Interventi preordinati - Clinica Dermatologica

Interventi preordinati
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79° Congresso Nazionale SIDeMaST
Letture
Le modalità di trasmissione dell’HHV8. Screening su una popolazione di politrasfusi
• Cottoni F, Masala MV, Montesu MA
Istituto di Dermatologia, Università di Sassari
Le modalità di trasmissione dell’HHV8 rimangono a tutt’oggi non note; in particolare in letterature sono riportati dati discordanti per quanto riguarda la trasmissibilità in corso di trasfusioni.
Per valutare tale rischio abbiamo studiato la sieroprevalenza di anticorpi anti-HHV8 in pazienti affetti da beta-talassemia e pertanto sottoposti a trasfusioni ripetute. Abbiamo analizzato 86 pazienti provenienti dalla Sardegna, area ad alta prevalenza di infezione da HHV8,
e 33 pazienti talassemici provenienti da Roma dove è riportata una bassa diffusione dell’infezione virale.
Nei pazienti talassemici abbiamo riscontrato una sieroprevalenza 3 volte maggiore rispetto ai controlli. In particolare abbiamo osservato nei talassemici sardi una prevalenza di 17,6% contro una prevalenza del 5,1% nella popolazione sarda di controllo. Nei talassemici
romani si osservava una prevalenza pari a 12,1% e una prevalenza del 4,6% nella popolazione romana di controllo.
I dati da noi ottenuti sembrano indicare che soggetti politrasfusi presentano un alto rischio di infezione da HHV8; tale rischio è maggiore
per i soggetti residenti nelle ad alta sieroprevalenza.
Sindromi paraneoplastiche
• Fazio M
Istituto Dermopatico dell’Immacolata, Roma
Il termine “sindromi paraneoplastiche” introdotto da Boudin nel 1961 si riferisce a manifestazioni cutanee che insorgono spesso in presenza di neoplasie maligne di organi interni; il quadro cutaneo non è tuttavia direttamente correlato alla presenza del tumore primitivo
o delle sue metastasi. Le sindromi paraneoplastiche sono di notevole interesse diagnostico in quanto possono rappresentare la spia precoce di una neoplasia, a volte ancora asintomatica; possono avere un’espressione endocrina, neurologica, muscolare, ematologica e
cutanea.
La patogenesi delle sindromi paraneoplastiche riconosce vari meccanismi: produzione di sostanze di tipo ormonale secrete dal tumore;
risposta immunitaria antitumorale che, per reazione di tipo crociato con antigeni cutanei, induce la comparsa di lesioni dermatologiche; consumo, da parte del tumore, di principi nutritivi essenziali, con probabile carenza da “shunt metabolico”.
È possibile raggruppare le sindromi paraneoplastiche in due gruppi fondamentali, in rapporto alla loro correlazione con il tumore: Dermatosi paraneoplastiche obbligate, che risultano costantemente associate a neoplasie degli organi interni, rappresentando il “marker”
di un tumore specifico; Dermatosi paraneoplastiche facoltative, che inducono al sospetto della possibile presenza di un tumore.
Esistono, infine, altre dermatosi che solo in casi eccezionali, si sono dimostrate paraneoplastiche.
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La fotochemioterapia extracorporea nel trattamento della Graft versus Tumour
• Fimiani M, Rubegni P
Dipartimento di Medicina Clinica e Scienze Immunologiche; Sezione di Dermatologia - Università di Siena
La induzione di Graft versus Tumor (GvT) mediante trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche è una immunoterapia innovativa, impiegata soprattutto in pazienti affetti da neoplasie ematologiche. Negli ultimi anni, tale procedura, è stata estesa anche al trattamento di neoplasie solide quali il carcinoma renale e mammario. Tuttavia, nonostante le incoraggianti prospettive, una difficoltà ancora solo parzialmente risolta è la gestione terapeutica della “Graft vs Host Disease” (GvHD) volutamente indotta in tali soggetti al fine
di provocare l’aggressione immunologia della massa tumorale.
Riportiamo i risultati preliminari ottenuti in 3 casi di GvT trattati con fotochemioterapia extracorporea.
Discutiamo i probabili meccanismi attraverso i quali la FCE è in grado di esplicare una azione terapeutica nella GvHD senza interferire sulla efficacia terapeutica della GvT.
Epidermodisplasia verruciforme
• Micali G
Clinica Dermatologica, Università di Catania
L’epidermodisplasia verruciforme (EV) è una rara genodermatosi a carattere autosomico recessivo, predisponente allo sviluppo in giovane
età di lesioni displastiche e carcinomatose cutanee multiple, caratterizzata da un’infezione cutanea cronica e diffusa da parte di taluni
HPV (tipo 3, 5, 8-10, 12, 14-15, 17, 19-21, 23-26, 37-38, 47) i quali, innocui per gran parte della popolazione generale, risultano intrinsecamente patogeni per i soggetti affetti da EV, verosimilmente a causa di un deficit immunitario selettivo nei loro riguardi. Quest’ultimo, unitamente al ruolo cocarcinogenetico esplicato dalle radiazioni attiniche, è implicato nella progressione verso la degenerazione neoplastica delle lesioni cutanee osservabili in questi pazienti, delle quali viene offerta una esauriente rassegna clinica. Viene inoltre presentata, unitamente ad una disamina aggiornata della letteratura sull’argomento, anche alla luce delle più recenti cognizioni sul
ruolo oncogeno degli HPV, lo stato dell’arte su tale patologia, nella quale è stata recentemente identificata una mutazione dei geni
EVER1/TMC6 ed EVER2/TMC8.
Impatto clinico della genetica molecolare nelle neoplasie cutanee maligne
• Peris K
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di L’Aquila
Nel corso dell’ultima decade, gli studi genetico-molecolari hanno consentito di identificare i geni responsabili di sindromi neoplastiche
familiari e di numerose genodermatosi caratterizzate dallo sviluppo di neoplasie cutanee maligne. In particolare, il melanoma familiare
si trasmette con modalità autosomica dominante ed è determinato, nella maggioranza dei casi, da mutazioni germinali del gene soppressore tumorale CDKN2A e più raramente da alterazioni dal gene CDK4. La Sindrome di Gorlin-Goltz, caratterizzata dallo sviluppo di
carcinomi basocellulari multipli, è causata da mutazioni del gene soppressore tumorale Patched, localizzato nella regione 9q22.3. Alterazioni germinali dei geni del sistema di riparazione del DNA (hMSH2 e hMLH1) costituiscono il difetto genetico della sindrome di MuirTorre. La neurofibromatosi di tipo 1 è causata da mutazioni del gene NF1 localizzato in 17q11, che è un inibitore della proliferazione cellulare mediata dalla proteina RAS. La possibilità di effettuare una diagnosi molecolare è metodologicamente più agevole quando il gene è costituito da pochi esoni o esistono mutazioni di tipo “hot spot”. In tali casi, l’applicabilità clinica prevede lo screening ed il monitoraggio dei pazienti affetti e dei loro familiari ad alto rischio di sviluppare la neoplasia. Tuttavia, è da precisare che i test genetici devono essere eseguiti nell’ambito di programmi di ricerca e in pazienti ben selezionati sulla base dei dati clinici. Inoltre, i pazienti devono essere ben informati sul reale impatto clinico del risultato del test genetico, al fine di evitare risvolti psicoemotivi quali ansia (test positivo)
o falsa sicurezza (test negativo), che potrebbero interferire con un appropriato programma di prevenzione e monitoraggio.
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Interventi preordinati - Letture
La cicatrice: biologia e prevenzione
• Alessandrini G, Fai D
Collegio Salentino di Dermatologia
Successivamente ad un insulto la pelle ha una straordinaria capacità di guarire. Quando l’insulto coinvolge la pelle in toto, il processo di
riparazione avviene mediante rimozione del tessuto leso e produzione di nuova matrice extracellulare. Su questa potrà essere ristabilita
poi la continuità epidermica. Questo processo di riparazione e susseguente riorganizzazione della matrice dermica è conosciuto come
formazione della cicatrice e maturazione della stessa. Se questo processo è molto efficiente si forma poca o addirittura nessuna cicatrice, come nei processi di riparazione tissutale durante la vita fetale. Si focalizzerà l’attenzione sulla biologia della cicatrice e sulle nuove
acquisizioni in tema di trattamento topico. Le novità riguardano in particolare un gel di polisilossano combinato con vitamine E e K.
La cute da donatore ingegnerizzata
• Fimiani M
Dipartimento di Medicina Clinica e Scienze Immunologiche - Sezione di Dermatologia, Università di Siena
Una delle problematiche più attuali ed importanti, da tempo emersa e non ancora risolta, della terapia delle perdite di sostanza cutanea a tutto spessore (soprattutto in sedi critiche quali le pieghe, il volto, le regioni palmo-plantari), è la necessità di ricostruire un derma
non cicatriziale, che esprima le caratteristiche biologiche e fisiche (vascolarizzazione, innervazione, equilibrata presenza di tutte le componenti della matrice extracellulare, elasticità e consistenza) proprie della struttura anatomica persa. In una ferita profonda, che guarisca per seconda intenzione, infatti, il processo di cicatrizzazione si realizza attraverso la formazione di tessuto di granulazione che, inevitabilmente, con il tempo va incontro a sclerotizzazione e forma così una cicatrice che ha caratteristiche fisiche (anelasticità, consistenza
aumentata) e biologiche (scarsa vascolarizzazione e cellularità, assenza di annessi, eccessiva espressione di collagene) completamente
diverse da quelle del tessuto perso e funzionalmente inadeguate. Per superare questa difficoltà, sono state messe a punto alcune tecniche chirurgiche (Cuono C et al. Lancet 1986 17;1:1123-4; Alexander JW, et al. J Trauma 1981;21:433-8), che prevedono l’impiego di
cute da donatore quali supporto per innesti di cute e/o trapianti di cellule epiteliali espanse in vitro autologhe.
Queste tecniche trovano nella complessità delle metodiche e nella scarsa prevedibilità e inadeguatezza dei risultati ottenuti sotto il profilo funzionale ed estetico, delle importanti limitazioni. Così pure i bioprodotti messi a punto ed introdotti sul mercato da diverse industrie (es. Alloderm®, Apligraft®, Oasis™, E-Z-Derm™ OrCel™, Trans-Cyte™), per la ricostruzione delle perdite di sostanza cutanea, danno adito ad importanti critiche, sia per quanto riguarda i costi, elevatissimi, che per la sicurezza di impiego, in considerazione dell’uso
di collagene bovino e/o altri derivati animali e/o cellule provenienti da altri individui.
La necessità di un prodotto che consenta di ripristinare anatomicamente e funzionalmente il tessuto dermico, con costi contenuti e sicurezza biologica ottimale, costituisce, pertanto, obiettivo di prima rilevanza medica e sociale.
La disponibilità del DED (derma umano de-epidermizzato), trattato in modo da eliminare le componenti cellulari immunogene (cellule
endoteliali, epidermiche, Langherans ecc..), idoneo al trapianto avendo superato tutte le indagini previste per l’impiego di materiale
biologico e già utilizzato per particolari indicazioni, offre l’opportunità di allestire un nuovo ed interessante bioprodotto da poter ingegnerizzare, colonizzandolo con componenti cellulari di varia provenienza. Viene presentata e discussa l’esperienza maturata nel corso
degli ultimi anni presso la Clinica Dermatologica di Siena nel settore dell’allestimento di DED ingegnerizzato con Fibroblasti e Cellule
staminali autologhi. In particolare viene posto l’accento sulle prospettive che il modello DED + Cellule Staminali apre nel settore della riparazione tessutale, permettendo di sostituire alla cicatrizzazione una vera rigenerazione tessutale.
di DED ingegnerizzato con Fibroblasti e Cellule staminali autologhi. In particolare viene posto l’accento sulle prospettive che il modello
DED + Cellule Staminali apre nel settore della riparazione tessutale, permettendo di sostituire alla cicatrizzazione una vera rigenerazione tessutale.
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Acne giovanile: problematiche attuali
• Innocenzi D
Dipartimento di Malattie Cutanee-Veneree e Chirurgia Plastica Ricostruttiva - Università degli Studi “La Sapienza” Roma
L’acne è una patologia infiammatoria a patogenesi multifattoriale, che colpisce circa l’80% dei giovani di età compresa tra gli 11 ed i 30
anni. I principali meccanismi patogenetici che influenzano l’insorgenza e lo sviluppo dell’acne sono: aumentata attività delle ghiandole sebacee (seborrea), disturbo della cheratinizzazione dell’infrainfundibulo, colonizzazione batterica ed, infine, infiammazione e reazioni immunologiche follicolari e perifollicolari. Ciascuno di questi momenti può chiaramente rappresentare il target di un trattamento specifico.
L’esordio della sintomatologia si ha generalmente in età prepubere e dopo circa 4-5 anni il quadro clinico raggiunge il massimo grado di
severità, per poi risolversi intorno ai 20-25 anni. Le lesioni tendono a localizzarsi prevalentemente sul volto (nel 99% dei casi), ma anche
sul dorso (nel 60% dei casi) e sul torace (nel 15% dei casi). L’acne si presenta con un’ampia varietà di forme cliniche, di cui esistono diverse classificazioni. In base al tipo di lesione prevalente si può distinguere un’acne non infiammatoria o acne comedonica, ed un’acne infiammatoria, se prevalgono lesioni di aspetto flogistico quali papule, pustole, noduli e cisti. Ogni tipo di lesione ha un corrispettivo istopatologico. Nell’ambito dell’acne infiammatoria è possibile, inoltre, riconoscere forme papulose, pustolose, nodulari e cistiche. Quando
diversi tipi di lesioni sono contemporaneamente presenti, ma nessun tipo prevale numericamente sugli altri, si hanno delle forme intermedie di acne, quali l’acne comedo-papulosa, l’acne papulo-pustolosa e l’acne nodulo-cistica. In base alla severità delle lesioni è possibile, invece, classificare l’acne in acne lieve, acne moderata, acne severa e, secondo alcuni Autori, acne molto severa.
Ad ogni specifica forma di acne corrisponde un trattamento idoneo, con possibilità di utilizzare farmaci topici e/o sistemici di prima e di
seconda scelta. Considerando, infine, che l’acne è una patologia a patogenesi multifattoriale, il trattamento più efficace è quello che agisce sul maggior numero di fattori patogenetici.
Tre potenzialità per un filler combinato totalmente riassorbibile: aumento volumetrico,
rigenerazione di nuovo tessuto dermico, rivitalizzazione
• Rigo C, Pera S
Molte delle sostanze estranee oggi in commercio si sono nel tempo rivelate inadeguate, sia dal punto di vista clinico, che istologico, con
problemi legati a reazioni da corpo estraneo,migrazione, sovrainfezioni e instabilità della molecola.
