i princìpi che si cercherà di estrarre da quel campo hanno portata generale, con gli
opportuni adattamenti, ad altre zone del diritto privato e l'economia della ricerca non consente
completezza. A questo proposito, si vedrà (§ 12) come vi sono dei casi - prevalentemente nella
materia degli acquisti a non domino - in cui la normativa di correttezza ha una rilevanza particolare e
diversa da quella che, in via di principio, ha nella materia obbligatoria. Questa rilevanza apparirà
ridotta non solo in relazione agli acquisti sopra accennati, ma ad ogni altro campo, in cui la
considerazione di prevalenti interessi, di ordine pubblico, prescinde dalla regola di correttezza e
ispira una disciplina legislativa divergente (ciò può valere anche nella materia del diritto di famiglia).
Svolgendo il tema del procedimento in relazione ai rapporti obbligatori da contratto o patto, la
trattazione avrà riguardo all'attività rappresentativa di presupposti negoziali, del contenuto,
dell'intento in conformità e in difformità alle regole di comportamento e alle conseguenze di una
violazione delle regole stesse. Seguiranno gli altri settori del procedimento; conclusione (§ 4),
esecuzione (§ 7), con un'analisi degli aspetti di rapporto tra questi due settori (§ 8), con un cenno dei
procedimenti collegati (§ 14) e di quel particolare procedimento che la legge esige formalmente
completo tra non dominus e terzo acquirente ai fini della legittimazione dell'acquisto del terzo stesso (§
15).
Una valutazione di rapporti tra mala fede, frode e dolo, della responsabilità e di altre sanzioni
conseguenti sarà trattata in relazione alla divisione dei settori del procedimento (prevalentemente
però nel § 8). Della colpa si è preferito, stante il problema della sua sistemazione nel quadro della
normativa privata e della parziale connessione con la normativa di correttezza, trattarne soprattutto
sotto il profilo di una inosservanza dell'onere di accertamento (18) . Questi rilievi non sistematici
hanno lo scopo di agevolare al lettore la comprensione di un'analisi necessariamente frammentata in
cui molte e fondamentali nozioni sono spesso indirettamente e fugacemente richiamate (v. ad
esempio, i temi della presunzione della buona fede, dell'onere delle prove [§ 9], del dubbio [§ 5], dei
rapporti tra la dottrina canonistica e quella civilistica [§ 12], dei limiti di rilevanza posti dalla legge
allo squilibrio causale derivante dal conseguimento di un risultato ottenuto violando le regole di
correttezza [§ 9]).
3. Buona e mala fede in riferimento alla successione degli atti di un procedimento giuridico. Regole generali ed esame
della fase preliminare della formazione di un contratto .
Sembra opportuno un primo chiarimento in merito a quanto rilevato nella conclusione del paragrafo
precedente, nei seguenti termini: le dottrine dell'invalidità degli atti e, in particolare, quella
concernente i cosiddetti vizi del consenso, errore, violenza, dolo, è stata normativamente tradotta
non solo nella disciplina dei negozi ma anche in considerazione di un momento - o fase - dominante:
quello della conclusione dei negozi stessi. Ora il momento della conclusione non è certo il solo
nell'iter di formazione e di esecuzione del negozio. Si ha l'impressione che il legislatore sia rimasto
nell'incertezza, allorché si è trovato a dover disciplinare quegli atti che precedono e gli altri che
seguono, rispetto al momento della conclusione.
Di qui una frammentaria normativa di richiamo degli stessi concetti soprattutto di dolo, frode,
errore, colpa e altri, in molti dei casi sopra esemplificati. Di qui, ancora, il ricorso all'efficacia
conferita ad una normativa diversa - quella di correttezza - che, nella sua indeterminatezza, pone i
più gravi problemi.
Può affermarsi comunque che questa normativa sembra concernere quegli aspetti dinamici del
procedimento cui si è sopra accennato e che occorre ulteriormente chiarire, ad integrazione delle
norme fondamentali sulla conclusione del negozio: non sembra dubbio, infatti, che una esecuzione
in mala fede del contratto dovrà porsi, ai fini della responsabilità, sullo stesso piano di una
inesecuzione, a parte la difficoltà di cogliere il senso di una situazione - mala fede - relativamente
fluida rispetto ai casi di macroscopico inadempimento.
Le ragioni di questa carenza legislativa (e prima di tutto dogmatica) devono rinvenirsi nel difetto di
esplorazione della materia concernente il collegamento degli atti di un procedimento. Questo appare
studiato nella dottrina pubblicistica più che in quella privatistica (19) e sotto punti di vista divergenti.
Qui si accenna al procedimento nel significato della successione degli atti e delle situazioni giuridiche
che si iniziano, partendo dalla individuazione del soggetto e di ogni altro presupposto soggettivo e
oggettivo (quindi anche dall'analisi del potere e della legittimazione al suo esercizio), con l'esercizio
del potere normativo - o negoziale - fino allo esaurimento del ciclo con l'ultimo atto esecutivo (20) .
È noto un criterio secondo cui il collegamento tra questi atti e l'impulso a procedere sarebbe affidato
alle figure tecniche dell'onere e dell'obbligo (21) . Può aggiungersi che ognuno di questi atti o di
queste situazioni è suscettivo di una valutazione autonoma sotto il profilo dei requisiti soggettivi ed
oggettivi richiesti per la produzione di essi.
Ciò ha rilevanza sotto vari aspetti. Anzitutto a varie considerazioni si presta quella fase
contrassegnata da una fondamentale libertà di esercizio dei propri poteri, quale è la cosiddetta fase
precontrattuale o di trattativa (art. 1337 c.c.). Com'è noto, si configura anche per esse una possibilità
di colpa, in senso lato, e di una conseguente responsabilità definita, per l'appunto, precontrattuale
con una frequente identificazione di questo tipo di responsabilità con quelle extracontrattuali (22) :
questa affermazione non è esatta come non lo è in circostanze sostanzialmente non diverse quali, ad
esempio, quelle relative alla rottura di una promessa di matrimonio (art. 79 c.c.).
La verità è che non siamo dinanzi a situazioni di «non» rapporto che caratterizzano l'extracontratto a
norma degli art. 2043 ss.; si tratta invece di rapporti veri e propri che si svolgono nel quadro di una
normativa privata: per l'appunto quella della correttezza. Ciò importa anzitutto un aspetto sotto il
quale si precisa il significato di questa normativa; secondariamente un altro aspetto per cui la colpa è
valutata sotto il profilo di una violazione della stessa normativa. Più precisamente il concetto di giusta
causa di rottura, di giustificato motivo, sono suscettibili di concretezza solo su questa base in cui
l'ordinamento configura l'esercizio del proprio potere essenzialmente libero, ma considera anche la
frattura di un iter in cui sono rilevanti spese, affidamenti, tempo, occasioni perdute (23) .
Piuttosto sembra opportuno tentare di approfondire alcuni aspetti della normativa di correttezza alla
cui osservanza la legge rinvia e dalla cui violazione la legge fa derivare conseguenze. Si è sopra
rilevato come questa normativa sia chiamata ad operare su un piano, per così dire, sottostante a
quello della conclusione di un negozio, ed anche a quello di una fase esecutiva, considerate - l'una e
l'altra - nei momenti e negli elementi più rilevanti, e che sono oggetto di diretta disciplina legislativa.
Questa considerazione richiederà altri approfondimenti sul rapporto fra i due piani - normativo ed
esecutivo - e lo esamineremo tra breve. Per il momento interessa cogliere il meccanismo o la
struttura, che dir si voglia, di questa normativa in relazione al comportamento da essa richiesto.
È il caso di rilevare come sia oggetto di scarsa considerazione l'indagine rivolta a precisare la natura
di quegli atti definiti prenegoziali e formatori dei negozi, i quali prendono, rispettivamente, il nome
di proposta e di accettazione. Ne deriva una grave indeterminatezza circa il modo e la natura stessa
dell'atto conclusivo, compiuto il quale un negozio è da considerarsi esistente, mentre per altri
procedimenti, ad esempio quello di formazione della legge, l'analisi appare più completa e sicura.
Comunque, poiché non è questa la sede di esame del problema prospettato, si rinvia alla letteratura
sull'argomento (24) , e si accenna qui solo ad alcune conclusioni. Proposta e accettazione sono atti la
cui natura può essere positivamente chiarita in quanto se ne precisi il carattere non negoziale, e ciò
nel senso della attribuzione di un carattere rappresentativo di un contenuto negoziale o normativo.
L'accettazione è atto adesivo ad una presentazione (proposta) di un atto rappresentativo; il concorso
paritario dei contraenti in ordine alla formazione del contratto non si ha tanto nel campo
rappresentativo, in cui si rinvengono l'iniziativa di un primo soggetto e la risposta di un secondo,
quanto nell'intento negoziale, che è quello, comune ai due contraenti, di dar vita ad una regula juris
(25) .
Ora questo meccanismo è fondamentalmente identico in tutti i casi di accordo, altro concetto
essenziale per l'intelligenza del procedimento giuridico nello svolgimento di tutte le sue fasi (26) .
Per quanto sia percepito in modo più evidente nella fase di conclusione di un contratto e in
connessione con tutti gli elementi di questo, precisati nell'art. 1325 c.c. - e soprattutto con la
presenza di una causa - (27) , il meccanismo di un gioco di rappresentazioni offerte da una parte,
accolte o meno dall'altra, domina ovunque si formi, si interpreti, si esegua secondo le formule
dell'accordo. Diremo anche, contrariamente a correnti rilievi (28) , come, proprio in sede di
interpretazione, sia stato osservato che dichiarazioni e comportamenti implicano quella coerenza e
quella concludenza in vista delle quali incombono alle parti oneri di responsabilità di condotta (29) .
Si pensi, infatti, alla stessa fase delle trattative e alla progressiva puntualizzazione degli elementi
negoziali attraverso di esse. La stessa «presentazione» dei presupposti, soggetto, oggetto, situazioni
del soggetto rispetto al negozio (30) , è prevalentemente materia di atti rappresentativi, a parte certe
operazioni al fine di mostrare qualità, buon funzionamento ed altri aspetti direttamente percepibili
degli oggetti, per esempio, offerti in vendita. Ognuno di questa atti di rappresentazione richiede
l'osservanza di una linea di correttezza, in quanto contiene l'accertamento di un dato «rappresentato»
come realtà di fatto o di diritto, unilateralmente. Così, ad esempio, il soggetto entra in rapporto
qualificandosi non soltanto sulla base degli elementi indicatori della sua identità personale, ma anche
di quelli relativi all'arte o alla professione esercitate, alle sue capacità, alla sua posizione morale nel
mondo degli affari. Solo una parte delle violazioni della regola di correttezza sarà rilevante in sede di
conclusione del negozio sotto il profilo del dolo o dell'errore. In misura ancora minore certe
violazioni alle stesse regole implicano conseguenze particolari come quelle di escludere dall'azione di
annullamento il minore che ha occultato con artifizi e raggiri di essere tale (art. 1426 c.c.) o di
concederla nella reticenza dell'assicurato (art. 1892 c.c.). Ai fini della validità dell'atto non hanno
molta rilevanza la maggior parte delle suddette violazioni: nella fase preliminare lo stesso richiamo
all'accertamento della legittimità di provenienza delle cose acquistate quando, tra l'altro, «la
condizione di chi le offre» dovrebbe indurre a sospettare la provenienza di essa da un reato (art. 712
c.p.), non sembra conducente ad un principio generale di un onere di diligenza nel vaglio delle
rappresentazioni sopra esemplificate. Beninteso, ciò vale ai fini di rilievi sulla validità dell'atto: il più
delle volte, purtroppo, il soggetto imputet sibi una mancanza di accortezza che poi si troverà a
scontare in sede di esecuzione. Ad ogni modo, in sede di trattativa, e sempre restando inteso il
principio delle libertà di esercizio del potere di contrarre, gli atti si precisano come quelli logici della
conclusione: sono rappresentazioni offerte e accettate con acquisizione progressiva di dati di
accertamento. La buona fede domina in questa fase preliminare del procedimento nel senso di un
dovere di presentazione in conformità della realtà e non solo di una realtà generica ma di quella
specificamente aderente alla causa del contratto, e cioè di quel particolare scambio che si intende
effettuare e che a volta può richiedere competenze, situazioni di legittimazione, del tutto personali.
