CHE TEATRO FA Rodolfo di Giammarco 17 GIU2016 nuovi critici / orgia (f.s.) Orgia di Pier Paolo Pasolini regia Licia Lanera con Licia Lanera e Nina Martorana assistente alla regia Danilo Giuva consulenza artistica Alessandra Di Lernia luci Vincent Longuemare spazio Licia Lanera costumi Antonio Piccirilli dipinti Giorgio Calabrese tecnico di produzione Amedeo Russi organizzazione Antonella Dipierro produzione Fibre Parallele coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing & Management con il sostegno di L'Arboreto-Teatro Dimora di Mondaino foto Luigi Laselva Teatro Astra, Festival delle Colline Torinesi, debutto nazionale 8 giugno 2016 Quattro strisce nere tracciano un quadrato; due microfoni in proscenio, al centro una poltrona di pelle nera. Il palco è un ring. Licia Lanera, anfibi e cappuccio, entra su un fascio di luce violacea: una pugilessa con gli occhi febbrili di sfida, pronti al massacro. Quest’Orgia è una guerra di carne e lingua che lascia sanguinanti: le parole del poeta vengono ingoiate ed espulse con un andamento nitido e liquido, carnalmente autentico, che dilata pieghe emotive troppo profonde per non caderci dentro. Siamo tutti in pericolo. Noi, “nemici spettatori”, testimoni del rito/ “spettacolo della vita”, siamo tutti in pericolo: in balia del linguaggio della carne che non distingue la vita e la morte. Dolce e acuminata, caustica e precisa nell’attraversare l’esistenza alla deriva di chi non riesce a essere dalla parte del potere, l’attrice declina - quasi mangiando il microfono - la tecnica mista di Pasolini che alterna sequenze cinematografiche di paesaggi agresti – nostalgici perchè violati all’incubo lirico e claustrofobico dell’orgia. Violenta e languida, sfonda ogni resistenza, si espone senza risparmiarsi, corpo nudo, nervi e diaframma. Ci schernisce, ci provoca, ci seduce. Vittima e carnefice, assorbe in una sola voce il maschile e il femminile che nel testo originale sono separati: forse è questa una delle suggestioni più perturbanti, che lascia un segno vivido e originale a questa versione che avevamo visto in forma di studio al Garofano Verde. Tre enormi dipinti seicenteschi calati dall’alto scandiscono in sequenza la narrazione, ridefinendo lo spazio scenico: non più stanza chiusa ma non- luogo metafisico e psichico – il teatro - dove arte e vita si sovrappongono e si sovraespongono, in un raffinatissimo cortocircuito tra mimesis e dolore. Intervallata da tele di Lorrain e Furini, l’umanissima “Maddalena in Estasi” di Caravaggio è il fuoco centrale su cui esplode, insolente, un rap di Eminem: alto e basso, ventre e cielo si mescolano, come in tutti i lavori di Fibre Parallele. Vene gonfie sulle tempie pulsanti, l’attrice si consuma in una corsa estenuante verso il finale, dove fa capolino, come un fantasma, la giovanissima e capace Nina Martorana, ninfa/prostituta buffa e naif. Lanera compie il rito fino in fondo, fino alla morte. Scarnifica il testo, lo fa agire e lo agisce, imprimendosi, con una prova d’attrice definitivamente fuori dal comune e il vigore di una regia morbida e arguta, nel solco di un Pasolini veggente e necessario - in ogni epoca - nel suo farci male, nell’inferirci quella sacrosanta, artaudiana ferita per cui vale ancora la pena di andare a teatro. Francesca Saturnino (28) La donna nell’uomo da Orgia di Pier Paolo Pasolini a cura e con Licia Lanera Garofano Verde, scenari di teatro omosessuale, XXII edizione Teatro India, Roma 15 settembre 2015 Licia Lanera legge Pier Paolo Pasolini estirpando dalla sua Orgia un nocciolo duro di violenta, vibrante determinazione alla fine. La donna nell’uomo, che ha inaugurato la XXII edizione del Garofano Verde, riduce all’uno la trinità del corpus pasoliniano, affidando all’Uomo solo un affondo chirurgico nell’inadeguatezza del vivere. Una poltrona, un microfono, un leggìo, tracce minime di una camera oscura disegnata in scena da ombre pesanti. Al corpo solitario dell’attrice, che si muove nel buio con anfibi pesanti e con una felpa nera col cappuccio da tirarsi fin sopra gli occhi, ebbene sì, a questo corpo che dice e che resta in ascolto della sua stessa voce registrata, non serve altro che la sua presenza viva, irrequieta, pulsante. Braccato nella desolazione dell’indifferenza, nell’incapacità dello stare al mondo soggetto alle regole del potere, nell’anonimato della sua diversità taciuta, l’Uomo che si trascina dentro questa donna è un sadomasochista dei sentimenti, un rinnegatore della lingua, un carnefice di coppia che uccide per riuscire ad uccidersi. Agendo senza decidere per tutta una vita, solo nella morte, auto inflitta, ci s’illude di ritrovare quell’unico, infinitesimo attimo di consapevolezza che rende significativa l’esistenza. Ineffabile e indicibile, la materia scritta di Pasolini, con il suo reticolato intriso di significati mai a pieno espliciti, diventa potenza lavica, esplosione di senso e di sensualità nella laringe espressiva dell’artista barese, nella sua pelle che si rivela a pieno, nuda, fatale. Penetra la superficie del linguaggio pasoliniano, Licia Lanera, divora le sue parole, elude la sorveglianza della loro densità e ne fa pasto per la sua carnalità scenica mai paga, per la sua implacabile voracità. Terrigena e ferina come un’Erinni tradita dall’intimità, come una Medea sprofondata in un dolore senza tempo, in questo reading di coscienza già febbricitante la Lanera, leggendo Pasolini, mette in campo la propria fragilità, la bellezza incontaminata delle sue paure, la lattiginosa purezza dei suoi furori. In uno squarcio di carne e di poesia. nuovi critici / garofano verde I / la donna nell'uomo da orgia di pasolini (v.d.s.) Valentina De Simone (31) Home Teatro SPECIALE Napoli Teatro