Per esplicare questa potenzialità, senza complicazioni, ma con risultati duraturi il più a lungo possibile, la ricerca si avvale di filler non solo riempitivi, ma anche rigeneranti.
Due prodotti con caratteristiche diverse.
Aumento e rigenerazione per MATRIDUR
Aumento e rivitalizzazione per MATRIDEX
MATRIDUR è un gel di acido jaluronico semplice con acido jaluronico cross-linked, idrossipropilmetilcellulosa che ne diminuisce la velocità di degradazione.
MATRIDEX, invece,è un gel copolimero di acido jaluronico semplice con acido jaluronico cross-linked, idrossipropilmetilcellulosa, acido
lattico, sferule di destrano o destranomeri (DEAE SEPHADEX)
Il componente chiave del prodotto sono i destranomeri, sferule di destrano cross-linked, perfettamente sferiche, liscie, della misura da
80 a 120 millimicron con carica di superficie positiva.
Ed è proprio la carica positiva delle micro-sfere, già usate da lungo tempo per la cicatrizzazione di ferite ed ulcere, a stimolare la neogenesi di nuove fibre collagene.
È un filler che consta di:
• Un SISTEMA PORTANTE con “effetto fillling”
• Un SISTEMA ATTIVO
con “rigenerazione di nuove fibre collagene”
La biocompatibilità, l’istogenesi e la biodegradabilità, garanzia di sicurezza del prodotto, sono state monitorate con biopsie seriate da
6 a 24 mesi.
La tecnica di iniezione del prodotto è intradermica, lineare, a tunnel retrogrado.
Gli effetti collaterali sono quelli di tutti i filler riassorbibili e comunque si risolvono in 24 - 48 ore.
Concludendo: la combinazione di prodotti biocompatibili dà origine ad un filler adatto all’aumento dei tessuti molli ed in grado anche
di stimolare la neogenesi di tessuto collagene mancante.
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Interventi preordinati - Letture
Peeling combinato: efficacia terapeutica e controllo del trauma nei diversi trattamenti
dermatologici
• Rigo C
La pelle è un organo dinamico, ogni giorno a livello dello strato basale dell’epidermide nuove cellule si generano e incominciano la loro risalita verso lo strato corneo più superficiale. Si verifica così un vero e proprio rinnovamento della cute, l’epidermide vecchia è sostituita con una nuova più luminosa, più omogenea e più fresca. Per ottenere risultati di una certa efficacia, senza grandi effetti collaterali, occorre utilizzare per lo più peeling di profondità medio-superficiale. L’acido tricloroacetico come il fenolo, unitamente all’ultima generazione dei peeling combinati, sono gli agenti chimici più utilizzati nel mondo. Nei peeling di tipo combinato, l’associazione di più
agenti esfolianti, viene utilizzata al fine di ottenere il massimo beneficio terapeutico di ogni agente, minimizzando il rischio di effetti
collaterali, attraverso la diminuzione delle concentrazioni dei singoli componenti. Ci riferiamo ad un tipo di peeling, denominato Yellow
Peel (Y.P.) con azione sia di tipo esfoliante, sia depigmentante attraverso un meccanismo di blocco enzimatico e non, a diversi livelli sulla melanogenesi. Nelle indicazioni principali di Y.P. i risultati si ottengono modulando in base al caso clinico gli step applicativi, per ottenere la risoluzione del problema.
L’applicazione sulla cute di questo prodotto produce “un trauma controllabile”, infatti, a seconda del tempo di contatto e del numero
di applicazioni ripetute, può causare un danno solo epidermico, epidermolisi o più profondo dermico papillare, dermolisi. I risultati quindi dipendono dalle modalità applicative, dall’abilità del medico nel gestire gli eventi successivi al trattamento, e dalla meticolosità del paziente nel seguire il protocollo post-terapeutico.
Un nuovo idrogel per il trattamento delle ulcere cutanee
• Veraldi S, Dassoni F, Frasin LA
Istituto di Scienze Dermatologiche, I.R.C.C.S., Università di Milano
Gli autori presentano i risultati preliminari di uno studio clinico spontaneo relativo all’utilizzo di un nuovo idrogel colloidale a base di alginati. Sono state trattate ulcere cutanee croniche a eziopatogenesi variabile, caratterizzate da un’importante componente flogisticoessudativa.
Il laboratorio immunoallergologico nel management del paziente con Dermatite Atopica
• De Pità O
Lab. Immunologia ed Allergologia - Istituto Dermopatico dell’Immacolata, IDI-IRCCS, Roma
La Dermatite Atopica (DA) è una delle più comuni malattie infiammatorie della cute che insorge più comunemente in età infantile ed
assume quasi sempre un andamento cronico-recidivante. Le manifestazioni cutanee, che in fase acuta sono eritemato-essudative e in
fase cronica eritemato-desquamative e lichenificate, possono associarsi a sintomi respiratori quali asma bronchiale e rino-congiuntivite.
L’esame istopatologico della cute lesionale di DA mostra un infiltrato infiammatorio in cui predominano linfociti T attivati, cellule monocito-macrofagiche e cellule dendritiche attivate, queste ultime particolarmente efficienti nel presentare gli allergeni ai linfociti T specifici, per espressione sulla loro superficie di livelli elevati dei recettori ad alta (FcεRI) e a bassa (FcεRII) affinità per IgE. Inoltre, mentre le
lesioni acute della DA sono caratterizzate dalla predominanza di citochine prodotte dai linfociti allergene-specifici attivati di tipo Th2
(tra le quali IL-4, IL-5 e IL-13), le lesioni croniche mostrano un’importante presenza di linfociti Th1 in grado di rilasciare IFN-γ. In tal senso l’utilizzo del CD30 solubile (CD30s), marker di attivazione delle cellule Th2, nella valutazione della gravità di malattia e nel monitoraggio di terapie immunomodulanti in corso di DA è stato ampiamente documentato in letteratura, sia nei pazienti adulti che in quelli
pediatrici. Le acquisizioni sul ruolo delle chemochine nel reclutamento selettivo delle cellule infiammatorie stanno contribuendo a una
migliore comprensione degli articolati meccanismi molecolari e cellulari implicati nell’insorgenza di questa patologia. È stata ampiamente dimostrata sia nella cute che nel siero di pazienti con DA in fase attiva di malattia la presenza di numerose citochine chemotattiche (RANTES, MCP-3, Eotassina, MDC, TARC, IL-16) e loro recettori (CCR3, CCR4) che attraverso la chemotassi di eosinofili e linfociti
Th2 cute specifici sono in grado di mantenere e amplificare il processo infiammatorio alla base del danno cutaneo. Recentemente è stata identificata una nuova chemochina della famiglia CC, denominata CTACK (CCL27), in grado di attirare preferenzialmente linfociti T
memoria che esprimono il cutaneous lymphocyte antigen (CLA), recettore di accasamento cutaneo. Si può pensare che questa chemo-
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china abbia un ruolo di rilievo nella immunopatogenesi della dermatite atopica, dato che i linfociti CLA positivi rappresentano l’80-90%
dell’infiltrato T cellulare della cute lesionale, e che le risposte specifiche agli allergeni sono mediate da questi linfociti. In tal senso, diversi
studi hanno dimostrato come allergeni inalanti e/o alimentari sono maggiormente associati alla dermatite atopica, e molto si discute
sul grado di sensibilizzazione e correlazione alla gravità di malattia. Secondo dati ottenuti da un nostro studio retrospettivo, valutato su
un ampio numero di pazienti pediatrici con DA studiati per i livelli di IgE totali e specifiche per i comuni allergeni aeroalimentari, si è evidenziato come in realtà esista una relazione tra la sintomatologia cutanea e il grado di sensibilizzazione ai comuni allergeni (soprattutto acari della polvere e proteine dell’uovo). In tal senso l’utilizzo dei test in vitro diventa di particolare importanza nella valutazione dei
pazienti con DA e particolarmente di quelli con forma severa di malattia per i quali non è sempre possibile eseguire i test epicutanei.
Linee guida emergenti per la diagnosi dell’Orticaria
• Frezzolini A
Lab. Immunologia ed Allergologia - Istituto Dermopatico dell’Immacolata, IDI-IRCCS, Roma
L’Orticaria è una patologia che, nelle sue diverse manifestazioni cliniche (fisica, cronica idiopatica, allergica) interessa circa il 30-40%
della popolazione generale che presenta almeno un episodio di orticaria nell’arco della propria vita, scatenato da uno o più di uno dei
tanti fattori causali: alimenti, farmaci, infezioni, inalanti, stress psico-fisici e altri ancora. La patologia rappresenta un’esperienza spesso
impegnativa sia per il paziente che per lo specialista, alle prese con percorsi diagnostici complicati e con approcci terapeutici non sempre standardizzati, sia per la grande variabilità dei rilievi clinici, laboratoristici ed istopatologici che per la etiopatogenesi multifattoriale
alla base del processo infiammatorio.
Le più recenti linee guida per la diagnosi dell’orticaria, emerse da importanti e copiosi studi di revisione della letteratura, indicano nell’anamnesi e nell’esame obiettivo gli strumenti più efficaci per arrivare ad una corretta diagnosi, riservando alcune indagini di laboratorio solo a casi clinici selezionati. Nell’orticaria cronica di tipo autoimmune mediata da anticorpi anti-FceRIa o anti-IgE il test in vivo del siero autologo è attualmente lo strumento più utile alla diagnosi, sebbene una risposta positiva possa essere considerata solo suggestiva
e non diagnostica di una patogenesi autoimmune. Abbiamo recentemente messo a punto una nuova metodica in grado di valutare in
vitro l’attivazione dei granulociti basofili circolanti, tenuto conto dell’importanza che hanno queste cellule nella patogenesi dell’orticaria rispetto al rilascio di mediatori preformati quali istamina, citochine, fattori chemiotattici. Tale metodica citofluorimetrica, considera
come attivati quei basofili in grado di esprimere la molecola di superficie CD63 (gp53), una glicoproteina espressa ad alta densità solo
sui basofili attivati; è stato dimostrato che l’analisi quantitativa citofluorimetrica del CD63 correla con il dosaggio del rilascio di istamina dagli stessi basofili stimolati con fMLP, estratti pollinici o anticorpi anti-IgE, e rappresenta quindi un valido e rapido strumento per
l’analisi dell’attivazione dei basofili, già utile alla diagnosi delle reazioni di ipersensibilità di tipo I, specialmente in risposta ad allergeni e
a terapie immunomodulanti. Dati ottenuti incubando basofili di un donatore allergico con il siero di pazienti con orticaria cronica idiopatica sottoposti a test del siero autologo evidenziano una stretta correlazione tra la risposta in vivo e quella in vitro; tale test si pone quindi come un utile strumento di laboratorio nella valutazione del paziente con orticaria cronica idiopatica, in quanto permette di quantificare lo stato di ipersensibilità individuale responsabile della manifestazione clinica e può considerarsi alternativo al test in vivo del siero autologo, non sempre di facile esecuzione sia per le condizioni cliniche (coinvolgimento cutaneo grave) e/o la scarsa compliance del
paziente che per l’eventuale uso di terapie in corso (cortisonici, antistaminici).
Bibliografia
• Kozel MM et al. Evaluation of a clinical guideline for the diagnoses of physical and chronic urticaria and angioedema.
Acta Derm Venereol 2002;82:270.
• Grattan C et al. Management and diagnostic guidelines for urticaria and angio-oedema. Br J Dermatol 2001;144:708.
Angioedema da farmaci non istaminergico
• Virgili A, Zampino MR
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale - Sezione di Dermatologia, Università degli Studi di Ferrara
L’angioedema (AE) è un’entità clinica ben nota, caratterizzata dalla insorgenza improvvisa di edema localizzato e reversibile del derma
profondo, ipoderma e/o delle mucose. Le manifestazioni cutanee, solitarie o multiple, talora asimmetriche, coinvolgono più frequentemente volto, labbra, genitali, mani e piedi. L’eventuale interessamento delle mucose gastrointestinali può provocare intense crisi dolo-
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rose addominali, associate a vomito e/o diarrea, con quadri evocativi dell’addome acuto. Le manifestazioni a carico delle prime vie respiratorie possono risultare particolarmente critiche, poiché l’edema di lingua e laringe può portare ad asfissia con esito fatale.
L’AE può presentarsi simultaneamente o in alternanza all’orticaria o, più raramente, costituire un reperto isolato.
Nella maggior parte dei casi l’AE è indotto dalla liberazione di istamina attraverso meccanismi di carattere immunologico o allergico in
senso stretto, come avviene nella reazione immunologia di tipo immediato o tramite la formazione di immunocomplessi, oppure di carattere non immunologico o pseudoallergico, come avviene per azione diretta della noxa sul mastocita o sul complemento. In entrambi i casi, è verosimile che le stesse cellule (basofili e mastcellule) e gli stessi mediatori, in particolare l’istamina, siano coinvolti nell’induzione della risposta cutanea, come confermato dalla risposta favorevole al trattamento con antistaminici.
Nell’AE senza orticaria è possibile individuare meccanismi patogenetici associati alla liberazione di mediatori alternativi all’istamina e che
prevedono il coinvolgimento di complessi meccanismi biochimici, quali il sistema callicreina-chinina, il sistema della coagulazione, il sistema del complemento, il metabolismo dell’acido arachidonico. Queste condizioni includono il deficit congenito o acquisito della prima componente del complemento (C1-inibitore), le forme idiopatiche e quelle secondarie all’assunzione di alcuni farmaci.
L’AE non istaminergico da farmaci pone frequentemente problematiche di carattere diagnostico e terapeutico, dovute alla ancora scarsa conoscenza dei meccanismi che lo sostengono e alla scarsa o nulla risposta ai trattamenti convenzionali con antistaminici. Malgrado
sia nota la capacità di indurre AE da parte di alcune classi di farmaci, non raramente accade che la loro responsabilità in forme ricorrenti
dell’affezione risulti a lungo misconosciuta esponendo il paziente al rischio di conseguenze fatali. Vengono discussi le caratteristiche cliniche, i fattori di rischio, l’interpretazione patogenetica e il trattamento delle forme di AE isolato indotto da farmaci attraverso meccanismi indipendenti dalla liberazione di istamina.