In via di principio chi accetta queste rappresentazioni accede, legittimamente, ad un accertamento
unilateralmente offerto dalla controparte, accogliendolo, e può quindi dirsi operante una
presunzione di buona fede (31) . Per contro la mala fede - che mutua ab antiquo i suoi caratteri dalla
fraus e dal dolus - (32) mentre la buona fede richiama quelli della coscienziosità, rettitudine, onestà
ecc. (33) legittima la rottura della trattativa, nonché l'obbligo di risarcire il danno particolarmente
connesso con l'atto compiuto in mala fede.
In un certo senso chi rappresenta un dato offre all'altra parte alcunché in ordine al quale non è lecito
considerare quest'ultima come uno stultus, ignarus o negligens, bensì, alla stregua della concezione più
antica, come prudens o peritus o diligens (34) . La buona fede riposa sulla legittimità dell'affidamento in
questa osservanza di norme di correttezza, tanto più che, solitamente, nella trattativa gli oneri sono
bilaterali e quindi reciproci.
Beninteso che sul piano pratico non sempre è facile giustificare il fondamento di una richiesta di
danni, in casu, e fuori delle ipotesi in cui venga riscontrata una precisa violazione di una norma di
correttezza. Occorre tener presente il concetto di procedimento, nel senso che nella fase preliminare,
sia pure questa contrassegnata dalla libertà di esercizio dei poteri negoziali, ogni atto, per quanto in
una atmosfera attenuata, resta dominato da quello stesso intento negoziale che presiede alla sua
conclusione. Comunque non sembra dubbio che il compimento di un atto di quella fase determina
l'affidamento che sarà concluso l'atto successivo consequenzialmente e logicamente.
Col termine «affidamento» si ritorna al tema della concatenazione degli atti di un procedimento
giuridico in sede pre-negoziale: se si richiede un dato e se, con sacrificio che risulti doversi
affrontare, il dato viene offerto e poi si interrompono le trattative, la esigenza di buona fede, intesa
come esigenza di comportamento corrispondente ad altro comportamento conforme alla
correttezza, implica considerazione del danno prodotto. I limiti dell'interesse negativo circoscrivono,
del resto, l'ipotesi anche nella situazione di revoca della proposta a norma dell'art. 1328 c.c. (nel caso
che la revoca arrivi all'accettante quando questi «in buona fede» ha intrapreso l'esecuzione).
Può rilevarsi ancora come la sottoposizione degli atti rappresentativi, nella fase delle trattative, e in
particolare per ciò che concerne i presupposti, su cui verte presentemente il discorso, alla normativa
di correttezza, implica una valutazione di reciprocità in questo senso. Si consideri, ad esempio, la
rappresentazione di un minore che con artifici e raggiri si affermi maggiore (art. 1426 c.c.), offerta
alla controparte. L'accettazione di questo dato, da parte del destinatario, è sottoposta alle stesse
regole di correttezza che valgono per colui che «rappresenta»: vale cioè l'accertamento prospettato,
in assenza di una fonte di accertamento di diversa provenienza - o autonoma -, che, in tale esempio,
ristabilirebbe la verità.
Non osserverebbe la regola in esame chi non opponesse la propria e diversa rappresentazione,
perché siamo, ovviamente, in tema di rappresentazioni che conducono ad un accertamento; in altri
termini l'accettazione, nella ipotesi esemplificata, sarebbe contro buona fede o in mala fede che dir si
voglia, e potrebbe trarsi la conseguenza che il contraente non possa giovarsi degli effetti della
malafede del minore (esclusione della azione di annullamento: art. 1426 c.c.): questo perché non si è
verificato quell'errore che è conseguente al dolo, anzi ha corrisposto ad essa un altro inganno cui
potrebbe ascriversi una portata neutralizzante gli effetti del primo. Il che, ancora una volta, pone in
risalto quegli aspetti attivi della buona o mala fede nel senso di una valutazione giuridica interessante
non gli stati di conoscenza, ma i comportamenti alla luce di una precisa regola.
Ovviamente il gioco dei contraenti può essere valutato nel quadro di una più o meno rigida
concezione comunemente definita morale e, certamente, il riflesso di una elasticità in materia sul
rigore della corrispondente normativa di correttezza è inevitabile; i concetti giuridici, peraltro,
restano gli stessi, salvo a ritenersi corretto in un ambiente o in un'epoca un comportamento che non
è più tale in altri ambienti o in altre epoche.
Abbiamo prospettato degli esempi in materia di atti rappresentativi di presupposti soggettivi nella
fase di una trattativa, traendone regole che valgono anche per gli altri presupposti, quali l'oggetto e la
legittimazione. Anzi può, in relazione a questi, osservarsi un più deciso intervento legislativo nelle
ipotesi di malafede, a parte gli aspetti regolati in sede di conclusione del negozio e in relazione alle
norme sull'invalidità. I più importanti rilievi che possono formularsi in ordine all'oggetto e alla
legittimazione incidono, per altro, nella fase di conclusione, su cui conviene soffermarsi.
Superata la fase della trattativa, gli atti assumono, ad un dato momento, il carattere rappresentativo
di un contenuto negoziale o normativo. Successivamente ancora, colla conclusione del contratto,
nasce il vincolo per le parti; occorre chiedersi, rispetto a questo vincolo, quale portata abbiano gli atti
rappresentativi concernenti l'oggetto e la situazione di legittimazione: sembra comunque opportuno
formulare i relativi concetti in sede di trattazione della buona fede nella fase conclusiva ed esecutiva
del negozio.
4. Buona e mala fede nella fase di conclusione dei contratti e patti in genere.
La fase delle trattative si presta a delineare dei concetti di buona e mala fede, depurati, in un certo
senso, da interferenze con molte altre espressioni concettuali che complicano fortemente
l'argomento quando si giunga alla fase conclusiva del procedimento.
Sarebbe opportuno, in sede dogmatica, scindere quest'ultima nelle due distinte fasi della conclusione
e della esecuzione di un negozio, per quanto nella valutazione di una attività antigiuridica - in senso
lato - la considerazione legislativa accomuni spesso momenti normativi e momenti esecutivi.
Comunque vi sono molti casi in cui la distinzione viene formulata: così ad esempio l'art. 1338 c.c.
pone un'obbligazione di risarcimento a carico della parte che conoscendo o «dovendo conoscere» la
esistenza di una causa di invalidità del contratto non ne ha dato notizia all'altra parte che ha
«confidato senza sua colpa» nella validità del contratto; i reati di circonvenzione di incapace (art. 642
c.p.) e di usura (art. 643 c.p.) sono perfezionati con la sola conclusione del negozio, mentre il
contrarre una obbligazione col proposito di non adempierla, quando l'adempimento non segua,
configura il reato di insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.).
Per contro la valutazione della colpa e del dolo viene molto spesso compiuta nel senso di accordare
al danneggiato una azione di risoluzione e non di annullamento, dandosi quindi rilievo al profilo
dell'inadempimento (v., ad esempio, gli art. 1479; 1329 comma 2, 1579 c.c. supra cit.) pur trattandosi
di attività antigiuridica concretatasi nel momento conclusivo del contratto. Su altri casi ancora buona e mala fede nel possesso - si ha riguardo a momenti esecutivi (art. 1153 ss.) ma con molte
ragioni di dubbio circa le connessioni coi negozi che precedono quei momenti, sia in relazione allo
stesso codice civile, sia al contenuto di varie norme penali (ad esempio, art. 648, 712 c.p.).
In sostanza tornano, in questa sede, in considerazione quegli atti rappresentativi prevalentemente
esaminati in relazione ai presupposti soggettivi, oggettivi, e al loro rapporto (legittimazione); nella
fase conclusiva però l'atto è divenuto completo con la rappresentazione dell'intiero contenuto
negoziale e l'intento delle parti ha conferito ad esso valore di norma e, quindi, vincolante (35) . Il
campo dei comportamenti contrari al diritto appare in tal modo di proporzioni notevolmente
ingrandite, cui fa riscontro non solo una molteplicità di concetti per distinguerle, ma anche una
rilevante confusione terminologica, indice della imprecisione dei primi. Già la materia della buona
fede richiama varietà di espressioni: lealtà, correttezza, ignoranza, erronea conoscenza che, come si è
visto, si aggiungono ora a concetti e termini di colpa, dolo, frode alla legge, frode in danno dei
creditori, ecc. (36) .
Non è certo agevole, nell'attuale stato della dottrina e della giurisprudenza, il tentativo di introdurre
criteri di orientamento.
5. (Segue): Regole particolari.
Diciamo subito che, sul piano del diritto privato, la norma fondamentale di comportamento, in tutte
le fasi di un procedimento negoziale, resta quella della correttezza.
La prima valutazione di ogni violazione di essa si compie nel terreno della mala fede cui si aggiunge
la grave negligenza così come al dolo si assimila tradizionalmente la colpa grave (v. art. 1338 c.c.:
colui che conoscendo o «dovendo conoscere»...). E si compie in base ai criteri indicati in relazione
alla fase delle trattative: l'atto col quale si rappresenta, accerta unilateralmente una realtà di fatto o di
diritto; la correttezza impone di accertare fedelmente in buona fede, col richiamo quindi non
soltanto ad un'idea di affermazione di una verità ma anche a quella di un discernimento di cui, nella
condotta giuridicamente rilevante, deve essere fornito il soggetto sia pure nelle varie gradazioni della
età, dello sviluppo mentale, delle capacità professionali o comunque tecniche. Viene quindi a crearsi
un nesso tra questi vari elementi in modo da conferire alla buona fede un aspetto, per così dire
attivo, e non solo quello statico di uno «stato»: non importa tanto quel che si sa o non si sa, ma quel
che si fa o si dichiara sulla base di quel che si sa o non si sa (37) .
Non sembra quindi che possano sorgere antitesi concettuali con questo concetto di base, ma
soltanto ulteriori qualificazioni degli stessi atti contrari alla correttezza e a seconda della particolare
specie della violazione e degli interessi particolarmente lesi, o dell'entità della violazione stessa.
Occorre tener presente che nella rappresentazione di presupposti o del contenuto normativo non
importa soltanto il rilievo analitico della corrispondenza di singoli atti rappresentativi ai criteri della
buona fede o meno. Importa molto di più quell'atteggiamento complessivo sotto il dominio
dell'intento e cioè del «mirare a» un determinato risultato. Questo intento, che è normalmente quello
di creare una regola e attraverso di essa un risultato di ordinamento (38) , è anche valutabile in tutti
quegli aspetti anormali più frequentemente studiati nei temi della volontà non seria o scherzosa o
nella simulazione.
Occorre però studiarlo anche sotto altri aspetti - sempre anormali - in cui è rilevante la direzione di
quell'intento verso il raggiungimento di un risultato sia di norma, sia di altro oltre la norma. Così una
fase di procedimento, o preliminare, o conclusiva, può apparire diretta ad un impossessamento di
denaro o di altri beni, cioè più ad una esecuzione carpita che non ottenuta attraverso un'obbligazione
di eseguire. In questo senso appare esatta un'affermazione giurisprudenziale (39) che configura un
dolo causam dans che non differisce, circa i suoi estremi, da quello richiesto per il reato di truffa (art.
640 c.p.).
Per contro può aversi rappresentazione «orientata» secondo un intento di minore gravità: il
contenuto normativo viene disposto in modo da provocare un errore di conoscenza - accettazione di
un atto rappresentativo con falso accertamento - o di valutazione, anch'essa effetto di prospettive
create ad arte. La violazione della norma di correttezza assurge a dolo, anche se l'autore dell'atto
confidi nella validità e quindi nell'efficacia della norma - negozio - posta in essere come fonte di
un'obbligazione vera e propria. Anche in questo caso pur partendo dalla stessa base - piano di
normativa di correttezza - l'entità e il particolare profilo della violazione concretano una figura
(dolo).