Festival Recensioni Orgia di Pasolini torna a Torino Orgia di Pasolini torna a Torino Data di pubblicazione giugno 16, 2016In: Recensioni, Teatro Orgia debutta a Torino nel ’68, ma Pasolini rifiuta gli stucchi dorati e le poltroncine di velluto rosso della Sala Gobetti, all’epoca unica sede dello Stabile, salotto della Torino bene: lo spettacolo va in scena nella cosiddetta Sala delle colonne con Laura Betti e Luigi Mezzanotte. Gli spettatori – lo ricordo, perché c’ero – vi assistono seduti su scomode panche munite di un basso schienale. Il comune sentimento del pudore, secondo la vulgata del tempo, non consente il nudo, men che meno quello maschile, e il protagonista, prima di impiccarsi vestito da donna, sfilandosi le mutande, rivela degli improbabili slip sottostanti, color carne. Al di là di queste notazioni di colore, va notato che le tragedie di Pasolini, scritte di getto nel ’65 (o, secondo altre fonti, nel ’66), rappresentano un capitolo a parte della sua produzione. In quegli anni lo scrittore rivendica il recupero di un teatro di parola, in contrapposizione a quello che chiama “teatro della chiacchiera”. E, in quei testi, la parola c’è: densa, prepotente, addirittura invasiva. La domanda che ci si pone, specie per Orgia, come per Affabulazione, è se si tratti davvero di teatro, o di qualcos’altro. ORGIA_622©2016LuigiLaselvaNon azzardo una risposta, ma il quesito sembra esserselo posto, con serietà, Licia Lanera, interprete e regista di Orgia, proposto dal Festival delle Colline Torinesi. Il testo è rispettato nella sua sostanziale integrità, salvo che Licia interpreta ambedue i personaggi, l’Uomo e la Donna, lasciando a Nina Martorana il ruolo della Ragazza: la sciocchina, inconsapevole, patetica testimone della tragedia che sta per consumarsi. Solo il finale, con l’impiccagione dell’Uomo, è risolto drammaturgicamente in modo diverso. Il sorriso ironico, le imprescindibili fossette di Licia (nulla di più lontano dall’asprezza e la severità di Laura Betti) imprimono ai lunghi monologhi e ai dialoghi fra l’Uomo e la Donna un colore di disincantata ironia, ma proprio per questo ancor più inquietante. La scena nuda, costituita da un’unica poltrona e due microfoni a stilo, con tre immense riproduzioni di quadri del Seicento che calano dalla graticcia in momenti topici, evidenzia una soluzione registica più simile a una lettura interpretativa che a una rappresentazione teatrale nel senso tradizionale della parola. Una scelta che, lungi dall’essere riduttiva, sottolinea la natura atipica, intimamente verbale e intellettualistica, eppur densa di umori carnali, propria della produzione teatrale di Pasolini. Con un utilizzo scoperto e coerente del microfono, coniugato con un porgere che valorizza ed esalta quei registri corporei che caratterizzano la consolidata, originale poetica di Fibre Parallele, Licia riesce a dare spessore di carne e sangue all’intensità semantica e concettuale del verbo pasoliniano. E si tratta di un testo non facile, che al debutto sortì notevole perplessità, sia nella critica, sia nel pubblico, ma dove Pasolini ha il coraggio di esplorare comportamenti che sarebbe riduttivo liquidare come estremi o patologici, ma che rappresentano invece la parte più oscura e profonda della nostra sessualità. Senza avventurarmi su un terreno psicanalitico, che non mi compete, direi che Orgia scandaglia e porta alla superficie il torbido di acque di sentina che le regole del viver civile ci hanno indotto a ignorare, a lasciare giacere, inerti, sul fondo oscuro della nostra consapevolezza. Ci obbliga a prenderne atto, farci i conti; non per rimuoverle, ma per imparare a governarle. L’alternativa è il loro emergere incontrollato, come dimostrano le cronache, purtroppo quasi quotidiane, dei ricorrenti episodi di violenza sulle donne, dei femminicidi. Ancora una volta, Pasolini rivela la sua natura di intellettuale scomodo, a volte addirittura scostante, ma lucido interprete dei nostri tempi.ORGIA729©2016LuigiLaselva Anche per questo motivo, la proposta di Licia, la sua soluzione drammaturgica, sospesa fra perorazione esistenziale e teatro, ha una sua valenza etica, un’ulteriore, apprezzabile ragione di essere. Orgia, di Per Paolo Pasolini Regia a spazio di Licia Lanera, con Licia Lanera e Nina Martorana Produzione: Fibre Parallele Coproduzione: Festival Della Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Casting e Management e con il sostegno di L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino Visto al teatro Astra di Torino il 7 giugno 2016 Claudio Facchinelli I costumi di Antonio Piccirilli per "Orgia" della regista Licia Lanera Il designer Antonio Piccirilli e la regista Licia Lanera raccontano i costumi dell'opera Orgia che ha debuttato a Torino / I costumi di Antonio Piccirilli per "Orgia" della regista Licia Lanera June 14, 2016 6:30 AM Ha debuttato al teatro Astra di Torino “Orgia” di Pier Paolo Pasolini, che ha visto alla regia Licia Lanera. L’idea dei costumi è stato concepito da un dialogo essenziale e imprescindibile tra la regista, che è anche attrice protagonista nello spettacolo, e il designer Antonio Piccirilli, tra la messa in scena e i costumi. La regista e il designer raccontano, in un dialogo a due voci, il processo creativo che ha portato alla scelta dei costumi. 