Tacalcitolo unguento nel trattamento della psoriasi
• Aste N
Clinica Dermatologica, Università di Cagliari
I derivati della vitamina D3 sono ormai entrati nell’uso comune nella terapia della psoriasi ed occupano attualmente un posto preminente nella terapia topica delle forme lievi e moderate di psoriasi a placche. Il tacalcitolo è un analogo di sintesi del calcitriolo, metabolita attivo della vitamina D, dal quale si differenzia per i minori effetti avversi sul metabolismo fosfo-calcico. Sul piano farmacodinamico
il tacalcitolo si caratterizza per l’elevata affinità per i recettori epidermici della vitamina D, per la capacità di interferire sulla proliferazione e differenziazione cellulare, per l’attività sui mediatori immunologici e per i ridotti effetti sull’omeostasi del calcio. Il farmaco è formulato in unguento alla concentrazione di 4 µg/g e viene impiegato in monoapplicazione giornaliera. Numerosi studi clinici e sperimentali documentano l’efficacia e la tollerabilità del tacalcitolo nel trattamento, a breve e lungo termine, della psoriasi a placche in assenza di effetti collaterali.
In uno studio da noi effettuato su 50 pazienti con psoriasi a placche, psoriasi del cuoio capelluto, del viso ed invertita, trattati con tacalcitolo per quattro settimane, sono stati ottenuti buoni risultati in termini di efficacia e tollerabilità.
Psoriasi: terapia topica
• Bellosta M, Roveda E, Ciocca O, Borroni G
Clinica Dermatologica - IRCCS Policlinico San Matteo - Pavia
La psoriasi è una dermatosi infiammatoria cronica recidivante, con patogenesi multifattoriale e geneticamente determinata. Attualmente non esiste una cura definitiva per la psoriasi, ma vengono utilizzate terapie il cui obiettivo è quello di diminuire la gravità, l’estensione delle lesioni e la frequenza delle recidive, in modo da migliorare il più possibile la qualità di vita del paziente. Il trattamento della psoriasi inizia solitamente con la sola terapia topica, qualora la malattia interessi una superficie cutanea inferiore al 20% (1). Le terapie topiche sono efficaci, con scarsi effetti collaterali; possono essere usate come adiuvanti alla terapia sistemica e alla fototerapia per
ottenere risultati migliori più rapidi e un maggior controllo nel tempo delle manifestazioni cutanee.
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Tra le terapie topiche in uso possiamo annoverare:
• i catrami (fra cui l’antralina);
• gli steroidi;
• i derivati della vitamina D;
• i derivati della vitamina A;
• i cheratolitici (acido salicilico, urea, acido lattico);
• il tacrolimus;
• numerosi altri prodotti attualmente in studio (2).
I prodotti citati sono anche associati fra loro secondo diversi schemi.
Non va comunque tralasciata l’importanza degli emollienti che, utilizzati quotidianamente dal paziente, riducono il rischio di nuove lesioni legate alla xerosi e al grattamento. Utili per il paziente possono anche risultare trattamenti termali e la talassoterapia. Riteniamo
interessante, inoltre, un breve cenno sui presidi di medicina tradizionale cinese nella terapia della psoriasi (3).
Il paziente psoriasico, inoltre, deve essere accuratamente istruito e spronato ad applicare in modo costante i prodotti topici più adatti e
a sviluppare abitudini di vita (per esempio astensione da fumo ed alcool) che favoriscano il controllo delle manifestazioni, con maggior
tempo libero da malattia e conseguente miglioramento della qualità di vita.
Bibliografia
• 1Linden KG, Wenstein GD. Psoriasis: current perspectives with an emphasis on treatment. Am J Med, 1999; 107: 595-605.
• 2Lebwohl M and Ali S. Treatment of Psoriasis. Part 1. Topical therapy and phototerapy. J Am Acad Dermatol, 2001; 45: 487-98.
• 3Koo J, Arain S. Traditional Chinese Medicine for the treatment of dermatologic disorders. Arch Dermatol, 1998; 134: 1388-93.
Correlazione tra citochine e risposta terapeutica nella psoriasi trattata con modificatori della
risposta biologica
• Berardesca E, Minutilli E, Mastroianni A, Mussi A, Bordignon V,Trento E, Cordiali-Fei P
Istituto Dermatologico San Gallicano, Roma
Introduzione. Il trattamento della psoriasi artropatica attualmente si avvale della terapia con antagonisti di TNF (infliximab ed etanercept) basata sulla dimostrazione che TNF sia una delle citochine fondamentali nel processo patogenetico di questa malattia.
Materiali e metodi. Abbiamo trattato 20 pazienti affetti da psoriasi artropatica con infliximab alla dose di attacco di 4-5 mg/Kg e.v. alle
settimane 0, 2 e 6 e su base individuale in rapporto alla risposta terapeutica alla dose di mantenimento di 2-3 mg/Kg e.v. ogni 3 mesi.
L’interessamento cutaneo dei pazienti variava da 0,4 a 42,8 dell’indice PASI. La compromissione articolare era valutata sia con i criteri ACR
sia con esami strumentali (ecografia e Rx) dell’articolazione maggiormente coinvolta sul piano funzionale. Venivano eseguiti prelievi
ematici prima di ogni infusione e biopsie cutanee al tempo 0 e dopo 6 settimane per la determinazione delle principali citochine sieriche coinvolte nel processo psoriasico a livello articolare e cutaneo (TNF, IL-6, E-selectina, VEGF, FGF). I pazienti sono stati seguiti per un
tempo variabile di 30-42 settimane.
Risultati. I risultati sono stati soddisfacenti per quanto riguardava l’interessamento cutaneo con un miglioramento dell’indice PASI superiore
al 50% in tutti i pazienti e superiore al 75% in 10/20 pz (50%) alla 12a settimana. Il dosaggio delle citochine mostrava un netto decremento di IL-6, VEGF, FGF nel siero e di E-selectina nella cute dopo terapia infusionale con infliximab. La risposta del TNF alfa risultava essere più tardiva e non correlabile con il PASI al contrario delle altre principali citochine. Il trattamento era ben tollerato senza effetti collaterali significativi.
Conclusioni. La monoterapia con infliximab deve essere considerata una valida alternativa rispetto ai farmaci tradizionali (soprattutto
ciclosporina e MTX) per il trattamento della psoriasi artropatica alla luce dei risultati ottenuti in assenza di effetti collaterali. Il risultato
terapeutico non correla con la diminuzione del TNF nel siero.
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Psoriasi: remissione e qualità della vita. Qual è la terapia migliore?
• Brazzelli V
Clinica Dermatologica, Università di Pavia, Policlinico S. Matteo IRCCS, Pavia
La psoriasi è una dermatosi cronica infiammatoria con una prevalenza che varia tra lo 0,5% e il 4,6% a seconda della razza. L’età media di comparsa della malattia è di 28 anni con più di un quarto dei pazienti che presentano sintomi già prima dei 18 anni. Clinicamente
la psoriasi è caratterizzata da placche ben demarcate eritemato-desquamanti spesso disposte simmetricamente ai gomiti, ginocchia, regione lombare e glutei. Può coinvolgere le aree glabre, il cuoio capelluto, le unghie, le zone di piega e i genitali. Gli aspetti clinici e la
gravità comunque subiscono variazioni inter-intra individuali e nel tempo. Diversi studi hanno dimostrato come questa malattia incida
sulla vita di relazione e come lo stress e l’ansia la peggiorino e, in maniera viziosa, aumentino l’angoscia del paziente. La psoriasi è un’importante causa di morbilità soprattutto fra i giovani. Le comuni terapie sono solo parzialmente efficaci o presentano rischi o grandi effetti collaterali. Il ricorso alla terapia sistemica si rende necessario nei casi di artropatia ed eritrodermia psoriasica così come nei casi di
psoriasi che non risponde alle terapie topiche convenzionali e/o interessa aree cutanee ampie o localizzate in zone esposte che condizionano il peggioramento della qualità di vita. Il trattamento sistemico convenzionale, senza voler parlare delle nuove terapie biologiche, comprende Metotrexate, Ciclosporina A, Retinoidi, fotochemioterapia (PUVA) e fototerapia con UVB a banda stretta (311nm). La
terapia sistemica, tuttavia, ha effetti collaterali a breve o a lungo termine, a volte è controindicata, e comunque, all’interruzione del trattamento, la psoriasi recidiva più o meno rapidamente. Pertanto nuovi approcci terapeutici sono stati introdotti per ovviare alla rapida recidiva o all’effetto cumulativo delle varie terapie: in particolare si parla di terapia sequenziale che comporta l’impiego di specifici agenti terapeutici in una sequenza prestabilita per ottimizzare la percentuale di miglioramento iniziale, per ridurre la tossicità a lungo termine e per sfruttare al meglio le peculiarità di ciascun farmaco e di terapia combinata che comporta l’impiego di specifici farmaci utilizzati contemporaneamente al fine di aumentarne l’efficacia, ridurne il dosaggio e gli effetti collaterali nonché aumentare la durata della remissione. Considerando le esigenze del paziente e i trattamenti in atto o pregressi e quali siano le manifestazioni cutanee più gravi in
relazione anche alle condizioni cliniche generali, si determinerà quale trattamento abbia il miglior rapporto rischio/beneficio. La psoriasi è comunque una malattia dinamica ed i rischi legati al trattamento aumentano con la dose cumulativa di ogni specifica terapia. Il trattamento ottimale richiede una rivalutazione periodica con possibili variazioni terapeutiche nel corso della malattia. La terapia sequenziale ha evidenziato che alcune terapie sono più efficaci nell’indurre una rapida scomparsa delle lesioni psoriasiche mentre altre sono preferibili come terapia di mantenimento. La capacità comunque di mantenere la remissione clinica sembra maggiore per le terapie topiche come l’antralina e il tazarotene così come per le terapie sistemiche la foto-fotochemioterapia è di gran lunga la più efficace anche
se negli ultimi anni il rischio carcinogenetico ha indotto ad abbreviare e a diminuire la terapia di mantenimento.
In conclusione, per la sua natura cronica, la psoriasi ha un grosso impatto nella vita del paziente così come è una sfida quotidiana per il
dermatologo.
I capelli ed il cuoio capelluto nella psoriasi
• Chieregato G*
Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgiche, Sezione di Dermatologia e Venereologia
*con la collaborazione di: Chieregato C, Rosina P, Del Giglio M
La psoriasi colpisce frequentemente il cuoio capelluto ma era comunemente accettato che questa dermatosi non alterasse i capelli. Tuttavia di recente molti autori hanno dimostrato alterazioni dei capelli nella psoriasi. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di unire una
revisione della letteratura con una ricerca personale col fine di ottenere una visione globale delle modificazioni dei capelli nella psoriasi.
Le modificazioni del capello nella psoriasi possono essere macroscopiche, funzionali, fisiopatologiche, e microscopiche. Le manifestazioni
macroscopiche sono di aspetto opaco, defluvium, manicotti peripilari e, raramente alopecia cicatriziale. Abbiamo eseguito il tricogramma
e uno studio al microscopio ottico ed elettronico.
La conta telegenica ha dimostrato un defluvium localizzato alle chiazze psoriasiche, con la percentuale di telogen più elevata nei pazienti affetti da psoriasi da meno di sei mesi e nelle chiazze più recenti di sei mesi.
Con il microscopio ottico abbiamo osservato una riduzione del diametro di fusto nelle chiazze psoriasiche, con un diametro di 47 micron, rispetto a un diametro di 78 micron nel capillizio sano. Inoltre nelle chiazze dei pazienti affetti da psoriasi da più di sei mesi il diametro del fusto era superiore rispetto agli altri soggetti con una psoriasi più recente.
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L’esame col microscopio elettronico a scansione dimostrò rotture della cuticola e abrasioni della superficie cuticolare.
Nel nostro studio è stata confermata la riduzione del diametro del fusto, più accentuata nella psoriasi recente. In conclusione il nostro
studio ha confermato in modo più completo le osservazioni di altri autori, evidenziando, anche al microscopio elettronico, alterazioni del
capello più evidenti nella psoriasi recente.
Mohs Micrographic Surgery: la nostra realtà (SIDCO)
• Leigheb G
Clinica Dermatologica Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, Novara
La Mohs Surgery (M.S.), ormai utilizzata da decenni è una validissima tecnica dermochirurgica di indispensabile ausilio per il trattamento radicale di lesioni maligne cutanee non metastatizzanti (soprattutto carcinomi basocellulari), o neoplasie in stadio T0. Purtroppo l’utilizzo di M.S. è rimasto limitato a strutture private, in America, e non sufficientemente compreso in Europa. Gli ostacoli ad una diffusione anche in Italia sono legati a due motivazioni:
• alto costo economico, mancanza di personale medico e tecnico addestrato e di capacità organizzative;
• insufficiente educazione dermatologica con sottovalutazione della potenziale aggressività del carcinoma basocellulare ed ignoranza
del concetto di radicalità oncologica.
Ciò comporta un crescente numero di lesioni recidivanti a vari trattamenti incongrui e quindi alla sempre maggiore necessità di ricorrere alla M.S. per radicalizzarli. Nel nostro Paese non esistono strutture pubbliche ove si pratichi la M.S. con regolarità tecnica e routinaria ad eccezione della nostra struttura ove si sono superati i 500 interventi documentati grazie alla stretta collaborazione tra Clinica Dermatologica ed Anatomia Patologica. È augurabile che in un prossimo futuro possano sorgere almeno altri due centri (uno in Centro Italia ed uno al Sud) anche per evitare onerose “migrazioni” di pazienti per i quali si rende indispensabile ricorrere alla M.S.
Balanopostiti croniche: scelta fra trattamento farmacologico e chirurgico (SIDCO)
• Sbano E
Divisione di Dermatologia, Brindisi
Nella scelta del trattamento delle balanopostiti croniche, il dermatologo può essere condizionato da diversi fattori:
• difficoltà di una diagnosi precisa,
• mancanza di un’adeguata preparazione chirurgica,
• sopravalutazione di alcuni aspetti psicologici del paziente.
Il confronto fra un trattamento farmacologico prolungato ed alcuni trattamenti chirurgici eseguiti precocemente o tardivamente pone
l’autore in condizione di poter tracciare alcune linee guida nella scelta della terapia. In molti casi, comunque, il prolungato ritardo con
cui viene proposto il trattamento chirurgico porta ad un peggioramento del quadro clinico che può non essere risolvibile con il trattamento stesso.
Il carcinoma del pene: la diagnosi precoce ed i trattamenti elettivi
• Tulli A
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Chieti
Il 95% delle neoplasie maligne del pene è rappresentato dai carcinomi spinocellulari, tumori spesso psicologicamente e funzionalmente devastanti per il paziente, la cui diagnosi, il più delle volte tardiva, condiziona le scelte terapeutiche chirurgiche.