Ma si tratta di un gioco di rappresentazione secondo le direttive di un intento: e, in fondo, può
giustificarsi, sotto questo profilo, una circostanza che a prima vista colpisce: cioè come non solo
opere istituzionali, ma anche trattati, dedichino, relativamente, poche considerazioni al dolo in
quanto attività di inganno (40) . La verità è che una valutazione autonoma del dolo si rende possibile
solo fino ad un certo punto: la configurazione di esso non è che l'espressione di un particolare
atteggiamento di un fenomeno molto più vasto e interessante la norma penale oltre quella civile. Di
tale fenomeno se ne coglie, nel dolo, quella limitata manifestazione di una mala fede che si estrinseca
nella creazione di un negozio e se ne circoscrive la valutazione al negozio.
Per poco che il consenso si ottenga rappresentando - in mala fede - una falsa legittimazione, in
quanto, per esempio, si venda cose non proprie o rubate, o si miri ad un possesso e non ad una
proprietà, lo stesso comportamento diventa rilevante sotto altri aspetti civili e penali che
sommergono la valutazione trascurabile di un atto negoziale in quanto tale. Così la rappresentazione
di presupposti e di contenuto offerta contro realtà da un soggetto che stipuli un contratto di
compravendita di un bene, ma si trovi in situazione passiva sì da esser passibile di azione revocatoria
(art. 2901 c.c.), eleva la violazione a quella particolare figura che qualifica l'atto come compiuto in
frode ai creditori (41) . Sotto questo profilo anzi possono cumularsi le qualificazioni: così la figura
del cosiddetto abuso di diritto concerne soprattutto le alterazioni funzionali degli atti di esercizio di
poteri, diritti, interessi che però competono ad un soggetto; si tratta di alterazioni del fattore causale
che non sempre implicano mala fede, per lo meno sul piano privato (42) . Ma accade assai spesso
che tali atti si compiono in violazione della normativa di correttezza: così nell'esempio di atto in
frode ai creditori surriportato si sorpassano quei limiti della discrezionale disposizione dei propri
beni imposti dalle esigenze di garantire i propri creditori (art. 2740 c.c.).
Si noti come questo profilo della mala fede come atto di rappresentazione consapevolmente
contrario alla realtà in ordine ai presupposti con conseguente vizio dello stesso atto sotto l'aspetto
dell'accertamento unilateralmente offerto e accettato è suscettivo di molti sviluppi e di graduazioni
fino alle sfumature del concetto.
Nell'ulteriore sviluppo del procedimento il gioco della rappresentazione del contenuto normativo si
aggiunge a quello dell'attività precedente e concernente i presupposti, sotto le direttive di un intento
che, praticamente, determina l'innumerevole quantità di combinazioni, non riducibile a sistemi né a
formule: sarebbe opera vana il tentarlo come sarebbe vano ridurre a formule l'inesauribile fantasia
degli artisti - sia pure con riferimento alla materia delle truffe o del raggiro -. Occorre rilevare che la
mala fede ha modo di estrinsecarsi nelle forme più abili per cui si rende difficilmente percettibile
l'alterazione di qualche elemento; l'alterazione è complessiva e frutto di un'abile prospettiva nella
manovra di presentazione degli elementi negoziali e del contenuto negoziale. La normativa di
correttezza impone una linearità di comportamento secondo le regole della buona fede in tutte le fasi
di un procedimento; ma mentre è facile applicarle nelle ipotesi di evidente elusione, diventa
malagevole percepirne i contorni nelle ipotesi che rasentano i limiti del lecito.
Il rilievo importa sotto il seguente punto di vista: nonostante l'esuberanza di concetti e di termini,
non sembra che dottrina e giurisprudenza tendano a valicare le configurazioni di concetti
tradizionali. Così ad esempio un negozio, per vizio del consenso, è impugnabile in quanto sia
configurabile errore (spontaneo), dolo (errore provocato), violenza. Certe situazioni, per così dire,
intermedie, in cui appare difficile rinvenire vero e proprio dolo, finiscono per condurre alla
esclusione dell'impugnativa per non esservi gli estremi né di un errore provocato né di un errore
spontaneo (43) . Questa rigidità di concetti può essere attribuita al punto di partenza adottato che
muove cioè da quelle figure che rappresentano gradi di entità o qualificazioni di un comportamento
e non dalla base che è per l'appunto il comportamento stesso in mala fede o eccessivamente abile, se
si vuole adottare un eufemismo. Un comportamento può non giungere a «provocare» un errore, può
giungere però a giustificarlo nel quadro di una rappresentazione di elementi negoziali e di un intento
in qualche modo individuabile in rapporto ad un risultato perseguito (44) .
Qualche norma sembra autorizzare questa estensione: vedi ad esempio l'art. 1667 c.c. per cui
l'accettazione dell'opera da parte dell'appaltante, anche se i vizi sono riconoscibili, non fa cessare la
garanzia se l'appaltatore li tace, in mala fede (v. art. 1579 c.c.). Può comunque ritenersi, in generale,
che un approfondimento dello studio sulla normativa di correttezza renda possibile maggiori risultati
di inquadramento di ipotesi che non ragionando, come accade correntemente, sulla base di concetti
consequenziali e terminali rispetto a quella normativa di base.
6. Buona e mala fede e interpretazione del negozio.
Sono noti alcuni fondamentali aspetti dell'interpretazione del contratto (art. 1362 ss. c.c.). La norma
base esprime il criterio dell'indagine sulla «comune intenzione delle parti» senza limitarsi al senso
letterale delle parole. L'indagine, quindi, investe il comportamento; si osserva, molto profondamente,
che questo «consenso più intimo» viene valutato come criterio di orientamento interpretativo, «base
di un canone ermeneutico che sta sullo stesso piano del principio della buona fede (art. 1366)».
Occorre anche, in questa sede, modificare una diffusa impostazione di questa materia sotto profili di
ordine etico, e ricercare criteri tecnici di ricostruzione dell'atto normativo ed esecutivo privati.
La norma privata, libera da intralci di configurazione formale e da altro che non sia effettiva sostanza
logica, dovrebbe corrispondere in ogni suo aspetto alla determinazione del soggetto considerata in
ogni suo elemento ed atteggiamento. Avviene invece, per il carattere esterno e obbiettivato della
norma in cui si concreta questa determinazione, che molti aspetti, anche normativi, ma per lo più
esecutivi, restino affidati ad elementi di interpretazione e di condotta del rapporto di carattere
interno; il più delle volte ad intese o intenti o taciti riferimenti, ad usi di fatto o anche normativi.
Tutto questo è, però, pieno diritto: in senso lato e impreciso ricorda il rapporto tra il lato esterno e
quello interno della fiducia. La vita autonoma delle norme, nella disciplina dei rapporti tra soggetti
diversi e tra questi e lo Stato, implica restrizioni all'ammissione di limitazioni alle prime, a carattere
interno, ove non fosse altro per ragioni di prova (v. art. 2721 ss. c.c.). Ma nei casi in cui la
valutazione di questa intesa e di questa condotta del rapporto implichi la constatazione di atti
rilevanti, approssimativamente riassunti in un comportamento interno conforme o difforme della
norma, l'ordinamento statale impone la considerazione di questo prolungamento dell'attività
giuridica oltre alla risultante formale e sostanziale del negozio. E qui si rileva un aspetto attivo della
buona e mala fede (45) . Spesso nel dire, non dire e disdire, risiede il fondamento di quella esigenza
interpretativa che si conclude in un accertamento non solo del significato della formula contrattuale
(46) ma anche di responsabilità conseguente al comportamento di mala fede.
Rimane però il dubbio che considerazioni di più grave portata debbano formularsi nel caso in cui il
contratto incontri particolare difficoltà di ricostruzione: il principio della conservazione del contratto
è espresso in note norme (v. soprattutto l'art. 1367 c.c.), ma non sembra sufficiente. Si afferma
autorevolmente (47) che da questa materia esula una valutazione sotto il profilo della validità (vedi
art. 1323 c.c.).
È però il caso di far presente quell'ipotesi di dissenso che, nella specie, si concreta nella presenza di
una reticenza fraudolenta (48) : è allora possibile ravvisare una nullità o addirittura una inesistenza, le
cui responsabilità devono però essere regolate a norma dell'art. 1338 c.c. a carico della parte in mala
fede.
Sotto altro aspetto incide sul terreno della interpretazione (nonché, come vedremo, su quello della
responsabilità) il silenzio dell'atto in ordine alle precise scadenze di importanti obblighi delle parti;
tale silenzio favorisce quei comportamenti dilatori concernenti il compimento degli atti di
formazione del negozio: la redazione del contratto definitivo, la redazione di strumenti trascrivibili
(v. art. 1543 c.c.); la fissazione del termine (v. art. 1883 c.c.) e altri, resi possibili da una lacunosa
redazione della parte negoziale.
Comunque, e a conclusione dei rilievi qui accennati in relazione, per così dire, al tracciato della linea
normativa, si ha in questi casi un vasto problema di conoscenza dell'ordinamento privato in ordine
alla completezza della sua struttura e in rapporto all'ordinamento statuale chiamato a valutare la
rilevanza di un'attività stratificata. E il piano di questo rapporto è, per l'appunto, quello della
normativa - privata - di correttezza.
7. Buona e mala fede nella esecuzione del negozio.
Il campo più vasto in cui opera a normativa di correttezza è quello dell'esecuzione, in
corrispondenza, del resto, della maggiore estensione dei comportamenti esecutivi rispetto a quelli
normativi (dichiarazioni negoziali). Domina al riguardo la norma generale che è contenuta nell'art.
1175 c.c.: «il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza». Ad essa
fa riscontro la norma speciale di cui all'art. 1375 c.c.: «il contratto deve essere eseguito secondo
buona fede». È però da chiedersi quanta rilevanza abbiano, nel sistema, queste norme che pure
dovrebbero essere considerate fondamentali.
Giova ricordare come, nel diritto germanico, si sostenga la validità dell'exceptio doli generalis del diritto
romano (49) , mentre il codice svizzero (art. 2) esclude ogni protezione giuridica per l'attività
contraria alle regole della buona fede e degli usi. La norma dell'art. 1175 c.c., se fosse rigorosamente
applicata, porterebbe gravi conseguenze per i contraenti, e gli obbligati in genere, in mala fede, e ciò
oltre le sporadiche norme che sembrano ricollegarsi alla prima, nel senso di un diniego di tutela (50) .
Possono intanto formularsi alcuni rilievi, in generale. Nella fase esecutiva la mala fede presenta
caratteristiche diverse, almeno di regola, da quelle delle fasi precedenti. Il rapporto, nel suo aspetto
effettuale rispetto ad una causa, implica una valutazione sotto il profilo di un'esigenza: quella della
conformità alla norma. L'attività esecutiva non è che l'attuazione della norma (51) ed il suo
svolgimento è dominato dalla regola nota della diligenza (art. 1176). In relazione a questa operano i
concetti di colpa e di dolo. Quest'ultimo però assume un significato - quello di volontario
inadempimento o, comunque, di volontarietà del fatto illecito - rispondente ad un'autonomia di
figure: può ragionarsi rispetto al dolo in exsecutivis come si è ragionato per il dolo concernente la
conclusione del negozio, si ha, cioè, una configurazione dell'aspetto più evidente - ed estremo - della
violazione di una norma. Il linguaggio legislativo è tutt'altro che preciso e quindi adopera lo stesso
termine - dolo - in significati diversi: sono più aderenti al significato vero e proprio del dolo quelli
che includono l'idea di un raggiro e quindi più vicini a quella mala fede che opera sottilmente nel
senso di una sorpresa della buona fede. Nella fase esecutiva, con una valutazione indipendente da
quella che può farsi anche sulla base della mala fede, ma nell'ipotesi estrema dell'inesecuzione
volontaria, la mala fede stessa prende corpo in una consapevole difformità dell'esecuzione della
norma, con raggiro. Ciò può riferirsi all'esecuzione in senso stretto, alle prestazioni: ad esempio,
varie norme si riferiscono ai vizi della cosa venduta o locata, o ai vizi dell'opera conosciuti e lasciati
ignorare. La legge toglie efficacia, in questi casi, ai patti di esonero da responsabilità e pone regole
più rigorose di impugnativa (v. art. 1490-1579, 1667 c.c.). Ma la difformità può anche riferirsi alla
condotta di un debitore in tutta l'attività esecutiva: atti di scelta, di specificazione, consegna di
documenti, e così nei differimenti, nelle eccezioni dilatorie ecc.