9 photosView Gallery Licia Lanera: “La mia Orgia è la tragedia di chi non sa stare al mondo. Negando la sua definizione (non più tre, ma uno, che è sia Uomo che Donna, più una ragazza), io sono un’unica voce e un unico corpo che racconta l’impossibilità di un essere umano a sottostare a certe leggi sociali, a subire l’inganno della lingua, a imprigionare il corpo in azioni ripetitive, sempre le stesse nel corso della storia“. Antonio Piccirilli: “Licia Lanera mi ha subito trasmesso la sua rivisitazione del testo originale e che avrebbe in scena unificato i protagonisti dell’opera pasoliniana: le due identità in una, un uomo e una donna, in una sola essenza, un unico dramma. Entrambi riportati nel tempo di oggi e rappresentati da un linguaggio di costume contemporaneo”. Licia Lanera: “Ho scelto il microfono per risuonare meglio, un cappuccio per trincerarmi, una sottana per ritrovare la mia femminilità, delle Cult ai piedi per cedere alla tentazione della griffe, la musica di Gurdjief per lo strazio e il rap di Eminem per la rivolta. Ho scelto il nero per la stanza e tre quadri seicenteschi (Lorrain, Caravaggio e Furini) per scandire il tempo che ci separa dalla morte. Come muri bellissimi e inquietanti, scendono dall’alto questi fondali dipinti e tagliano lo spazio ridefinendolo ogni volta. Ed ecco che lo spettatore si trova davanti il corpo attore. Come nel testo, così nella messa in scena, lottano il corpo e la parola. Il corpo dell’attore è esibito, sfiancato, violato e la parola lo incita e poi lo placa, lo esalta e lo distrugge, lo cura e lo violenta. In un’ora quindi racconto l’ultimo estremo atto di vitalità prima di morire”. Antonio Piccirilli: “L’uomo viene rappresentato con una felpa nera con cappuccio, con leggings e l’anfibio Cult. Vuole identificarsi in quella figura maschile contemporanea e nel suo disagio sociale, un riferimento esplicito al modo adolescenziale che si rispecchia nel movimento culturale di strada dell’hip hop. Il riflesso di questa cultura urbana è la tragedia esistenziale che Licia vuole far emergere dalla sua Orgia: una cultura di ribellione, che testimonia la creazione di una potente identità sociale, globale, basata su esperienze di strada cariche di significati, di contraddizioni e di un’intensa lotta culturale. In aggiunta l’hip hop rappresenta oggi uno dei pochi strumenti di “rottura” nelle mani dei giovani “ai margini” delle metropoli. Con possibilità di rottura si intende la capacità collettiva di attutire la preponderanza di alcuni dei valori dominanti della società contemporanea, come l’arrivismo, l’ostentazione del successo individuale o quella del possesso. Un’aggressività mascherata dall’arroganza che è causa di quel disagio che Licia vuole rappresentare in un uomo che non sa riconoscersi parte di qualcosa e nel mondo. La donna, invece, indossa da una lunga sottoveste in georgette di seta ricamata, color acqua. È la rappresentazione della femminilità, dove forza e debolezza rappresentano due facce della stessa moneta. Una donna che fa del suo vessillo di grazia la propria fragilità: è angelica ma anche torbida e sa esprimersi con forza e autenticità, pur nella sua intimità. La sottoveste diventa una seconda pelle, uno strumento che copre e scopre la sua nudità, la sua essenza.” Licia Lanera: “Nella scena della ragazza ho voluto rompere la dimensione frontale e amplificata, tenuta fino a quel momento lungo tutta la durata dello spettacolo. Infatti in quel momento si crea una vera e proprio a scena teatrale, si ricompone la quarta parete e i due personaggi dialogano come se fossero catapultati improvvisamente nello spazio e nel tempo dell’opera originale pasoliniana. La prostituta, interpretata da Nina Martorana è una figurina antica che con il suo ingresso ci riporta indietro nella storia”. Antonio Piccirilli:“La ragazza è una prostituta che veste la sua identità ingenuamente e abita il suo corpo senza consapevolezza. Appare con una minigonna in pelle rosa con doppia rouge, un reggiseno in pizzo panna con una taglia in più della sua, e sopra le spalle un bolerino di finta pelliccia color ècru, con sandali tacco 12 e zeppa. È maldestra e impacciata, è priva di Eros”. Articolo vogue 14 giugno 2016 Festival delle Colline Recensioni ORGIA: una spirale nevrotica di vita e di morte 11 giugno 2016 «Orgia – rispondeva così Pasolini, nel 1968 – è il dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini, che rinchiude nel ghetto, è il rapporto tra diversità e storia». «La mia Orgia è la tragedia di chi non sa stare al mondo» risponde, invece, più sinteticamente Licia Lanera, regista, nonché attrice protagonista di questa revisione moderna, e a tratti un po’ punk, dell’omonima tragedia dello scrittore bolognese e fondatrice nel 2006, insieme al drammaturgo Riccardo Spagnuolo, della compagnia Fibre Parallele. Ed è proprio quest’ultima a ridurre a uno la trinità del corpus pasoliniano, consegnando l’inadeguatezza e la difficoltà del vivere nelle mani e nel “cappuccio nero della felpa” dell’Uomo: «Sono l’Uomo e la Donna perché io sono già quell’ambiguità, non c’è bisogno di travestimenti. La tragedia è di entrambi, solo la prostituta è totalmente inconsapevole del mondo. Il rapporto di potere, di carnefice e vittima, di dominio, tra marito e moglie, è però in fondo paritario, non lo è fisicamente ma mentalmente sì» spiega l’attrice. I protagonisti vivono in due realtà: quella superficiale fatta dell’odore dei gelsi profumati, di sorrisi e di ingenuità e quella nuda e cruda della camera dei due sposi, dove si consuma ogni forma di piacere, di terrore, di rimorsi e di violenza, poiché quest’ultima è l’unico mezzo in grado di mettere in comunicazione le due fragili belve. Una poltrona al centro del palcoscenico, un leggìo, un microfono – scelto appositamente dalla Lanera – per risuonare meglio, un cappuccio per trincerarsi e da tirare sopra la testa fino a coprire gli occhi; un’alternanza di luci e buio dove si muovono dei pesanti anfibi neri e un corpo irrequieto e pulsante che resta in ascolto della sua stessa voce registrata, riempiono il palcoscenico del Teatro Astra, che in occasione del Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale dello spettacolo. Nella rilettura della Lanera, dove carnefici e vittime si scambiano continuamente i ruoli, viene enfatizzata la tragedia della diversità, cara a Pasolini, insieme a quella della linguistica: in particolare viene enfatizzata la dicotomia tra linguaggio verbale (inesistente e frivolo) e linguaggio del corpo, con i suoi tratti barbari e animaleschi. Il monologo finale dell’Uomo, che uccide la moglie-serva dopo aver messo in atto con lei pratiche sadomasochiste, vuole renderci consapevoli che la realtà intorno a noi è fatta di parole macchiate di menzogna, che addirittura ci vengono insegnate sin dall’infanzia; sono «parole, parole, parole che parlano», che riempiono le nostre cucine, i nostri luoghi di vita, le nostre camere da letto… parole che, in realtà, non hanno nulla da dire. Ricorrere alla violenza sembra ormai essere l’unico modo per l’Uomo di colmare questo vuoto, che lo porterà sino al suicidio: «Ho scoperto che c’era un qualcosa che mi tranquillizzava nel tenere la testa nel mio stesso vomito…». Ed è soltanto grazie al suicidio, che egli raggiungerà la completa libertà. Durante i 60 minuti di spettacolo, infatti, la scenografia della Lanera muta via via forma, diventando sempre più grottesca, squallida e nauseante, quasi si stesse preparando un rito di morte, che è allo stesso tempo rinascita e vita. La novità della messa in scena consiste, poi, nell’incursione dell’incalzante rap di Eminem e nell’apparizione di tre dipinti seicenteschi (Paesaggio con la Ninfa Egeria di Claude Lorrain, Maddalena in estasi di Caravaggio, Ila e le Ninfe di Francesco Furini), riprodotti dal pittore Giorgio Calabrese: immagini che permettono uno sdoppiamento della visione teatrale. La voracità e la spregiudicatezza delle parole e dei movimenti di Licia Lanera, la sua crudeltà e la sua nudità scenica fanno del testo di Pasolini una “bomba a mano” in procinto di esplodere addosso al pubblico e di farlo riflettere su quanto sia estenuante vivere in un mondo dove i rapporti sociali altro non sono che rapporti violenti e di potere, in cui c’è sempre chi copre il ruolo di vittima e chi quello di carnefice, ma anche dove il carnefice è egli stesso vittima, quasi a rovesciare il concetto darwiniano di selezione naturale, dove a perdere e a vincere siamo tutti e non solo il più forte! Martina Di Nolfo Articolo di Pasquale Bellini, Gazzetta del Mezzogiorno, 10 giugno 2016 Articolo di Anna Bandettini, Repubblica, giugno 2016 Torture allo yogurt Renato Palazzi 19 giugno 2016 IL SOLE 24 ORE Fra le molte, forse troppe proposte pasoliniane che si sono accavallate per ricordare il quarantennale della morte del poeta, quella di Licia Lanera è probabilmente tra le più singolari. L’attrice barese, talento in ascesa, mente e anima del gruppo Fibre Parallele, premiatissima anche per il suo exploit ronconiano nella Celestina, affronta infatti Orgia da sola, nei doppi panni del marito e della moglie. In realtà c’è un’altra attrice nel ruolo della prostituta, ma si tratta in effetti di un fantasma del desiderio, di un’emanazione mentale dei due. Nel testo originale una coppia borghese, nel segreto della camera da letto, cerca e vive una propria diversità rispetto alla società che la circonda, praticando dei sanguinosi rituali sadomasochisti fino alla morte della donna e dei suoi figli e al suicidio dell’uomo. È un’ambigua diversità che perseguono i due, rivendicata con orgoglio e ferocemente subita nell’acre nostalgia di un’epoca più pura e inconsapevole, di un’immemore civiltà contadina in cui la violenza fisica non era il solo modo di colmare il vuoto lasciato da parole senza senso. La Lanera, nello spettacolo presentato al Festival delle Colline Torinesi, spoglia il logos pasoliniano da ogni intento realistico, lo proietta in uno spazio neutro, dichiaratamente performativo, un’ideale arena fornita unicamente di una poltrona di cuoio e due microfoni a stelo. Sullo sfondo, tre quadri seicenteschi che calano via via dall’alto, di Claude Lorraine, di Caravaggio e di Francesco Furini, evocano dei paesaggi simbolici più che dei concreti arredi domestici. Ma è l’idea in sé che una stessa interprete dia voce a entrambi i personaggi a spostare l’azione verso un mero percorso interiore. Nella sua forte raffigurazione dell’uomo l’attrice indossa una felpa nera con cappuccio, calzoni alla caviglia, anfibi. È più simile a un giovane d’oggi che a un marito borghese: il suo status sociale è un mero dato di appartenenza più che l’emblema di una storica vicinanza al potere. Il suo monologo – i dialoghi sono ovviamente aboliti - sembra sfrondato da ogni eccesso cruento: ciò che riflette appare più simile ai normali rapporti di forza all’interno di una coppia, il maschio che sovrasta, la femmina che ne accetta passivamente il dominio. Ma a spostare il tiro è il modo in cui tratteggia la donna, che parla di torture e sofferenze con un tono lieve, fatuo, dimessamente quotidiano. Con la scrittura di Pasolini c’entra poco. Ma quella figuretta seminuda che si aggira alla ribalta con un sorriso ebete, partecipe e complice della propria sottomissione, ingurgitando yogurt che alla fine verrà vomitato dal marito, si svela alla platea in una specie di totale offerta di sé: sembra uscire dalla sfera rappresentativa per esibire un sentimento personale, qualcosa di simile a una toccante verità autobiografica. La verità dei sentimenti è invece forse ciò che manca a Vanja, 10 years after della compagnia greca Blitz Theatre Group, visto anch’esso a Torino. I protagonisti di Zio Vanja, Astrov, Vanja, Elena, strappati al contesto cechoviano e come smarriti in un labirinto di frasi, pensieri, sensazioni si