Il carcinoma del pene si sviluppa nella maggior parte dei casi sul glande e, meno frequentemente, su prepuzio ed asta. La diagnosi precoce di queste neoplasie si attua anche attraverso il riconoscimento di condizioni patogenetiche riportate in associazione ad un elevato rischio di sviluppo della neoplasia come carcinomi in situ (morbo di Bowen, eritroplasia di Queyrat, papulosi bowenoide), dermatosi
(leucoplachia, infezioni da human papilloma virus, balaniti croniche recidivanti, balaniti pseudoepiteliomatose, cheratosiche, balanite
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xerotica obliterans, corno), fattori correlati alla mancanza di circoncisione (scarsa igiene, fimosi).
Il trattamento elettivo nella cura del carcinoma del pene è, senza dubbio, quello chirurgico.
La terapia chirurgica include sia il trattamento del tumore primario che l’asportazione dei linfonodi locoregionali (inguinali e pelvici). In
casi selezionati con piccole lesioni del prepuzio, la completa escissione del tumore può essere ottenuta con la circoncisione, che però,
se rappresenta l’unico provvedimento, è spesso seguita da recidive. Per le lesioni che coinvolgono il glande e la parte distale del pene la
procedura elettiva è la chirurgia di Mohs.
La penectomia parziale viene eseguita nei pazienti con carcinoma che invade il tessuto connettivo sottocutaneo. La penectomia totale
è indicata per i tumori invasivi che coinvolgono il 3° prossimale del pene o tumori che infiltrano l’uretra e i corpi cavernosi.
La prognosi del carcinoma del pene è fortemente influenzata dal grado di estensione della lesione iniziale: la diagnosi precoce di tali
neoplasie garantisce, pertanto, un elevato grado di cura della malattia associato a risultati psicologicamente soddisfacenti per il paziente.
Inestetismi post-acneici: linee guida della terapia medica e chirurgica (SIDCO)
• Tulli A
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Chieti
Gli inestetismi post-acneici presentano un estremo polimorfismo, dato dalla severità e profondità della distruzione cutanea. Comunemente, si distinguono esiti non cicatriziali (discromie, lesioni vascolari ed ipercheratosi) ed esiti cicatriziali che comprendono cicatrici atrofiche (a scodella, a piccozza, a pozzetto), caratterizzate da perdita di tessuto a livello intradermico, cicatrici ipertrofiche e cicatrici nodulari.
Il trattamento degli in estetismi post-acneici cicatriziali è principalmente parachirurgico o chirurgico. Tuttavia, la terapia medica è indicata come preparazione all’intervento chirurgico al fine di migliorare il tessuto su cui si opererà successivamente. I farmaci utilizzati sono rappresentati dai retinoidi topici o sistemici e dagli steroidi intralesionali, particolarmente indicati per la correzione di cicatrici ipertrofiche
o cheloidee. La terapia prechirugica degli in estetismi post-acneici si avvale, inoltre, dei peeling profondi utilizzando sostanze esfolianti
come l’acido tricloroacetico (TCA).
Il trattamento chirurgico degli esiti cicatriziali comprende varie tecniche come la dermoabrasione, il laser resurfacing (laser CO2, Erbium:YAG), l’impianto di sostanze riempitive, quali il tessuto adiposo autologo e filler sintetici e metodiche di micro- e macro-chirurgia.
La microchirurgia è indicata nella correzione delle cicatrici atrofiche e prevede tecniche come la punch tecnique con escissione semplice della cicatrice e riparazione con sutura diretta o tramite innesto; l’elevazione della cicatrice e la subcisione per la correzione di cicatrici profonde.
La macrochirurgia trova indicazione per le cicatrici localizzate sul tronco e prevede l’escissione chirurgica con o senza riparazione con lembi.
Un accurato esame clinico del paziente che includa la valutazione della patogenesi e della morfologia delle cicatrici post-acneiche rappresenta, pertanto, una condizione essenziale nella scelta del trattamento più adeguato per la correzione di tali inestetismi.
Diagnosi strumentale del melanoma: utopia o realtà?
• Andreassi L, Burroni M
Sezione di Scienze Dermatologiche, Università degli Studi di Siena
La diagnosi precoce, attuata nelle fasi iniziali di sviluppo, è il mezzo più efficace per combattere efficacemente il melanoma. Su queste
basi le procedure per l’identificazione delle lesioni iniziali si sono sempre più affinate ed oggi si avvalgono anche del supporto di idonee
apparecchiature. Queste si basano sull’impiego di sistemi capaci di acquisire immagini digitali, che vengono successivamente analizzate da programmi in grado di fornire parametri numerici della lesione. Affinché le procedure strumentali siano affidabili è indispensabile poter disporre di immagini di elevata qualità, che siano sempre completamente riproducibili.
Nostri recenti studi condotti su ampie casistiche di lesioni pigmentarie provenienti da diversi centri, attraverso immagini raccolte ed analizzate con il sistema DB-Mips, hanno dimostrato che il supporto strumentale rappresenta un mezzo utile in grado di migliorare significativamente la diagnosi formulata esclusivamente su basi cliniche.
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Bibliografia
• Rubegni P et al.Digital dermoscopy analysis and artificial neural network for the differentiation
of clinically atypical pigmented skin lesions: a retrospective study. J Invest Dermatol 2002; 119: 471-4.
• Burroni M et al. Melanoma computer-aided diagnosis: reliability and feasibility study. Clin Cancer Res 2004; 10: 1881-6.
RT-PCR per la tirosinasi nel follow-up del melanoma
• Bernengo MG
Dipartimento di Scienze Biomediche ed Oncologia Umana - Sezione di Dermatologia, Università di Torino
Negli ultimi 10 anni la determinazione del mRNA della tirosinasi è stata proposta come marker nei pazienti affetti da melanoma. I dati
riportati in letteratura sono però discordanti. Da una meta-analisi emerge una positività della tirosinasi correlata allo stadio di malattia:
2-40% per i pazienti in stadio I e II, 4-71% per i pazienti in stadio III, 26-100% per i pazienti in stadio IV a seconda degli studi. L’alto grado di variabilità nei risultati riportati dai vari autori può essere imputata a due fattori principali:
• differenze nelle procedure pre analitiche e analitiche,
• differenze nel reclutamento e nell’analisi dei pazienti e dei campioni.
Dall’analisi dei fattori sopra descritti emerge che l’utilità della tirosinasi nella gestione dei pazienti con melanoma si evidenzia solo quando è effettuata a intervalli regolari durante il follow-up; mentre la valutazione di un singolo campione sia positivo o negativo non porta ad alcuna informazione clinica aggiuntiva.
La nostra casistica consta di 514 pazienti affetti da melanoma (52 stadio I, 86 stadio II, 110 stadio III e 266 stadio IV secondo la classificazione AJCC) per un totale di 3103 campioni di sangue. I prelievi sono stati effettuati in condizioni basali e per tutta la durata del follow-up con scadenze regolari a seconda dei protocolli clinici e terapeutici.
Una correlazione statisticamente significativa è stata riscontrata tra l’espressione basale della tirosinasi e la malattia metastatica. Infatti
la percentuale delle determinazioni positive era significativamente più alta (79%) nei pazienti in stadio IV prima dell’inizio della chemioterapia rispetto ai pazienti “disease-free” in stadio I, II e III (meno del 15%)
Durante il follow-up la determinazione della tirosinasi correlava invece con la progressione della malattia: più del 70% dei pazienti in stadio III con almeno un prelievo positivo sviluppavano metastasi rispetto al solo 20% dei pazienti con solo prelievi negativi. In particolare
pazienti con due o più prelievi positivi consecutivi erano caratterizzati da una progressione a livello di siti viscerali. L’analisi multivariata
ha evidenziato che la tirosinasi è un fattore indipendente in grado di condizionare il tempo libero da malattia in concomitanza con il
coinvolgimento linfonodale e lo spessore secondo Breslow. Per quanto riguarda i pazienti in stadio I e II una accurata valutazione deve
presupporre un follow-up di almeno 5 anni ed una casistica sufficientemente ampia da poter operare distinzioni tra gruppi di pazienti
con diverse caratteristiche cliniche ed istopatologiche.
Melanoma, nevi e fototipo: vecchi miti e nuove acquisizioni
• Borroni G, Martinoli S, Cespa M
Clinica Dermatologica, Università di Pavia, IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia
Tra i fattori di rischio per il melanoma cutaneo riconosciuti in Letteratura la fotoesposizione, in particolare la fotoesposizione intermittente durante l’infanzia (rischio relativo pari a 1,4-4,3) e il fototipo sono quelli a cui si indirizzano maggiormente gli sforzi preventivi; in
particolare la fotoprotezione e le campagne di screening sono incentrate su quelli che sembrano i fattori di rischio riconosciuti del melanoma: caratteristiche fenotipiche (pelle chiara, facilità alle ustioni solari, capelli biondi o rutili, lentiggini, occhi azzurri o verdi, presenza di lentiggini) e numero elevato di nevi melanocitari.
Rhodes e collaboratori hanno dimostrato che questo rischio è di 2-3 volte maggiore nei fenotipi che più facilmente si scottano al sole e
12 volte maggiore nei bianchi rispetto che negli individui di pelle nera. I rutili ed i biondi hanno un rischio doppio o triplo, mentre i soggetti con occhi chiari o azzurri presentano un rischio 1,5 volte maggiore di essere colpiti da melanoma cutaneo.
Tuttavia, la maggior parte dei dati epidemiologici raccolti deriva da studi condotti su popolazioni del nord Europa o di origine celtica e
negli Stati Uniti e perciò in popolazioni di pelle predominantemente chiara con capelli biondi e occhi azzurri o verdi.
Come risultato di quelle indagini epidemiologiche risulta lo stereotipo di un fenotipo chiaro predisposto al melanoma.
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È stato intrapreso uno studio con lo scopo di definire quale sia l’incidenza di melanoma cutaneo in una popolazione del nord Italia nei
vari fototipi al fine di determinare il fototipo che è più a rischio di sviluppare la malattia.
Lo studio è partito dalla determinazione del fototipo di 91 pazienti affetti da melanoma cutaneo, afferenti all’ambulatorio delle lesioni
pigmentate della Clinica Dermatologica di Pavia. Per ciascun paziente sono stati considerati colore degli occhi, colore dei capelli, colore della pelle e capacità di pigmentarsi; fototipo complessivo; età, sesso, numero dei nevi comuni (se maggiore o minore di 50), numero dei nevi displastici (se maggiore o minore di 50), localizzazione dei nevi (arti, tronco, volto), familiarità per melanoma (positiva o negativa), livello di fotoesposizione (elevato - di tipo continuo o intermittente -, moderato, scarso). I dati raccolti sono stati confrontati con
quelli rilevati a tre gruppi di controllo omogenei per età (un gruppo di 63 pazienti afferenti ad uno degli ambulatori dello Skin Cancer
Day, un gruppo di 63 pazienti afferenti al Servizio di Allergologia della Clinica Dermatologica dell’Università di Pavia, un gruppo di 65
soggetti appartenenti al personale medico, paramedico e tecnico della clinica) ponendo particolare attenzione alla variabile fototipo.
Dai dati raccolti emerge che i fototipi più chiari non sono quelli prevalenti nella nostra popolazione, che appare costituita soprattutto da
individui appartenenti al fototipo 3 (66,66%); il fototipo 4 costituisce il 9,52% della nostra popolazione, percentuale nettamente superiore
a quella che normalmente si riscontra in popolazioni di origine celtica; il fototipo 4 presenta inoltre un’incidenza di melanoma cutaneo
dell’8,79%. Emerge da questo studio che il fototipo chiaro non è quello in cui si osserva il maggior numero di melanomi nella nostra area
geografica: infatti il 54,94% dei pazienti affetti da melanoma cutaneo della nostra casistica appartiene al fototipo 3.
Gli intervalli di confidenza calcolati per le variabili colore della pelle, colore degli occhi, colore dei capelli appaiono molto sovrapponibili tra loro, dimostrando che la distribuzione percentuale di queste variabili è circa la stessa tra gli individui affetti da melanoma e la popolazione normale di controllo. Per quanto riguarda la distribuzione della variabile fototipo nel gruppo di pazienti affetti da melanoma
e nei tre gruppi di controllo, essa appare molto simile per il fototipo 2 e 4, mentre per il fototipo 3 i pazienti affetti da melanoma risultano più simili ai pazienti allergologici, rispetto a quelli afferenti allo Skin Cancer Day o al personale di controllo della clinica; tuttavia
tutti e quattro i gruppi considerati si possono ritenere estratti dalla stessa popolazione ed omogenei tra loro.
Dal nostro studio emerge che, in una popolazione del Nord Italia, in provincia di Pavia, il fototipo più a rischio non sia quello con caratteristiche “celtiche”, bensì il fototipo 3, cioè soggetti con capelli e occhi scuri e pelle chiara che si pigmenta dopo fase di eritema.
Inoltre i nostri risultati mostrano come sia maggiore l’incidenza di melanoma nel fototipo 4 (8,79%) rispetto al fototipo 1 (2,19%) nella nostra popolazione. È da rilevare tuttavia che nel fototipo 2 la percentuale è risultata del 34,06%.
Da ciò deriva la necessità di indirizzare gli sforzi delle campagne di prevenzione riguardanti la fotoesposizione e lo screening per il melanoma cutaneo, non solo ai fototipi chiari, ma includendo i soggetti di fototipo 3 e anche a quelli di fototipo 4. Il rischio per questi fototipi sarebbe quello che, essendo essi dotati di una buona melanizzazione e capacità pigmentaria, possono esporsi al sole con scarsa
fotoprotezione, comportamento che verosimilmente concorre al rilievo di una elevata prevalenza del melanoma cutaneo proprio nel fototipo 3 e 4, come confermato dai nostri dati.
In conclusione, viene a cadere il modello di fototipo celtico prono, secondo la Letteratura internazionale, a sviluppare melanomi: in ciascuna popolazione il fototipo o i fototipi più a rischio coincidono con quelli prevalenti nella popolazione considerata.