Il gioco del tempo entra spesso a far parte di un comportamento in mala fede: un'interessante norma
è quella dell'articolo 2941 n. 8 c.c., per cui la prescrizione è sospesa «tra il debitore che ha
dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto.» Ed è
noto il caso - nel diritto germanico - del debitore che riesca a trattenere il creditore dal chiedere
l'adempimento, salvo ad eccepire la prescrizione, una volta raggiunto il relativo termine: tale
comportamento si considera illegittimo. Tutto il campo della condizione, poi, appare dominato da
esigenze di correttezza (v. art. 1358, 1359 c.c.) come vedremo tra breve.
In sostanza mentre la mala fede, nelle trattative e nella fase di formazione del negozio, opera
prevalentemente sul piano di una attività rappresentativa (dei presupposti: del contenuto negoziale e
guidata da un intento), nella fase esecutiva opera sulla base degli atti dovuti e compiuti in difformità
dalla norma non tanto apertamente ma surrettiziamente: in un certo senso la formula
dell'occultamento doloso contenuta nell'art. 2941 n. 8 c.c. rende l'idea del comportamento lesiva
della buona fede del creditore. Mentre un'altra formula, quella dell'art. 2598 n. 3 c.c. in materia di
concorrenza sleale, esprime uno notevole gamma di sfumature nel valutare quel comportamento
lesivo.
8. Rapporti tra la conclusione e l'esecuzione di un negozio nella disciplina della buona e mala fede.
Per comodità di ipotesi sono stati divisi i settori di un procedimento nelle fasi di trattative,
conclusione ed esecuzione di un negozio e, particolarmente, ci si è riferiti ai contratti. Queste
divisioni sono state tracciate al fine di individuare la configurazione della normativa di correttezza
secondo i princìpi delle varie parti di un procedimento. Occorre però osservare che la legge appare
lontana da ogni sistematica. Da un lato erige a norma generale la correttezza e vi si richiama
ripetutamente. Dall'altro, regola in modo particolare, disorganicamente e senza collegamenti con la
norma base dell'art. 1175, casi singoli di mala fede, buona fede, colpa (in relazione a doveri di
conoscenza, alias di accertamento: v. anche art. 648 c.p.), dolo (in più significati) frode (anche essa in
vari significati). Rimane compito della dottrina quello di sistemare e collegare risalendo alla norma di
base.
I problemi sono molti e difficili e non è da presumere di riuscire a risolverli se non attraverso
un'analisi prima di tentare una qualsiasi sintesi. Di qui l'insistenza che si è posta nel separare le varie
fasi di un procedimento contrattuale, da quella preliminare alle successive di conclusione e di
esecuzione. Una delle prime conseguenze sembra quella di poter precisare il duplice atteggiamento
della normativa di correttezza sul piano delle dichiarazioni (rappresentazione di presupposti,
contenuto negoziale, intento) e del comportamento. Questo rilievo potrà contribuire ad una
configurazione dell'intera normativa oltre i rapporti tra debitore e creditore e le speciali
combinazioni di questi rapporti (ad esempio: simulazione, come vedremo) e, quindi, fuori dal campo
obbligatorio. Potrà anche servire a distinguere un piano - lato sensu - contrattuale da uno
extracontrattuale: è interessante, ad esempio l'articolo 2598 c.c. su gli atti di concorrenza sleale, ai fini
di un criterio legislativo sulle dichiarazioni e comportamenti lesivi della sfera altrui, surrettiziamente
atteggiati ad atti di legittimo esercizio di diritti e poteri nella sfera propria. La normativa di
correttezza rappresenta quella configurazione primaria in cui appaiono allo stato solido i criteri
fondamentali del lecito e dell'illecito elaborati dagli ordinamenti privati; immediatamente al di là della
linea di quella configurazione operano, fluidamente, tutti quegli elementi pregiuridici che
appartengono alla etica individuale e sociale. Le ulteriori configurazioni tecniche non sono che
ulteriori elevazioni di concetti e di figure al di sopra di quella linea di base.
Ora, nel valutare l'angolo visuale di un codice, giova l'analisi dei singoli aspetti del procedimento, ma
solo come premessa per lo studio del trattamento che il codice riserva alle situazioni in cui le fasi del
procedimento si presentano interferenti o combinate, e quindi con una molteplicità contemporanea
di aspetti di mala e buona fede. Superfluo rilevare che si tratta dei casi più gravi: basta pensare alla
simulazione e alla ipotesi di acquisto a non domino.
Intanto può accennarsi a qualche criterio che sembra si possa desumere dalla legge. Alla mala fede si
reagisce con un'azione di responsabilità per danni, autonoma anche rispetto all'azione di nullità (vedi
art. 1338 c.c.) e all'impugnativa per dolo causam dans (mentre sussiste come unica azione in caso di
dolus incidens: art. 1440 c.c.). La stessa azione compete per la mala fede nella fase esecutiva cui si
aggiunge, normalmente, la azione di risoluzione nel quadro di un inadempimento (v., ad esempio,
art. 1489 ss., 1578 ss., 1668 c.c.). La stessa azione compete ancora nei casi in cui la mala fede opera
proprio nel collegamento tra fase normativa e fase esecutiva per un gioco di rappresentazioni e di
intento e, per di più, l'azione non compete da sola ma in aggiunta ad altre di varia natura.
Così per la vendita di cose altrui la cui alienità sia fatta ignorare al compratore, l'azione di
responsabilità è unita a quella di risoluzione (art. 1479 c.c.). Quando l'obbligazione è contratta col
proposito di non adempiere si ha addirittura un reato (art. 641 c.c.). Un altro caso interessante
concerne la valutazione della condizione sospensiva meramente potestativa che, a norma dell'art.
1355 c.c., è nulla e rende nullo il contratto cui è apposta. Com'è noto il criterio distintivo tra questa
specie di condizione e l'altra, potestativa semplice - che è valida - non è posta con chiarezza nelle
trattazioni in materia; soprattutto non si pone abitualmente in luce che si tratta di un rapporto tra la
norma - negozio - e la sua esecuzione. Le formule del codice Napoleone esprimevano chiaramente
questo rapporto: è nullo il contratto, è nulla la donazione la cui esecuzione sia rimessa all'arbitrio del
contraente, del donante. Per contro la deduzione di un fatto futuro ed incerto rispetto al quale la
volontà del contraente sia libera di determinarsi, ma in un modo autonomo rispetto al negozio, non
comporta contraddizione tra la norma e l'obbligo di eseguire che, per definizione, pone la prima.
Viene però a crearsi tra il negozio così condizionato e la determinazione autonoma nei confronti di
altro evento, un rapporto di cui la buona fede - espressamente richiamata dall'art. 1358 in
riferimento alla condizione pendente - acquista portata essenziale. Si tende ad escludere un sindacato
sui motivi che abbiano indotto il debitore a compiere o meno il fatto (52) ; non sembra però da
escludere una prova di mala fede dello stesso tipo di cui all'art. 1358 c.c. con conseguente
responsabilità connessa ad un inadempimento. Appare anche fondato il dubbio se non ricorrano gli
estremi dell'applicazione dell'art. 1359 c.c. (mancanza della condizione per fatto imputabile alla parte
avente interesse contrario a verificarsi della medesima) quando l'attività e l'inattività della parte
concerna non la determinazione, ma l'impedimento dello stesso fatto in ordine al quale la
determinazione, in un senso o nell'altro, avrebbe dovuto essere presa: si intende che questa
situazione acquista rilievo in collegamento col negozio condizionato e qualora si rinvengano gli
estremi di un comportamento in mala fede; in generale però si ammette che l'art. 1358 c.c. si applichi
anche nelle ipotesi di colpa; non si formulano però soluzioni di rapporto con l'art. 1355 c.c. (53) .
Comunque anche nel caso prospettato l'atteggiamento della legge sembra orientato sul piano
dell'esecuzione (nel senso cioè di un inadempimento).
Occorre aggiungere, a questo quadro, una altra serie di rilievi di un ordine diverso. La mala fede
espone alle conseguenze di una azione di responsabilità. Ma espone anche ad una reazione specifica,
per cui la parte in buona fede si oppone all'azione dell'altra parte in mala fede (54) : tende cioè ad
impedire il conseguimento o la conservazione dei vantaggi ottenuti e dei diritti connessi mediante
atti strutturalmente idonei; ciò in quanto questi atti appaiono inficiati da un concorso di circostanze
soggettive che ne alterano la funzione (tipico abuso del diritto) o violano in una o in altra direzione
la normativa di correttezza. Sembra potersi desumere questa regola non solo dal carattere della
normativa in questione, il cui dovere di osservanza ha un senso in quanto si legittima una parte ad
opporre la violazione all'altra, ma anche dalle numerose norme speciali: vedi art. 1426 c.c.
(occultamento con raggiri della minore età), art. 1359 c.c. (avveramento della condizione), art. 1460
c.c. (eccezione di inadempimento col limite dell'illegittimità di un rifiuto contrario alla buona fede),
art. 1490 comma 2 c.c. (inefficacia del patto di esonero da responsabilità se il venditore sia in mala
fede), art. 1579 c.c. (idem per il caso del locatore in mala fede), art. 1667 c.c. (idem nel caso
dell'appaltatore in mala fede), art. 1447, 1448 c.c. Da queste ipotesi può trarsi un criterio per casi
espressamente non contemplati: così per il debitore che trattenga il creditore dall'esigere il credito
per opporgli poi la prescrizione a termine maturato; parrebbe logico privarlo dell'eccezione di
prescrizione. Così per quella «giusta causa» di non adempimento (promessa [art. 1990 c.c.]; promessa
di matrimonio [art. 81 c.c.]; rottura di trattative etc.) in quanto fondate sulla violazione della norma
di correttezza compiuta da una parte e opposta dall'altra.
9. In particolare: la nozione di buona fede sotto il profilo del comportamento.
L'argomento in esame richiede che l'accento vada posto sulla mala fede in quanto l'aspetto negativo
illustra meglio la violazione di una normativa di correttezza e dei doveri da essa imposti.
Implicitamente però viene a precisarsi l'aspetto positivo - buona fede - che caratterizza dichiarazioni
e comportamenti osservanti la normativa in esame. L'indagine svolta dovrebbe infatti porre in luce
l'esigenza di un'attività rappresentativa dei presupposti - soggetto, oggetto, legittimazione - aderenti
alla realtà di fatto e di diritto, generale e particolare al rapporto in caso di svolgimento. Dovrebbe
anche porre in luce l'esigenza di un'attività rappresentativa del contenuto negoziale e la portata di un
intento che «orienta», per così dire, le rappresentazioni dei presupposti e del contenuto.
A questo punto però può ritenersi necessaria l'aggiunta di considerazioni particolari sulla buona fede
a quelle espresse, sotto il profilo della mala fede, nel senso generico di una fraus o di un dolus.