ritrovano anni dopo, sospesi tra il loro strazio esistenziale e una sorta di vaga accettazione della vita. L’azione si svolge in una casa moderna, con la Lezione di anatomia di Rembrandt sullo sfondo, una scala che sale al piano superiore, divani, un pianoforte. I tre fumano, cantano, trasportano ossessivamente una quantità di piante d’appartamento. Si cercano e fuggono gli uni dagli altri. Si comportano come personaggi di un Marthaler in crisi depressiva. Su due schermi vengono proiettate le battute di Cechov mescolate ad altre dei Quattro quartetti di Eliot e di Scene da un matrimonio di Bergman. L’insieme è molto raffinato formalmente, ma non sembra uscire da un astratto gioco letterario. Orgia di Pasolini, regia di Licia Lanera, Vanja, 10 years after del Blitz Theatre Group, visti al Teatro Astra di Torino Scontro tra sessi, è il gioco del potere TORINO- IL MANIFESTO Pubblicato 18.6.2016, 0:20 Aggiornato 17.6.2016, 21:24 Sicuramente il Festival delle colline, giunto alla 21° edizione, è una delle poche manifestazioni che ancora assolve alle funzioni fondamentali di un festival «ideale». È molto attento al nuovo, verso il quale si sporge, a volte perfino rischiando, ma dando alla compagnia o al singolo artista una chance che può farlo crescere per il futuro; poi segue il lavoro non solo nei momenti cruciali di scrittura e debutto, ma anche (magari per un intero anno) lungo la gestazione della creazione, offrendogli opportunità e sponde; infine un aspetto non secondario: quello di essere un festival urbano, destinato a un pubblico molto più vasto rispetto ad altre situazioni, e quindi modulando il programma in modo che ai diversi spettacoli anche i pubblici finiscano con l’incrociarsi e mescolarsi. Sembrano banalità, ma è difficile trovare riuniti tutti questi caratteri, tanto più dentro un quadro cittadino che è notoriamente ricco di offerta, e quindi con la facile tentazione della rivalità. Nelle Colline invece entrano a vario titolo praticamente tutte le istituzioni torinesi, e Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti che ne sono responsabili, partendo da un budget non particolarmente lussuoso, sono riusciti a convincere e coinvolgere perfino le fondazioni bancarie. Potenza della qualità. Tutto questo per giustificare anche la parzialità quasi «casuale» di questa cronaca: bisognerebbe rimanere a Torino per tutte le tre settimane della durata del festival (si conclude martedì prossimo con titoli di sicuro interesse)per apprezzare, e spesso anche «conoscere» se non scoprire, nuovi talenti o pensieri ragguardevoli in campo teatrale. Intanto, lungo le direttrici tracciate quest’anno (il femminile, l’identità di genere, e Pasolini) hanno cominciato ad apparire lavori che vale la pena approfondire. Alcuni anche già ampiamente conosciuti (il bellissimo MDLSX dei Motus , performance che è valsa alla interprete Silvia Calderoni molti riconoscimenti), altri totalmente nuovi e sorprendenti. Come il geniale Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata (di cui il manifesto ha raccontato la settimana scorsa) su entusiasmi e problemi di una spericolata coppia maschile. Ma sorprendente è anche un’impresa all’apparenza titanica, come quella di Licia Lanera di Fibre parallele, che nella scrittura pasoliniana per la scena (dopo aver sempre lavorato su testi propri) è andata a scegliere e a lavorare su Orgia, testo complesso che scava in maniera non pacifica nei rapporti e nell’essenza di uomo e donna. Un testo quasi «speculare», perché a un denso monologo maschile «risponde» (ma si potrebbe anche affermare «ignorandolo») uno femminile e funereo, e ancora uno maschile che si illumina di luce torbida e poi tragica nell’incontro con una giovanissima prostituta. Un testo complesso si diceva, che proprio a Torino aveva debuttato, con la regia dell’autore all’alba del ’68, con i corpi contrapposti di una carismatica Laura Betti e di Luigi Mezzanotte. Dopo tanti decenni, Licia Lanera lo riacchiappa per intero, impossessandosi di entrambi i ruoli, maschile e femminile, e lasciando spazio solo all’apparizione della ragazzina. L’attrice, forse anche per l’esperienza fatta con Ronconi, è molto maturata, scopre mezzi interpretativi prima forse oscurati dall’impeto drammatico, e dà con quei testi un itinerario di pensiero ineludibile, doloroso eppure sicuro. Si potrebbe sottilizzare sul fatto che non vi sia stacco tangibile tra maschio e femmina, ma se non è una scelta volontaria (e quindi in qualche modo riduttiva) ci sarà modo nelle repliche di mettere a punto quella contrapposizione per nulla conciliante. Perché poi il disegno pasoliniano di quello scontro tra i sessi, porta dritto alla questione del potere, rispetto al quale non si può che soccombere, in una prospettiva assolutamente pessimista e funebre: lei già in posa mortuaria, lui impiccato in abiti femminili. Ancor più raggelata è stata del resto l’apparizione del gruppo greco Blitz. Erano apparsi qualche tempo fa con il loro primo spettacolo, sorprendendo l’intera Europa con il ritmo senza fiato di atti, incontri, illusioni e suggestioni che mostravano chiaramente in controluce come si poteva reagire e sopravvivere a una situazione come quella ellenica a un passo dal baratro. Ora la visione è quella di un futuro prossimo, in cui cambiano tempi e stati d’animo , dopo che un evento traumatico è stato in qualche modo subito. La griglia di lettura di quella situazione l’hanno trovata in Cechov, come fin dal titolo è chiaro: Vanja, dieci anni dopo. I movimenti si son rallentati, la visione dilatata, il passato che pesa come citazione del classico (ci sono nel testo anche estratti da Goethe). Come nella commedia di Cechov la stagione dei furori e degli innamoramenti