Impatto della dermatoscopia sul “management” delle lesioni pigmentate cutanee
• Carli P
Dipartimento di Scienze Dermatologiche - Università di Firenze
Uno dei problemi centrali che ancora rimangono sul tappeto prima di un ingresso a pieno titolo della dermatoscopia come “gold standard” diagnostico è il reale impatto che tale tecnica può avere nello screening del melanoma. Infatti, gli studi fino ad oggi effettuati
hanno utilizzato casistiche costituite da lesioni pigmentate comunque escisse. Tale procedura - pur necessaria in una fase iniziale di studio di una qualsivoglia metodica diagnostica per conoscere l’outcome nella totalità della casistica (veri positivi, veri negativi, fasi positivi, falsi negativi) - limita tuttavia grandemente la rilevanza clinica dei risultati. Infatti, negli studi di confronto clinica/dermatoscopia, l’osservatore è chiamato a classificare la lesione come “melanoma/non melanoma” in base alle due metodiche diagnostiche. A seguito di
ciò, risulta che la quota di melanomi riconosciuti dall’esame clinico (sensibilità) è largamente inferiore (circa il 70%) rispetto a quella ottenuta con la dermatoscopia (90%). Tuttavia, nella pratica clinica è esperienza comune che anche lesioni non classificate con certezza
come melanoma ma clinicamente dubbie vengono generalmente escisse a finalità diagnostica. Secondo i dati di un recente studio del
Gruppo Italiano Polidisciplinare sul Melanoma, nel 2001 il rapporto maligno:benigno nelle lesioni melanocitarie escisse negli ambulatori
di screening del melanoma in Italia era intorno a 1:6. Questo significa che anche osservatori esperti asportano - durante la pratica clinica - un numero consistente di lesioni istologicamente benigne allo scopo di minimizzare il rischio di lasciare in sede un possibile me-
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lanoma. La sensibilità “reale” dell’esame clinico è quindi molto più alta se includiamo nel gruppo di lesioni escisse sia i melanomi classificati come tali che le lesioni “dubbie”. Pertanto, l’incidenza di falsi negativi all’esame clinico (MM non asportati) è largamente inferiore al 30% atteso sulla base di una sensibilità diagnostica “apparente” del 70% negli studi formali.
L’impatto della dermatoscopia sulla sensibilità diagnostica del melanoma necessita pertanto di ulteriori investigazioni essendo necessari a tale scopo studi prospettici randomizzati e non studi di confronto formale su casisitiche escisse. Viceversa, è sicuro il beneficio che
l’uso della dermatoscopia può fornire in termini di specificità (riconoscimento di una lesione pigmentata benigna come tale e quindi
astensione dalla asportazione a fini diagnostici). Una possibile - e al momento non escludibile - conseguenza negativa di tale effetto
purtroppo è che l’incremento della specificità diagnostica (riduzione falsi positivi) potrebbe accompagnarsi ad una riduzione della sensibilità (aumento falsi negativi). In altre parole può aversi il caso di una lesione clinicamente dubbia costituita istologicamente da un melanoma candidata per la biopsia escissionale in assenza di esame dermatoscopico. L’utilizzo come metodica di secondo livello della dermatoscopia potrebbe mostrare invece un quadro suggestivo di benignità (8% di falsi negativi attesi con la dermatoscopia) determinando la non-escissione della lesione.
I risultati di due studi recentemente pubblicati dal nostro gruppo sono a supporto di quanto ipotizzato (1,2).
Bibliografia
• Carli P et al.: Improvement of malignant/benign ratio in excised melanocytic lesions in the “dermoscopy era”: a retrospective study 19972001. Br J Dermatol. 2004 Apr;150(4):687-92.
• Carli P et al.: Addition of dermoscopy to conventional naked-eye examination in melanoma screening: A randomized study. .J Am
Acad Dermatol. 2004 May;50(5):683-9.
Il trattamento delle metastasi linfonodali del melanoma
• Giudice G, Arpaia N*, Gozzo G, Lambo M, Carrieri M
Istituto di Chirurgia Plastica Ricostruttiva, *U.O. Dermatologia II - Università degli Studi di Bari
In spite of the recent decades’ considerable increase in the incidence of melanoma, an increase was observed in the overall survival probabilities of melanoma patients. Identification of occult metastases, by means of the “lymphatic mapping” technique, together with research of sentinel lymph node, allowed, on one hand, better selection of patients that underwent locoregional therapeutic lymph node dissection (TLND) and, on the other hand, correct staging of the disease. From 1998 to 2002, 134 melanoma patients were treated.
All lymph nodes were identified with the help of intraoperative gamma camera, and were subjected to histological examination. The results were the following: 113 patients had negative sentinel lymph node; 21 patients had positive sentinel lymph node. Though patients with negative sentinel lymph node had better prognosis, they showed lower predictability of recurrence than those with positive
sentinel lymph node (paradox effect). Six of the 21 patients with positive sentinel lymph node presented macrometastases, whereas 15
of them presented micrometastases. None of the patients with micrometastases in sentinel lymph node presented other lymph nodes
positive to melanoma metastases after therapeutic lymphadenectomy. In these cases, complete absence of further metastatic sites within
the considered lymph node basin is no doubt a datum to be corroborated through wider case study and more specific histological assessment, such as RT-PCR by tyrosinase of all the lymph node removed during TLND. Confirmation of data of our experience by the use
of such techniques could open up new prospects for treatment of melanoma by more limited or selective complete lymphadenectomy
(SCLND).
La melanosi di Dubreuilh come ultimo stadio del fotodanneggiamento cronico del melanocita
• Innocenzi D
Dipartimento di Malattie Cutanee-Veneree e Chirurgia Plastica Ricostruttiva, Università degli Studi “La Sapienza” Roma
La melanosi di Dubreuilh rappresenta una variante inusuale del melanoma maligno (5%). Colpisce prevalentemente il sesso femminile
in una fascia d’età compresa tra i 50 e 70 anni con una incidenza compresa tra il 5 ed il 15%.
Si localizza nelle aree fotoesposte quali la fronte, la regione temporale e quella malare, meno frequentemente a livello del dorso delle
mani; insorge soprattutto nei soggetti con cute fotodanneggiata (teleangectasie, lentiggini, cheratosi attiniche). Clinicamente si manifesta come una macula pigmentata a bordi irregolari di colorito marrone o nero, talvolta con aree di depigmentazione (aree di regressione spontanea). Il suo accrescimento è lento; dalla fase in situ a quella invasiva possono trascorrere anche 10-15 anni. Numerosi dati
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dimostrano una stretta correlazione tra il danno indotto dai raggi ultravioletti e l’insorgenza di tale patologia. Le cellule maggiormente
coinvolte sono rappresentate dai melanociti; l’esposizione cronica, determina a livello di queste cellule danni a carico del DNA con formazione di dimeri di timina che rappresentano un’alterazione fondamentale per la progressione verso il melanoma. Il danno indotto
dai RUV infatti, è cumulativo, si tratta cioè di un processo “multistep” caratterizzato da una serie di eventi genetici ed epigenetici che
portano alla formazione di cellule che sfuggono ai normali meccanismi di crescita.
Istologicamente la lentigo maligna melanoma rappresenta lo stadio finale di un processo, in cui una cellula melanocitaria per accumulo di alterazioni fotoindotte, arriva alla formazione del melanoma.
La conoscenza di queste tappe è fondamentale per comprendere lo sviluppo di questo tipo particolare di melanoma indotto da danni
cumulativi sul melanocita; ciò è inoltre importante sia per attuare una corretta prevenzione nei pazienti con danni solari cronici, sia per
instaurare una adeguata terapia nei casi in cui il melanoma si sia già sviluppato.
E dopo la biopsia del linfonodo sentinella? Considerazioni clinico-prognostiche
sul melanoma
• Landi G
Casa di Cura San Lorenzino - Cesena
L’avvento nel 1992 della metodica bioptica del linfonodo sentinella (LS) per la ricerca di metastasi regionali subcliniche di melanoma
(MM) ha rinnovato l’approccio chirurgico al tumore, modificandone le modalità ed i tempi di esecuzione. Nonostante le persistenti incertezze sull’efficacia di tale procedura nel migliorare la sopravvivenza dei pazienti, essa è stata prontamente e diffusamente adottata
dai principali centri interessati alla cura del MM. Lo studio del LS ha aperto infatti una finestra di attendibile osservazione sullo stato dei
linfonodi regionali che consente già all’atto della diagnosi una stadiazione e una prognosi del paziente non più legata solamente allo stato del tumore primitivo.
Dopo 10 anni di esperienza personale nello studio del LS in oltre 950 pazienti e nel loro controllo nel tempo, è stato possibile osservare che la presenza di metastasi nel LS condiziona gravemente la prognosi dei pazienti, aumentando mediamente di 4 volte la progressione della malattia e di 3 volte la mortalità, nonostante una linfoadenectomia regionale sistematicamente adottata in tutti i casi positivi. Pur essendo influenzata dallo spessore del tumore primitivo e dalla sua possibile ulcerazione, la presenza di metastasi nel LS rappresenta
infatti un fattore prognostico indipendente del quale si deve tenere conto nella ulteriore gestione del paziente.
Nei casi in cui la malattia progredisce, mancando ancora una terapia medica sicuramente efficace sulla sopravvivenza, non è possibile
proporre per le metastasi inaccessibili alla chirurgia un protocollo terapeutico condiviso e affidabile, ma vanno colte le opportunità di inserimento dei pazienti in trial di chemioterapia e/o terapia biologica con vaccini o con interferone ad alte dosi.
Per quanto riguarda poi i pazienti con metastasi limitate al LS, accanto allo studio di Morton che non ha ancora fornito dati conclusivi
sulla sopravvivenza dopo linfoadenectomia selettiva, altri studi quali il Sunbelt Melanoma Trial e il Florida Melanoma Trial stanno già valutando l’efficacia delle terapie biologiche in funzione dello stato del LS, così come esso risulta allo studio del patologo o a quello di biologia molecolare con marker multipli.
Per quanto riguarda infine i pazienti con LS negative per metastasi, non arruolati in trial di terapia adiuvante, appare preferibile attenersi
al solo follow-up clinico con un momtoraggio di marker biologici e con periodici esami per immagine.
Micobatteriosi cutanee e ambiente
• Angelini G
Dipartimento di Clinica Medica, Immunologia e Malattie Infettive - Sezione di Dermatologia, Università di Bari
In questa presentazione sarà discusso il ruolo dei fattori ambientali fisici e biotici nel determinismo delle affezioni cutanee da micobatteri. Questi sono germi ubiquitari: il loro habitat comprende l’uomo, gli animali a sangue caldo, gli animali a sangue freddo e il suolo.
A causa della spessa membrana idrorepellente, essi sono reperibili anche in ambiente acquatico (caratteristica che li identifica come “anfibi” del mondo microbico): mare, laghi, fiumi, stagni, acque industriali, acque domestiche, piscine, acquari. Ulteriori reservoir sono l’aria, le piante e alcuni vettori (protozoi, mosche). Le opportunità di contatto fra uomo e micobatteri sono dunque tantissime, in particolare attraverso lesioni di continuo cutanee, e ciò ha verosimilmente giocato un importante ruolo nell’evoluzione della risposta immune
a questi batteri. I micobatteri patogeni per l’uomo, “classici” (complesso del Mycobacterium tuberculosis e M. leprae) e “ambientali”
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o “non tubercolari” (occasionalmente patogeni), hanno varie caratteristiche che li differenziano (fomiti e modalità di contagio, necessità colturali, capacità patogene, estensione e gravità dei relativi quadri clinici), ma anche proprietà comuni. Fra queste ultime è peculiare la capacità di colpire la cute, localizzazione obbligata o di gran lunga prevalente per M. leprae e alcuni micobatteri “ambientali”,
meno frequente per le specie del complesso del M. tuberculosis e per altre specie “ambientali”. L’interessamento cutaneo è legato alle modalità di contagio uomo-uomo, ambiente-uomo e animale-uomo e alla particolare temperatura di crescita dei micobatteri (variabile dai 37 °C ai 32 °C), vicina a quella cutanea. È interessante notare che qualunque sia l’agente in causa, le sedi cutanee interessate
sono sempre quelle “più fredde”, più acroposte e convesse: viso (naso, arcate sopraccigliari), padiglioni auricolari (bordo esterno), collo, mani, gambe, piedi, glutei. Questa sorta di “fenomeno chilling” sta a dimostrare come anche in caso di malattie da micobatteri un
fattore ambientale, in questa evenienza la temperatura, possa influenzarne l’espressione clinica.
Casi clinici nella patologia da herpes genitale
• Cusini M
Centro Mts - Istituto di Scienze Dermatologiche - IRCCS Ospedale Maggiore Milano
Le infezioni genitali da virus herpes simplex sono in grado di causare un vasto spettro di quadri clinici che assumono aspetti del tutto peculiari in casi di immunodeficit del soggetto affetto.
La classica manifestazione della recidiva erpetica costituita da vescicole riunite a grappolo è presente in meno della metà dei casi e la diagnosi clinica ha un potere predittivo di circa il 40%.
È evidente quindi la necessità di affiancare alla osservazione clinica metodiche diagnostiche che consentano di arrivare ad una diagnosi di certezza con la possibilità di determinare anche il tipo di herpes simplex in causa, data la sempre più frequente presenza di manifestazioni genitali causate da herpes simplex di tipo 1.
In questa presentazione verrà mostrata una serie di casi di herpes genitale che copre lo spettro clinico delle manifestazioni da quelle più
tipiche ai casi di più difficile inquadramento.
Verrà inoltre affrontato l’algoritmo della gestione terapeutica delle lesioni erpetiche.
Le muffe non dermatofitiche: patogeni emergenti
• Piraccini BM, Lorenzi S
Dipartimento di Medicina Specialistica Clinica e Sperimentale - Università degli Studi di Bologna, Sezione di Clinica Dermatologica
L’incidenza di infezioni fungine delle unghie da parte delle muffe non dermatofitiche è in aumento. Le casistiche più recenti riportano
che circa il 15% delle onicomicosi è causata da funghi filamentosi non dermatofiti, quali Scopulariopsis brevicaulis, Fusarium sp., Aspergillus sp., Acremonium sp., Scytalidium sp.
Le onicomicosi da muffe non dermatofitiche hanno alcune differenze sostanziali rispetto alle forme da dermatofiti:
• interessano solitamente un solo dito, spesso l’alluce
• si associano spesso ad infiammazione, anche purulenta, dei tessuti subungueali
• sono spesso del tipo subungueale prossimale
• quando del tipo bianco superficiale si caratterizzano per l’invasione della lamina piu diffusa e profonda
• rispondono scarsamente agli antifungini sistemici.
Questa ultima caratteristica rende necessario effettuare una diagnosi eziologia delle onicomicosi, per evitare trattamenti costosi ed inutili qualora si tratti di muffe non dermatofitiche.
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Interventi preordinati - Letture
La sarcoidosi
• Altomare GF
Servizio di Dermatologia Ist.O. Galeazzi, Università degli Studi di Milano
La sarcoidosi è una malattia sistemica cronica a eziologia ancora sconosciuta, caratterizzata da un accumulo di linfociti Th1 e di fagociti mononucleati negli organi interessati con formazione di granulomi epitelioidei non caseosi e alterazioni della normale architettura tissutale. Nell’evoluzione della sarcoidosi contribuiscono fattori genetici, ambientali e immunologici; il decorso può rimanere imprevedibile in ogni paziente. La malattia interessa in qualche misura la maggior parte degli organi ma da un punto di vista clinico si manifesta solo a livello di quegli organi di cui compromette le funzioni come polmoni e occhi o in cui è facilmente dimostrabile come cute e linfonodi.