Positivamente, infatti, la normativa di correttezza esige un comportamento che non è rapportabile
soltanto al parametro della realtà di fatto o di diritto e che si concreta in un accertamento. Entrano
in gioco tutti quegli elementi di una condotta giuridica più sostanziale e aderente alle qualità
rievocate da Francesco RUFFINI dell'uomo prudens, peritus, diligens. Si verte in campo tecnico: non si
può prescindere quindi da un discernimento che, anche al di fuori delle regole generali, non potrà
essere richiesto in misura inferiore a quella di una corretta formula contenuta nell'art. 1389 c.c.
(capacità... avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto) e non si potrà prescindere dai
fattori causali richiesti per i tipi regolati dalla legge, e nell'art. 1322 c.c., in forma di regolamento di
interessi ritenuti meritevoli di protezione.
Questi fattori - dalla predisposizione dello scambio, fino all'attuazione - sono subordinati ad esigenze
di equilibrio sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo: le norme sull'azione di rescissione - 1447
c.c. -, sulla risoluzione per eccessiva onerosità - 1467 c.c. -, per sopravvenienze varie - 803, 687 c.c. (55) , ed altre, rappresentano valutazioni di squilibrio causale i cui risultati oggettivi entrano in
considerazione in dipendenza di valutazioni soggettive.
Ma non si può andare molto oltre nel tentativo di precisare questa profonda esigenza di un equilibrio
causale nel cui rispetto l'attività - l'autonomia - privata può assolvere la sua funzione del giusto
contemperamento di interessi. Si può invece andare molto più a fondo riprendendo in esame la
materia sotto il profilo negativo di uno squilibrio causato dalla mala fede e in quel gioco di intenti e
di rappresentazioni determinanti il falso, la frode, errori provocati, giustificati, dolo, approfittamento
etc. Va da sé che da questo rilievo negativo all'esigenza di una perfetta osservanza della correttezza
c'è la distanza che corre dal principio al caso concreto; l'elasticità in termini giuridici e, ovviamente,
morali, non è sopprimibile. Però l'analisi domina, in sede pratica, la portata di una sintesi che perde
l'inevitabile indeterminatezza di contorni, quanto più si ponga l'accento sui singoli atti del
procedimento giuridico: tanto più minuta sarà la distinzione, l'individuazione di essi, tanto più ricco
sarà il campo di valutazione in relazione all'intento perseguito, della buona o mala fede che presiede
il compimento di quegli atti. Sotto questo aspetto è il caso di proporre il massimo approfondimento
possibile dello studio del procedimento.
Formuliamo altri rilievi: non solo nella conclusione dei negozi, ma ovunque si rappresenti, quindi
anche nelle trattative, a chi propone un atto di rappresentazione sta di fronte chi si pronuncia,
accettando o meno. La parità dei contraenti rispetto all'intento negoziale sussiste in minor misura sul
terreno della rappresentazione in cui si abbia l'iniziativa di un proponente. In certi negozi prendiamo i traslativi per la maggiore importanza - le posizioni di chi aliena e di chi acquista sono da
tenersi separate per la portata di regole spesso dettate per una posizione, e indipendentemente da
quelle che concernono l'altra posizione (lo vedremo per gli acquisti a non domino). Quel che importa,
qui, notare, concerne una regola di comportamento: in via di principio chi rappresenta accerta
unilateralmente e assume la responsabilità della rappresentazione e dell'accertamento (56) . Colui al
quale viene «offerta» una rappresentazione può tenere un vario comportamento. Se è in possesso di
dati conducenti ad un accertamento diverso da quello cui conduce la rappresentazione dell'altra
parte, ha il dovere - di buona fede - di contrapporli; in caso contrario cadrebbe in un
comportamento di mala fede con le conseguenze cui si è supra accennato (57) . Se non ha questi dati,
appare legittimato l'affidamento nel senso che sono accettati rappresentazione e accertamento come
rispondenti a realtà.
Un limite a questa regola è costituito da quel discernimento che la legge rapporta al «diligens» con un
criterio di normalità: il criterio della riconoscibilità di un errore, dei vizi palesi di una cosa, il
ragionevole sospetto di provenienza illecita di cose offerte in vendita, l'età visibilmente giovanile del
soggetto o evidenti segni di squilibrio mentale del medesimo, sono elementi che impongono un
onere di accertamento, indipendentemente da dichiarazioni rappresentative, e l'inosservanza fonda
una colpa. Al di fuori di queste ipotesi che si mantengono nell'ambito di normali percezioni
dell'uomo medio e rispondenti ad un minimo criterio di condotta giuridica che è, pur sempre, una
condotta tecnica, la buona fede è legittima e, sotto questo aspetto è presunta (v. art. 1147 c.c.); la sua
maggiore tutela è, inoltre, nella responsabilità della parte in ordine ai propri atti di rappresentazione.
Occorre rilevare, a questo punto, che questa tutela può ridursi ad entità trascurabile quando sono in
gioco diritti dei terzi. Può non essere necessario un accertamento oltre le rappresentazioni offerte ai
fini delle responsabilità interne. Sussiste, però, il problema della buona fede all'esterno del rapporto
perché l'apparato normativo tutela solo una parte delle situazioni di buona fede rispetto ai diritti dei
terzi. Un contraente in buona fede a titolo oneroso è sufficientemente difeso dal pericolo dell'azione
revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.), ma lo è meno dall'azione revocatoria fallimentare (art. 65 ss. l.
fall., r.d. 16 marzo 1942). È tutelato l'acquirente a non domino, e in buona fede, se l'acquisto concerne
beni mobili (art. 1153 c.c.), ma è molto meno valida la tutela dell'acquirente di beni immobili, di
universalità di mobili e di mobili registrati (v. art. 1156 ss. c.c.). E anche riguardo al terzo di buona
fede la tutela subisce incrinature in casi come quello di acquisto di beni provenienti da incapaci (art.
1445 c.c.). E una situazione interna di buona fede di un acquirente, in base a titolo non trascritto,
non è rilevante all'esterno, come tale, in quanto non può essere ignorato il limite di configurazione nel senso di un limite di efficacia di fronte al terzo - del proprio titolo di acquisto (v. art. 2864 c.c. e il
caso, limite, dell'art. 2644 c.c.). È quindi misura di normale prudenza quell'accertamento
documentale e informativo intorno a persone e cose e ai relativi rapporti: la buona fede interna non
salva nei casi in cui prevale la tutela di altri interessi.
Questi rilievi però rappresentano il principio di un non breve discorso: quando la legge tutela la
buona fede all'esterno, di fronte a terzi creditori, ad esempio, o legittimi titolari, non segue un
criterio uniforme. Soprattutto nei casi noti come di acquisti a non domino, la «legittimazione» di un
acquisto in buona fede ha regole che talora prescindono dal sistema degli acquisti derivativi in modo
pressoché completo: giova però un'analisi di casi speciali prima di trarre alcune conclusioni.
10. Buona fede e trascrizione.
Si nota, giustamente, che «sulla via della pubblicità si scorgono chiaramente due ordini di interessi:
quello che ha la sua radice nella fondamentale esigenza di notorietà... e quello che si ispira alla
necessità di apprestare mezzi tecnico-giuridici per risolvere situazioni di conflitto tra interessi
privati». Ambedue gli ordini di interessi hanno natura pubblica (58) e le relative norme, inderogabili,
sarebbero di ordine pubblico. A questi rilievi altri, e non pochi, potrebbero aggiungersi più
direttamente inerenti alla natura della trascrizione (e della iscrizione).
Può intanto osservarsi, in relazione alla materia in esame, come, in generale, accanto all'osservanza
dei requisiti formali si ponga l'esigenza della buona fede (v. art. 1414 c.c., 1153 ss. c.c. e tutte le
norme sulla invalidità in genere). Ma vi sono dei casi in cui la buona fede non rileva ai fini delle
validità di un acquisto: si tratta dei casi contemplati dalla nota norma dell'art. 2644 c.c. e dalle altre
collegate. Ed è noto che la soluzione legislativa in favore di un acquisto posteriore - e senza rilievo di
buona fede - costituisce tuttora materia di problema (59) . Può formularsi un rilievo secondo il quale,
fermo restando il carattere pubblico - o di ordine pubblico - delle norme sulla trascrizione, l'intera
materia vada posta su di un piano che sta ancora al di sopra degli interessi accennati: la trascrizione
rappresenta un elemento formale di conoscenza sulla base del quale opera lo stesso riconoscimento
statuale - cioè l'attribuzione di efficacia - di atti e di risultati in termini di ordinamento (60) .
Non è pertinente allo studio della buona fede uno sviluppo di concetti sull'efficacia e, soprattutto,
sulla portata dell'atto di alienazione non trascritto - o non ancora trascritto - ex art. 1376 c.c. Qui
importa osservare che, ai fini dell'acquisto, la buona fede non rileva, come, correlativamente, non
rileva la mala fede dell'alienante. Ciò non vuol dire che i comportamenti non abbiano importanza
sotto altro profilo: precisamente sotto quello di una azione revocatoria ex art. 2091 c.c. e in presenza
di tutti gli altri estremi, naturalmente, a rinforzo dell'azione di responsabilità per danni esperibile dal
primo acquirente (61) .
11. Buona fede e simulazione.
Lo stato della dottrina sulla simulazione rende problematica la trattazione di ogni argomento
connesso. Secondo una corrente opinione il negozio simulato è nullo (62) . Conseguentemente la
giustificazione dell'acquisto in buona fede del simulato acquirente (v. art. 1415 ss.) viene ritrovata
nell'apparenza del diritto (63) , senza peraltro contrastare col carattere derivativo dell'acquisto stesso
(64) . Beninteso che, nel generale riferimento della buona fede a stati soggettivi di conoscenza o di
ignoranza, non è pacifico che cosa si intende per buona fede: per alcuni sarebbe ignoranza
dell'alienità della cosa (65) , per altri ignoranza dell'intesa simulatoria (66) . Il primo orientamento
pone la mala fede sotto un aspetto più grave, soprattutto se si segue l'opinione qui esposta, che pone
l'accento su un comportamento più che sullo stato soggettivo; potrebbe apparire plausibile, se si
tratta di beni mobili, un collegamento con le norme penali sull'appropriazione indebita (art. 646 c.p.),
salvo altri collegamenti con diverse figure di reato, non esclusa la truffa (art. 640 c.p.) in presenza
degli ulteriori elementi richiesti dalle relative norme. La seconda opinione appare per vari motivi
preferibile, soprattutto se si ritiene, secondo una corrente, che la simulazione non comporti - regola nullità (67) , che il negozio simulato sia visto dall'ordinamento statuale come valido ed efficace e ne
siano soltanto paralizzati o - sostituiti - gli effetti dall'intesa simulatoria. In questa ipotesi il terzo di
mala fede estende a sé quell'intesa in modo da non poter fondare sull'abuso del diritto compiuto dal
simulato acquirente nessun maggior diritto di quello spettante a quest'ultimo, in conseguenza
dell'accertamento della simulazione, assoluta o relativa (68) : l'azione di accertamento si estende così
al terzo, pregiudizialmente ad altre azioni, ad esempio di rivendicazione, oltre, si intende, a quella per
danni. La stessa regola deve osservarsi nei casi di abuso di fiducia - cosiddetti negozi fiduciari - e
sulla base delle affinità della relativa azione di accertamento con quella diretta ad accertare la
simulazione (69) .
12. Buona fede e acquisti «a non domino»: considerazioni generali.
Sembra opportuno, a questo proposito, un cenno di qualche rilievo concernente i princìpi.
Siamo partiti dalla considerazione della normativa di correttezza come fondamento della disciplina
della buona e mala fede. L'ordinamento statuale pone, come si è visto (art. 1175 c.c.), questa regola
privata a base, della propria, ulteriore, normativa. Quando però si verte nella materia possessoria i
princìpi fondamentali dai quali occorre partire sono da rinvenirsi nello stesso ordinamento
possessorio e non più nella normativa di correttezza.
Può comprendersi come per un ordinamento quale il canonico, le cui esigenze rispecchiano un
rigido collegamento con la conscientia dei soggetti, l'intiera materia sia apparsa particolarmente delicata
e di difficile trattazione; e non può disconoscersi l'imponente portata della dottrina canonistica
soprattutto nei collegamenti della buona fede col tema della prescrizione che, di per sé, non
potrebbe determinare una liberazione dall'obbligo di restituire la cosa non propria (70) .