ha lasciato soli tre personaggi, un uomo e due donne. Che nell’alternanza e sovrapposizione del testo drammatico con le citazioni, trovano la via d’uscita per la loro sopravvivenza. Un terreno fascinoso, anche se di difficile orientamento per chi si inoltri per l’incognita storia ventura. Gianfranco Capitta Il piacere dell'Orgia nel teatro di Licia Lanera: ma Pasolini è proprio necessario? Teatro Abeliano, Bari – 14 ottobre 2016 Breve ma intensa. L’attività teatrale di Pier Paolo Pasolini si “consuma” fondamentalmente in pochi anni – dal 1966 al 1967 – periodo in cui, complice un’ulcera e la susseguente convalescenza, il profetico scrittore compose sei tragedie. Ma il risultato di questa fervente attività drammaturgica fu un clamoroso insuccesso, sancito sia dal pubblico che dalla critica, forse non ancora pronti ad accogliere le provocazioni di quel “teatro di parola”, in cui il principale destinatario era proprio il nemico contro cui polemizzava: la borghesia che va a teatro. Troppo avanti per i suoi tempi, certo, ma siamo sicuri che la sua voce sia ancora così attuale anche nei nostri giorni? Complice il quarantennale dalla sua scomparsa, celebrato lo scorso anno, abbiamo assistito a una vera e propria inondazione delle sue opere, a teatro e nelle altre arti. Forse è stata calcata un po’ troppo la mano, ma il fascino emanato dal poeta, quello sì, è indubbiamente senza tempo. A testimoniarlo, ancora una volta, c’è la scelta dei Teatri di Bari di affidare l’apertura della sua seconda stagione a Orgia, tragedia pasoliniana e ultima produzione targata Fibre Parallele. Un prologo e sei episodi, tutto rigorosamente scritto in versi, in cui la parola mai doma, ossessiva e ossessionante è il cardine su cui si fonda e si esplicita il dramma dell’alienazione, dell’emarginazione sociale o sessuale, in quello che è uno dei testi drammaturgici più autobiografici di Pasolini. In esso dà vita alla contraddizione di un Uomo e una Donna, “piccoli borghesi nel sogno che è il bene, di giorno, reprobi, nella realtà che è il male di notte”. Nel loro appartamento si esaurisce l’ultima, disperata e sadica azione necessaria per liberarsi dalla schiavitù omologante della normalità. Dal palco viene delimitato un quadrato con le luci (Vincent Longuemare), al centro di esso c’è una poltrona e sugli angoli anteriori sono posti due microfoni. Una scena essenziale sulla quale vengono “calate” via via dall’alto delle tele (Lorrain, Caravaggio, Furini), espedienti per evocare paesaggi di un passato che riemerge e per creare immagini teatrali squisitamente poetiche. In questo box, Licia Lanera fonde i ruoli dell’Uomo e della Donna in un unico corpo, possiede e si fa possedere dal testo di Pasolini senza risparmiarsi, conducendo un percorso di annichilimento che coinvolge il proprio corpo, la propria voce e la propria anima. Uno spettacolo di elevata qualità, frutto di una regia lucida (Lanera) e di un’interpretazione che mette in rilievo la versatilità della Lanera, oltre al suo indiscusso talento attoriale. Ma, tornando al discorso iniziale, a chi si rivolge questo testo? La gestualità, il tono – sarcastico dell’Uomo, dimesso della Donna –, l’abbigliamento e le incursione del funambolico flow di Eminem tendono ad attualizzare, in questo spettacolo, una drammaturgia che sentiamo comunque troppo lontana. Ma non è il testo ostico o l’uso di una lingua quasi “elitaria” a renderla distante, bensì lo spettro del suo autore che aleggia in ogni parola, la sua battaglia condotta e ormai terminata e con essa la volontà di scandalizzare qualcuno o qualcosa che ormai non esiste più. “The Times They Are aChangin’” canta il novello Premio Nobel Bob Dylan. Un’affermazione e una sentenza che non fa sconti, nemmeno per una delle figure più importanti e influenti della cultura italiana del Novecento. E allora, ben venga la lettura e la rilettura dei suoi testi, studiamolo, traiamo ispirazione dalla sua opera, senza dimenticare che Pasolini è morto, la borghesia è morta e, se continuiamo a evocarlo e a chiamarlo in causa con questa frequenza, forse, in fondo, lo siamo anche noi. Nicola Delnero Paperstreet.it Da Pasolini a Fibre Parallele: Licia Lanera offre una convincente interpretazione dell’Orgia pasoliniana 20 ott 2016 Di: Pasquale Attolico LDSMagazine “La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più essere compresi.” Incarnare la parola, e, quindi, renderla carne, umanizzandola, personificandola, rappresentandola, facendosene esegeta, interprete: concetto che si attaglia perfettamente al messaggio evangelico, al compito assegnato alla divinità del Cristo nel suo passaggio terreno, e che, probabilmente, non sfuggì a Pier Paolo Pasolini, che aveva da poco liquidato la sua antidogmatica lettura cinematografica del Vangelo secondo Matteo, quando cominciò a plasmare quella che ricordiamo come una delle sue creature più scandalosamente fisiche, tangibili, corporee, carnali appunto, in cui le parole – sublimi, come sempre in Pier Paolo – sono percepite come un limite, una frontiera, un confine, un termine, solo superato il quale si può giungere a vivere in senso pieno e totale il proprio essere, la propria materialità, la propria fisicità, in un vortice di desiderio che conduce sino alle più estreme conseguenze, sino ad un ineluttabile baratro, sul ciglio del quale si percepisce immediatamente e tragicamente che ci si trova di fronte ad un ulteriore passaggio verso una nuova mutazione, un varco per spiccare un inedito, forse estremo, salto, verso un libero volo o una caduta libera non è dato sapere, con la unica consapevolezza che solo la distruzione della carne stessa (ritorna il destino scelto da Cristo?) possa determinare il superamento della