Cute e diabete
• Bongiorno MR, Pistone G, Malleo F, Aricò M
Cattedra di Dermatologia - Unità Operativa Complessa di Dermatologia e MTS, Università degli Studi di Palermo
Il diabete mellito è una malattia metabolica caratterizzata da iperglicemia a causa di un difetto della secrezione di insulina o per alterata funzione di essa. L’iperglicemia cronica nel tempo determina danni a vari organi quali rene, nervi, cuore occhi, cute, etc. Nei pazienti con alterato metabolismo insulinico, afferenti alla nostra Clinica, è stato osservato un ampio spettro di disordini cutanei. Le manifestazioni cutanee nei pazienti affetti da diabete mellito si possono classificare in quattro grandi gruppi. Del primo gruppo fanno parte le
affezioni dermatologiche strettamente dipendenti dalla malattia metabolica e quindi espressione dei processi degenerativi cronici, come dermopatia diabetica, piede diabetico, ect; nel secondo gruppo le manifestazioni cutanee causate dallo sconvolgimento metabolico acuto come infezioni; nel terzo gruppo i disordini metabolici che si accompagnano al diabete mellito come necrobiosis lipoidica diabeticorum, etc; nel quarto gruppo le lesioni cutanee causate dalla terapia per il controllo della malattia metabolica.
I maggiori danni sono legati alla microangiopatia, macroangiopatia e neuropatia e la iperglicemia ne è la causa principale. I meccanismi
metabolici attraverso i quali l’iperglicemia induce le complicanze riguardano: la via del sorbitolo, la glicazione non-enzimatica (AGE),
l’attivazione della proteina-chinasi C e la via dell’esosamina.
Le dermatosi neutrofile
• Cerimele D, Satta R
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Sassari
Sotto il titolo di dermatosi neutrofile viene raccolto un gruppo di malattie diverse caratterizzate dall’infiltrazione di leucociti polimorfonucleati neutrofili normali a livello cutaneo. Nessun agente eziologico specifico è stato identificato nella genesi di queste malattie che
spesso sono associate ad alterazioni di organi interni. In base alla localizzazione dell’infiltrato neutrofilo si possono distinguere tre gruppi di dermatosi neutrofile:
• dermatosi neutrofile epidermiche, la più caratteristica delle quali è la pustolosi subcornea di Sneddon Wilkinson;
• dermatosi neutrofile dermiche, tra cui la più rappresentativa è la sindrome di Sweet;
• dermatosi neutrofile vasculitiche, tra cui la più caratteristica è l’eritema elevatum diutinum.
Si possono avere quadri di sovrapposizione di alcune di queste malattie, soprattutto tra la sindrome di Sweet e il pioderma gangrenoso. In alcuni casi è possibile la transizione da una malattia neutrofila all’altra. Le principali malattie internistiche associate sono la malattia
infiammatoria intestinale, le emopatie mieloproliferative e le artriti. L’importanza dell’associazione con una malattia sistemica ha indotto alcuni autori a considerare le dermatosi neutrofile come “manifestazioni cutanee di una malattia neutrofila sistemica” (Saurat 2000).
La descrizione di alcuni casi di sindrome di Sweet e pioderma gangrenoso scatenate dall’impiego terapeutico di G-CSF suggerisce interessanti interpretazioni patogenetiche.
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Il pioderma gangrenoso
• Crosti C
Clinica Dermatologica IV - Università degli Studi di Milano - Ospedale S. Paolo - Milano
Il pioderma gangrenoso (PG) è stato segnalato da Brocq nel 1916 con la denominazione di “Phagédénisme géometrique”. Il termine attualmente utilizzato dalla letteratura internazionale è stato introdotto da Brunsting e coll. che, nel 1930, hanno segnalato l’associazione con la colite ulcerosa e hanno ipotizzato che le lesioni ulcerative fossero legate a una ridotta difesa dell’organismo indotta da processi infettivi e infiammatori cronici viscerali.
Il PG è un’affezione rara che si può manifestare in ogni età, anche se colpisce più frequentemente soggetti adulti; è più frequente nel
sesso femminile. Si può presentare con aspetti morfologici tipici, atipici e con talune varianti cliniche.
In circa il 50% dei casi le manifestazioni cutanee del PG sono precedute, associate o seguite da affezioni viscerali: le affezioni più frequenti sono rappresentate dalle malattie infiammatorie intestinali, dall’artrite reumatoide e da affezioni ematologiche.
Il PG è inserito nel capitolo delle dermatiti neutrofiliche; l’alterazione della funzionalità leucocitaria, di produzione di citochine e difetti
dell’immunità cellulo-mediata sono state ritenute significative da alcuni A.A. per determinare la comparsa e l’evoluzione delle manifestazioni cutanee. L’eziopatogenesi è ancora sconosciuta e non sono stati ancora individuati i parametri diagnostici fra gli esami di laboratorio e i reperti istologici. La diagnosi di PG si basa ancora prevalentemente sull’aspetto clinico e sull’evoluzione delle lesioni cutanee:
la presenza di lesioni sistemiche e l’esclusione - sulla base di indagini ematologiche, istologiche, batteriologiche e strumentali - delle altre forme ulcerative o ulcero-necrotiche cutanee sono indispensabili per confermare la diagnosi. L’esame istologico, anche se non diagnostico, deve essere sempre effettuato e talora ripetuto nel corso del “follow-up” per limitare gli errori diagnostici, che vengono riferiti dalla letteratura internazionale intorno al 10-15%.
Il trattamento del PG è impegnativo: non sono state definite, sulla base di studi controllati, delle linee guida terapeutiche valide per tutti i casi.
Dermatite erpetiforme e celiachia
• Fabbrocini G, Nino M, Delfino M
Dipartimento di Patologia sistematica- Sezione di Dermatologia, Università di Napoli Federico II
La malattia celiaca è caratterizzata da intolleranza al glutine e danno mediato immunologicamente a carico della mucosa intestinale. I
pazienti si presentano con diarrea cronica, steatorrea, perdita di peso, anoressia e distensione addominale. In una significativa percentuale di questi i sintomi gastrointestinali sono minori o assenti, e le manifestazioni cutanee possono essere di valido ausilio nella diagnosi. Molte malattie gastrointestinali presentano connessioni con numerose lesioni cutanee (1). La dermatite erpetiforme (DE) è una delle più frequenti manifestazioni cutanee associate alla malattia celiaca. È una malattia cronica caratterizzata da eruzioni papulo-vescicolari con distribuzione simmetrica alle superfici estensorie, spesso intensamente pruriginose. Sebbene possa insorgere a qualsiasi età, è
più frequente nella seconda, terza e quarta decade. Meno del 10% dei pazienti con DE presentano sintomi gastrointestinali suggestivi
di malattia celiaca, ma praticamente tutti presentano enteropatia glutine-sensibile. L’associazione tra DE e disturbi gastrointestinali fu richiamata all’attenzione da Marks nel 1966. Nel 1973, Fry dimostrò che una stretta aderenza ad una dieta priva di glutine migliorava le
manifestazioni cutanee, e contemporaneamente anche le manifestazioni intestinali della malattia celiaca. Malattia celiaca e enteropatia glutine-sensibile associata alla DE sono praticamente la stessa malattia, sebbene le lesioni gastrointestinali nella prima siano più severe ed estese. Le manifestazioni cutanee della malattia celiaca e le sue connessioni con la DE sono riviste alla luce delle più recenti acquisizioni in letteratura. Il significato di diversi segni clinici e linee guida per la sua corretta gestione sono discussi.
Bibliografia
• Poon E, Nixon R. Cutaneous spectrum of coeliac disease. Australas J Dermatol 2001;42(2):136-8.
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Interventi preordinati - Letture
Patologie dermatologiche ed autoimmunità tireo-gastrica
• Frati C
U.O. Dermatologia, Ospedale di Frosinone
Nelle tireopatie autoimmuni possono essere evidenziati vari autanticorpi (microsomiali, antiperossidasi, antitireoglobulina, antisostanza
colloide). Tra questi particolare importanza rivestono gli anticorpi microsomiali, perché questi anticorpi possono essere diretti contro le
cellule parietali gastriche: in questo senso è razionale parlare di autoimmunità tireogastrica e della frequente associazione tra gastriti
croniche autoimmuni e tireopatie autoimmuni.
L’autoimmunità tireogastrica, cioè, la presenza contemporanea nel siero di anticorpi microsomiali tiroidei (MICRO) e di anticorpi anticellule
parietali gastriche, può essere presente in malattie autoimmuni dermatologiche e non.
Scopo del presente lavoro è quello di passare in rassegna alcune patologie dermatologiche caratterizzate dalla presenza di anticorpi sierici organospecifici (tiroideo e/o stomaco). In pazienti con vitiligine, elevata è l’incidenza di anticorpi PCA (24,2%): tale incidenza è maggiore nei soggetti con una forma diffusa della dermatosi ed è presente anche nei familiari apparentemente sani. Anticorpi PCA sono
stati riscontrati in pazienti con alopecia areata diffusa od universale (16,4%) e con dermatite erpetiforme (20%). In soggetti affetti da
altre dermatosi bollose (pemfigo, pemfigoide) l’aumento anticorpale evidenziato non è significativo.
Anticorpi MICRO sono presenti in modo significativo nei vitiligoidei (15,3%), in pazienti con alopecia areata diffusa (12,5%), con orticaria cronica idiopatica (12%) e dermatite erpetiforme (10%). Questi anticorpi sono stati riscontrati anche nel siero di familiari apparentemente
sani di pazienti affetti da vitiligine.
L’autoimmunità tireogastrica è importante perché si può associare ad una patologia clinica (tiroiditi autoimmuni, gastriti croniche autoimmuni
con evoluzione verso una gastrite atrofica) che deve essere approfondita in vari dermopazienti secondo una impostazione interdisciplinare.
Scleredema adultorum
• Papini M
Università di Perugia - Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche - Clinica Dermatologica di Terni
Lo scleredema adultorum (SA) è una dermopatia relativamente rara, ad etiologia sconosciuta, caratterizzata da un indurimento diffuso,
non improntabile, della cute. Il termine “scleredema” è in realtà un “misnomer” poiché la malattia non presenta istologicamente né edema, né tanto meno sclerosi, bensì un ispessimento diffuso del derma con deposizione di mucina tra i fasci collageni. La malattia inizia
spesso dall’estremo cefalico o dalla parte alta del tronco, con un lento e progressivo indurimento della cute. Il paziente lamenta una
progressiva difficoltà nei comuni movimenti (sorridere, aprire la bocca, aggrottare la fronte, estendere il cingolo scapolare). Le alterazioni
cutanee tendono poi a diffondersi distalmente, ma in genere risparmiano le mani e i piedi. La cute coinvolta appare tesa, spesso di colorito normale, talora eritematosa o iperpigmentata e/o con aspetto a buccia d’arancia. Il coinvolgimento della lingua provoca disartria
e difficoltà alla protrusione. La deposizione di mucina può interessare, più raramente, gli organi interni, soprattutto il cuore, i muscoli
scheletrici e/o oculari, il fegato, la milza e le sierose.
L’etio-patogenesi dello SA è sconosciuta, ma la malattia può essere correlata a tre condizioni:
• infezioni streptococciche delle prime vie respiratorie,
• diabete mellito
• paraproteinemie, incluso il mieloma multiplo.
Lo SA è condizione ad andamento cronico e progressivo e, ad eccezione delle forme legate alle infezioni streptococciche, risponde poco o nulla alla terapia. Risultati positivi sono riportati, in casi isolati, a seguito del trattamento con prostaglandine, PUVA, fotoferesi e radioterapia con elettroni veloci.
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Trapianto d’organo, immunosoppressione e cute
• Peserico A, Piaserico S, Alaibac M, *Belloni Fortina A
Dipartimenti di Dermatologia e *Pediatria, Università di Padova
L’affinamento delle capacità di controllo delle reazioni di rigetto ha determinato un miglioramento della sopravvivenza dei pazienti trapiantati d’organo. Tale incremento degli anni di vita trascorsi dopo il trapianto ha consentito di osservare numerose complicanze legate allo stato di immunosoppressione cronica. Le manifestazioni cutanee si possono schematicamente distinguere in due gruppi principali: infezioni e lesioni pre-neoplastiche e neoplastiche. Nella nostra esperienza su oltre 1500 pazienti trapiantati di rene, cuore, fegato
e polmoni, il 97% dei pazienti presenta, al momento della visita, almeno una manifestazione cutanea insorta in seguito al trapianto
d’organo. Le manifestazioni infettive cutanee successive al trapianto d’organo sono prevalentemente di tipo virale o fungino, mentre più
rare risultano le infezioni batteriche. La prevalenza di patologie di tipo infettivo risulta del 60% circa, per la maggior parte verruche volgari (35%), pitiriasi versicolor (15%), intertrigine micotica (14%), herpes simplex (8%) ed herpes zoster (5%). Tali infezioni nei soggetti immunocompetenti causano generalmente processi infettivi circoscritti, mentre nei soggetti sottoposti a trapianto d’organo possono
frequentemente determinare infezioni severe e difficilmente controllabili con i regimi terapeutici convenzionali. I microrganismi opportunisti raramente pericolosi nella popolazione generale, possono provocare in questi soggetti quadri clinici anche di notevole gravità. Nella nostra popolazione di soggetti trapiantati, 5 pazienti (0,3%) hanno sviluppato quadri di micosi cutanee profonde. In un caso, l’agente patogeno (Alternaria alternata) ha determinato un’infezione sistemica, con localizzazione a livello polmonare. Quasi il 30% dei
pazienti visitati ha sviluppato cheratosi attiniche dopo il trapianto d’organo. L’insorgenza di tali lesioni presenta una correlazione significativa con l’età al trapianto, con l’esposizione solare lavorativa, con il sesso maschile e con il numero medio di sigarette fumate al giorno prima del trapianto. Nella nostra coorte di oltre 1500 pazienti seguiti presso il Centro Trapianti di Padova, il 10% dei pazienti ha sviluppato almeno un carcinoma cutaneo, con un rischio cumulativo che sale dal 9% dopo 5 anni al 19% dopo 10 anni. I fattori legati all’insorgenza dell’epitelioma spinocellulare (SCC) e del basocellulare (BCC) appaiono differenti: in particolare, il rischio di comparsa del
SCC risulta maggiore nei pazienti che sono sottoposti ad un maggior carico di immunosoppressione globale. Dall’analisi multivariata
non emerge associazione con un singolo agente immunosoppressore, ma una correlazione tra insorgenza di SCC e combinazione lineare delle dosi cumulative dei farmaci. Tale associazione non si osserva nei confronti del BCC. È ipotizzabile che esista un diverso tipo
di relazione tra i due carcinomi cutanei ed il sistema immunitario. I SCC potrebbero approfittare dell’alterazione del sistema immunologico, sfuggendo al meccanismo dell’immunosorveglianza in modo più efficiente rispetto ai BCC, che appaiono normalmente molto meno immunogeni. Tale ipotesi potrebbe in qualche modo essere alla base dell’inversione del rapporto SCC/BCC che si verifica nei trapiantati (1,6:1 vs 1:4 della popolazione generale). Un’altra importante differenza tra il rischio di comparsa del SCC e del BCC è legata
al tipo di esposizione solare. All’analisi multivariata solo il rischio di SCC risulta legato ad un’esposizione lavorativa elevata. Al contrario,
l’insorgenza del BCC, ma non del SCC, è correlata ad un’intensa esposizione solare ricreativa, caratterizzata da un pattern di esposizione solare breve ed intenso ed al fototipo II, caratterizzato dalla tendenza alle scottature.