In realtà, per l'ordinamento statuale, il problema si pone in dipendenza dell'altro concernente la
presenza dell'ordinamento possessorio, le ragioni della tutela del possesso, della legittimazione di
questo col decorso del tempo o istantaneamente (art. 1153, 1994 c.c. e norme collegate). Si tratta di
ragioni di ordine non privato, e, più precisamente, di un interesse di ordine del tutto indipendente da
quello dei singoli.
Non si può che rinviare alla letteratura sull'argomento, soprattutto per quelle ragioni che sviluppano
il tema dell'assoluta esigenza dello Stato di disporre una normativa di ricupero, delle situazioni
illegali, pena il dissolvimento dell'ordinamento intiero (71) .
Sotto questo profilo le norme statuali non si fondano sulla normativa di correttezza i cui limiti di
osservanza nel tempo sfuggirebbero a precise determinazioni. Si fondano invece sulla
determinazione di limiti temporali alle proprie norme di efficacia, ai rapporti indefiniti a causa di
un'inerzia del titolare o della scarsa cautela di questi, oppure tutelano esigenze generali di carattere
obiettivo come la sicurezza di circolazione dei beni mobili.
Sempre sotto lo stesso profilo la normativa statuale si distacca da quella privata e la comprime per
altre superiori esigenze di ordine, che non può essere rapportato al parametro di una correttezza
nello svolgimento di rapporti singoli.
La tutela della buona fede è solo un riflesso della tutela di altri e superiori interessi. Nella disciplina
di un codice la buona fede, quando interferisce con la materia della prescrizione, determina, in
sostanza, un acceleramento del processo di legittimazione che si compirebbe in ogni caso, cioè anche
in presenza della mala fede, ma solo in un tempo più lungo.
La buona fede quindi non è di per sé determinante la legittimazione, la quale opera per altre cause e
per altre esigenze che, sotto un aspetto esclusivamente privato o individuale, possono apparire
lontane da qualsiasi norma di correttezza o morale, e, in un certo senso, contrarie ad essa norma.
Questo significa, almeno in parte, un ritorno al concetto pubblicistico della normativa di correttezza
come normativa non giuridica ma giuridicamente rilevante (72) : il comportamento conforme a
correttezza del privato è solo un dato rilevante non come regola di rapporto ma per l'ordinamento
statuale, in relazione a quella legittimazione degli ordinamenti privati instaurati di fatto,
legittimazione che è di sua esclusiva competenza.
13. (Segue): In particolare degli acquisti relativamente a beni mobili (e titoli di credito).
Ci riferiamo alle ipotesi di cui agli art. 1153 ss. c.c. Le formule non sono esatte: un acquisto - rectius:
la legittimità di un acquisto - dipende dalla legittimità dell'esercizio dei poteri dispositivi del dante
causa. Non è sufficiente quindi la titolarità dei poteri nelle ipotesi di limiti legali - o volontari - posti
all'esercizio dei poteri medesimi: in questi casi dovrà sussistere la legittimazione dei soggetti, diversi
dal titolare perché il successore acquisti validamente. Le varie situazioni di invalidità concernenti le
parti di un contratto si riflettono variamente all'esterno sugli ulteriori atti di acquisti compiuti da
terzi. Le suddette situazioni sono infatti traducibili in vizi del procedimento giuridico rilevanti sotto il
profilo nella nullità o della annullabilità. Com'è noto, la nullità è normalmente opponibile a tutti,
quindi anche ai terzi argomentando anche ex art. 1445 c.c. Non mancano peraltro eccezioni nel
senso di una limitazione del tempo di questa opponibilità col concorso di varie circostanze tra cui la
trascrizione dell'acquisto da parte del terzo e, soprattutto, la sua buona fede (art. 2652 n. 6, 2690 n.
3); da aggiungere l'art. 1415 se si ritiene che la simulazione importi nullità (73) . Per gli atti annullabili
invece, secondo l'art. 1445 c.c. (v. anche art. 2690 n. 3), l'opponibilità al terzo acquirente è esclusa
eccetto si tratti di una causa di incapacità legale: è però tassativamente richiesto il requisito della
buona fede. Sembra superfluo aggiungere che non è in questione l'acquisto del terzo quando sia
inattacabile l'acquisto del suo dante causa (per esempio, l'autore di questo è un minore che ha
occultato con raggiri la sua minore età: art. 1426 c.c.).
Le considerazioni di cui sopra concernono però i vizi di un procedimento giuridico di formazione o esecuzione - di negozi ad opera dei legittimi titolari o dei soggetti legittimati all'esercizio dei poteri
spettanti ai primi: siamo quindi in presenza di negozi di alienazione esistenti, anche se nulli o
annullabili, compiuti tra due parti di cui una, successivamente, alieni. Diverso è il caso in cui tali
titolarità e legittimazioni non sussistano e ciò nonostante un soggetto compia «un atto di
disposizione traslativo sopra un diritto altrui a favore di un terzo, senza subordinarne l'efficacia
all'acquisto della titolarità del diritto medesimo» (74) .
Non è questa la sede per approfondire la portata e i limiti della materia degli acquisti a non domino
variamente concepiti e, soprattutto, variamente configurabili (75) . Non c'è però dubbio che ne
rappresentino i tipi più sicuri quelli previsti negli art. 1153 ss. c.c., mentre alcuni rilievi, sotto il
profilo del procedimento con cui si svolge una successione di possessi e una valutazione ex lege del
comportamento negoziale di buona fede di una parte, potranno giovare agli ulteriori
approfondimenti del tema.
Tra le varie ipotesi contemplate negli art. 1153 ss. c.c. (tra le norme derivate v. art. 1994 c.c., sui titoli
di credito) occorre distinguere la disciplina degli acquisti a non domino relativamente ai beni mobili,
agli immobili e ai mobili registrati. Consideriamo anzitutto i primi.
Sotto il profilo del procedimento il possesso costituisce un indice formale, sulla base del quale
l'ordinamento dello Stato esplica la sua azione anzitutto nel senso di tutelare le situazioni
possessorie, anche nel senso di presumerne la corrispondenza ad un giusto titolo di acquisto (76) . In
questi termini il possesso, valutato in relazione al suo atto di acquisto, rappresenta il risultato di
un'attività esecutiva collegata con l'esercizio di poteri negoziali (acquisto del possesso in seguito a
consegna in esecuzione di un contratto) (77) o di poteri innovativi di altra natura (ad esempio di
occupazione: art. 923 ss. c.c.).
Naturalmente questa giustificazione può mancare: può aversi illegittimità di acquisto, mala fede, o
anche buona fede senza titolo «idoneo» (art. 1161 c.c.) con varietà di conseguenze. Comunque, e
indipendentemente dalle regole interne di un rapporto, l'art. 1153 c.c., costituisce una deroga al
principio che solo un regolare procedimento che si concluda col legittimo acquisto del soggetto
possa dar luogo ad ulteriore alienazione in base a nuovo regolare procedimento. Per contro la sola
fase esecutiva tradotta in termini di possesso, cui si aggiunga una rappresentazione della legittima
disponibilità - necessaria questa per fondare la buona fede dell'acquirente - rende possibile quel
«titolo idoneo al trasferimento della proprietà» e con gli effetti di cui all'art. 1153 c.c.
In realtà non sussiste nessuna idoneità del titolo, dal lato sostanziale, perché il non dominus è privo di
legittimazione. L'ordinamento dello Stato quindi non «riconosce» che atti e risultati compiuti
secondo le sue regole di forma e di sostanza (78) : il riconoscimento manca in difetto di giuridicità
dell'intiera condotta del rapporto.
Giustamente si attribuisce carattere originario a questo tipo di acquisto a non domino (79) perché
neppure un regolare procedimento negoziale tra il non dominus e il terzo acquirente è sufficiente a
compensare la mancanza di un regolare procedimento tra il dominus e il non dominus. Le note ragioni
di sicurezza nella circolazione dei mobili con le attenuazioni apportate dall'art. 1154 c.c. e 712 c.p. (è
eccezionale come si è visto, un onere di accertamento della provenienza), determinano la soluzione
di una legittimazione dell'acquisto in buona fede. La dottrina, generalmente, pone l'accento
sull'acquisto in proprietà «mediante possesso» secondo la formula legale e riduce la portata dell'atto
idoneo a trasferire la proprietà, elemento di «qualificazione» del possessore come terzo (80) . La tesi
può sembrare eccessiva. È da notare, intanto, la formula adoperata dall'art. 1994 c.c. per i titoli di
credito; si richiede che l'acquisto avvenga «in conformità delle norme che ne disciplinano la
circolazione» ponendosi implicitamente l'esigenza di un'indagine nei confronti del dante causa. Può
osservarsi però che questa indagine è più agevole se i titoli sono all'ordine o nominativi per i quali è
possibile una «diligente ed oculata» identificazione del possessore (81) . Quando i titoli sono al
portatore occorre riferirsi all'art. 1153 c.c. e, per quanto si affermi un'esigenza di identificazione in
giurisprudenza (82) è difficile andare oltre le circostanze richieste dalle norme penali (art. 712 c.p.)
che prevedono i casi in cui vi sia ragione di sospettare l'illecita provenienza (83) .
Questo primo esempio pone in luce una valutazione legislativa di maggior peso relativa ad una fase
negoziale precedente quella che conduce al possesso. Occorre notare ancora la portata dell'art. 1154
c.c. circa la mala fede iniziale che non è sanata dall'erronea credenza che il precedente possessore sia
divenuto proprietario. La formula di quest'articolo può suggerire l'opportunità di un migliore
collegamento con le norme sui negozi aventi per oggetto cose altrui, soprattutto nei casi in cui
l'alienità della cosa viene taciuta al compratore (art. 1479 c.c.) o in cui il contratto si riferisce a cose
senza specificazione della loro attuale appartenenza o meno, il che nella prassi commerciale è
comune. L'art. 1479 c.c. accorda al compratore un'azione di risoluzione del contratto, in caso di
ignoranza dell'alienità della cosa al momento della conclusione «se nel frattempo il venditore non
gliene ha fatto acquistare la proprietà». C'è da chiedersi se questo acquisto, conoscendo l'alienità della
cosa dopo il contratto, avvenga successivamente sulla base di una consegna - ci riferiamo ai beni
mobili - e se, nel caso che l'alienante sia stato solo un possessore non dominus, trovi applicazione l'art.
1153 in presenza di una buona fede dell'acquirente.
L'art. 1154 c.c. si spiega meglio in collegamento con l'ipotesi dell'art. 712 c.p., e cioè nei casi di
incauto acquisto; altrimenti la rappresentazione che l'alienante faccia di essere divenuto proprietario
dovrebbe legittimare, in mancanza di elementi di accertamento in contrario, la buona fede
dell'acquirente, senza necessità di un'effettiva e formale regolarizzazione di rapporti tra dominus e non
dominus. Se invece il compratore ignorasse l'alienità e ricevesse le cose da chi non è divenuto
proprietario, si applicherebbe senza dubbio l'art. 1153. Questa norma si applicherebbe ugualmente
nel caso in cui il compratore conosca l'alienità della cosa, ma il venditore gliela procura dichiarando
in mala fede e falsamente che è divenuta, nel frattempo sua, sempre in presenza della buona fede del
primo. E se un oggetto non fosse incluso nel contratto di vendita, comprendente vari mobili, ma
l'acquirente in buona fede lo ritenesse incluso l'usucapione dovrebbe essere decennale a norma
dell'art. 1161 c.c. Per contro nel caso di una buona fede per tutta la condotta contrattuale, ma con
conoscenza dell'alienità della cosa al momento della consegna, si avrebbe usucapione ventennale (art.
1161 comma 2 c.c.).