nostra imperfetta, asfissiante, irrisolta umanità. Orgia, controversa opera teatrale, che, messa in scena nel ’68 con la regia dello stesso autore e l’interpretazione della fedele Laura Betti e di Luigi Mezzanotte, fu sì aspramente criticata da far dichiarare a Pasolini che non avrebbe mai più scritto per il teatro e da essere pubblicata addirittura postuma, è un tassello di illuminante bellezza nella produzione pasoliniana, in cui la tragica rappresentazione della batracomiomachiaca ed autodistruttiva battaglia sessuale di una coppia diveniva il pre-testo per l’autore per inscenare il suo “dramma per la disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini”, in realtà celandovi una infinità di altre e distinte chiavi di lettura, non ultima, come detto, quella che atteneva il coraggioso tentativo di superare la parola, la sua esegesi, il testo stesso e la sua poetica. Nell’usuale claustrofobico scenario di un appartamento, si consuma l’iperbole cannibalizzante e totalizzante di un uomo e di una donna che, memori ed allo stesso tempo dimentichi di un passato di pace e serenità che hanno ereditato ma cui hanno rinunciato in virtù di una discutibile evoluzione dei rapporti umani, decidono scientemente di (s)terminare la propria famiglia, e quindi anche i due piccoli figli nati dalla loro unione, giungendo ad autodistruggersi in un gioco sadomasochistico senza precedenti, di inaudita violenza ed efferatezza (lo stesso che ritroveremo in “Salò”, ultima opera cinematografica di Pasolini). Certo, “morire e far morire”, come diceva Giorgio Gaber, “è un’antica usanza che suole aver la gente”, ma qui l’enunciato viene addirittura superato: non sembra aver importanza il chi uccida chi, se sarà l’uomo, dopo lunga riflessione, ad uccidere i propri figli e quindi, a seguito di un brutale amplesso, la donna prima di impiccarsi, ovvero sarà la donna, in quanto speculare proiezione delle pulsioni dell’uomo, a compiere, colta da un raptus (“si dirà: è morta per un alito d’aria”, le fa dire il poeta), la strage sui minori, rendendola immagine contemporanea di una Medea inconsapevole (quasi un’anticipazione del lavoro che Pasolini intraprenderà tre anni più tardi per la realizzazione del film con Maria Callas), prima dell’obbligato suicidio; in verità, non sapremo mai se il cruento omicidio / suicidio, rito sacrificale e purificatorio, sia stato realmente compiuto, o se siamo stati proiettati nel delirium premortem dell’uomo quando, abbandonato dalla sua famiglia, come confesserà alla prostituta con cui tenterà di replicare il coito coniugale, morirà in assoluta solitudine, soffocato dal suo stesso vomito, urlando il suo angoscioso ed angosciante “non sono guarito”, o più semplicemente siamo parte di un’elucubrazione mentale, di un’immagine di sé che l’immaginazione dell’uomo ha partorito e proiettato al di fuori, pronta a farsi visione per un pubblico di affini (“ripeto, dunque, che se la mia vita fosse stata uno spettacolo, il flashback delle ultime vicende della mia tragedia non potrebbero essere state dramma o dilemma che per la coscienza di un eventuale spettatore”), ed, alla fine, non è nemmeno importante saperlo perché, farà ripetere Pasolini al suo protagonista, “la verità non sta in un solo sogno ma in molti sogni”. Quel che conta è, appunto, l’interpretazione che lo spettatore, non più distaccato uditore ma divenuto a sua volta attore in quanto testimone e partecipe del rito, dà a quegli eventi, a quelle (dis)umane vicende, a quella esistenza, che, poi, è la sua. Oggi, a distanza di ben cinquanta anni dalla sua creazione, la forza deflagrante di Orgia è ancora intatta, anzi forse si è accresciuta, peraltro sovrapponendosi ad alcuna atroce quotidianità, come testimonierebbero i molteplici fatti di cronaca che siamo costretti a registrare; da qui, è quasi naturale che l’opera dovesse incontrarsi (e scontrarsi) con la produzione di una delle migliori compagini teatrali contemporanee, le Fibre Parallele, di cui ci siamo più di una volta confessati ferventi ammiratori; anzi, a pensarci bene, sorprende che l’incontro tra il gruppo barese ed il Maestro non sia avvenuto prima, per i tantissimi punti di contatto, ma questo potrebbe essere anche stato un bene, vista la resa ultima dello spettacolo cui abbiamo assistito in uno stracolmo Teatro Abeliano, sold out per due sere, in apertura della annuale interessantissima rassegna dei Teatri di Bari. Licia Lanera, splendida fautrice di questo adattamento, tanto alla regia, ottimamente assistita da Danilo Giuva e coadiuvata dalla consulenza di Alessandra Di Lernia e dalle luci di Vincent Longuemare, quanto alla recitazione, affrontata, in uno magnifico assolo, tanto nel ruolo della donna quanto dell’uomo, con il breve intervento della più che promettente Nina Martorana nel ruolo della prostituta, ci restituisce la perfezione poetica pasoliniana nella sua accecante luminosità, realizzando appieno il dettato del suo creatore che voleva la recitazione fosse “un misto di verità parlata e di dizione poetica”, ed anche la impetuosa carnalità del messaggio dell’opera, divenendo essa stessa, allo stesso tempo, parola e corpo, officiante e vittima di quel cerimoniale pagano che si offre ai nostri occhi, che può, senza tema di smentita, essere paragonato all’annoso ed amato rito del Teatro, altra tematica cara alle Fibre Parallele. Ecco, dunque, che la Lanera, grazie anche all’apporto delle note di Georges Gurdjief e di Eminem, in perfetta contrapposizione, ed alle gigantesche riproduzioni di tre dipinti di Claude Lorraine, Francesco Furini e Caravaggio (probabilmente memore di quel che affermava Federico Zeri: “Secondo me c’è una forte affinità fra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio, perché