Vent`anni fa la pecora Dolly cambiò la biologia

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Pianeta scienza
IL PICCOLO MARTEDÌ 5 LUGLIO 2016
Calcolo ad alte prestazioni, entro domani le iscrizioni al master
Sono aperte le iscrizioni per le
selezioni
all’edizione
2016/2017 del Master in High
Performance
Computing
(Mhpc) di Sissa/Ictp. Le iscrizioni si effettuano online dalla
pagina
http://mhpc.it/
how-apply e resteranno aperte fino a domani. Giunto alla
terza edizione questo Master
selezionerà 15 studenti di alto
profilo, per prepararli a opera-
re nel mondo del calcolo ad alte prestazioni (Hpc) in collaborazione con i massimi esperti
provenienti dal mondo accademico e dalle maggiori aziende internazionali ed inserirli
poi in questo settore così promettente. L’interesse di aziende ed enti di ricerca verso le
nuove figure professionali che
il master sta creando è testimoniato dalle numerose opportu-
nità di sponsorizzazione, che
permetteranno
anche
quest’anno di finanziare una
buona parte (se non addirittura la totalità) dei partecipanti
al master.
Il supercalcolo è uno strumento fondamentale della
scienza moderna, per esempio alla Sissa lo si usa per studiare i nuovi nano-materiali
per mezzo della simulazione
quantistica e per simulare la
struttura dell’universo primordiale, ma ha anche numerose
applicazioni
tecnologiche:
può servire a progettare lo scafo di una nave da crociera, a generare effetti speciali cinematografici o per le previsioni meteorologiche, e questi sono solo pochi esempi delle sue enormi potenzialità. L’High Performance Computing (Hpc) è un
ambito in continua espansione che non conosce crisi e che
offre prospettive occupazionali e professionali notevoli, e
per chi vuole formarsi in questo campo il master Mhpc è la
scelta giusta. Il master offre ai
suoi studenti docenti di
prim’ordine provengono dal
mondo accademico e da aziende internazionali del calibro di
Intel, Ddn-storage e altre. L’approccio didattico privilegia gli
aspetti pratici, stimolando gli
studenti a “mettere le mani”
su problemi e attività professionali vere e proprie.
Cocktail per bloccare il cancro
Scoperta una nuova cura dal team coordinato da Giannino Del Sal di Area
Un cocktail a base di farmaci
che colpiscono il sistema cellulare di smaltimento delle proteine e di agenti che inattivano la
proteina p53 mutata: questa la
combinazione per vincere la resistenza dei tumori alla terapia
e bloccare la malattia. La scoperta emerge dalle ricerche di
un gruppo di scienziati e oncologi clinici finanziati da Airc e
coordinati dal Laboratorio Nazionale Cib e dall'Università di
Trieste. I dettagli della nuova
strategia contro il cancro, insieme alle scoperte scientifiche
che hanno permesso di metterla a punto, sono pubblicati online dalla prestigiosa rivista
scientifica internazionale Nature Cell Biology.
Il proteasoma è il sistema
che la cellula usa normalmente
per smaltire i rifiuti proteici e
per rinnovare le proteine. Questo apparato molecolare è cruciale per la sopravvivenza delle
cellule. Neppure la cellula tumorale può farne a meno per
continuare a moltiplicarsi, per
far fronte agli stress ai quali è
sottoposta e per liberarsi di
molte delle molecole che agiscono da freno alla trasformazione maligna. È proprio questo razionale scientifico che
porta, ormai da alcuni anni, a
Giannino Del Sal del Laboratorio Nazionale Cib di Area Science Park
considerare il proteasoma un
bersaglio ideale per una medicina di precisione contro il cancro. Nasce così una classe di
farmaci anti-tumorali capaci di
inibirne la funzione.
Tra le terapie mirate che arrivano al letto del paziente, o in
fase avanzata di sperimentazione clinica, il trattamento con
farmaci quali il bortezomib o
con gli inibitori del proteasoma
di ultima generazione come il
carfilzomib ha creato grandi
aspettative e l'utilizzo di questi
farmaci è oggi approvato contro il mieloma multiplo.
In alcuni casi, però, il tumore
può anche resistere al trattamento e negli studi clinici condotti finora nei tumori solidi quello al seno o al polmone,
per esempio - questi farmaci
hanno deluso, in parte, le aspettative terapeutiche.
Può accadere, infatti, che
mentre il principio attivo blocca il funzionamento del proteasoma, per tutta risposta la cellula tumorale stimola al massimo
l'espressione dei geni che codificano per le diverse componenti di questo apparato molecolare, in modo da ripristinarne o addirittura potenziarne
l'attività, frustrando gli sforzi terapeutici. Un meccanismo
complesso questo e non del tutto compreso. Finora.