Questi rilievi sommari tendono a dar rilievo, in sede di interpretazione delle norme sugli acquisti a
non domino, alla circostanza che non sembra isolabile la valutazione legislativa del possesso da un
intero procedimento, considerato come serie di atti di formazione e di esecuzione di un negozio. In
particolare il possesso deve essere valutato sotto il profilo dell'innesto del suo atto iniziale nella
stessa fase esecutiva di un procedimento. Inoltre una valutazione della buona fede inerisce al
comportamento in ordine ai singoli atti del procedimento stesso. E, in sostanza, la legge vuole un
regolare procedimento nel rapporto tra non dominus e acquirente in buona fede; lo vuole completo, in
quanto prende in esame una situazione di risultato; considera tale situazione di fatto, perché tra
successioni traslative o costitutive e successioni ulteriori il legame dei procedimenti soltanto importa
riconoscimento. In caso di frattura di questo legame la legge non riconosce, ma legittima il risultato
di un solo procedimento, purché vi sia buona fede. Questa ultima opera un distacco del regime degli
effetti da quello delle cause per affidamento nella rappresentazione di presupposti negoziali che ne
compia un possessore, purché sia effettiva questa sua posizione «esecutiva» di una norma ritenuta
esistente (84) .
14. (Segue): Richiamo a collegamenti tra procedimenti negoziali diversi.
La norma dell'art. 1375 c.c., secondo la quale il contratto deve essere eseguito in buona fede,
acquista un ulteriore significato in forza delle norme sul possesso, in quanto il rapporto di fatto si
innesta nel rapporto creato dal contratto, integrandolo. Sempre a titolo di esempio, valga il richiamo
all'art. 1705 c.c., di interpretazione notoriamente controversa (85) . L'acquisto che il mandatario
faccia di cose mobili da un terzo importa che, nei rapporti con questo, il mandatario debba
considerarsi non solo titolare del diritto acquistato ma, ricevute le cose, possessore. Il rapporto col
mandante importa una modificazione peraltro non chiara. La concezione secondo la quale il trapasso
della proprietà dal terzo al mandante sarebbe automatico, praticamente, e a prescindere dalle dottrine
particolari, dovrebbe portare a considerare il mandatario un detentore per conto del mandante in
ordine alle cose acquistate dal primo e a lui consegnate. Mentre il terzo che ha alienato e non
consegnato dovrebbe essere, per il mandante, un terzo possessore contro il quale - art. 1706 comma
1 c.c. - è esperibile azione di rivendicazione.
Se invece si esclude - e secondo noi deve escludersi - la tesi del trapasso automatico, il mandatario
deve prestare il suo consenso all'esecuzione del mandato (in forma di sostituzione di un soggetto mandante - nel rapporto di cui è inizialmente titolare il mandatario) (86) . Se viene prestato il
consenso, anche tacitamente, si ha una modificazione di un possesso titolato in detenzione per
conto del mandante; in un successivo (al consenso) rifiuto di consegna, sarebbe esperibile l'azione di
rilascio ex art. 2930 c.c. (art. 605 ss. c.p.c.).
Se invece il mandatario rifiuta di eseguire il mandato - di prestare cioè quel consenso - egli resta
titolare e possessore, così come resta tale lo stipulante di una promessa di vendita: il mandante dovrà
allora procedere con la azione di cui all'art. 2932 c.c., rendere il mandatario possessore di mala fede,
con eventuale successivo ricorso alla procedura per rilascio. Se il mandatario ha acquistato ma non
ha ricevuto le cose rimaste nel possesso del terzo, e rifiuta il consenso ad eseguire il mandato, il
mandante non può, crediamo, esperire l'azione di rivendicazione di cui all'art. 1706 c.c. nei confronti
del terzo: prenderebbe sopravvento l'altra norma - art. 1705 - nel senso che il terzo sia che ignori o
conosca il mandato non ha rapporto col mandante ed è esposto quindi solo all'azione ex contractu che
potrebbe esperire, contro di lui, il mandatario.
Questo caso, come le altre ipotesi prospettate nel paragrafo precedente, dovrebbero ulteriormente
dimostrare l'inerenza al procedimento delle situazioni possessorie in stretto collegamento con i vari
atti non solo di uno, ma anche di più procedimenti collegati (come nel mandato): la valutazione della
buona fede deve quindi seguire l'evolversi dei comportamenti atto per atto.
15. Buona fede e acquisti «a non domino» relativamente a beni immobili e mobili registrati.
Si rileva una certa disarmonia tra le formule dell'art. 1159 e 1162 c.c., e quella adoperata nell'art. 1153
c.c. Nelle prime si fa riferimento a «colui che acquista in buona fede» un bene immobile o mobile
registrato, e quindi «ne compie l'usucapione». Nella seconda si parla di acquisto di proprietà
mediante possesso (87) . Si esige poi, negli art. 1159 e 1162, la trascrizione dell'atto di acquisto
dell'immobile o del mobile registrato. Si precisa anzi che il termine per usucapire, rispettivamente di
dieci e tre anni, decorre dalla trascrizione. Di conseguenza si prospettano, almeno, alcuni
interrogativi in relazione al momento di rilevanza della buona fede e al computo del decennio o del
triennio, in dipendenza del valore da attribuirsi alla trascrizione.
Circa la buona fede si possono individuare i momenti dell'acquisto in base al negozio di alienazione,
della trascrizione, dell'acquisto del possesso (88) .
Circa la trascrizione sembra lecito chiedersi che valore abbia questo requisito. Il tema è controverso,
dal momento che l'acquisto si ha in conseguenza dell'usucapione e quindi di uno stato di fatto
continuato (89) . E si precisa anche che un'eventuale non coincidenza del momento della
trascrizione col momento dell'acquisto del possesso, sposta il decorso del decennio o del triennio nel
senso che i dieci o tre anni devono riferirsi al possesso se l'inizio di questo è posteriore alla
trascrizione (90) . Se, per contro, il possesso fosse anteriore, la decorrenza si avrebbe dalla
trascrizione stessa.
A prescindere da ogni controversia (91) sembra sia il caso di richiamarsi ai criteri di impostazione
dello studio su questa materia svolti in precedenza. L'acquisto a non domino è una forma di
legittimazione di uno stato di fatto: la buona fede iniziale, rispetto alla quale non nuoce la mala fede
super veniens interessa il momento dell'acquisto del possesso, dopo la trascrizione. Cioè dopo l'iter di un
procedimento negoziale completo. Sembra giusto il rilievo che la trascrizione è in rapporto con la
buona fede (92) ; è un'indice obiettivo la cui presenza attiene alla chiarezza di un comportamento
rivolto alla regolarità del ciclo negoziale. Sotto questo profilo, la disciplina legislativa appare coerente
con le esigenze di una legittimazione che provveda alla tutela della buona fede, in mancanza di un
regolare procedimento che conduca al riconoscimento attraverso una pluralità di successioni partenti
da un dominus.
16. Cenno di altri istituti e considerazioni conclusive.
Arrivati a questo punto, lo studio della buona fede dovrebbe proseguire attraverso l'analisi di molti
istituti e delle molte norme che richiamano l'esigenza di un comportamento corretto. L'esame
riguarderebbe molte materie, dal diritto di famiglia (v. disciplina del matrimonio putativo - art. 128,
584, 785 c.c.; della filiazione incestuosa - art. 251 c.c.; le disposizioni penali sugli impedimenti
matrimoniali lasciati ignorare da un coniuge all'altro, art. 139 c.c., ecc.) al diritto delle successioni (v.
la disciplina degli acquisti dall'erede apparente, art. 534, 2652 n. 7, 2690 n. 4, c.c.). Nel campo delle
persone giuridiche, possono aversi acquisti in conseguenza di delibere irregolari (93) . Situazioni di
acquisto dal coniuge del fallito (art. 70 l. fall.), da chi ha perduto la proprietà in conseguenza
dell'esercizio del patto di riscatto da parte dell'alienante (art. 1504 c.c.), o in conseguenza di revoca,
annullamento o nullità del titolo (art. 2652 n. 6 e 9, 2690 n. 3 e 6 c.c.), sono ipotesi che interessano
da vicino la materia in esame. In tema di rapporti tra solvens e accipiens, l'argomento rileva sia per la
buona fede dell'uno sia per quella dell'altro (v. art. 1189, 1192, 1836, 1992, 2006, 2559 c.c., ecc.). Lo
stesso è a dirsi nel campo dei titoli di credito (art. 1794, 1993; art. 20, 21, 23 l. camb., 25 l. ass.), della
rappresentanza (art. 19, 111, 1394, 1396, 2206, 2007, 2297, 2298 c.c.), degli atti di determinazione
dell'oggetto di un contratto (art. 1349 c.c.), di scelta, di specificazione e di ogni altro lungo la linea di
un procedimento. L'economia di uno studio sommario non consente neppure un esauriente excursus
di una casistica di proporzioni imponenti (94) . D'altra parte nessuna indagine particolareggiata può
prescindere dalla posizione di princìpi di portata generale e in ordine ai quali deve svolgersi un
successivo lavoro di applicazione. La materia di questi princìpi costituisce tuttora il problema
centrale della buona fede, il quale problema gravita sull'ancora poco esplorata normativa della
correttezza, nel quadro di quell'imponente complesso di regole creato dai privati cui la dottrina, in
questi ultimi decenni, va dedicando sempre maggiore attenzione. L'antico e completo sistema, sorto
sulla base dei fondamentali princìpi dell'honeste vivere, suum cuique tribuere, alterum non laedere, va
perdendo ogni giorno di più quell'inconsistenza di contenuto e quella confusione di forma che sono
derivate dall'averlo relegato nel campo dei fatti: va acquistando, per contro, attraverso uno studio
che, attualmente, appare solo agli inizi, la configurazione di un sistema di norme in senso tecnico e di
norme fondamentali per giunta, in quanto diretta espressione dell'ordinamento privato da un lato,
oggetto di riconoscimento e di tutela statuali, dall'altro.
NOTE
(1) SACCO, La presunzione di buona fede, cit. in letter., 5; ap. 12 v. un elenco degli articoli.
(2) Cfr. RUFFINI, La buona fede in materia di prescrizione: storia della teoria canonistica, Torino, 1892; SCAVO
LOMBARDO, Il concetto di buona fede nel diritto canonico, Roma, 1944.
(3) CARNELUTTI, Teoria generale della circolazione, Padova, 1933, 160.
(4) Cfr. VON TUHR (Allgemeine Teil, cit. in letter., II, 134, nota 63), il quale nota come la «gute Glaube» è sorta
attraverso una differenziazione dal più lato concetto della bona fides romana, poiché la «bona fides» era
originariamente un concetto di contenuto morale ed indicava il sentimento dell'uomo onesto: da tale concetto
sarebbe derivata - secondo il VON TUHR - da un lato la «Treu und Glaube» come metro di misura
dell'interpretazione e dell'integrazione dei negozi giuridici, dall'altro la «gute Glaube», il cui carattere distintivo
non risiede più nel sentimento onesto come tale, bensì nella conoscenza o non conoscenza di elementi di
fatto. Nota poi come per tali ragioni la «gute Glaube» è un elemento appartenente al campo della conoscenza,
valutato però dal diritto al fine di proteggere l'onestà nei rapporti fra individui. Cfr. nota 10 a p. 5.
(5) SACCO, La presunzione di buona fede, cit., 11.
(6) V. per la natura «costitutiva» o impeditiva degli effetti, riferita alla buona fede, il SACCO, soprattutto La
presunzione di buona fede, cit. in letter., 250 ss. V. ivi anche lo svolgimento dei temi della presunzione e dell'onere
della prova, in ordine alla quale la norma generale può dirsi contenuta nell'art. 1147 c.c. in materia possessoria,
in quanto operi quella presunzione di buona fede, di cui nel testo (§ 9).
(7) SACCO, La presunzione di buona fede, cit., 15, 16.
(8) L'affermazione va posta anche in rapporto con la norma di cui all'art. 1374 c.c.: «Il contratto obbliga le
parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la
legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità».