Granulomi: sarcoidosi e tubercolosi
• Pippione M
Clinica Dermatologica, Università di Torino
Le dermatiti granulomatose comprendono patologie diverse per aspetti clinici, istopatologici, eziologici ed evolutivi caratterizzate da un
minimo comune denominatore istologico: il granuloma. In base alla caratteristiche strutturali, i granulomi possono essere schematizzati in quattro gruppi principali: sarcoideo, tubercoloide, a palizzata e suppurativo. La formazione di un granuloma è un evento dinamico
la cui evoluzione dipende da innumerevoli fattori legati allo stimolo eziopatogenetico ed all’assetto immunitario del paziente.
Il quadro granulomatoso può associarsi a patologie infettive, infiammatorie o neoplastiche di natura linfoproliferativa generalmente caratterizzate da notevole complessità clinica, che spesso richiedono uno studio multidisciplinare del paziente e il ricorso a metodiche microbiologiche e genetico-molecolari.
Il granuloma sarcoideo, con la caratteristica struttura epiteliode, è l’elemento comune a tutte le lesioni cutanee e viscerali della sarcoidosi. È costitutito da nodi di cellule istioepitelioidi ben delimitati, separati da fasci di tessuto connettivo e circondati da una stretta corona linfocitaria. È costante l’assenza di necrosi all’interno del granuloma. I nodi granulomatosi occupano generalmente il derma a tutto spessore, talvolta il tessuto sottocutaneo e, generalmente, non coinvolgono l’epidermide. Il granuloma sarcoideo cutaneo può essere indotto dalla presenza di corpi estranei (silice, talco, pigmenti eterologhi). I rapporti di queste lesioni con la sarcoidosi sono tutt’ora
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in discussione.
Il granuloma tubercoloide è invece caratterizzato dalla presenza di grossi nodi di istiociti epitelioidei con frequenti cellule giganti e zona centrale di necrosi caseosa. Questi aggregati tendono confluire e ad aggredire l’epidermide sovrastante. Vi è inoltre un cospicuo infiltrato infiammatorio costituito da linfociti, plasmacellule e granulociti neutrofili. Il granuloma tubercoloide caratterizza alcune patologie infettive (tubercolosi cutanea, micobatteriosi atipica, lebbra tubercoloide, lue tardiva, leishmaniosi) e infiammatorie (rosacea granulomatosa, lupus miliaris, m. di Crohn).
Segni dermatologici “guida” nella diagnosi di anoressia nervosa
• Strumia R
U.O. Dermatologia, Azienda Ospedaliera Universitaria S. Anna, Ferrara
Web: www.alimentari.org
L’anoressia nervosa (AN) è causa di morbilità e di morte nelle adolescenti e giovani donne. I dermatologi hanno un ruolo importante
nella diagnosi precoce della malattia in quanto le manifestazioni cutanee possono rappresentare gli unici segni clinici di una forma di AN
ignorata o nascosta dalla paziente. Sono stati finora identificati 40 segni cutanei nei disturbi del comportamento alimentare (DCA). Le
manifestazioni cutanee dell’AN sono riferibili al digiuno (xerosi, ipertricosi lanuginosa acquisita, telogen effluvium, carotenodermia, iperpigmentazione, acrocianosi, acne, dermatite seborroica, eritrosi, petecchie, livedo reticularis, intertrigo interdigitale, perionissi, prurito
generalizzato, striae distensae, rallentata riparazione delle ferite, prurito pigmentosa, eritema craquelé lineare, pellagra, scorbuto, acrodermatite enteropatica e altre meno frequenti); al vomito autoindotto (segno di Russell ovvero callosità del dorso delle mani da introduzione della mano in bocca per provocare il vomito, porpora del volto da sforzo, carie, perdita dei denti, lingua depapillata); all’usoabuso di diuretici e lassativi (reazioni avverse da farmaci); alla patologia psichiatrica (artefatti). Nessun segno dermatologico isolato ha
significato diagnostico tuttavia, la combinazione di diversi segni può aiutare nella diagnosi precoce. I segni “frequenti” sono: xerosi,
alopecia, carie, capelli opachi e fragili, fragilità ungueale. I segni “guida” sono: ipertricosi, segno di Russell, perimilolisi (erosioni dentarie gravi) e lesioni autoprovocate.
Il ruolo del dermatologo nel trattamento dei DCA consiste nel sospettare precocemente un DCA valutandone i segni “spia” in pazienti che tendono a minimizzare o negare la loro malattia; inoltre, a bloccare il trattamento in quelle condizioni dermatologiche (non malattia) che, viceversa, sono sopravvalutate dalla paziente, a causa della distorta percezione della sua immagine corporea e cutanea.
Bibliografia
• Strumia R, Varotti E, Manzato E, Gualandi M. Skin signs in anorexia nervosa. Dermatology. 2001;203:314-7.
• Strumia R. Bulimia and anorexia nervosa: cutaneous manifestations. J Cosm Dermatol 2002;1:30-4.
• Strumia R, Manzato E, Gualandi M. Skin signs in anorexia nervosa in males. JEADV 2002;16 (Suppl.1):303.
• Strumia R. Complicanze dermatologiche dei disturbi del comportamento alimentare. Complicanze mediche dei disturbi del
comportamento alimentare, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003.
• Manzato E, Gualandi G, Strumia R. Quando la diagnosi coinvolge il dermatologo. Complicanze mediche dei disturbi del comportamento
alimentare, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003.
• Strumia R. Alla ricerca dei disturbi del comportamento alimentare: navigare nel web. In Complicanze mediche dei disturbi del
comportamento alimentare, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003.
Unghie e malattie sistemiche
• Tosti A
Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale Università degli Studi di Bologna - Sezione di Clinica Dermatologica
Anche se sono descritte molte alterazioni ungueali in associazione a patologie sistemiche, poche sono in realtà specifiche e indicative
per una diagnosi. Questo intervento vi mostrerà quali alterazioni delle unghie debbono davvero fare cercare una patologia sistemica associata.
Verranno discusse le seguenti patologie: sindrome delle unghie gialle, alterazioni ungueali in corso di neuropatie, alterazioni ungueali
in corso di patologie vascolari, alterazioni ungueali in corso di collagenopatie, alterazioni ungueali in corso di infezione da HIV, alterazioni ungueali in corso di patologie neoplastiche e alterazioni ungueli in corso di malattie genetiche.
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I noduli delle gambe
• Difonzo EM
Dipartimento Scienze Dermatologiche, Università di Firenze
Vengono presentati e discussi i quadri clinici più comuni di lesioni nodulari delle gambe, dall’eritema nodoso, alle panniculiti, vasculiti e
micosi granulomatose. Particolare importanza viene data alle diagnosi differenziale e ai reperti istopatologici.
Sindrome del bruciore del cavo orale
• Menni S
Clinica Dermatologica IV - Università degli Studi di Milano - Ospedale S.Paolo - Milano
Il termine di sindrome del bruciore del cavo orale (BMS) va applicato alla sensazione di bruciore alla punta della lingua o più diffuso all’interno della bocca che avviene in soggetti con mucosa normale all’esame clinico. BMS è nettamente prevalente in donne di mezza età
o anziane e non colpisce mai i bambini. Può essere provocata da più fattori sia organici che psicologici o psichiatrici. Tra i fattori organici i più comuni sono: xerostomia, difetti nutrizionali, stomatite da contatto allergica, problemi protesici, abitudini parafunzionali, candidosi, diabete, alterazioni ormonali, farmaci. Disturbi come depressione, ansietà e cancerofobia, disturbi ossessivo-compulsivi sono comuni in BMS, ma è importante non arrivare alla conclusione che tutti i casi di BMS derivano da problemi psichiatrici. In più di un terzo
dei pazienti più di un fattore concorre allo sviluppo di BMS. In un certo numero di casi non esistono fattori associati e BMS va considerata idiopatica, mantenendo il termine di sindrome per la frequente associazione di xerostomia, parestesia orale, e alterazione del gusto e dell’olfatto.
Numerosi dati sperimentali suggeriscono che alla base di BMS ci sono alterazioni del sistema nervoso periferico o del sistema nervoso
centrale specifiche delle vie nocicettiva o del gusto.
Il trattamento dei pazienti affetto da BMS deve essere obbligatoriamente multidisciplinare, richiede pazienza e comprensione. Nelle forme idiopatiche i più incoraggianti risultati derivano dall’uso di acido tioctico, dalla terapia antidepressiva con amisulpride e dalla terapia cognitiva comportamentale.
Pityriasi rosea: una malattia sottovalutata
• Rebora A
DiSEM, Sezione di Dermatologia, Università degli Studi di Genova
Nella pratica dermatologica, la pitiriasi rosea viene sempre indicata come una malattia benigna a guarigione spontanea nel giro di qualche settimana. I dermatologi si limitano a raccomnandare di evitare i trattamenti locali irritanti. Negli ultimi anni, è emerso che la pitiriasi rosea è una malattia virale, legata a HHV-6 e HHV-7 in maniera non completamente chiarita e che si tratta quindi di una malattia
sistemica. L’eruzione cutanea è variabile per intensità e durata e si accompagna ad un interessamento generale anch’esso di variabile gravità. Verranno discusse la possibile associazione con la sclerosi multipla e la minaccia di aborto che la malattia sembra comportare.
Acne aestivalis: patologia rara o misconosciuta?
• Rongioletti F
DiSEM, Sezione di Dermatologia, Università degli Studi di Genova
L’acne aestivalis è una patologia cutanea raramente riportata in letteratura. Il problema è che spesso non viene correttamente riconosciuta o scambiata per acne volgare. Questa presentazione illustra le caratteristiche dell’acne aestivalis e soprattutto discute le sue relazioni con la follicolite pitirosporica e l’acne da steroidi. Lo scopo principale è rispondere al quesito se l’acne aestivalis e la follicolite pitirosporica sono la stessa entità.
79° Congresso Nazionale SIDeMaST
Interventi preordinati - Letture
Ruolo del supporto tridimensionale nel differenziamento di cheratinociti umani in coltura
• Calvieri S, Oteri G
Dipartimento di Malattie Cutanee Veneree e Chirurgia Plastica Ricostruttiva - Università degli Studî di Roma “La Sapienza”
(Direttore: Prof. S. Calvieri)
In precedenti studi da noi condotti, avevamo evidenziato, a livello dello strato basale dell’epidermide nelle aree prive di peli, l’esistenza
di due differenti sottopopolazioni cellulari, di cui uno era riconducibile alla cellula staminale.
Studi condotti con tecniche di microscopia elettronica ed indagini morfometriche ci hanno permesso di caratterizzare meglio i due sottogruppi cellulari.
Sulla base di questi risultati e delle acquisizioni di ordine biochimico e funzionale più recenti, altri autori hanno descritto ed identificato
ulteriori aspetti inerenti le cellule staminali epidermiche.
Abbiamo quindi condotto una serie di indagini, sia di ordine morfologico che biochimico, per valutare la vitalità e la capacità di formare colonie di cheratinociti umani in coltura.
I nostri studi hanno anche riguardato l’analisi morfologica del citoscheletro e del nucleo.
Tali risultati sono stati poi confrontati con quelli ottenuti modificando il supporto tridimensionale sul quale le stesse cellule sono state coltivate.
La patogenesi “citolitica” in dermatologia
• De Panfilis G
Clinica Dermatologica, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Università di Parma
La “citolisi” è, come noto, un meccanismo di morte cellulare attraverso il quale i linfociti T citolitici sono in grado di eliminare cellule
bersaglio “alterate”. Tale meccanismo si esplica attraverso due possibili modalità molecolari, l’una rappresentata dalla sintesi e dalla liberazione di fattori citolitici solubili, l’altra dalla espressione sulla membrana linfocitaria di molecole effettrici le quali agiscono quali ligandi di recettori espressi sulla membrana delle cellule “alterate”: queste ultime sono rappresentate da vari tipi cellulari quali, ad esempio, cellule infettate da agenti patogeni intracellulari, cellule in corso di trasformazione neoplastica, cellule produttrici di autoanticorpi,
ecc. Qualora i suddetti meccanismi citolitici, i quali riescono in condizioni normali a preservare la omeostasi di vari organi e tessuti inclusa
la cute, risultino in qualche modo deficitari o inceppati, emerge la possibilità di sviluppo di varie condizioni patologiche, comprese diverse malattie cutanee. Abbiamo recentemente proposto, a questo riguardo, che le modalità molecolari citolitiche possano risultare variamente compromesse in una serie di condizioni cutanee patologiche, quali dermatosi da virus, tumori cutanei, diffusione aptenica/allergenica nella cute, malattie autoimmunitarie con coinvolgimento cutaneo. È possibile ipotizzare, infine, che il ripristino, spontaneo
ovvero indotto da terapia, della operatività dei meccanismi molecolari citolitici possa essere in grado di favorire il miglioramento, o addirittura la risoluzione, di tali malattie cutanee. In definitiva, può essere interessante sottolineare come una serie di evidenze emerse dalla letteratura recente sembrino sostenere l’ipotesi della operatività di una patogenesi “citolitica” in dermatologia.