Una ricerca coordinata da
Giannino Del Sal del Laboratorio Nazionale Cib di Area Science Park a Trieste e pubblicata
online dalla rivista scientifica
internazionale Nature Cell Biology chiarisce le basi molecolari di questo fenomeno.
Quando un tumore ha mutazioni nel gene TP53, è proprio il
prodotto di questo gene alterato - la proteina p53 mutata - a
controllare e attivare in maniera abnorme l'espressione dei
geni del proteasoma.
Lo dimostrano i ricercatori
guidati da Del Sal che hanno individuato in p53 mutante un
elemento fondamentale nel determinare la capacità dei tumori, in particolare dei tumori al
seno cosiddetti triplo negativi,
di resistere alle terapie mirate
contro il proteasoma.
Una proteina “misura” segmenti di Dna
Ricercatori di Sissa e Nih studiano le “molecole rimodellanti”, la cui assenza può legarsi ai tumori
Una proteina della famiglia delle Iswi (Imitation Switch, o motori rimodellanti dei nucleosomi) ha una facoltà speciale:
senza alcun organo di senso a
disposizione è in grado tuttavia
di valutare la lunghezza di segmenti di Dna. Uno studio pubblicato sul “Journal of Statistical Mechanics: Theory and
Experiment” targato Sissa, Max
Planck Institutes e Nih ha scoperto come fa.
Immaginate un cromosoma
come se fosse una collana di
perle. Le perle in realtà si chiamano nucleosomi e sono formati dal filamento di Dna che
costituisce il cromosoma stesso, arrotolato strettamente intorno a delle proteine, chiama-
te istoni, che funzionano un
po’ come dei rocchetti. Ogni
nucleosoma è unito all’altro da
un pezzetto, che può variare in
lunghezza, dello stesso filamento di Dna. Le “perle” possono
venire spostate lungo il filo, avvicinando o allontanando ciascuna dall’altra, grazie all’azione di speciali proteine chiamate “motori rimodellanti”. Un tipo di questi motori ridistribuisce i nucleosomi in maniera
equidistante sulla “collana”.
Per sapere da che parte spostare il nucleosoma, i motori devono però valutare la lunghezza
dei tratti di filamento fra uno e
l’altro. E qui sorge il problema:
come fa una semplice molecola a “sentire” quanto è lungo un
pezzo di Dna? Ana Maria Florescu, ricercatrice della Sissa di
Trieste e Kuni Iwasa, dei National Institutes of Health (Nih)
statunitensi, hanno fornito una
risposta a questa domanda attraverso uno studio teorico. Sia
Florescu che Iwasa hanno iniziato questo lavoro mentre erano all’Istituto Max Planck di Fisica dei Sistemi Complessi di
Dresda. «È una questione
“sensoriale”, ma non dimentichiamo che stiamo parlano di
complessi proteici, che non
hanno organi di senso» spiega
Florescu. I due ricercatori sono
stati ispirati da alcuni risultati
sperimentali precedenti, e hanno costruito un modello del sistema (nucleosomi, filamenti e
Galileo. Koch. Jenner. Pasteur. Marconi. Fleming...
Precursori dell’odierna schiera di ricercatori
che con impegno strenuo e generoso (e spesso oscuro)
profondono ogni giorno scienza, intelletto e fatica
imprimendo svolte decisive al vivere civile.
Incoraggiare la ricerca significa
optare in concreto per il progresso del benessere sociale.
La Fondazione lo crede da sempre.
motori rimodellanti, immersi
in un ambiente liquido). «Quello che abbiamo osservato grazie ai nostri calcoli è che più
lungo è il filamento di Dna fra
un nucleosoma e l’altro, minore è il tempo necessario al motore per legarsi a esso». I filamenti immersi nel liquido infatti tendo a fluttuare casualmente e ampiezza e velocità
del movimento dipendono dalla lunghezza del segmento. In
pratica più il segmento è corto
e più oscilla velocemente: «In
questo caso la molecola fa più
fatica ad acchiappare il filamento, e fino a che non si lega
ad esso non può svolgere la sua
azione». La misura del tempo
che serve al motore per legarsi
Le implicazioni cliniche di
questa scoperta sono notevoli
se si considera che le mutazioni che colpiscono il gene TP53
sono tra le più diffuse nel cancro. Oltre la metà di tutti i tumori presenta, infatti, quest'alterazione che, nel caso di alcuni sottotipi di tumore al seno
tra cui il triplo negativo, arriva a
interessare ben il 70-80% delle
pazienti.