(9) SACCO, La presunzione di buona fede, cit., 283 ss.
(10) V. gli interessanti rilievi del CARRARO, Il valore attuale della massima «fraus omnia corrumpit», in Studi
Carnelutti, III, Padova, 1950, 435, 441. V. anche CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 266 ss.;
l'autore esattamente distingue la buona fede in senso oggettivo come regola, e in senso soggettivo come «guisa
dell'intenzione»; v. i riferimenti alla buona fede in questo secondo senso nella descrizione dell'attività delle
parti nel corso del procedimento (§§ successivi).
(11) CARRARO, op. cit., 436.
(12) Sul tema MESSINEO, Manuale di dir. civile e comm., III, Milano, 1959, 27, il quale considera il principio
della correttezza come atteggiamenti del «principio, più generale, di buona fede oggettiva»; BALOSSINI,
Consuetudini, usi, pratiche, regole del costume, Milano, 1958, 178 ss. Esclude una identificazione tra buona fede e
correttezza BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, 68.
(13) ROMANO Santi, Princìpi di dir. costituzionale generale, Milano, 1946, 92; v. anche BISCARETTI DI
RUFFIA, Norme della correttezza costituzionale, Milano, 1939, 94 ss., per altri interessanti profili.
(14) CODACCI PISANELLI, L'invalidità come sanzione di norme non giuridiche, Milano, 1940.
(15) Cfr. CODACCI PISANELLI, op. cit., 24 ss.; l'autore considera una vasta materia in relazione a: reati
colposi, responsabilità disciplinari, giuramento, supposto obbligo del duello nelle vertenze «dette»
cavalleresche tra ufficiali delle forze armate, abuso del diritto, rescindibilità per lesione, obbligazioni con causa
contraria al buon costume, obbligazioni naturali, ingratitudine rispetto alla revocabilità della donazione e
all'indegnità a succedere.
(16) Cfr. ROMANO Salv., Autonomia privata (appunti), Milano, 1957, § 27.
(17) Cfr., per un diverso orientamento, MESSINEO, loco. cit.; BALOSSINI, op. cit., 179.
(18) Cfr. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, cit., 268: l'autore esprime l'opinione che la colpa escluda così
la buona come la mala fede.
(19) V. per la prima SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1955, 271 ss.; GALEOTTI,
Osservazioni sul concetto di procedimento giuridico, in Jus, 1955, IV; CONSO, I fatti giuridici processuali penali, Milano,
1955; per la seconda RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939; FALZEA, La condizione
e gli elementi dell'atto giuridico, Milano, 1941, 179 ss.
(20) ROMANO Salv., Autonomia privata, cit., § 27, 100.
(21) GALEOTTI, op. cit., 21 e autori ivi citati.
(22) V. per tutti BRANCA, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 1959, 445-446.
(23) SACCO, La presunzione di buona fede, cit., 210 ss.
(24) ROMANO Salv., L'atto esecutivo nel diritto privato, Milano, 1958, § 12, 50 ss.
(25) ROMANO Salv., loco cit.
(26) ROMANO Salv., op. cit., 58 ss., 61 ss.
(27) ROMANO Salv., L'atto esecutivo, cit., §§ 15, 16.
(28) SACCO La presunzione, di buona fede, cit., 15.
(29) BETTI, Teoria del negozio giuridico, Torino, 1950, 321 ss., 329; CARRESI, Introduzione ad uno studio sistematico
degli oneri e degli obblighi delle parti nel processo di formazione del negozio giuridico, in Studi Cicu, I, Milano, 1951, 171 ss.
(30) Ci riferiamo a note concezioni per cui v. BETTI, Teoria, cit., 208.
(31) Sul tema, SACCO, La presunzione di buona fede, cit., 1 ss., 250 ss.
(32) RUFFINI, op. cit., 157.
(33) RUFFINI, op. cit., 170.
(34) RUFFINI, op. cit. 177.
(35) ROMANO Salv., L'atto esecutivo, cit., § 12, 50 ss.
(36) MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, Milano, 1957, § 15 bis, 16.
(37) V. MENGONI, L'acquisto «a non domino», Milano, 1957, 218 sull'ignoranza come presupposto della buona
fede. V. ivi le tesi dell'incompatibilità del dubbio con la buona fede e una disamina delle varie opinioni. V.
anche SACCO, La buona fede, cit., 96 ss.; MONTEL, Buona fede, cit. in letter., 603 ss. Il problema del dubbio,
nel quadro del ragionamento seguito nel testo, sembra doversi impostare sulla valutazione dei dati di
accertamento in concreto risultanti al «dubitans». Lo stesso «motivo di sospettare» su cui l'art. 712 c.p., appare
legato a quei dati. La presenza di un qualsiasi elemento non risultante dalla rappresentazione prospettata dalla
controparte o, addirittura contrario ad essa dovrebbe comportare un onere di accertamento e quindi rendere il
dubbio incompatibile con la buona fede. Per contro un dubbio non fondato su elementi concreti può
consentire di «stare» alla rappresentazione della controparte e non comportare mala fede. V., per il caso in cui
una parte diffidi o intimi all'altra, VON TUER, op. cit., II, 548.
(38)... o «assetto di interessi» secondo una corrente formula: v. ROMANO Salv., L'atto esecutivo, cit., § 12, 50
ss.
(39) BETTI, Teoria del negozio, cit., 448.
(40) BETTI, Teoria del negozio, cit., 446-451; CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico, Napoli, s.d. (ma 1958),
545-550.
(41) CARRARO, loco cit.
(42) V. Abuso del diritto, in questa Enciclopedia, I, 161 ss.
(43) V. per un interessante caso, CARRESI, Sui requisiti del dolo come vizio del consenso, in Giur. tosc., 1952, 228 ss.
(44) Cfr. BETTI, Teoria, cit., 350.
(45) Cfr. ROMANO Salv., Autonomia privata, cit., 120 ss.
(46) Possono richiedere attività interpretativa anche atti non negoziali come una diffida, un'intimazione,
un'opposizione e altri, anche ai fini di fondare l'ulteriore comportamento seconda buona fede e di eliminare
un dubbio: v. nota e citazioni a p. 686, nota 37.
(47) BETTI, Teoria, cit., 348.
(48) BETTI, Teoria, cit., 422.
(49) LEHMANN, Allgemeine Teil7, Berlino, 1951, 96 e letteratura ivi cit.
(50) Vedi Abuso del diritto cit.; v. anche BETTI, Teoria, cit., 114, 268, 331.
(51) ROMANO Salv., Atto esecutivo, cit., § 18 ss.
(52) V. giurisprudenza citata in BETTI, Teoria, cit., 521.
(53) V. BETTI, Teoria, cit., 529.
(54) V. RIPERT, La règle morale dans les obligations civiles2, Paris, 1927, 319; DEMOGUE, Traité des obligations,
VII, Paris, 1933, n. 1129 ss.
(55) Per una esatta impostazione, sotto il profilo causale, cfr. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del
diritto civile, Napoli, 1959, 181 ss.; v. anche SCAVO LOMBARDO, op. cit., 312 ss.
(56) Cfr. BETTI, Teoria, cit., 68 ss., 160 ss.
(57) V. supra, § 8.
(58) PUGLIATTI, La trascrizione, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di CICU e MESSINEO, I, 1 La
pubblicità in generale, Milano, 1957, 221-222.
(59) MENGONI, L'acquisto «a non domino», cit. 15 ss., 35 ss., 131 ss.; PUGLIATTI, op. ult. cit., 433 ss.
(60) V. per il profilo dell'ordinamento come diritto obbiettivo, e per la natura della trascrizione, ROMANO
Salv., Ordinamenti giuridici privati, Milano, 1955, 19 ss.
(61) Per l'orientamento giurisprudenziale in tal senso, e per la dottrina v. NICOLÒ, in Commentario del codice
civile, a cura di SCIALOJA e BRANCA, sub art. 2900-2969, Bologna-Roma, 1953; FERRI L., ivi, sub art. 26432696, 49 ss.
(62) V. per una rassegna di opinioni, ROMANO, Salv., Contributo esegetico allo studio della simulazione, Milano,
1955, 14 ss., 45 ss.
(63) MENGONI, op. cit., 107 ss.
(64) MENGONI, op. cit., 64 ss.; SACCO, La presunzione di buona fede, cit., 194 ss.
(65) MENGONI, op. cit., 116.
(66) V. autori cit. in MENGONI, loco ult. cit.; SACCO, op. cit., 194.
(67) ROMANO Salv., Contributo, cit., 48 ss.
(68) V. anche ROMANO Salv., Ordinamenti giuridici, cit., § 22 ss.
(69) ROMANO Salv., Ordinamenti giuridici, cit., § 24.
(70) V. oltre la classica opera del RUFFINI, più volte cit., SCAVO LOMBARDO, op. cit., passim e 238 ss. e i
vari autori cit. a p. 204 ss. in nota, tra cui GISMONDI, La prescrizione estintiva nel diritto canonico, Roma, 1940.
(71) V. ROMANO Salv., Ordinamenti giuridici privati, cit., § 25.
(72) V. ROMANO Santi, Princìpi di diritto costituzionale, cit., 92.
(73) V. per tutti BRANCA, Istituzioni, cit., 91.
(74) MENGONI, op. cit., 58.
(75) V. MENGONI, op. cit., 61 ss.
(76) V. ROMANO Salv., Ordinamenti giuridici privati, cit., § 19.
(77) V. però, su questo collegamento, MENGONI, op. cit., 170 ss.
(78) V. ROMANO Salv., Autonomia privata, § 11.
(79) V. per tutti, MENGONI, op. cit., passim e 63.
(80) V. MENGONI, op. cit., 186 ss.
(81) Cass. 24 ottobre 1952, n. 3046.
(82) V. Cass. 20 ottobre 1953, n. 3461.
(83) V. SACCO, op. cit., 180 ss. e autori ivi cit.
(84) L'art. 1153 c.c. non distingue circa la buona o mala fede del non dominus alienante. La dottrina (v. SACCO,
op. cit., 206 ss.) rileva giustamente l'incompletezza e la incongruità della valutazione legislativa della buona fede
del non dominus e si fonda, sopratutto sulla disciplina particolare delle alienazioni fatte dall'erede apparente (art.
535 c.c.), dall'erede del depositario (art. 1776 c.c.), da colui che ha ricevuto la cosa indebitamente ma in buona
fede (art. 2038 c.c.). In queste ipotesi la legge attenua la responsabilità dell'alienante nei confronti del dominus,
obbligando il primo a trasferire il prezzo ricevuto, salvo regole particolari.
La soluzione appare incongrua, in quanto la mancanza di un presupposto di validità non è soltanto sanzionato
di nullità dalla legge, ma essa non è voluta neppure dalla parte che ha alienato in buona fede: potrebbe quindi
profilarsi, in generale e a parte qualche situazione, un vizio del procedimento rilevante nei confronti del terzo
acquirente non in quanto terzo rispetto al dominus, ma in quanto parte nei confronti del non dominus, data la
buona fede di questi e la natura dell'errore (su un presupposto obbiettivamente richiesto dalla legge).
(85) V., sulla materia del mandato, ROMANO Salv., L'atto esecutivo nel diritto privato, cit., 84 ss.
(86) V. ROMANO Salv., Atto esecutivo, cit., 88 ss., 92.
(87) V. SACCO, op. cit., 188.
(88) V. SACCO, loco ult. cit.
(89) V. SACCO, op. cit., 187, in nota.
(90) V. MENGONI, L'acquisto, cit., 154, in nota.
(91) V. MENGONI, L'acquisto, cit., 151 ss.
(92) MENGONI, op. cit., 152: v. ivi valutazione della tesi di COVIELLO N.
(93) V. SACCO, op. cit., 202 ss.
(94) V. del SACCO la monografia e gli ultimi studi in Riv. dir. civ., 1959, cit..
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Per ulteriori indicazioni bibliografiche v. SACCO e MONTEL, cit. supra.
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