Ruolo dell’HPV 38 nella carcinogenesi cutanea
• Filotico R, Tommasino M*
Laboratorio di Istopatologia Cutanea, Clinica Dermatologica II - A.O. Policlinico, Università di Bari
*Unit of Infection and Cancer, International Agency of Research on Cancer, WHO - Lyon, France
I tumori epiteliali della cute sono le più frequenti neoplasie nella popolazione caucasica. Molti studi hanno suggerito un coinvolgimento dello Human Papillomavirus (HPV) nello sviluppo di tali tumori. Partendo da alcune considerazioni sperimentali sull’attività trasformante degli HPV mucosali, abbiamo studiato le capacità in vitro della proteina E7 di tre tipi di HPV (10, 20 e 38) che sono stati frequentemente isolati nella cute.
In questo studio è stato dimostrato che E7 di HPV 38 è in grado di inattivare il soppressore tumorale pRb ed indurre la perdita del controllo della fase G1/S, evento chiave della carcinogenesi. Al contrario abbiamo osservato che la proteina E7 di HPV 10 e 20 non esprime
queste attività in vitro. È stato inoltre osservato che le proteine E6 ed E7 di HPV 38 sono in grado di alterare il ciclo cellulare ed i programmi
di senescenza cellulare, inducendo una proliferazione attiva e prolungata di cheratinociti umani in vitro.
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In conclusione lo studio condotto dimostra che le proteine E6 ed E7 di HPV 38 hanno un’attività trasformante in vitro e suggeriscono
un ruolo dell’infezione da HPV 38 nella carcinogenesi cutanea. A confermare questa ipotesi di laboratorio, abbiamo effettuato la ricerca di HPV 38 in neoplasie cutanee epiteliali (carcinomi basocellulare e spinocellulare) e su cute sana di controllo ritrovando HPV 38 in circa il 50% dei tumori e nel 10% dei controlli (P<0.001).
Bibliografia
• Caldeira S, Zehbe I, Accardi R, Malanchi I, Dong W, Giarrè M, de Villiers EM, Filotico R, Boukamp P, Tommasino M. The E6 and E7
proteins of the cutaneous human papillomavirus type 38 display transforming properties. J Virol 77; 2195-2206: 2003.
• Caldeira S, Filotico R, Accardi R, Zehbe I, Franceschi S, Tommasino M. p53 mutations are common in human papillomavirus typ
38-positive non-melanoma skin cancers. Cancer Letters, in corso di stampa.
LEKTI e patologie della cheratinizzazione
• Micheloni A, Hovnanian A, D’Alessio M, Zambruno G
IDI - IRCCS, Roma; INSERM U 563 Tolouse
LEKTI (lympho-epithelial Kazal-type related inhibitor) è la proteina difettiva nella sindrome di Netherton (SN), una grave patologia autosomica
recessiva caratterizzata da eritrodermia ittiosiforme di solito congenita, tricorressi invaginata e atopia. Spesso indistinguibile in epoca
perinatale da altre eritrodermie congenite/neonatali, la SN può essere diagnosticata clinicamente con certezza solo in seguito alla comparsa della tricorressi invaginata. Codificata dal gene SPINK5, la proteina LEKTI rappresenta un presunto inibitore di proteasi a serina
organizzato in 15 domini (D1-D15), preceduti da un peptide segnale. In seguito a processi alternativi di maturazione di un unico pre-mRNA, LEKTI viene prodotta nei cheratinociti umani differenziati sotto forma di tre precursori glicosilati che vanno incontro a proteolisi intracellulare e quindi a secrezione. Questo dato suggerisce che i frammenti secreti rappresentino le forme bioattive di LEKTI. Mediante
esperimenti di immunoistochimica abbiamo recentemente dimostrato che LEKTI è fortemente espressa nello strato granuloso e nell’ultima assise dello strato spinoso dell’epidermide umana normale e nella guaina follicolare interna. Queste osservazioni, unitamente alle
manifestazioni cliniche della SN suggeriscono per LEKTI un ruolo cruciale nella formazione e mantenimento della barriera cutanea nonché nel processo di crescita e differenziamento dell’unità pilosebacea. Infine, poiché LEKTI è anche espressa negli strati più superficiali
di tutti gli epiteli stratificati nonché dalle cellule epiteliali dei corpuscoli di Hassall del timo, essa potrebbe esercitare un effetto pleiotropico intervenendo sia nel controllo dell’omeostasi degli epiteli stratificati che nelle risposte infiammatorie e/o immunitarie verso allergeni.
Per meglio comprendere il ruolo di LEKTI nel differenziamento epidermico, abbiamo analizzato l’espressione di tale proteina in varie patologie della cheratinizzazione. In tutti i casi di SN esaminati, l’immunoreattività per LEKTI nella cute è risultata assente o estremamente ridotta. Viceversa, LEKTI è espressa, anche se di solito in maniera deregolata, nell’epidermide di tutte le altre forme di eritrodermie congenite/neonatali nonché di patologie genetiche e acquisite della cheratinizzazione studiate. In particolare, nelle ittiosi congenite (ittiosi
lamellare ed eritrodermia ittiosiforme congenita non bollosa), nella eritrodermia ittiosiforme congenita bollosa di Brocq, nell’ittiosi legata
all’X e nelle malattie di Darier e di Hailey-Hailey, l’espressione di LEKTI è risultata aumentata, con estensione della marcatura ad un numero variabile di assisi dello strato spinoso. Nell’ittiosi volgare la marcatura per LEKTI è localizzata nell’ultima assise dello strato spinoso e nel ridotto strato granuloso, con una distribuzione sovrapponibile a quella dell’epidermide normale. D’altro canto, LEKTI è risultata distribuita in maniera irregolare nell’epidermide di eritrodermie neonatali o infantili dovute a immunodeficienza, dermatite atopica o
psoriasi, nonchè nella psoriasi volgare. In tutte queste patologie si è osservata una riduzione focale dell’espressione di LEKTI, prevalentemente localizzata in corrispondenza delle aree in cui era presente un intenso infiltrato infiammatorio intraepidermico; tale dato suggerisce che l’espressione di LEKTI possa essere regolata negativamente da alcune citochine infiammatorie. LEKTI rappresenta quindi un
marcatore del differenziamento epiteliale, la cui espressione è strettamente regolata nell’epidermide sia in condizioni fisiologiche che patologiche. La mancanza di espressione di LEKTI è patognomonica della SN e rappresenta un importante criterio diagnostico in epoca
perinatale.
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Interventi preordinati - Letture
Nuove acquisizioni sulla patogenesi della vitiligine
• Picardo M
Istituto Dermatologico San Gallicano IRCCS, Roma
L’eziologia della vitiligine non è definita e, probabilmente, differenti fattori in maniera concertata possono determinarne l’insorgenza.
Il danno melanocitario può essere ricondotto ad un meccanismo mediato dai radicali liberi e ad uno immuno-mediato. La produzione
di specie reattive dell’ossigeno (ROS) è fisiologicamente associata ad alcune attività metaboliche a livello epidermico e il verificarsi di uno
stress ossidativo in corso di vitiligine è suggerito da numerose evidenze cliniche e sperimentali. Le vie metaboliche di sintesi e riciclo delle biopterine e delle catecolamine comportano fisiologicamente la produzione di H2O2 (perossido di idrogeno) e O2-• (anione superossido), normalmente controbilanciata dalla presenza nell’epidermide di molecole a basso peso molecolare con attività scavenger nei confronti dei radicali liberi. Nell’epidermide dei soggetti con vitiligine, al contrario, si riscontra un’incrementata produzione di H2O2 e una
riduzione della capacità antiossidante. A livello epidermico è riportata una ridotta attività catalasica e tioredoxina reduttasica e una ridotta funzionalità di alcuni degli enzimi coinvolti nel metabolismo delle biopterine, potenzialmente responsabili dell’aumentato livello
di H2O2. Recentemente, un’alterazione complessiva del pattern antiossidante, analoga a quella riscontrata a livello epidermico, è stata
osservata anche a livello sistemico. Nel complesso lo stabilirsi di uno squilibrio tra i sistemi deputati alla produzione di specie reattive e
quelli destinati a contrastarli determina un danno cellulare che diventa più evidente a carico dei melanociti, considerato il loro fisiologico basso potere antiossidante rispetto alle altre cellule epidermiche. Altri studi indicano che, oltre ai melanociti, altre cellule possono essere coinvolte. I cheratinociti, tramite il rilascio di fattori di crescita e di citochine, sono direttamente coinvolti nella regolazione dell’omeostasi epidermica. Una modificazione della produzione e del rilascio di entrambi i fattori solubili è stata osservata nell’epidermide anche non lesionale in corso di vitiligine. Vi potrebbe quindi essere da parte dei cheratinociti una produzione aberrante di citochine (TNFα, IL-6) in risposta a stimoli nocivi (UV o stress fisici) con conseguente danno dei melanociti. È stato inoltre dimostrato che, pur essendo aumentato il rilascio di endotelina 1 e di SCF da parte dei cheratinociti, i melanociti esprimono ridotti livelli del recettore per SCF
(KIT). Una ridotta attivazione del pathway SCF/KIT comporterebbe quindi un deficit di funzionalità di una serie di attività cellulari, tra
cui l’espressione di MITF che coopera con Bcl-2 nel proteggere le cellule dal processo apoptotico. Inoltre, nei soggetti affetti da vitiligine è possibile riscontrare in circolo linfociti T citotossici specifici per antigeni melanocitari. Una compromissione della sorveglianza immune in corso di vitiligine è d’altra parte supportata dal sempre più frequente riscontro di particolari aplotipi HLA nei soggetti affetti rispetto alla popolazione generale. Una risposta autoimmune, primitiva o secondaria ad un danno melanocitario, potrebbe quindi amplificare
e mantenere il processo degenerativo. L’osservazione di una aumentata produzione di specie reattive anche in cellule non appartenenti al compartimento epidermico ha suggerito l’ipotesi di un difetto cellulare generalizzato come causa iniziale dello sbilanciamento dello stato redox. Un difetto dei mitocondri, responsabili della produzione di ATP e della quota maggiore di perossidi intracellulari, potrebbe
giustificare un’alterazione riscontrabile a livello sistemico. Un’alterazione di alcune attività mitocondriali, connesse con la fisiologica produzione di radicali liberi, è stata in effetti riscontrata nei soggetti affetti da vitiligine. Tuttavia, al momento non è chiaro se questo sia dovuto ad un difetto primitivo, per una differente espressione proteica, o se il mitocondrio sia semplicemente il target finale di un’eccessiva liberazione di fattori solubili tossici.
Apoptosi e melanoma
• Pincelli C
Clinica Dermatologica - Università di Modena e Reggio Emilia
Il melanoma è il più aggressivo dei tumori cutanei ed è notoriamente resistente a tutte le modalità di terapia antitumorale attualmente
disponibili. Una larga mole di studi genetici, funzionali e biochimici suggeriscono che le cellule di melanoma sviluppino la loro chemioresistenza incrementando la loro intrinseca resistenza all’apoptosi e riprogrammando il loro pathway di proliferazione e sopravvivenza
durante la progressione del melanoma. In questi ultimi anni, l’identificazione di molecole coinvolte nella regolazione e nell’esecuzione
dell’apoptosi e la loro alterazione nel melanoma, ha chiarito ulteriormente le basi molecolari della chemioresistenza del melanoma. In
particolare modifiche a livello di geni o a livello trascrizionale e post-trascrizionale a carico di proteine-G e proteine chinasiche come Ras
e B-Raf e a livello degli effettori dei loro fattori di trascrizione come c-Jun, ATF2, Stat3 and NF-kappaB esitano in alterazioni dei recettori di TNF, Fas e TRAIL che giocano un ruolo fondamentale nella resistenza del melanoma all’apoptosi. I componenti molecolari coinvolti nell’apoptosi di questi tumori includono regolatori positivi (apoptotici o pro-apoptotici) e negativi (anti-apoptotici). Nel primo gruppo sono compresi p53, Bid, Noxa, PUMA, Bax, TNF, TRAIL, Fas/FasL, PITSLRE, gli interferoni e c-KIT/SCF. Il secondo gruppo include Bcl-
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2, Bcl-Xl, Mcl-1, NF-kB, la survivina, la livina e ML-IAP. Inoltre alcune molecole come TRAF-2, c-Myc, le endoteline e le integrine possono avere effetti sia pro- che anti-apoptotici. È noto da tempo che i melanociti umani esprimono il recettore p75 per le neurotrofine e che
il loro comportamento a livello dell’epidermide è sicuramente influenzato da fattori neurotrofici originati sia dai cheratinociti che dai fibroblasti. Dai nostri dati realtivi al ruolo di p75 nei cheratinociti umani normali e nelle linee di carcinomi epidermoidi nella regolazione
dell’apoptosi è logico pensare che un alterazione a livello di questo recettore possa giocare un ruolo importante nella genesi del melanoma e nell’acquisizione della chemioresistenza.
Aspetti eziopatogenetici innovativi nella sclerodermia
• Puddu P, Pallotta S
Dipartimento Onco-immunodermatologia - IDI, IRCCS, ROMA
La sclerosi sistemica (SSc) è una malattia caratterizzata da fibrosi della cute e di vari organi interni. Sebbene l’eziopatogenesi non sia
stata ancora chiarita, si ritiene che l’interazione tra componenti cellulari ed extracellulari del tessuto connettivo, endotelio e sistema immunitario sia alla base delle alterazioni fibrotiche e vascolari documentate.
Tra i meccanismi evidenziati di recente il microchimerismo propone un modello a tipo graft versus host disease secondario alla persistenza di cellule fetali linfocitarie e cellule CD34+CD38+ in condizioni naturali di HLA-compatibilità materno-fetale od in condizioni iatrogene.
Altri studi attribuiscono un ruolo di rilievo alle specie reattive dell’ossigeno (ROS) prodotte nei processi di ischemia-riperfusione in corso di fenomeno di Raynaud. I ROS sarebbero responsabili del danno endoteliale e contribuirebbero ai fenomeni autoimmuni secondari. In uno studio effettuato su una casistica di 85 pazienti affetti da SSc e di 50 soggetti sani di controllo abbiamo valutato i livelli plasmatici di antiossidanti lipofili ed idrofili (CoQ10, d-RRR-alfa-tocoferolo), betacarotene, licopene, vitamina A, vitamina C, acido urico)
ed i livelli di colesterolo totale e degli esteri del colesterolo (CE, PL-PUFA; CE-PUFA). In tale studio sono stati evidenziati, in tutti i pazienti
affetti da SSc, una riduzione significativa di alcuni antiossiossidanti plasmatici e di membrana (CoQ10 H2, Vitamina C) ed un aumento
di fosfolipidi (C20:3 n-6; C20:4 n-6; C22:6 n-3) e degli esteri del colesterolo. In particolare è risultato essere ridotto il rapporto
CoQ10H2/CoQ10, considerato un marker precoce di stress ossidativo in vivo.
79° Congresso Nazionale SIDeMaST