in tutt’e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi”), riesce, incarnando il verbo, come sopra detto, a farsi interprete eccelsa, in una ricerca ossessivamente ermeneutica, della parola pasoliniana, rivivendola sulla propria pelle, intimamente, per poi lasciarla esplodere con tutta la sua violenza distruttrice in una eruzione magmatica che espande i propri effetti all’intera sala, visibilmente colpita allo stomaco come stanno a testimoniare anche i tanti secondi di totale silenzio alla fine dello spettacolo prima della giusta ovazione. Ne nasce la prova d’attrice più matura dell’artista, che si spinge sino all’estremo di quanto possa permetterle la natura umana, tesa – pare – quasi a superarla, a soverchiarla, ad infrangerla. Anche l’utilizzo dell’apparato tecnico è ancora una volta mezzo per raggiungere la piena rappresentazione dell’immaginario, come quando uno dei due microfoni si trasforma spudoratamente in pene pronto alla fellatio; ogni minimo oggetto, nella rappresentazione delle Fibre, non appare mai per caso ma risulta assolutamente confacente a disorientare e sferzare la nostra asettica visione, come quando lo yogurt contenuto nei due vasetti presenti sul palco dall’inizio dello spettacolo si trasforma prima in sperma e poi in vomito, lo stesso in cui si adagerà il/la protagonista, trovando il primo e definitivo momento di pace dell’intera performance. Impossibile fuggire, impossibile arroccarsi dietro le nostre certezze; l’epilogo di Pasolini e della Lanera sta lì a dirci che Orgia non può, non deve essere considerato solo uno spettacolo, perché non lascia scampo, non conosce facili indulgenze, non prevede prigionieri né pentimenti, ma spinge chi ha partecipato al rito ad operare una estrema scelta di campo: se accontentarsi di una assecondante realtà o spingersi oltre, cercare una rinascita che non può non avere i canoni rivoluzionari del rigetto dell’omologazione e del potere, per tentare di resistere, ancora una volta, all’opprimente quanto imminente nuova barbarie. Per quel che conta, noi siamo sempre stati con Pier Paolo; ora, ça va sans dire, siamo dalla parte di Licia. I fermenti, la virilità e le ossessioni: Orgia di Licia Lanera Si può morire per ammazzare. Ogni forma di diversità deve poter rinascere e fare i conti con la storia, quella personale, intrinseca a quella collettiva, che è sempre processo di autodistruzione e annichilimento. Di morte e potere. E’ toccato a Orgia di Pier Paolo Pasolini di Licia Lanera/Fibre Parallele aprire la stagione dei Teatri di Bari (Teatro di Rilevante Interesse Culturale), in replica questa sera, alle ore 21.00 presso il Teatro Abeliano. Un prologo, sei episodi per la prima delle sei tragedie che Pasolini scrive a partire dal ’65. La prima volta toccò a Laura Betti e Luigi Mezzanotte interpretarla, per la prima volta al Teatro Stabile di Torino nel novembre del ’68, accolti negativamente dal pubblico e dalla critica. Tant’è che Pasolini di lì in poi rinuncerà al teatro. Delle Fibre questa volta sul palco c’é solo Lanera, regista e interprete. Uomo e Donna, insieme a Nina Martorana nel ruolo della prostituta. Licia porta tutto quello che è stata ed è, rinnovando un amore viscerale per la parola e il gesto, che rimandano alla poetica asserzione del tardo De André, qui combinatosi con il PPP non solo di Orgia, difficile non pensare all’altra grande storia, postuma, in cui l’intellettuale si confronta con la sua diversità (Amado mio). La diversità a cui dà corpo e parola Lanera sul palco è tragica. Sin dall’inizio ci si imbatte in una lingua che appare menzognera, rispetto al gesto, invece, animalesco, barbaro e che sfocia nella violenza sessuale, verbale, sentimentale. Sul palco l’attrice si offre come pasto nudo alla rappresentazione dell’ossimoro, attraverso i paesaggi di Lorrain, che sprofondano gli animi verso cieli in cui è difficile non accorgersi della distanza dalla terra, a causa degli alberi, di contro all’estasi di Maddalene (Caravaggio) la cui colpa è tutta tenuta, rappresa, sorretta nella stretta di mani che parlano più di tante urla. Sempre nell’ambito di un lavoro in cui morte/vita, silenzio/parola, luce/buio sono a disposizione di diversità che si annusano, toccano per separarsi immediatamente, è abbastanza funzionale la scelta della scenografia, che è solo una delimitazioni di spazi, al modo di Lars Von Trier, con un quadrato, cinque per cinque, delimitato dalle luci e da nastro adesivo e una poltrona. Spazio in cui è possibile che coabitino, per assurdo, anche le Ninfe (Furini). Fra irruenza verbale, affidata al rapper Eminem, e il testo verboso e abbastanza difficile di Pasolini, Lanera mette in atto una sorta di saggio sul potere del corpo, un misto di carnefice e vittimismo, in cui il Maschio/Femmina si determinano attraverso un elemento, lo yogurt, costituito, appunto, da fermenti (lattici) per lo più: prima sperma e poi vomito, generazione, dolore, morte. Si sa di lei che ammazza i figli; di lui che invece muore impiccato in mezzo al vomito. Si conosce della morte, dall’inizio alla fine del dramma, eppure, l’atto vitale prevale, nel lavoro di Lanera. Straordinario il lavoro sulla voce, capace di rendere il testo in immagine. Mai, come in questo lavoro, si era vista l’attrice in una versione tutta fortemente al femminile, in cui il rapporto con l’altro sesso è innanzitutto un reciproco scontro di potere dei corpi, che urlano anche quando il testo di Pasolini raggiunge vette sublimi di poetica ieraticità, cui, però, Lanera non rinuncia quasi a riscrivere, scalfendo ogni parola nella carne e col sangue. 15 ott 2016, Repubblica.it, Bari Giancarlo Visitilli Pasquale Bellini, 14-10-2016 La Gazzetta del Mezzogiorno