«La storia di p53 è cominciata quasi 40 anni fa e ancora oggi
sono molti gli interrogativi
aperti - spiega Del Sal - in particolare sui suoi mutanti».
Nei tumori tante mutazioni
diverse possono alterare il gene
che codifica per questa proteina. Nella maggior parte dei casi
il risultato non è la perdita della
sua espressione, ma la produzione di proteine aberranti che
non solo non svolgono più le
funzioni originarie, ma acquisiscono proprietà, dette oncogeniche, che favoriscono il tumore.
«Il passo dalla scoperta del
meccanismo di base alla ricerca più applicativa è stato breve
- piega Del Sal -. La terapia
combinata può davvero rappresentare un'importante opportunità terapeutica per i tumori
che hanno p53 mutante».
al filamento è dunque un indicatore della lunghezza dello
stesso.
Lo scopo ultimo del Dna è la
sintesi proteica, processo che
inizia con il primo decisivo passo della trascrizione genica:
pezzi del codice contenuto nei
geni vengono copiati e serviranno poi come matrice per assemblare nuove proteine. Perché questo processo avvenga,
le basi azotate che costituiscono il filamento di Dna devono
essere raggiungibili. Quando
sono strettamente impacchettate intorno agli istoni sono
dunque inutilizzabili. Il lavoro
di spostamento dei motori rimodellanti è fondamentale per
liberarli. Le molecole rimodellanti sono molto importanti
per la salute dell’organismo. E
infatti, «alcuni studi hanno collegato certi tipi di cancro all’assenza o scarsa presenza dei motori rimodellanti», conclude
Florescu.
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AL MICROSCOPIO
Vent’anni fa
la pecora Dolly
cambiò la biologia
di MAURO GIACCA
E
ra il 5 luglio del 1996. Alle
4.30 del pomeriggio, in
una delle stalle del Roslin
Institute, nella Scuola Reale di
Veterinaria dell'Università di
Edimburgo, c'era molta eccitazione. Una pecora con il muso
nero, della razza Scottish
blackface, aveva appena dato alla luce un agnellino Finn Dorset,
completamente bianco. Entro
un'ora dal parto, l'agnello si era
alzato da solo sulle zampe, segno di salute. Era una femmina,
e fu chiamata Dolly, da Dolly
Parton, una cantautrice americana che piaceva molto in Scozia negli anni '90. Fu un evento
destinato a cambiare la biologia.
Guidati da Ian Wilmut, cinque
mesi prima i ricercatori del Roslin avevano recuperato una cellula uovo da una pecora, con la
tecnica che si usa nel processo
di fecondazione in provetta. Da
questa avevano poi succhiato
via il nucleo, e quindi l'informazione genetica, sostituendolo
con il nucleo di una cellula adulta e specializzata, derivata dalla
mammella di un'altra pecora. In
maniera sorprendente, l'uovo ricostruito aveva iniziato a comportarsi come fa un uovo fecondato da uno spermatozoo, generando quindi un embrione. Questo era stato impiantato nell'utero di una terza pecora, una madre surrogata. Di 29 tentativi,
Dolly fu l'unica ad arrivare alla
nascita: era un clone dell'animale da cui era stata originariamente isolata la cellula della mammella.
Quando la storia fu pubblicata su Nature nel febbraio del
1997 lasciò tutti a bocca aperta:
era la prima volta che si dimostrava come qualsiasi cellula di
un organismo adulto contenga
l'informazione genetica completa per generare un nuovo essere
vivente. Veniva cancellato un
dogma della biologia, quello che
la specializzazione delle cellule
durante lo sviluppo embrionale
fosse un processo irreversibile.
Prima di Dolly erano state clonate Megan e Morag, generate da
nuclei prelevati da un embrione, e dopo Dolly nacquero Polly
e Molly, due pecore gemelle che
nel proprio Dna avevano anche
il gene umano per un fattore che
cura l'emofilia. E poi cani, gatti,
conigli, cavalli, maiali, pecore e
vitelli. Cosa ci resta di Dolly dopo 20 anni? Sicuramente una
tecnologia che consente alla zootecnia di produrre animali geneticamente identici, da usare
per mucche, cavalli e animali da
compagnia. Alla medicina, consente di generare embrioni modificati geneticamente, che potranno essere usati per curare le
malattie ereditarie. Ma soprattutto rappresenta un cambio
epocale di pensiero: dopo Dolly
un uovo fecondato non è più un
essere magico, ma semplicemente una cellula come le altre,
in cui sono espressi alcuni specifici geni, e che quindi può essere
riprogrammata a piacere. Con
buona pace di teologi e filosofi.
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